domenica 27 novembre 2011

La Repubblica, 27.11.2011 - Cultura
Una lezione del grande filosofo sui meccanismi dell´opera del Marchese
Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno. Bensì superare il confine tra la realtà e l´immaginario
MICHEL FOUCAULT
Sade e Justine, se la scrittura diventa desiderio assoluto


Perché scriveva Sade? Cosa poteva significare, per Sade, l´esercizio della scrittura? Dagli elementi biografici che abbiamo su di lui, sappiamo che ha riempito di inchiostro migliaia di pagine, molte più di quelle che si sono salvate. Una quantità ragguardevole si è persa, ogni qualvolta Sade è stato imprigionato. Sade scriveva, infatti, su pezzetti di carta che gli venivano regolarmente sequestrati. È così che ha redatto Le 120 giornate, alla Bastiglia, terminandole credo nel 1788-89. Quando la Bastiglia venne espugnata dai rivoluzionari, quelle pagine gli furono confiscate. Ecco il lato oscuro della presa della Bastiglia: la sparizione de Le 120 giornate del Marchese. Fortunatamente queste pagine vennero ritrovate, ma solo dopo la sua morte. Al tempo, per quella "perdita", Sade versò, è lui stesso a ricordarcelo, "lacrime di sangue". L´ostinazione che Sade ha posto nella scrittura, le sue lacrime di sangue unitamente al fatto che ogni volta che pubblicava un libro veniva sbattuto in galera – ecco, tutto ciò prova che Sade attribuiva alla scrittura un´importanza ragguardevole. Con il termine "scrittura" non bisogna intendere il mero fatto di scrivere, ma il fatto di pubblicare. Poiché – ricordiamocelo – Sade pubblicava i propri testi. E se la fortuna voleva che, mentre li pubblicava, egli fosse fuori di prigione, ciò non impediva che fosse arrestato non appena quei medesimi testi fossero pubblicati. E il tutto proprio a causa della loro pubblicazione.
Da dove viene dunque la serietà della scrittura in Sade? Io credo che a un primo sguardo sia dovuta a un fatto, a più riprese espresso in Justine e Juliette. Sade si rivolge ai lettori non in ragione del piacere che i suoi racconti possono provocare in loro, ma proprio per ciò che di sgradevole può esservi narrato. Lo dice chiaramente: «Non avrete di che provare piacere, ascoltando il racconto di storie tanto raccapriccianti. La virtù punita, il vizio ricompensato, bambini massacrati, ragazzi e ragazze fatti a pezzi, donne incinte impiccate, interi ospedali dati alle fiamme. La vostra sensibilità sarà rovesciata, il vostro cuore non ne potrà più. Ma che cosa volete che vi dica? Non è alla vostra sensibilità, né al vostro cuore che mi rivolgo. Mi rivolgo alla vostra ragione – ad essa solamente. Voglio dimostrare una verità fondamentale, ossia che il vizio viene sempre ricompensato e la virtù punita». Si pone però un problema. Quando seguiamo un romanzo di Sade, ci accorgiamo che non c´è assolutamente logica nella ricompensa del Vizio e nella punizione della Virtù. In effetti, ogni qualvolta Justine, che è virtuosa, viene punita, la punizione non dipende mai dal fatto che abbia commesso un errore di ragionamento, che non abbia previsto qualcosa o sia stata cieca nei confronti di una talaltra cosa. No, Justine ha calcolato perfettamente tutto, ma le capita sempre una qualche terribile sventura. Sventura che attiene all´ordine del caso e come tale la punisce. Justine salva qualcuno? Bene, quando l´ha tratto in salvo, finisce per massacrarlo. Massacra colui a cui ha appena salvato la vita. Qui è il caso, sempre il caso, che interviene, mai la conseguenza logica dei suoi atti. E questo caso determina la punizione. Quando Sade afferma di indirizzarsi «non al vostro cuore, ma alla vostra ragione» non è dunque in questione la razionalità del Vizio, né della Virtù. Sade non si prende seriamente, qui. Ma allora, che cosa vuole fare quando pretende di indirizzarsi alla nostra ragione, mentre l´ossatura del racconto si rivolge a tutt´altro orizzonte? Credo che per capirlo occorra riprendere un passaggio – il solo, in Justine e Juliette – che si riferisce allo scrivere. Juliette si rivolge a un personaggio, a un´amica già perversa, ma non totalmente perversa. Non ancora almeno. Qui si tratta di fare l´ultimo apprendistato, di salire l´ultimo scalino della perversione. Ecco i consigli di Juliette: «Rimanete quindici giorni senza occuparvi di lussuria. Distraetevi, divertitevi con altre cose, ma fino al compimento del quindicesimo giorno non lasciate il minimo spiraglio alla più piccola idea libertina. Poi coricatevi, da sola, nella calma, nel silenzio e nell´oscurità più profonda. Ricordatevi allora di tutto ciò che avete bandito in quei quindici giorni. Date poi alla vostra immaginazione la libertà di presentare differenti modi di pervertirvi. Percorreteli nel dettaglio. Passateli in rassegna. Persuadetevi che tutta la terra vi appartiene e avete il diritto di cambiare, mutilare, distruggere, rovesciare qualunque essere. […] Il delirio si impossesserà di voi. Accendete allora la candela e trascrivete sui fogli la specie di smarrimento che vi ha infiammato, senza dimenticare alcuna circostanza che aggravi i dettagli. Addormentatevi, dopo averlo fatto. L´indomani, rileggete le note e ricominciate l´operazione». Ecco dunque un testo che chiaramente ci mostra un modo di usare la scrittura. Un uso chiaro delle scrittura. Si parte dalla libertà totale assegnata all´immaginazione, si scrive, ci si addormenta, si rilegge, si procede con un nuovo lavoro dell´immaginazione, si passa a una nuova elaborazione per mezzo della scrittura e infine, come dice Sade, alla maniera di una ricetta culinaria: «Commentate…».
Credo si debba studiare a fondo, in maniera più decisa e precisa, questo testo. Chiediamoci allora come funziona, in esso, la scrittura. Direi che in primo luogo la scrittura vi gioca un ruolo intermediario tra immaginario e reale. Sade, o il personaggio in questione, si dà fin dall´inizio alla totalità del mondo immaginario possibile e deve quindi variare questo mondo, superarne i limiti, spostarne le frontiere. Va oltre, proprio mentre credeva di aver già immaginato tutto, ed è questo che va trascritto più volte e solo quando sarà arrivato a una data realtà, allora potrà accedere al famoso: «Commentez ensuite». Come se fosse facile, commentare quando si è sognato di massacrare migliaia di bambini, di bruciare centinaia di ospedali, di far esplodere un vulcano… La scrittura è dunque questo processo, questo momento che ci porta fino a un reale che, a dirla tutta, spinge il reale fino ai limiti stessi dell´inesistenza. La scrittura è ciò che permette di spingersi sempre oltre le frontiere dell´immaginazione. Il principio di realtà o, piuttosto, la scrittura è ciò che a forza di spinte successive sposta il momento della conoscenza oltre l´immaginazione. La scrittura è ciò che forza a far lavorare l´immaginazione, introducendo un ritardo nel momento in cui il reale finemente si sostituirà al principio di realtà. La scrittura spinge la realtà fino a divenire irreale quanto l´immaginazione. La scrittura – ecco la sua prima funzione – abolisce le frontiere tra realtà e immaginazione. La scrittura esclude la realtà, ecco quindi che cancella tutti i limiti dell´immaginario.
Ci sono però altre funzioni che orientano la scrittura. La scrittura, in particolare, cancella il limite temporale, cancella i limiti dello sfinimento, della fatica, della vecchiaia, della morte. A partire dalla scrittura, tutto può continuamente, indefinitamente ricominciare. Ma mai la fatica, mai lo sfinimento, mai la morte si affacceranno in questo mondo della scrittura, che è precisamente l´elemento che cancella la differenza tra principio di realtà e principio di piacere. La scrittura introduce il desiderio nel mondo della verità, togliendo a esso le briglie e i limiti del lecito e dell´illecito, del permesso e del proibito, del morale e dell´immorale. La scrittura introduce il desiderio nello spazio dove tutto il possibile è indefinitamente possibile e illimitato. La scrittura permette all´immaginazione e al desiderio di non incontrare più altra cosa che non sia la sua individualità. Permette al desiderio di essere sempre, in qualche modo, all´altezza della propria irregolarità. In conseguenza di tutte queste illimitazioni prodotte dalla scrittura, il desiderio diventa legge a sé stesso. Diviene sovrano assoluto che detiene la propria verità, la propria ripetizione, il proprio infinito, la propria istanza di verifica. Niente potrà più dire al desiderio «sei falso», niente può rinfacciargli «non sei totalità», niente «è vero ciò che sogni, ma c´è qualcosa che ti si oppone». Niente può più dire al desiderio «ci sei, ma la realtà dice un´altra cosa». Grazie alla scrittura, il desiderio è entrato nel mondo della verità totale, assoluta, illimitata senza possibile contestazione esterna.
Ecco dunque che, osservata da questa prospettiva, la scrittura sadiana non ha come caratteristica il mettere in comunicazione, l´imporre, il suggerire a qualcuno le idee o i sentimenti di un altro. Non si tratta assolutamente di persuadere qualcuno di una verità esterna. La scrittura sadiana è una scrittura che non si indirizza a nessuno. Non si indirizza a nessuno nella misura in cui non si tratta di persuadere a nessuna verità che avrebbe ipoteticamente nella testa, avrebbe riconosciuto e dovrebbe quindi imporre al lettore. La scrittura di Sade è una scrittura assolutamente totalitaria, tanto che nessuno può esserne persuaso in un senso, e nessuno può comprenderla nell´altro. Ecco dunque che per Sade è assolutamente necessario che tutti i suoi fantasmi passino per la scrittura e attraverso la scrittura, in ciò che ha di materiale, poiché, come ci dice il testo di Juliette, è proprio questa scrittura, quella materiale, fatta di segni posti su una pagina che possiamo leggere, correggere, riprendere e via all´infinito – è questa scrittura che mette il desiderio in uno spazio illimitato, dove ciò che è esteriore, il tempo, i limiti dell´immaginazione, le concessioni e i divieti, sono totalmente e definitivamente aboliti.
La scrittura è dunque il desiderio che ha avuto accesso a una verità che nulla può più contenere. Una verità senza limite. La scrittura è il desiderio divenuto verità. Verità che ha preso forma di desiderio. Del desiderio ripetitivo, del desiderio illimitato, del desiderio senza letto, del desiderio senza esteriorità, dove l´esteriorità è la soppressione dell´esteriorità in rapporto al desiderio. Questo è quanto la scrittura porta a compimento, nell´opera di Sade. Ed è la ragione che lo spinge a scrivere.

La Repubblica 27.11.2011
Marocco, vincono gli islamici sconfitti i partiti vicini al monarca
Astensione al 55%, i giovani della Primavera: "Nulla cambia"
Ironia sul web "Ora potremo risparmiare sulle lamette per la barba"
di Giampaolo Caladanu


RABAT - Quando i primi risultati elettorali sono arrivati nella redazione di Lakome, nel centro di Rabat, nessuno si è stupito. Gli islamici moderati hanno vinto, l´affluenza, secondo i dati ufficiali, è stata attorno al 45 per cento. Tutto come previsto: né una delusione, né una sorpresa, per il giornale on line vicino al movimento della protesta giovanile. «Questa è la democrazia, con o senza l´islam», ha dichiarato il vincitore Abdelilah Benkirane, leader del partito di Giustizia e Sviluppo Pjd. «Questa è una vittoria ottenuta con un milione di voti, su 22 milioni di aventi diritto», dice Najib Chouki, cronista di Lakome e punto di riferimento fra i ragazzi del movimento "20 febbraio".
Secondo il ministero dell´Interno, il partito guidato da Benkirane ieri sera aveva già conquistato 80 seggi sui 395 della Camera (e potrebbe arrivare a 100), contro i 47 nella passata legislatura. Al Pjd ci tengono a sottolineare che «l´Occidente non avrà nulla da temere», non c´è pericolo di derive fondamentaliste. Ma i risultati sono ben lontani dalle richieste dei giovani che avevano manifestato sull´onda della "Primavera araba" e che avevano invitato al boicottaggio del voto. Il partito islamico dovrà allearsi con i partiti al potere fino a ieri, primo fra tutti l´Istiqlal, al secondo posto con 45 seggi. Il suo leader Abbas El Fassi si è subito detto disponibile a una coalizione, e pronti a un´alleanza sarebbero i socialisti dell´Usfp (almeno 29 seggi), gli ex comunisti del Pps (11 seggi) e forse persino i berberi del Movimento popolare (22 seggi). Ma «nessun partito aveva un vero programma», spiegano i militanti del movimento, «se non una generica lotta alla corruzione». Ai giovani marocchini il cambiamento appare quasi privo di significato. Non bastano le dichiarazioni pragmatiche dei vincitori sull´omosessualità, che «va praticata in privato», sull´aborto, «possibile in casi circoscritti», sulla pena di morte, «prevista dal Corano, ma che si può non applicare», sul velo, che «è una scelta individuale», e persino sull´alcol, a cui vanno aumentate le tasse e imposti limiti «per ragioni di bilancio e di salute».
Se l´analista Driss Aissaoui lo definisce «un voto di rottura», per la redazione di Lakome non cambia niente nella politica marocchina, che resta controllata dal re. Non è un caso se la maggiore organizzazione islamica di base, Giustizia e carità, ha invitato i membri a non votare. L´appello è stato in parte ascoltato, nonostante i mezzi anche bruschi con cui le squadracce dei partiti tradizionalisti cercavano di impedirlo. Nei seggi di Rabat venerdì non c´era affollamento, qualche breve fila si è formata all´ora di chiusura degli uffici. Secondo molti osservatori internazionali, la percentuale di affluenza diffusa dal ministero dell´Interno appare credibile. Ma i dati percentuali nascondono le cifre assolute dei votanti, modeste anche dopo l´ammissione al voto dei diciottenni. Per i giovani scontenti l´appuntamento è in piazza: oggi è prevista una manifestazione nelle maggiori città, per il 4 dicembre la mobilitazione nazionale nella "Giornata della collera". Ieri, invece, era il giorno dell´ironia: «La gente si è scatenata su Twitter», dicono a Lakome: «oltre a segnalare brogli e compravendita di voti, c´era chi invitava a "comprare birra, finché è ancora possibile" e chi si consolava: "Adesso almeno possiamo risparmiare sulle lamette da barba"».

