mercoledì 30 novembre 2011

l’Unità 30.11.11
Il movimento del 13 febbraio si ripresenta. L’11 dicembre in piazza del Popolo a Roma
Il motto «Se non le donne, chi?». Obiettivo: «Alle elezioni invadere i partiti per rinnovarli»
La seconda volta delle donne: senza di noi non riparte l’Italia
Di nuovo in piazza, nove mesi dopo. Per dare vita a una nuova stagione di mobilitazione contro la crisi. «Se non le donne, chi?». La loro ricetta? «Lavoro e welfare. Senza di noi il Paese non può ripartire».
di Mariagrazia Gerina


C’è chi dice: «Finalmente». Perché, in tante, da tempo, sentivano il bisogno di una «seconda volta», dopo quel 13 febbraio, che, in piena Italietta del Cavaliere e delle Olgettine, ha segnato l’atto di rinascita del movimento delle donne. E poi perché: «Se non le donne, chi?». Ora che c’è un altro governo da incalzare. E allora, eccole, quelle di Se non ora quando, chiamare tutte a raccolta, un’altra volta. L’11 dicembre, di nuovo in piazza del Popolo, a Roma. E contemporaneamente nelle altre piazza d’Italia. Con l’orchestra sinfonica che suonerà le arie di Tosca, Norma, Carmen, Cenerentola. E poi Paola Turci e Marina Rei, Emma Marrone e Erica Mou, a chiamare all’appello anche le giovanissime.
Come nove mesi fa. Più «libere», ora che l’agonia del governo Berlusconi è finita. E ci vorrà pure un nuovo urlo collettivo ironizza Cristina Comencini per sottolineare il momento. Ma anche meno disposte ad aspettare ancora che i temi da cui dipende il futuro delle donne e del paese trovino spazio nell’agenda della politica. Dal palco, Chiara Saraceno parlerà di welfare, Annamaria Testa della rappresentazione femminile nella pubblicità.
PROPOSTE ANTI CRISI
Liberare le donne dal peso del welfare che attualmente ricade interamente sulle loro spalle. E quindi più asili, più servizi. È questa la ricetta per far ripartire il paese, che Se non ora quando si prepara a scandire in piazza. E anche «più cittadinanza», suggerisce la futurista Flavia Perina, aggiungendo il tema dell’immigrazione sul tavolo aperto dalle donne. «Vogliamo segnare questa stagione con la nostra forza, contare sulla scena pubblica, adesso e domani, quando si voterà», spiega la storica Francesca Izzo. «La vera tragedia della vita italiana è il basso tasso di partecipazione al lavoro delle donne», scandisce la regista Cristina Comencini, che rivendica la natura «costruttiva» del movimento da lei fondato insieme alle altre: «Anche il 13 febbraio non era contro che scendevamo in piazza ma per». Alle spalle ora c’è un anno «importantissimo». In cui, «da Palermo ad Aosta», come cantava De Andrè, sono nati centoventi comitati. E una consapevolezza: «Se le donne non prenderanno il potere, una parola che a molte non piace ma a me sì, gli strumenti per partecipare alla vita attiva non li otterremo mai», scandisce ancora Comencini. Un vero e proprio programma politico: «Se non le donne, chi?», appunto. La manifestazione è solo il primo passo. Quello che le donne intendono costruire a partire dall’’11 dicembre è una nuova stagione di partecipazione, che incalzi il nuovo esecutivo, ma guardi già alle prossime elezioni. Candidature in vista? Questo è sicuro. «Non la mia», si schermisce Comencini. E però: «Invadere i partiti per rinnovarli», è questo il motto che suggerisce al movimento. «E penso anche che per far spazio alle donne un po’ di uomini dovranno andare a casa», aggiunge. Riforma elettorale, con meccanismi che favoriscano l’elezione di donne in parlamento. E un prossimo esecutivo, composto per metà da donne. Qualcuna ragiona anche di una lista tutta al femminile. Ma il tema divide. C’è chi, come Francesca Izzo, pensa che non sia quello lo strumento di un movimento trasversale, nato per incalzare tutti i partiti. E chi invece, come Giulia Bongiorno, 32 anni, imprenditrice siciliana, omonima della deputata di Fli, a Castelvetrano, ne ha già fondata una in vista delle amministrative della prossima primavera.

l’Unità 30.11.11
Comitato Se non ora quando
«Cari partiti, ora ascoltateci o niente voto»


Care donne che eravate in piazza con noi il 13 febbraio, a rivendicare dignità e rispetto, care tutte le altre, italiane per nascita o per scelta.
Care donne che non hanno perso il coraggio, la voglia di esserci, il progetto di contare, la speranza di uscire da questi anni di fango.
Care donne singolari e plurali, diverse l’una dall’altra, sorelle compagne amiche, figlie e madri, siamo di nuovo qui, tutte unite, perché tutte unite siamo una forza e con “una forza” è ora che facciano i conti. Tutti. Siamo una forza, per quante siamo e per come siamo. Siamo quelle che tengono insieme affetti e lavoro, cura e responsabilità, libertà e senso del dovere. Siamo quelle che il diritto di essere cittadine se lo guadagnano giorno per giorno sulle barricate della vita quotidiana.
Non c’è da uscire solo da una crisi economica, ma da una crisi politica, una crisi istituzionale, una crisi morale, da una logica, un immaginario, un ordine. In questo passaggio difficile non possiamo tirarci indietro, perché non può tirarsi indietro chi regge questo paese sulle proprie spalle.
Le donne non possono mancare per ridare all’Italia la dignità che ha perso, per ridarle credibilità, nel mondo, in Europa. Perché vogliamo restare in Europa e lavorare per un suo reale governo politico. Ma soprattutto non possono mancare per una politica che sia radicata alle necessità vere di donne e uomini. Democrazia vuol dire donne e uomini insieme al governo, capaci di far parlare le loro vite diverse. E anche così dovranno essere democratiche le aziende, le banche, le istituzioni, le fondazioni, le università. Tutto.
E che nessuno ci venga a dire che questo non è il momento. Per anni abbiamo votato una rappresentanza irregolare, composta da una maggioranza schiacciante di uomini. Abbiamo votato in cambio di niente, infatti questo paese non ci somiglia, non ci racconta. Ma adesso basta.
Adesso, attenti: una donna un voto. Quando chiederanno il nostro voto non lo daremo più né per simpatia, né per ideologia, ma solo su programmi concreti e sulla certezza dell’impegno di 50% di donne al governo.
Il 50% non è quota rosa, non serve a tutelare le donne, serve a contenere la presenza degli uomini, non è un fine, ma solo un mezzo per rendere il paese più vivibile ed equilibrato, più onesto, più vero. I partiti indifferenti perderanno il nostro voto. E voi uomini, che ci siete stati amici, che ci avete seguiti nelle piazze del 13 Febbraio, credetelo: la nostra forza è anche la vostra. È per un bene comune che stiamo lottando.
Un Paese senza la voce delle donne è un Paese che va a finir male, verso una società triste e lenta, ingiusta, immobile, volgare e bugiarda. Bisogni e desideri delle donne possono già essere un buon programma di governo. Sappiamo più degli uomini quanto oggi sia difficile vivere, difficile lavorare, mettere al mondo figli, educare, difficile essere giovani, difficile essere vecchi.
Le nostre competenze non le abbiamo guadagnate solo sui libri, ma anche dalla faticosa e spesso terribile bellezza della vita delle donne. La nostra storia ci insegna che non serve lamentarsi. Non ci basta più quella specie di società equilibrista e funambola che abbiamo inventato, in completa assenza dello Stato, per poter vivere decentemente e far vivere decentemente. La società civile è più donne che uomini.
È ora di cambiare, cittadine!
L’11 Dicembre 2011, in tutte le città d’Italia.

l’Unità 30.11.11
Uccise 77 persone. Per gli psichiatri Breivik è solo «pazzo»
Un folle, affetto da schizofrenia paranoica. Per gli psichiatri Anders Breivik, il killer di Utoya e Oslo, è affetto da un grave disordine mentale. Se la diagnosi sarà confermata, non andrà in carcere ma in un istituto psichiatrico.
di Marina Mastroluca


Un cavaliere senza macchia e senza paura, investito di un compito duro ma necessario, per salvare l’Europa dall’invasione islamica. È questo che Anders Behring Breivik ha visto e raccontato del suo piano micidiale, lungamente preparato e immaginato, prima di essere portato a segno: 77 morti, in gran parte ragazzi, 151 feriti, un paese intero tramortito dalla sua brutalità. Per i due psichiatri che in questi mesi lo hanno ripetutamente intervistato Breivik non è mai stato in grado di comprendere quello che stava facendo né quando progettava la strage, né al momento di premere il grilletto, di piazzare l’autobomba. «La conclusione è che è pazzo», ha spiegato il procuratore Svein Holden.
Schizofrenia paranoica, questa la diagnosi di Synne Serheim e Torgeir Husby che, prima di stilare la loro perizia, in 13 diverse occasioni sono stati a colloquio con il trentaduenne autore della strage del 22 luglio nel centro di Oslo e sull’isola di Utoya, tra i giovani del partito laburista. Breivik ha ammesso tutto, ha raccontato come ha portato a compimento il suo piano, ma non si è dichiarato colpevole. «Si vede come il più perfetto dei cavalieri dalla seconda guerra mondiale e la sua organizzazione di cavalieri templari prenderà il potere in Europa», ha raccontato Holden. Gli investigatori hanno cercato un possibile gruppo di riferimento: nessuna traccia, nessun “cavaliere” nella vita reale. Breivik era solo con i suoi fantasmi. «Vive nel suo universo delirante e i suoi pensieri e le sue azioni sono guidate da questo universo».
TRATTAMENTO SANITARIO
Un folle, non un terrorista con un piano sanguinario per sbaragliare le fila di un partito, come quello laburista norvegese, visto come la testa di ponte del multiculturalismo che voleva combattere. La perizia psichiatrica dovrà passare all’esame di una commissione medico legale che potrà chiedere ulteriori accertamenti e anche negare l’infermità mentale, anche se di solito il tribunale tende ad accogliere la valutazione degli esperti. In questo caso l’attentatore di Utoya non andrebbe in carcere ma in un istituto psichiatrico, con condizioni periodicamente sottoposte a revisione. Rinchiuso fino a quando sarà considerato un pericolo per la società, anche a vita se il suo stato fosse come sembrano credere gli psichiatri che lo hanno visitato permanente: non sarà un carcere, ma Breivik rischia l’ergastolo che la legge norvegese non prevede, fissando il massimo della pena a 21 anni.
«Se la conclusione finale sarà che è pazzo chiederemo il trattamento mentale obbligatorio», ha spiegato il pubblico ministero Inga Bejer Engh. Certo non sarà facile per i parenti delle vittime rinnovare la loro pena ogni volta che Breivik dovesse essere sottoposto a riesame. Quello che conta, però, secondo i legali delle famiglie colpite è che il killer resti in carcere. «La cosa più importante per i nostri clienti è che non sia libero di tornare per strada».
Le conclusioni degli psichiatri per molti in Norvegia sono però state un vero e proprio shock. Perché Breivik ha pianificato la strage con cura, in tutti i dettagli. E ci chiede se definirlo folle non sia un modo per esorcizzare la paura di aver covato simili mostri, senza guardare in faccia la vera natura dell’estremismo xenofobo.

La Stampa 30.11.11
Niente carcere per il norvegese che uccise 77 persone
I periti: “Breivik è pazzo”. Rischia il manicomio a vita
di Francesco S. Alonzo


Che cosa penseranno i congiunti delle 77 vittime del pluriomicida norevegese Breivik apprendendo che, sulla base di un rapporto presentato da esperti psichiatrici, il killer eviterà il carcere, finendo in una clinica per malati di mente? Il tribunale di Oslo, nella persona del giudice Inga Bejer Engh, ritiene che il pluriomocida Anders Behring Breivik, che il 22 luglio scorso fece una strage sull’isola di Utö ya, in quel momento era incapace di intendere e di agire e dunque dev’essere curato e non condannato. Insomma, il furioso sparatore che, dopo aver regolato a tempo un’autobomba con 950 chili di esplosivo all’esterno della sede del governo norvegese, uccidendo otto persone, avrebbe portato a termine il suo piano di eliminazione di «elementi nocivi alla nazione», armato di mitra e munizioni in quantità, in preda a follia omicida e non per eseguire un piano architettato e minuziosamente descritto in un diario di quasi mille pagine.
È una decisione che l’opinione pubblica norvegese, soprattutto i congiunti delle vittime, difficilmente digerisce, ma si basa su un rapporto scientifico di 243 pagine stilato da due esperti psichiatri legali, Torgeir Husby e Synne Soerheim, che hanno avuto 13 incontri con Breivik. Il giudizio, espresso dal pubblico ministero Stein Holden nel corso di una conferenza stampa, si riassume così: «L’imputato era gravemente psicotico quando commise i reati ascrittigli. In altre parole, era incapace di agire secondo la propria volontà». Ciò significa che con tutta probabilità eviterà il carcere. «Se una persona è psicotica non può essere condannata alla prigione, né può essere tenuta in custodia, ha specificato il giudice Inga Bejer Engh. Può però essere chiusa in un penitenziario psichiatrico, anche a vita, se viene ritenuta pericolosa per la società. Ma se, durante la permanenza in clinica, venisse accertata un’eventuale guarigione, Breivik verrebbe trasferito in un normale penitenziario».
Nel rapporto degli esperti, Breivik è descritto come una persona che vive in un proprio universo, popolato di fantasie malate che lo avrebbero convinto di essere stato designato a decidere chi deve vivere e chi morire, per salvare il proprio Paese da elementi eterogenei e distruttori.
Breivik ha spiegato agli esperti psichiatrici di avere commesso il pluriomicidio che però lui definisce esecuzioni capitali per amore del popolo norvegese e si è descritto come il perfetto paladino a difesa dei valori nazionali. Il processo a suo carico inizierà il 16 aprile 2012 e si prevede che durerà dieci settimane.

Repubblica 30.11.11
"Breivik non è sano di mente" una perizia salva il mostro di Oslo
di Alberto Flores d’Arcais


Anders Behring Breivik non era sano di mente quando il 22 luglio scorso fece scoppiare un´autobomba nel centro di Oslo per poi freddare decine di giovani laburisti nell´isola di Utoya, nella più grande strage della Norvegia contemporanea. È affetto da schizofrenia paranoide hanno sentenziato i due psichiatri che in 36 ore (complessive) hanno tentato di capire cosa fosse passato nella mente del 32enne che pensava, uccidendo 77 innocenti, di dare il via a una rivoluzione «anti-marxista e anti islamica».
Quel giorno d´estate Breivik sconvolse un intero paese e le certezze di un popolo tra i più tolleranti del pianeta. Quando venne arrestato, a pochi metri dai cadaveri delle sue vittime, confessò la strage senza un rimorso. In tribunale confermò, dichiarandosi allo stesso tempo «non colpevole», in quanto autore di un «massacro necessario».
La perizia psichiatrica, un vero e proprio libro di 243 pagine, che ieri mattina è stata depositata al tribunale di Oslo potrebbe evitare a Breivik la sicura condanna, in quanto «malato incapace di intendere e volere secondo il sentire comune». Per essere utilizzata dai suoi avvocati difensori (il testo integrale è stato secretato dal procuratore Inga Beyer Engh) dovrà prima essere convalidata dal Consiglio dei medici legali, ma lo stesso procuratore ha reso noto i punti principali. Per gli psichiatri Breivik è un uomo che vive chiuso nel suo mondo di delusioni, convinto di aver ucciso per amore del suo popolo, arrogandosi il diritto di decidere chi dovesse vivere o morire. La perizia parla anche del delirante "Manifesto" di 1500 pagine in cui l´autore della strage parla di se stesso come di un "Templare", pronto a dare il via a una rivoluzione in Norvegia e in Europa.
Il processo, la cui prima udienza è fissata per il 16 aprile, inizierà regolarmente, ma se i giudici (come di solito avviene in Norvegia) terranno conto della perizia Breivik non potrà essere condannato al carcere. Rischia però di passare il resto della sua vita in un manicomio criminale di massima sicurezza. Lo ha fatto capire la stessa Bejer Engh: «Se Behring Breivik non potrà essere giudicato responsabile, alla fine del processo chiederemo al tribunale che venga sottoposto a trattamento psichiatrico obbligatorio. E questo gli può essere somministrato per tutta la vita».

il Fatto 30.11.11
Concita De Gregorio e l’elezione della Polverini
Lazio, il Pd sabotò la Bonino per non irritare il Vaticano
di Alessandro Ferrucci


La versione di Concita De Gregorio è la seguente: il Pd ha perso di proposito le Regionali del Lazio per dare a Fini la vittoria di un suo candidato. Quindi rafforzarlo. Quindi rendere più salda l’alleanza con il Terzo polo. La confidenza l’avrebbe ricevuta un anno e mezzo fa, proprio a cavallo del voto, da un dirigente democratico. Lei era direttore de l’Unità. Ieri Libero e il Giornale le hanno dedicato spazio. Titoli importanti . Editoriali. Hanno chiesto a Gian-franco Fini di tirare giù la maschera. Qualcuno, tra i politici, si è chiesto il perché la firma oggi di Repubblica abbia rivelato solo ora una notizia del genere. Ci sono state reazioni da parte del Pd, sdegnate, scocciate, a volte denigratorie. Eppure, a tempo debito, il Fatto ha raccontato qualcosa di simile. Di simile, non identico. E la successiva lettura dei dati ci ha dato qualche ragione. La questione era la sanità. Nel Lazio le “cure” coprono l’ottanta per cento del budget regionale. Parliamo di alcune decine, centinaia di milioni di euro il giro d’affari. Gran parte è pubblico, ma una bella fetta è coperta dalle cliniche private, molte delle quali legate al Vaticano. Ecco qui il problema: come poteva un’esponente Radicale, abortista, vincere in casa della Chiesa? L’onorevole Binetti, allora ancora nel Pd, disse: “Mai con la Bonino, nel caso sono pronta a lasciare il Pd”. Lo fece comunque. Silvia Costa, politico cattolico da oltre 117 mila preferenze (Europee del 2009), quasi tutte raccolte tra le parrocchie, diede il suo contributo “Non sono d’accordo sul voto alla Bonino. Farò valere le mie idee”. Profetica. E ancora l’altro iper-cattolico Giuseppe Fioroni, “ras” del Viterbese, anche lui fortemente contrario. Risultato? Dati alla mano, la Radicale ha ottenuto un bel risultato su Roma, mentre ha preso una scoppola in provincia, dove il voto è più controllato, in particolare al nord del Lazio e verso Latina. Con due variabili: primo, la zona Pontina è regno di Fazzone, pluri-indagato, grande sponsor della Polverini. Secondo, un altro schiaffo è arrivato dal Frusinate, dove la mozione di Ignazio Marino ha portato a casa un risultato inaspettato, tanto da far ribattezzare l'area come “la nuova Amsterdam”. Ultimo punto. La campagna elettorale del Pd è partita in ritardo anche perché la Bonino ha voluto mantenere contemporaneamente la candidatura in Lombardia. Al Nazareno la giudicarono “inopportuna: noi lavoriamo per lei nel Lazio, e poi si contrappone a noi in un’altra regione? Non si può”, dicevano. Allora, come Fatto, abbiamo lavorato sulla vicenda. Abbiamo chiesto lumi alle parti in causa. Tutti zitti. Compresi gli stessi Radicali, anche dopo la sconfitta. Ora tocca a Concita De Gregorio tirare fuori la questione. E le prime smentite sono proprio arrivate dal mondo cattolico del Pd, a partire da Fioroni e dallo stesso editore de l’Unità, Renato Soru.

