lunedì 28 novembre 2011

l’Unità 28.11.11
Intervista ad Anna Finocchiaro
«Equità e giovani: così Monti vincerà la sfida»
La presidente dei senatori Pd: «I sacrifici vengano ripartiti in base al reddito
Il Parlamento sarà il più potente alleato del premier. Ma faccia la legge elettorale»
di Simone Collini


Monti consideri il Parlamento il suo più potente alleato», dice la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro.
E però la nomina dei sottosegretari, indispensabile per garantire il rapporto tra governo e Parlamento, ancora non c’è stata.
«Questo è l’ultimo dei problemi, e sono sicura che il presidente Monti deciderà rapidamente e in piena autonomia, per poi consentire al Parlamento di conoscere e discutere le misure anticrisi e per consentire al governo di sapere quali sono le valutazioni delle Camere».
La manovra verrà presentata il 5 dicembre: non si poteva fare in tempi più stretti?
«Direi piuttosto che abbiamo avuto un raro esempio di tempestività. In pochi giorni è stato formato un governo, si è insediato, Monti ha svolto i suoi doveri istituzionali e poi ha avuto incontri comunitari molto importanti, visto che il riferimento all’Europa è essenziale. Il 5 verrà presentata la manovra, che mi auguro tenga conto delle posizioni espresse in questi mesi, per essere poi approvata in Parlamento con il più ampio consenso possibile».
Voi avete insistito sui concetti di equità, crescita e rigore: sicuri che saranno alla base della manovra?
«Quel che vediamo è che sono gli stessi criteri che compaiono nel linguaggio ufficiale del presidente Monti. Potremo avviare una discussione che mi auguro sia il più possibile seria e responsabile. E Monti poi potrà andare in qualunque sede europea e dire di avere con sé il più potente degli alleati, il Parlamento».
Come si declina concretamente, per voi, l’equità?
«Essenzialmente chiedendo che i sacrifici vengano ripartiti in base al reddito e poi, soprattutto, lavorando per l’equità generazionale. I sacrifici dovranno essere virtuosi, produttivi. Ogni euro ricavato dovrà essere investito sulle nuove generazioni, per assicurar loro un’esistenza libera e dignitosa, come dice la Costituzione, un lavoro adeguato ai loro talenti e bisogni».
Il Pdl è contrario alla patrimoniale.
«Vedremo cosa propone il governo. Noi abbiamo indicato lo strumento della patrimoniale immobiliare. Può essere realizzato attraverso l’Ici o attraverso l’aumento delle rendite catastali. Quel che è certo è che da lì, da una tassa sui grandi patrimoni immobiliari, dobbiamo partire se vogliamo ottenere rapidamente un risultato».
La ministra Fornero è intervenuta sulla riforma previdenziale in un articolo di Italianieuropei: la sua valutazione? «Mi pare sia una proposta interessante, su cui ragionare di concerto con le parti sociali. E mi sembra un buon segnale la chiusura della trattativa di Termini Imerese. Non sarà il massimo, ma grazie al nuovo governo siamo usciti da una situazione di impasse che rischiava di mortificare i lavoratori di Termini Imerese e il Mezzogiorno».
Non la preoccupa il fatto che sulla riforma del mercato del lavoro ci siano posizioni diverse nel suo partito?
«No perché partiamo tutti dalla stessa esigenza, che è quella di chiudere con una stagione che ha visto il mondo del lavoro diviso verticalmente tra garantiti e non garantiti, cioè i giovani. Una convergenza allora è possibile, sapendo che nessuno è detentore della verità e ognuno di noi è chiamato in causa per trovare la soluzione». Vede le condizioni, in questo Parlamento, per approvare una nuova legge elettorale?
«Ci sono le condizioni e le risorse per farlo, e in tempi rapidi. Oppure si celebrerà il referendum, e il Parlamento sarà messo in mora».
La caratteristica che dovrebbe avere la nuova legge elettorale?
«Far sì che il Parlamento sia realmente collegato al Paese, che gli eletti rispondano direttamente agli elettori. Ci attendono anni difficili e solo con un vincolo forte di rappresentanza si può costruire la necessaria coesione sul territorio».
Vede le condizioni anche per una riforma istituzionale?
«Di nuovo, è necessario che si faccia, perché per modernizzare il sistema e renderlo più funzionale dobbiamo ridurre il numero dei parlamentari, per proseguire sulla strada del federalismo dobbiamo superare il bicameralismo perfetto. Il Parlamento può tornare centrale, altro che tecnocrazia».
Avviare una fase costituente può essere anche il modo per consolidare il governo e garantirgli l’arrivo al 2013?
«Il governo arriverà al 2013 se riuscirà, e me lo auguro, a portare a termine la sua missione. Il punto è vedere se il Parlamento sarà all’altezza della situazione».
Il deputato del Pdl Crosetto dice che c’è bisogno di un esecutivo di unità nazionale: che ne pensa?
«Che abbiamo preso le decisioni giuste, che un governo tecnico è l’unico possibile in questa fase. C’è bisogno di una comune assunzione di responsabilità, che va ogni giorno curata con grande attenzione».
Berlusconi non sembra averla curata parlando di una «sinistra non matura» e ancora fatta di «comunisti».
«Ci sono momenti in cui si vedono quali sono le classi dirigenti. C’è chi guarda avanti e produce speranze e chi guarda indietro e mastica risentimento».
A proposito di guardare avanti, dice Casini che sull’appoggio al governo si giocano le alleanze del futuro. «Vedremo. Quel che è certo è che gli italiani ora osservano con grande attenzione le forze politiche e sapranno giudicare chi si assume le proprie responsabilità e chi non lo fa».
Voi state tranquilli?
«Se c’è un partito a cui conveniva andare al voto è il Pd. Ma abbiamo messo davanti a tutto il bene del Paese. Il nostro senso di responsabilità mi pare evidente».
Se il governo arriva a fine legislatura le politiche saranno ad aprile 2013: voi farete il congresso nell’autunno di quell’anno, come previsto dallo statuto, o lo terrete prima delle elezioni? «Vedremo cosa succede e valuteremo anche la possibilità di anticiparlo».

Repubblica 28.11.11
La presenza ecclesiale nel governo Monti
di Mario Pirani


Il governo tecnico del professor Monti ha in sé una dimensione che più politica non potrebbe essere, una presenza cattolico-democratica, che segna, per certi aspetti, una novità assoluta, l´emergere di una adesione ecclesiale diretta, rappresentata non tanto dal numero di ministri credenti ma dalla presenza di alcune personalità che trovano Oltretevere una fonte personale di legittimazione. Due, tra gli altri, appaiono di maggiore spicco: il fondatore della Comunità di Sant´Egidio, professor Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione internazionale e l´Integrazione, e il ministro dei Beni culturali, professor Lorenzo Ornaghi, rettore dell´Università cattolica. Due posizioni collocabili in quell´organigramma di un cattolicesimo democratico che sembra vorrebbe collegare e rappresentare le angosce di Paolo VI ai dilemmi che incombono su Benedetto XVI. Dilemmi che nel secolo scorso parvero risolti attraverso due tappe di diversissimo segno e in una opposta condizione politica: i patti Lateransi nel 1929 e il trionfo della Dc nel 1948. Non è, quindi, casuale che il tema si ripresenti oggi non solo in rapporto ad un evento pubblico, il convegno di Todi, organizzato da associazioni e movimenti cattolici animati dall´intenzione di rappresentare una svolta di fronte a una dialettica che aveva finito per restringersi al contrasto tra Segreteria di Stato e Conferenza episcopale, ma altresì in conseguenza di un altro fatto, non pubblico ma non per questo meno incisivo. Intendo riferirmi alla decisione, presa individualmente e personalmente dal Papa, di liberare la Santa Sede da ogni relazione che potesse essere intesa come ambiguo appoggio al degrado berlusconiano. La notizia mi è stata data da un alto prelato di grande prestigio, molto introdotto in Vaticano, di cui non mi è consentito rivelare l´identità.
Queste premesse mi hanno indotto a seguire con attenzione alcuni recenti documenti di parte cattolica fra cui il discorso di Andrea Riccardi ad un convegno sulla Dc, la Chiesa e il mondo cattolico (Roma, 19 novembre), tutto inteso a ripercorrere la strada per allargare l´orizzonte del partito cattolico e non ridurlo solo alla lotta al comunismo, «preoccupazione centrale di Pio XII che lo leggeva come un nuovo islam conquistatore e sradicatore della religione» … contro il quale bisognava «recuperare le destre e legarle alla Dc in uno schieramento anticomunista che si giocasse sulla bipolarità». Per contro, «la lotta al comunismo non era priorità assoluta per De Gasperi ... per il quale la Dc non deve essere solo un partito cattolico, schiacciato nel bipolarismo comunismo-anticomunismo», capace per contro di inanellare invece «varie legittimazioni, cattolica, americana, dell´economia, elettorale, dei lavoratori. Un partito degli italiani al centro del sistema, capace di mediare, unire, sintetizzare … La politica per la Dc deve fuggire la solitudine e la contrapposizione bipolare, anche se questa può dare successo per un momento».
Il discorso di Riccardi tocca molti altri punti, riannodando fino ad oggi il percorso politico del cattolicesimo democratico e merita di esser letto nella sua interezza e approfondito. È, comunque, di grande significato che in un governo di salvezza nazionale, accanto all´impegno tecnico degli economisti, riaffiori un afflato politico che tanto ha contribuito alla storia d´Italia nell´ultimo secolo.

Corriere della Sera 28.11.11
Tecnici o urne? Il Pdl diviso aspetta la scelta sul referendum
di Paola Di Caro


ROMA — L'uno, il padre nobile, incendia la platea di Verona evocando un voto che potrebbe anche arrivare a breve, perché da oggi — dice — siamo «in campagnaelettorale». L'altro, il segretario, prima di incontrarlo nei prossimi giorni per mettere i paletti del suo partito alla manovra che sta per essere presentata, a Mario Monti si rivolge con rispetto e comprensione: certo, il premier «è il presente ma non è il futuro», ma «non merita che si fissi al suo governo una data di scadenza che non sia quella del 2013». A far da corifei all'uno e all'altro, ci sono un po' tutti nel Pdl: quelli della linea dura come Brunetta (nonché di quasi tutti i giornali d'area) che concedono a Monti due-tre mesi per onorare gli impegni della lettera all'Ue e poi si va al voto, in ogni caso. Quelli come Crosetto che vedono l'immane pericolo che si para di fronte ad un'Italia al centro della speculazione internazionale e chiedono esattamente il contrario, cioè che si vari un «governo di unità nazionale», di larghe intese, con la Lega dentro. E tutti gli altri del gruppo dirigente — da Cicchitto a Quagliariello a Bonaiuti — che predicano calma e gesso perché il momento è grave e oltre che «vivere alla giornata sostenendo il governo su misure che certo devono essere conosciute in anticipo e condivise», come dice Raffaele Fitto, oggi non si può fare.
È insomma un Pdl ancora molto diviso e agitato quello che si appresta a conoscere le prime urgenti misure dell'esecutivo. Con un occhio ad una Lega che scappa via, Lega alla quale ieri Berlusconi ha cercato di lanciare un amo ricevendone una porta in faccia, e l'altro al Terzo polo che intona il canto delle sirene: «Chi sostiene questo governo — ripete Casini — può rappresentare l'alleanza che andrà al voto nel 2013».
Quale sarà la strada che imboccherà il partito di un Berlusconi scalpitante ma che pure assicura di voler rimanere dietro le quinte? Difficile dirlo, se è vera l'analisi di Osvaldo Napoli: «In questo momento non succede niente, saremo tutti abbottonati e coperti. Ma a gennaio dovremo votare i provvedimenti, e soprattutto potrebbe arrivare il via libera della Corte al referendum... Allora sì che ne vedremmo delle belle».
E in effetti il referendum «se poi davvero si farà», come in fondo dubita Gaetano Quagliariello, potrebbe davvero trasformarsi in spinta verso un voto anticipato del quale al momento non si vedono i segnali. Perché anche se non tutti giurano che Berlusconi non punti davvero alle urne («Lui potrebbe pure pensarci — dice un fedelissimo — ma chi gli è vicino, gente che conta per lui come Ennio Doris, lo hanno avvertito che sarebbe una pazzia forzare i tempi, creare sconquassi perché a saltare per aria non sarebbero solo le sue aziende ma l'Italia»), le spinte centrifughe sarebbero difficili da arginare.
Ad oggi però l'emergenza è un'altra, spiega Fabrizio Cicchitto: «La situazione è talmente grave che non ci sono margini per pensare a scherzetti, e chi ci pensa davvero è fuori dalla realtà. Ragionare con i vecchi schemi politici è impensabile, come fare piani a due-tre mesi: ma di che parliamo? Qui stiamo sostenendo quello che appare quasi un governo di guerra, calcoli politicistici non esistono». E anche per questo, conviene Quagliariello, farebbe bene la Lega a smetterla di cercare facili scorciatoie: «Questa crisi dipende da variabili esterne, converrebbe anche a loro usare maggiore prudenza e non esasperare il conflitto».
E però, a quello che potrebbe succedere tra qualche mese ci pensano in molti nel Pdl. Ci pensa chi appunto vorrebbe tenere saldo il rapporto con la Lega così come chi invece lavora per strutturare un'intesa profonda con il Terzo polo. Perché la nebbia scura che oggi avvolge l'Italia tra qualche settimana potrebbe diradarsi, e come dice Andrea Augello potrebbe essere più chiaro se dalla comunità internazionale saranno prese quelle decisioni cruciali (prestito agevolato per 1.000 miliardi, modifica dei Trattati, Eurobond) che dando una svolta positiva alla crisi potrebbero «permettere anche di tornare alle urne», o se la situazione sarà ancora più drammatica di oggi tanto da richiedere scelte davvero draconiane che «un governo tecnico potrebbe non essere in grado di prendere».
In questo secondo caso, si fa avanti nel Pdl l'idea che possa davvero essere necessario varare un governo — politico — di emergenza nazionale, che rimescolerebbe definitivamente il quadro e cambierebbe le alleanze quali sono state finora. Magari mettendo insieme chi, per dirla con Alfano, in questo «clima nuovo» di cui si stanno gettando le basi tiene insieme «noi che tifiamo Italia» come «gli altri» che pure «tifano Italia». Perché c'è già chi nel Pdl nell'anonimato sospira: «L'alleanza con la Lega? Ormai è finita, inutile girarci attorno...».

Corriere della Sera 28.11.11
Prima i tagli alla politica, poi i sacrifici dei cittadini
di Gian Antonio Stella


«N ei Paesi evoluti non si protesta contro la Casta, ma contro Wall Street», ha detto Massimo D'Alema infastidito dalle polemiche sugli eccessi della politica. Tiriamo a indovinare: che sia perché il Parlamento costa a ogni americano 5,10 euro, a ogni inglese 10,19, a ogni francese 13,60, a ogni italiano 26,33? O perché un consigliere regionale lombardo come Nicole Minetti o Renzo Bossi prende quanto i governatori di Colorado, Arkansas e Maine insieme?
O sarà perché secondo la «Tageszeitung» l'assessore provinciale alla sanità di Bolzano guadagna circa seimila euro più del Ministro della Sanità tedesco?
O perché un dipendente del Senato costa mediamente 137.525 euro lordi l'anno cioè 19.025 più dello stipendio massimo dei 21 collaboratori stretti di Obama?
Bastano pochi dati a dimostrare quanto sia un giochetto peloso spacciare la difesa di certi spropositi con la difesa della democrazia. Se la Camera spende oggi per gli affitti delle sue dependance 41 volte di più di trent'anni fa cosa significa: molte più spese, molta più democrazia?
Il quotidiano sgocciolio su questo tema di parole acide, permalose, stizzite dimostra come l'idea di Monti che la politica debba dare «un segnale concreto e immediato» sui suoi costi non sia stata affatto digerita. Anzi. E col passare dei giorni e il crescere del nervosismo dei cittadini intorno al mistero sui sacrifici in arrivo, diventa sempre più urgente quel segnale di forte discontinuità invocato e promesso.
Prendiamo i vitalizi parlamentari. La Camera ha deciso a luglio e il Senato giorni fa che dalla prossima legislatura non ci saranno più. Meglio: saranno sostituiti per i prossimi parlamentari da qualcosa di diverso. A naso, una pensione integrativa calcolata sui contributi versati come accade ai comuni mortali dalla riforma Dini di 16 anni fa, quando la classifica marcatori (siamo nel giurassico) fu vinta da Igor Protti. A naso, però. Perché la decisione «vera» sarà presa da una «apposita commissione». E mai come in questi casi gli italiani temono che avesse ragione Richard Harkness spiegando sul New York Times che «dicesi Commissione un gruppo di svogliati selezionati da un gruppo di incapaci per il disbrigo di qualcosa di inutile».
Ci sbagliamo? È l'augurio di tutti. Ma, come riconosce la più giovane dei deputati italiani, Annagrazia Calabria, l'intenzione di abolire i vitalizi dalla prossima legislatura è «del tutto insufficiente, se non inadeguata», rispetto alla gravità del momento. Ogni ritocco alle pensioni (e girano voci di interventi dolorosi) sarebbe assolutamente inaccettabile se avvenisse un solo istante prima di una serie di tagli veri ai vitalizi e agli altri assegni pubblici privilegiati. E non si tirino in ballo i «diritti acquisiti»: quelli dei cittadini sono stati toccati più volte. Prendiamo il blocco dell'adeguamento automatico all'inflazione: potrebbero i pensionati accettarlo se prima (prima!) non fosse smentito che i dipendenti del Quirinale (i quali solo nel 2011 hanno perduto un po' di privilegi) godono dell'aggiornamento pieno come fossero ancora in servizio?
Vale per tutti: tutti. Certo, come migliaia di pensionati-baby, anche chi è finito sui giornali per certi vitalizi altissimi, da Lamberto Dini a Giuliano Amato, da Publio Fiori a Gustavo Zagrebelsky, può a buon diritto dire «non ho rubato niente, la legge era quella». Vero. Se andiamo verso una stagione di vacche magrissime, però, chi ha avuto di più sa di avere oggi anche la responsabilità di dare di più. Qualche caso finito sui giornali ha già dimostrato che formalmente non è possibile rinunciare a una prebenda e comunque non ha senso che lo Stato chieda al singolo gesti di generosità individuale che non possono che essere «privati»? Si trovi una soluzione. Ma, con la brutta aria che tira in Europa e coi nuvoloni che si addensano da noi, l'intera classe dirigente a partire dallo stesso Mario Monti non può permettersi neppure di dare l'impressione di tenersi stretti certi doni, oggi impensabili, di una stagione che va dichiarata irrimediabilmente finita.
Gian Antonio Stella

l’Unità 28.11.11
La laicità del Pd e i religiosi del maggioritario
di Cristoforo Boni