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
Urna Islamica senza frontiere
Dopo la Tunisia, vittoria in Marocco e domani tocca all’Egitto
di Francesca Cicardi


Con o senza il vento della primavera araba in poppa, questa è senza dubbio la rinascita degli islamisti nel nord Africa. In Ma-rocco il partito islamico moderato di Giustizia e Sviluppo avrebbe vinto le elezioni di venerdì, secondo le prime proiezioni conosciute ieri. La formazione religiosa si è aggiudicata 80 seggi su un totale di 365 in parlamento, ma i dati si riferiscono finora allo spoglio di 296 seggi. Per oggi si attendono i risultati definitivi e tutto fa pensare che anche il Marocco avrà un governo guidato dagli islamisti per la prima volta.
Il mese scorso in Tunisia, il paese che ha dato il via alle rivolte arabe, gli islamisti moderati di Al Nahda hanno ottenuto una vittoria schiacciante con 90 dei 217 seggi del parlamento e piú del 40% dei voti, anticipando quello che sarà il panorama politico post-rivoluzionario nel nord Africa e il mondo arabo, dove la libertà e la democrazia stanno nascendo con un carattere islamico. Risultato forse di anni di repressione da parte di regimi autoritari e della corruzione, che per ora non ha macchiato gli islamisti.
L’Egitto si prepara ad andare ai seggi domani, per le prime elezioni teoricamente democratiche e per le quali i Fratelli Mussulmani sono considerati i favoriti. Il principale gruppo oppositore durante la dittatura dell’ex presidente Mubarak è adesso l’unico partito strutturato e pronto per le votazioni: si stima che la Fratellanza possa ottenere tra il 30% e il 50% dei seggi, e sarà quasi con certezza la principale forza del nuovo Parlamento. Questo non significa che potrà governare, visto che il potere e le competenze delle camere sono ancora tutte da scoprire, e verranno stabilite dai militari, che dirigono il paese dalla caduta di Mubarak lo scorso 11 di febbraio.
I FRATELLI sono così certi della loro vittoria, che hanno persino tradito piazza Tahrir, dove ieri continuavano le proteste, che adesso hanno sconfinato fino alle porte del parlamento, due isolati a sud della piazza. Qualche centinaio di persone si sono accampate nella strada dove si trovano la sede del Consiglio del Popolo (camera bassa) e quella del Consiglio dei ministri per impedire che il nuovo premier eletto Kamal al Ganzuri possa cominciare a lavorare. Il settantenne, ex primo ministro di Mubarak negli anni 90, è stato scelto dall’Esercito per guidare un governo di transizione, che non sarà così indipendente e di unità nazionale come avevano promesso i militari e come speravano i manifestanti. Ieri lo stesso Ganzuri e i generali avrebbero incontrato alcuni esponenti dell’opposizione, tra cui Mohammed Al Baradei, premio Nobel della pace ed ex direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, fingendo ancora una volta di essere di-sposti al dialogo. Poche ore prima, la polizia cercava di disperdere il nuovo accampamento dei rivoluzionari, ammazzando un altro giovane, la 42ª vittima di questa seconda rivolta egiziana, che dura ormai una settimana.
Malgrado la violenza e il caos di questi giorni, l’Egitto va verso le elezioni, disegnate e imposte dai militari, ma che molti egiziani vedono come l’unica soluzione per uscire da quest’ultima crisi e dall’instabilità generale che vive il paese dalla rivoluzione del 25 di gennaio. “Le attuali circostanze beneficeranno solo i Fratelli Musulmani e i resti del regime di Mubarak (che si presentano come candidati indipendenti dopo che il loro partito è stato smantellato)”, spiega l’esperto di islam politico Mustafa Khalil. Il voto sarà quindi guidato dalla paura e non dall’ansia di democrazia, che non può avere luogo sotto il controllo di un’autorità militare.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Tre italiani fermati in Egitto, scoppia un caso
El Baradei rinuncia alle presidenziali e si offre di guidare un governo di unità
di Giuseppe Sarcina


CAIRO — «Ciao, sono Andrea. Scusa se ti disturbo a quest'ora, ma ho una storia abbastanza grossa di cui vorrei parlarti il prima possibile. Grazie mille, a presto!». Con questo messaggio d'allarme abbiamo saputo che tre italiani erano stati fermati ieri notte dalla polizia al Cairo e portati nel commissariato di El Kasr El Aini, non lontano da Piazza Tahrir.
La mattina di ieri comincia male. Ancora scontri tra forze dell'ordine e manifestanti davanti al Parlamento. Mohamed el Baradei fa sapere che rinuncerebbe a candidarsi alla presidenza se gli fosse chiesto ufficialmente di guidare un governo di unità nazionale. In piazza Tahrir un giovane muore, travolto da un'auto dei reparti antisommossa (e il numero delle vittime sale a 42). Poco più in là Andrea De Georgio, 25 anni, giornalista free lance, cerca di riordinare le idee dopo una nottata trascorsa in guardina, insieme ad altri due colleghi italiani. I tre ragazzi e la quarta componente del gruppo, una blogger e attivista palestinese, devono rispondere di un'accusa insidiosa: «incendio doloso e atti vandalici». Andrea è un ragazzo preparato e dall'entusiasmo esplosivo. La sua tesi di laurea sui blogger palestinesi ha appena vinto il Premio Cutuli. Il pomeriggio di venerdì scorso, in Piazza Tahrir aveva annunciato che avrebbe passato la notte con i manifestanti. Ma quando ci parliamo al telefono il suo racconto è del tutto inatteso: «Ciao, sono qui con due colleghi e una ragazza palestinese, è un'attivista politica di Gaza. Ieri notte stavamo tornando da piazza Tahrir verso la casa dell'amico che ci ospita. Sul percorso abbiamo visto delle fiamme che si alzavano nella zona di Zamalek (l'isoletta formata dalla biforcazione del Nilo ndr). Siamo andati a vedere e ci siamo resi conto che stava bruciando qualche palma. Nel frattempo era arrivata anche altra gente. Tre uomini si sono avvicinati a noi. Hanno cominciato a insultare pesantemente la nostra conoscente palestinese: "Sei una sgualdrina, vai con questi occidentali", cose di questo tipo. La ragazza ha reagito e noi abbiamo cercato di chiudere l'incidente, allontanandoci. Abbiamo preso al volo un taxi, ma dopo qualche minuto ci siamo resi conto che quei tre ci stavano seguendo. Hanno affiancato la nostra macchina, hanno gridato qualcosa all'autista e questi si è fermato, buttandoci praticamente fuori. Lì ci siamo anche un po' spaventati. Quei tre hanno ripreso a insultare la ragazza e quando sono arrivate altre persone sempre loro hanno cominciato a dire che eravamo stati noi ad appiccare il fuoco agli alberi di Zamalek. Alla fine è arrivata la polizia e ci ha portati al commissariato. Ci hanno trattato bene, ci hanno lasciato i telefonini, comprato dell'acqua. Adesso ci porteranno davanti al giudice». Clic. Fine della chiamata. Da quel momento in poi le notizie si fanno confuse, contraddittorie. L'ambasciata italiana e il consolato si mobilitano con tempismo: ai tre viene affiancato un legale di fiducia e comincia il giro di contatti. Si viene a sapere che qualcuno ha effettivamente denunciato il gruppetto e che ci sono anche sedicenti testimoni oculari. Le cose si complicano perché gli inquirenti chiedono se i tre free lance si fossero accreditati per seguire le elezioni. Ma non risultano registrazioni. Vengono ispezionate macchine fotografiche e videocamere per verificare se e perché siano state fissate le immagini «dell'incendio» che rimane, per altro, ancora un piccolo mistero. La nostra diplomazia lavora per ottenere un decreto di espulsione con effetto immediato che farebbe cadere le accuse. Ma a tarda sera il procuratore rinvia la decisione a stamattina. I funzionari italiani hanno ottenuto che i tre passassero questa notte ancora nel commissariato e non nelle poco attraenti prigioni egiziane.
P.s. Prima di pubblicare le generalità complete di Andrea De Georgio abbiamo chiesto, e ottenuto, l'autorizzazione della sua famiglia. Il fratello Fabrizio ha voluto sottolineare che: «Andrea è un giornalista, non un militante».

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Marocco raggiunto dall'onda islamica Ipoteca sul governo
Ottenuta la maggioranza dei seggi
di Andrea Nicastro


CASABLANCA — «Noi marocchini abbiamo visto arrivare il vento della Primavera araba e invece di corrergli incontro ci siamo chiusi in serra. I profumi saranno anche meno intensi, ma, almeno fino a oggi, abbiamo evitato grandinate». La metafora è dell'attivista e blogger Yunes Trari. Ed è azzeccata.
Nelle elezioni politiche di questo fine settimana il Marocco ha dato per la prima volta la maggioranza parlamentare al Pjd, un partito islamista moderato che ha preso il nome, «Giustizia e sviluppo», dal modello vincente in Turchia. Ma a differenza del partito che ha vinto il mese scorso in Tunisia, a differenza dei Fratelli Musulmani in Egitto o di componenti del governo provvisorio in Libia, il Pjd è da tempo inserito nella «serra» del potere di Stato.
Appena saputo della vittoria il leader del Pjd, Abdelilah Benkirane, ha chiarito i suoi obiettivi: «Preservare la monarchia, le riforme e l'economia». Una vittoria (il 20% dei seggi a scrutinio non ancora terminato) nel segno della continuità. «Siamo pronti — ha detto Benkirane — a una coalizione assieme al partito della maggioranza uscente e altre forze», tutte esplicitamente filo monarchiche, cresciute con il consenso e l'appoggio del sempre onnipotente Mohamed VI.
La sfida — spiega il maggior quotidiano marocchino Le Matin — è stata tra «il Marocco liberale e il Marocco islamoliberale». E il resto del Paese? Hanno chiamato al boicottaggio i due gruppi che animano le proteste di piazza sotto il nome Movimento 20 Febbraio. Sono i «democratici» che vorrebbero un re che regna ma non governa. Ma sono anche i favorevoli a una svolta realmente islamista dello Stato. Difficile valutare la consistenza dei due schieramenti tanto più che oltre ai 13 milioni di marocchini aventi diritto al voto ce ne sono altri 10 milioni neppure inseriti nelle liste elettorali. In ogni caso, l'astensione che nel 2007 era al 63%, questa volta è calata al 55%. Merito, secondo le forze di governo presenti e future, della riforma costituzionale approvata in luglio e della «crescita democratica del Paese».
In risposta ai cortei che anche in Marocco hanno riempito il 2011, non solo Mohamed VI ha ordinato «per la prima volta di non sparare» (Maati Monjib, storico dell'Università di Rabat), ma ha anche ceduto briciole di potere: ora è obbligato a scegliere il premier tra le file del partito di maggioranza (e non a piacere) e toccherà a quello nominare i manager pubblici.
Mohamed Balfoul, islamista «fuori dalla cricca del potere», tra i più attivi nel Movimento 20 Febbraio, ha buon gioco nello sminuire il valore della nuova Costituzione. «È un ritocco cosmetico, il re ha diritto di veto e le sue direttive alle Camere non possono essere contraddette. Chi ha partecipato alle elezioni è complice di questa ingiustizia». Al contrario del giovane Balfoul, i difensori della monarchia sottolineano che la stabilità del Marocco nella tempesta araba discende dalle progressive aperture del sovrano: una certa libertà di stampa, un codice di famiglia progressista, l'abolizione delle feudali «Carte bianche» che garantivano l'immunità reale, un approccio «tollerante» all'ordine pubblico e più aiuti ai poveri.
«Il nodo però resta il predomino in economia — obbietta l'analista Ghassan Wail El Karmouni —. Solo la Sni, la holding del re quotata in Borsa, controlla il 10% del Pil, ma considerando proprietà immobiliari, agricole e altre partecipazioni si arriva facilmente al 30%. Con una ricchezza del genere non si può che comandare, chiunque sia in Parlamento».

La Repubblica 27.11.2011
Il buio, il freddo, la paura e alla fine "Italia, Italia" è l´urlo dei sopravvissuti
Hanno cambiato la rotta ma il vento si è fatto sempre più forte. Sono finiti in acqua, chi non sapeva nuotare non ha avuto scampo
di Giuliano Foschini


CAROVIGNO (Brindisi) - Un terzo sicuro in fondo al mare, una trentina di persone accatastate intorno alle ambulanze con le coperte e le lacrime addosso, altri trenta di loro in fuga per le campagne della Valle d´Itria, nascosti mezzo ai trulli, agli ulivi intrecciati e ai muretti a secco. O forse, si teme, annegati in fondo al mare dei migliori ricci di Puglia. Quello che rimane è Gloria, questa barchetta a vela lunga 12 metri che batte bandiera americana ma anche italiana e sembra il veliero di Truman Show. Il fatto che non si sia scagliata contro un cielo di cartone ma su due scogli dell´Adriatico in fondo è un particolare: comunque, ha sbattuto contro un sogno.
«Italia, Italia» dicono quelli che sono rimasti, avvolti nelle coperte termiche fluorescenti agli operatori della Croce Rossa. Sono tutti uomini. Hanno trent´anni almeno. Portano scarpe da ginnastica e pantaloni scuri. Maglioni in lana pesante, qualcuno ha la giacca a vento. Sono iracheni e pakistani, c´è chi dice di arrivare dal Bangladesh. Parlano poche parole in inglese, e uno strano dialetto (tanto che le forze di polizia hanno avuto grosse difficoltà a trovare traduttori). "Vii" e qualche altra consonante dice di chiamarsi uno di quelli che parla più di tutti l´inglese. «Ho pagato tremila euro per il viaggio - ha raccontato ai soccorritori, tirandosi fuori le tasche di un pantalone di velluto liso, per spiegare che non gli era rimasto più nulla - Sono arrivato in un posto della Turchia e partito con la barca a vela da lì, cinque giorni fa. Sono passato dalla Grecia due giorni fa e abbiamo puntato l´Italia. Dovevano arrivare nella zona di Bari poi nella mattinata di ieri il mare si è alzato». Hanno cambiato la rotta ma il vento si è fatto sempre più forte, le vele non hanno tenuto e sono finiti tutti a mare. C´era chi non sapeva nuotare: è morto. C´era chi sapeva a mala pena galleggiare, e ha raggiunto stremato la riva, per zoppicare, inciampare nella terra rossa di Puglia pur provando comunque a fuggire. C´era chi non ce la faceva. E allora si è buttato nelle braccia dei soccorsi (chiamati da alcune persone della zona che hanno sentito le urla dei naufraghi), rinunciando a ogni aspirazione d´occidente.
Dopo lo sbarco, lo spettacolo è stato se possibile ancora più tragico. Il vento non si è fermato, il mare era crespo, le onde si alzavano e ogni qual volta si intravedeva una macchia più scura si gridava: poteva essere un copertone, una boa, un effetto ottico oppure poteva essere un uomo morto. «Children, children?» chiedevano i ragazzi della Croce rossa e i ragazzi facevano segno di no con la testa e indicavano uno di loro, 16enne forse, giurando fosse il più piccolo della comitiva, una comitiva di soli uomini. «No, no, no, no» fanno tutti segno così con la testa, poi si buttano a terra e insieme piangono. Parlano tra loro, fanno il conto di chi è fuggito e chi non ce l´ha fatta. Sono tutti zuppi, chiedono un panino e hanno paura di sapere dove finiranno: due sono andati in ospedale con fratture alle gambe, gli altri sono montati su un pullman e trasportati al Cara di Restinco.
Una beffa. Dicono le indagini della magistratura che proprio i Cara sono diventati in Puglia i centri di coordinamento degli scafisti: è qui che vengono organizzati i nuovi sbarchi in una regione che è di nuovo al centro delle rotte internazionali. Non a caso il presidente della Regione, Nichi Vendola ha chiesto l´intervento del governo Monti: «Non possiamo più convivere con queste tragedie: serva umanità e solidarietà». Un tempo su queste coste arrivavano barconi come la Vlora, quando a Bari arrivarono ventimila albanesi (1991). Oppure a centinaia sbarcavano sulle coste salentine con i gommoni velocissimi dei contrabbandieri di sigarette. Ora i clandestini salgono su barche a vela e catamarani, per non dare nell´occhio e sfuggire ai controlli nel canale d´Otranto. Lo chiamano il "corridoio otto" della malavita, oltre agli uomini passano armi e droga: si parte dall´Afghanistan, si arriva in Turchia, si passa dalla Grecia e si punta l´Italia. «Le organizzazioni criminali che si occupano del traffico di clandestini - ragiona un alto investigatore - si muovono secondo una geometria variabile. Sono chiaramente molto sensibili alla legislazione e ai provvedimenti presi. Ma il principio è quello dei vasi comunicanti: con la chiusura del fronte spagnolo prima, poi di quello libico, in qualche maniera devono passare. E così i Balcani, e dunque la Puglia, sono tornati di moda, seppur con metodologie diverse. Una nuova Vlora oggi è impossibile». Eppure vent´anni dopo c´è chi continua a sognare per mare.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
« Abbandonati tra le onde Siamo tutti ragazzini »
di Lorenzo Salvia


« Sedici anni, sedici anni » . Puoi chiedere qualsiasi cosa ad Hussein. Ma lui— un sorriso nonostante tutto, spezzato dal lampeggiante blu dell’ambulanza — risponde sempre così. « Sedici anni, sedici anni ». Le uniche due parole che sa dire in italiano. L'ultima difesa rimasta a questo gruppo di migranti ragazzini scampato alla morte attraversando il mare in cerca di futuro. Due parole imparate a memoria prima di partire, perché chi è minorenne può chiedere di restare anche se non ha i documenti in regola. E stavolta qualche minorenne c'è per davvero.
I volontari della Protezione civile portano i biscotti, si cercano altre coperte qui dove d'estate vengono da mezza Puglia a prendere il sole. «Ho visto la morte in faccia», dice ancora Hussein con quel poco d'inglese che riesce a mettere insieme. La barca è ancora lì, incastrata fra gli scogli, inclinata su un fianco. E davvero non sembra avere nulla a che vedere con le carrette del mare di una volta. Ricordate la Vlora, il barcone arrugginito che portò a Bari 20 mila albanesi e il dramma dell'immigrazione? Ecco, questo è un vero e proprio yacht a vela di quindici metri, con i pannelli solari e la bandierina americana in cima all'albero. Adesso fanno così gli scafisti, provano a passare per turisti per sfuggire ai controlli. Forse il gioiellino è stato rubato in Turchia. È da lì che sono partiti cinque giorni prima questi ragazzini che adesso si stringono nelle coperte beige, quelle di ogni sciagura nazionale. Degli scafisti non c'è traccia, naturalmente. «Ci hanno abbandonato in mezzo al mare», racconta ancora Hussein. «Abbiamo perso la rotta — dicono i suoi compagni — è colpa loro se è finita così».
Abbandonati dove? Prima di arrivare in Italia la barca avrebbe fatto scalo in Grecia. Anzi, è possibile che non viaggiasse da sola ma che fosse in compagnia di un'altra imbarcazione. Ieri mattina in Puglia c'è stato un altro sbarco di clandestini, questa volta senza naufragio, senza morti, senza notizia. Ma molto più a Sud, sulla costa del Salento, la più vicina alla Grecia e anche la più facile perché non ci sono rocce ma sabbia. È possibile che fosse quella l'imbarcazione gemella e che magari lì siano passati gli scafisti. Oppure che siano stati recuperati in mare da un motoscafo a poche miglia dalla costa italiana.
Dove pensavate di arrivare, Hussein? «Sedici anni, sedici anni, siamo tutti ragazzini», niente da fare. Qualcuno di loro racconta di aver pagato 1.000 euro a testa, altri dicono 1.500. Adesso vengono portati tutti alla Nostra Famiglia di Carovigno, un centro estivo che a luglio e agosto si riempie di bambini con palette e secchielli. Hussein ha solo qualche anno in più. E ha pagato per essere abbandonato a fine novembre, in mezzo al mare e in faccia alla morte.