Corriere della Sera 30.11.11
Bonino: «Nel Pd c'è chi non mi aiutò». Ma il partito rigetta l'accusa di Concita
di Ernesto Menicucci


ROMA — Emma Bonino è di poche parole: «Devo presiedere al Senato. Di che si tratta?». Le elezioni regionali del 2010: aveva avuto sentore del mancato appoggio del Pd? «Lo sapevo. Ci furono anche delle dichiarazioni di Rosy Bindi e di Dario Franceschini...». E la teoria del complotto? «Non mi interessa. Ci sono tanti militanti che si sono impegnati e che ringrazio. E altri che quella battaglia preferirono perderla. Perché? Lo chieda a loro». Mario Staderini, segretario dei Radicali, aggiunge: «Nell'Internazionale socialista si diceva: Pas d'ennemis à droite, nessun nemico a destra. Il problema del Pd è l'allergia alle sinistre liberali». Una rivelazione di Concita De Gregorio, ex direttrice dell'Unità, riavvolge il nastro della politica laziale e nazionale: «Un altissimo dirigente del Pd mi disse: "Nel Lazio ci conviene perdere. La Polverini è la candidata di Fini, se lei vince Fini si rafforza nella sua posizione critica del centrodestra, si decide a mollare Berlusconi e a fare il Terzo polo, con Casini. E noi avremmo le mani libere per allearci con loro e andare al governo"». Soru, editore dell'Unità, dubita: «Non credo a quella versione». Ma scatta comunque la caccia all'uomo: Staderini fa il nome di Beppe Fioroni, che smentisce. Altri indiziati? «Alti dirigenti — ragiona un parlamentare Pd — ce ne sono pochi: Bersani, D'Alema, Franceschini, Veltroni, Bettini, Bindi». Una chiave la fornisce la De Gregorio: «Di sicuro, non sono andata a chiedere all'area cattolica... È una persona intelligente, di un'area determinante». Il Pd prende le distanze. Secondo Nico Stumpo, della segreteria dei democratici, «quelle affermazioni non hanno alcun fondamento». Esterino Montino, capogruppo alla Regione Lazio, «vira» sulle voci che vorrebbero la De Gregorio candidata veltroniana alle primarie da sindaco di Roma: «Se vuole misurarsi lo faccia pure». La giornalista replica: «Questa è la loro logica, avere sempre qualcosa in cambio. Non mi presenterò per le primarie a Roma: quando lasciai l'Unità, non ho chiesto né un seggio, né una direzione alternativa, come fanno altri». Rita Bernardini, ex coordinatrice della campagna elettorale della Bonino: «La ricostruzione è troppo machiavellica, ma il disimpegno del Pd è noto: budget inferiore alla campagna per Marrazzo, presenza fissa di Renata Polverini da Santoro e da Floris, problemi nelle province, specie a Frosinone». Lucio D'Ubaldo, senatore pd, ricorda: «Il ragionamento su Fini, la Polverini e il Terzo polo venne fatto, ma dall'Udc». Anche la Polverini interviene: «Quella campagna l'abbiamo vinta io e Berlusconi. La De Gregorio sceneggia un film irreale. Non ho certo giocato a porta vuota». Per la cronaca: Bonino prese a Roma 115 mila voti in più. Ma, nel resto del Lazio, Polverini recuperò e vinse.

l’Unità 30.11.11
Addio a Lucio Magri, l’eretico che volle restare comunista
Il suicidio dell’uomo politico nato a Ferrara e cresciuto a Bergamo nella sinistra democristiana, in seguito confluito nel Pci e poi tra i fondatori del Manifesto. Dall’esperienza del Pdup al rientro nel partito che lo radiò
di Bruno Gravagnuolo


Che fa Lucio Magri? «Sta studiando Il Capitale...». Una battuta che circolava negli anni 70, dopo la sua radiazione dal Manifesto, e che udimmo da un eminente dirigente Pci scomparso, a significare astrattezza e intellettualismo. In realtà un giudizio riduttivo e ingiusto. Perché Magri, come ha scritto Napolitano al Manifesto svolse «un ruolo di rilievo nella politica italiana, dando prova di talento e spirito indipendente». E poi Magri scomparso suicida ieri l’altro in Svizzera a 79 anni, era tutt’altro che uomo avulso dalle cose. Era un dirigente politico e un uomo di cultura che faceva della coerenza esistenziale e dell’unità tra fare e pensare un tutt’uno. Sempre e all’estremo.
Di questo ci parla la sua morte, la scelta di morire in un certo modo. Meditandola. Avvisando gli amici e i compagni, che ne hanno atteso la notizia paventata ed esorcizzata fino all’ultimo nell’abitazione stessa di Magri. Che a sua volta aveva provveduto in anticipo al suo funerale e al dopo (riposerà a Recanati, accanto alla moglie Mara, che lo ha preceduto per un tumore). Dunque, suicido assistito in Svizzera e decisione di non voler sopravvivere, in un mondo che lo aveva sconfitto politicamente e che Lucio Magri non voleva più «abitare», reputandolo intollerabile. Morte annunciata, che è stata un messaggio politico, tragico. Una sorta di auto-affermazione esistenziale favorita dalla scomparsa della moglie che amava molto ma pagata con il prezzo estremo, liberamente scelto. Che lascia attoniti e che merita rispetto. Magri forse ha inteso attribuirle una specie di carattere riassuntivo: scomparsa testimoniale dopo la grande battaglia perduta e la perdita di chi gli era più caro.
E allora, nel ricordarlo, vediamo la sua vita e la sua battaglia, tra coerenza e paradossi. Ferrarese nato nel 1932, cresce a Bergamo e fa i suoi esordi politici nel mondo cattolico. Negli anni 50 lavora a Per l’azione, foglio «anticapitalista» dei giovani Dc, insieme a Giuseppe Chiarante, compagno di scuola e amico parallelo espulso anche lui dalla Dc, dopo la fronda anti-atlantica e «anti-anticomunista» di tanti di quei giovani Dc. Poi lavora al Ribelle, dove bocciata la «legge truffa», critica il centrismo bloccato della Dc, auspicando un’apertura a Psi e Pci. Ancittadino di Bergamo e vicesegretario regionale. Magri, ex riformista, è un sinistro anticapitalista e si schiera con Ingrao, nelle polemiche che vanno dalla riscossa operaia dei primi anni 60, alla discussione sul «modello di sviluppo e a quella dell’XI Congresso, dove Ingrao è battuto ( «Compagni, non sarei sincero... ). Il dilemma è identico a quello che campeggerà nella scissione del Manifesto del 1969. Con Pintor, Rossanda, Natoli, Parlato, Castellina (a lungo legata sentimentalmente a Magri). E cioé: gradualismo e programmazione democratica, oppure modello di sviluppo anticapitalista?
Magri, è per la seconda risposta delle due. E con i suoi a distanza da Chiarante, Reichlin e Ingrao stesso ravvisa nel ciclo aperto dal 1968 i tratti di una transizione rivoluzionaria e movimentista dal capitalismo al socialismo libertario. Unendo Pechino e Praga, operai-massa e studenti, comitati di base e «frazionismo» indigesto al Pci. Il tutto culminato in radiazione. Con Natta giudice istruttore, e solo tre voti contro la radiazione (Mussi, Lombardo Radice e il filosofo Luporini). Perché Magri e i suoi non volevano solo una rivista culturale di fronda. Ma rivendicavano un’altra linea organizzata. Contro Berlinguer e il gruppo dirigente Pci (o almeno in pressing su di essi). Inizia l’esperienza del Manifesto, rivista e poi quotidiano. Magri è il «ferratissimo» del gruppo, uomo di cultura e rubacuori, elegante, occhi azzurri, sciatore (l’Unità pubblicò ironicamente il piazzamento a Cortina di Magri e Castellina in una gara di slalom).
Polemizza con il compromesso storico, e contro le accuse del Pci agli estremisti. E diventa nel 1974 segretario del Pdup costola polemica del Manifesto finché non si ritroverà nel 1984 in quel Pci tanto criticato, una volta consumatasi l’esperienza del Pdup (nel cui gruppo fu deputato nella VII legislatura). È «sintonico» Magri con l’ultimo Berlinguer, mondialista e anti-craxiano. Consonante con la sua etica politica, e i valori alternativi della «questione morale» ( radicalmente «altri» e senza visibile alternativa programmatica). Sicché quando nasce il Pds aderisce a Rifondazione Comunista. Per uscirne nel ’95 coi comunisti unitari in appoggio al governo Dini. Non aderisce però ai Ds e torna a scrivere sul Manifesto Da ultimo nel 2009 scrive Il Sarto di Ulm (Il saggiatore), controstoria del Pci e soprattutto del Pds, una svolta che per Magri non andava fatta. Perché per lui si trattava di «uscire a sinistra» dalla crisi, e non di uscire dal comunismo. Ieri l’altro infine ha scelto di uscire lui da tutto. Con tragica compostezza.

l’Unità 30.11.11
«Quell’incolmabile senso di solitudine gli è caduto addosso»
Parla Giuseppe Chiarante suo grande amico «L’esperienza del berlusconismo non è stata esaltante ma non ha mai detto: abbiamo fallito»
di Toni Jop


Ora    dicono: Magri se n’è andato con freddezza abbastanza terribile perché era depresso. Dicono che era depresso certamente per motivi strettamente personali, la morte della adorata compagna, ma anche perché tallonato dal senso di un fallimento politico; la sua morte, lasciano intendere, sarebbe quindi in larga misura la conseguenza di un cozzo strategico, intellettuale, tra una mente che assemblava piani e pensieri utopici e la storia che si sarebbe incaricata di spazzare quella irrealtà programmatica. Abbiamo chiesto conforto a Giuseppe Chiarante, dirigente nazionale del Pci, direttore di Rinascita, grande amico di Lucio Magri, come lui uscito dalle esperienze più progressive del cattolicesimo del «dissenso» in seno alla Dc degli anni Cinquanta. Non si sono mai persi di vista, da allora. Anzi.
Allora, Giuseppe, stanno così le cose? Magri era assediato dal senso di un fallimento storico? «Lasciami dire che la decisione di Lucio mi ha addolorato profondamente, che sono triste per questo, che la sua assenza mi procura una grande sofferenza. Per quel che vuoi sapere, ecco: nel corso degli anni ci siamo sentiti continuamente, credo di poter affermare che so cosa lo inquietasse e cosa no. Così, sono certo che al fondo di questa sua scelta ci sia solo un incolmabile senso di solitudine che gli è caduto addosso dopo la morte di sua moglie. I motivi per cui un essere umano approda ad una scelta tanto dura non sono mai semplici, il motore sta molto spesso in un intreccio di “moventi” di natura diversa. E tuttavia, la sua bella e importante vicenda politica dava vita a Lucio, non gliela toglieva...
Il Pci, il Sessantotto, la rivoluzione, la rivolta: davvero nessun senso di fallimento? «Mannò. Era molto contento, recentemente, del rilievo ottenuto dal suo nuovo libro Il sarto di Ulm tradotto in molte lingue e in cammino verso altre traduzioni. Aveva una serie di inviti in mezzo mondo. E un rivoluzionario non è uno che ad un certo punto fa i conti, verifica che la rivoluzione non c’è stata e quindi chiude la baracca. Il cambiamento al quale pensava Lucio e per il quale lottava ha bisogno di un continuo e coerente impegno civile e politico e lui era ben felice di vivere senza esitazioni questo impegno...»
Ma era comunista, e oggi l’Italia non è più quel luogo della terra in cui un cittadino su tre votava comunista, come accadeva a metà degli anni Settanta... «Aveva una visione critica del mondo, dell’Italia. Pensa al suo ultimo libro: il filo che ne sostiene l’impianto è la certezza che il cambiamento radicale della società e dell’economia possa avvenire, che gli ideali di una sinistra comunista siano tutt’altro che morti, che invece siano indispensabili e vadano rilanciati. Non ha mai detto: abbiamo fallito. Certo, l’esperienza del berlusconismo non è stata esaltante per nessun sincero democratico, certo la sinistra è in difficoltà non solo in Italia ma attribuire al senso di una sconfitta politica la decisione di togliersi la vita è sbagliata e anche cattiva nei confronti di Lucio e della verità». Siete usciti entrambi dall’alveo del cattolicesimo progressista, dalla Dc di Dossetti, avete percorso molta strada assieme ma poi Lucio cambiò passo, e lo decise in gran parte la Grande Madre, il Pci che lo espulse... «Allora non l’ho seguito. Avevo fondate obiezioni sulla sua percezione del Sessantotto. Lucio riteneva che ciò che stava accadendo fosse la dimostrazione della avvenuta maturazione di un clima rivoluzionario, propedeutico a quella profonda trasformazione politica sociale ed economica per la quale stavamo lottando. Amendola, com’è noto, operava invece per quello che a noi pareva un ammodernamento delle strutture, Lucio e anch’io eravamo dell’idea che ci fosse necessità di una profonda trasformazione non di un semplice ammodernamento. A dispetto di quel che si dice del Pci, il partito teneva assieme posizioni e culture politiche diverse in incessante confronto tra loro, altro che monolito. Nell’era di Berlinguer questa ricchezza raggiunse forse il suo punto più alto. Comunque, ho ritenuto un errore quel giudizio di Lucio sul Sessantotto, pur riconoscendo che in quel periodo si erano poste le basi di una fondamentale critica ai sistemi e si era avviata una profonda rivoluzione. Il secondo errore, a mio giudizio, fu cedere ad una pratica che di fatto fratturò il partito, indebolendo la sinistra».
Intelligente, colto, affascinante, bello anche secondo i canoni che oggi decidono la fortuna di una immagine personale. Eppure Lucio non ha mai conquistato una sua immagine televisiva...
«Non cercava quella immagine, anzi la detestava, è stato attento a non farsi “catturare”. In questo lo trovavo un po’ moralista, glielo rimproveravo di tanto in tanto...»
E lui come rispondeva?
«Diceva che aderire a questa teoria dell’immagine equivaleva a santificare i criteri più negativi della nostra attuale civiltà: il successo, il consumo, la ricchezza....».

il Fatto 30.11.11
Lucio Magri bello comunista e intellettuale
Si è suicidato domenica in Svizzera È stato tra i fondatori de il manifesto
di Luca Telese