Il Pd è un partito che può vivere con qualunque sistema elettorale: non ha bisogno del maggioritario per definire la propria identità. Per aver detto queste cose, che rappresentano peraltro un atto di fiducia verso il futuro del Pd, Dario Franceschini è stato bersaglio di critiche: per qualcuno in casa democratica l’implicita apertura a una riforma di tipo proporzionale è quasi una bestemmia (contro la religione del maggioritario, s’intende).
Nell’emergenza economica, parlare di legge elettorale può apparire un diversivo. Ovviamente, altre sono oggi le priorità. Tuttavia il tema è di grande rilievo. Almeno per due ragioni. La prima riguarda, appunto, la natura del Pd. Contestare le affermazioni di Franceschini vuol dire avventurarsi nel territorio più ostile al Pd, abbracciando di fatto la tesi in base alla quale la sua fondazione è figlia di uno stato di necessità, indotto dalla costrizione del maggioritario. Il Pd non sarebbe nato dunque da un incontro di culture riformatrici, o dal proposito di dare un orizzonte “democratico” al centrosinistra cresciuto con l’Ulivo, ma dalla gabbia maggioritaria imposta nella (fallita) transizione istituzionale. E, senza la gabbia, il Pd sarebbe destinato a disintegrarsi.
Peraltro, sostenere che il Pd possa vivere e affermarsi come la forza più rappresentativa dei progressisti italiani qualunque sia l’assetto del sistema (maggioritario, proporzionale o misto) è la convinzione originaria del progetto. La stessa “vocazione maggioritaria”, il tratto più significativo della stagione di Walter Veltroni, sarebbe fortemente ridimensionata in uno schema dove il maggioritario diventa una necessità: non a caso il Pd fu apprezzato come via d’uscita dalla confusione dell’Unione e ottenne un risultato lusinghiero (pur nella sconfitta) in uno schema di gioco molto simile al “modello tedesco”, con due competitori maggiori (Pd e Pdl) e due forze intermedie (l’Udc e la Sinistra).
Ma c’è un’altra ragione che milita a sostegno di Franceschini. Alla fine del ciclo berlusconiano è arrivata l’ora di sfatare i falsi miti della Seconda Repubblica. Bipolarismo e maggioritario non sono affatto sinonimi. Il bipolarismo è un concetto che appartiene alla politologia. Mentre invece il maggioritario è un meccanismo elettorale. Non è vero che la cosiddetta Seconda Repubblica ha portato il bipolarismo: è vero invece che il bipolarismo è stato presente sin dalle origini della nostra Repubblica. Solo che nei primi trent’anni non ha mai prodotto, per ragioni internazionali, una vera democrazia dell’alternanza.
Tanto è connaturato il bipolarismo alla politica italiana che la sua crisi strutturale, negli anni Ottanta (quando il Psi di Craxi tentò di sviluppare l’alternanza all’interno di una maggioranza bloccata), ha provocato il collasso del sistema. Con la Seconda Repubblica abbiamo conquistato la democrazia dell’alternanza. Ma il meccanismo maggioritario non ha mai davvero funzionato. Il mito dell’elezione diretta del premier si è sempre scontrato con i principi costituzionali. La promessa della semplificazione è stata contraddetta dalla moltiplicazione dei partiti e dal dilagare del trasformismo. Il Porcellum ha accentuato i difetti del Mattarellum, aggiungendo le liste bloccate al cancro del maggioritario di coalizione (il nostro surrogato presidenzialista dentro un sistema di governo parlamentare).
Speriamo che con il governo Monti si riesca ad uscire da questa condizione di inferiorità, che penalizza innanzitutto il Paese impedendo governi efficaci. Il Pd può andare al confronto molto laicamente. Non è fedele di alcuna religione del maggioritario. Probabilmente la soluzione migliore dovrà essere cercata in una formula mista, con una componente proporzionale significativa e con fattori di disproporzionalità che aiutino a formare, attorno al leader del primo partito, una coalizione efficace di governo. Speriamo che il radicamento territoriale degli eletti venga sancito da collegi uninominali maggioritari (che funzionano in Germania, come in Francia, come in Gran Bretagna).
Sarebbe bello infine se la coalizione di governo fosse incentivata a formarsi davanti agli elettori attraverso il doppio turno. Ma per il Pd neppure il turno unico è una minaccia esistenziale. La minaccia piuttosto è un’altra: è la logica perversa del maggioritario di coalizione (peraltro sconosciuta nei Paesi occidentali). Questa sì corroderebbe la struttura del Pd minandone l’autonomia e la credibilità. Il maggioritario di coalizione riporterebbe per forza d’inerzia il Pd all’Unione. Invece un bipolarismo sano può essere ricostruito attorno a due forze con vocazione maggioritaria, lasciando alle forze intermedie la libertà di organizzarsi e di coalizzarsi. Con alcuni paletti: soglia di sbarramento significativa e nessuna pretesa di imporre una leadership senza che il relativo partito abbia conquistato il primato dei consensi. Ancora un mito da sfatare: per stabilizzare i governi vale molto di più la sfiducia costruttiva che le balle raccontate per vent’anni sul premier eletto dal popolo e unto dal Signore.

l’Unità 28.11.11
Il Pd stacca il Pdl
Crescono Terzo Polo astenuti e incerti
Se si votasse oggi i Democratici col 28 per cento otterrebero 3 punti e mezzo in più del partito di Alfano. Il centrosinistra prevarrebbe nettamente
Le incognite riguardano le divisioni a sinistra e il dopo Berlusconi a destra
di Carlo Buttaroni


L’apprezzamento nei confronti del Capo dello Stato e del nuovo Presidente del Consiglio non frena la crisi di fiducia più generale verso il sistema politico. Il termometro del consenso ai partiti punta verso il basso, con una diminuzione dell’area della partecipazione elettorale e una contestuale crescita della quota di apatia politica che si traduce in incertezza e astensionismo.
Alle politiche del 2008 l’area del non voto era al 22,5, oggi la quota di chi dichiara che non voterebbe o è incerto è sopra il 36 percento.
Una dinamica che suona come un campanello d’allarme per i partiti impegnati a disegnare la nuova geografia politica del dopo-Berlusconi.
La ricerca Tecné sulle stime di voto e i flussi di consenso impone, quindi, una lettura dei dati diversa da quella tradizionale, non più nella direzione di chi guadagna voti, ma di chi è in grado di ridurre al minimo i consensi in uscita verso l’area dell’astensione.
La fotografia che emerge dalla curva del consenso, calcolata sul totale degli elettori, mette in evidenza, infatti, una calo di voti per entrambe le coalizioni rispetto al 2008 e una lieve crescita dei partiti che costituiscono il terzo polo. In particolare il centrodestra perde 16 punti rispetto alle politiche con un decremento costante e progressivo e con la punta più bassa registrata proprio nel mese di novembre 2011.
Il centrosinistra, al contrario, ha un andamento più stabile nel corso delle rilevazioni, con un massimo dei consensi a luglio (33,1%) e un minimo a novembre (29,5%), registrando un saldo negativo di circa 3 punti percentuali rispetto alle politiche 2008.
La coalizione di Casini, Fini e Rutelli cresce in consensi ma l’incremento si rileva meno consistente di quanto appaia a una prima lettura. I flussi evidenziano, infatti, che solo una minima parte dei voti in uscita dal Pdl si sposta verso il terzo polo – privilegiando Futuro e libertà – mentre la grande maggioranza degli ex elettori del partito di Berlusconi sceglie di astenersi.
Se si votasse oggi – sulla base delle percentuali di chi esprime il voto Il PD sarebbe il primo partito con il 28 percento, mentre il Pdl scenderebbe dal 37,4 del 2008 al 24,5.
Il centrosinistra vincerebbe le elezioni con un vantaggio di circa 13 punti rispetto al centrodestra, mentre il terzo polo, pur crescendo in termini relativi, si fermerebbe al 14 percento.
Ma proprio l’elevato numero d’incerti, e la tendenza ad astenersi che riguarda quasi quattro italiani su dieci, rende difficile qualsiasi previsione. Basta riflettere su questo dato: se chi dichiara l’astensione oggi rivotasse lo stesso partito del 2008, il Pdl sarebbe al 30,5 percento dei voti, il Pd al 28,5 percento e la differenza tra centrosinistra e centrodestra, da 13 punti, si ridurrebbe a 4,5.
Al momento il quadro elettorale somiglia molto, a parti invertite, a quella uscita dalle urne nelle elezioni politiche del ’94, con un’area centrista tra il 12 e il 14 percento alternativa alle due principali coalizioni. Ma oggi, probabilmente, né Fini, né Casini, né Rutelli pensano a una corsa solitaria. Molto dipenderà da come evolverà la crisi del Pdl nei prossimi mesi, perché è evidente che un ruolo forte di Berlusconi rende impossibile, o perlomeno difficilissima, qualsiasi ipotesi di alleanza tra centristi e Pdl. Nel caso, comunque, la Lega dorebbe stare alla finestra.
Per Casini e Rutelli, sul fronte opposto, il Pd rappresenta un interlocutore privilegiato, anche in virtù delle sincronie attivate condividendo i banchi dell’opposizione. Nel centrosinistra, però, ci sono le variabili Idv e Sel. Più facile risolvere la prima, quasi irrisolvibile la seconda, perché indebolirebbe la prospettiva di consolidamento del terzo polo in quell’area d’ispirazione cattolica che rappresenta la stella polare della neocoalizione centrista. D’altronde anche nel Pd c’è chi non vede bene l’alleanza con Casini, proprio per non rischiare di mettere in crisi i rapporti con Sel e Idv.
Mentre il terzo polo si prepara a una partita che si deve ancora giocare, a complicare il quadro politico ci sono le dissonanze all’interno del Pd.
Ormai è impossibile tracciare una mappa chiara delle posizioni e delle iniziative che si sovrappongono e contrappongono. E non passa giorno che qualche dirigente non polemizzi con qualcun altro. Fra rottamatori, conservatori, innovatori, riformatori, liberali, progressisti, tra chi guarda a sinistra e chi guarda al centro, il Pd sembra un partito di addetti al montaggio che dibattono continuamente su come dovrebbe essere, su quello che andrebbe fatto, sulle parole che andrebbero dette, sulle posizioni che andrebbero prese, perdendo di vista la concretezza dell’immanente. Scrive un esponente democratico sulla sua pagina Facebook: adesso che non c’è più Berlusconi nel Pd tira una brutta aria. Una battuta che fotografa una situazione e la dice lunga sul fatto che l’uscita di scena dell’ex Presidente del Consiglio impone una veloce riconfigurazione della sintassi politica. In questo momento, anche se il consenso gonfia le vele del partito di Bersani, i democratici appaiono più deboli dal punto di vista politico di quanto registrino i sondaggi, proprio a causa delle divisioni interne e – per la legge dei vasi comunicanti – il Pdl e il terzo polo più forti politicamente di quanto siano realmente dal punto di vista dei voti.
Senza dimenticare che la storia recente è presagio di cattive pratiche: l’ultimo Governo Prodi, nacque nel 2006 e cadde due anni dopo, lacerato dalle divisioni all’interno dei partiti.
Il centrosinistra ha l’occasione a breve, se sarà in grado di trasformare in voti il consenso potenziale che registrano i sondaggi, di tornare al governo del Paese. E’ evidente, però, che per riuscirci deve fare un salto in avanti, non solo dal punto di vista della proposta politica, ma anche nella costruzione di un’identità condivisa e nella capacità di comunicarla. Ed è proprio sotto quest’aspetto che i democratici giocano un ruolo fondamentale. Il centrosinistra può vincere solo con un Pd forte e unito, capace di interpretare, orientare e attrarre quote di società sempre più ampie. Ma il Pd, per completare la sua evoluzione, ha bisogno di percorrere l’ultimo miglio, perché l’uscita di scena di Berlusconi, di fatto, ha dissolto i perimetri dell’antiberlusconismo, che favorivano il consenso e l’unità sulla base di una semplice scelta di campo. E deve fare in fretta perché, ancora oggi, sembra immerso in un eterno congresso che dovrà definire, in un indefinito futuro, la linea politica e l’identità dei democratici.
Bersani, nella partita interna al Pd, è di mano, ma è evidente che non può giocare da solo e occorre una presa in carico di responsabilità da parte di tutto il gruppo dirigente, compreso quello territoriale. Nei prossimi mesi, per i democratici, passerà l’ultimo treno e per salirci il Pd dovrà essere più partito e più unito di quanto appaia ora. Di certo altri treni non passeranno.

Repubblica 28.11.11
I ragazzi e i generali
L’ultima sfida di piazza TahrirAl via la maratona elettorale nel più grande Paese arabo: oggi inizia il voto, a giugno la scelta del presidente. Ma la rivoluzione è tutt´altro che compiuta
di Bernardo Valli


Oggi l´Egitto va alle urne per la prima volta dalla caduta di Mubarak: sarà una maratona elettorale di sei mesi e i ragazzi della rivolta temono la truffa dei militari. La posta in gioco è alta, il futuro della democrazia: così i giovani cercheranno di non far morire la rivoluzione
In duecento giorni ci saranno quindici o più appuntamenti al voto. Troppi per l´elettorato
Gli oppositori disposti a credere nell´elezione promossa dal regime sono pochi
Per la maggioranza silenziosa i generali sono la spina dorsale della nazione