Il Corriere della Sera 27.11.2011   
Morti a pochi metri dalla costa
Naufraga una barca a vela con decine di migranti: 39 in salvo
di Lorenzo Salvia


ROMA — Erano quasi arrivati, mancavano ormai pochi metri. Ma il mare forza cinque e il vento fortissimo che dal pomeriggio soffiava sulla Puglia ha fatto incagliare la loro barca, l'ha sbattuta con violenza contro le rocce. E lì, sugli scogli di Torre Santa Sabina, una ventina di chilometri a nord di Brindisi, si è consumata un'altra strage di migranti, l'ennesima tragedia della disperazione. A bordo erano in 74, molti di loro sono riusciti a raggiungere a nuoto la riva, sbattuti tra le onde quando ormai era buio.
Due i cadaveri recuperati fino alla tarda serata di ieri, di nazionalità pachistana. Ce ne potrebbe essere un terzo, avvistato in un primo momento ma poi scomparso tra i flutti e non ancora recuperato. Trentanove le persone salvate e, nonostante il terrore che hanno negli occhi, in discrete condizioni. Due di loro sono ricoverate in ospedale a Ostuni ma per fortuna soltanto per fratture e contusioni. Gli altri trentatré vengono dati ufficialmente per dispersi ma, secondo gli investigatori, potrebbero essersi salvati.
Per il momento le ricerche in mare, difficilissime viste le condizioni meteo, non hanno trovato altri corpi. Mentre una decina di naufraghi sono stati rintracciati dalla Guardia di finanza nelle campagne intorno a Carovigno mentre scappavano, terrorizzati e infreddoliti, senza sapere dove andare. È possibile che almeno una parte di quei trentatré dispersi fosse con loro e sia riuscita a trovare riparo in qualche modo. In un primo momento si era pensato ad un numero di vittime ancora maggiore perché dall'elicottero i soccorritori avevano visto una gran numero di corpi in mare. Ma, quando sono cominciate le operazioni di recupero, si son accorti che erano solo vestiti, forse gettati in mare prima di tuffarsi disperatamente in acqua oppure per alleggerire il carico.
Erano partiti cinque giorni prima dalla Turchia. Afghani, pachistani e cingalesi, tutti maschi e giovanissimi, intorno ai 20 anni, più quattro minorenni. E davanti alle coste pugliesi erano su una barca a vela di buon livello, con tanto di pannelli solari sul ponte e bandierina americana in cima all'albero. È il trucco recente usato dagli scafisti che provano a passare per turisti e sfuggire ai controlli sulle carette del mare. Ma è anche possibile, a volte funziona così, che la barca a vela sia stata utilizzata solo per l'ultimo tratto del loro viaggio disperato dopo un lungo trasbordo a motore. A lanciare l'allarme è stata una persona che abita nella zona e che passeggiava sul lungomare, davanti ad una delle spiagge più belle di quel tratto di costa. Ha sentito le urla disperate di chi era riuscito ad raggiungere la riva e scappava oppure provava ad aiutare i compagni di quel viaggio maledetto.
«È necessario fermare le tragedie del mare — dice il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola — perché non possiamo più convivere con il naufragio di migliaia di uomini e donne in fuga da guerra, fame e povertà. Bisogna rimettere al centro delle politiche di accoglienza umanità e solidarietà». Secondo Fortress Europe, l'associazione che tiene il conto delle stragi di migranti, solo quest'anno sono state più di 2 mila le persone morte mentre cercavano di raggiungere l'Europa. In 20 anni arriviamo a 17.856 persone. Senza calcolare i naufragi dei quali non abbiamo saputo nulla.

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
Strage di disperati al largo di Brindisi - Tre morti e una decina di dispersi in mare
di Antonio Massari


Alle otto di sera si contano due cadaveri sulla scogliera, un terzo viene cercato tra le onde. Nessuno tocca i loro corpi. Si aspetta l’arrivo del magistrato di turno, Miriam Jacoviello, che dovrà aprire il fascicolo sulla loro morte e su questa tragedia. Soltanto dopo, i cadaveri potranno essere spostati dagli scogli dove li hanno posati. Le salme vengono rimosse alle nove e un quarto della sera. Nel frattempo un elicottero della Guardia di Finanza vola a bassa quota. Continua a esplorare tra le onde. Le pale ruotano quasi a pelo d’acqua. Il faro che illumina la superficie del mare: verificano se galleggiano altri cadaveri, c’è chi ne ha visto un terzo, ma il sospetto è che siano una decina . C’è chi muore e chi fugge. Chi perde la vita tra le onde. Chi raggiunge la riva, risale gli scogli, trova la forza di dileguarsi nelle campagne del brindisino. C’è anche questo nella tragedia, nel naufragio di un’ottantina di immigrati, quasi arrivati a riva, tra gli scogli di Santa Sabina, nel brindisino, a pochi chilometri da Carovigno.
C’È CHI SALVA e c’è chi insegue. Per catturare, identificare, rinchiudere, respingere. Mentre i sommozzatori dei vigili del fuoco tentennano, di fronte al mare che s’ingrossa, e scelgono il momento più adatto per tuffarsi alla ricerca dei dispersi, i baschi verdi rintracciano una decina di fuggitivi tra le campagne. Uno di loro è ferito. Gravemente ferito. Ma è riuscito a fuggire comunque. L’hanno prima catturato, poi portato in ospedale, mentre gli altri sono stati smistati in due direzioni. Alcuni al Re-stinco, in centro di identificazione ed espulsione di Brindisi, altri in un centro per minori a rischio, il “Nostra Famiglia” di Ostuni. Se i dispersi sono una trentina, in trentadue sono sicuramente salvi, sebbene feriti, ma nessuno capisce con precisione cosa dicano. Si cerca un interprete. Arrivano dal sud est asiatico, alcuni sono curdi, altri afghani, altri ancora iracheni o del Bangladesh. Forse la loro rotta era un’altra. Santa Sabina non è un luogo d’approdo usuale.
Forse è stato proprio il cattivo tempo a mutare la rotta degli immigrati, costringendoli a spingersi più a sud dell’approdo prescelto, le coste del barese. Era salpata dalla Turchia, cinque giorni fa, la barca a vela che ha puntato prima la Grecia – dove si sarebbe fermata –, poi la Puglia. Gli immigrati avrebbero pagato tremila euro per la traversata. Sembrava fatta. E invece, a pochi metri dalla costa, l’imbarcazione s’è ribaltata. Il vento l’ha trascinata verso gli scogli ed è iniziata la tragedia nel mare forza 5.
Erano le sei del pomeriggio quando un uomo ha avvistato i primi naufraghi e ha chiamato i soccorsi. Non c’erano donne o bambini. Soltanto uomini. Almeno tre di loro hanno perso la vita. Si aggiungono ad altre duemila persone – ma è una stima largamente in difetto – che sono morte in mare, soltanto quest’anno, per raggiungere l’Europa.

La Repubblica, 27.11.2011
Fiat, accordo fatto per Termini Imerese
In mobilità 640 dipendenti. Ok dei sindacati, tolti i blocchi ai cancelli
Giovedì al ministero il via libera al progetto di Dr per il rilancio della fabbrica
di Paolo Griseri


ROMA - Cinque ore di trattativa serrata tra i funzionari di Corrado Passera e gli uomini del Lingotto, poi, a fine pomeriggio, la fumata bianca sugli incentivi per la mobilità a Termini Imerese. La notizia arriva per sms alle tute blu siciliane che in serata decidono di togliere il blocco alle bisarche che trasportano le ultime Y prodotte nella fabbrica vicino a Palermo.
Sono 640 i lavoratori che tra due anni, conclusa la cassa integrazione per cessata attività, andranno in mobilità verso la pensione. Una sessantina di impiegati e 580 tute blu che otterranno poco più di 20 mila euro (22.850) di incentivo più altri tremila euro di conguaglio per mancato preavviso e premio fedeltà. In tutto circa 25 mila euro cui andrà ovviamente aggiunta la liquidazione. In media tra due anni i dipendenti che andranno in mobilità verso la pensione otterranno tra i 40 e i 50 mila euro più quattro anni di indennità di mobilità. I sindacati hanno parlato di «un compromesso» che a seconda delle sigle è «soddisfacente» (Ugl), «decoroso» (Uilm), «responsabile» (Fim), «amaro e insufficiente» (Fiom). Ma al di là degli aggettivi, la sostanza è che tutti hanno sottoscritto l´intesa. Secondo la Fiom, la Fiat avrebbe «fatto un dispetto» riducendo del 20-30 per cento l´importo degli incentivi rispetto alle tabelle normalmente utilizzate dal Lingotto in queste circostanze. Per la Cgil l´accordo è «positivo».
L´ad di Invitalia, Domenico Arcuri, che ha fatto da advisor ai progetti per la reindustrializzazione di Termini Imerese, si è detto soddisfatto: «Avevamo un bacino di 1.916 lavoratori, oltre 1.500 della Fiat e 350 dell´indotto. Con la mobilità ne andranno in pensione 640. Il progetto Di Risio prevede 1.312 assunzioni dirette e 300 addetti dell´indotto. Dunque alla fine avremo creato 350 nuovi posti di lavoro». Nell´operazione la Fiat spenderà 21,5 milioni di euro ai quali va aggiunto il valore dello stabilimento che, spiega Arcuri, «verrà consegnato alla Dr a costo zero, impianti compresi. Naturalmente - aggiunge l´ad di Invitalia - la Dr avrà la piena proprietà della fabbrica solo quando avrà assunto tutti i lavoratori previsti».
L´accordo su Termini e il progetto della Dr (produzione di 4 nuovi modelli a partire dal 2013) verranno firmati giovedì al ministero dello sviluppo economico. Poi, spiega un comunicato del ministero di Passera, ci sarà un accordo che coinvolgerà anche il ministero del lavoro per ottenere la cassa integrazione per cessata attività che durerà due anni. Poi la partita passerà alla Dr di Massimo Di Risio: «Speriamo in una nuova stagione per Termini Imerese», ha commentato il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo. I piani prevedono di arrivare entro cinque anni alla produzione di 60 mila auto all´anno con l´assunzione, entro il 2016, di 1.312 dipendenti. Nel 2012 cominceranno ad entrare nella nuova fabbrica 241 operai mentre le prime automobili usciranno dalle linee entro l´anno successivo.
Domani mattina l´accordo sarà illustrato ai dipendenti di Termini Imerese in un´assemblea che si svolgerà alle 10 davanti ai cancelli della fabbrica. «Siamo soddisfatti, è il male minore», anticipa Agostino Cosentino, delegato di fabbrica della Fiom. «E´ vero che è un accordo sulla mobilità - prosegue l´operaio - ma almeno aumenta le speranze di tornare al lavoro per i dipendenti dell´indotto». Franceso Conte, uno degli addetti delle fabbriche che lavorano per la Fiat conferma: «Quando abbiamo sentito che il ministero aveva anticipato la convocazione, abbiamo capito che poteva accadere qualcosa di positivo».

La Repubblica 27.11.2011
E la Fiom riapre il dialogo con i vertici del Lingotto
Decisivo l´intervento del ministro Passera
di Paolo Griseri


ROMA - È presto per lasciarsi andare agli entusiasmi. Ma è un fatto che la Fiom non firmava un accordo di merito con la Fiat dal luglio del 2009, quando aveva sottoscritto l´intesa per l´anticipo del premio di risultato concordando di erogare 103 euro in busta paga agli operai del terzo livello. Ed è un altro fatto che la stessa trattativa su Termini Imerese - istruita da tempo da Invitalia che ha valutato i progetti per sostituire il Lingotto in Sicilia - si è sbloccata in pochi giorni grazie all´iniziativa del nuovo ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera.
La biografia del ministro ha certamente facilitato l´esito. Per un manager che ha appena lasciato la guida operativa di Intesa San Paolo è più facile alzare la cornetta del telefono e chiedere a Sergio Marchionne di aumentare di 4 milioni la posta della Fiat sul tavolo degli incentivi verso la pensione. Ed è più facile per lo stesso Marchionne fidarsi dell´ex ceo di una banca che ha tradizionalmente avuto saldi rapporti con il Lingotto. Sono questi, in fondo, i vantaggi dei governi tecnici: i ministri sanno di che cosa parlano e gli interlocutori sanno chi hanno di fronte. Così ieri sera lo stesso ad di Invitalia, Domenico Arcuri, riconosceva che «l´apporto del nuovo ministro è stato decisivo per la conclusione dell´accordo». Non è necessario che il manager pubblico si spinga dove non può per capire il senso del suo pensiero.
C´è però un secondo aspetto che non va sottovalutato. Si ritrova nelle parole di Enzo Masini, il capodelegazione della Fiom: «Dobbiamo riconoscere al ministro di non aver lavorato per la divisione tra i sindacati ma per trovare una soluzione tutti insieme». Quella che potrebbe apparire una affermazione ovvia diventa, nell´Italia post-berlusconiana, una rivoluzione copernicana. Perché per anni il governo ha alimentato la divisione ideologica tra sigle sindacali piuttosto che cercare una soluzione ai problemi concreti. E´ un fatto che appena quell´atteggiamento è cambiato, il film degli accordi separati tra Fiat e sindacati ha subito una interruzione. E´ assai probabile che sia momentanea perché probabilmente a partire dalla prossima settimana Fiom, Fim e Uilm torneranno a dividersi sull´estensione a tutte le fabbriche del Lingotto dell´accordo di Pomigliano. Ma non era per nulla scontato che la Fiom avrebbe firmato un´intesa sull´uscita della Fiat da Termini Imerese.
Ci vorrà del tempo, ma se il nuovo clima si consoliderà potremmo attenderci importanti novità anche sul fronte sindacale. Perché una Fiom che esce dall´angolo è certamente costretta a rivedere le sue strategie ma finisce per costringere gli altri sindacati a fare altrettanto. La mossa del governo potrebbe accelerare il tramonto la stagione dello scontro ideologico tra Fiom e Fiat: un lusso che un paese in emergenza non può più permettersi.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Fiat, c'è l'accordo per Termini
La mediazione di Passera: incentivi di 460 euro mensili per l'uscita
Roberto Bagnoli


ROMA — Accordo raggiunto su Termini Imerese. Dopo una trattativa a oltranza di quasi otto ore tra il Gruppo Fiat, il ministero dello Sviluppo economico e i sindacati metalmeccanici la quadra è stata trovata. Ai 640 lavoratori che dal primo gennaio sono in mobilità verso la pensione andranno incentivi per 460 euro al mese che, sommati ad altre voci come il mancato preavviso e il premio fedeltà, significano circa 30 mila euro a testa in aggiunta all'assegno di cassa integrazione. Per il Lingotto significa aumentare il budget dai 15 milioni di euro previsti sino ad ora a qualcosa meno di 21 milioni di euro. Una forbice che si è sbloccata grazie all'intervento diretto del ministro dello Sviluppo Corrado Passera sull'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne.
In sostanza dei 1.560 ex dipendenti Fiat di Termini Imerese 640 andranno in pensione, i 920 rimasti più 350 dell'indotto verranno assorbiti dalla Dr Motor di Massimo De Risio per un totale di 1270 dipendenti. Poiché la Dr Motor prevede 1312 assunzioni entro il 2016 alle quali andranno aggiunti altri duecento lavoratori circa da destinare in attività collaterali nel nuovo compound dell'auto il saldo alla fine sarà positivo. Il numero uno di Invitalia Domenico Arcuri che ha curato la vicenda sin dall'inizio è soddisfatto e riconosce come «decisiva la scesa in campo del ministro Passera». Precisando che «questa intesa diventerà parte di un accordo complessivo che sarà raggiunto nei prossimi giorni». Il passo finale di questa storia dovrebbe avvenire giovedì con la definizione del perimetro industriale per garantire il rilancio industriale del sito. Martedì, nella sede dell'assessorato regionale siciliano alle Attività produttive di Palermo, si terrà un incontro con i sindacati in rappresentanza delle aziende dell'indotto per individuare eventuali percorsi che possano garantire la cassa integrazione per il 2012 anche per i lavoratori dell'indotto Fiat.
Il ruolo di Passera e del governo ieri è stato riconosciuto anche dal sindacato. «Il lavoro svolto dal ministro dello Sviluppo e dallo stesso dicastero - ha commentato il segretario confederale della Cgil Vincenzo Scudiere - è stato positivo per costruire una soluzione basata sul rispetto degli interessi in campo».
La conclusione di Termini Imerese non ha risparmiato ricadute polemiche sia dentro il sindacato che in politica. La Fiom ha infatti firmato ma «per senso di responsabilità, però riteniamo — ha dichiarato il responsabile auto Enzo Masini — che la mediazione del governo sia stata al ribasso». La Uilm per bocca di Rocco Palombella precisa subito che «noi quando firmiamo un'intesa lo facciamo senza riserve, la Fiom invece sembra costretta, un copione già visto altre volte».
Sergio D'Antoni, responsabile del Pd sul territorio, la butta in politica: «Dopo anni di immobilismo da parte della compagine di Bossi e Berlusconi, finalmente un esecutivo capace di prendere iniziativa e di confrontarsi in maniera vera e costruttiva con le parti sociali». Per Giuliano Cazzola, presidente della consulta lavoro del Pdl, anche in questo caso «il governo Monti ha raccolto quel che aveva seminato il precedente esecutivo». Il presidente dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro infine si chiede «quali scambi inconfessabili sono avvenuti in queste ore tra Passera e Marchionne».