La didascalia della vignetta di Ellekappa era caustica: “Pci: nuovi attacchi di Lucio Magri”. Solo che, in quei giorni di turbinosi congressi, all'inizio degli anni ottanta, per illustrare la battuta erano raffigurati un paio di sci. Non gli attacchi politici, dunque, ma quelli degli scarponi, intesi come simbolo di sospetta mondanità vacanziera, illustravano bene un certa diffidenza contro l'aura di eresia che nel cuore dell'apparato comunista aveva accompagnato tutta la vita del leader comunista e Co-fondatore de Il Manifesto.
Quel sarcasmo Era il retaggio di una diffidenza che spesso si sposava con l'ammirazione, e che subito dopo configgeva con lei, senza possibilità di mezze vie: amato e odiato, ma sempre al centro della scena, alla sinistra della sinistra. Un uomo, tante vite, un filo di coerenza apparentemente irregolare ma rigorosamente geometrico che faceva da spina dorsale a una biografia tanto ricca quanto complessa: alla sinistra della Dc negli anni cinquanta, poi alla sinistra del Pci negli anni sessanta (fino alla radiazione collettiva con gruppo de Il Manifesto nel 1969), poi alla destra dell'ultrasinistra con il Pdup, e poi di nuovo alla sinistra del Pci grazie alla ricomposizione della diaspora (evento inedito nella storia comunista) caparbiamente voluta insieme a Berlinguer nel 1984, poi a sinistra del Pds, per poco nei primi anni novanta, poi alla destra di Rifondazione nel 1995 quando nasce il governo Dini. Anche qui un ricorso: lui che aveva drammaticamente rotto con il gruppo de il manifesto giornale nel 1979 sul nodo della sinistra di governo, si ricongiungeva con il suo giornale-famiglia, 16 anni dopo, sempre sul nodo del governo. In contrasto con Fausto Bertinotti che voleva far cadere Prodi, lui diventava il padre nobile della scissione dei Comunisti unitari che piangevano in aula – come fece Marida Bolognesi – per far nascere il governo Dini. "Baciare il rospo", titoló il manifesto, e quel giorno Lucio, con il suo impasto dolente di pessimismo e volontà disse: "É bellissimo".
EPPURE se volevano insultare Magri, nella caserma austera di Botteghe Oscure, in quegli anni di serrata battaglia politica fra destra e sinistra, per un ventennio, gli dicevano: "Abbronzato!". Perché é vero: Magri era bello, molto bello, con il ciuffo corvino poi imbiancato, prima dall'argento, poi da una neve precoce. Aveva gli occhi azzurri che tendevano al blu, un viso regolare che a molti ricordava quello di Gary Cooper, Lucio aveva fama di grande seduttore, aveva avuto una storia d'amore con Marta Marzotto che aveva suscitato scandalo fra i puritani del politicamente corretto, e – é vero – spesso era anche abbronzato. Ma era soprattutto un intellettuale rigoroso, ideologico nel senso utile del termine, un dirigente politico forgiato nella generazione dei grandi carismi, approdato al comunismo venendo dalla Dc nei primi anni cinquanta, traghettato verso una vocazione rivoluzionaria dalla febbre della rivoluzione possibile indicata da Lenin, attraverso quel pastore di cattolici comunisti che era il futuro padre del compromesso storico, Franco Rodano. Lucio Magri é morto due giorni fa, da suicida assisitito, in Svizzera, per scelta volontaria. É morto dopo aver provato due volte a togliersi la vita, é morto senza conversioni in punto di morte, in modo opposto al suo grande rivale (anche in amore) Renato Guttuso che scrisse contro di lui una preghiera per Marta Marzotto che iniziava con "Ave Martina" e finiva con un perfido "E liberaci dal Magri amen". Era anche questa la sinistra del novecento, un impasto di ideologia e passioni sentimentali.
Magri é morto con un gesto dissacrante e dirompente da grande laico, con un gesto privatissimo, custodito nel cuore protetto di una comunità di amici e compagni frequentata per una vita: Valentino Parlato, Rossana Rossanda, Famiano Crucianelli, e poi Luciana Castellina. Anche Luciana era stata sua compagna prima di essergli amica, nel tempo in cui chi l'aveva vista passeggiare bellissima insieme a Jane Fonda nei corridoi del quotidiano di via Tomacelli, si era convinto che anche quella epifania potesse essere una incarnazione delle speranze del sessantotto. Sull'anno indimenticabile Magri aveva scritto un libricino per le Edizioni De Donato, quelle in brossura arancione, "Considerazioni sui fatti di maggio", che sarebbe stato il suo personale manifesto di adesione alla scuola di Francoforte, fra Marcuse e Adorno. Ma Magri non era un orecchiante di provincia, era un intellettuale di sinistra che respirava il fermento europeo, e fra le cose di cui andava orgoglioso c'era l'aver scritto per Tempi moderni, sotto la committenza di Jean Paul Sartre.
LUCIO É MORTO con un suicidio privatissimo, custodito fino all'ultimo come un segreto, morto con disposizioni testamentarie rigorose e sobrie, niente funerale pubblico, solo una cerimonia familiare a Recanati, e gli amici più stretti convocati a casa per attendere insieme la notizia definitiva, con un rito privato che oggi suscita polemiche ridicole e giudizi moralistici bigotti. Comunque vada, e qualsiasi cosa si pensi, é morto con un gesto che ci interroga e riscrive un frammento dei nostro costume.
ECCO PERCHÉ questa scelta privatissima, al pari di quella impulsiva e ribelle di Mario Monicelli, giá oggi dispiega la sua forza politica, il suo impatto dirompente su un'opinione pubblica attardata e cloroformizzata in medioevali dispute sul fine vita, nel cuore esangue di una sinistra che fatica a confrontarsi con l'idea della morte. Una idea oggi ridotta a puntello di piccole identità ideologiche nella contesa politicista fra i cosiddetti laici e i cosiddetti cattolici.
Un'idea che il gesto di Magri rimette improvvisamente in discussione. L'elettrochoc di questo suicidio é un effetto che certo Lucio non aveva come obiettivo primario, impegnato come era a combattere contro la depressione che lo aveva investito dopo la morte della sua amatissima moglie Mara, la donna che come ha raccontato in uno struggente pezzo su La Repubblica Simonetta Fiori era il suo cordone ombelicale con il mondo. Ma era sicuramente una conseguenza che aveva previsto. Lucio Magri veniva combattuto anche politicamente con lo stereotipo del radicalchicchismo, evocato anche ieri con una punta di veleno da Fabrizio Rondolino, ma raccontato con i canoni di oggi sembrava un campione di sobrietà. Lo inseguiva una boutade intelligentemente velenosa della Marzotto: "si sentiva in dovere di andare a letto con chiunque: era bello, intelligentissimo e infelice. Forse perché ce l'aveva con il mondo. Rimproverava al mondo intero il suo sogno di essere al fianco di Che Guevara".
Ma il Magri che ho conosciuto io non aveva traccia di questo velleitarismo: era burbero, scrupoloso, appassionato, e piombava nelle riunioni di Cominform, un giornalino della sinistra antimassimalista finanziato dai comunisti unitari per fare le sue analisi: "Cerchiamo di leggere la fase in cui ci troviamo, altrimenti non si capisce nulla". Era inseguito da questa fama libertina, ma faceva le notti in bianco oer divorare i saggi di Hobsbawn, esigendo altrettanta celeritá: "Avete letto 'Gente che lavora'?". Il manifesto fu il giornale a la page di una generazione, ed era anche si direbbe oggi un modello di casting: Pintor la fantasia, la Rossanda il cuore, la Castellina il senso dell'avventura, Parlato il pragmatismo istrionico e lui l'ideologia. In politica la sinistra radicle mancó un quorun nel 1972 incontrando il sarcasmo di Pajetta: "Hanno sommato tre partiti per fare un prefisso telefonico". Ma nel 1979 il Pdup centró il quorun con l'1,5 e chi c'era ricorda: Quella sera Lucio Pianse". Anche negli ultimi anni lo potevi incontrare alla Camera con la sua divisa di sempre, jeans e sigaretta perennemente incollata alla dita. E poi sì, la giacca. Diceva di se di essere "un archivio vivente in soffitta", ha scritto un libro bellissimo, "il sarto di Hulm" che racconta la sua battaglia politica lunga una vita, in cui Magri spiega che Mara gli aveva chiesto di finirlo prima di morire. Quel sarto secondo Brecht si era schiantato al suolo cercando di volare. Da domani di certo andrà a ruba. L'ultima volta l'ho visto a Montecitorio il giorno della fiducia a Monti. Come va? Gli ho chiesto: "Malissimo, grazie". Lui era fatto così.

il Fatto 30.11.11
L’ultima notte, dove si scelgono anche le lenzuola
Il test psicologico, la lista dattesa, la musica di sottofondo
Viaggio nelle cliniche del “fine vita assistito”
di Sara Nicoli


Accompagnare un uomo che vuole morire fino all'ultimo passo di questa scelta è un fardello che poi diventa una parte inalienabile dell'anima di chi resta. Lucio Magri ha voluto accanto a sé l'amico medico, altri scelgono i compagni di vita, più di rado ci sono i figli. La solitudine, nell'ultimo atto volontario di un'esistenza, pare non sia prevista. Qualcuno da salutare ci vuole sempre, qualcuno che si sacrifichi a essere “il salutato” pure. Difficile giudicare quale sia il ruolo più duro.
Quando comincia la corsa verso la Svizzera, a tutto questo uno non ci pensa neppure troppo. Si poteva andare anche in Olanda, Belgio, Lussemburgo, ma la Svizzera è dietro l'angolo. È al confine che si realizza quanto questo Paese, che ha una clinica per “l'ultimo viaggio” quasi in ogni cantone, sia dotato di un valore che negli ultimi anni in Italia si è liquefatto sullo scempio politico compiuto sui casi Welby ed Englaro; la pietà e la compassione per gli ultimi, come sono quelli che non hanno più alcuna speranza.
È UNA MORTE in esilio, certo. Ma se l'alternativa è quella di rimanere prigionieri di un corpo sofferente che fa sembrare la morte come un sollievo, allora, forse, quell'ultimo viaggio in treno dentro le montagne più belle del mondo e fino a un bosco con una casa blu che sarà l'ultimo rifugio della vita, può apparire davvero un viaggio di speranza.
In Italia è difficile morire, ma anche in Svizzera non ti regalano nulla. C'è persino la lista d'attesa per suicidarsi, il che è grottesco. Prima di partire bisogna dimostrare di essere nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, e questo già costa caro. Poi arriva l'associazione Exit Italia, quella che, insomma, è più attiva sul fronte dei viaggi suicidi verso la Svizzera, e organizza il resto. Le statistiche dicono che ogni anno arrivano a Zurigo, nella zona industriale di Pfaffikon, oppure a Losanna, dove c'è l'unico ospedale che mette a disposizione stanze per suicidarsi, ma non il personale, o – ancora – a Berna, dove c'è la sede della famosa Dignitas, la madre di tutte le “case” per il “fine vita assistito”, circa una trentina di italiani. Un numero che negli ultimi anni ha subito un'impennata perché “le discussioni sul testamento biologico – ricorda Emilio Coveri, presidente della Exit – hanno aiutato parecchio”. Il business, anche. Molto prosaicamente, in Svizzera c'è un prezzo politico di base per morire; costa circa 3 mila euro. “Che poi – osservava cinicamente sempre Coveri – è comunque meno di quanto costa un funerale in Italia”.
QUALCHE MESE FA fu chiesto agli svizzeri, attraverso un referendum, di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione e di aiuto al suicidio e soprattutto a porre fine al ‘turismo della morte’; l'84% ha detto no. “Il suicidio è una magnifica opportunità – sosteneva infatti il fondatore della Dignitas, Ludwig Minelli – ma solo per chi non ne ha altre”. E chi se l'è giocate proprio tutte, a un certo punto arriva davanti a tre medici che – sembra una beffa – valutano lo stato di salute. Del “paziente”. Poi gli fanno scegliere tutto, persino le lenzuola del letto e la musica da sentire; si può morire ascoltando Mozart o i Pink Floyd. Fanno tutto loro, persone temprate a sostenere quotidianamente emozioni forti, ma che non dimostrano alcuna durezza, anzi, sanno lasciare spazi alle parole e ai silenzi, misurano in modo quasi subliminale se “il paziente” può essere sull'orlo di un ripensamento e a quel punto fermano tutto il processo; è la volontà che la fa da padrona in una stanza di quattro metri quadrati, un letto, una finestra senza tende, un quadro, due sedie, un tronchetto della felicità come pianta ornamentale. La scelta finale è intima, solitaria. Perché quelle due pasticche anti vomito a cui fa seguito un miscuglio di Phenobarbital e sonnifero (che prima ti addormenta e dopo 3, 4 minuti ti uccide) lo si deve prendere da soli. Nessun dolore, dicono. Per chi resta è tutta un'altra storia.

La Stampa 30.11.11
Sinistra. La fine di un maestro
L’addio di Lucio Magri con l’ultima battaglia
Il fondatore del “manifesto” ha scelto il suicidio assistito
di Francesca Schianchi


Una lettera per salutare gli amici più cari e un viaggio di sola andata per la Svizzera. Lucio Magri, giornalista, intellettuale, fondatore del «Manifesto», lunedì ha scelto di andarsene così, a 79 anni: suicidio assistito in una clinica elvetica, per sfuggire a una profonda depressione dopo la morte della moglie Mara. Verrà sepolto accanto a lei, nella tomba che aveva fatto costruire a Recanati: venerdì o sabato dovrebbe arrivare la salma in Italia.
Un gesto estremo, reso pubblico ieri da «Repubblica» e dal giornale da lui stesso fondato, che colpisce e fa discutere. Nel mondo politico, accanto a chi si limita a ricordarlo come «appassionato intellettuale dirigente della sinistra», come fa Casini, o come «una delle menti più brillanti e originali della politica italiana» (Veltroni), c’è infatti chi appunta l’attenzione sul modo in cui se n’è andato.
Nonostante i richiami al silenzio e al rispetto («non dividiamoci ancora tra “pro vita” e “pro morte”, il tifo da stadio non è giustificabile», chiede il chirurgo dei trapianti, Ignazio Marino, senatore Pd) la storia riapre il dibattito mai risolto nel nostro Paese sul fine vita e sulla possibilità di scegliere di morire.
La sua vicenda «sia di ammonimento e insegnamento», chiede infatti la deputata radicale Maria Antonietta Farina Coscioni. «Per porre fine al suo dolore, ha dovuto emigrare», perché «viviamo in un Paese dove vige una regola ipocrita, quella del “si fa ma non si deve dire”»: per questo «continuerò, con le mie compagne e i miei compagni radicali, la lotta per la dignità della vita e del morire».
Di tutto altro avviso un’altra parte del Parlamento: «Non possiamo che ribadire il grande valore della vita, la quale non può essere messa in discussione, neanche nei casi più disperati», interviene perentorio il deputato Pdl Enrico La Loggia: «Ogni diversa interpretazione porta fuori dalla legge naturale».
Invita al silenzio il centrista Maurizio Ronconi, soprattutto «quelli che oggi invece vorrebbero definire il suicidio un atto coraggioso e non invece di viltà, ed anche quelli che ambirebbero trasformare un dramma della solitudine in un esempio». Teme l’effetto esempio anche Paola Binetti, «mi auguro che questa scelta non diventi un modello, che non ci sia il fenomeno del contagio di quando certe scelte sono compiute da un uomo pubblico», mentre porgendo il suo omaggio a «una personalità di assoluto rilievo», il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto non trattiene «i brividi» per «l’esistenza di cliniche per la buona morte». La collega Melania Rizzoli se la prende con «Repubblica» che ha dato la notizia, «pubblicità agghiacciante e di cattivo esempio».
Anche Beppino Englaro viene interrogato sulla questione, lui che nel 2009 fu al centro delle polemiche nella vicenda che coinvolse la figlia Eluana: «Vale solo e sempre un principio ed è quello del primato della coscienza personale», si limita a commentare. Parole simili a quella di Mina Welby, la moglie di Piergiorgio, che, dopo anni di malattia, scelse di morire nel 2006: «La scelta dell’individuo è l’unica cosa che conta».
Difficile trovare le parole adeguate per un lutto, sospira Vendola. Ne bastano poche: «Ci mancherà».

La Stampa 30.11.11
Il comunista fino in fondo che per sé ha scelto “una morte politica”
Parlato: era consapevole. Rossanda: che tristezza
di Riccardo Barenghi


Con lui, in quella stanza, accanto al suo letto, c’era Rossana Rossanda, che l’ha voluto accompagnare fino alla fine: «È stato tristissimo, non terribile, ma tristissimo», dice con un filo di voce al telefono da Parigi. E Lucio come stava, che diceva? «Ti puoi immaginare come si sta in un momento del genere... ma ora scusami, non ce la faccio a parlare, ho solo bisogno di riposare».

Quando sua moglie è morta, Lucio Magri disse a Valentino Parlato: «È morta Mara, per me è una perdita irreparabile. Volevo morire con lei ma lei mi ha chiesto di non farlo, mi ha detto che dovevo finire il mio libro. Ecco adesso il libro è finito, ha avuto anche un buon successo. Adesso sono arrivato al termine». Da quel giorno, circa due anni fa, Lucio ha dedicato il resto della sua vita all’organizzazione della sua morte, con una meticolosità agghiacciante. Fino all’altro ieri quando ha fatto il suo ultimo viaggio in Svizzera (ne aveva già fatti altri due ma non si era sentito pronto ed era tornato a Roma), dal quale rientrerà in Italia in un carro funebre, prenotato da lui, per essere sepolto a Recanati. Senza funerali, senza orazioni, senza discorsi. Così ha voluto e scritto in una lettera ai suoi amici più intimi.
«Lucio era un iper razionale – racconta Parlato – ma anche un uomo estremamente passionale. La sua passione era la politica, ovviamente, e nella politica la sinistra. Ma anche le donne le ha amate con passione, anche quando faceva quelle che noi liquidavamo come cazzate tipo la sua relazione con Marta Marzotto. Ma Mara, è il caso di dire, l’ha amata fino alla morte. E questa è la ragione del suo suicidio e forse anche la morte della “sua” sinistra».
Siamo nella redazione del manifesto, giornale fondato da Magri insieme a Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Massimo Caprara e ovviamente Parlato. All’epoca, nel 1969, era «solo» un mensile che però, per le posizioni così poco ortodosse nei confronti dell’Unione Sovietica e del Pci in cui allora tutti loro militavano, costò a questi dirigenti politici la radiazione dal Partito. Il quotidiano venne dopo, il 28 aprile del ‘71.
La storia di Magri è stata in gran parte la storia del manifesto, malgrado la sua origine di giovane democristiano di sinistra a Bergamo e malgrado le rotture che via via hanno segnato la vicenda di questo giornale, che dopo quarant’anni di vita senza soldi è ancora in edicola. E ieri pomeriggio si discuteva, in una atmosfera profondamente turbata, di come raccontare sul giornale la storia di Lucio, i pezzi che sarebbero arrivati, Pietro Ingrao, che del gruppo è stato il maestro politico anche se non ha condiviso la loro scelta di rompere con Pci ed ha votato a favore della radiazione (per poi pentirsene innumerevoli volte), Giuseppe Chiarante, che di Magri è stato amico fin dai tempi democristiani di Bergamo, di Luciana Castellina che con Lucio ha condiviso anche un bel pezzo di vita sentimentale, di Parlato che ancora scrive a macchina. Più tanti altri, lettere, messaggi di lettori.
Racconta ancora Parlato che per due anni lui e tutti gli altri, tutti quei pochi che conoscevano il progetto suicida di Lucio, hanno cercato di convincerlo a non farlo: «Ma oggi mi sento in colpa, dovevo insistere di più, rompergli le scatole tutti i giorni, tutte le ore. Ma poi, chissà se avrei ottenuto un risultato, Lucio era determinato in tutte le cose che faceva, non era facile, anzi direi impossibile fargli cambiare idea. Io, e questa è una differenza di carattere che a volte ci faceva litigare, sono più fatalista, meno pignolo, più “arrangiatore”».
Ma perché proprio un suicidio assistito, in Svizzera con un’iniezione letale? «Diceva che lui non poteva morire sotto un treno o una macchina o gettandosi da un ponte. Voleva una morte pulita». Ma è giusto suicidarsi, è una scelta eticamente corretta? «Certo che lo è, io rivendico il diritto al suicidio. Nella nostra Costituzione non c’è mica scritto che tutti i cittadini hanno il dovere di campare fino alla morte naturale... Penso che anche in questo, Lucio abbia fatto una scelta politica, nel senso che ha dimostrato di essere padrone della propria vita. Mandando un segnale inequivocabile a tutti coloro che, anche in queste ore, polemizzano sul valore della vita».
E Parlato la farebbe una scelta così estrema se sentisse il bisogno di chiudere la partita? «Sì la farei, magari non in un ospedale svizzero ma nel mio letto».