IL CAIRO Più che un voto è una maratona. Una marcia di resistenza destinata a durare più di sei mesi. Ci vorrà un bel fiato politico per arrivare a un risultato, a un traguardo democratico che non si riveli un miraggio. Ma questo voto egiziano, il cui svolgimento si annuncia impervio prima ancora dell´esito, deve essere seguito come la tappa di un lungo processo rivoluzionario. È un importante momento dell´irrisolto confronto tra le forze del rinnovamento e quelle della conservazione. La rivolta di gennaio non si è conclusa con l´avvenuta esautorazione del rais; se è riesplosa dieci mesi dopo è perché la posta in gioco è più profonda: è storica e culturale. Il vecchio regime, il sistema politico e sociale in vigore resiste agli assalti della rivoluzione. E le rivoluzioni hanno tragitti lunghi. È in questa prospettiva che va seguita la maratona elettorale che comincia stamane nel più grande paese arabo.
La conclusione è prevista in un ancora imprecisato giorno di giugno: quando, formatisi i due rami del parlamento, eletti separatamente, a distanza di due mesi, e ognuno in tre tempi (nove province per volta su ventisette), gli egiziani sceglieranno infine un presidente. Contando i ballottaggi e un paio di referendum, per approvare la Costituzione e forse per decidere sul potere dei militari, nell´arco di circa duecento giorni, ci saranno quindici o più appuntamenti elettorali.
Troppi, anche per un elettorato paziente come quello egiziano. Il voto è simultaneo alla rivoluzione di piazza Tahrir. Questa è la sua peculiarità. Quello di oggi riguarda la camera bassa, l´Assemblea del popolo, ed è limitato alle grandi città: il Cairo, Alessandria, Assiut, Porto Said. Le altre province andranno alle urne fino ai primi giorni di gennaio. La camera alta (Shura) sarà eletta tra gli ultimi giorni di gennaio e i primi di marzo. Poi ci saranno i referendum e l´elezione presidenziale. Alla vigilia del primo voto vado in piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione. Alcune migliaia di cairoti assiepati danno l´impressione di un accampamento ancora insonnolito. Il sole non è abbastanza alto per riscaldare le sponde del Nilo. La piazza non si presenta come l´arena rivoluzionaria che ha messo in crisi un regime militare, cacciato un rais e gettato il panico tra monarchi ed emiri del mondo arabo. Una piazza dove sono stati uccisi negli ultimi giorni quarantun giovani e feriti almeno un migliaio. E dove hanno perduto la vista decine di manifestanti investiti dai gas nervini.
L´aria di smobilitazione non deve ingannare. La folla riempie la piazza, fino a traboccare nei quartieri vicini, a investire i palazzi del governo e a paralizzare il Lungonilo, nei momenti di tensione. Lo stesso accade ad Alessandria, a Porto Said, ad Assiut. Gli irriducibili di piazza Tahrir in quelle occasioni attirano masse di egiziani di tutte le classi sociali: dagli operai ai professionisti, dagli studenti ai disoccupati. Di primo mattino, in un giorno che non sembra riservare sorprese, senza collera e repressione, a poche ore dal voto, ho l´impressione di essere in una numerosa adunata di anarchici sobri e taciturni. Niente simboli di partito, niente ritratti di leader, niente palchi per gli eventuali oratori.
I giovani disposti a credere nell´elezione ininterrotta promossa dai generali sono pochi. Molti la giudicano una trappola, una specie di terapia di massa tesa a sfiancare la rivolta e a riportare l´ordine nel paese grazie alla guida dei militari. Dopo una notte passata in un sacco a pelo, Wael Abu Hamad, 25 anni, dei quali tre in Inghilterra a studiare economia, dice senza esitare: «È una truffa». Un imbroglio ben programmato perché, anche per la sua durata, l´elezione sarà facilmente truccata. E i generali cercheranno di dimostrare al mondo che loro sono capaci di organizzare libere elezioni. Lui, Wael, pur essendo indignato, pur denunciando la manovra subdola dei militari, andrà comunque a votare. Ma poi ritornerà in piazza Tahrir per mantenere accesa «la fiamma della rivoluzione». E con gli irriducibili denuncerà gli imbrogli e promuoverà manifestazioni che smaschereranno il regime.
Ci si perde volentieri tra gli abitanti del grande accampamento di piazza Tahrir. Si esprimono con chiarezza e i loro discorsi sono maturati rispetto a quelli di gennaio. Dieci mesi dopo non si limitano ad esigere che i militari abbandonino il potere. La loro protesta implica una profonda riforma del sistema politico e sociale. Gli obiettivi immediati sono la destituzione del maresciallo Tantawi, ex braccio destro di Hosni Mubarak e adesso capo della giunta militare (il Consiglio superiore delle Forze armate), e il rifiuto del primo ministro da lui designato, il vecchio economista Kamal el Ganzuri, ex capo del governo pure lui di Mubarak. Ma c´è anche l´obiettivo più ampio di riformare la società dominata dalla classe militare, una casta formatasi nei decenni, che invade tutte le attività più importanti della vita nazionale: dall´economia all´industria alla stessa giustizia, affidata in larga parte ai suoi tribunali.
I militari hanno destituito in febbraio il loro capo, Hosni Mubarak, adesso imputato, con i figli e una manciata di complici civili, in un processo che sembra impantanato, ma è come se avessero gettato fuori bordo una zavorra, pensando di poter cosi salvare l´essenziale del regime. Vale a dire se stessi. Raccolti nel Consiglio supremo delle Forze armate, composto da una ventina di generali, si sono sostituiti al capo dello Stato. Una specie di presidenza collettiva, contestata, vilipesa, e tuttavia dotata di tutti gli strumenti di un regime autoritario: i mukabarat, i poliziotti (numerosi come gli scarafaggi, dice il giovane Wael di piazza Tahrir), continuano a tenere sotto sorveglianza il paese, come un tempo.
I generali reprimono e poi si scusano. Annunciano che si ritireranno dal potere politico ma chiedono garanzie per conservare i loro privilegi, anche quelli politici. E hanno programmato la maratona elettorale, destinata a rinnovare le istituzioni e la stessa Costituzione, ma non hanno nascosto l´intenzione di collocarsi al di sopra della Costituzione (suggerendo che il paese approvi questo singolare privilegio con un referendum). Hanno altresì chiesto che il loro bilancio rimanga segreto. Quest´ultima esigenza sarebbe giustificata dal ruolo decisivo che le forze armate egiziane hanno in Medio Oriente. Esse sono garanti degli accordi di Camp David (1979), su cui si basano i rapporti tra Egitto e Israele, e di riflesso quelli con gli Stati Uniti. I quali danno ogni anno un miliardo e trecento milioni di dollari all´esercito del Cairo. Un aiuto secondo soltanto a quello elargito all´esercito israeliano. Il recente richiamo della Casa Bianca, che ha invitato con toni asciutti i militari egiziani a trasferire i poteri ai civili, deve avere preoccupato i generali. Anche se essi sanno di essere interlocutori indispensabili alla super potenza, per quel che riguarda la pace mediorientale.
Per la maggioranza silenziosa egiziana i militari sono la spina dorsale del paese. La loro forza risiede in quella larga parte della popolazione. I rivoluzionari di piazza Tahrir raccolgono l´adesione della società civile, di una qualificata parte della popolazione urbana, ma l´Egitto rurale, prigioniero delle tradizioni e dei richiami religiosi, non ha le stesse reazioni. La principale formazione politica, il Partito della Libertà e della Giustizia, emanazione della Confraternita dei Fratelli Musulmani, dopo avere partecipato alle grandi manifestazioni di protesta di piazza Tahrir, ha assunto una posizione molto più moderata, e in definitiva tollerante se non sottomessa, nei confronti dei militari. Sui quali conta per far rispettare l´inevitabile successo elettorale dei Fratelli musulmani.
L´"alleanza per la continuità della rivoluzione", in cui sono raccolti i partiti di sinistra e i musulmani progressisti, oltre a non pochi cristiani copti, rifiuta il confronto tra laici e musulmani che ha prevalso nella campagna elettorale degli altri partiti, e pone soprattutto il problema della giustizia sociale e del potere dei militari. Ma pur essendo uno dei motori della protesta, può difficilmente concorrere con i Fratelli Musulmani e con la maggioranza silenziosa, in cui sono annidati anche i partiti nostalgici di Mubarak. La maratona elettorale è quindi al tempo stesso un essenziale esercizio democratico e un´abile operazione dei militari. In essa possono infatti dissolversi, sia pur per breve tempo, le forze rivoluzionarie di piazza Tahrir.

Repubblica 28.11.11
È arrivato il gran giorno ma senza le trombe del giudizio
di Niccolò Ammaniti


"Dio ha tolto a tutti gli uomini l´anestetico che ti permette di vivere senza soffrire e di divertirti. Come se fossimo torturati 24 ore al giorno"
"Alla Asl distribuiscono gratis ogni tipo di droga, pure l´oppio ma non serve a niente Che strano, nessuno aveva pensato a questa punizione"
L´anticipazione/ Niccolò Ammaniti descrive la "sua" fine del mondo nel racconto sul prossimo numero di "Wired"
"Non ci sono stati terremoti e piogge di meteoriti. Mi sono svegliato e tutto mi faceva male"

Cara Franci, ti scrivo innanzitutto per sapere come stai tu e come sta Eric e i vostri figli meravigliosi. E poi volevo sapere se pure in Australia è arrivata l´apocalisse. Manu dice che non è detto che sia arrivata pure laggiù, voi siete in un altro emisfero e che l´Australia è un paese abbastanza vergine e che la gente lì non può aver commesso lo stesso numero di peccati che qui.
Secondo me è una stronzata. Non ci può essere una apocalisse a metà, solo mezzo mondo. E poi alla televisione dicevano che era un problema globale. Ma vatti a fidare. Comunque spero tanto che a voi non sia arrivata e abbia ragione Manu. Comunque io e Manu continuiamo a litigare nonostante l´apocalisse. Da un paio di anni non si parlava altro che di questa benedetta apocalisse che sarebbe arrivata e saremmo morti tutti. Soprattutto gli esperti, in televisione, avevano ognuno una ricetta su come sarebbe avvenuto. In tanti concordavano su sta storia della Bibbia dei cavalli colorati.
La conosci? L´Anticristo arriva sopra un cavallo bianco ad annunciare la fine della terra. Poi arriva un cavallo rosso che fa scoppiare una guerra totale su tutta la terra tra tutti i paesi. Poi un cavallo nero che porta fame e carestia e anche in conseguenza della guerra. E per finire un cavallo giallo, dopo 21 mesi, quando un quarto della popolazione è morta. Di questi cavalli non c´è stata traccia, o almeno, qua da noi, a Pistoia, non si sono visti. E non ci sono stati nemmeno terremoti e piogge di meteoriti e rane. Però l´apocalisse c´è stata. È arrivata così, il tre di Marzo, in una giornata nuvolosa, senza trombe del giudizio ad annunciarla. Mi sono svegliato la mattina e ho scoperto che mi faceva male tutto. Qualsiasi parte del corpo. Ogni movimento, anche solo piegare un dito mi faceva male. Persino sbattere le palpebre fa male. Un dolore costante che non mi ha abbandonato più. Tutti, dai vecchi ai bambini, uomini e donne, nessuno risparmiato. Camminare è quasi impossibile senza urlare. È difficile da spiegare. Ma qualsiasi processo biologico produce dolore. Pure la crescita della barba, dei capelli e delle unghie. I denti sono tutti irritati. Digerire poi ti lascia praticamente senza fiato, cominci a piangere. E a livello microscopico, anche la divisione cellulare fa male. Dio ha tolto a tutti gli uomini l´anestetico che ti permette di vivere senza soffrire e di divertiti, di campare in santa pace.
Sai quella storia delle endorfine che vengono prodotte dal nostro cervello per farci stare meglio? Ho capito che i tessuti, le cellule, il sangue stesso soffre per esistere e che Dio (e pensare che io non credevo) aveva infuso insieme alla carne sostanze anestetiche che ora, per punirci, ci ha tolto. Non abbiamo più niente che ci protegge e ogni secondo di vita è un martirio. Come se fossimo torturati ventiquattro ore al giorno senza pause. Scopare, scusa se mi esprimo così, è praticamente impossibile. L´altro ieri ho avuto un´erezione e per poco non sono svenuto a terra. Di eiaculare non se ne parla. Non vedo come si riuscirà a fare figli. E le donne incinte sono quelle che soffrono di più, tutte abortiscono in preda a spasmi lancinanti.
Detto ciò, non la voglio buttare sul drammatico esagerato, forse passerà. Forse il Padreterno ci sta mettendo alla prova con questa punizione ma poi ci rifonderà questa droga naturale, la felicità che rendeva la vita degna di essere vissuta. I medici non sanno che fare. Le droghe non funzionano. Alla ASL (azienda sanitaria locale) distribuiscono gratis ogni tipo di droga e anestetico, pure l´eroina e l´oppio. Ma non serve a niente. Che strano, nessuno aveva pensato a questa punizione. Era la peggiore di tutte. Tutti a parlare di punizioni assurde. Ora però pure parlare è impossibile. Le corde vocali le usiamo oramai solo per lamentarci. Ora devo smettere di scrivere, la mano mi si sta paralizzando e gli occhi mi si appannano, anche guardare fa male. Di là il piccolo Ettore non smette di piangere da un mese e Manu quando lo allatta deve stringere una pezza tra i denti per non implorare pietà.
Spero tanto che lì da voi non sia così. Se a voi non è successo, dovete pensare che la vita che vivete è meravigliosa, gustatene ogni secondo, respirate a pieni polmoni, correte, baciatevi, fate l´amore, godete il fatto di vivere liberi dal male. Franci ti voglio tanto bene. Ah, non ti ho detto che ogni battito del cuore è una fitta che mi strappa un sottile lamento.
tuo, Filippo.

Corriere della Sera 28.11.11
Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua
De Mauro: cresce l'analfabetismo di ritorno
di Paolo Di Stefano


«Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto...». Così Luigi Settembrini ricordava quanto conti la lingua nell'identità e nella coesione di un popolo. Purtroppo, se oggi si dovesse giudicare dal livello di padronanza dell'italiano il grado di attaccamento alla nazione, saremmo davvero messi molto male. La salute della nostra lingua, infatti, sembra piuttosto allarmante, almeno a giudicare dai dati che Tullio De Mauro ha illustrato ieri a Firenze, durante un convegno del Consiglio regionale toscano intitolato «Leggere e sapere: la scuola degli Italiani».
Tra i numeri evocati da De Mauro e fondati su ricerche internazionali, ce ne sono alcuni particolarmente impressionanti: per esempio, quel 71 per cento della popolazione italiana che si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Al che corrisponde un misero 20 per cento che possiede le competenze minime «per orientarsi e risolvere, attraverso l'uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana». Basterebbero queste due percentuali per far scattare l'emergenza sociale. Perché di vera emergenza sociale si tratta, visto che il dominio della propria (sottolineato propria) lingua è un presupposto indispensabile per lo sviluppo culturale ed economico dell'individuo e della collettività.
Fu lo stesso Tullio De Mauro quasi cinquant'anni fa, in un libro diventato un classico, Storia linguistica dell'Italia unita, a segnalare il contributo non solo della scuola ma anche della televisione nell'apprendimento di una lingua media che superasse la frammentazione dialettale. Si assisteva in quegli anni al declino del dialetto e contemporaneamente al trionfo di quell'italiano popolare unitario che avrebbe portato, secondo le previsioni dei linguisti, a un innalzamento delle conoscenze linguistiche in parallelo con il progresso economico, culturale e civile. Nel 1973, Pier Paolo Pasolini aprì una discussione: il tramonto del dialetto equivaleva per lui all'abbandono dell'età dell'innocenza e all'entrata nella civiltà dei consumi e nell'età della corruzione. Gli fu risposto che la conquista dell'italiano da parte delle classi subalterne, come si diceva allora, era piuttosto la premessa e la promessa della loro promozione sociale.
Oggi, a quarant'anni da quelle accesissime polemiche tra apocalittici e integrati, tra nostalgici delle parlate locali e fautori delle magnifiche sorti e progressive, sembrano tutti sconfitti di fronte al pauroso ristagno economico, culturale e linguistico. L'allarme lanciato da De Mauro chiama in causa anche il nuovo governo, che finora, ha detto lo studioso, «sembra aver dimenticato l'istruzione». Istruzione e scuola sono i due concetti chiave. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel '51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica. Non deve dunque stupire che il 33 per cento degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari, e che persista un 5 per cento incapace di decodificare qualsivoglia lettera e cifra. Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come avviene per le nozioni matematiche).
Non bisognerebbe mai dimenticare che la conoscenza della lingua madre è il fondamento per lo studio delle altre discipline scolastiche e delle altre lingue (inglese compreso), così come è alla base della capacità di orientarsi nella società e di farsi valere nel mondo del lavoro. Sembrano constatazione banali, ma non lo sono affatto in un contesto in cui l'insegnamento dell'italiano nelle scuole soccombe all'anglofilia diffusa e la lettura, sul piano sociale, è nettamente sacrificata rispetto all'approccio visivo, comportando vere mutazioni psichico-cognitive. Se ciò risulta vero, non è eccessivo affermare che l'emergenza culturale, nel nostro Paese, dovrebbe preoccupare almeno quanto quella economica.