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
TERMINI IMERESE, LA FIAT PAGA 21 MILIONI A CHI PERDE IL POSTO
Ultima firma al ministero la fabbrica passa a DR Motors
di Salvatore Cannavò


La differenza alla fine la fanno 5,5 milioni di euro, quasi quanto guadagna in un anno l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Grazie a quel numero che alla fine l’accordo per lo stabilimento di Termini Imerese, appena chiuso, ha visto la luce.
La Fiat ha accettato di sborsare 21,5 milioni di euro, invece dei 16 messi inizialmente sul tavolo, e questo ha reso possibile incentivare adeguatamente la mobilità per 640 lavoratori che rimarranno fuori dai nuovi investimenti previsti dal gruppo Dr Motors di Massimo Di Risio, l’imprenditore molisano che rileverà gli impianti siciliani abbandonati dal Lingotto. Con l’accordo raggiunto ieri sera quelli che, dopo due anni di cassa integrazione, saranno riassunti dalla Dr Motors avranno un posto di lavoro. Agli altri vengono assicurati 22.850 euro medi a lavoratore (per 460 euro mensili) a cui va aggiunto il mancato preavviso (1,7 mensilità circa) e il premio fedeltà che varia a seconda dell’anzianità.
LA SOLUZIONE soddisfa tutti anche se la Fiom fa notare che “la Fiat ha voluto fare un dispetto ai lavoratori siciliani” perché non ha applicato le tabelle che solitamente utilizza per favorire la mobilità. Secondo il segretario della Fim, Bruno Vitali, è stato accolto “il 70 per cento delle nostre richieste”. Ma tutti alla fine hanno accettato la proposta, risolutiva, messa a punto dai tecnici del Ministero, Andrea Bianchi e Giampiero Castano, che hanno individuato la soluzione della “fascia unica”, cioè un incentivo uguale per operai e impiegati con re-distribuzione delle risorse all’interno della fabbrica. Quindi con un sacrificio ulteriore dei lavoratori.
Il ministero dello Sviluppo di Corrado Passera ha gestito l’operazione puntando chiaramente a un risultato “politico” anche se si è mosso in maniera discreta. In serata l’unico comunicato del MiSe fa sapere di aver semplicemente “formulato a Fiat e alle parti sociali una proposta, che è stata accettata”. Poi ricorda che tutto questo è propedeutico alla soluzione definitiva della vicenda che andrà trovata probabilmente il 1 dicembre.
Ma se sulla mediazione di Passera ha qualche sospetto Antonio Di Pietro che parla di probabili “scambi inconfessabili” tra l’ex manager di Banca Intesa e l’attuale amministratore della Fiat-Chrysler, l’operato del ministro è invece sembrato “decisivo” all’amministratore delegato della società pubblica Invitalia, Domenico Arcuri, regista dell’operazione di riassegnazione degli impianti e che si dice molto soddisfatto per la firma di tutti i sindacati ma anche per il fatto di aver creato nuova occupazione. Spiega Arcuri al Fatto: “Si partiva da 1916 dipendenti e, considerando i pensionamenti, si arriverà a superare i duemila occupati”. In realtà, 640 di questi sono stati messi a riposo anticipatamente e, comunque, con un esborso pubblico notevole. Invitalia, per bocca del suo amministratore, si dice convinta anche della solidità del progetto presentato dalla Dr Motors che invece desta più di qualche preoccupazione nella Fiom siciliana e molisana : “Se avessimo pensato che il progetto fosse a richio non lo avremo accettato” spiega Arcuri.
Un “grazie” a Passera viene anche da Fiom, Fim e Uilm di Palermo mentre il segretario Fiom, Maurizio Landini, sentito dal Fatto, preferisce dire “grazie ai lavoratori che hanno fatto un duro lavoro per mantenere i loro diritti”. “Dopo di che – aggiunge Landini – riconosco che c’è stato un ruolo dei tecnici del governo ma va anche detto come la Fiat abbia trovato il modo anche in una situazione come Termini di non giocare fino in fondo la propria responsabilità”.
MA LA VICENDA Fiat non finisce certo qui. C’è un tavolo tra azienda e sindacati, convocato martedì a Torino, per discutere delle conseguenze della disdetta del contratto nazionale operata dalla Fiat. Landini garantisce che se l’obiettivo è estendere il “modello Pomigliano” a tutto il gruppo e applicare l’articolo 8 voluto dal governo Berlusconi, che permette di derogare alla normativa sui licenziamenti, “non c’è spazio per alcuna mediazione”. La Fiom si sta attrezzando per un pacchetto di iniziative: dagli scioperi alle cause legali fino al referendum per l’abrogazione dell’articolo 8. Si è svolta ieri un’assemblea a Roma in cui si è fatto un ulteriore passo avanti per la definizione dello schieramento e dei meccanismi procedurali. La sinistra radicale e Di Pietro hanno dato piena disponibilità e alcuni settori del Pd sono interessati all’operazione. Se ne discuterà già nei prossimi giorni.

La Repubblica 27.11.2011
"Il sostegno a Monti deciderà le alleanze" Casini chiama Bersani e i moderati del Pdl
Il leader del Terzo Polo: è un merito aver accantonato la foto di Vasto
Il segretario del Pd: "Non c´è un tavolo di maggioranza Quando il premier chiama, io vado"
di u.r.


ROMA - Le alleanze future? «Le valuteremo sulla base del sostegno al governo Monti». Pier Ferdinando Casini parla a Milano, al congresso cittadino del suo partito, e traccia la rotta: l´appoggio all´esecutivo di "impegno nazionale" farà da spartiacque anche per il dopo-Monti, l´Udc stringerà l´accordo per le prossime elezioni con i partiti più leali al Professore. Braccia aperte dunque del Terzo Polo ai sostenitori a tempo pieno «del programma economico e sociale del governo». E´ una chiamata di Casini per Bersani, con cui già oggi procede in tandem. Il Pd, riconosce il leader dell´Udc, ha dimostrato grande senso di responsabilità, «Bersani con l´appoggio a Monti ha evitato che l´alleanza di Vasto tra Pd, Idv e Sel vincesse le elezioni ed evitato una campagna elettorale che non avrebbe risolto i problemi». Il segretario democratico da parte sua assicura - riferendosi ai vertici segreti tra lui, lo stesso Casini e Alfano - che «non esiste alcun tavolo di maggioranza ma una grande convergenza fra progressisti e moderati, e io vado quando chiama Monti».
Casini "sonda" pure Alfano e soprattutto lancia un amo all´ala del Pdl più sensibile all´operazione-Monti, nell´ipotesi di un´implosione del centrodestra che ne attragga pezzi interi nell´orbita centrista. Dunque, il metodo per scegliere da che parte stare alle prossime elezioni sarà il confronto sui contenuti. Le cose su cui bisogna misurarsi, spiega infatti l´ex presidente della Camera, saranno misure come la riforma previdenziale o la flessibilità salariale, «destra, sinistra e centro sono parole che non significano più nulla, che non hanno più alcuna rilevanza rispetto ai problemi veri della gente». E cita, come esempio, l´appoggio a Giuliano Pisapia nella battaglia per conquistare la poltrona di sindaco a Milano, «noi guardiano a quello che succede, senza pregiudiziali ideologiche». E Alfano che polemizza per lo spread che va su, nonostante le dimissioni di Berlusconi? «Monti non ha la bacchetta magica, i nodi sono al pettine in tutt´Europa. Berlusconi sarebbe uscito ancora peggio da una campagna elettorale». Bossi che dice che il governo Monti fa schifo? Replica del leader centrista: «Ha poco da urlare. Siamo in questa situazione anche grazie a lui». E´ un bipolarismo da superare, precisa poi Casini parlando all´assemblea costituente del movimento dei Riformisti di Stefania Craxi, sempre a Milano, «la fase politica che è passata ci ha profondamente diviso nel giudizio sul governo Berlusconi, ma oggi guardiamo avanti per costruire una soluzione alla catastrofe italiana». Dal Carroccio, gli risponde il presidente del Consiglio regionale lombardo, Davide Boni: «Con tutto il rispetto per Casini, ma nomen omen: parla proprio lui, erede di chi ha portato all´enorme debito pubblico italiano». Dal Pdl arriva la dura replica di Osvaldo Napoli: «Casini, come del resto Enrico Letta, ha scoperto che la crisi dell´euro non è colpa di Berlusconi. Firmando così un´autoaccusa micidiale. Cadono dalle nubi, come Checco Zalone». Ma si fanno sentire anche i fautori del dialogo, come Maurizio Lupi che auspica «il ritorno di un governo di centrodestra, possibilmente allargato agli amici che fanno parte del Ppe». Che sarà peraltro a congresso, con la presenza dello stesso Berlusconi, 8 e 9 dicembre a Marsiglia. Sulla stessa linea i Popolari Liberali di Carlo Giovanardi, riuniti a Verona. Ma per l´ex sottosegretario Francesco Giro è «impossibile» basare le future alleanze sul sostegno al governo Monti, «ci sembra difficile pensare che l´Udc voglia l´alleanza con Vendola, Bertinotti e Di Pietro».
(u. r.)

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Quando un Diritto diventa un Premio - l'Equivoco delle Celle Aperte
di Luigi Ferrarella


Un diritto trasformato in concessione, l'abc teorico del vivere in carcere (in cella di notte, in sezione e spazi esterni di giorno) fatto invece dipendere da impressioni sul comportamento del detenuto quali «la reazione a situazioni difficili»: l'assuefazione allo Stato fuorilegge che stipa quasi 68mila persone nel posto per 45mila è il retroterra della circolare diramata dalla dirigenza uscente del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ai direttori delle carceri, affinché apposite équipe classifichino entro 60 giorni i detenuti in codici bianchi-verdi-gialli-rossi e tendenzialmente ammettano i primi tre a un regime di celle aperte durante la giornata.
Già oggi, infatti, a dispetto di detenuti rinchiusi anche 22 ore su 24 in celle mal (o non) riscaldate, carenti nei servizi igienici e dalle quali come ieri a Livorno capita che ci si ferisca cadendo dal terzo letto a castello, le celle aperte di giorno dovrebbero essere non un privilegio per supposti «meritevoli», ma la regola per tutti i detenuti comuni in media sicurezza: almeno se hanno un senso le parole del regolamento penitenziario del 2000 che (come già dal 1975) distinguono tra «locali nei quali si svolge la vita dei detenuti» e «locali» o «camere di pernottamento». Parole ora meritoriamente rispolverate, ma nel contempo retrocesse a optional subordinato al comportamentale codice-colore del detenuto.
«La tesina di uno studente che ripropone principi elaborati da tempo ma non trasformabili in cose vere senza risorse», commenta il principale sindacato dei direttori di carcere. E in attesa di investire invece su misure alternative e circuiti a custodia differenziata, anche le buone intenzioni appaiono impraticabili nella realtà numerica (23mila detenuti più del consentito), logistica (mancano 6mila agenti penitenziari) e urbanistica (metà delle carceri risalgono a prima dell'800) che motiva i radicali a chiedere «una amnistia per la Repubblica» che ponga fine allo scandalo di reparti dove «i detenuti dispongono di un terzo dello spazio che le direttive europee impongono per gli allevamenti dei maiali».

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
CASAPOUND - Napoli si tinge di nero


Una giornata di tafferugli e nervi, con cariche della polizia, quattro feriti e la paura di uno scontro tra estremisti neri e centri sociali. Sabato difficile per Napoli, teatro della manifestazione “contro il governo delle banche” di Casapound Italia, associazione di estrema destra. In città sono arrivati 4000 militanti per un presidio in piazza Carlo III. Poco lontano, in piazza Cavour, il contro-presidio della Rete antifascista. In mezzo, centinaia di agenti. Il momento più difficile si è vissuto alle 9, quando i carabinieri hanno intercettato un furgone in via Don Bosco. All’interno, 30 mazze di legno, 30 bastoni di plastica e decine di bottiglie di vetro. Alcuni militanti di Casapound hanno provato a impedire l’ispezione. Sul posto è arrivata la polizia, che ha effettuato alcune cariche. Feriti un agente e tre manifestanti, mentre due persone sono state fermate. Nel pomeriggio, Casapound ha manifestato con tre giri attorno a piazza Carlo III, tra cori, striscioni e fumogeni. Presenti anche due membri del Pdl napoletano, Luigi Rispoli e Marco Nonno. (l.d.c.)

Il Fatto Quotidiano 27.11.11
PALUDE NEONAZISTA
I crimini della cellula terroristica di destra e lo sgomento tedesco: governo e istituzioni sono stati colti impreparati
di Georg Mascolo, Holger Stark e Alfred Weinzierl


In Germania sono scoppiate furibonde polemiche quando l’opinione pubblica è venuta a sapere che una cellula terroristica neo-nazista, quella di Zwichau, era riuscita per anni a eludere polizia e servizi segreti. In particolare ci s’è chiesti come mai i servizi interni che hanno il compito di controllare il fenomeno dell’estremismo politico, non hanno individuato il pericolo in tempo. Il ministro degli Interni Hans-Peter Friedrich ha annunciato la creazione di una banca dati centralizzata sull’estremismo di destra e maggiore coordinamento e scambio d’informazioni tra le forze dell’ordine e tra i diversi Land.
-Signor ministro ha visto il video nel quale la cellula terroristica di Zwichau rivendica almeno 10 omicidi commessi per lo più per motivi razziali tra il 2000 e il 2006?
L’ho visto e rimane per me un mistero. Perché l’avrebbero realizzato? Parrebbe una sorta di testamento.
- A suo giudizio siamo in presenza di psicopatici o ci sono più profonde motivazioni politiche?
Credo che in casi come questo non vi sia alcuna chiara distinzione tra psicopatia ed estremismo. Ovviamente le conseguenze sia sul piano della sensazione di insicurezza dei cittadini, sia sul piano della reputazione internazionale della Germania, sono squisitamente politiche. Dobbiamo chiarire quanto è accaduto nella nostra società.
-Da anni i servizi segreti interni ripetono che gli estremisti di destra non sono stati coinvolti in significative e pericolose attività terroristiche.
A me risulta piuttosto che i servizi non disponevano di informazioni accurate sull’estremismo di destra.
-Come è stato possibile che tutti – servizi di informazione, politici, giornalisti – si siano così clamorosamente sbagliati?
Perché sembravano azioni isolate non riconducibili a un unico quadro e perché non ci sono mai state rivendicazioni di tipo politico tali da far pensare a un’unica organizzazione terroristica.
-Il fatto è che se 13 anni fa a entrare in clandestinità fossero stati tre estremisti islamici o tre estremisti di sinistra, lo Stato avrebbe reagito con maggiore efficacia. Come mai la reazione non è la stessa quando si tratta di neo-nazisti?
Il terrorismo di matrice islamica ha conquistato il centro della scena l’11 settembre del 2001. Fu una esperienza traumatica e ne rimanemmo tutti sconvolti. Non voglio fare paragoni, ma l’11 settembre accadde qualcosa che persino gli esperti ritenevano impossibile. Ora anche nel campo del terrorismo di destra stanno cominciando ad accadere cose impensabili.
-Sta di fatto che il terrorismo di destra è sempre stato sottovalutato. Le leggo un passo di un documento del governo: “Su decisione del ministero degli Interni è stato istituito il Gruppo di informazione per il controllo e la prevenzione dei crimini commessi da estremisti di destra”. Il gruppo avrebbe dovuto facilitare lo scambio di informazioni. Lo sa a quando risale questo documento?
No.
- Al 1992 subito dopo gli attentati di Rostock e Hoyerswenda contro profughi politici e stranieri.
Ma ora ci stiamo muovendo e stiamo facendo molto di più. Abbiamo intenzione di controllare tutti i possibili terroristi di estrema destra e questa decisione era già stata presa prima dei recenti fatti di sangue.
-Nell’ottobre 2003 il ministero degli Interni e la conferenza sulla sicurezza interna esclusero che vi potessero essere gruppi di estrema destra capaci di attentati terroristici.
Col senno di poi possiamo dire che era una diagnosi completamente sbagliata. Ma le novità ci sono. Come abbiamo già fatto con l’estremismo islamico, istituiremo un banca dati nazionale e un centro congiunto per combattere l’estremismo di destra.
-Ma lo sa che moltissime informazioni contenute negli archivi di polizia sono state distrutte?
Sì. Al momento la legge obbliga a conservare queste informazioni per 5 o 10 anni al massimo. È troppo poco.
-Appaiono ormai chiari gli stretti legami tra l’Npd, il partito di estrema destra tedesco, e la cellula di Zwichau. A suo giudizio l’Npd andrebbe messo al bando?
Penso che l’Npd sia un partito anti-costituzionale. Ma per poterlo mettere al bando bisogna fornire le prove di comportamenti e atti contro la Costituzione. La Conferenza dei ministri degli Interni dei Land ha istituito una commissione di lavoro che si propone di raccogliere le prove necessarie per bandire l’Npd.
-Un precedente tentativo di bandire l’Npd fallì perché si venne a sapere che i servizi interni avevano informatori in seno all’Npd che avevano “pilotato” la decisione.
Oggi la situazione potrebbe essere diversa e comunque preferisco attendere le risultanze del lavoro della Commissione con-giunta prima di pronunciarmi.
-Con tutto il rispetto mi sembra che ormai si sappia tutto quel che c’è da sapere sull’Npd.
Ma finora s’è sempre ritenuto che i rischi giuridici di un provvedimento di messa al bando fossero troppo alti. Mi auguro che il lavoro della Commissione possa dare risultati tali da rendere possibile una decisione diversa.
-Non ritiene si debbano aggiornare le statistiche per quanto riguarda il numero delle vittime della violenza di estrema destra? Secondo i dati ufficiali del ministero le vittime tra il 1990 – anno della riunificazione – e il 2008 sarebbero state 46. Secondo molti esperti il numero delle vittime è di almeno 137.
Alla luce dei recenti fatti di sangue abbiamo riaperto alcune indagini che erano state archiviate ed è quindi possibile che vi siano novità anche in tal senso.
Copyright 2011 Der Spiegel –Distributed by The New York  Times Syndicate - Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Il Fatto Quotidiano, 27.11.2011
Torino Film Festival: il documentario di Bechis
L’amaro sorriso della gioventù fascista
di Malcom Pagani