Corriere della Sera 30.11.11
Il suicidio assistito di Magri. Polemiche tra laici e cattolici
La Binetti: scelta negativa. Welby: serve rispetto
di Fabrizio Caccia


ROMA — Mercoledì scorso per l'ultima volta Lucio Magri s'era affacciato a Montecitorio e, incontrandoli in Transatlantico, aveva salutato così i vecchi amici della politica: «Ho deciso, vado in Svizzera, il mio tempo è passato, non ho più niente da rivendicare, grazie di tutto...». Inutili i tentativi di dissuaderlo. Sopraffatto dalla depressione e annichilito dalla morte della sua inseparabile compagna, Mara Caltagirone, stroncata da un tumore tre anni fa, Magri venerdì scorso ha fatto l'ultima scelta radicale della sua vita: il suicidio assistito. È partito da solo per Zurigo e due giorni fa, in una clinica specializzata, il fondatore del il manifesto, l'eretico del Pci e leader storico della sinistra italiana, a 79 anni ha chiuso gli occhi per sempre. La sua salma, per problemi burocratici, arriverà forse solo venerdì, o addirittura sabato, al cimitero di Recanati, dove sarà sepolta nella tomba che lui stesso aveva fatto costruire per la moglie.
Di sicuro, Lucio Magri avrebbe voluto andarsene in silenzio. «Niente pubblicità, niente funerali, niente necrologi. Vorrei evitare cerimonie pubbliche, rimembranze, etc...», aveva lasciato scritto in una lettera all'amico Famiano Crucianelli. Ma la sua scelta inevitabilmente ora suscita qui da noi aspre polemiche, tra laici e cattolici, visto che in Italia l'eutanasia — la «dolce morte» — è vietata per legge. «Agghiacciante e di cattivo esempio la pubblicità data al suicidio assistito di Magri, oltretutto la depressione oggi viene curata con successo in milioni di pazienti nel mondo...», accusa Melania Rizzoli, deputata del Pdl. «La morte di Magri è un atto amaro ma non va associata ad una scelta di libertà — commenta Eugenia Roccella, ex sottosegretario alla Salute del governo Berlusconi —. Si tratta comunque di un suicidio, anche se assistito. Un gesto senza speranza». Per Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato, «non è possibile pretendere che scelte personali, che ritengo in contrasto con il diritto naturale, le compia lo Stato». Molto critica pure Paola Binetti, parlamentare dell'Udc: «Rispetto la persona e il mistero della libertà umana, ma mi auguro che questa scelta non diventi un modello».
La radicale Antonietta Farina Coscioni, invece, attacca: «Magri riteneva intollerabile vivere. Per porre fine al suo dolore, però, è dovuto emigrare in Svizzera, con un biglietto di sola andata. Questo perché viviamo in un Paese dove vige una regola ipocrita: quella del si fa ma non si deve dire...». Per Mina Welby, la moglie di Piergiorgio Welby, «la scelta dell'individuo è l'unica cosa che conta, quindi massimo rispetto». E Beppino Englaro, il papà di Eluana, è perentorio: «Nessuno può entrare nella coscienza di una qualsiasi persona». «Ma non dividiamoci ancora tra pro vita e pro morte — è l'appello finale di Ignazio Marino, senatore del Pd — il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana».

Corriere della Sera 30.11.11
Il ribelle del «manifesto» che seppe raccontare la sinistra
Gli esordi nella Dc, poi il Pci e la contestazione del '68
di Paolo Franchi


Chi negli ultimi mesi ha avuto modo di incontrare Lucio Magri, (dunque non solo le sue compagne e i suoi compagni più cari, che lo sapevano) in qualche modo poteva presagire che sarebbe finita, anzi, che l'avrebbe fatta finita così: andandosene di sua volontà. In quella specie di vivente museo degli orrori che è diventato il nostro dibattito pubblico, non manca qualche polemica indecente: da un lato i sostenitori del «lucido gesto di coraggio», dall'altro (peggio) i teorici del suicidio assistito come estremo atto di viltà o esercizio di un diritto che Dio non ci ha dato, in mezzo ma non troppo Rocco Buttiglione che manifesta, ci mancherebbe, la sua pietà, ma avverte pure che vita, famiglia e morte sono affari di pertinenza dello Stato. Meglio tenersene rigorosamente alla larga. Di certo c'è che Magri, dopo la morte dell'amatissima Mara, era un uomo come spezzato, depresso: non faceva mistero di aver faticosamente finito di scrivere per il Saggiatore il suo «Sarto di Ulm» soprattutto per rispettare il desiderio di lei. Sul resto, la regola d'oro è, o dovrebbe essere, quella del silenzio: nessuno, né la persona più vicina né tanto meno un magistrato o un poliziotto, può arrogarsi il diritto di stabilire che cosa passi nella mente e nel cuore di una persona che, dopo aver tanto vissuto, ha deciso di morire.
Meglio, molto meglio dunque scrivere di Magri vivo, della sua biografia politica e intellettuale così complessa. Nasce, Lucio, democristiano, seppure di un tipo particolarissimo, e lo resta sin quasi alla fine degli anni Cinquanta, quando, dopo un percorso tormentato, approda con un nutrito gruppo di giovani (valgano per tutti i nomi di Beppe Chiarante e di Ugo Baduel) al Pci. Che accoglie Lucio e i suoi compagni a braccia (relativamente) aperte, non tanto, comunque, da dare subito loro un ruolo nazionale. E così Magri se ne torna in Lombardia, prima a guidare la federazione di Bergamo, poi nel comitato regionale. Siamo agli inizi dei Sessanta, si avvertono i primi segni del disgelo politico e culturale: anni interessanti, ma pure contraddittori. Sulla scrivania dell'ex democristiano Magri, in federazione, campeggia provocatoriamente un grande ritratto di Stalin; il suo compagno di stanza, il cremonese Renzo Bardelli, quando può lo tira giù, lui lo riappende. Ma quando Magri decide (da solo) di buttare giù lui il documento politico in vista di un congresso regionale, Palmiro Togliatti, prima di cestinarlo, trova il modo di dirgli che molte delle cose che ha scritto le sosteneva, orrore, Leone Trotsky.
Anche se, quando arriva a Botteghe Oscure, lavora con Giorgio Amendola alla commissione economica, Magri è, si capisce, ingraiano. Molto ingraiano. Così ingraiano che, quando scoppia il Sessantotto, non si capacita della prudenza e dello spirito di partito di Ingrao. Vola nella Parigi della contestazione studentesca e operaia, appena tornato scrive un libro, «Considerazioni sui fatti di maggio» che ha grandi fortune soprattutto, ma non soltanto, nella sinistra comunista e dintorni: «Ho cominciato a capire e ad apprezzare la sinistra italiana leggendolo», mi disse non troppi anni fa Kastern Voigt, un apprezzato dirigente della socialdemocrazia tedesca. Ma lui, Magri, non è certo un socialdemocratico, e nemmeno un riformista. Con Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina e Massimo Caprara è tra i fondatori de il manifesto, che esce per la prima volta, come mensile, nel giugno del 1969: un atto di aperta insubordinazione nei confronti dei canoni consolidati del centralismo democratico. Non è vero che il Pci, e in particolare Enrico Berlinguer, decidano immediatamente di cacciar via i reprobi. In ottobre, il comitato centrale comunista si conclude evitando rotture definitive, solo a novembre il parlamentino del Pci provvederà alle «radiazioni» del caso. Tra la prima e la seconda riunione la rivista ha pubblicato un editoriale, «Praga è sola», in cui si contesta al Pci di aver abbandonato al loro destino Alexander Dubcek e i suoi compagni. È il casus belli. Quell'editoriale lo ha scritto Magri.
Poi, la storia è abbastanza nota: il manifesto che da mensile diventa, e con grande successo, quotidiano, gli anni Settanta, la contestazione da sinistra al Pci, il Pdup di cui Magri è segretario e, nel 1984, un rientro nel partito che non è un addio alle armi, ma una scommessa politica sull'ultimo Berlinguer che si rifiuta al riformismo, apre ai movimenti, insegue la Terza Via. Di tutto questo e di altro ancora Magri disse nel «Sarto di Ulm», a mio giudizio la più seria lettura «da sinistra» delle vicende del comunismo italiano, e di una possibile storia diversa sua e della stessa democrazia italiana. In questi termini, seppure non condividendola, ne scrissi sul Corriere. Mi ringraziò, ci incontrammo, discutemmo. Una bella discussione come quelle di un tempo. Sono contento, ora che Lucio non c'è più, che tra noi sia andata così, l'ultima volta.

Corriere della Sera 30.11.11
Consentito dal 1941. Duecento casi ogni anno


MILANO — Suicidio assistito, cioè Svizzera. L'equazione è quasi automatica e non è un caso. Nella Confederazione la «dolce morte», come la chiamano, è consentita dal 1941 e, non fosse altro che per i suoi 70 anni, ha legato al Paese l'espressione «aiuto al suicidio», anche se i suoi sostenitori preferiscono «accompagnamento alla morte». Si può, quindi, accompagnare verso la morte una persona a patto che non lo si faccia per motivi egoistici, che l'aspirante suicida beva da sé la pozione mortale (aiutarlo a mandarla giù sarebbe eutanasia) e che la sua malattia, fisica o psichica, sia incurabile o renda la vita insopportabile. In Svizzera ogni anno i suicidi sono più di 1.400, 200 con la morte assistita. La sola Dignitas, unica associazione che assiste nella dolce morte anche «candidati» stranieri, da quando è stata fondata (1998) al 2010 ne ha aiutati 1.138. Fra loro anche Daniel James, giovane promessa del rugby inglese rimasto paralizzato in un gravissimo incidente durante un allenamento.

Repubblica 30.11.11
L’ultima eresia di Lucio Magri è polemica sul suicidio assistito
I cattolici: non ne aveva diritto. I radicali: costretto a emigrare in Svizzera
Veltroni: una delle menti più originali della politica italiana. Roccella: un atto amaro
di Maria Novella De Luca


ROMA Alla fine ciò che prevale sono il silenzio e il rispetto. Il ricordo dell´uomo, per molti dell´amico. Le polemiche ci sono, scoppiano ma non divampano. Per fortuna. Quella scelta così lucida e determinata, quella così chiara ammissione di dolore, fermano il mondo politico sulla soglia del pudore davanti alla morte di Lucio Magri. Che si è ucciso, pochi giorni fa, in Svizzera, con l´aiuto di un medico amico. Suicidio assistito. In Italia è vietato, di là, oltre il confine, è permesso. Si affollano piuttosto le immagini di chi Magri l´aveva visto ancora di recente, a Montecitorio per esempio, come Walter Veltroni, che «con tristezza e commozione» lo ricorda «come una delle menti più brillanti e originali della politica italiana». Racconta Veltroni: «Lucio ha voluto lasciare nel suo ultimo libro il suo testamento intellettuale, per poi ritirarsi per sempre dal dolore per la tragica scomparsa della moglie Mara». Anche da un cattolico praticante come Pierferdinando Casini, arrivano parole di rispetto: «Sono molto rattristato per la scomparsa di Lucio Magri, che ho conosciuto come appassionato intellettuale», scrive il leader dell´Udc in un breve messaggio affidato a Twitter, mentre il suo collega di partito Rocco Buttiglione prega perché «Lucio Magri venga accolto nella braccia del signore». Ma monsignor Sgreccia, voce della Chiesa, rammenta: «Non siamo padroni della nostra vita».
Prevale la commozione, ma anche l´amarezza, tra chi da anni si batte perché anche in Italia sia concessa la libertà di scelta sul "fine vita". «Spero che la vicenda umanissima di Lucio Magri, che ha deciso di non soffrire più, e ha posto fine al suo dolore, sia insegnamento» ammonisce Maria Antonietta Coscioni, deputata radicale. «Magri riteneva intollerabile vivere, preda di una depressione che lo faceva scivolare inesorabilmente in un "buio" provocato da ragioni pubbliche e private che sono insondabili e non vanno giudicate. Per porre fine al suo dolore, ha però dovuto "emigrare", un viaggio con un biglietto di sola andata...». Ma Ignazio Marino invita a non riaccendere il tifo da stadio da "pro-vita e pro-morte". «A Lucio Magri è dovuto un rispettoso silenzio, ci sono luoghi della nostra coscienza intorno ai quali nessuno deve permettersi di esprimere giudizi. Ma adesso non dividiamoci: il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana».
Dolore più che fragilità, un dolore insopportabile, una depressione cupa che assediava Lucio Magri da anni, da quando sua moglie Mara era morta, portata via da un tumore. Afferma Gaetano Quagliariello, vicepresidente dei senatori del Pdl: «Non entro nelle scelte personali, ma non è possibile pretendere che le compia lo Stato». Mina Welby risponde indirettamente, ricordando che se «Lucio Magri, ha scelto di morire, vuol dire che considerava la sua depressione senza via d´uscita e la scelta dell´individuo è l´unica cosa che conta». E rispetto esprime anche Beppino Englaro, ricordando come nel caso di Eluana, ciò che vale «è solo e sempre il primato della coscienza personale». Pacato ma netto il commento di Eugenia Roccella, ex sottosegretario al Welfare e in prima linea nelle battaglie pro-life: «La morte di Magri è un atto amaro e non va associata ad una scelta di libertà. Si tratta comunque di un suicidio, un gesto senza speranza».

Repubblica 30.11.11
Come dare un senso alla vita
La delusione di chi avrebbe voluto una realtà diversa. C´è lo sconforto e la solitudine. C´è il bisogno di un ascolto vero
di Michela Marzano


Esiste un diritto di morire? Si può legittimamente programmare la propria morte, facendosi aiutare da un medico? Ognuno di noi ha sicuramente il diritto di essere riconosciuto come soggetto della propria vita fino alla fine, anche in punto di morte. Perché anche la morte fa parte della condizione umana e, un giorno o l´altro, ci ritroveremo tutti lì, magari impotenti di fronte alle decisioni che altri vorranno prendere al nostro posto, cercando di essere rispettati almeno un´ultima volta, soprattutto quando non c´è più niente da fare… Non per questo, però, si deve poi banalizzare la questione dell´eutanasia, e pensare che non ci sia nessuna differenza tra il lasciar morire e il far morire, il suicidio e il suicidio assistito.
È per questo che in Francia, dal 2005, esiste una legge che cerca di mettere un po´ di ordine all´interno del dibattito sull´eutanasia e che distingue in modo chiaro il suicidio assistito, che resta illegale, dalla fine di ogni tipo di accanimento terapeutico – anche se poi interrompere le cure ha come conseguenza la morte del paziente. Abbandonando il tradizionale paternalismo, la Francia accetta l´idea che ogni persona abbia il diritto di esprimere il proprio punto di vista e che il medico non debba imporre a nessuno la propria concezione della morale: le cure possono essere interrotte o mai intraprese se un paziente lo richiede, quando è in fase terminale di una malattia incurabile. Il medico può inoltre, sempre in accordo con il malato e la famiglia, somministrare forti dosi di analgesico per lenire la sofferenza, anche se la somministrazione "può avere come effetto secondario il fatto di accorciarne la vita", come si legge all´art. 2 della legge del 22 aprile 2005. Invece di proclamare in modo astratto il valore inalienabile della vita, la legge francese cerca di prendere in considerazione la specificità individuale di ogni malato, anche se non ammette, come è invece il caso della Svizzera, di "far morire" coloro che, in determinate condizioni, lo domandano.
Che dire allora di fronte al suicidio assistito di Lucio Magri? Pare che la depressione del fondatore del Manifesto fosse profonda e incurabile. Pare che Magri fosse scivolato nel baratro della disperazione dopo la morte della moglie. Pare che volesse farla finita. Che di fronte all´abisso ormai incolmabile tra quello in cui credeva e la realtà, la vita gli fosse diventata insopportabile. Ma cosa chiede esattamente una persona che dice di "voler morire"? Si può rispondere con un atto, ad una domanda che a volte "chiede altro"? Perché tante volte dietro al "voglio farla finita" c´è una moltitudine di cose. C´è la delusione di chi avrebbe voluto che la realtà fosse diversa. C´è lo sconforto della solitudine. C´è il bisogno di un ascolto vero… Tutte quelle cose che la morte non dà, perché con la morte tutto finisce e non c´è più la possibilità di tornare indietro. Al contempo, se la morte sembra l´unica possibilità per mettere un termine ad una sofferenza che non si sopporta più, si può semplicemente decidere che "non si fa", perché la vita è "sacra"? Il padre della psicanalisi, Freud, ci ha insegnato che talvolta il suicidio è l´unica via d´uscita per non morire psichicamente. In casi come questi, quando la domanda è lucida, ripetuta, confermata più volte, perché un medico non dovrebbe aiutare una persona a partire, invece di obbligarla a vivere una vita che, per chi chiede di andarsene, non vale più la pena di essere vissuta?
Le domande sono tante. E non è facile trovare delle risposte. Come sempre, quando si è di fronte a quello che gli specialisti chiamano un "dilemma morale", la buona soluzione non esiste. Perché è difficile chiedere ad un medico, la cui vocazione è in fondo quella di "far vivere", di essere poi anche capace, in determinate circostanze, di "far morire". Ma è anche difficile dire a chi non vuole più vivere: dai, un piccolo sforzo! non ti rendi conto che non spetta a te decidere come e quando andartene? Perché non esiste un "diritto di morire". Su questo punto non ci sono dubbi. Ce lo ha recentemente ricordato anche la Corte europea dei Diritti dell´Uomo. Ma non esiste nemmeno un "dovere di vivere", né un "dovere di far vivere". Soprattutto quando una persona ha deciso altrimenti. Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scriveva: "Ama la vita più del senso, e anche il senso troverai". Ma quando la vita non la si ama proprio più, come si fa a darle ancora un senso?