Repubblica 28.11.11
Il maestro, che ieri a Roma ha diretto il Macbeth, non fa nomi, accusa e precisa: io pago le tasse qui
L’ira di Muti sui colleghi evasori "Vivono fuori e sputano sull´Italia"
Molti, direttori, registi e cantanti, non hanno la residenza in Italia. Ma non sopporto che poi polemizzino
di Luisa Grion


ROMA - Troppo facile e troppo scorretto lanciare il sasso e nascondere la mano, criticare le mancanze dell´Italia, polemizzare con i suoi vertici politici e le sue istituzioni, ma non versare un euro di tasse nelle casse dello Stato. Fra i «vip», uomini e donne, dello spettacolo e dello sport ce ne sono diversi che - pur di pagare meno imposte - decidono di trasferire la residenza all´estero, verso regimi fiscali più favorevoli. Anche se nei fatti vivono in Italia, sfruttando servizi che non contribuiscono a finanziare.
Ed è a loro che, pur senza fare nomi, ha pensato ieri il maestro Riccardo Muti prima di inaugurare la stagione dell´Opera di Roma con il «Macbeth», dramma shakespeariano sulla tirannide che cade grazie all´eroismo del popolo insorto. Mancavano poche ore al debutto quando il maestro, ai microfoni di Radio 24 ha tuonato contro i «furbi». Un´accusa precisa e che non lascia scampo: «Ho la residenza in Italia e so che molti miei colleghi, direttori, registi e cantanti, non hanno la residenza qui» ha detto. «E´ una loro scelta e ognuno è libero di fare quello che vuole. Però non sopporto chi poi polemizza contro la politica e i ministri: non si può tenere la residenza fuori e poi sputare sul proprio paese». Muti è appena stato premiato con il «Paolo Borsellino, eroe italiano» che gli è stato conferito per «gli altissimi meriti artistici e morali»: «E´ chiaro che questo premio sarà tassato - ha detto il maestro - ma sono comunque contento di avere la residenza fiscale qui».
Eppure sono in tanti Italia, paese di grandi evasori, a non pensarla come lui. Si susseguono gli appelli, ma la cattiva abitudine non muore. Le cronache giudiziarie sono gonfie delle storie di «vip» richiamati dal fisco a saldare i debiti dalle loro paradisiache residenze fiscali. Va detto che spesso si tratta di personaggi che i conti con l´Agenzia delle Entrate li hanno subito regolati, ma l´elenco delle pendenze - fra artisti e sportivi - è davvero molto lungo. Per restare nell´ambito dell´opera ebbe problemi fiscali, conclusi poi con un patteggiamento, il grande tenore Luciano Pavarotti. Qualche guaio, sempre per restare in tema, lo sta passando anche la soprano Mirella Freni, indagata nei giorni scorsi dalla Procura di Bologna non per evasione, ma per esportazione di valuta all´estero nell´ambito dell´inchiesta sulla banca Ber. La soprano ha respinto la tesi e ha già chiesto di essere convocata dalla Finanza per chiarire la sua posizione.
Passando dalla classica al pop, pochi giorni fa anche a Tiziano Ferro sarebbe stata contestata la residenza a Londra, l´effettiva presenza in Italia e una evasione di imposte per 5 milioni di euro fra sanzioni e interessi. Sempre per essersi dichiarato cittadino londinese ebbe i suoi guai la star della moto Valentino Rossi, che patteggiò nel 2008. Ancor prima, nel 2000 a patteggiare con il fisco fu il campione di sci Alberto Tomba. Una lista lunghissima, quella dei «vip» con cattivi rapporti con il fisco: va dagli artisti agli sportivi, senza trascurare le star della moda. La scorsa settimana la Cassazione ha annullato l´ordinanza con cui, ad aprile, gli stilisti Dolce e Gabbana erano stati prosciolti dall´accusa di evasione fiscale.

l’Unità 28.11.11
I dannati di Herzog
Into the Abyss il nuovo lavoro del regista tedesco arriva al Torino Film Festival. È un resoconto di un brutale omidicio ma anche un viaggio negli abissi dell’animo. Un film di una forza potente e oscura, tra i suoi più belli
di Alberto Crespi


Forse A sangue freddo ha trovato un degno erede. Ci riferiamo al celebre romanzo/reportage di Truman Capote, nonché all’omonimo film di Richard Brooks (1967). Il resoconto di un brutale omicidio che era anche un viaggio negli abissi dell’animo umano. Il nuovo film di Werner Herzog si intitola Into the Abyss, «dentro l’abisso». Vedendolo – al Torino Film Festival – si ha veramente l’impressione di scrutare dentro una voragine di dolore e di solitudine.
È un documentario, ma quando c’è in ballo il grande tedesco la distinzione si fa sfumata. Da anni Herzog ha trovato nelle storie autentiche lo strumento migliore per proseguire la sua indagine cinematografica nella follia umana. I capolavori, in questo senso, rimangono Apocalisse nel deserto – sulla prima guerra in Iraq – e Grizzly Man. Per Into the Abyss, Herzog ci porta in Texas, sulle tracce di un triplice omicidio commesso nel 2001 da due ragazzi, Michael Perry e Jason Burkett. I due uccisero la signora Sandra Stotler per rubarle la macchina, e altri due giovani – un figlio della Stotler e un suo amico – per impossessarsi del telecomando del cancello dal quale dovevano fuggire con l’auto rubata. Perry è stato giustiziato con l’iniezione letale nel 2010, Burkett è condannato all’ergastolo. Herzog li ha intervistati entrambi in carcere, e naturalmente il colloquio con Perry è toccante, perché avviene 8 giorni prima dell’esecuzione. Entrambi i ragazzi hanno sempre giurato di essere innocenti, anche se il loro coinvolgimento nel crimine appare indiscutibile. Al regista, la verità giudiziaria interessa relativamente: «I crimini di cui si sono macchiati le persone nel mio film sono mostruosi, ma non sono mostri coloro che li hanno commessi. Sono uomini e per questo li tratto con rispetto».
LE VITTIME DI HUNTSVILLE
In realtà, Into the Abyss non è l’intervista con due assassini (non reo-confessi). È molto, molto di più. Herzog incontra anche il padre di Burkett (come lui in galera, per una serie infinita di reati), la moglie che l’ha sposato in carcere ed ora è incinta pur non avendo mai potuto nemmeno toccarlo (come sia successo, è un «mistero» su cui Herzog e la signora glissano con ironia), i parenti delle vittime e alcuni testimoni neutrali, come l’ex direttore del carcere di Huntsville dove lo stato del Texas macella le sue vittime e il cappellano che si occupa della salvezza delle loro anime e della sepoltura dei loro corpi. Grazie a lui scopriamo che, quando un condannato a morte non ha parenti che reclamino la salma (accade spesso), viene sepolto a Huntsville in un agghiacciante cimitero dove sulle croci ci sono solo numeri: una contabilità del massacro che fa pensare, absit iniuria, ad altre stragi altrettanto pianificate...
È un film incredibile, Into the Abyss. Di una forza potente ed oscura, fra i più belli nella carriera di Herzog. Per la cronaca il sito www.savemichaelperry.info è ancora attivo, dategli un’occhiata. Dopo averlo visto, essere a favore della pena di morte è un po’ più difficile.

domenica 27 novembre 2011

La Repubblica, 27.11.2011 - Cultura
Una lezione del grande filosofo sui meccanismi dell´opera del Marchese
Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno. Bensì superare il confine tra la realtà e l´immaginario
MICHEL FOUCAULT
Sade e Justine, se la scrittura diventa desiderio assoluto


Perché scriveva Sade? Cosa poteva significare, per Sade, l´esercizio della scrittura? Dagli elementi biografici che abbiamo su di lui, sappiamo che ha riempito di inchiostro migliaia di pagine, molte più di quelle che si sono salvate. Una quantità ragguardevole si è persa, ogni qualvolta Sade è stato imprigionato. Sade scriveva, infatti, su pezzetti di carta che gli venivano regolarmente sequestrati. È così che ha redatto Le 120 giornate, alla Bastiglia, terminandole credo nel 1788-89. Quando la Bastiglia venne espugnata dai rivoluzionari, quelle pagine gli furono confiscate. Ecco il lato oscuro della presa della Bastiglia: la sparizione de Le 120 giornate del Marchese. Fortunatamente queste pagine vennero ritrovate, ma solo dopo la sua morte. Al tempo, per quella "perdita", Sade versò, è lui stesso a ricordarcelo, "lacrime di sangue". L´ostinazione che Sade ha posto nella scrittura, le sue lacrime di sangue unitamente al fatto che ogni volta che pubblicava un libro veniva sbattuto in galera – ecco, tutto ciò prova che Sade attribuiva alla scrittura un´importanza ragguardevole. Con il termine "scrittura" non bisogna intendere il mero fatto di scrivere, ma il fatto di pubblicare. Poiché – ricordiamocelo – Sade pubblicava i propri testi. E se la fortuna voleva che, mentre li pubblicava, egli fosse fuori di prigione, ciò non impediva che fosse arrestato non appena quei medesimi testi fossero pubblicati. E il tutto proprio a causa della loro pubblicazione.
Da dove viene dunque la serietà della scrittura in Sade? Io credo che a un primo sguardo sia dovuta a un fatto, a più riprese espresso in Justine e Juliette. Sade si rivolge ai lettori non in ragione del piacere che i suoi racconti possono provocare in loro, ma proprio per ciò che di sgradevole può esservi narrato. Lo dice chiaramente: «Non avrete di che provare piacere, ascoltando il racconto di storie tanto raccapriccianti. La virtù punita, il vizio ricompensato, bambini massacrati, ragazzi e ragazze fatti a pezzi, donne incinte impiccate, interi ospedali dati alle fiamme. La vostra sensibilità sarà rovesciata, il vostro cuore non ne potrà più. Ma che cosa volete che vi dica? Non è alla vostra sensibilità, né al vostro cuore che mi rivolgo. Mi rivolgo alla vostra ragione – ad essa solamente. Voglio dimostrare una verità fondamentale, ossia che il vizio viene sempre ricompensato e la virtù punita». Si pone però un problema. Quando seguiamo un romanzo di Sade, ci accorgiamo che non c´è assolutamente logica nella ricompensa del Vizio e nella punizione della Virtù. In effetti, ogni qualvolta Justine, che è virtuosa, viene punita, la punizione non dipende mai dal fatto che abbia commesso un errore di ragionamento, che non abbia previsto qualcosa o sia stata cieca nei confronti di una talaltra cosa. No, Justine ha calcolato perfettamente tutto, ma le capita sempre una qualche terribile sventura. Sventura che attiene all´ordine del caso e come tale la punisce. Justine salva qualcuno? Bene, quando l´ha tratto in salvo, finisce per massacrarlo. Massacra colui a cui ha appena salvato la vita. Qui è il caso, sempre il caso, che interviene, mai la conseguenza logica dei suoi atti. E questo caso determina la punizione. Quando Sade afferma di indirizzarsi «non al vostro cuore, ma alla vostra ragione» non è dunque in questione la razionalità del Vizio, né della Virtù. Sade non si prende seriamente, qui. Ma allora, che cosa vuole fare quando pretende di indirizzarsi alla nostra ragione, mentre l´ossatura del racconto si rivolge a tutt´altro orizzonte? Credo che per capirlo occorra riprendere un passaggio – il solo, in Justine e Juliette – che si riferisce allo scrivere. Juliette si rivolge a un personaggio, a un´amica già perversa, ma non totalmente perversa. Non ancora almeno. Qui si tratta di fare l´ultimo apprendistato, di salire l´ultimo scalino della perversione. Ecco i consigli di Juliette: «Rimanete quindici giorni senza occuparvi di lussuria. Distraetevi, divertitevi con altre cose, ma fino al compimento del quindicesimo giorno non lasciate il minimo spiraglio alla più piccola idea libertina. Poi coricatevi, da sola, nella calma, nel silenzio e nell´oscurità più profonda. Ricordatevi allora di tutto ciò che avete bandito in quei quindici giorni. Date poi alla vostra immaginazione la libertà di presentare differenti modi di pervertirvi. Percorreteli nel dettaglio. Passateli in rassegna. Persuadetevi che tutta la terra vi appartiene e avete il diritto di cambiare, mutilare, distruggere, rovesciare qualunque essere. […] Il delirio si impossesserà di voi. Accendete allora la candela e trascrivete sui fogli la specie di smarrimento che vi ha infiammato, senza dimenticare alcuna circostanza che aggravi i dettagli. Addormentatevi, dopo averlo fatto. L´indomani, rileggete le note e ricominciate l´operazione». Ecco dunque un testo che chiaramente ci mostra un modo di usare la scrittura. Un uso chiaro delle scrittura. Si parte dalla libertà totale assegnata all´immaginazione, si scrive, ci si addormenta, si rilegge, si procede con un nuovo lavoro dell´immaginazione, si passa a una nuova elaborazione per mezzo della scrittura e infine, come dice Sade, alla maniera di una ricetta culinaria: «Commentate…».
Credo si debba studiare a fondo, in maniera più decisa e precisa, questo testo. Chiediamoci allora come funziona, in esso, la scrittura. Direi che in primo luogo la scrittura vi gioca un ruolo intermediario tra immaginario e reale. Sade, o il personaggio in questione, si dà fin dall´inizio alla totalità del mondo immaginario possibile e deve quindi variare questo mondo, superarne i limiti, spostarne le frontiere. Va oltre, proprio mentre credeva di aver già immaginato tutto, ed è questo che va trascritto più volte e solo quando sarà arrivato a una data realtà, allora potrà accedere al famoso: «Commentez ensuite». Come se fosse facile, commentare quando si è sognato di massacrare migliaia di bambini, di bruciare centinaia di ospedali, di far esplodere un vulcano… La scrittura è dunque questo processo, questo momento che ci porta fino a un reale che, a dirla tutta, spinge il reale fino ai limiti stessi dell´inesistenza. La scrittura è ciò che permette di spingersi sempre oltre le frontiere dell´immaginazione. Il principio di realtà o, piuttosto, la scrittura è ciò che a forza di spinte successive sposta il momento della conoscenza oltre l´immaginazione. La scrittura è ciò che forza a far lavorare l´immaginazione, introducendo un ritardo nel momento in cui il reale finemente si sostituirà al principio di realtà. La scrittura spinge la realtà fino a divenire irreale quanto l´immaginazione. La scrittura – ecco la sua prima funzione – abolisce le frontiere tra realtà e immaginazione. La scrittura esclude la realtà, ecco quindi che cancella tutti i limiti dell´immaginario.
Ci sono però altre funzioni che orientano la scrittura. La scrittura, in particolare, cancella il limite temporale, cancella i limiti dello sfinimento, della fatica, della vecchiaia, della morte. A partire dalla scrittura, tutto può continuamente, indefinitamente ricominciare. Ma mai la fatica, mai lo sfinimento, mai la morte si affacceranno in questo mondo della scrittura, che è precisamente l´elemento che cancella la differenza tra principio di realtà e principio di piacere. La scrittura introduce il desiderio nel mondo della verità, togliendo a esso le briglie e i limiti del lecito e dell´illecito, del permesso e del proibito, del morale e dell´immorale. La scrittura introduce il desiderio nello spazio dove tutto il possibile è indefinitamente possibile e illimitato. La scrittura permette all´immaginazione e al desiderio di non incontrare più altra cosa che non sia la sua individualità. Permette al desiderio di essere sempre, in qualche modo, all´altezza della propria irregolarità. In conseguenza di tutte queste illimitazioni prodotte dalla scrittura, il desiderio diventa legge a sé stesso. Diviene sovrano assoluto che detiene la propria verità, la propria ripetizione, il proprio infinito, la propria istanza di verifica. Niente potrà più dire al desiderio «sei falso», niente può rinfacciargli «non sei totalità», niente «è vero ciò che sogni, ma c´è qualcosa che ti si oppone». Niente può più dire al desiderio «ci sei, ma la realtà dice un´altra cosa». Grazie alla scrittura, il desiderio è entrato nel mondo della verità totale, assoluta, illimitata senza possibile contestazione esterna.
Ecco dunque che, osservata da questa prospettiva, la scrittura sadiana non ha come caratteristica il mettere in comunicazione, l´imporre, il suggerire a qualcuno le idee o i sentimenti di un altro. Non si tratta assolutamente di persuadere qualcuno di una verità esterna. La scrittura sadiana è una scrittura che non si indirizza a nessuno. Non si indirizza a nessuno nella misura in cui non si tratta di persuadere a nessuna verità che avrebbe ipoteticamente nella testa, avrebbe riconosciuto e dovrebbe quindi imporre al lettore. La scrittura di Sade è una scrittura assolutamente totalitaria, tanto che nessuno può esserne persuaso in un senso, e nessuno può comprenderla nell´altro. Ecco dunque che per Sade è assolutamente necessario che tutti i suoi fantasmi passino per la scrittura e attraverso la scrittura, in ciò che ha di materiale, poiché, come ci dice il testo di Juliette, è proprio questa scrittura, quella materiale, fatta di segni posti su una pagina che possiamo leggere, correggere, riprendere e via all´infinito – è questa scrittura che mette il desiderio in uno spazio illimitato, dove ciò che è esteriore, il tempo, i limiti dell´immaginazione, le concessioni e i divieti, sono totalmente e definitivamente aboliti.
La scrittura è dunque il desiderio che ha avuto accesso a una verità che nulla può più contenere. Una verità senza limite. La scrittura è il desiderio divenuto verità. Verità che ha preso forma di desiderio. Del desiderio ripetitivo, del desiderio illimitato, del desiderio senza letto, del desiderio senza esteriorità, dove l´esteriorità è la soppressione dell´esteriorità in rapporto al desiderio. Questo è quanto la scrittura porta a compimento, nell´opera di Sade. Ed è la ragione che lo spinge a scrivere.