Il bianco e nero dei cinegiornali. Gli archivi dell’Istituto Luce per sapere come eravamo e come siamo ancora oggi. Dopo aver salutato la surreale leggerezza di Aki Kaurismaki, il Festival di Torino sventola un’indagine sul consenso. Labari e bandiere nere. Fascismo e propaganda. Illusione, tragedia, sconfitta e risveglio. Marco Bechis (qui in coppia con il giornalista dell’Espresso Gigi Riva) presenta oggi Il sorriso del capo. Evento speciale della rassegna di Amelio e malinconica trasvolata sulla gioventù fascista, fissata nell’età dell’apprendimento. Divise, scuole, alunni, adunate. La seduzione del male commista alla promessa di futuro, le visite mediche di ragazzi che un giorno diventeranno uomini e soldati: “Forti, virili, italiani”, le prove dei dodicenni con le maschere antigas. Il metronomo della persuasione. La ritmica dell’inganno. Il sorriso del capo non è in terza dimensione ma parla di noi. Del populismo e dei suoi meccanismi , dell’acritica ascesa di un dittatore e di come immagini e tecnologia (Mussolini lo intuì in tempi rapidi) potessero sostenere e abbracciare un progetto di dominio. Il Minculpop plasma le coscienze, consuma chilometri di pellicola e convince gli operai a parlare a tavola di nemici e nazioni, come discutessero della Juventus “Gliela faremo vedere agli inglesi”. Così Benito: “La nostra luce” entra nelle case, supera le generazioni e affina la violenza meno visibile ma più insinuante. Rimane come un’eco in viaggio tra il ballatoio periferico e il palazzo nobiliare. Prima delle leggi razziali, nell’apparente nitore di un campo arato sotto gli occhi del Duce, di un volto quasi sovietico di un disgraziato uscito da una miniera. Nell’illusione che tutto, a iniziare dall’apparenza, dovesse essere uniformato, passa il nostro recente ieri. Da cui non ci liberiamo. Impresso per sempre, perché la storia si ripete e non ci abbandona. Alla fotografia o al ritratto a grandezza naturale, nelle piazze, sui giornali o sui muri riscoperti da Bechis e Riva, il regime preferiva la frase. “Credere, obbedire , combattere”. Più icastica di un ritratto, ideale a designare i sudditi in nome di un’idea e di un bellicismo (che anche se i registi non mostrano) pulsa sottotraccia per tutta la durata del film.
SI COMBATTE sempre. Senza ironia. Che si giochi a calcio, si scriva un articolo: “I linotipisti marciano”, si offici il varietà o si corra in un prato alla ricerca di una bambina. Dagli altoparlanti si irradia la voce e gli altri eseguono, senza chiedersi spesso perché. I corpi a trivellare, il progresso davanti e le domande dietro, in cantina o messe a tacere, senza rumore. Ne Il sorriso del capo c’è la costruzione dialettica di una nazione afasica per imposizione. “Tacete, il silenzio è il vostro dovere. È un’arma contro il nemico” dice una voce, solo apparentemente neutrale. Così i video propedeutici all’uso del telefono e la novità di potersi scambiare opinioni al riparo del conformismo in realtà, proiettano tutt’altro. Un’impotenza, la geografia dell’ambizione, l’impossibilità di seppellire un errore o un’icona. Come nell’altro doc tematico di Laurenti, Il corpo del duce. Un mistero che dura da 70 anni. Enigmi, dubbi, miraggi. Il nostro specchio.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Vitalizi anche alla casta del ’ 68 che voleva cambiare il mondo
di Aldo Grasso


Il mitico ’ 68 va in pensione, les dieux s’en vont. Ha suscitato molta curiosità la notizia che l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, va in pensione. Con il famoso vitalizio che, notizia di pochi giorni fa, non verrà più elargito ai parlamentari. Non ora, ma a partire dal 2018. « Se mi toglierei il vitalizio? Se mi dessero qualcos’altro per vivere sì, se mi dessero una pensione sì. Ho lavorato una vita e ho diritto a una pensione, poi come si chiami non conta » ha precisato Bertinotti. Vitalizio è peggio di pensione: si porta dietro un retaggiomedioevale, è un recinto per privilegiati. La pensione, almeno, ha un che di piccolo- borghese, richiama la panchina dei giardini pubblici, le discussioni attorno alle buche dei lavori in corso, il quartino alla bocciofila. Se poi ad andare in pensione è un ex ribelle, un ex rivoluzionario, un ex sindacalista la malinconia cresce. Veramente anche la moglie Lella è da tempo una baby pensionata, avendo usufruito di agevolazioni per il pubblico impiego. Ma almeno si è dedicata anima e corpo al marito, diventando la sua look maker, creando il communist cashmere style tanto caro al salotto di Bruno Vespa. Anche Mario Capanna è andato in pensione. Come Cincinnato si è ritirato in campagna a vivere dei prodotti della terra. L’ex leader del Movimento studentesco prende 5.000 euro dalla Regione Lombardia e 4.725 euro dal Parlamento. Fa una certa impressione, per chi ricorda Capanna arringare la folla degli studenti milanesi per distruggere la borghesia e rigenerare la Storia, fa impressione vederlo ora alle prese con i vasetti di salsa di pomodoro e di miele o spaccare la legna per il caminetto. Il suo successore alla guida di Democrazia proletaria, Giovanni Russo Spena, di pensioni ne ha tre: una da ex parlamentare ( 4.725 euro), una da ex consigliere regionale ( 3.000 euro) e una da ex professore ( 3.250 euro). Costa la casta: non hanno rubato nulla, i soldi spettano loro per legge. Volevano cambiare il mondo, hanno cambiato la loro situazione previdenziale. Lunga vita a Bertinotti, Capanna e Russo Spena. Ma fra cinquant’anni, caso mai dovessero trapassare, sulle loro tombe non sfigurerebbe l’epitaffio che Indro Montanelli aveva vergato per il Migliore: « Qui riposa Palmiro Togliatti impiegato modello di rivoluzioni parastatali » .

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Il «credo» di Ornaghi: la religione dà futuro alla democrazia
di Paolo Conti


VENEZIA — «La presenza della religione nell'ambito pubblico è soprattutto necessaria per poter guardare con speranza al futuro delle democrazie e, quindi, al domani dei popoli che nelle democrazie continuano a vedere lo strumento migliore per promuovere la libertà e la creatività dell'uomo». Parole di Lorenzo Ornaghi, neoministro per i Beni culturali, alla prima uscita pubblica, e per di più su un tema così vasto e impegnativo, che richiama subito le prospettive affrontate nel recente convegno di Todi sul rinnovato impegno dei cattolici nella politica italiana. Ornaghi parla durante il «Dialogo sulla religiosità e la laicità dell'Europa» organizzato nell'ambito dei «Dialoghi tra cultura e mercato» previsti dal Salone europeo della cultura 2011. Il ministro si confronta con Julia Kristeva, nota linguista e psicoanalista, tra i non credenti invitati da Benedetto XVI ai recenti confronti di Assisi.
Dall'Ottocento in poi, per Ornaghi, il progresso e lo sviluppo economico «portavano con sé la contrazione e la perdita di valore del «sacro», sempre più sfidato (e talvolta irriso) dalla «razionalità» che guidava gli «avanzamenti». Ma ora le grandi ideologie del Novecento sono cadute e la loro fine «ripropone la questione di "come vedere" il progresso e "quale senso" riconoscere nella Storia». Il neoministro sottolinea che «sacro e senso religioso non comportano il totale "rifiuto della modernità", non sono una sorta di ritorno del "rimosso" e del "premoderno". La "Rivincita di Dio" non è la rivincita del passato. È, al contrario, la visione del futuro, a partire da una comprensione realistica del presente». Ornaghi, che cita spesso il pontefice, descrive anche la crisi attuale della democrazia contemporanea: «Vive di "ragioni" che non riesce a garantire, o che riesce a garantire con sempre maggiore difficoltà. Fondando la propria legittimazione sulla promessa di un benessere materiale, la democrazia si trova a operare su un terreno precario, sempre più instabile». C'è insomma una rinnovata «domanda del senso di convivere».
A scanso di equivoci Ornaghi spiega che «è possibile concepire la partecipazione dei credenti al dibattito pubblico e la pubblica manifestazione della loro fede come articolazioni differenti della razionalità. Come espressioni, per usare la formula di Habermas, di un disaccordo ragionevolmente prevedibile». Sia chiaro, aggiunge, che ciò non significa certo che «la religione debba puntare a indicare o a imporre a credenti o non credenti le norme morali dell'azione politica». Piuttosto la religione dovrà «aiutare la ragione nella ricerca delle soluzioni, in un continuo cammino».
Il ministro ha anche incontrato sia il sindaco Giulio Orsoni che il presidente uscente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta. Ornaghi non ha ancora sciolto il nodo della sua riconferma, riservandosi il tempo di approfondire: «Se le decisioni vengono strattonate lasciano delle imperfezioni».

sabato 26 novembre 2011

l’Unità 26.11.11
D’Alema: i partiti si devono rilegittimare
La casta? Copyright Br
Storici e politici al convegno di Italianieuropei, del Gramsci e dello Sturzo L’ex premier elogia gli Occupy: fanno bene a prendersela con Wall Street
di Bruno Gravagnuolo


La casta? È un termine che compare per la prima volta nel lessico delle Br. Conviene ricordarle certe cose...». Battuta urticante quella di Massimo D’Alema, nel cuore del suo intervento conclusivo al Convegno romano alla Sala del Refettorio di Roma della Camera dei deputati: il Contributo dei partiti politici alla formazione dell’identità nazionale. Voluto da ItalianiEuropei, Fondazione Istituto Gramsci, e Istituto Luigi Sturzo. Unico convegno dedicato ai partiti dentro le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Una battuta forte contro «l’antipolitica», temperata da considerazioni altrettanto forti sulle colpe dei partiti: « Esaurita la loro funzione già dagli anni 80 si sono buttati sull’occupazione dello stato, e oggi i costi della politica vanno ridotti chirurgicamente,proprio per rilanciare i partiti e la loro funzione».
Dunque, convegno attualissimo, con una due giorni che cadeva nel vivo del post-berlusconismo, e dell’incipit di Monti. Di là della minuta ricostruzione storica che ne ha segnato i lavori. Di che si trattava? Dei conti col passato. Per ritrovare un ruolo ai partiti, proprio nel momento in cui l’economia travolge la politica, inchiodandola all’impotenza, sotto il vincolo globale esterno. Fino al punto da azzerare provvisoriamente il famoso bipolarismo per cui tanto ci si è spesi. Chi c’era al Convegno? Il meglio della storiografia e della sociologia italiane. E con in più oltre a D’Alema Luciano Violante e Giuliano Amato. Ecco il nocciolo dei lavori e la domanda chiave: che meriti e limiti hanno avuto i partiti nel «fare Italia»? Enormi, hanno convenuto gli storici, che senza nascondersi le ombre, hanno tutti sostenuto che i partiti di massa hanno incluso le masse nello stato anche in versione «reazionaria di massa» e hanno in certo senso creato identità nazionale condivisa, pur nelle grandi divisioni ideologiche. Al centro Psi, Pci e Dc, nonché il Pnf. Non è vero, a riguardo, come ha sostenuto Pasquale Santomassimo, che i partiti di massa italiani del secondo dopoguerra, abbiano copiato il Partito fascista (nota tesi di Sabino Cassese). Al contario. Era stato il Pnf a copiare i socialisti e i popolari. E poi i partiti post-Resistenza erano plurali, dialogici, pedagogici. E hanno contribuito a «soggettivare» e a includere nelle istituzioni i ceti subalterni.
Altro spunto: Pci e nazione. Per Giuseppe Vacca presidente del Gramsci Antonio Gramsci prima, e Togliatti poi, vedevano il movimento operaio radicato in una ben precisa funzione nazionale, e di «grande politica» internazionale. Transizione democratica, pace civile e religiosa. E rifiuto della bolscevica «inevitabilità della guerra», fecero dei comunisti una forza italiana. Che faceva della classe operaia un’erede di Cavour. Segnali di un metodo smarrito, dopo il tracollo del Pci. Incapace di rigenerarsi al tempo di Moro. E, in veste Pds, subalterno per dirla con Violante a «mercato politico» e nuovismo. Più critico sul Pci, Silvio Pons: «Usò l’esclusione dal governo per congelarsi nella sua religione civile, contrapposta a quella democristiana». Ma anche a Pons non sfugge la logica geopolitica, che rendeva impossibile la «terza fase» preconizzata da Moro. Con alternanze e ricambi di governo.
Ancora un altro spunto: la Dc di De Gasperi, col suo «centro» che guardava a sinistra. Dentro le relazioni di Francesco Traniello e Francesco Malgeri (critico quest’ultimo sull’ultima dc: consociata al centro con il Psi e priva di spinta propulsiva). Ma l’elogio imprevisto alla Dc e al suo sistema politico, arriva da Roberto Gualtieri, storico e deputato europeo di matrice Pci: « Basta parlare di democrazia bloccata fino agli anni 90! Era una “democrazia difficile”, ma plastica e in movimento, capace di includere e rinnovare». E i sociologi? Severi sui limiti partitici: spesa pubblica, difficoltà di incontrare i movimenti, sottovalutazione del web, incomprensione del «partito personale», etc. (Donatella Della Porta, Mauro Calise). E il rilancio forte della politica arriva infine da Amato e D’Alema. Il primo ricorda che «senza partiti non c’è democrazia deliberativa, e che il mondo del web è fatto di “monadi” e isolamento, e al massimo “cumula” le proteste». D’Alema invece denuncia liberismo e oscuramento del conflitto sociale: «L’antipolitica viene di lì e fanno bene gli indignati americani a prendersela con Wall-Street: è l’indirizzo giusto». E conclude: «Siamo alla fine di un era selvaggia e personalistica. Il governo Monti deve avere un valore costituente. Per costruire un bipolarismo civile, dove non si distrugga l’avversario». Bipolarismo nuovo. Naturalmente rifondato sui partiti. «Transnazionali» però.