Repubblica 30.11.11
A Pfafficon, nel canton Zurigo, dove Dignitas accompagna i malati
Nella casa blu dove si va a morire "Ma uno su due alla fine ci ripensa"
Quindici grammi di pentobarbital di sodio in 60 centilitri d´acqua, due minuti, poi il sonno
di Cinzia Sasso


PFAFFICON (Zurigo) La casa blu di Barzloostrasse è la seconda a destra, in una stradina che va a finire nei campi. È incastrata tra il capannone di un´industria meccanica e il Blue Oasis, taverna croata, specializzata in cevacpici. Sarà per il blu, il tavolino in giardino, lo scroscio dell´acqua della fontana, il laghetto, il prato all´inglese, ma sembra una casa di bambola, finta. Non c´è nessun cartello. Non c´è nemmeno il cancello. Neppure altre barriere, del resto: come se la casa della morte non volesse affatto nascondersi. C´è solo qui, alla periferia di Pfafficon, venti chilometri da Zurigo, ordinata e silenziosa Svizzera tedesca una fila di pini e una siepe di lauro, ma bassa abbastanza da poter vedere cosa succede là dietro. È questo l´ultimo indirizzo di Dignitas, l´associazione che vuole che la morte sia dignitosa come la vita e che pretende che l´ultimo diritto dell´uomo sia quello di decidere come e quando mettere il punto finale alla propria esistenza.
Centoquaranta persone, fino ad ora, quest´anno, hanno visto il mondo per l´ultima volta dal letto reclinabile con il sacco lenzuolo fiorato che è qui, al piano terra. Hanno sentito come ultimo odore quello del fritto del ristorante. Hanno visto dalle grandi vetrate il verde opaco dei pini argentati. Un´iniezione, quindici grammi di pentobarbital di sodio sciolto in 60 centilitri d´acqua, due minuti, poi il sonno. E, dopo, il coma profondo. E dopo ancora solo la morte. Nella casa c´è spazio per gli ultimi saluti. C´è un grande divano di pelle bianca, c´è un tavolo tondo con attorno sei sedie. C´è la legna per il caminetto. I cioccolatini su un vassoio. Ci sono vasi di orchidee colorate. C´è la sedia a rotelle e il braccio che sostiene la flebo. Perché chi arriva qui è davvero già vicino alla fine. Distrutto nel corpo, ma lucido nella mente. L´ultimo atto spingere lo stantuffo della siringa, bere, schiacciare un pulsante che faccia entrare in qualche modo nelle vene il veleno deve essere fatto dalla persona che vuole morire.
Scrivono, telefonano, bussano in tanti. Lo fanno uomini e donne così malati da pensare di non poter più farcela a vivere. Nel 2010 novantaquattro suicidi. Ma non è vero che basta prendere la tessera dell´associazione (duecento franchi), né pagare i servizi (8.500 euro), per comprare la morte. «In tredici anni dice l´avvocato Ludwig Minelli, 79 anni, il fondatore abbiamo aiutato a vivere tra le 30 e le 40 mila persone e solo 1.200 le abbiamo aiutate a morire». Dopo il primo contatto, bisogna costruire il percorso. Dignitas chiede che chi non vuole più vivere, lo scriva e spieghi il perché. Vuole sapere la storia della persona e vuole vedere la documentazione sanitaria. È un medico a valutare le cose e a decidere se è possibile accendere quella che chiamano «la luce verde provvisoria». Significa che se il medico è d´accordo, la malattia è terminale e non ci sono speranze, è possibile scrivere quella ricetta. Non sono accettati casi di depressione, perché la Corte federale ha chiesto che sia una perizia psichiatrica a dimostrare la gravità della malattia e nessuno psichiatra vuole spingersi a tanto. Raccontano che sapere che c´è, aperta, un´uscita di sicurezza, sia un formidabile deterrente: il 70 per cento di chi ha visto quella luce diventare verde, non ha più contattato l´associazione. Solo il 13 per cento è tornato e ha continuato la strada fino alla fine. Burocrazia al minimo, prima. Ma dopo, è necessario essere precisi. Un medico legale, il procuratore cantonale e la polizia arrivano per un sopralluogo, perché quello che la legge non proibisce, qui, è l´assistenza al suicidio, sempre ché non nasconda interessi. E dunque deve essere chiaro che è stato suicidio, libero, determinato, con la persona che ha schiacciato da sé l´ultimo bottone e con un filmato, eccolo, che mostra l´ultimo atto.
Ai tavoli della croata di Blue Oasis una coppia di mezza età si è fermata a mangiare. Poi l´uomo, che parla italiano, bussa alla porta della casa blu: sono il papà di Marco, dice, abbiamo appuntamento domani. Neppure le lucine dei mille alberi di Natale sembrano più rischiarare la notte di Pfafficon,

Repubblica 30.11.11
"Ero contrario, abbiamo litigato ma con la sua scelta ha dimostrato di governare la vita fino in fondo"
Parlato: ribelle e perfezionista, voleva andarsene in modo pulito
di Simonetta Fiori


Lucio è sempre stato così, quando si metteva in testa una cosa... Forse dovevo arrabbiarmi di più con lui per convincerlo a fermarsi
Era un po´ egocentrico, narciso, convinto di essere bello. A ottant´anni però, diceva, resta solo un´avvenire di malattie
Un gesto di razionalità estrema, ma ha contato anche la perdita della moglie: voleva morire con lei, Mara glielo impedì

ROMA «Che volete sapere da me? Posso dire che è un gesto che attiene alla sua personalità, mescolanza di razionalità pura e di passione. E poi l´anagrafe non è cosa da sottovalutare. Avere ottant´anni, che si fa più? Solo un avvenire di malattie, questo Lucio me lo ripeteva spesso». Valentino Parlato passa veloce nei corridoi del Manifesto, le spalle leggermente incurvate, il sorriso accennato, lo sguardo affettuoso. I redattori lo salutano con serena sobrietà, l´abbracciano ma senza lutto, coi padri si fa così, li si rassicura per esserne rassicurati. Arriva una telefonata della Rossanda, che racconta il suo ultimo viaggio con Lucio. È stata lei, la sorella maggiore, l´amica forte e generosa, ad accompagnarlo in Svizzera. L´ex direttore Barenghi tenta di alleggerire l´atmosfera con ricordi di zuffe lontane. Parlato asseconda, è gentile, ma come distante: «Mi mancano i miei amici. Mi manca Luigi. E mi manca Aldo Natoli. Con loro mi sarebbe piaciuto parlare di Lucio, del suo gesto».
Lei, Parlato, come lo decifra?
«È il prodotto di una razionalità estrema, ma non possiamo trascurare la cifra sentimentale, la scomparsa della moglie. Per un uomo avventuroso come lui, Mara rappresentava l´ordine, l´ancoraggio forte. Lucio ha cominciato a morire insieme a lei».
Ve ne parlava?
«Sì, raccontava che avrebbe voluto morire con Mara, ma che lei gliel´aveva impedito. No, devi finire il libro, devi scrivere il saggio sul comunismo, ci tieni tanto. E io diceva le ho tenuto fede, ho concluso il libro. E ora sono arrivato al termine».
Un singolare impasto di raziocinio e romanticismo.
«Ma Lucio era questo, anche nella sua vita politica. Passione e ragione. Se penso a tutte le volte che abbiamo litigato...».
L´ultima volta?
«No, recentemente ci azzuffavamo non sulla politica ma su questa sua decisione di farla finita, però niente da fare. Lucio è sempre stato così, quando si mette in testa una cosa... Litigi accesissimi ci furono quando il Pdup nel 1973 annunciò di voler fare del Manifesto un organo di partito. Figurarsi Luigi, Rossana ed io, che i partiti li detestavamo, poi anche il Pdup non è che ci piacesse tanto».
Ma è vero che non "vi pigliavate", caratteri diversi?
«Lui raziocinante e incline alla teoria, io "arrangista" e fatalista: due modi diversi di stare al mondo...».
E tra Magri e Pintor erano scintille?
«Un rapporto conflittuale e insieme solidale. Avevano due personalità mica da ridere, con due opposte concezioni del giornale e della politica. Maggiori affinità legavano Lucio e Rossana, attenti alle ragioni della ricerca teorica e appassionati entrambi di filosofia tedesca. A Luigi della filosofia non gliene fregava niente».
Il fratello Giaime era un grande germanista.
«Sì, Luigi amava molto Rilke. Ecco proprio su questo classico di recente ho litigato con Lucio. Recensendo il libro di Luciana Castellina, scrissi che senza Rilke il Manifesto non ci sarebbe stato. Lucio la prese malissimo, "ma che cazzo c´entra Rilke con la lotta di classe?"...».
Vi vedevate spesso?
«Sì, abitiamo vicini, lui in piazza del Grillo e io in via del Boschetto. Ci capitava di giocare a scopone. Se non vinceva, si seccava».
Manie di protagonismo?
«Era un po´ egocentrico, narciso sì, d´una vanità singolare. Era convinto di essere bello».
Lo era.
«Sì, ma anche di essere agile. Quando salivamo le scale, faceva quattro scalini per volta. Anche negli ultimi tempi».
E i suoi amori un po´ spettacolari, il legame con Marta Marzotto?
«Cazzate di Lucio».
Era un perfezionista?
«In tutte le cose che faceva, era costituzionalmente spinto ad eccellere. Anche quando scriveva un articolo. Io riesco a farli così così, lui no, poteva starci giorni. Era molto meticoloso».
Lo è stato anche in morte: tutto deciso nel dettaglio.
«Sì, le pompe funebri già allertate, la lettera ai compagni».
Una morte estetica?
«No, una morte pulita. Voglio morire senza sfasciarmi sul selciato o in qualche altro modo atroce. Avrebbe voluto che passasse sotto silenzio. Cosa impossibile».
Un gesto che secondo lei ha un valore politico?
«Solo nel senso di dire "no". Un "no" alla politica italiana dell´ultimo ventennio, sinistra inclusa. "La sinistra italiana che conosciamo è morta", scrisse Luigi poco prima di morire. Così la pensava anche Lucio».
Ma lui voleva dare al suo suicidio un carattere di denuncia?
«No, è stato un gesto personale. Però non gli saranno sfuggite le conseguenze pubbliche. Voglio anche aggiungere che questo suicidio fa crescere il peso della sua personalità, la sua capacità di governare la vita fino in fondo».
Lei difende il diritto al suicidio?
«Sì, se uno è padrone della vita è anche padrone della sua fine. Nella Costituzione non c´è scritto che tutti i cittadini hanno il dovere di campare finché morte naturale non li fulmini».
Per uno che ha fatto politica per tutta la vita non è una fuga?
«No. È un giudizio definitivo sulla propria condizione, e sullo stato più generale delle cose, come se dicesse: per me, a 80 anni, non c´è più niente da fare».
Eretico in vita. Ed eretico in morte.
«La verità è che questo suicidio mi turba profondamente. Ho come l´impressione di non aver fatto abbastanza. Non mi sono arrabbiato abbastanza. L´ho subìto, insomma, e non me lo perdono».

il Riformista 30.11.11
Dopo strappi e imbastiture
il sarto eretico taglia il filo
di Cinzia Leone


Sarto eretico della politica, dopo molti strappi e tante imbastiture, il filo delle Parche della sua vita Lucio Magri ha voluto tagliarlo da solo. Nel suo ultimo libro, «Il sarto di Ulm», un titolo che cita il sarto utopista di Brecht che non riesce a volare, rileggendo la propria biografia e quella del Partito comunista, Magri racconta la nobile sartoria della politica, che era tutt’uno con la sua biografia. La storia politica di Lucio Magri, nata nella Dc assieme a Giuseppe Chiarante, poi si intreccia con quella del Pci. Il partito che ha amato e per cui si è battuto dalla sezione di Bergamo, fino a Roma a Botteghe Oscure. Dopo il trauma dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, in dissenso con il suo Pci, nel ’69 fonda il Manifesto con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Valentino Parlato e Luciana Castellina.
Erano tutti figli di Ingrao? Magri dal Partito venne radiato. E contro il gruppo del Manifesto il più duro fu proprio Pietro Ingrao. Rossanda la teorica, Pintor l’anima giornalistica la Castellina la grande inviata e Lucio lo stratega politico della rottura. Il Pci per Magri stava perdendo l’occasione di rovesciare il sistema: i tempi erano maturi per cogliere un momento rivoluzionario. Pessimista Magri? Troppo ottimista, semmai.
Dopo il Manifesto, fonda il Partito di unità proletaria per il comunismo, ma nell’84 rientra nel Pci, che segue fino alla trasformazione in Pds, nel ’91. Partecipa alla nascita di Rifondazione comunista, ci rimane fino al ‘95 quando la sua corrente lascia il partito per confluire nei Democratici di sinistra. Magri preferisce rimanere fuori. Un uomo che per le correnti aveva una naturale passione, abbandona il flusso frastagliato della politica e trova un approdo sicuro in un amore.
L’alone romantico che ha sempre circondato un uomo di grande bellezza e intelligenza, anche sull’orlo di una fine lucidamente cercata e voluta, lo segue inesorabile. Era depresso per la morte della moglie, sottolineano in molti. «L’ho incontrato pochi mesi fa racconta il direttore del Riformista Emanuele Macaluso è stato esplicito, e sincero, come sempre: “Non ho più il partito, non ho più mia moglie”. Dopo il viaggio di una vita, l’approdo dei sentimenti non c’era più, e nemmeno quello della politica». Pubblico e privato per Magri erano tutt’uno.
Ha scelto di morire in Svizzera con l’aiuto di un medico, all’età di 79 anni: niente funerali e necrologi, la gestione dei suoi scritti affidata a Luciana Castellina. Il presidente Napolitano esprime il suo cordoglio: «Essendo stato testimone del suo impegno e partecipe di quelle stagioni».
L’eretico Magri assomigliava alla cronaca della sua morte a distanza fatta da Simonetta Fiori su “Repubblica”, con la cameriera che prepara il Martini mentre i vecchi amici aspettano l’annuncio telefonico che tutto è finito? O piuttosto al sarto di Ulm di Brecht che costruisce un paio d’ali, credendo di poter volare e per dimostrarlo al vescovo diffidente, sale sul campanile della Chiesa, si libra in volo e cade morendo sul colpo? «Il sarto è morto dice il vescovo di Brecht alla gente Era proprio pazzia. Le ali si son rotte e lui sta là, schiantato sui duri, duri selci del sagrato. Che le campane suonino. Erano solo bugie. Non è un uccello, l’uomo: mai l’uomo volerà». L’utopia ha i suoi prezzi. E pretende di giocare d’anticipo.