La Repubblica 27.11.2011
Marocco, vincono gli islamici sconfitti i partiti vicini al monarca
Astensione al 55%, i giovani della Primavera: "Nulla cambia"
Ironia sul web "Ora potremo risparmiare sulle lamette per la barba"
di Giampaolo Caladanu


RABAT - Quando i primi risultati elettorali sono arrivati nella redazione di Lakome, nel centro di Rabat, nessuno si è stupito. Gli islamici moderati hanno vinto, l´affluenza, secondo i dati ufficiali, è stata attorno al 45 per cento. Tutto come previsto: né una delusione, né una sorpresa, per il giornale on line vicino al movimento della protesta giovanile. «Questa è la democrazia, con o senza l´islam», ha dichiarato il vincitore Abdelilah Benkirane, leader del partito di Giustizia e Sviluppo Pjd. «Questa è una vittoria ottenuta con un milione di voti, su 22 milioni di aventi diritto», dice Najib Chouki, cronista di Lakome e punto di riferimento fra i ragazzi del movimento "20 febbraio".
Secondo il ministero dell´Interno, il partito guidato da Benkirane ieri sera aveva già conquistato 80 seggi sui 395 della Camera (e potrebbe arrivare a 100), contro i 47 nella passata legislatura. Al Pjd ci tengono a sottolineare che «l´Occidente non avrà nulla da temere», non c´è pericolo di derive fondamentaliste. Ma i risultati sono ben lontani dalle richieste dei giovani che avevano manifestato sull´onda della "Primavera araba" e che avevano invitato al boicottaggio del voto. Il partito islamico dovrà allearsi con i partiti al potere fino a ieri, primo fra tutti l´Istiqlal, al secondo posto con 45 seggi. Il suo leader Abbas El Fassi si è subito detto disponibile a una coalizione, e pronti a un´alleanza sarebbero i socialisti dell´Usfp (almeno 29 seggi), gli ex comunisti del Pps (11 seggi) e forse persino i berberi del Movimento popolare (22 seggi). Ma «nessun partito aveva un vero programma», spiegano i militanti del movimento, «se non una generica lotta alla corruzione». Ai giovani marocchini il cambiamento appare quasi privo di significato. Non bastano le dichiarazioni pragmatiche dei vincitori sull´omosessualità, che «va praticata in privato», sull´aborto, «possibile in casi circoscritti», sulla pena di morte, «prevista dal Corano, ma che si può non applicare», sul velo, che «è una scelta individuale», e persino sull´alcol, a cui vanno aumentate le tasse e imposti limiti «per ragioni di bilancio e di salute».
Se l´analista Driss Aissaoui lo definisce «un voto di rottura», per la redazione di Lakome non cambia niente nella politica marocchina, che resta controllata dal re. Non è un caso se la maggiore organizzazione islamica di base, Giustizia e carità, ha invitato i membri a non votare. L´appello è stato in parte ascoltato, nonostante i mezzi anche bruschi con cui le squadracce dei partiti tradizionalisti cercavano di impedirlo. Nei seggi di Rabat venerdì non c´era affollamento, qualche breve fila si è formata all´ora di chiusura degli uffici. Secondo molti osservatori internazionali, la percentuale di affluenza diffusa dal ministero dell´Interno appare credibile. Ma i dati percentuali nascondono le cifre assolute dei votanti, modeste anche dopo l´ammissione al voto dei diciottenni. Per i giovani scontenti l´appuntamento è in piazza: oggi è prevista una manifestazione nelle maggiori città, per il 4 dicembre la mobilitazione nazionale nella "Giornata della collera". Ieri, invece, era il giorno dell´ironia: «La gente si è scatenata su Twitter», dicono a Lakome: «oltre a segnalare brogli e compravendita di voti, c´era chi invitava a "comprare birra, finché è ancora possibile" e chi si consolava: "Adesso almeno possiamo risparmiare sulle lamette da barba"».

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
Urna Islamica senza frontiere
Dopo la Tunisia, vittoria in Marocco e domani tocca all’Egitto
di Francesca Cicardi


Con o senza il vento della primavera araba in poppa, questa è senza dubbio la rinascita degli islamisti nel nord Africa. In Ma-rocco il partito islamico moderato di Giustizia e Sviluppo avrebbe vinto le elezioni di venerdì, secondo le prime proiezioni conosciute ieri. La formazione religiosa si è aggiudicata 80 seggi su un totale di 365 in parlamento, ma i dati si riferiscono finora allo spoglio di 296 seggi. Per oggi si attendono i risultati definitivi e tutto fa pensare che anche il Marocco avrà un governo guidato dagli islamisti per la prima volta.
Il mese scorso in Tunisia, il paese che ha dato il via alle rivolte arabe, gli islamisti moderati di Al Nahda hanno ottenuto una vittoria schiacciante con 90 dei 217 seggi del parlamento e piú del 40% dei voti, anticipando quello che sarà il panorama politico post-rivoluzionario nel nord Africa e il mondo arabo, dove la libertà e la democrazia stanno nascendo con un carattere islamico. Risultato forse di anni di repressione da parte di regimi autoritari e della corruzione, che per ora non ha macchiato gli islamisti.
L’Egitto si prepara ad andare ai seggi domani, per le prime elezioni teoricamente democratiche e per le quali i Fratelli Mussulmani sono considerati i favoriti. Il principale gruppo oppositore durante la dittatura dell’ex presidente Mubarak è adesso l’unico partito strutturato e pronto per le votazioni: si stima che la Fratellanza possa ottenere tra il 30% e il 50% dei seggi, e sarà quasi con certezza la principale forza del nuovo Parlamento. Questo non significa che potrà governare, visto che il potere e le competenze delle camere sono ancora tutte da scoprire, e verranno stabilite dai militari, che dirigono il paese dalla caduta di Mubarak lo scorso 11 di febbraio.
I FRATELLI sono così certi della loro vittoria, che hanno persino tradito piazza Tahrir, dove ieri continuavano le proteste, che adesso hanno sconfinato fino alle porte del parlamento, due isolati a sud della piazza. Qualche centinaio di persone si sono accampate nella strada dove si trovano la sede del Consiglio del Popolo (camera bassa) e quella del Consiglio dei ministri per impedire che il nuovo premier eletto Kamal al Ganzuri possa cominciare a lavorare. Il settantenne, ex primo ministro di Mubarak negli anni 90, è stato scelto dall’Esercito per guidare un governo di transizione, che non sarà così indipendente e di unità nazionale come avevano promesso i militari e come speravano i manifestanti. Ieri lo stesso Ganzuri e i generali avrebbero incontrato alcuni esponenti dell’opposizione, tra cui Mohammed Al Baradei, premio Nobel della pace ed ex direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, fingendo ancora una volta di essere di-sposti al dialogo. Poche ore prima, la polizia cercava di disperdere il nuovo accampamento dei rivoluzionari, ammazzando un altro giovane, la 42ª vittima di questa seconda rivolta egiziana, che dura ormai una settimana.
Malgrado la violenza e il caos di questi giorni, l’Egitto va verso le elezioni, disegnate e imposte dai militari, ma che molti egiziani vedono come l’unica soluzione per uscire da quest’ultima crisi e dall’instabilità generale che vive il paese dalla rivoluzione del 25 di gennaio. “Le attuali circostanze beneficeranno solo i Fratelli Musulmani e i resti del regime di Mubarak (che si presentano come candidati indipendenti dopo che il loro partito è stato smantellato)”, spiega l’esperto di islam politico Mustafa Khalil. Il voto sarà quindi guidato dalla paura e non dall’ansia di democrazia, che non può avere luogo sotto il controllo di un’autorità militare.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Tre italiani fermati in Egitto, scoppia un caso
El Baradei rinuncia alle presidenziali e si offre di guidare un governo di unità
di Giuseppe Sarcina


CAIRO — «Ciao, sono Andrea. Scusa se ti disturbo a quest'ora, ma ho una storia abbastanza grossa di cui vorrei parlarti il prima possibile. Grazie mille, a presto!». Con questo messaggio d'allarme abbiamo saputo che tre italiani erano stati fermati ieri notte dalla polizia al Cairo e portati nel commissariato di El Kasr El Aini, non lontano da Piazza Tahrir.
La mattina di ieri comincia male. Ancora scontri tra forze dell'ordine e manifestanti davanti al Parlamento. Mohamed el Baradei fa sapere che rinuncerebbe a candidarsi alla presidenza se gli fosse chiesto ufficialmente di guidare un governo di unità nazionale. In piazza Tahrir un giovane muore, travolto da un'auto dei reparti antisommossa (e il numero delle vittime sale a 42). Poco più in là Andrea De Georgio, 25 anni, giornalista free lance, cerca di riordinare le idee dopo una nottata trascorsa in guardina, insieme ad altri due colleghi italiani. I tre ragazzi e la quarta componente del gruppo, una blogger e attivista palestinese, devono rispondere di un'accusa insidiosa: «incendio doloso e atti vandalici». Andrea è un ragazzo preparato e dall'entusiasmo esplosivo. La sua tesi di laurea sui blogger palestinesi ha appena vinto il Premio Cutuli. Il pomeriggio di venerdì scorso, in Piazza Tahrir aveva annunciato che avrebbe passato la notte con i manifestanti. Ma quando ci parliamo al telefono il suo racconto è del tutto inatteso: «Ciao, sono qui con due colleghi e una ragazza palestinese, è un'attivista politica di Gaza. Ieri notte stavamo tornando da piazza Tahrir verso la casa dell'amico che ci ospita. Sul percorso abbiamo visto delle fiamme che si alzavano nella zona di Zamalek (l'isoletta formata dalla biforcazione del Nilo ndr). Siamo andati a vedere e ci siamo resi conto che stava bruciando qualche palma. Nel frattempo era arrivata anche altra gente. Tre uomini si sono avvicinati a noi. Hanno cominciato a insultare pesantemente la nostra conoscente palestinese: "Sei una sgualdrina, vai con questi occidentali", cose di questo tipo. La ragazza ha reagito e noi abbiamo cercato di chiudere l'incidente, allontanandoci. Abbiamo preso al volo un taxi, ma dopo qualche minuto ci siamo resi conto che quei tre ci stavano seguendo. Hanno affiancato la nostra macchina, hanno gridato qualcosa all'autista e questi si è fermato, buttandoci praticamente fuori. Lì ci siamo anche un po' spaventati. Quei tre hanno ripreso a insultare la ragazza e quando sono arrivate altre persone sempre loro hanno cominciato a dire che eravamo stati noi ad appiccare il fuoco agli alberi di Zamalek. Alla fine è arrivata la polizia e ci ha portati al commissariato. Ci hanno trattato bene, ci hanno lasciato i telefonini, comprato dell'acqua. Adesso ci porteranno davanti al giudice». Clic. Fine della chiamata. Da quel momento in poi le notizie si fanno confuse, contraddittorie. L'ambasciata italiana e il consolato si mobilitano con tempismo: ai tre viene affiancato un legale di fiducia e comincia il giro di contatti. Si viene a sapere che qualcuno ha effettivamente denunciato il gruppetto e che ci sono anche sedicenti testimoni oculari. Le cose si complicano perché gli inquirenti chiedono se i tre free lance si fossero accreditati per seguire le elezioni. Ma non risultano registrazioni. Vengono ispezionate macchine fotografiche e videocamere per verificare se e perché siano state fissate le immagini «dell'incendio» che rimane, per altro, ancora un piccolo mistero. La nostra diplomazia lavora per ottenere un decreto di espulsione con effetto immediato che farebbe cadere le accuse. Ma a tarda sera il procuratore rinvia la decisione a stamattina. I funzionari italiani hanno ottenuto che i tre passassero questa notte ancora nel commissariato e non nelle poco attraenti prigioni egiziane.
P.s. Prima di pubblicare le generalità complete di Andrea De Georgio abbiamo chiesto, e ottenuto, l'autorizzazione della sua famiglia. Il fratello Fabrizio ha voluto sottolineare che: «Andrea è un giornalista, non un militante».

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Marocco raggiunto dall'onda islamica Ipoteca sul governo
Ottenuta la maggioranza dei seggi
di Andrea Nicastro


CASABLANCA — «Noi marocchini abbiamo visto arrivare il vento della Primavera araba e invece di corrergli incontro ci siamo chiusi in serra. I profumi saranno anche meno intensi, ma, almeno fino a oggi, abbiamo evitato grandinate». La metafora è dell'attivista e blogger Yunes Trari. Ed è azzeccata.
Nelle elezioni politiche di questo fine settimana il Marocco ha dato per la prima volta la maggioranza parlamentare al Pjd, un partito islamista moderato che ha preso il nome, «Giustizia e sviluppo», dal modello vincente in Turchia. Ma a differenza del partito che ha vinto il mese scorso in Tunisia, a differenza dei Fratelli Musulmani in Egitto o di componenti del governo provvisorio in Libia, il Pjd è da tempo inserito nella «serra» del potere di Stato.
Appena saputo della vittoria il leader del Pjd, Abdelilah Benkirane, ha chiarito i suoi obiettivi: «Preservare la monarchia, le riforme e l'economia». Una vittoria (il 20% dei seggi a scrutinio non ancora terminato) nel segno della continuità. «Siamo pronti — ha detto Benkirane — a una coalizione assieme al partito della maggioranza uscente e altre forze», tutte esplicitamente filo monarchiche, cresciute con il consenso e l'appoggio del sempre onnipotente Mohamed VI.
La sfida — spiega il maggior quotidiano marocchino Le Matin — è stata tra «il Marocco liberale e il Marocco islamoliberale». E il resto del Paese? Hanno chiamato al boicottaggio i due gruppi che animano le proteste di piazza sotto il nome Movimento 20 Febbraio. Sono i «democratici» che vorrebbero un re che regna ma non governa. Ma sono anche i favorevoli a una svolta realmente islamista dello Stato. Difficile valutare la consistenza dei due schieramenti tanto più che oltre ai 13 milioni di marocchini aventi diritto al voto ce ne sono altri 10 milioni neppure inseriti nelle liste elettorali. In ogni caso, l'astensione che nel 2007 era al 63%, questa volta è calata al 55%. Merito, secondo le forze di governo presenti e future, della riforma costituzionale approvata in luglio e della «crescita democratica del Paese».
In risposta ai cortei che anche in Marocco hanno riempito il 2011, non solo Mohamed VI ha ordinato «per la prima volta di non sparare» (Maati Monjib, storico dell'Università di Rabat), ma ha anche ceduto briciole di potere: ora è obbligato a scegliere il premier tra le file del partito di maggioranza (e non a piacere) e toccherà a quello nominare i manager pubblici.
Mohamed Balfoul, islamista «fuori dalla cricca del potere», tra i più attivi nel Movimento 20 Febbraio, ha buon gioco nello sminuire il valore della nuova Costituzione. «È un ritocco cosmetico, il re ha diritto di veto e le sue direttive alle Camere non possono essere contraddette. Chi ha partecipato alle elezioni è complice di questa ingiustizia». Al contrario del giovane Balfoul, i difensori della monarchia sottolineano che la stabilità del Marocco nella tempesta araba discende dalle progressive aperture del sovrano: una certa libertà di stampa, un codice di famiglia progressista, l'abolizione delle feudali «Carte bianche» che garantivano l'immunità reale, un approccio «tollerante» all'ordine pubblico e più aiuti ai poveri.
«Il nodo però resta il predomino in economia — obbietta l'analista Ghassan Wail El Karmouni —. Solo la Sni, la holding del re quotata in Borsa, controlla il 10% del Pil, ma considerando proprietà immobiliari, agricole e altre partecipazioni si arriva facilmente al 30%. Con una ricchezza del genere non si può che comandare, chiunque sia in Parlamento».