Nuovi italiani
l’Unità 26.11.11
Sono sempre loro
di Moni Ovadia


Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una delle più importanti esternazioni degli ultimi anni ha attribuito significativa autorevolezza ad una proposta che da tempo è nell'agenda delle forze politiche più aperte al futuro: il conferimento della cittadinanza ai figli di extracomunitari nati nel territorio italiano e il diritto di voto amministrativo a cittadini stranieri che abbiano avuto regolare permesso di soggiorno per almeno cinque anni.
Come era prevedibile le componenti più retrive del centro destra, segnatamente gli ex post-fascisti e con particolare virulenza i parlamentari della Lega nord hanno alzato gli scudi, i leghisti hanno addirittura minacciato di innalzare le barricate per impedire un provvedimento di legge in tal senso. Hanno addirittura strillato all'attentato alla Costituzione, proprio loro che hanno passato gli ultimi anni di governo a picconarne le fondamenta. Naturalmente non solo c'era da aspettarselo, ma non c'è nulla di nuovo. Questi signori sono gli eredi di ogni pensiero reazionario da sempre nemico del progresso civile.
Furono i nemici dell'emancipazione femminile, del voto alle donne, contrastarono il diritto al divorzio, la legge sull'aborto, oggi discriminano gli omosessuali, vessano i rom, predicano l'islamofobia, respingono esseri umani disperati verso la morte marchiandoli come clandestini.
Trasformano le condizioni esistenziali in crimini, non riconoscono la dignità di ciascun essere umano come valore integro e per ipocrisia ammantano i loro discorsi di discriminazione con argomentazioni pseudo ragionevoli. Fortunatamente la società sa progredire senza di loro.

l’Unità 26.11.11
Da rivoluzionario in Tunisia a clandestino dimenticato in un Cie


Piove dentro, siamo tutti bagnati, senza scarpe e infreddoliti». Sono le parole di uno degli «ospiti» del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria; parole che a stento escono da quelle mura. Qualche giorno fa, a quelle stesse parole sono seguite azioni di rivolta che, nonostante la determinazione con cui venivano compiute, non hanno prodotto l’effetto sperato: ovvero migliori condizioni di soggiorno all’interno della struttura. Uno dei 110 uomini reclusi nel Cie è un giovane di 27 anni che negli ultimi mesi in Italia ha lavorato presso i comitati elettorali, creati per sostenere la formazione dell’Assemblea Costituente del suo paese, la Tunisia. Il percorso che lo ha portato alla reclusione è ha a che vedere con l’assenza di un valido permesso di soggiorno. Nonostante la sua militanza per la ricostruzione della Tunisia non ha ricevuto alcun supporto dai cinque consolati del suo paese in Italia. E così, in un albergo romano, all’alba di un giorno di qualche settimana fa, viene prelevato da due poliziotti e portato prima in una Questura di zona e poi in quella centrale. Da qui, il passaggio a Ponte Galeria si è svolto in un attimo. Un lasso di tempo talmente breve da non permettere allo spaventato giovane di avvertire il proprio avvocato. «Non c’è tempo» gli è stato detto, perché quella telefonata poteva farsi solo all’arrivo in quel luogo dove di tempo ce n’è fin troppo. Lo stesso meccanismo frettoloso l’ha condotto davanti al giudice di Pace per la convalida del trattenimento ancora senza il suo avvocato. E infine ieri, gli è stato chiesto di prepararsi, stava per essere trasferito. Dove? Non c’era tempo di spiegare. La sua conoscenza delle leggi italiane, però, gli ha permesso di imporsi su quella decisione e ora è ancora lì, ad aspettare.

l’Unità 26.11.11
Franco Basaglia
Dimenticato dagli psichiatri, amato dai filosofi
Franco Basaglia cinquant’anni fa assunse la direzione del manicomio di Gorizia ma di quella eredità nei reparti ospedalieri rimane assai poco Invece le domande sulla follia sono ancora terreno d’indagine dei pensatori
di Massimo Adinolfi


FRANCO BASAGLIA
VENEZIA 11 MARZO 1924 – 29 AGOSTO 1980
Per lo psichiatra, cui si deve l’introduzione in Italia della legge 180 e la chiusura dei manicomi, il paziente non è solo una malato ma una persona in tutta la ricchezza.

Chi si ricorda di Franco Basaglia? Nel novembre di cinquant’anni fa, l’anno di Asylums di Goffman e della Storia della follia di Foucault, il giovane psichiatra veneziano assume la direzione del manicomio di Gorizia. Avviando una rivoluzione: dalla riorganizzazione del personale sanitario all’abolizione delle divise per i degenti, dai permessi di uscita alla eliminazione di ogni mezzo di contenzione, Basaglia interverrà su tutti gli aspetti della vita dell’ospedale, trasformandola radicalmente. E accompagnerà questa attività con una formidabile azione comunicativa e un impegno politico inesauribile, il cui ultimo frutto sarà la legge 180 sui trattamenti sanitari obbligatori.
Due anni dopo Basaglia muore, e poco alla volta i riflettori accesi da Basaglia sulla follia si spengono. La legge 180 rimane in vigore, ma le domande sollevate da Basaglia si attutiscono e le battaglie da lui condotte si smorzano fin quasi a scomparire. Chi oggi si chiede ancora se la follia sia (soltanto) una malattia mentale? In realtà, la questione arde ancora nel braciere della filosofia, ma sapere medico e organizzazione sanitaria l’hanno ormai, di fatto, accantonata. E così a ricordarsi di Basaglia finiscono con l’essere quasi soltanto i filosofi o gli psicanalisti (che medici non sono), i quali hanno dedicato un libro alla sua esperienza: Franco Basaglia. Un laboratorio italiano, a cura di Federico Leoni (Bruno Mondadori). La psichiatria universitaria, invece, forte di solide certezze farmacologiche e di un naturalismo più solido ancora, si tiene parecchio alla larga dall’eredità di Basaglia.
UN CASO TRAGICO
Non è però il solo paradosso. Perché se a suo tempo erano le idee di Basaglia e dell’antipsichiatria a mettere a soqquadro il rassicurante fondamento di ogni umanesimo, la possibilità cioè di tracciare senza incertezze il confine fra il sano e il malato, il normale e l’anormale, l’umano e l’inumano, oggi le distinzioni saltano più facilmente per via della convinzione che tutto l’arcano della follia stia dentro i termini medico-biologici del problema.
Negare alla parola, alle pratiche sociali o al contesto territoriale qualunque presa sulla realtà della follia significa infatti ridurre drasticamente fino a negarlo del tutto l’ambito in cui l’uomo si esprime e viene compreso come un uomo, e ampliare a dismisura quello in cui viene invece compreso e spiegato a partire da ciò che umano non è (ma è biologico o chimico o neurologico).
C’è quindi un motivo teorico di stringente attualità per ricordare Basaglia, ma c’è anche una ragione pratica e politica: basti pensare all’orrore della morte di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, costretto per quattro giorni in un letto di contenzione del reparto psichiatrico di Vallo della Lucania e, a seguito di ciò, deceduto. Non decenni fa, ma due anni fa. Il processo al personale sanitario e agli infermieri è da poco ripreso, e nell’ultima udienza il direttore sanitario dell’Ospedale di Vallo ha avuto l’ardire di affermare che «la contenzione è un sistema di terapia». Sono parole, queste, sufficienti per indignarsi, ed entrare nuovamente con i fari accesi da Basaglia negli ospedali.

l’Unità 26.11.11
«Ma la sua idea di guarigione è parte di tutti noi»
Peppe Dell’Acqua che ha condiviso l’esperienza triestina: molti Paesi nel mondo si ispirano alla nostra 180
intervista di Cristiana Pulcinelli


Peppe Dell’Acqua con Basaglia ci ha lavorato a lungo. Insieme a Trieste hanno condiviso anni di battaglie e sperimentazioni. Poi Dell’Acqua è diventato direttore del Dipartimento di Salute Mentale proprio lì, a Trieste. Fra poco uscirà il secondo volume di una collana che cura insieme a Pieraldo Rovatti e Nico Pitrelli, per Alpha Beta Editore 180 archivio critico della salute mentale”: la sceneggiatura e il dvd del film «C’era una volta la città dei matti», andato in onda sulla Rai nel 2010. «Sono pienamente d’accordo sul fatto che bisogna riaccendere i fari su Franco Basaglia dice ma non vorrei diffondere un’amarezza eccessiva che finisce per coprire e disconoscere una presenza straordinaria e quotidiana di Basaglia. Ovunque si parli di salute mentale nel mondo non si può fare a meno di parlare di Franco Basaglia».
Non potrebbe sembrare un’affermazione apodittica? «Forse, ma basta guardare quello che succede nel mondo. L’Argentina ha fatto una legge sulla salute mentale che riprende molto dell’insegnamento di Basaglia e della legge 180 di cui Basaglia è stato inconsapevole ispiratore. In Brasile sta succedendo la stessa cosa. Ma c’è di più. Se possiamo parlare dell’orrore della morte di Franco Mastrogiovanni legato a un letto è grazie al fatto che Basaglia è nella testa e nella cultura di ognuno di noi e non solo di chi l’ha conosciuto o ci ha lavorato. Per qualcosa che abbiamo letto, o sentito, o percepito oggi possiamo dire che legare una persona a un letto è un atto criminale. Prima non era così. E molti altri sono morti prima di Mastrogiovanni».
E oggi?
«Oggi ancora ci sono realtà difficili. Proprio recentemente ho saputo di esperienze al Niguarda di Milano che fanno pensare ad epoche passate: porte chiuse, persone legate, maltrattamenti. Accendere i fari su Basaglia oggi significa ricominciare a dire la verità.
E a proposito delle certezze della psichiatria? «Quando Basaglia si pose l’interrogativo “che cos’è la psichiatria?” portava l’incertezza nel mondo delle certezze psichiatriche. Oggi gli psichiatri utilizzano di nuovo le certezze della biologia e delle neuroscienze per spiegare i dogmi. Siamo arrivati a questo punto a causa della prepotenza delle case farmaceutiche e dell’atteggiamento delle accademie. Ma c’è una cosa di cui si deve tenere conto. Quelle certezze sono state messe in crisi. E non sono state messe in crisi dagli psichiatri, ma da una larga popolazione di familiari, utenti dei servizi di salute mentale, operatori. Gli psichiatri oggi non hanno più peso proprio perché si sono rifugiati nella cittadella delle certezze. Ma l’inganno ormai è stato svelato. Oggi genitori mi chiamano da Marsala come da Milano per dirmi: mio figlio deve guarire. Ma da dove hanno preso quest’idea di “guarigione” se non da Basaglia?» Condivide la denuncia di una psichiatria che torna a negare la parola e i diritti?
«Non solo la condivido, ma sono ancora più duro. Quello che accade tra i dannati della Terra nei manicomi giudiziari accade perché la psichiatria si permette di prevedere che la tale persona sarà pericolosa. I giudici non decidono da soli. Ma quello che mi sembra di vedere è che gli psichiatri cercano di stare lontano da Basaglia perché quando si avvicinano al suo pensiero e alla sua pratica vivono la miseria e la pochezza del loro essere. Questi psichiatri cercano l’evidenza, ma non si accorgono che intorno a loro ci sono pratiche rivoluzionarie, come la restituzione del diritto. Non si accorgono che vivono in un mondo in cui tutto è cambiato, in cui i manicomi non ci sono più».

Il Corriere della Sera 26.11.2011
Freud narratore Quando l'isteria diventa romanzo
Così il padre della psicoanalisi trasforma i pazienti in personaggi
di Cesare Segre


N el 1922, Sigmund Freud inviò al grande narratore e drammaturgo viennese Arthur Schnitzler (nato nel 1862) una curiosa lettera, in cui gli confessava di averlo in precedenza evitato «per una sorta di paura del doppio». E proseguiva con un'acuta sintesi della tematica di Schnitzler: «Il Suo determinismo, il Suo scetticismo — che la gente chiama pessimismo — il Suo essere dominato dalle verità dell'inconscio, dalla natura istintuale dell'uomo, il Suo demolire le certezze culturali tradizionali, l'aderire del Suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un'insolita e inquietante familiarità».
Ma perché il fondatore della psicoanalisi doveva temere come un suo doppio lo scrittore, e trovare inquietante la familiarità con le sue invenzioni? È vero che in qualche appunto giovanile Freud dichiara di essere attratto dall'arte della narrazione, ed è vero che già in una lettera alla futura moglie Martha racconta estesamente, come in una novella, la parabola esistenziale dell'amico Nathan Weiss fino al suicidio. Ma dopo aver trovato la strada dell'analisi psicologica a scopo terapeutico, in che modo il suo lavoro poteva incrociare quello di un romanziere?
A guardare le cose in superficie, si potrebbe considerare ovvio che molti lavori di Freud, narrando vicende e caratteri di persone da lui conosciute e curate, assumano tratti novelleschi o romanzeschi. E di fatto i «casi clinici», come quelli dell'«uomo dei topi» o di Dora o del «piccolo Hans», sono stupende narrazioni. E non è narrativa quella che scruta un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, o quella che ricostruisce, in tre saggi coordinati, L'uomo Mosè e il monoteismo? Per quanto riguarda in particolare i «casi clinici», i cui personaggi venivano indicati con nomi di fantasia per una doverosa discrezione, Freud esplicita il timore che essi siano letti dai suoi colleghi «non già come un contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un romanzo a chiave, destinato al loro divertimento»: cosa che gli parrebbe «disgustosa». Anche a proposito del caso di Elisabeth von R., Freud scrive: «Mi colpisce ancora come qualcosa di strano il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano per così dire prive dell'impronta severa della scientificità». Però i motivi di un confronto fra gli scritti di Sigmund Freud e i caratteri della narrazione letteraria sono molto più profondi, e sono oggetto di ricerca da almeno trent'anni.
È perciò da festeggiare l'ampia raccolta degli scritti narrativi o paranarrativi di Freud (Sigmund Freud, Racconti analitici, progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, editore Einaudi, pp. LXVI-812, € 85), di cui segnaliamo subito le vivaci e suggestive illustrazioni (dodici) di Lorenzo Mattotti. I quattordici testi prescelti (i più famosi, ma anche alcuni meno noti) sono presentati e annotati da Anna Buia. In generale, ciò che caratterizza i testi narrativi di Freud è il fatto che le vicende delle persone sono inserite in una ricostruzione psicologica della loro personalità, dei loro complessi, dei loro comportamenti. E naturalmente la lenta comprensione dei moventi dei personaggi da parte dell'analista ha tempi e logiche diverse da quelli della narrazione, anche se in parte vi si riflette. Insomma, la storia dei personaggi e quella dell'interpretazione non coincidono; semmai in parte possono intersecarsi. La cosa più interessante, però, è che Sigmund Freud accetta, senza dirlo, il patto tacito che lega gli autori di romanzi o di novelle e i loro lettori. Il patto potrebbe formularsi così: l'autore può assumere di volta in volta la prospettiva dei personaggi in scena, ed esprimere le loro idee come se le avesse fatte proprie. Il volume presenta innumerevoli riprove della partecipazione di Freud narratore a questo «patto».
Per esempio Dora, nel «Frammento di un'analisi d'isteria», è gelosa del rapporto erotico fra il proprio padre (di cui è inconsciamente innamorata) e la signora K. Per questo il padre, consapevole della situazione, parla della signora K. alla figlia in modo da allontanare i sospetti sul loro adulterio, insiste sui suoi malanni e la definisce una «povera donna»; ma quando Freud adotta il punto di vista di Dora, la «rivale» appare come una «donna giovane e bella». Infine, in una sua descrizione, Dora, allude all'«incantevole corpo bianco» della signora K., e rivela così la propria latente omosessualità.
Altrettanto interessanti i casi in cui un contesto riflessivo, nel quale è chiaramente l'autore che parla, ospita esclamazioni, e perciò sentimenti, che non sono dell'autore ma dei suoi personaggi. A un certo punto, ad esempio, Sigmund Freud parla dei presentimenti che ha Dora della morte del padre: «In quel momento l'espressione stanca del padre aveva avuto uno strano guizzo, e Dora aveva capito quali pensieri doveva reprimere quel pover'uomo malato! Chi poteva sapere quanto a lungo gli era dato ancora vivere!». L'ultima frase è un pensiero di Dora, non di Freud; nessun segno lo indica, ma il lettore, consapevole del «patto», capisce benissimo.
Un'altra volta, Freud sta riferendo in terza persona i rimpianti, da parte di Dora, dell'età infantile e della funzione protettiva che esercitava suo padre. Poi prosegue così: «Com'era più bello quando quello stesso padre non amava nessuno quanto lei, e si adoperava per salvarla dai pericoli che la minacciavano allora». Anche qui, non è un pensiero di Freud, ma di Dora, e il lettore lo sa.
Freud cade persino vittima degli schemi narrativi. Nella conclusione del caso di Dora, si legge: «Da allora la ragazza si è sposata, e per la precisione, se tutti gli indizi non m'ingannano, con quel giovane menzionato nelle associazioni all'inizio dell'analisi del secondo sogno». Proprio un bel lieto fine matrimoniale, delizia di tanti lettori di romanzi. Purtroppo, nelle ristampe dell'opera, Freud è costretto a notare, onestamente: «Questa, come ho appreso in seguito, era un'informazione sbagliata».
Mario Lavagetto, già autore di Freud, la letteratura e altro (1985), ci guida attentamente tra le prove «narrative» di Sigmund Freud. E termina accennando alla vicinanza di Freud alla letteratura di fine Ottocento-primo Novecento. Vicinanza indubbia, ma forse meno significativa del suo apporto attivo, ben noto, ai principi ispiratori di questa letteratura, dato che Freud è tra coloro che più energicamente misero in crisi la concezione unitaria dell'uomo, e perciò anche del personaggio, e la linearità consequenziale del suo pensiero e delle sue azioni.
Ecco perché sentiva Schnitzler come un rivale.