Corriere della Sera 30.11.11
Nietzsche, viaggio fatale oltre i confini della follia
I giorni più tragici del genio che sfidò il mondo
di Pietro Citati


Friedrich Nietzsche non era una mente, ma un clima. Il barometro agiva su di lui come un destino: aveva una sensibilità meteorologica intensissima, ed era così indifeso davanti allo svariare delle luci e delle temperature, che a volte scorgeva in se stesso una debolezza radicale, dalla quale non avrebbe mai saputo liberarsi. Se il clima aveva un'influenza simile su di lui, si trattava di scegliere un clima. Non sopportava quello della Germania dove era nato, né quello di Basilea, dove aveva insegnato per anni. Allora, per il resto della sua vita, emigrò nella Francia meridionale e in Italia: Mentone, Nizza, Genova, Sorrento, Messina, i laghi lombardi, Venezia, Roma, Torino — oltre che l'incomparabile Sils-Maria, in Engadina. Ma, anche lì, trovava nemici: la nebbia, le nuvole, l'umidità, il caldo, il freddo, l'eccesso o l'assenza di luce. Non sopportava l'inimicizia della natura: se il cielo era coperto, una tenaglia lo stringeva attorno alla testa, gli impediva di respirare, di pensare, di sentire, di scrivere, di camminare. La vita diventava tragica, come se fosse Aiace o Edipo, e potesse vivere soltanto nell'atmosfera irrimediabile della tragedia. Ancora una volta fuggiva: e poi di nuovo fuggiva; alla caccia di quel freddo mite e di quell'aria stimolante, che gli permettevano di scrivere.
Alla fine del 1883, Nietzsche giunse a Nizza, dove abitò tutti gli altri inverni della sua vita, fino al tremendo inverno del 1888, a Torino, quando piombò nella follia. Il clima di Nizza gli piaceva e lo incantava indicibilmente. Il cielo era luminoso e limpidissimo, senza una nuvola: l'aria secca e vivificante: il mare di un blu tropicale: nelle notti, i chiari di luna facevano vergognare e arrossire i lampioni a gas: sentieri portavano nelle colline: le arance gialle occhieggiavano tra i rami: la natura aveva una eleganza mondana, libera e grandiosa, che entrava e possedeva la città: l'inverno, i colori erano impastati di un luminoso grigio-argento; e anche se qualche volta le montagne vicine si incipriavano di bianco, non sembrava una malvagità, ma una specie di maquillage della bellissima incantatrice meridionale. Non c'era sosta, non c'era requie: durante l'anno, Nizza aveva duecentoventi giorni assolutamente tersi e sereni; senza rivali in Europa, nemmeno sulla riviera ligure. Settimane dopo settimane, il cielo splendeva puro da mattina a sera. «Nizza mi incanta sempre — diceva — come se non l'avessi mai vista». Il 21 giugno 1885, a St. Jean, vide delle splendide siepi di geranio, verdi e con i fiori rossi.
Così Nietzsche, che non aveva ancora compiuto i quarant'anni, si sentiva ringiovanire; e gli sembrava che Nizza lo proteggesse. Il nome non derivava forse dal greco antico Nikaia, e da Nike, che significava Vittoria? La testa era diventata più libera di anno in anno: lo spirito vivace sopportava con maggior leggerezza il proprio fardello — il tremendo fardello a cui è condannato ogni filosofo; i pensieri erano ardimentosi e veloci, e la mano vergava parole rapidissime sulla carta. Abitò quasi sempre alla Pension de Génève, petite rue St. Etienne. La stanza era lunga e larga: il letto era tre volte più grande del suo letto tedesco; e dalla alta finestra guardava gli enormi eucaliptus, grandi edifici rossastri, la bella curva della Baie des Anges, lo square des Phocèens, la Corsica nella lontananza; e gli pareva di aver afferrato una piccola parte — non più della coda — di quella felicità che gli era sempre sfuggita.
Soffriva terribilmente di solitudine. Credo che ne soffrisse sempre, anche quando era bambino, anche negli anni di insegnamento a Basilea, circondato da professori e studenti che lo ammiravano, e nei tempi dell'amicizia con Richard e Cosima Wagner — i giorni della felicità e della fiducia. Ma la parola solitudine non basta, per comprendere l'istinto profondo di Nietzsche. Era troppo orgoglioso per credere che qualcuno «potesse amarlo». Allora, con una specie di furore demoniaco, recideva ogni rapporto con qualsiasi essere umano: non desiderava essere affine a nessuno, né vivo né morto: non voleva sentire nessuna voce di risposta; sempre soltanto l'eco della sua molteplice voce, ripetuta migliaia di volte. Era un'esperienza terribile, che poteva distruggere l'uomo più duro, e tanto più lui, che era tanto gracile e fragile. Così, via via, la solitudine cresceva, fino a coprire l'ultimo orizzonte: egli era l'uccello selvatico perduto nei cieli: il remoto isolano che nessuna lettera raggiungeva: il fuggiasco e l'esule; o il filosofo, trincerato nella sua tana o nel suo antro infernale. «Una filosofia come la mia — diceva — è come una tomba. Non si riesce a vivere insieme a lei».
Quando lasciò Basilea per peregrinare in Italia, accusò gli amici di averlo abbandonato. Non era vero: lui aveva abbandonato gli amici; anzi, tutto il genere umano, che aveva cancellato con un gesto. Nessuno — ripeteva — gli faceva un cenno d'affetto, nessuno aveva bisogno di lui, nessuno si preoccupava di curarlo, nessuno cercava di scoprire quali sentimenti si nascondessero dietro i suoi libri. «Ho avuto l'impressione — scrisse alla madre — che tutto il mondo, in lungo e in largo, tacesse; nessuna farfalla in forma di lettera si è persa in volo fino a giungere alla mia abitazione». «Intorno a me — ripeteva a un'amica — s'è fatto davvero il vuoto: non c'è nessuno che abbia un'idea della mia condizione... Non ho sentito per dieci anni nemmeno una parola che penetrasse fino a me. È una cosa che astrae da ogni rapporto umano, e crea un'intollerabile tensione e vulnerabilità. È come essere un animale continuamente ferito». Mentre accumulava solitudine sulle sue spalle, cercava sempre più affetto: il calore dell'amicizia, come quella con Franz Overbeck, suo antico collega a Basilea, che intiepidisce e addolcisce le parti più desolate dell'epistolario. Soprattutto desiderava amici più giovani. Quando morì Heinrich von Stein, provò un immenso dolore: perché aveva sperato che la sua esistenza giovanile così fresca e fervida fosse riservata proprio a lui per il futuro.
Dopo il 1886, ebbe l'impressione che la sua vita si trovasse come in un pieno meriggio. Si gettò dietro le spalle i libri della sua giovinezza e della sua maturità — Aurora, Gaia scienza — che restano, in realtà, i suoi capolavori. Si prefisse un compito: creare un immenso sistema filosofico, che desse compattezza e coerenza a tutto ciò che aveva, fino allora, sparsamente pensato. Non si faceva illusioni: forse non avrebbe creato nessun sistema: avrebbe trovato soltanto un pertugio attraverso il quale fissare l'ineffabile; e, in ogni caso, il compito sarebbe stato uno di quegli strumenti di tortura che si usavano anticamente. Aveva bisogno di rinunciare completamente a se stesso e di non pensare più al suo io: trovando calma, disciplina, quiete, una precisione quasi militaresca, e trasformando gli eventi fortuiti in un destino. Per tutto questo, gli era necessaria una solitudine ancora più estrema di quella che aveva conosciuto fino allora. Lentamente, cominciò a prepararla e a costruirla. Ma fu il supremo dei suoi fallimenti: perché, in fondo a questa solitudine volontaria, trovò la lacerazione e la frantumazione della follia.
La solitudine aveva un altro nome: malattia. Era il suo vero nome. Ci furono mesi in cui Nietzsche era malato per tre settimane, giorno dopo giorno. In altri casi, subiva attacchi improvvisi di tutte le sue malattie congiunte, che lo lasciavano sconvolto e distrutto, sull'orlo della catastrofe. Aveva violentissimi assalti di emicrania, che gli impedivano di pensare: dolori alla schiena, che gli impedivano di viaggiare: insonnia, vomito, giramenti di testa, raffreddori, spossatezza, svogliatezza, eccitabilità, depressione, disperazione. Tutto quanto proveniva dall'esterno lo faceva ammalare: la cosa più piccola cresceva fino a diventare mostruosa; e solo in circostanze favorevoli, con un'estrema attenzione e accortezza, riusciva a raggiungere un equilibrio fragilissimo. E poi c'erano gli occhi, i debolissimi occhi: macchie, offuscamenti, arrossamenti, lacrimazioni, veli che si muovevano davanti allo sguardo, anche se il tempo era bello e sereno. La quasi cecità accresceva l'angoscia della solitudine — sebbene, in modo per noi inconcepibile, egli riuscisse a leggere e a scrivere moltissimo. Non so se egli conoscesse le cause della sua malattia, doppia come quella di Leopardi: sia organica sia psicologica. Da un lato soffriva di sifilide, che aveva contratto non sappiamo quando: dall'altro di psicosi maniaco-depressiva, che lo gettava dall'esaltazione della paranoia alla «ostinata nera orrenda barbara malinconia», di cui decenni prima aveva parlato Leopardi.
Il 5 aprile 1888 Nietzsche giunse, per la prima volta, a Torino, lasciando le rive del mare. In pochi giorni, l'antica capitale sabauda lo affascinò completamente: come mai, fino allora, nessun luogo della terra, nemmeno Venezia, Nizza e Sils-Maria. Le molte lettere che dedicò a Torino sono, forse, le più belle pagine che siano mai state dedicate a una città moderna; e, certo, le più belle conosciute da Torino, che viveva un momento felicissimo della sua storia, folto di nuove costruzioni e di librerie colte. Nietzsche, che adorava il clima di Sils-Maria, non avrebbe mai creduto di ritrovare, in quella città di pianura, la stessa aria secca, stimolante, elastica, energica, trasparente, ispirata dell'Engadina, di cui aveva bisogno, se voleva muovere il suo stile vibrante e flessibile.
Le montagne nevose erano vicinissime; e Nietzsche amava le larghe strade che sembravano correre diritte verso le nevi come verso le loro madri. Amava i viali pieni di splendidi alberi dalle foglie verdi e brillanti, che correvano oltre il corso del Po: il cielo e il grande fiume di un tenero azzurro, come in un Claude Lorrain che non aveva mai visto. Nella città, costruita nel Seicento e nel Settecento, c'era dovunque un'aria di corte: una calma, un silenzio e una quiete aristocratiche, e un'«unità di gusto» che si estendeva al colore giallo o rosso-crema dei palazzi. Nietzsche non aveva requie: attraversava piazza San Carlo, piazza Carignano e piazza Madama: modulava col piede i nobili selciati delle strade, attraversava le vaste piazze, che emanavano un senso straordinario di libertà, percorreva i lunghissimi e ampli portici, che proteggevano i suoi occhi dal sole, ed entrava nei gloriosi caffè, dove diventò presto un intenditore di gelati, spumoni e pezzi duri.
Passò una pessima estate a Sils-Maria, che, per una volta, lo tradì col freddo, i temporali e la tempesta. Fu sovente ammalato. Ma poi la sua Perla Perlissima, come la chiamava, aprì a ventaglio la sua antica e seducente coda di pavone dai colori meridionali. Il tempo toccò «una sublime perfezione terrena». Comparve una meravigliosa atmosfera estiva: tutti i colori in pieno splendore, un blu di lago e di cielo, l'aria tersa, mentre le montagne bianche fin quasi a fondo valle esaltavano in ogni modo l'intensità della luce. Il 21 settembre 1888 Nietzsche era di nuovo a Torino, fuggendo l'Engadina e la Lombardia alluvionate. Ritrovò, in chiave autunnale, la bellezza amata in primavera. Ma il tono delle sia pur bellissime lettere è cambiato: si avverte, nella descrizione della vita quotidiana, un di più di esaltazione, un'euforia, un incanto alcoolico, che rivelano come il pendolo della psicosi tendesse pericolosamente verso l'alto, verso il culmine dell'abisso.
Ciò che colpisce, in queste ultime lettere, folgorate dalla luce della follia, è il fatto che Nietzsche vi ripeteva le parole che aveva sempre scritto. Ma ora tutto veniva stravolto. Nei suoi grandi libri, aveva avuto una sensibilità così fine e ramificata da ripetere tutte le voci e i suoni del mondo: mentre, nelle vie di Torino, egli era letteralmente Buddha, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Shakespeare, Voltaire e Napoleone. Nietzsche era stato Dioniso e Gesù Crocifisso: Dioniso nel Crocifisso e il Crocifisso in Dioniso. Ora tutto si avverava: sotto le spoglie di Nietzsche, Gesù saliva sulla croce, dileggiato e deriso: Dioniso era fatto a brandelli dai Titani e smembrato in un numero infinito di individui; ed entrambi si trasformavano, venivano salvati, salvavano, mentre — Nietzsche commentava — «il mondo è trasfigurato, poiché Dio è sulla terra. Non vedi come i cieli gioiscono? Ho appena preso possesso del mio regno».
La notizia della follia di Nietzsche si diffuse rapidamente tra gli amici e i conoscenti. Franz Overbeck lasciò la stazione di Basilea la sera del 7 gennaio 1889, e il giorno seguente, dopo 18 ore di viaggio, era a Torino, cercando l'abitazione di Nietzsche nella città sconosciuta. Voleva riportarlo a casa. Finalmente riuscì a entrare nella stanza, dove Nietzsche aveva «pensato, scritto riso e delirato» per mesi. Stava rannicchiato nell'angolo di un sofà, col volto terribilmente emaciato.
I due amici si abbracciarono lacrimando: poi Nietzsche si lasciò ricadere sul sofà, sconvolto da sussulti di pianto. «Forse proprio in quell'attimo — scrisse Overbeck — gli si spalancò davanti l'abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato». Poi Nietzsche si sedette al pianoforte, dove cantava a voce spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre di più. Proclamava di essere «il pagliaccio della nuova eternità», e rendeva la sua gioia con le espressioni più triviali, o con balzi e danze scurrili, o con smorfie da istrione. Overbeck ebbe una impressione atroce: quello spettacolo incarnava con terribile efficacia l'idea orgiastica della follia sacra, sulla quale era fondato il teatro antico. Adesso, tutto era finito: tutto quel possente mondo tragicomico — Eschilo, Aristofane, Le Eumenidi, Le Rane, Le Nuvole — si esprimeva attraverso la sua scurrile degradazione. Nel mondo moderno, Dioniso, l'antichissimo dio dell'estasi e della lacerazione, era diventato un pazzo, sottoposto, come il professor dottor Friedrich Nietzsche di Basilea, a un processo di «paralisi progressiva».

Tutto l'epistolario del filosofo tedesco
Di Nietzsche la casa editrice Adelphi ha pubblicato il quinto e ultimo volume dell'epistolario.
Si intitola Epistolario 1885-1889: l'edizione è condotta sul testo critico di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, con traduzione e cura di Giuliano Campioni e Maria Cristina Forni
(pp. XIV-1360, 100).
Il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche nacque a Röcken il 15 ottobre 1844 e morì a Weimar il 25 agosto del 1900. Nel 1888 andò ad abitare a Torino, dove scrisse L'anticristo, Il crepuscolo degli dei ed Ecce Homo (testo pubblicato postumo). Nel 1889 subì il crollo mentale che lo portò alla follia.

Corriere della Sera 30.11.11
Libertà motore della storia
Benedetto Croce superò lo statalismo hegeliano per esaltare l'aperta competizione di uomini e idee
di Giuseppe Bedeschi


Nel 1917, scrivendo la prefazione alla terza edizione del suo libro Materialismo storico ed economia marxistica, Benedetto Croce asserì che il marxismo lo aveva riportato «alle migliori tradizioni della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza, e la satirica e caustica opposizione alle insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell'89». Certo, aggiungeva Croce, Marx aveva perduto ormai in gran parte l'ufficio di maestro che un tempo aveva avuto, poiché il concetto di potenza e di lotta, che egli aveva trasportato dagli Stati alle classi sociali, era ormai tornato dalle classi agli Stati. E tuttavia, precisava il filosofo, ciò non doveva «impedire di ammirare pur sempre il vecchio pensatore rivoluzionario (per molti aspetti assai più moderno del Mazzini, che gli si suole presso di noi contrapporre)», e non poteva cancellare «la gratitudine» che gli si doveva «per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (…) della Dea giustizia e della Dea umanità».
In questa celebre pagina Croce esprimeva un'idea per lui centrale: il divenire della realtà, e dunque della storia, ha luogo attraverso urti, contrasti, lotte, che giungono inevitabilmente fino alle guerre. In questo processo l'elemento decisivo è la forza. E contro di essa non ha senso invocare la fraternità (e le altre «ciarle illuministiche», l'eguaglianza e la giustizia): in primo luogo perché gli Stati si combattono fra loro continuamente per accrescere la loro potenza, e nulla possono concedere alla fraternità; in secondo luogo perché l'eguaglianza è un concetto fallace (così come è fallace la giustizia, che vorrebbe realizzarla): un concetto perennemente smentito dalla diversità delle attitudini, dei bisogni e dei sentimenti individuali. Gli Stati, dunque, sono i grandi protagonisti della storia universale, e gli individui hanno una sola missione, quella di identificarsi col destino dello Stato al quale essi appartengono.
Era, questa di Croce, una concezione di origine hegeliana. Ritornava infatti in essa l'idea della vita dei popoli e degli Stati come lotta continua e insopprimibile per il primato e per l'egemonia, lotta che aveva nella guerra il suo momento supremo. Perciò Croce avvertiva che bisognava tenersi «sempre pronti a considerare qualsiasi popolo, anche quello che più parla al nostro cuore o alla nostra fantasia, come avversario, se un giorno i reggitori dello Stato ce l'additeranno come tale», in quanto le faccende politiche non possono essere plasmate «dal nostro tenero cuore, ma appartengono a quei Leviatani che si chiamano gli Stati, a quei colossali esseri viventi dalle viscere di bronzo, ai quali noi abbiamo il dovere di servire ed obbedire, ed essi da parte loro hanno buone e profonde ragioni di guardarsi in cagnesco, di addentarsi, di sbranarsi, di divorarsi, visto e considerato che solo così si è mossa finora, e così sostanzialmente si muoverà sempre, la storia del mondo».
Questa concezione crociana della politica, professata nei primi due decenni del Novecento, fu abbandonata dal filosofo con l'avvento della dittatura fascista, in opposizione alla quale egli svolse un importante magistero intellettuale. Contro Gentile e i gentiliani, contro la loro esaltazione dello Stato come massima espressione dell'eticità, Croce venne ora fissando che lo Stato è solo una «forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi; così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone». È evidente il profondo mutamento d'accento di queste parole rispetto alle dottrine sostenute da Croce agli inizi del Novecento. Ora egli non guarda più con ammirazione allo Stato-potenza, bensì allo «Stato di cultura» (così lo definisce), cioè allo Stato che si ispira agli ideali morali, che promuove la libertà, e che rimuove tutti gli ostacoli che intralciano o mortificano la libertà medesima.
Croce è ormai pervenuto a posizioni liberali. Nel 1925 (l'anno in cui incomincia la svolta dittatoriale del fascismo) egli scrive che nel liberalismo si esprime il bisogno, anzi la necessità, «di lasciare, quanto più è possibile, libero giuoco alle forze spontanee e inventive degli individui e dei gruppi sociali, perché solo da queste forze si può aspettare il progresso mentale, morale ed economico, e solo nel libero giuoco si disegna il cammino che la storia deve percorrere».
In quale rapporto si trovava il liberalismo crociano con quelli che l'avevano preceduto? A questo proposito il filosofo sottolineava con forza un punto: e cioè che la sua idea dello Stato liberale non aveva come presupposto le filosofie empiristico-sensistiche inglesi e scozzesi, incapaci di dimostrare l'ideale liberale se non con argomenti utilitaristici (come avveniva, a suo parere, nel trattato sulla libertà di John Stuart Mill), bensì aveva come presupposto la filosofia idealistica, concepita come assoluto immanentismo dello spirito. E poiché lo spirito è dialettica di distinzioni e opposizioni, e perpetuo crescere su se stesso e perpetuo progresso, tale spiritualismo doveva essere uno storicismo assoluto.
Era, dunque, una concezione metapolitica (in quanto non si fondava su una particolare teoria politica) quella che Croce aveva del liberalismo, completamente diversa dalla tradizione inglese. Ciò emergeva bene in due proposizioni crociane. La prima era che l'idea di libertà non si può definire per mezzo di distinzioni giuridiche, le quali hanno carattere pratico, e si riferiscono a istituti particolari e transeunti, i quali, essendo fatti storici, non hanno un legame necessario con la libertà, e possono essere sostituiti da altri istituti. La seconda proposizione era che il liberalismo non ha legami organici col sistema economico della libera concorrenza, e può ben ammettere svariati modi di ordinamento della proprietà e di distribuzione della ricchezza (comunismo compreso). Una proposizione, questa, che attirò a Croce una serrata critica di Luigi Einaudi.