La Repubblica 27.11.2011
Il buio, il freddo, la paura e alla fine "Italia, Italia" è l´urlo dei sopravvissuti
Hanno cambiato la rotta ma il vento si è fatto sempre più forte. Sono finiti in acqua, chi non sapeva nuotare non ha avuto scampo
di Giuliano Foschini


CAROVIGNO (Brindisi) - Un terzo sicuro in fondo al mare, una trentina di persone accatastate intorno alle ambulanze con le coperte e le lacrime addosso, altri trenta di loro in fuga per le campagne della Valle d´Itria, nascosti mezzo ai trulli, agli ulivi intrecciati e ai muretti a secco. O forse, si teme, annegati in fondo al mare dei migliori ricci di Puglia. Quello che rimane è Gloria, questa barchetta a vela lunga 12 metri che batte bandiera americana ma anche italiana e sembra il veliero di Truman Show. Il fatto che non si sia scagliata contro un cielo di cartone ma su due scogli dell´Adriatico in fondo è un particolare: comunque, ha sbattuto contro un sogno.
«Italia, Italia» dicono quelli che sono rimasti, avvolti nelle coperte termiche fluorescenti agli operatori della Croce Rossa. Sono tutti uomini. Hanno trent´anni almeno. Portano scarpe da ginnastica e pantaloni scuri. Maglioni in lana pesante, qualcuno ha la giacca a vento. Sono iracheni e pakistani, c´è chi dice di arrivare dal Bangladesh. Parlano poche parole in inglese, e uno strano dialetto (tanto che le forze di polizia hanno avuto grosse difficoltà a trovare traduttori). "Vii" e qualche altra consonante dice di chiamarsi uno di quelli che parla più di tutti l´inglese. «Ho pagato tremila euro per il viaggio - ha raccontato ai soccorritori, tirandosi fuori le tasche di un pantalone di velluto liso, per spiegare che non gli era rimasto più nulla - Sono arrivato in un posto della Turchia e partito con la barca a vela da lì, cinque giorni fa. Sono passato dalla Grecia due giorni fa e abbiamo puntato l´Italia. Dovevano arrivare nella zona di Bari poi nella mattinata di ieri il mare si è alzato». Hanno cambiato la rotta ma il vento si è fatto sempre più forte, le vele non hanno tenuto e sono finiti tutti a mare. C´era chi non sapeva nuotare: è morto. C´era chi sapeva a mala pena galleggiare, e ha raggiunto stremato la riva, per zoppicare, inciampare nella terra rossa di Puglia pur provando comunque a fuggire. C´era chi non ce la faceva. E allora si è buttato nelle braccia dei soccorsi (chiamati da alcune persone della zona che hanno sentito le urla dei naufraghi), rinunciando a ogni aspirazione d´occidente.
Dopo lo sbarco, lo spettacolo è stato se possibile ancora più tragico. Il vento non si è fermato, il mare era crespo, le onde si alzavano e ogni qual volta si intravedeva una macchia più scura si gridava: poteva essere un copertone, una boa, un effetto ottico oppure poteva essere un uomo morto. «Children, children?» chiedevano i ragazzi della Croce rossa e i ragazzi facevano segno di no con la testa e indicavano uno di loro, 16enne forse, giurando fosse il più piccolo della comitiva, una comitiva di soli uomini. «No, no, no, no» fanno tutti segno così con la testa, poi si buttano a terra e insieme piangono. Parlano tra loro, fanno il conto di chi è fuggito e chi non ce l´ha fatta. Sono tutti zuppi, chiedono un panino e hanno paura di sapere dove finiranno: due sono andati in ospedale con fratture alle gambe, gli altri sono montati su un pullman e trasportati al Cara di Restinco.
Una beffa. Dicono le indagini della magistratura che proprio i Cara sono diventati in Puglia i centri di coordinamento degli scafisti: è qui che vengono organizzati i nuovi sbarchi in una regione che è di nuovo al centro delle rotte internazionali. Non a caso il presidente della Regione, Nichi Vendola ha chiesto l´intervento del governo Monti: «Non possiamo più convivere con queste tragedie: serva umanità e solidarietà». Un tempo su queste coste arrivavano barconi come la Vlora, quando a Bari arrivarono ventimila albanesi (1991). Oppure a centinaia sbarcavano sulle coste salentine con i gommoni velocissimi dei contrabbandieri di sigarette. Ora i clandestini salgono su barche a vela e catamarani, per non dare nell´occhio e sfuggire ai controlli nel canale d´Otranto. Lo chiamano il "corridoio otto" della malavita, oltre agli uomini passano armi e droga: si parte dall´Afghanistan, si arriva in Turchia, si passa dalla Grecia e si punta l´Italia. «Le organizzazioni criminali che si occupano del traffico di clandestini - ragiona un alto investigatore - si muovono secondo una geometria variabile. Sono chiaramente molto sensibili alla legislazione e ai provvedimenti presi. Ma il principio è quello dei vasi comunicanti: con la chiusura del fronte spagnolo prima, poi di quello libico, in qualche maniera devono passare. E così i Balcani, e dunque la Puglia, sono tornati di moda, seppur con metodologie diverse. Una nuova Vlora oggi è impossibile». Eppure vent´anni dopo c´è chi continua a sognare per mare.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
« Abbandonati tra le onde Siamo tutti ragazzini »
di Lorenzo Salvia


« Sedici anni, sedici anni » . Puoi chiedere qualsiasi cosa ad Hussein. Ma lui— un sorriso nonostante tutto, spezzato dal lampeggiante blu dell’ambulanza — risponde sempre così. « Sedici anni, sedici anni ». Le uniche due parole che sa dire in italiano. L'ultima difesa rimasta a questo gruppo di migranti ragazzini scampato alla morte attraversando il mare in cerca di futuro. Due parole imparate a memoria prima di partire, perché chi è minorenne può chiedere di restare anche se non ha i documenti in regola. E stavolta qualche minorenne c'è per davvero.
I volontari della Protezione civile portano i biscotti, si cercano altre coperte qui dove d'estate vengono da mezza Puglia a prendere il sole. «Ho visto la morte in faccia», dice ancora Hussein con quel poco d'inglese che riesce a mettere insieme. La barca è ancora lì, incastrata fra gli scogli, inclinata su un fianco. E davvero non sembra avere nulla a che vedere con le carrette del mare di una volta. Ricordate la Vlora, il barcone arrugginito che portò a Bari 20 mila albanesi e il dramma dell'immigrazione? Ecco, questo è un vero e proprio yacht a vela di quindici metri, con i pannelli solari e la bandierina americana in cima all'albero. Adesso fanno così gli scafisti, provano a passare per turisti per sfuggire ai controlli. Forse il gioiellino è stato rubato in Turchia. È da lì che sono partiti cinque giorni prima questi ragazzini che adesso si stringono nelle coperte beige, quelle di ogni sciagura nazionale. Degli scafisti non c'è traccia, naturalmente. «Ci hanno abbandonato in mezzo al mare», racconta ancora Hussein. «Abbiamo perso la rotta — dicono i suoi compagni — è colpa loro se è finita così».
Abbandonati dove? Prima di arrivare in Italia la barca avrebbe fatto scalo in Grecia. Anzi, è possibile che non viaggiasse da sola ma che fosse in compagnia di un'altra imbarcazione. Ieri mattina in Puglia c'è stato un altro sbarco di clandestini, questa volta senza naufragio, senza morti, senza notizia. Ma molto più a Sud, sulla costa del Salento, la più vicina alla Grecia e anche la più facile perché non ci sono rocce ma sabbia. È possibile che fosse quella l'imbarcazione gemella e che magari lì siano passati gli scafisti. Oppure che siano stati recuperati in mare da un motoscafo a poche miglia dalla costa italiana.
Dove pensavate di arrivare, Hussein? «Sedici anni, sedici anni, siamo tutti ragazzini», niente da fare. Qualcuno di loro racconta di aver pagato 1.000 euro a testa, altri dicono 1.500. Adesso vengono portati tutti alla Nostra Famiglia di Carovigno, un centro estivo che a luglio e agosto si riempie di bambini con palette e secchielli. Hussein ha solo qualche anno in più. E ha pagato per essere abbandonato a fine novembre, in mezzo al mare e in faccia alla morte.

Il Corriere della Sera 27.11.2011   
Morti a pochi metri dalla costa
Naufraga una barca a vela con decine di migranti: 39 in salvo
di Lorenzo Salvia


ROMA — Erano quasi arrivati, mancavano ormai pochi metri. Ma il mare forza cinque e il vento fortissimo che dal pomeriggio soffiava sulla Puglia ha fatto incagliare la loro barca, l'ha sbattuta con violenza contro le rocce. E lì, sugli scogli di Torre Santa Sabina, una ventina di chilometri a nord di Brindisi, si è consumata un'altra strage di migranti, l'ennesima tragedia della disperazione. A bordo erano in 74, molti di loro sono riusciti a raggiungere a nuoto la riva, sbattuti tra le onde quando ormai era buio.
Due i cadaveri recuperati fino alla tarda serata di ieri, di nazionalità pachistana. Ce ne potrebbe essere un terzo, avvistato in un primo momento ma poi scomparso tra i flutti e non ancora recuperato. Trentanove le persone salvate e, nonostante il terrore che hanno negli occhi, in discrete condizioni. Due di loro sono ricoverate in ospedale a Ostuni ma per fortuna soltanto per fratture e contusioni. Gli altri trentatré vengono dati ufficialmente per dispersi ma, secondo gli investigatori, potrebbero essersi salvati.
Per il momento le ricerche in mare, difficilissime viste le condizioni meteo, non hanno trovato altri corpi. Mentre una decina di naufraghi sono stati rintracciati dalla Guardia di finanza nelle campagne intorno a Carovigno mentre scappavano, terrorizzati e infreddoliti, senza sapere dove andare. È possibile che almeno una parte di quei trentatré dispersi fosse con loro e sia riuscita a trovare riparo in qualche modo. In un primo momento si era pensato ad un numero di vittime ancora maggiore perché dall'elicottero i soccorritori avevano visto una gran numero di corpi in mare. Ma, quando sono cominciate le operazioni di recupero, si son accorti che erano solo vestiti, forse gettati in mare prima di tuffarsi disperatamente in acqua oppure per alleggerire il carico.
Erano partiti cinque giorni prima dalla Turchia. Afghani, pachistani e cingalesi, tutti maschi e giovanissimi, intorno ai 20 anni, più quattro minorenni. E davanti alle coste pugliesi erano su una barca a vela di buon livello, con tanto di pannelli solari sul ponte e bandierina americana in cima all'albero. È il trucco recente usato dagli scafisti che provano a passare per turisti e sfuggire ai controlli sulle carette del mare. Ma è anche possibile, a volte funziona così, che la barca a vela sia stata utilizzata solo per l'ultimo tratto del loro viaggio disperato dopo un lungo trasbordo a motore. A lanciare l'allarme è stata una persona che abita nella zona e che passeggiava sul lungomare, davanti ad una delle spiagge più belle di quel tratto di costa. Ha sentito le urla disperate di chi era riuscito ad raggiungere la riva e scappava oppure provava ad aiutare i compagni di quel viaggio maledetto.
«È necessario fermare le tragedie del mare — dice il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola — perché non possiamo più convivere con il naufragio di migliaia di uomini e donne in fuga da guerra, fame e povertà. Bisogna rimettere al centro delle politiche di accoglienza umanità e solidarietà». Secondo Fortress Europe, l'associazione che tiene il conto delle stragi di migranti, solo quest'anno sono state più di 2 mila le persone morte mentre cercavano di raggiungere l'Europa. In 20 anni arriviamo a 17.856 persone. Senza calcolare i naufragi dei quali non abbiamo saputo nulla.

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
Strage di disperati al largo di Brindisi - Tre morti e una decina di dispersi in mare
di Antonio Massari


Alle otto di sera si contano due cadaveri sulla scogliera, un terzo viene cercato tra le onde. Nessuno tocca i loro corpi. Si aspetta l’arrivo del magistrato di turno, Miriam Jacoviello, che dovrà aprire il fascicolo sulla loro morte e su questa tragedia. Soltanto dopo, i cadaveri potranno essere spostati dagli scogli dove li hanno posati. Le salme vengono rimosse alle nove e un quarto della sera. Nel frattempo un elicottero della Guardia di Finanza vola a bassa quota. Continua a esplorare tra le onde. Le pale ruotano quasi a pelo d’acqua. Il faro che illumina la superficie del mare: verificano se galleggiano altri cadaveri, c’è chi ne ha visto un terzo, ma il sospetto è che siano una decina . C’è chi muore e chi fugge. Chi perde la vita tra le onde. Chi raggiunge la riva, risale gli scogli, trova la forza di dileguarsi nelle campagne del brindisino. C’è anche questo nella tragedia, nel naufragio di un’ottantina di immigrati, quasi arrivati a riva, tra gli scogli di Santa Sabina, nel brindisino, a pochi chilometri da Carovigno.
C’È CHI SALVA e c’è chi insegue. Per catturare, identificare, rinchiudere, respingere. Mentre i sommozzatori dei vigili del fuoco tentennano, di fronte al mare che s’ingrossa, e scelgono il momento più adatto per tuffarsi alla ricerca dei dispersi, i baschi verdi rintracciano una decina di fuggitivi tra le campagne. Uno di loro è ferito. Gravemente ferito. Ma è riuscito a fuggire comunque. L’hanno prima catturato, poi portato in ospedale, mentre gli altri sono stati smistati in due direzioni. Alcuni al Re-stinco, in centro di identificazione ed espulsione di Brindisi, altri in un centro per minori a rischio, il “Nostra Famiglia” di Ostuni. Se i dispersi sono una trentina, in trentadue sono sicuramente salvi, sebbene feriti, ma nessuno capisce con precisione cosa dicano. Si cerca un interprete. Arrivano dal sud est asiatico, alcuni sono curdi, altri afghani, altri ancora iracheni o del Bangladesh. Forse la loro rotta era un’altra. Santa Sabina non è un luogo d’approdo usuale.
Forse è stato proprio il cattivo tempo a mutare la rotta degli immigrati, costringendoli a spingersi più a sud dell’approdo prescelto, le coste del barese. Era salpata dalla Turchia, cinque giorni fa, la barca a vela che ha puntato prima la Grecia – dove si sarebbe fermata –, poi la Puglia. Gli immigrati avrebbero pagato tremila euro per la traversata. Sembrava fatta. E invece, a pochi metri dalla costa, l’imbarcazione s’è ribaltata. Il vento l’ha trascinata verso gli scogli ed è iniziata la tragedia nel mare forza 5.
Erano le sei del pomeriggio quando un uomo ha avvistato i primi naufraghi e ha chiamato i soccorsi. Non c’erano donne o bambini. Soltanto uomini. Almeno tre di loro hanno perso la vita. Si aggiungono ad altre duemila persone – ma è una stima largamente in difetto – che sono morte in mare, soltanto quest’anno, per raggiungere l’Europa.

La Repubblica, 27.11.2011
Fiat, accordo fatto per Termini Imerese
In mobilità 640 dipendenti. Ok dei sindacati, tolti i blocchi ai cancelli
Giovedì al ministero il via libera al progetto di Dr per il rilancio della fabbrica
di Paolo Griseri


ROMA - Cinque ore di trattativa serrata tra i funzionari di Corrado Passera e gli uomini del Lingotto, poi, a fine pomeriggio, la fumata bianca sugli incentivi per la mobilità a Termini Imerese. La notizia arriva per sms alle tute blu siciliane che in serata decidono di togliere il blocco alle bisarche che trasportano le ultime Y prodotte nella fabbrica vicino a Palermo.
Sono 640 i lavoratori che tra due anni, conclusa la cassa integrazione per cessata attività, andranno in mobilità verso la pensione. Una sessantina di impiegati e 580 tute blu che otterranno poco più di 20 mila euro (22.850) di incentivo più altri tremila euro di conguaglio per mancato preavviso e premio fedeltà. In tutto circa 25 mila euro cui andrà ovviamente aggiunta la liquidazione. In media tra due anni i dipendenti che andranno in mobilità verso la pensione otterranno tra i 40 e i 50 mila euro più quattro anni di indennità di mobilità. I sindacati hanno parlato di «un compromesso» che a seconda delle sigle è «soddisfacente» (Ugl), «decoroso» (Uilm), «responsabile» (Fim), «amaro e insufficiente» (Fiom). Ma al di là degli aggettivi, la sostanza è che tutti hanno sottoscritto l´intesa. Secondo la Fiom, la Fiat avrebbe «fatto un dispetto» riducendo del 20-30 per cento l´importo degli incentivi rispetto alle tabelle normalmente utilizzate dal Lingotto in queste circostanze. Per la Cgil l´accordo è «positivo».
L´ad di Invitalia, Domenico Arcuri, che ha fatto da advisor ai progetti per la reindustrializzazione di Termini Imerese, si è detto soddisfatto: «Avevamo un bacino di 1.916 lavoratori, oltre 1.500 della Fiat e 350 dell´indotto. Con la mobilità ne andranno in pensione 640. Il progetto Di Risio prevede 1.312 assunzioni dirette e 300 addetti dell´indotto. Dunque alla fine avremo creato 350 nuovi posti di lavoro». Nell´operazione la Fiat spenderà 21,5 milioni di euro ai quali va aggiunto il valore dello stabilimento che, spiega Arcuri, «verrà consegnato alla Dr a costo zero, impianti compresi. Naturalmente - aggiunge l´ad di Invitalia - la Dr avrà la piena proprietà della fabbrica solo quando avrà assunto tutti i lavoratori previsti».
L´accordo su Termini e il progetto della Dr (produzione di 4 nuovi modelli a partire dal 2013) verranno firmati giovedì al ministero dello sviluppo economico. Poi, spiega un comunicato del ministero di Passera, ci sarà un accordo che coinvolgerà anche il ministero del lavoro per ottenere la cassa integrazione per cessata attività che durerà due anni. Poi la partita passerà alla Dr di Massimo Di Risio: «Speriamo in una nuova stagione per Termini Imerese», ha commentato il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo. I piani prevedono di arrivare entro cinque anni alla produzione di 60 mila auto all´anno con l´assunzione, entro il 2016, di 1.312 dipendenti. Nel 2012 cominceranno ad entrare nella nuova fabbrica 241 operai mentre le prime automobili usciranno dalle linee entro l´anno successivo.
Domani mattina l´accordo sarà illustrato ai dipendenti di Termini Imerese in un´assemblea che si svolgerà alle 10 davanti ai cancelli della fabbrica. «Siamo soddisfatti, è il male minore», anticipa Agostino Cosentino, delegato di fabbrica della Fiom. «E´ vero che è un accordo sulla mobilità - prosegue l´operaio - ma almeno aumenta le speranze di tornare al lavoro per i dipendenti dell´indotto». Franceso Conte, uno degli addetti delle fabbriche che lavorano per la Fiat conferma: «Quando abbiamo sentito che il ministero aveva anticipato la convocazione, abbiamo capito che poteva accadere qualcosa di positivo».