Il Corriere della Sera 26.11.2011
Ora la piazza egiziana si sdoppia
Manifestazioni rivali al Cairo: in strada anche i sostenitori dei militari
di Giuseppe Sarcina


IL CAIRO — Giovani con la stessa grinta e lo stesso sorriso. Anche le bandiere sono le stesse, a strisce rosse, bianche e nere, così come i fuochi d'artificio e i venditori ambulanti di ciambelle. Ma al Cairo e in Egitto, in queste ore, si stanno misurando (per ora a prudente distanza) due concezioni del futuro prossimo del Paese.
In piazza Tahrir sono arrivate centinaia di migliaia di persone (il solito «milione», secondo gli organizzatori) che, per il settimo giorno consecutivo, hanno chiesto l'immediato passaggio dei poteri dal Consiglio supremo delle forze armate a un governo di civili.
Ma una decina di chilometri più a est di questa sterminata megalopoli, nel quartiere di Abbasiya dove ha sede il ministero della Difesa, a partire da mezzogiorno si sono ritrovate diverse migliaia di cittadini (circa 50-60 mila nel corso dell'intera giornata, a tarda sera ce n'erano ancora 20 mila circa) schierate a sostegno dei militari. Sul piano dei numeri, come è evidente, il confronto tra Tahrir e Abbasiya non regge. Ma dal punto di vista politico (e sociale) i rapporti di forza in questo Paese da ottanta milioni di abitanti non sono altrettanto scontati. E sarebbe, dunque, sbagliato liquidare frettolosamente il segnale che arriva «dall'altra» manifestazione. Bastava fare un giro e scambiare due chiacchiere con i vari Samir (42 anni), dirigente della Procter & Gamble, Ahmed, 31 anni, gestore di un club di tiro a segno, o Ibrahim, 40 anni, impiegato in un'azienda di forniture medicali, per rendersi conto che Abbasiya non è stato il raduno di comparse prezzolate dal maresciallo Mohamed Hussein Tantawi. Anche se a «intrattenere» i manifestanti si sono presentati personaggi controversi come Tawfik Okasha, conduttore e proprietario del canale televisivo El Farahon, a suo tempo simpatetico con il regime di Hosni Mubarak.
In realtà, i 41 morti dei giorni scorsi (bilancio ancora provvisorio), le migliaia di feriti, le manovre politiche dei militari, culminate l'altro ieri con la nomina di un nuovo premier, Kamal Ganzouri, hanno prodotto una frattura nel movimento popolare che nel febbraio scorso cacciò il presidente-dittatore. Una situazione carica di inquietanti insidie per la stabilità politica ed economica del Paese, a soli due giorni dal primo turno delle elezioni per il Parlamento fissate per lunedì 28 novembre e, notizia di ieri, prolungate al 29.
Non è un caso se gli americani, partner fondamentali dell'Egitto, siano usciti allo scoperto con forza. «Noi crediamo, e questo è molto importante — ha dichiarato il portavoce del presidente Barack Obama — che il trasferimento del potere a un governo civile debba avvenire al più presto, in un modo giusto e pieno, che risponda alle aspirazioni legittime del popolo egiziano». Una posizione pesante, che arriva proprio nel giorno della nomina ufficiale di Al Ganzouri, 78 anni, già primo ministro nell'era Mubarak, dal 1996 al 1999. Ieri il prescelto dei militari ha reagito presentandosi alla stampa. Ganzouri, con i capelli tinti di fresco, ha sostenuto che il nuovo esecutivo avrà «più poteri rispetto ai predecessori».
A questo punto l'impressione è che Tantawi abbia esaurito le carte a disposizione per cercare di svuotare Tahrir senza tornare alle fucilate e ai gas lacrimogeni. Ma anche la piazza potrebbe presto trovarsi a corto di iniziative. La manifestazione di ieri era stata definita quella «dell'ultima chance». A fine serata il tabellone delle presenze riportava una compagnia piuttosto assortita. Per la preghiera di mezzogiorno è arrivato Mohamed ElBaradei, candidato alle presidenziali: è stato accolto con entusiasmo dai giovani. Il premio Nobel del 2005 ha rifiutato l'offerta dei militari di guidare la transizione. «Non ha voluto fare il segretario del maresciallo Tantawi», commentava uno dei suoi collaboratori. Il grande imam Ahmed Al Tayeb, la più alta autorità dei sunniti, due giorni fa aveva chiesto alla giunta militare di non sparare «al petto degli egiziani» e ieri ha fatto sapere ai giovani di «essere con loro». Completano la lista due figure di segno opposto. Hazem Saleh Abou Ismail, leader salafita (islamici radicali), avvistato più volte tra i tappeti per la preghiera e Abdel-Aziz Makkyoun, ex attore e promotore della lista laica Kefaya («Basta!») .
Ma all'appello mancano, ancora una volta, i Fratelli musulmani, il gruppo cardine degli equilibri del nuovo Egitto. Probabilmente anche loro sono divisi. Meno due giorni al voto: l'incertezza e l'inquietudine non si dissolvono.

La Repubblica 26.11.2011
Piazza Tahrir incorona El Baradei
Il Nobel alla testa di un controgoverno. Gli Usa: "I militari via subito"
L´esercito egiziano insiste: elezioni lunedì. Ma ci sarà un giorno in più per votare
di Fabio Scuto


IL CAIRO - Quando arriva per la Dhuhr, la preghiera di mezzogiorno, un boato corre tra la folla di Piazza Tahrir. Circondato da un cordone di sostenitori Mohammed El Baradei, il premio Nobel per la pace nel 2005, uno dei leader dell´opposizione prima a Mubarak e ora alla giunta militare egiziana, è venuto a pregare nella Piazza simbolo della rivoluzione egiziana, dove in centinaia di migliaia si sono trovati ieri per il sesto giorno per dire basta allo strapotere dei generali e chiedere un nuovo calendario elettorale, sotto il tiro dei militari che sono stati schierati nelle strade attorno. «Vado a Tahrir per esprimere il mio rispetto per i martiri. Il loro sacrificio non sarà vano e insieme vinceremo», aveva annunciato El Baradei poco prima del suo arrivo. Attorno al suo nome in questi giorni si è creato un forte consenso come premier giusto per la transizione e in Piazza Tahrir ha avuto l´investitura: i leader di diversi importanti movimenti come il "6 aprile" e la "Coalizione dei giovani della rivoluzione" lo hanno nominato alla guida di un contro-governo, con Abdel Moneim Abul Fotouh, un moderato fuoriuscito dai Fratelli musulmani, come suo vice. Una mossa che si contrappone alla decisione della giunta di chiamare ieri notte Kamal Al-Ganzouri alla guida di un nuovo esecutivo. Una scelta immediatamente respinta da tutti i partiti che partecipano al voto. Inutili le rassicurazioni di Al-Ganzouri, 78 anni, già primo ministro per qualche anno sotto il "Faraone" Mubarak, sull´impegno alla transizione democratica assunto dalla giunta. «Se pensassi che i militari vogliono mantenere il potere non avrei accettato la proposta», dice il primo ministro incaricato. Una nomina che sembra più un gesto disperato che una vera scelta, tanto che Al-Ganzouri ha annunciato che non potrà formare il suo governo prima di lunedì, il giorno di inizio delle elezioni legislative. Elezioni che, giusto ieri sera, ha comunicato improvvisamente la giunta militare si svolgeranno su due giorni invece che in uno soltanto, come previsto inizialmente.
Ieri alla giunta militare è arrivato un secondo monito della Casa Bianca che ha sollecitato «un pieno passaggio dei poteri» a un esecutivo civile, da realizzarsi «il più presto possibile e che risponda alle legittime aspirazioni del popolo egiziano».
I preparativi per questo voto poi – che si svolge su base distrettuale con tre tornate elettorali col doppio turno, tenendo praticamente il paese bloccato per 4 mesi – nonostante l´annuncio della giunta non sono cominciati e la crisi in atto non consente certamente un regolare svolgimento delle elezioni, in un Paese in cui non c´è mai stata finora una sola consultazione elettorale seria. A fianco dei militari nel "voto ad ogni costo" sono rimasti solo i Fratelli Musulmani, i grandi favoriti, convinti di poter assumere per la prima volta un ruolo dominante sulla scena politica. Ma i giovani della Fratellanza contestano la dirigenza e la scelta di venire a patti con i militari, i nemici di sempre. In Piazza Tahrir sono migliaia i ragazzi con le barbe islamiche. E ieri anche Ahmed al-Tayyeb il Grande imam di al-Azhar, la più alta autorità religiosa sunnita, si è schierato apertamente con la Piazza mandando un messaggio attraverso un suo stretto collaboratore che ha annunciato alla folla: «Il grande imam vi appoggia e sta pregando per la vostra vittoria».

Il Fatto Quotidiano 26.11.2011
L’esercito garantisce governo e voto lungo e così si assicura un futuro di potere in Egitto
di Francesca Cicardi


Stesse rime e stessi slogan a piazza Tahrir, cambia solo il nome: i manifestanti cantavano ieri contro il nuovo primo ministro designato Kamal al Ganzuri, scelto dall’Esercito per guidare un nuovo governo di transizione. Un’altra marionetta in mano ai militari e un’altra “mummia” proveniente dall’era di Mubarak: Ganzuri, di 78 anni, fu primo ministro del’ex dittatore dal 1996 al 1999. “Abbiamo fatto una rivoluzione per scegliere chi ci governa”, dice Siham, una donna velata che come molte altre sono scese in piazza per chiedere al Consiglio Supremo delle Forze Armate – che dirige l’Egitto dalla caduta di Mubarak lo scorso febbraio - di lasciare il potere a un’autorità civile.
Le molestie sessuali degli ultimi giorni a Tahrir non hanno spaventato le egiziane, che sono scese in piazza numerose, così come gli uomini e moltissimi bambini, di tutte le classi sociali e le ideologie. Tutti hanno osato sognare un governo di unità nazionale questa settimana , guidato forse da Mohamed Al Baradei, che ieri è andato a Tahrir a pregare e protestare, davanti a un Esercito inamovibile.
MALGRADO le decine di migliaia di persone, forse centinaia, che hanno riempito il cuore del Cairo e dopo una settimana di rivoluzione nelle strade del paese, l’Esercito continua imperterrito a gestire la transizione e punta dritto alle votazioni di lunedì. Ieri a Tahrir hanno fatto la loro apparizione i primi cartelli contro le elezioni, che per molti non hanno senso e non possono celebrarsi in queste condizioni di caos e di violenza, che ha lasciato al meno 40 morti. A 48 ore dall’apertura dei seggi, l’Esercito imponeva ieri ancora una volta la sua legge: le votazioni, che si terranno in 3 fasi da novembre a gennaio, dovranno durare 2 giorni “in modo da permettere al maggior numero possibile di elettori di partecipare”, annunciava in un comunicato.  Intanto, Ganzuri avrebbe ricevuto dai militari deleghe più ampie di quelle dell’esecutivo precedente, ma l’Esercito non arretra di fronte alle pressioni del popolo, appoggiato ieri persino dagli Usa, che hanno sollecitato i generali a dimettersi “il prima possibile” e a cedere il potere reale a un nuovo governo “immediatamente”. I militari non sembrano disposti a farsi rovesciare come Mubarak e contano sull’appoggio tacito dei Fratelli Musulmani, che ieri hanno boicottato la manifestazione di Tahrir e guardano già ai seggi, e oltre, certi della loro vittoria. I rivoluzionari non si arrendono, ma sono ormai rassegnati davanti al fatto che le votazioni avranno luogo.

La Repubblica 26.11.2011
Siria - L´Onu lancia l´allarme "Bambini vittime di tortura"


GINEVRA - «Bambini torturati e mutilati». Il comitato dell´Onu contro la tortura ha denunciato ieri «violazioni flagranti e sistematiche dei diritti umani» in Siria. «Il Comitato ha esaminato numerose informazioni - si legge in una nota - tra i quali casi di maltrattamenti di detenuti e attacchi contro i civili. Preoccupanti quelle su piccoli vittime di tortura e mutilazioni». Ora l´Onu ha chiesto alla Siria di presentare un rapporto sulle misure adottate per garantire il rispetto della Convenzione contro la Tortura.
Sulla Siria è intervenuto ieri anche il ministro degli Esteri Giulio Terzi, dal forum italo-turco di Istanbul. «Il principio della non ingerenza negli affari interni non può avere un valore assoluto - ha detto Terzi - quando è così chiaro che ciò che si sta sviluppando in un paese crea la possibilità di moltiplicare in modo drammatico le spinte all´instabilità». «Vogliamo sottolineare - ha aggiunto - quanto la situazione in Siria ci preoccupa, perché la tragedia continua a colpire la popolazione».

Il Fatto Quotidiano 26.11.2011
La Ola degli indignados
Dall'esempio cileno si propaga in tutto il Sudamerica il movimento di protesta studentesco
di Manuel Anselmi


Il movimento degli studenti cileni, guidato dalla ormai famosissima Camila Vallejo, ha superato i confini nazionali e la lotta per una educazione gratuita e pubblica ha ormai contagiato molti altri paesi del subcontinente sudamericano.
Dal 12 ottobre scorso in Colombia molte delle università sono occupate. Per le vie di Bogotà sono sempre più frequenti le manifestazioni dei giovani che protestano contro una riforma educativa promossa dal governo in chiave neo-liberale e che punta tutta sulla autonomia degli istituti. Riforma che gli studenti colombiani rifiutano proprio per non doversi poi trovare in una situazione simile a quella dei loro colleghi cileni, in cui vige un mercato delle università e dove la maggior parte della popolazione è esclusa da una istruzione di qualità. “Il modello educativo cileno è un esempio da non seguire” ha affermato esplicitamente Jairo Rivera, uno dei leader degli studenti. “ Uno dei punti più discutibili e di maggiore dissenso è la creazione di università private con una vera e propria finalità di lucro” ha spiegato Moisés Wasserman, rettore dell'Universidad Nacional de Colombia.
IN URUGUAY, alcuni giorni fa più di tremila ragazzi sono scesi in piazza per dimostrare il loro appoggio agli studenti cileni. A Santo Domingo, da alcune settimane un gruppo chiamato “Los libertarios” porta avanti una rivolta contro le politiche educative governative, e rivendicano che l'investimento pubblico sull'educazione sia effettivamente del 4% come previsto dalla legge. Perfino in Venezuela, la gioventù bolivariana vicina al presidente Chávez ha organizzato alcune manifestazioni di solidarietà con i movimenti cileni e colombiani, durante le quali hanno avanzato richieste di miglioramento delle proprie condizioni studentesche.
Qualche giorno fa, durante i Latin Grammy Awards, quando sul palco per ritirare il prestigioso premio è salito Residente, al secolo René Pérez Joglar, cantante del gruppo hip pop portoricano Calle 13, tutti hanno potuto leggere sulla sua maglietta la scritta: “Educaciòn publica gratuita”. Al momento dei ringraziamenti, il cantante non ha esitato a dedicare il prestigioso riconoscimento agli studenti latinoamericani che stanno lottando per una educazione gratuita per tutti.
ATTRAVERSO la musica e le esigenze dei giovani, si sta forse formando una coscienza pansudamericana. Di sicuro, come ha sottolineato il filosofo e scrittore colombiano Oscar Guardiola-Rivera, invitato alla manifestazione di Occupy ad Amsterdam, autore del libro Qué pasaría si América Latina gobernara el mundo? (Che cosa succederebbe se L'America Latina governasse il mondo?). “ Le circostanze specifiche europee non sono le stesse, però ci sono questioni, come questa di un sistema educativo basato sul lucro, in cui l'esempio latinoamericano può essere di monito anche per gli europei”.