Corriere della Sera 30.11.11
Croce
Così divenne il faro dell'opposizione al fascismo


Per quanto fosse del tutto estraneo al mondo accademico (non era neppure laureato), il filosofo Benedetto Croce (1866-1952), nato a Pescasseroli (L'Aquila) e vissuto sempre a Napoli, fu la personalità di maggior rilievo della cultura italiana per un lungo periodo di tempo. I suoi Elementi di politica, che il «Corriere della Sera» manda in edicola domani con prefazione di Giuseppe Galasso, sono una delle testimonianze più significative della sua concezione liberale. Si tratta della quinta uscita della serie «Laicicattolici, I maestri del pensiero democratico», in vendita ogni giovedì con il «Corriere» al prezzo di 1,50 più il costo del quotidiano. Ostile al positivismo e critico verso l'eredità dell'Illuminismo, ma anche verso la Chiesa e le religioni rivelate, Croce fu un oppositore del fascismo, dopo un primo periodo di benevolenza per Benito Mussolini, e divenne un punto di riferimento per tutti coloro che non si riconoscevano nel regime. Dopo la caduta del Duce, esercitò una notevole influenza nel Partito liberale e ne approvò l'alleanza con la Dc degasperiana. Nella collana del «Corriere» il libro di Croce sarà seguito da un'antologia di un altro grande studioso meridionale, lo storico pugliese Gaetano Salvemini. Il volume s'intitola La sinistra e la questione meridionale: uscirà giovedì 8 dicembre con prefazione di Giovanni Russo. Il 15 dicembre toccherà invece a Quale socialismo? di Norberto Bobbio, con prefazione di Michele Salvati.

Repubblica 30.11.11
Una commissione: "Trasferite la salma del dittatore" Ma sarà la Chiesa a decidere sul mausoleo
Via i resti di Franco l’ultima battaglia che divide la Spagna
di Omero Ciai


La legge sulla memoria storica approvata da Zapatero nel 2007 prevede che la Valle de los Caidos onori tutte le vittime

Riuscirà la Spagna democratica a cancellare l´ultimo e più imbarazzante monumento al "Generalissimo" vincitore della Guerra Civile e "Caudillo" di una dittatura che durò trentasei anni, fino al giorno della sua morte? La Commissione di esperti nominata dal governo uscente i socialisti di Zapatero ha stabilito ieri che l´unica soluzione per trasformare il "Valle de los Caidos" in un luogo bipartisan, simbolo della riconciliazione, sarebbe quello di esumare e riconsegnare alla famiglia le spoglie del dittatore affinché lo sotterrino da un´altra parte. La Commissione considera "non vincolante" il desiderio della famiglia di Francisco Franco che, attraverso la figlia Carmen, ha già manifestato tutta la sua contrarietà a un trasferimento della salma, ma prende atto che l´attuale mausoleo fa parte di un luogo di culto e conclude che l´ultima parola spetterà comunque alla Chiesa spagnola.
Tutta la vicenda prese il via dalla legge del governo Zapatero sulla "memoria storica", approvata dal Parlamento nel 2007, grazie alla quale si decise di rimuovere in tutto il paese qualsiasi simbolo ancora presente legato alla dittatura: dalle statue di Franco, agli stemmi, ai nomi delle strade; riconoscere e risarcire le vittime della Guerra Civile e della dittatura; avviare la ricerca delle fosse comuni dove vennero sotterrati senza identificazione i miliziani che combatterono contro l´esercito golpista per difendere la Repubblica spagnola. Riguardo al mausoleo del "Valle de los caidos", che oltre a conservare il sepolcro del dittatore, è anche il luogo simbolico scelto da Franco per rendere indimenticabile alle generazioni venture la sua vittoria nella Guerra Civile (1936-39), la legge stabilisce che debba diventare la sede dove onorare e ristabilire la memoria di tutte le vittime.
Ora la soluzione scelta dalla Commissione sarebbe per senso comune la migliore anche perché quel mausoleo è la più grande "fossa comune del franchismo" e conserva i resti di migliaia di repubblicani, secondo le stime almeno 30mila, "desaparecidos" che vennero sepolti insieme ai loro carnefici. Riesumare e identificare i corpi delle vittime è considerata missione impossibile, dunque meglio trasferire il carnefice e liberare il monumento del suo artefice. Il progetto che propone la Commissione prevede un memoriale con tutte le vittime della Guerra Civile e la fondazione di un centro d´accoglienza dove spiegare ai visitanti ciò che furono guerra e dittatura e come e perché venne costruito il mausoleo.
Ci riusciranno? Chi ha voluto la legge ha perso le elezioni il 20 novembre scorso. Al governo entro poche settimane tornerà il centro destra e molti temono che il nuovo premier, Mariano Rajoy, preferirà abbandonare in un cassetto i documenti preparati dalla Commissione di esperti sul mausoleo del "Valle de los Caidos". È possibile. Anche se vale la pena considerare anche un altro aspetto. Procedere nel senso della legge sulla "Memoria storica" potrebbe essere anche una prova. Testimonierebbe a favore di un definitivo "strappo" della destra spagnola dai legami storici con la dittatura franchista. In caso contrario l´opposizione avrà buon gioco a ricordarglielo.

Repubblica 30.11.11
Cinquant´anni fa nacque l´acceleratore che aprì la strada a quelli di oggi Fu fatto vicino a Roma e funzionò fino al 1964 cambiando la fisica
Se Frascati è meglio del Cern ecco i pionieri delle particelle
di Elena Dusi


«Non ce la farete mai» era la frase che i fisici dei laboratori di Frascati si sentivano ripetere ogni giorno, nell´Italia della fine degli anni ´50. Il loro acceleratore di particelle invece non solo ha smentito tutti, iniziando a emettere luce in una mattina di mezzo secolo fa. Ma ha anche dato vita a una progenie di macchine sempre più grandi e stupefacenti che culminano oggi in quel Large Hadron Collider ("Lhc") che al Cern di Ginevra è chiamato a cercare gli ultimi pezzi mancanti nel puzzle di particelle subatomiche che compongono la materia. L´acceleratore Ada (che vuol dire "anello di accumulazione"), un "miracolo" della fisica italiana, ha appena compiuto 50 anni. Una festa per lui è stata organizzata giovedì nei laboratori dell´Istituto nazionale di fisica nucleare a Frascati, vicino Roma. Non che l´apparecchio sia ancora funzionante. Anzi, dopo pochi anni di lavoro, nel 1964 è stato fermato per lasciare spazio a macchine più efficienti. «Ma in quell´Italia che dalla fine della guerra soffriva dello sconforto per la sconfitta, ha dato di nuovo fiducia» spiega Giorgio Salvini, uno di grandi fisici alla guida del progetto e negli anni ´90 ministro dell´università e della ricerca. L´esperimento dava anche forma a uno dei sogni di Enrico Fermi: studiare le particelle ad alta energia non più solamente con quel "laboratorio naturale" che sono i raggi cosmici, prodotti nel più profondo dello spazio. Ma in una macchina appositamente costruita dall´uomo per carpire i segreti che si nascondono all´interno dell´atomo.
Ada ha aperto una strada completamente nuova per gli esperimenti dell´epoca, trasmettendo il suo testimone fino ad Lhc. L´idea degli scienziati fino ad allora era stata sparare particelle lungo un tubo per colpire un bersaglio fisso, e poi studiare i frammenti delle collisioni per scovarvi nuove componenti della materia. L´acceleratore di Frascati scelse invece una forma ad anello di un metro e 60 di diametro, con le particelle che correvano in tondo. Raggiunta un´energia sufficientemente alta, i due fasci che viaggiavano in due direzioni opposte si scontravano creando una radiazione luminosa. «Nessuno ci credeva. Invece funzionò» racconta Carlo Bernardini, uno dei giovani fisici che facevano parte dell´équipe. «E da allora ci fu la fila fuori dalla porta per appoggiare l´occhio sull´oblò e osservare la luce dell´elettrone che correva nella macchina. Ci chiamavano il circo equestre». Abbandonare la retta in favore del cerchio non è stata l´unica scommessa di Ada. «Quando si trattò di scegliere le particelle da usare per le collisioni, la sfida non fu da meno» ricorda Bernardini. Un fascio era composto da elettroni. Quello che circolava in direzione opposta conteneva invece particelle uguali ma di carica contraria: gli anti-elettroni o positroni. «Nessuno fino ad allora era mai riuscito a produrre e conservare particelle di antimateria come i positroni. Noi riuscimmo a creare un fascio mantenendolo stabile per molte ore» spiega Bernardini.
Fra i 160 centimetri di diametro di Ada e i 27 chilometri di Lhc c´è ovviamente un abisso di potenza e tecnologia. Eppure la differenza che più colpisce fra l´Italia di mezzo secolo fa e quella di oggi è il clima che regnava all´interno della "banda", come la chiama Bernardini. Salvini era un giovane professore universitario di 33 anni. Lavorava accanto a Bruno Touschek, un fisico austriaco che nel ´45 era stato arrestato dalla Gestapo ed era riuscito a scappare dal convoglio che lo portava nel campo di concentramento di Kiel. Ad affiancarli, una trentina di giovani di 22 anni appena usciti dall´università, che in quell´impresa si giocavano il futuro. «All´età di Salvini conclude Bernardini oggi un ragazzo sta ancora lottando per ottenere un assegno di ricerca».

Repubblica 30.11.11
L’immaginazione al potere
Perché grazie all’arte democratica i personaggi letterari sono dei modelli
di Remo Bodei


All´Università di Bologna, il filosofo spiega l´attrazione che proviamo per le "Vite immaginate"
Rispetto al passato, con il diffondersi dei media e la scolarizzazione, l´uomo è più mobile e recettivo dell´alterità
Fantastichiamo spesso su come, in altre circostanze, avrebbe potuto essere l´esistenza. Un esercizio ozioso, ma molto umano
Si tratta di pensare ciascun individuo come un cantiere aperto, una costruzione mai conclusa

Ciascuno di noi vive nell´immaginazione altre vite, alimentate da esempi, ideali, testi letterari e media. Per loro tramite tentiamo di porre rimedio alla limitatezza dell´esistenza individuale, al dipendere da condizioni non scelte, che, a posteriori, appaiono casuali (luogo e data di nascita, corpo e famiglia, lingua e società). Siamo costretti a conquistare la nostra identità attraverso scelte dolorose, amputando o potando una dopo l´altra le successive ramificazioni del nostro essere e cancellando abbozzi di io che avrebbero potuto fissarsi.
Per sfuggire agli orizzonti ristretti entro cui sarebbe confinata la nostra vita, per renderla più complessa e robusta, dobbiamo intrecciarla e ricombinarla con quella di altri, conosciuti o sconosciuti, vicini o lontani nel tempo e nello spazio, servendoci dell´immaginazione quale antidoto alla povertà di ogni esperienza singola. Le fiabe, i romanzi, le poesie, i libri di storia, i racconti di viaggio, il teatro, il cinema, la televisione o Internet ci stanano dalla chiusura in noi stessi, attivano germi che esistono in noi solo in forma latente.
La lettura e la frequentazione di opere d´arte in genere spalancano nuovi mondi, inoculano idee, passioni, sensazioni che altrimenti ci resterebbero precluse. Ci rendono partecipi di quelle infinite combinazioni di senso che gli inevitabili limiti della vita individuale rendono personalmente inaccessibili. Non è, infatti, necessario che ci si identifichi con gesta o attitudini di autori e personaggi di cui si leggono o si odono le imprese. Basta che esse allarghino l´estensione della nostra comune umanità, facendoci sentire e comprendere esperienze che non potremmo mai vivere, ma che, mostrando la ricchezza dei possibili, mettono in luce i nostri limiti
Chi vorrei essere? Qualche altro, una persona con cui mi identifico? Un´armonica collezione di qualità prelevate da personaggi reali e ideali? Un altro me stesso che però ha sviluppato tutte le sue potenzialità, diventando, secondo il detto attribuito a Sacha Guitry, moi même, mais réussi? Al di fuori di queste fantasie, si tratta di pensare ciascun individuo come un cantiere sempre aperto, una costruzione mai conclusa, perché ogni vita è insatura.
Noi, però, fantastichiamo spesso su come, in altre circostanze, avrebbe potuto essere la nostra vita. Un esercizio ozioso, ma molto umano e diffuso, è costituito proprio dall´insistere, nel rimpianto, nel rimorso e nel lutto, sul voler correggere retroattivamente gli eventi, immaginando quale sarebbe stata la nostra esistenza se alcuni eventi si fossero svolti in maniera differente, se non fosse accaduto un certo evento o se non avessimo preso una determinata decisione. Di norma, tale attitudine deprime e immalinconisce, così come infiacchisce il chiedersi cosa sarebbe accaduto se ci fossimo trovati in circostanze diverse, se avessimo agito in maniera differente o incontrato altra gente: siamo ciò che siamo appunto perché ci siamo imbattuti in quelle circostanze, ci siamo comportati in quel modo e abbiamo incrociato quella gente. Compiamo però, in questo caso, un errore logico che dipende dal dimenticare che siamo quel che siamo proprio perché ci siamo imbattuti in quelle circostanze.
(…) Come allargare la nostra ristretta identità immaginando le vite degli altri e intrecciandole alla nostra? Bisogna tener conto dell´invito di Pasolini, in Storie della città di Dio, a mettere in primo piano e valorizzare le esistenze altrui: «La nostra vita personale è così limitata che non ha mai abbastanza il senso dell´infinita complessità delle altre vite che la circondano: tende a semplificarle, a farne uno sfondo». E questo può accadere anche allargando il repertorio delle vite possibili.
(…) In cosa differisce, in maniera più specifica, l´immaginario del passato da quello del presente? Il potere o le istituzioni in genere, ad esempio, non sono sempre stati double face, con un lato reale e uno immaginario? Si pensi alla figura del sovrano o all´effetto delle divise e degli apparati di rappresentanza (sale del trono, cattedrali, corone, ermellini, cerimonie solenni). Tutte incidono sull´immaginazione, generando ammirazione, timore e rispetto.
La differenza è che oggi enormemente aumentato il peso della letteratura, dei media e delle arti visive, con l´offerta di un repertorio più vasto e articolato di vite e di esperienze. Del resto, già Madame de Staël aveva affermato che ormai non proviamo nulla che non ci sembri di aver già letto da qualche parte. Con il diffondersi della scolarizzazione e dei mezzi audiovisivi (accessibili anche agli analfabeti) il catalogo delle vite parallele accessibili all´immaginazione coinvolge attualmente, sin dall´infanzia, miliardi di persone.
Quanti più sono i modelli a disposizione, tanto più complessa è la trama dell´identità personale. Rispetto al passato, l´individuo moderno è quindi più mobile, fluido, plasmabile, maggiormente recettivo dell´alterità e meno congelato nel suo ruolo. Grazie ai testi vivo per procura altre vite parallele, mi fingo fornito di più biografie possibili: sono Odisseo, Antigone, Cesare, Dante, Amleto, Madame Bovary, Anna Karenina, Hans Castorp. Vivere cercando di collegarsi alla gamma delle possibilità già esperite da altri significa ritagliarsi una vita dotata di senso, intrecciata con una pluralità di storie collettive.

Repubblica 30.11.11
Un gruppo di imprenditori francesi pronti a finanziare i restauri
Accordo con l’Unesco per salvare Pompei
di Francesco Erbani


C´è un´altra intesa siglata ieri dalla Regione Campania su cui il Fai è più cauto

Pompei parla in francese. A Parigi sono stati annunciati ieri due accordi, uno fra il Ministero per i Beni culturali e l´Unesco per favorire una serie di interventi di restauro all´interno dell´area archeologica finanziati da un gruppo di imprenditori d´oltralpe, l´altro, molto diverso, fra Regione Campania, industriali e soprattutto costruttori per investimenti fuori dal sito.
Dell´intesa fra il ministero e l´agenzia dell´Onu per la cultura e il patrimonio culturale si parla da alcuni mesi. Fra dicembre e gennaio scorsi, poco dopo il crollo della Schola Armaturarum, sono andati a Pompei tre ispettori dell´Unesco che hanno stilato un rapporto molto accurato su come salvaguardare gli scavi (manutenzione ordinaria e straordinaria, programmazione degli interventi, assunzione di personale alla soprintendenza) e critico nei confronti delle scelte fatte dal ministero, in particolare dei commissariamenti. Pompei non veniva inclusa nella lista dei beni in pericolo, ma tutto era rimandato a una successiva verifica.
Ora, in base all´accordo di ieri, l´Unesco metterà a disposizione di soprintendenza e ministero le proprie competenze per gestire lavori necessari a mettere in sicurezza gli scavi. Per finanziare questi interventi si sono fatti avanti alcuni imprenditori francesi riuniti nell´Epad (Établissement public pour l´aménagement de La Défense), l´ente pubblico che amministra il quartiere della Défense, a Parigi. Coordinatrice di questo gruppo è un´italiana, Patrizia Nitti, direttrice del museo Maillol. Dovrebbe anche essere costituita una fondazione, guidata da Unesco e ministero, che sovrintenderà ai lavori. Non è stata definita una cifra. Si parla di un investimento fra i 5 e i 10 milioni annui per dieci anni. Un´entità simile ai 105 milioni di fondi europei sbloccati qualche settimana fa e che si spera di cominciare a spendere entro i primi mesi del 2012. Sembrano sbloccate anche le assunzioni di 22 fra archeologi (9), architetti (12) e amministrativi (1). Ma restano ancora dubbi sul quando effettivamente questi rinforzi prenderanno servizio.
Sul secondo accordo, per il quale molto si era battuto l´allora sottosegretario Riccardo Villari, non si conoscono molti dettagli. Sembra comunque chiaro che si vorrà approfittare della norma inserita nel decreto "salva Pompei", approvato dal governo nella primavera scorsa, che consente di costruire nell´area esterna al sito in deroga alle norme urbanistiche molto severe che tutelano in particolare la visuale del Vesuvio dagli scavi e degli scavi dal Vesuvio (un rilievo paesaggistico la cui tutela il rapporto degli ispettori Unesco sottolinea con vigore). Non ci sono ancora progetti. Si sente parlare di infrastrutture e di alberghi e ristoranti. Su questi aspetti è molto netta Maria Pia Guermandi, consigliere nazionale di Italia Nostra: «I sospetti che abbiamo avanzato fin da quando è stato varato quel decreto diventano più concreti. L´accordo fra ministero e Unesco è una cosa, altra cosa è un´intesa che rischia di trasformarsi nel via libera per una cementificazione dell´area già molto degradata fuori dagli scavi di Pompei».