La Repubblica 27.11.2011
E la Fiom riapre il dialogo con i vertici del Lingotto
Decisivo l´intervento del ministro Passera
di Paolo Griseri


ROMA - È presto per lasciarsi andare agli entusiasmi. Ma è un fatto che la Fiom non firmava un accordo di merito con la Fiat dal luglio del 2009, quando aveva sottoscritto l´intesa per l´anticipo del premio di risultato concordando di erogare 103 euro in busta paga agli operai del terzo livello. Ed è un altro fatto che la stessa trattativa su Termini Imerese - istruita da tempo da Invitalia che ha valutato i progetti per sostituire il Lingotto in Sicilia - si è sbloccata in pochi giorni grazie all´iniziativa del nuovo ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera.
La biografia del ministro ha certamente facilitato l´esito. Per un manager che ha appena lasciato la guida operativa di Intesa San Paolo è più facile alzare la cornetta del telefono e chiedere a Sergio Marchionne di aumentare di 4 milioni la posta della Fiat sul tavolo degli incentivi verso la pensione. Ed è più facile per lo stesso Marchionne fidarsi dell´ex ceo di una banca che ha tradizionalmente avuto saldi rapporti con il Lingotto. Sono questi, in fondo, i vantaggi dei governi tecnici: i ministri sanno di che cosa parlano e gli interlocutori sanno chi hanno di fronte. Così ieri sera lo stesso ad di Invitalia, Domenico Arcuri, riconosceva che «l´apporto del nuovo ministro è stato decisivo per la conclusione dell´accordo». Non è necessario che il manager pubblico si spinga dove non può per capire il senso del suo pensiero.
C´è però un secondo aspetto che non va sottovalutato. Si ritrova nelle parole di Enzo Masini, il capodelegazione della Fiom: «Dobbiamo riconoscere al ministro di non aver lavorato per la divisione tra i sindacati ma per trovare una soluzione tutti insieme». Quella che potrebbe apparire una affermazione ovvia diventa, nell´Italia post-berlusconiana, una rivoluzione copernicana. Perché per anni il governo ha alimentato la divisione ideologica tra sigle sindacali piuttosto che cercare una soluzione ai problemi concreti. E´ un fatto che appena quell´atteggiamento è cambiato, il film degli accordi separati tra Fiat e sindacati ha subito una interruzione. E´ assai probabile che sia momentanea perché probabilmente a partire dalla prossima settimana Fiom, Fim e Uilm torneranno a dividersi sull´estensione a tutte le fabbriche del Lingotto dell´accordo di Pomigliano. Ma non era per nulla scontato che la Fiom avrebbe firmato un´intesa sull´uscita della Fiat da Termini Imerese.
Ci vorrà del tempo, ma se il nuovo clima si consoliderà potremmo attenderci importanti novità anche sul fronte sindacale. Perché una Fiom che esce dall´angolo è certamente costretta a rivedere le sue strategie ma finisce per costringere gli altri sindacati a fare altrettanto. La mossa del governo potrebbe accelerare il tramonto la stagione dello scontro ideologico tra Fiom e Fiat: un lusso che un paese in emergenza non può più permettersi.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Fiat, c'è l'accordo per Termini
La mediazione di Passera: incentivi di 460 euro mensili per l'uscita
Roberto Bagnoli


ROMA — Accordo raggiunto su Termini Imerese. Dopo una trattativa a oltranza di quasi otto ore tra il Gruppo Fiat, il ministero dello Sviluppo economico e i sindacati metalmeccanici la quadra è stata trovata. Ai 640 lavoratori che dal primo gennaio sono in mobilità verso la pensione andranno incentivi per 460 euro al mese che, sommati ad altre voci come il mancato preavviso e il premio fedeltà, significano circa 30 mila euro a testa in aggiunta all'assegno di cassa integrazione. Per il Lingotto significa aumentare il budget dai 15 milioni di euro previsti sino ad ora a qualcosa meno di 21 milioni di euro. Una forbice che si è sbloccata grazie all'intervento diretto del ministro dello Sviluppo Corrado Passera sull'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne.
In sostanza dei 1.560 ex dipendenti Fiat di Termini Imerese 640 andranno in pensione, i 920 rimasti più 350 dell'indotto verranno assorbiti dalla Dr Motor di Massimo De Risio per un totale di 1270 dipendenti. Poiché la Dr Motor prevede 1312 assunzioni entro il 2016 alle quali andranno aggiunti altri duecento lavoratori circa da destinare in attività collaterali nel nuovo compound dell'auto il saldo alla fine sarà positivo. Il numero uno di Invitalia Domenico Arcuri che ha curato la vicenda sin dall'inizio è soddisfatto e riconosce come «decisiva la scesa in campo del ministro Passera». Precisando che «questa intesa diventerà parte di un accordo complessivo che sarà raggiunto nei prossimi giorni». Il passo finale di questa storia dovrebbe avvenire giovedì con la definizione del perimetro industriale per garantire il rilancio industriale del sito. Martedì, nella sede dell'assessorato regionale siciliano alle Attività produttive di Palermo, si terrà un incontro con i sindacati in rappresentanza delle aziende dell'indotto per individuare eventuali percorsi che possano garantire la cassa integrazione per il 2012 anche per i lavoratori dell'indotto Fiat.
Il ruolo di Passera e del governo ieri è stato riconosciuto anche dal sindacato. «Il lavoro svolto dal ministro dello Sviluppo e dallo stesso dicastero - ha commentato il segretario confederale della Cgil Vincenzo Scudiere - è stato positivo per costruire una soluzione basata sul rispetto degli interessi in campo».
La conclusione di Termini Imerese non ha risparmiato ricadute polemiche sia dentro il sindacato che in politica. La Fiom ha infatti firmato ma «per senso di responsabilità, però riteniamo — ha dichiarato il responsabile auto Enzo Masini — che la mediazione del governo sia stata al ribasso». La Uilm per bocca di Rocco Palombella precisa subito che «noi quando firmiamo un'intesa lo facciamo senza riserve, la Fiom invece sembra costretta, un copione già visto altre volte».
Sergio D'Antoni, responsabile del Pd sul territorio, la butta in politica: «Dopo anni di immobilismo da parte della compagine di Bossi e Berlusconi, finalmente un esecutivo capace di prendere iniziativa e di confrontarsi in maniera vera e costruttiva con le parti sociali». Per Giuliano Cazzola, presidente della consulta lavoro del Pdl, anche in questo caso «il governo Monti ha raccolto quel che aveva seminato il precedente esecutivo». Il presidente dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro infine si chiede «quali scambi inconfessabili sono avvenuti in queste ore tra Passera e Marchionne».

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
TERMINI IMERESE, LA FIAT PAGA 21 MILIONI A CHI PERDE IL POSTO
Ultima firma al ministero la fabbrica passa a DR Motors
di Salvatore Cannavò


La differenza alla fine la fanno 5,5 milioni di euro, quasi quanto guadagna in un anno l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Grazie a quel numero che alla fine l’accordo per lo stabilimento di Termini Imerese, appena chiuso, ha visto la luce.
La Fiat ha accettato di sborsare 21,5 milioni di euro, invece dei 16 messi inizialmente sul tavolo, e questo ha reso possibile incentivare adeguatamente la mobilità per 640 lavoratori che rimarranno fuori dai nuovi investimenti previsti dal gruppo Dr Motors di Massimo Di Risio, l’imprenditore molisano che rileverà gli impianti siciliani abbandonati dal Lingotto. Con l’accordo raggiunto ieri sera quelli che, dopo due anni di cassa integrazione, saranno riassunti dalla Dr Motors avranno un posto di lavoro. Agli altri vengono assicurati 22.850 euro medi a lavoratore (per 460 euro mensili) a cui va aggiunto il mancato preavviso (1,7 mensilità circa) e il premio fedeltà che varia a seconda dell’anzianità.
LA SOLUZIONE soddisfa tutti anche se la Fiom fa notare che “la Fiat ha voluto fare un dispetto ai lavoratori siciliani” perché non ha applicato le tabelle che solitamente utilizza per favorire la mobilità. Secondo il segretario della Fim, Bruno Vitali, è stato accolto “il 70 per cento delle nostre richieste”. Ma tutti alla fine hanno accettato la proposta, risolutiva, messa a punto dai tecnici del Ministero, Andrea Bianchi e Giampiero Castano, che hanno individuato la soluzione della “fascia unica”, cioè un incentivo uguale per operai e impiegati con re-distribuzione delle risorse all’interno della fabbrica. Quindi con un sacrificio ulteriore dei lavoratori.
Il ministero dello Sviluppo di Corrado Passera ha gestito l’operazione puntando chiaramente a un risultato “politico” anche se si è mosso in maniera discreta. In serata l’unico comunicato del MiSe fa sapere di aver semplicemente “formulato a Fiat e alle parti sociali una proposta, che è stata accettata”. Poi ricorda che tutto questo è propedeutico alla soluzione definitiva della vicenda che andrà trovata probabilmente il 1 dicembre.
Ma se sulla mediazione di Passera ha qualche sospetto Antonio Di Pietro che parla di probabili “scambi inconfessabili” tra l’ex manager di Banca Intesa e l’attuale amministratore della Fiat-Chrysler, l’operato del ministro è invece sembrato “decisivo” all’amministratore delegato della società pubblica Invitalia, Domenico Arcuri, regista dell’operazione di riassegnazione degli impianti e che si dice molto soddisfatto per la firma di tutti i sindacati ma anche per il fatto di aver creato nuova occupazione. Spiega Arcuri al Fatto: “Si partiva da 1916 dipendenti e, considerando i pensionamenti, si arriverà a superare i duemila occupati”. In realtà, 640 di questi sono stati messi a riposo anticipatamente e, comunque, con un esborso pubblico notevole. Invitalia, per bocca del suo amministratore, si dice convinta anche della solidità del progetto presentato dalla Dr Motors che invece desta più di qualche preoccupazione nella Fiom siciliana e molisana : “Se avessimo pensato che il progetto fosse a richio non lo avremo accettato” spiega Arcuri.
Un “grazie” a Passera viene anche da Fiom, Fim e Uilm di Palermo mentre il segretario Fiom, Maurizio Landini, sentito dal Fatto, preferisce dire “grazie ai lavoratori che hanno fatto un duro lavoro per mantenere i loro diritti”. “Dopo di che – aggiunge Landini – riconosco che c’è stato un ruolo dei tecnici del governo ma va anche detto come la Fiat abbia trovato il modo anche in una situazione come Termini di non giocare fino in fondo la propria responsabilità”.
MA LA VICENDA Fiat non finisce certo qui. C’è un tavolo tra azienda e sindacati, convocato martedì a Torino, per discutere delle conseguenze della disdetta del contratto nazionale operata dalla Fiat. Landini garantisce che se l’obiettivo è estendere il “modello Pomigliano” a tutto il gruppo e applicare l’articolo 8 voluto dal governo Berlusconi, che permette di derogare alla normativa sui licenziamenti, “non c’è spazio per alcuna mediazione”. La Fiom si sta attrezzando per un pacchetto di iniziative: dagli scioperi alle cause legali fino al referendum per l’abrogazione dell’articolo 8. Si è svolta ieri un’assemblea a Roma in cui si è fatto un ulteriore passo avanti per la definizione dello schieramento e dei meccanismi procedurali. La sinistra radicale e Di Pietro hanno dato piena disponibilità e alcuni settori del Pd sono interessati all’operazione. Se ne discuterà già nei prossimi giorni.

La Repubblica 27.11.2011
"Il sostegno a Monti deciderà le alleanze" Casini chiama Bersani e i moderati del Pdl
Il leader del Terzo Polo: è un merito aver accantonato la foto di Vasto
Il segretario del Pd: "Non c´è un tavolo di maggioranza Quando il premier chiama, io vado"
di u.r.


ROMA - Le alleanze future? «Le valuteremo sulla base del sostegno al governo Monti». Pier Ferdinando Casini parla a Milano, al congresso cittadino del suo partito, e traccia la rotta: l´appoggio all´esecutivo di "impegno nazionale" farà da spartiacque anche per il dopo-Monti, l´Udc stringerà l´accordo per le prossime elezioni con i partiti più leali al Professore. Braccia aperte dunque del Terzo Polo ai sostenitori a tempo pieno «del programma economico e sociale del governo». E´ una chiamata di Casini per Bersani, con cui già oggi procede in tandem. Il Pd, riconosce il leader dell´Udc, ha dimostrato grande senso di responsabilità, «Bersani con l´appoggio a Monti ha evitato che l´alleanza di Vasto tra Pd, Idv e Sel vincesse le elezioni ed evitato una campagna elettorale che non avrebbe risolto i problemi». Il segretario democratico da parte sua assicura - riferendosi ai vertici segreti tra lui, lo stesso Casini e Alfano - che «non esiste alcun tavolo di maggioranza ma una grande convergenza fra progressisti e moderati, e io vado quando chiama Monti».
Casini "sonda" pure Alfano e soprattutto lancia un amo all´ala del Pdl più sensibile all´operazione-Monti, nell´ipotesi di un´implosione del centrodestra che ne attragga pezzi interi nell´orbita centrista. Dunque, il metodo per scegliere da che parte stare alle prossime elezioni sarà il confronto sui contenuti. Le cose su cui bisogna misurarsi, spiega infatti l´ex presidente della Camera, saranno misure come la riforma previdenziale o la flessibilità salariale, «destra, sinistra e centro sono parole che non significano più nulla, che non hanno più alcuna rilevanza rispetto ai problemi veri della gente». E cita, come esempio, l´appoggio a Giuliano Pisapia nella battaglia per conquistare la poltrona di sindaco a Milano, «noi guardiano a quello che succede, senza pregiudiziali ideologiche». E Alfano che polemizza per lo spread che va su, nonostante le dimissioni di Berlusconi? «Monti non ha la bacchetta magica, i nodi sono al pettine in tutt´Europa. Berlusconi sarebbe uscito ancora peggio da una campagna elettorale». Bossi che dice che il governo Monti fa schifo? Replica del leader centrista: «Ha poco da urlare. Siamo in questa situazione anche grazie a lui». E´ un bipolarismo da superare, precisa poi Casini parlando all´assemblea costituente del movimento dei Riformisti di Stefania Craxi, sempre a Milano, «la fase politica che è passata ci ha profondamente diviso nel giudizio sul governo Berlusconi, ma oggi guardiamo avanti per costruire una soluzione alla catastrofe italiana». Dal Carroccio, gli risponde il presidente del Consiglio regionale lombardo, Davide Boni: «Con tutto il rispetto per Casini, ma nomen omen: parla proprio lui, erede di chi ha portato all´enorme debito pubblico italiano». Dal Pdl arriva la dura replica di Osvaldo Napoli: «Casini, come del resto Enrico Letta, ha scoperto che la crisi dell´euro non è colpa di Berlusconi. Firmando così un´autoaccusa micidiale. Cadono dalle nubi, come Checco Zalone». Ma si fanno sentire anche i fautori del dialogo, come Maurizio Lupi che auspica «il ritorno di un governo di centrodestra, possibilmente allargato agli amici che fanno parte del Ppe». Che sarà peraltro a congresso, con la presenza dello stesso Berlusconi, 8 e 9 dicembre a Marsiglia. Sulla stessa linea i Popolari Liberali di Carlo Giovanardi, riuniti a Verona. Ma per l´ex sottosegretario Francesco Giro è «impossibile» basare le future alleanze sul sostegno al governo Monti, «ci sembra difficile pensare che l´Udc voglia l´alleanza con Vendola, Bertinotti e Di Pietro».
(u. r.)

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Quando un Diritto diventa un Premio - l'Equivoco delle Celle Aperte
di Luigi Ferrarella


Un diritto trasformato in concessione, l'abc teorico del vivere in carcere (in cella di notte, in sezione e spazi esterni di giorno) fatto invece dipendere da impressioni sul comportamento del detenuto quali «la reazione a situazioni difficili»: l'assuefazione allo Stato fuorilegge che stipa quasi 68mila persone nel posto per 45mila è il retroterra della circolare diramata dalla dirigenza uscente del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ai direttori delle carceri, affinché apposite équipe classifichino entro 60 giorni i detenuti in codici bianchi-verdi-gialli-rossi e tendenzialmente ammettano i primi tre a un regime di celle aperte durante la giornata.
Già oggi, infatti, a dispetto di detenuti rinchiusi anche 22 ore su 24 in celle mal (o non) riscaldate, carenti nei servizi igienici e dalle quali come ieri a Livorno capita che ci si ferisca cadendo dal terzo letto a castello, le celle aperte di giorno dovrebbero essere non un privilegio per supposti «meritevoli», ma la regola per tutti i detenuti comuni in media sicurezza: almeno se hanno un senso le parole del regolamento penitenziario del 2000 che (come già dal 1975) distinguono tra «locali nei quali si svolge la vita dei detenuti» e «locali» o «camere di pernottamento». Parole ora meritoriamente rispolverate, ma nel contempo retrocesse a optional subordinato al comportamentale codice-colore del detenuto.
«La tesina di uno studente che ripropone principi elaborati da tempo ma non trasformabili in cose vere senza risorse», commenta il principale sindacato dei direttori di carcere. E in attesa di investire invece su misure alternative e circuiti a custodia differenziata, anche le buone intenzioni appaiono impraticabili nella realtà numerica (23mila detenuti più del consentito), logistica (mancano 6mila agenti penitenziari) e urbanistica (metà delle carceri risalgono a prima dell'800) che motiva i radicali a chiedere «una amnistia per la Repubblica» che ponga fine allo scandalo di reparti dove «i detenuti dispongono di un terzo dello spazio che le direttive europee impongono per gli allevamenti dei maiali».