La Repubblica 26.11.2011
Bimbi, stranieri, coppie la formula matematica per il condominio perfetto
L´esperimento pilota a Reggio Emilia "In un anno abbiamo assegnato 170 case con questi criteri e i risultati sono positivi"
L´obiettivo è creare microcosmi equilibrati per migliorare la vivibilità
di Stefania Parmeggiani  


Il condominio ideale esiste, lo dice la matematica. Un´equazione, per la precisione, un complicato calcolo che prende in considerazione anzianità, provenienza, ambiente e persino le "nevrosi" che ognuno di noi si porta da bambino. Perché scegliersi i vicini - simpatici, disponibili, rissosi, invadenti, rumorosi - non è certo possibile. Ma se non fosse il caso a insediarli sul nostro pianerottolo, alla fine magari una soluzione sulla facciata da ristrutturare o l´ascensore da aggiustare potrebbe risultare più semplice. Certo, probabilmente non diminuirebbe la litigiosità delle assemblee condominiali, ma evitando accumuli di problemi allo stesso numero civico si comincerebbe a invertire la tendenza che negli ultimi anni ha trasformato molte periferie europee in quartieri ghetto.
Dall´idea di rimescolare gli indirizzi per creare microcosmi equilibrati, è nata a Reggio Emilia, tra le stanze dell´assessorato alle politiche sociali e gli uffici dell´Acer (azienda casa dell´Emilia Romagna), la formula del condominio ideale. Un esperimento unico in Europa, che per ora incide nell´assegnazione delle case popolari, ma che può essere utilizzato per migliorare la vivibilità di strade, quartieri e città. Chiavi in mano a chi ne ha diritto, ma l´indirizzo dell´alloggio non più casuale bensì assegnato grazie a quattro nuovi parametri, messi a punto con la collaborazione del Censis e della facoltà di Psicologia dell´Università di Bologna: peso sociale, tipologia delle famiglie, distribuzione etnica e condizioni ambientali.
Il peso sociale misura dipendenze, malattie psichiatriche, problemi comportamentali o sociali, attribuendo a ogni inquilino un punteggio in base a un sistema già utilizzato dai Servizi sociali. Facendo una semplice addizione si ottiene il peso reale, che deve essere confrontato con quello medio degli aventi diritto. Nei condomini in cui la situazione è migliore della media si possono inserire nuovi casi sociali, negli altri no.
Il secondo parametro è la tipologia delle famiglie: più varia è, meglio è. Si parte dall´analisi della società, cioè dal conteggio degli anziani, delle giovani coppie, delle famiglie monoparentali. E si cerca di riprodurre l´equilibrio pianerottolo per pianerottolo. Procedimento analogo per la distribuzione etnica: ogni condominio, per facilitare l´integrazione ed evitare ghetti, dovrebbe riflettere un mondo sempre più vario. Infine il contesto: accessibilità, barriere architettoniche, ambiente salutare. Quest´ultimo parametro verifica il risultato del calcolo precedente, confermandolo o annullandolo. Un esempio concreto: in uno dei condomini studiati, dei 44 appartamenti quasi il 55% è assegnato ad anziani soli a fronte di una percentuale ideale del 24%. Intervenire sull´edificio significa aumentare il numero di famiglie dal 9% al 31%. «In un anno abbiamo assegnato con questa formula 170 alloggi - precisa Marco Corradi, responsabile Acer di Reggio Emilia - e i risultati sono positivi: nei condomini più problematici il carico è stato alleggerito del 25%».
Dall´edilizia pubblica a quella privata. «La formula può essere impiegata per riqualificare quartieri difficili - spiega Matteo Sassi, assessore alle politiche sociali - perché una volta fotografata la situazione il pubblico può intervenire recuperando alloggi da destinare a studenti o giovani coppie. O ancora si possono prevedere quote di edilizia agevolata o si può agire sui costruttori affinché realizzino appartamenti di taglio diverso e quindi destinati ad acquirenti differenti».
Sorride l´architetto Pier Luigi Cervellati, da una parte contento che ci sia ancora chi sogna città ideali e si misuri con le utopie urbanistiche, ma preoccupato che le nuove strategie finiscano con il dare carburante all´edilizia. «Qualsiasi strategia deve partire dal recupero degli immobili esistenti, non da altri mattoni. Se l´operazione di Reggio Emilia va in questa direzione non può che essere encomiabile. Le nostre città devono tornare ad avere una regia pubblica che governi il mercato e non che lo assecondi». Fermo restando che per quanto perfetta, nessuna formula matematica pacificherà un´assemblea condominiale: giovani o anziani, italiani o stranieri, single o con prole, l´attaccabrighe del piano di sotto è destinato a restare l´inevitabile costante.

La Repubblica 26.11.2011
Termini Imerese, il governo in campo

Oggi vertice da Passera con sindacati e Fiat. Dal Lingotto altri 4-5 milioni per la soluzione. Il vescovo di Palermo: chiusura della fabbrica aiuta la mafia. Il Pd: è un allarme fondato
di Paolo Griseri


ROMA - Il governo anticipa i tempi e sblocca la trattativa sul futuro di Termini Imerese. Il nuovo ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, convoca alle 10 i sindacati e alle 12 la Fiat per superare lo scoglio degli incentivi alla mobilità. Trapela l´ipotesi che il Lingotto sia disposto a mettere sul tavolo più denaro di quello che si ipotizzava contribuendo così a risolvere la situazione. Le indiscrezioni di ieri sera parlavano di un aumento di 4-5 milioni della cifra che il Lingotto sarebbe disposto a spendere per le incentivazioni.
La mossa potrebbe chiudere già oggi la partita. Vediamo perché. Dei 1.567 dipendenti Fiat di Termini Imerese, 511 hanno i requisiti per andare in pensione entro sei anni. Altri 130 possono farlo sommando i contributi per il lavoro in Fiat ad altri contributi maturati precedentemente. In totale si tratta di 650 lavoratori che, dopo due anni di cassa integrazione e sei di mobilità, potrebbero arrivare alla pensione. Nell´ipotesi più costosa, quella in cui tutti i 630 dipendenti avessero bisogno di tutti i quattro anni di mobilità per raggiungere la pensione, gli incentivi, secondo le tabelle presentate dalla Fiat, costerebbero circa 20 milioni (31 mila euro per lavoratore). Nelle scorse riunioni la Fiat si era detta disposta a mettere sul piatto 17 milioni. Ne mancavano 3 e a quel punto la Regione Sicilia ha annunciato, provocando non poche polemiche, che avrebbe provveduto lei. Ma nell´ultimo incontro si è avuto un colpo di scena: la Fiat ha annunciato che dei 17 milioni messi sul tavolo, 7 non sarebbero serviti per gli incentivi ma per i costi di chiusura tombale dei rapporti di lavoro (mancato preavviso, clausole di rinuncia a rivalse ecc.). A questo punto mancavano all´appello 10 milioni. Nelle ultime ore, dopo contatti informali tra Passera e Torino, la situazione si sarebbe modificata: la Fiat metterebbe oltre 21 milioni, più che sufficienti secondo il calcolo originario, ancora insufficienti in base ad un secondo calcolo con i costi di chiusura proposto dalla Fiat. Oggi la trattativa servirà a chiudere i conti. Tra i costi che sopporterà la Fiat c´è anche la cessione gratuita dello stabilimento e, forse, di una parte degli impianti.
Intanto in Sicilia la situazione continua ad essere molto tesa. Parlando alla Radio Vaticana il vescovo di Palermo, Paolo Romeo, ha chiesto che la politica non sia indifferente perché «la chiusura di Termini Imerese rischia di far aumentare la criminalità organizzata nel Sud» (parole condivise da Ignazio Marino, Pd). I dipendenti dello stabilimento continuano a presidiare i cancelli impedendo l´uscita delle bisarche con le ultime Y prodotte l´altro ieri.
La realtà della cassa integrazione non riguarderà nei prossimi mesi i soli dipendenti dello stabilimento siciliano. Una conferma viene dal sito Linkiesta che ieri ha stimato in 300 mila le vetture che verranno tagliate negli stabilimenti Fiat nel 2012 rispetto alle previsioni di 12 mesi fa.

Il Corriere della Sera 26.11.2011
Vertice «segreto» con i tre leader Imbarazzo nei partiti, Idv all'attacco
di Monica Guerzoni


ROMA — La storia del vertice notturno, del tunnel sotterraneo che collega Palazzo Madama a Palazzo Giustiniani e dei tre leader, Alfano, Bersani e Casini, che lo percorrono in gran segreto per incontrare il premier, ha fatto imbufalire Antonio Di Pietro. E non solo. Nei partiti cresce l'imbarazzo per le modalità di «consultazione» al vertice, c'è chi lamenta l'esclusione e chi teme ricadute negative sul piano della comunicazione. Perché non incontrarsi alla luce del sole, rivendicando il sostegno all'esecutivo? Perché alimentare, sia pure involontariamente, ricostruzioni con contorni da spy story, rischiando che la «diplomazia del tunnel» appanni lo smalto del presidente? Come dice Paolo Gentiloni, Pd, Monti dovrà «trovare il modo di interloquire con le forze politiche senza dare l'idea che esistano supergabinetti segreti». Benedetto Della Vedova, capogruppo di Fli alla Camera, invita i leader «a non nascondersi dietro bizantinismi» e, da destra, Giuliano Ferrara è ancor più drastico. Sul Foglio il direttore satireggia una «maggioranza tripartita che si vergogna di esserlo».
Il «giallo» del summit segreto, intanto, può dirsi svelato. Giovedì sera il premier ha incontrato i leader di Pdl, Pd e Terzo polo per parlare di misure economiche e di sottosegretari, ma una giornata di smentite ufficiali e conferme ufficiose ha acceso la polemica. «Non ci sono vertici, c'è il vertice che è il premier», scrive Casini su Twitter e spiega di essere stato «contattato singolarmente» dal professore. E come il leader dell'Udc smentiscono vertici sia Alfano che Bersani. Ma Stefano Menichini, direttore di Europa, annota su Twitter: «La brutta notizia del vertice, non perché l'hanno fatto ma perche si sono nascosti». Finché a sera l'ufficio stampa di Palazzo Chigi conferma «contatti continui» con i partiti, che avvengono «ogni giorno e in varie forme». Lo sa bene Di Pietro, che è rimasto fuori dal portone di Palazzo Giustiniani e scatena i suoi contro il rendez-vous dell'«inedita maggioranza». Massimo Donadi: «Ciò che non è tollerabile è la segretezza, che offende il Parlamento e i partiti». Silvana Mura: «Monti chiuda la vicenda». Quale sia il nodo lo spiega Felice Belisario, quando contesta «omertà e inciuci» e avverte: «L'Idv ha votato la fiducia a un governo tecnico. Se fosse confermato che si lavora a una maggioranza politica, arrivederci e grazie...».

Il Corriere della Sera 26.11.2011   
Il Papa «avverte» i cristiani in politica: la fede sia solida
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «A volte ci si è adoperati perché la presenza dei cristiani nel sociale, nella politica o nell'economia risultasse più incisiva, e forse non ci si è altrettanto preoccupati della solidità della loro fede». Benedetto XVI chiede «una testimonianza trasparente», ai fedeli impegnati nella pólis. Il Papa, che ha più volte invocato una «nuova generazione» di cattolici in politica, esige autenticità. Come quando in Germania a settembre, e il mese dopo ad Assisi, aveva elogiato gli «agnostici» che «a motivo della questione su Dio non trovano pace» e «sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine».
Tanto più che «la crisi che stiamo vivendo oggi» è «di significato e di valori, prima che economica e sociale», ha spiegato ieri nell'udienza al pontificio Consiglio per il laici. Il tema è quello dell'eclissi di Dio, specie nella «vecchia Europa», la priorità del suo pontificato: la crisi, ha detto Benedetto XVI, nasce perché «una mentalità che è andata diffondendosi nel nostro tempo, rinunciando a ogni riferimento al trascendente, si è dimostrata incapace di comprendere e preservare l'umano». Riflessioni riprese dal cardinale Angelo Bagnasco, ricevuto dal Papa come vicepresidente del Consiglio delle conferenze episcopali europee: «Se l'economia, la politica, la vita sociale perdono la connessione con l'etica, si sfalda tutto, anche la composizione dello Stato». E il cardinale di Budapest Péter Erdö, presidente dei vescovi europei, in tema di crisi: «Si è perso il senso della dignità del lavoro che è fondata sulla stessa dignità umana della persona». Non a caso, su Termini Imerese, Radio Vaticana ha titolato: «Chiude la Fiat in Sicilia. Urgente la presenza dei cattolici in politica». Fra i cattolici, del resto, continua ad esserci fermento. Tra il «clerico-moderatismo» a destra e «blocco conservatore» a sinistra, il Movimento cristiano lavoratori chiede a Casini di «sciogliere l'Udc» e lavorare a una nuova forza politica. Mentre Mimmo Delle Foglie, già coordinatore del Family Day, su Radio Vaticana diceva che «si sta preparando il manifesto di Todi per rimodulare la vita economica dell'Italia tra Stato, mercato ed economia civile».
Di certo, è significativo che la Chiesa abbia voluto fare della beatificazione di Giuseppe Toniolo un evento nazionale: Benedetto XVI ha disposto che l'economista cattolico (1845-1918) sia proclamato beato domenica 29 aprile 2012 e la cerimonia — anziché a Pisa — si svolga a Roma nella basilica di San Paolo fuori le mura. È il segno che la Cei lo indicherà come figura esemplare dell'impegno sociale e dello stile di un fedele: una «guida» verso quella «religio del bene comune» cara a Bagnasco.

Il Corriere della Sera 26.11.2011
La città ideale di Platone femminista ma non troppo


Prospettando nella sua Repubblica uno stato ideale, Platone affida il potere a un gruppo di «guardiani» della costituzione, abolendo la famiglia e la proprietà. Le donne, scrive, devono essere comuni a tutti, i figli devono essere comuni, i genitori non devono sapere chi sono i loro figli, i figli chi sono i loro padri (Resp., V, 457 d). Le donne, liberate dal loro ruolo familiare, devono essere inserite nella città e collaborare con gli uomini alla gestione del progetto politico. Devono essere educate come i maschi, utilizzate nella polis allo stesso modo degli uomini, svolgendo compiti identici: possono essere medici o «amanti della sapienza» e, come gli uomini, possono essere «guardiane» (Resp., V, 451 c-457 b, 466 e-467 a). Un progetto — si è detto — che concedeva alle donne le stesse opportunità degli uomini: Platone era dunque un femminista ante litteram. Un'opinione, a dire la verità, a dir poco discutibile. Limitiamoci a una delle tante citazioni, sempre dalle opere del nostro autore, che svelano quello che egli pensava del sesso femminile. Nel Timeo leggiamo che «l'uomo che vive bene il tempo che gli è stato assegnato, tornato nell'astro dal quale proviene, vi condurrà una vita: ma chi fallisce in questo, nella seconda nascita cambia la sua natura in quella di una donna. E se ancora persevera nella sua malvagità, a seconda del modo della sua corruzione assume ogni volta la natura di una qualche fiera» (Tim., 42 b-c39). Più precisamente: «Quelli che, essendo nati uomini, sono stati codardi e ingiusti, probabilmente nella seconda generazione hanno assunto natura di donne, secondo il progetto di quelli che ci crearono», i quali «sapevano che dagli uomini sarebbero nate le donne e gli altri animali». (Tim., 76 e; Tim., 90 e).

Il Fatto Quotidiano 26.11.2011
A domanda rispondo: Milano e il fascismo che torna 
di Furio Colombo


Caro Furio, ti scrivo per mettere te e chiunque sia utile al corrente della nuova provocazione del Pdl lombardo a proposito dell’appoggio a gruppi neofascisti. Il 3 dicembre a Palazzo Isimbardi, una delle sedi ufficiali della Provincia di Milano, è organizzato un convegno con l’organizzazione neofascista Casa Pound e il capogruppo in Provincia del Pdl. Già il mese scorso a Milano, in pieno centro, abbiamo assistito a un presidio di Forza Nuova contro “il complotto giudaico massonico”. È forse il momento di non essere più disattenti.
Leon

Ho voluto pubblicare questa lettera perché mi sembra indispensabile che la notizia sia conosciuta subito in modo da non fornire alibi a chi vorrebbe o avrebbe voluto fare qualcosa, ma non lo sapeva. Qualcosa significa prima di tutto che le istituzioni pubbliche di una città come Milano non possono diventare circolo culturale di gruppi che fanno aperta dichiarazione di radici, provenienza ed eredità fascista. Come è già accaduto in passato, la crisi economica, che appare anche a causa del cattivo governo che abbiamo avuto, una crisi della democrazia, sia un ottimo pretesto per dare nuova e sfacciata visibilità all’idea fascista come via d’uscita. E il dramma che l’Europa sta vivendo viene definito, senza più residuo pudore, “giudaico-massonico”. I nuovi (purtroppo antichi) predicatori si rendono conto che si può ottenere qualche deviata attenzione anche a sinistra chiamando in causa l’antisemitismo, usando la vecchia formula fascista, che ha portato violenza e strage. Nessuno vuole sopravvalutare i militanti di Casa Pound, che non hanno, per fortuna, né forza né testa. Nessuno si meraviglia del comportamento di esponenti del Pdl. Non avevano forse accolto il peggio del fascismo marginale nelle liste della Casa della libertà al tempo delle ultime elezioni? Ma la Storia ci ha insegnato (pensate ai tempi prenazisti della Repubblica di Weimar) che personaggi marginali, fortemente indottrinati e debitamente facilitati, hanno a volte un ruolo importante per chi si tiene pronto e a distanza. Per questa ragione la lettera di Leon è stata indirizzata anche a Emanuele Fiano, il deputato Pd che a Milano è tra i leader più attivi e vigili sul problema del fascismo che torna. Leon rappresenta persone giovani e giovanissime, università e scuole medie. Hanno fiducia e non dobbiamo deluderli.