Il Fatto Quotidiano 27.11.2011
CASAPOUND - Napoli si tinge di nero


Una giornata di tafferugli e nervi, con cariche della polizia, quattro feriti e la paura di uno scontro tra estremisti neri e centri sociali. Sabato difficile per Napoli, teatro della manifestazione “contro il governo delle banche” di Casapound Italia, associazione di estrema destra. In città sono arrivati 4000 militanti per un presidio in piazza Carlo III. Poco lontano, in piazza Cavour, il contro-presidio della Rete antifascista. In mezzo, centinaia di agenti. Il momento più difficile si è vissuto alle 9, quando i carabinieri hanno intercettato un furgone in via Don Bosco. All’interno, 30 mazze di legno, 30 bastoni di plastica e decine di bottiglie di vetro. Alcuni militanti di Casapound hanno provato a impedire l’ispezione. Sul posto è arrivata la polizia, che ha effettuato alcune cariche. Feriti un agente e tre manifestanti, mentre due persone sono state fermate. Nel pomeriggio, Casapound ha manifestato con tre giri attorno a piazza Carlo III, tra cori, striscioni e fumogeni. Presenti anche due membri del Pdl napoletano, Luigi Rispoli e Marco Nonno. (l.d.c.)

Il Fatto Quotidiano 27.11.11
PALUDE NEONAZISTA
I crimini della cellula terroristica di destra e lo sgomento tedesco: governo e istituzioni sono stati colti impreparati
di Georg Mascolo, Holger Stark e Alfred Weinzierl


In Germania sono scoppiate furibonde polemiche quando l’opinione pubblica è venuta a sapere che una cellula terroristica neo-nazista, quella di Zwichau, era riuscita per anni a eludere polizia e servizi segreti. In particolare ci s’è chiesti come mai i servizi interni che hanno il compito di controllare il fenomeno dell’estremismo politico, non hanno individuato il pericolo in tempo. Il ministro degli Interni Hans-Peter Friedrich ha annunciato la creazione di una banca dati centralizzata sull’estremismo di destra e maggiore coordinamento e scambio d’informazioni tra le forze dell’ordine e tra i diversi Land.
-Signor ministro ha visto il video nel quale la cellula terroristica di Zwichau rivendica almeno 10 omicidi commessi per lo più per motivi razziali tra il 2000 e il 2006?
L’ho visto e rimane per me un mistero. Perché l’avrebbero realizzato? Parrebbe una sorta di testamento.
- A suo giudizio siamo in presenza di psicopatici o ci sono più profonde motivazioni politiche?
Credo che in casi come questo non vi sia alcuna chiara distinzione tra psicopatia ed estremismo. Ovviamente le conseguenze sia sul piano della sensazione di insicurezza dei cittadini, sia sul piano della reputazione internazionale della Germania, sono squisitamente politiche. Dobbiamo chiarire quanto è accaduto nella nostra società.
-Da anni i servizi segreti interni ripetono che gli estremisti di destra non sono stati coinvolti in significative e pericolose attività terroristiche.
A me risulta piuttosto che i servizi non disponevano di informazioni accurate sull’estremismo di destra.
-Come è stato possibile che tutti – servizi di informazione, politici, giornalisti – si siano così clamorosamente sbagliati?
Perché sembravano azioni isolate non riconducibili a un unico quadro e perché non ci sono mai state rivendicazioni di tipo politico tali da far pensare a un’unica organizzazione terroristica.
-Il fatto è che se 13 anni fa a entrare in clandestinità fossero stati tre estremisti islamici o tre estremisti di sinistra, lo Stato avrebbe reagito con maggiore efficacia. Come mai la reazione non è la stessa quando si tratta di neo-nazisti?
Il terrorismo di matrice islamica ha conquistato il centro della scena l’11 settembre del 2001. Fu una esperienza traumatica e ne rimanemmo tutti sconvolti. Non voglio fare paragoni, ma l’11 settembre accadde qualcosa che persino gli esperti ritenevano impossibile. Ora anche nel campo del terrorismo di destra stanno cominciando ad accadere cose impensabili.
-Sta di fatto che il terrorismo di destra è sempre stato sottovalutato. Le leggo un passo di un documento del governo: “Su decisione del ministero degli Interni è stato istituito il Gruppo di informazione per il controllo e la prevenzione dei crimini commessi da estremisti di destra”. Il gruppo avrebbe dovuto facilitare lo scambio di informazioni. Lo sa a quando risale questo documento?
No.
- Al 1992 subito dopo gli attentati di Rostock e Hoyerswenda contro profughi politici e stranieri.
Ma ora ci stiamo muovendo e stiamo facendo molto di più. Abbiamo intenzione di controllare tutti i possibili terroristi di estrema destra e questa decisione era già stata presa prima dei recenti fatti di sangue.
-Nell’ottobre 2003 il ministero degli Interni e la conferenza sulla sicurezza interna esclusero che vi potessero essere gruppi di estrema destra capaci di attentati terroristici.
Col senno di poi possiamo dire che era una diagnosi completamente sbagliata. Ma le novità ci sono. Come abbiamo già fatto con l’estremismo islamico, istituiremo un banca dati nazionale e un centro congiunto per combattere l’estremismo di destra.
-Ma lo sa che moltissime informazioni contenute negli archivi di polizia sono state distrutte?
Sì. Al momento la legge obbliga a conservare queste informazioni per 5 o 10 anni al massimo. È troppo poco.
-Appaiono ormai chiari gli stretti legami tra l’Npd, il partito di estrema destra tedesco, e la cellula di Zwichau. A suo giudizio l’Npd andrebbe messo al bando?
Penso che l’Npd sia un partito anti-costituzionale. Ma per poterlo mettere al bando bisogna fornire le prove di comportamenti e atti contro la Costituzione. La Conferenza dei ministri degli Interni dei Land ha istituito una commissione di lavoro che si propone di raccogliere le prove necessarie per bandire l’Npd.
-Un precedente tentativo di bandire l’Npd fallì perché si venne a sapere che i servizi interni avevano informatori in seno all’Npd che avevano “pilotato” la decisione.
Oggi la situazione potrebbe essere diversa e comunque preferisco attendere le risultanze del lavoro della Commissione con-giunta prima di pronunciarmi.
-Con tutto il rispetto mi sembra che ormai si sappia tutto quel che c’è da sapere sull’Npd.
Ma finora s’è sempre ritenuto che i rischi giuridici di un provvedimento di messa al bando fossero troppo alti. Mi auguro che il lavoro della Commissione possa dare risultati tali da rendere possibile una decisione diversa.
-Non ritiene si debbano aggiornare le statistiche per quanto riguarda il numero delle vittime della violenza di estrema destra? Secondo i dati ufficiali del ministero le vittime tra il 1990 – anno della riunificazione – e il 2008 sarebbero state 46. Secondo molti esperti il numero delle vittime è di almeno 137.
Alla luce dei recenti fatti di sangue abbiamo riaperto alcune indagini che erano state archiviate ed è quindi possibile che vi siano novità anche in tal senso.
Copyright 2011 Der Spiegel –Distributed by The New York  Times Syndicate - Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Il Fatto Quotidiano, 27.11.2011
Torino Film Festival: il documentario di Bechis
L’amaro sorriso della gioventù fascista
di Malcom Pagani


Il bianco e nero dei cinegiornali. Gli archivi dell’Istituto Luce per sapere come eravamo e come siamo ancora oggi. Dopo aver salutato la surreale leggerezza di Aki Kaurismaki, il Festival di Torino sventola un’indagine sul consenso. Labari e bandiere nere. Fascismo e propaganda. Illusione, tragedia, sconfitta e risveglio. Marco Bechis (qui in coppia con il giornalista dell’Espresso Gigi Riva) presenta oggi Il sorriso del capo. Evento speciale della rassegna di Amelio e malinconica trasvolata sulla gioventù fascista, fissata nell’età dell’apprendimento. Divise, scuole, alunni, adunate. La seduzione del male commista alla promessa di futuro, le visite mediche di ragazzi che un giorno diventeranno uomini e soldati: “Forti, virili, italiani”, le prove dei dodicenni con le maschere antigas. Il metronomo della persuasione. La ritmica dell’inganno. Il sorriso del capo non è in terza dimensione ma parla di noi. Del populismo e dei suoi meccanismi , dell’acritica ascesa di un dittatore e di come immagini e tecnologia (Mussolini lo intuì in tempi rapidi) potessero sostenere e abbracciare un progetto di dominio. Il Minculpop plasma le coscienze, consuma chilometri di pellicola e convince gli operai a parlare a tavola di nemici e nazioni, come discutessero della Juventus “Gliela faremo vedere agli inglesi”. Così Benito: “La nostra luce” entra nelle case, supera le generazioni e affina la violenza meno visibile ma più insinuante. Rimane come un’eco in viaggio tra il ballatoio periferico e il palazzo nobiliare. Prima delle leggi razziali, nell’apparente nitore di un campo arato sotto gli occhi del Duce, di un volto quasi sovietico di un disgraziato uscito da una miniera. Nell’illusione che tutto, a iniziare dall’apparenza, dovesse essere uniformato, passa il nostro recente ieri. Da cui non ci liberiamo. Impresso per sempre, perché la storia si ripete e non ci abbandona. Alla fotografia o al ritratto a grandezza naturale, nelle piazze, sui giornali o sui muri riscoperti da Bechis e Riva, il regime preferiva la frase. “Credere, obbedire , combattere”. Più icastica di un ritratto, ideale a designare i sudditi in nome di un’idea e di un bellicismo (che anche se i registi non mostrano) pulsa sottotraccia per tutta la durata del film.
SI COMBATTE sempre. Senza ironia. Che si giochi a calcio, si scriva un articolo: “I linotipisti marciano”, si offici il varietà o si corra in un prato alla ricerca di una bambina. Dagli altoparlanti si irradia la voce e gli altri eseguono, senza chiedersi spesso perché. I corpi a trivellare, il progresso davanti e le domande dietro, in cantina o messe a tacere, senza rumore. Ne Il sorriso del capo c’è la costruzione dialettica di una nazione afasica per imposizione. “Tacete, il silenzio è il vostro dovere. È un’arma contro il nemico” dice una voce, solo apparentemente neutrale. Così i video propedeutici all’uso del telefono e la novità di potersi scambiare opinioni al riparo del conformismo in realtà, proiettano tutt’altro. Un’impotenza, la geografia dell’ambizione, l’impossibilità di seppellire un errore o un’icona. Come nell’altro doc tematico di Laurenti, Il corpo del duce. Un mistero che dura da 70 anni. Enigmi, dubbi, miraggi. Il nostro specchio.

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Vitalizi anche alla casta del ’ 68 che voleva cambiare il mondo
di Aldo Grasso


Il mitico ’ 68 va in pensione, les dieux s’en vont. Ha suscitato molta curiosità la notizia che l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, va in pensione. Con il famoso vitalizio che, notizia di pochi giorni fa, non verrà più elargito ai parlamentari. Non ora, ma a partire dal 2018. « Se mi toglierei il vitalizio? Se mi dessero qualcos’altro per vivere sì, se mi dessero una pensione sì. Ho lavorato una vita e ho diritto a una pensione, poi come si chiami non conta » ha precisato Bertinotti. Vitalizio è peggio di pensione: si porta dietro un retaggiomedioevale, è un recinto per privilegiati. La pensione, almeno, ha un che di piccolo- borghese, richiama la panchina dei giardini pubblici, le discussioni attorno alle buche dei lavori in corso, il quartino alla bocciofila. Se poi ad andare in pensione è un ex ribelle, un ex rivoluzionario, un ex sindacalista la malinconia cresce. Veramente anche la moglie Lella è da tempo una baby pensionata, avendo usufruito di agevolazioni per il pubblico impiego. Ma almeno si è dedicata anima e corpo al marito, diventando la sua look maker, creando il communist cashmere style tanto caro al salotto di Bruno Vespa. Anche Mario Capanna è andato in pensione. Come Cincinnato si è ritirato in campagna a vivere dei prodotti della terra. L’ex leader del Movimento studentesco prende 5.000 euro dalla Regione Lombardia e 4.725 euro dal Parlamento. Fa una certa impressione, per chi ricorda Capanna arringare la folla degli studenti milanesi per distruggere la borghesia e rigenerare la Storia, fa impressione vederlo ora alle prese con i vasetti di salsa di pomodoro e di miele o spaccare la legna per il caminetto. Il suo successore alla guida di Democrazia proletaria, Giovanni Russo Spena, di pensioni ne ha tre: una da ex parlamentare ( 4.725 euro), una da ex consigliere regionale ( 3.000 euro) e una da ex professore ( 3.250 euro). Costa la casta: non hanno rubato nulla, i soldi spettano loro per legge. Volevano cambiare il mondo, hanno cambiato la loro situazione previdenziale. Lunga vita a Bertinotti, Capanna e Russo Spena. Ma fra cinquant’anni, caso mai dovessero trapassare, sulle loro tombe non sfigurerebbe l’epitaffio che Indro Montanelli aveva vergato per il Migliore: « Qui riposa Palmiro Togliatti impiegato modello di rivoluzioni parastatali » .

Il Corriere della Sera 27.11.2011
Il «credo» di Ornaghi: la religione dà futuro alla democrazia
di Paolo Conti


VENEZIA — «La presenza della religione nell'ambito pubblico è soprattutto necessaria per poter guardare con speranza al futuro delle democrazie e, quindi, al domani dei popoli che nelle democrazie continuano a vedere lo strumento migliore per promuovere la libertà e la creatività dell'uomo». Parole di Lorenzo Ornaghi, neoministro per i Beni culturali, alla prima uscita pubblica, e per di più su un tema così vasto e impegnativo, che richiama subito le prospettive affrontate nel recente convegno di Todi sul rinnovato impegno dei cattolici nella politica italiana. Ornaghi parla durante il «Dialogo sulla religiosità e la laicità dell'Europa» organizzato nell'ambito dei «Dialoghi tra cultura e mercato» previsti dal Salone europeo della cultura 2011. Il ministro si confronta con Julia Kristeva, nota linguista e psicoanalista, tra i non credenti invitati da Benedetto XVI ai recenti confronti di Assisi.
Dall'Ottocento in poi, per Ornaghi, il progresso e lo sviluppo economico «portavano con sé la contrazione e la perdita di valore del «sacro», sempre più sfidato (e talvolta irriso) dalla «razionalità» che guidava gli «avanzamenti». Ma ora le grandi ideologie del Novecento sono cadute e la loro fine «ripropone la questione di "come vedere" il progresso e "quale senso" riconoscere nella Storia». Il neoministro sottolinea che «sacro e senso religioso non comportano il totale "rifiuto della modernità", non sono una sorta di ritorno del "rimosso" e del "premoderno". La "Rivincita di Dio" non è la rivincita del passato. È, al contrario, la visione del futuro, a partire da una comprensione realistica del presente». Ornaghi, che cita spesso il pontefice, descrive anche la crisi attuale della democrazia contemporanea: «Vive di "ragioni" che non riesce a garantire, o che riesce a garantire con sempre maggiore difficoltà. Fondando la propria legittimazione sulla promessa di un benessere materiale, la democrazia si trova a operare su un terreno precario, sempre più instabile». C'è insomma una rinnovata «domanda del senso di convivere».
A scanso di equivoci Ornaghi spiega che «è possibile concepire la partecipazione dei credenti al dibattito pubblico e la pubblica manifestazione della loro fede come articolazioni differenti della razionalità. Come espressioni, per usare la formula di Habermas, di un disaccordo ragionevolmente prevedibile». Sia chiaro, aggiunge, che ciò non significa certo che «la religione debba puntare a indicare o a imporre a credenti o non credenti le norme morali dell'azione politica». Piuttosto la religione dovrà «aiutare la ragione nella ricerca delle soluzioni, in un continuo cammino».
Il ministro ha anche incontrato sia il sindaco Giulio Orsoni che il presidente uscente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta. Ornaghi non ha ancora sciolto il nodo della sua riconferma, riservandosi il tempo di approfondire: «Se le decisioni vengono strattonate lasciano delle imperfezioni».