Corriere della Sera 30.11.11
Sentimento senza frontiere
Battaglie, eroi letterari, realismo sociale La pittura italiana sbarca in Russia per un confronto tra gli ideali di un secolo
di Francesca Pini


Un tipo «freddino», la Giunone di Andrea Appiani (nel 1805 già nominato premier peintre del regno italico) che il pittore dipinge nell'atto di essere abbigliata dalle Grazie. Dea distante, regale, per nulla seduttiva, che si compiace della dedizione delle sue ancelle. Di tutt'altra pasta, invece, la sensuale Venere callipigia di Francesco Hayez, invero la ballerina Carlotta Chabert (amante del committente dell'opera, il conte Maffei, che così la volle ritratta). Gioca con due colombe, mostrandoci sfrontatamente il viso e un generoso fondoschiena, senza veli. Un mondo separa questi due dipinti, è non è solo una questione pittorica. Hayez lo esegue nel 1830, andando contro tutti i canoni accademici della bellezza classica, e lo espone alla mostra di Brera lo stesso anno. Ciò che allora diede scandalo, fu poi ritenuto uno dei capolavori assoluti di quella stagione.
Ma proprio queste due concezioni della donna-dea si fronteggiano nella mostra sull'Ottocento italiano nella magnifica Sala degli stemmi del museo dell'Ermitage. E se questi due dipinti sono la punta più aulica del percorso, le altre settantatré opere (la metà proveniente dai musei civici di Pavia e da altre collezioni italiane) scelte dai curatori Susanna Zatti e Fernando Mazzocca prendono in esame tutti i principali temi cari ai pittori italiani dell'800: le vedute di pittura urbana, il paesaggio istoriato con gesta cavalleresche, gli episodi letterari, la raffigurazione delle battaglie risorgimentali, il neosettecentismo, la Scapigliatura, il realismo sociale e le scene dei Macchiaioli. Analogamente, nella pittura russa dell'800, c'è specularità di tematiche, benché diversamente sviluppate, ed è al museo russo di San Pietroburgo (Palazzo Mikhailovskij diventato museo nel 1895, splendido edificio opera dell'architetto italiano Carlo Rossi) che cerchiamo corrispondenze, rimandi e diversità, per un confronto a distanza con i dipinti italiani della mostra all'Ermitage. L'imponente tempesta marina opera di Ivan Ajvazovski, specializzato in quel genere (si contano circa seimila tele di sua mano), occupa un'intera parete, ed è un'icona del museo, realizzata nel 1850 e acquisita nel 1897. È la Nona Onda, la più temuta dalla leggenda popolare; i naufraghi si «aggrappano» all'alba, loro ultima speranza di salvezza.
Un paesaggio d'acque altamente realistico, sul punto di sommergere anche l'osservatore. A tanto tumulto risponde la pacatezza sensibile del paesaggio di un Piccio (La fuga in Egitto, del 1849), che interiorizza il paesaggio come emozione; qui l'uomo non viene sopraffatto dalla Natura, ma trova in essa motivo di fusione. I panorami italiani entrano nella pittura russa dell'Ottocento come memoria visiva del Grand Tour. Silvester Schedrin (vissuto nel nostro Paese così come Ivanov) realizza vedute e raffigura lo scoglio di Marina Piccola a Capri con esiti simili nella rappresentazione di quelli ai quali giunge Antonino Leto nella sua Marina Grande, condividendo con lui la ricerca della luce. La nostalgia per l'antico che in Alma Tadema generò un'ampia rivisitazione del mondo romano e pompeiano, ebbe un precursore in ambito russo in Karl Brullov che, nel 1833, dipinse su grande formato l'ultimo giorno di Pompei (la scena si svolge sulla Strada dei sepolcri), in cui vi si riconosce anche la figura di Plinio il Giovane, al quale si devono gli scritti sulla tragedia. Con questo dipinto Brullov partecipò all'Esposizione di Brera del 1833 e l'anno dopo al Salon del Louvre.
La pittura di storia annovera Domenico Morelli (artista rivoluzionario che partecipò ai moti del 1848 di Napoli). Con il Bagno pompeiano, suo capolavoro, conquistò Parigi all'Esposizione universale del 1897, opera riproposta alla mostra dell'Ottocento italiano all'Ermitage. È sì un dipinto di fantasia, ma in esso l'artista vi introduce le scoperte archeologiche del suo tempo (lo scavo delle Terme Stabiane) inscenando il profumato bagno delle donne nell'apoditerium. Il realismo sociale di un Morbelli che con la sua tela Per 80 centesimi denuncia il duro lavoro delle mondine, trova un riscontro nella Trebbiatura (1887) di Grigori Myasoyedov, in cui però la rivendicazione non trova spazio.
Con Serov e il suo ritratto della principessa Orlova (siamo però già nel 1911; per lui aveva già posato anche Ida Rubinstein), la donna più elegante di San Pietroburgo, siamo prossimi ai canoni di bellezza alla Boldini. Lo sguardo fiero della principessa «incrocia» a distanza quello semplice della ragazzotta raffigurata da Cesare Tallone (ritrattista alla moda) e quello più scapigliato della Falconiera di Segantini. La pittura a tema storico risorgimentale ha in Gerolamo Induno (altro artista patriota) e in Federico Faruffini due cantori delle gesta eroiche di quel periodo; entrambi legati alla famiglia pavese Cairoli descrivono il sacrificio di quattro figli morti nelle guerre di liberazione.
Il portato storico che ci restituisce invece la pittura russa dell'800 è quanto mai vario. Si va dal reclutamento nelle campagne per la guerra russo-turca del 1877 (il grande Repin dipinge uno struggente addio del soldato alla moglie e al bambino) all'incredibile impresa del generale Suvorov. Che valicò le Alpi per liberare Alexander Korsakov fatto prigioniero da Napoleone, una coraggiosa spedizione raffigurata da Surikov nel 1899. Surikov, di origine cosacca, non manca neppure di osannare la sua stirpe in un altro dipinto che celebra la vittoria dei «suoi» su soldati persiani.

Corriere della Sera 30.11.11
Da Rembrandt ai marmi di Canova Se la visita dura «soltanto» tre ore


Se foste disposti a trascorrere otto anni della vostra vita all'Ermitage vedreste ogni singola opera esposta. Un calcolo sciorinato dalle guide ai visitatori che entrano in quel mausoleo dell'arte (2,5 milioni di persone all'anno, di cui la metà sono russe) per dare l'idea della vastità delle collezioni che coprono tutti i secoli. Un museo in crescita, che non si ferma a ciò che già possiede (quasi tre milioni di opere) ma che continua ad acquisire altri capolavori (nel 2010 sono stati spesi oltre 1,8 milioni di euro), e anche a connettersi con il contemporaneo (lo scultore Antony Gormley ha esposto nella sezione della statuaria greca e romana diciotto sue figure).
Tra due anni il museo celebrerà il 250esimo del primo nucleo delle sue raccolte (patrimonio di Caterina La Grande), ha strategie di sviluppo in Arabia Saudita e Bahrein, mentre continua a consolidare anche il suo satellite di Amsterdam e Ferrara. Conoscendo la consistenza delle collezioni, anche solo per fama, in tre ore si può concentrare la propria visione orientandosi più che sui grandi filoni delle raccolte (il Rinascimento, il Cinquecento toscano e veneto, la scultura con il nucleo del Canova con Le tre Grazie e Amore e Psiche, il secolo d'oro olandese, i reperti etruschi, i tesori degli zar) soprattutto sugli artisti che ci appassionano maggiormente. Potrebbe essere Renoir (con i due ritratti «in coppia» di un uomo e di una donna sulla scala), oppure Tiziano, Giorgione (la sua Giuditta), Veronese con la mirabile Resurrezione di Lazzaro (1584) eseguita con la tecnica della grisaille.
Tutta la sezione di Rembrandt è davvero un unicum eccezionale; qui si trovano esempi magistrali di come il maestro padroneggiasse la luce mettendola al servizio dell'introspezione psicologica: la Deposizione dalla Croce (1634) è forse tra le opere di più elevata spiritualità che di lui si conoscano. L'abbraccio di luce in cui viene immerso il Cristo mentre viene calato amorevolmente è la vittoria predetta dai Vangeli sulle tenebre, poiché gli Inferi non prevarranno. E queste sue carni lucenti che hanno subito il martirio non sono più livide, esangui, come nell'uomo morente, ma irradiano tutta la penombra con la consapevolezza della redenzione. C'è la solitudine del Deposto malgrado la folla accalchi la scena.
All'Ermitage si va naturalmente in processione per Leonardo, per la bellissima Madonna Litta (la cui attribuzione è stata a lungo discussa), in questo momento pregevole prestito per la mostra sul genio di Vinci alla National Gallery di Londra. Si va per Raffaello (Madonna Conestabile) e per la grandiosa trasposizione delle sue Logge Vaticane, voluttà di una zarina di tutte le Russie come fu Caterina II, che nel 1778 s'impuntò su quel progetto incaricando l'architetto italiano Giacomo Antonio Quarenghi di realizzarlo in tempi record. (f.p.)

Corriere della Sera 30.11.11
Quel Bel Paese vagheggiato
Paesaggi, melodrammi e suore: così ci vedevano i russi
di Francesca Bonazzoli


I russi nutrono per l'Italia una passione romantica, un'infatuazione profonda e naïf come può esserlo solo quella di chi vagheggia un mondo che gli ha acceso la fantasia attraverso le immagini dell'arte e della musica, ma che non ha mai conosciuto dal vivo. Nel passato a causa della dittatura comunista e oggi a causa della difficoltà a viaggiare della maggior parte della popolazione, tolta un'élite dalla ricchezza sfacciata. Se non abbiamo mai incontrato personalmente dei russi, non possiamo nemmeno immaginare quali risonanze dell'anima susciti in loro la sola parola Italia.
Ma come vagheggiano, questi ammiratori, il nostro Bel Paese? Esattamente come glielo mostrano i quadri dell'Ottocento esposti in questi giorni a San Pietroburgo.
Innanzi tutto il paesaggio. Da cartolina, come era prima della cementificazione che l'ha devastato a partire dagli anni Sessanta. Chi di noi riconoscerebbe il borgo toscano nella «Veduta di Castiglioncello» dipinta centocinquant'anni fa da Giuseppe Abbati al calar della sera, con la luce che accarezza i casolari di mattoni e un'atmosfera sospesa nel silenzio, che esclude macchine e motorini? Chi di noi saprebbe dove trovare un angolo incontaminato, con le pecore che pascolano fra le rovine antiche, come quello dipinto da Antonio Fontanesi ne «Il mattino»? Noi sappiamo che quei pezzi di paradiso ce li siamo venduti al cemento e alla speculazione, ma i russi ci possono ancora sognare. Almeno Venezia, con la punta della Dogana e la chiesa della Salute tremolanti dietro il velo di umidità, è rimasta esattamente come l'ha dipinta Hayez, è vero; ma se i russi ci fossero andati a giugno, avrebbero avuto la vista preclusa dall'enorme yacht Luna, alto come un condominio di sei piani, del loro connazionale Abramovich, sfacciatamente piazzato all'uscita del Canal Grande.
Poi c'è il melodramma. Nell'estremo Est dell'Europa, il nostro resta ancora il Paese del bel canto e dell'Opera anche se a fatica un nostro studente, ma anche un parlamentare, saprebbero dire in che secolo e in che città è nato quel Giuseppe Verdi di cui a Pietroburgo i nostri ammiratori russi possono vedere il superbo ritratto dipinto da Giovanni Boldini. Certi quadri, poi, come «Imelda de' Lambertazzi presso il cadavere dell'amato» dipinto nel 1864 da Pacifico Buzio o come «Accusa segreta» di Francesco Hayez, parlano subito al visitatore russo, senza tanta inutile precisione filologica, del tema tipico del melodramma: la morte degli amanti. E che importa se non si tratta veramente di Ernani ed Elvira o di Violetta Valery? In quegli svenimenti, in quei «tremiti e palpiti», rivedono tutta l'emozione del palcoscenico e delle arie italiane.
Così come, per correre con la fantasia verso le nostre più celebrate antichità romane — il Foro, il Colosseo, la Colonna traiana — basterà sostare davanti a tele come «La morte di Cesare» dipinta da Vincenzo Camuccini.
Fra le immagini che i russi si aspettano da noi cattolici, ci sono naturalmente anche le suore. Ed eccole lì, con il loro severo abito nero assieme alle educande di bianco vestite, nella tela di Gioacchino Toma; oppure turbate e conturbanti come «La signora di Monza» ritratta da Giuseppe Molteni nella sua cella, lo sguardo distolto dal Crocifisso e il pensiero assorto chissà dove. Ecco i quadri che confermano l'immagine di un'Italia santa in pubblico e peccaminosa nel privato, come arriva dalle cronache dell'Italia di oggi, senza bisogno di aver letto il Manzoni. Tanto più che in mostra abbondano le tele che ritraggono nude bellezze muliebri. È il retaggio della classicità, certo, come mostra il titolo («Ebe») dato alla fanciulla spogliata da Gaspare Landi per ricavarne un tema mitologico; ma quanti russi percepiranno ben più forte l'eco delle nostre vicende politiche e del caro amico di Putin nell'ambiguo «Bagno pompeiano» di Domenico Morelli o nei nudi di donne intente alla toeletta spiate da Federico Zandomeneghi?
Cari amici russi, a volte è meglio non viaggiare e continuare a fantasticare sulle reciproche meraviglie attraverso i quadri. Come scriveva Goethe, «non c'è via più sicura per evadere dal mondo che l'arte; ma non c'è legame più sicuro con esso che l'arte».

La Stampa  TuttoScienze 30.11.11
«Il vero dramma? Invece che tre minuti nella savana soffriamo anche tre mesi consecutivi in un ufficio»
“Sei stressato? Fai la scimmia”
Perché i nostri “cugini” sanno gestire ansia e paura e noi umani no
di Monica Mazzotto


Per il 99% degli animali lo stress è questione di 3 minuti di terrore, mentre corrono nella savana. Poi finisce o sono finiti loro», spiega Robert Sapolsky, professore di biologia e neurologia all'Università di Stanford. Il problema siamo noi, scimmie sofisticate, che, pur non correndo più con un leone alle calcagna, manteniamo per tempi sempre più lunghi gli antichi livelli di stress, con tutto ciò che fisiologicamente comporta.

Professore, la parola stress è sempre più abusata. Che cos'è esattamente?
«E’ la risposta a una minaccia, dal mondo esterno, al senso fisico di equilibrio. Ma è anche l’anticipazione psicologica che qualcosa di simile possa accadere. Se poi la paura è persistente ed è infondata, va chiamata in altro modo, come ansia o depressione».
Se fino a qualche tempo fa chi parlava di un legame tra stress e malattie veniva guardato con sospetto, ora si eccede dalla parte opposta, incolpando lo stress di ogni problema. Cosa c'è di vero?
«Lo stress raramente è la causa di una malattia. Può facilitare la predisposizione ad ammalarsi o può peggiorare malattie già preesistenti. Bisogna, però, stare attenti a non enfatizzare troppo alcuni legami. Se ci sono prove del legame con l’ulcera, lo stesso non si può dire di quello con il cancro. Ciò che voglio sottolineare è che esiste un aspetto “utile” dello stress».
E’ quello che ha consentito l'affermazione, in senso evolutivo, di un meccanismo che apparentemente agisce come un boomerang?
«Lo stress in natura si scatena perché devi mangiare qualcuno o perché qualcuno ti sta per mangiare. In quest'ottica le risposte fisiologiche hanno un senso preciso. Quando c'è un pericolo, aumenta la produzione di glucocorticoidi, un gruppo di ormoni che decreta il “codice rosso” d’allerta per il corpo: la respirazione accelera, la pressione sanguigna sale per pompare più ossigeno e i muscoli si riempiono di zuccheri per scattare. In questi momenti il resto viene messo in stand-by: se corri per la sopravvivenza, non è il momento di digerire o combattere un'infezione».
Quando tutto ciò diventa patologia?
«Quando una zebra smette di correre perché ha distanziato il predatore, le sue risposte fisiologiche legate alla situazione stressante crollano e tutto riparte. Nell'uomo le stesse risposte si possono avere per l'andamento della Borsa o per il capoufficio. E questo dura non 3 minuti, ma magari 3 mesi! In questi casi la risposta fisiologica da vantaggiosa diventa un pericolo, in quanto i processi messi “in pausa” rimangono tali troppo a lungo. Ecco spiegati i problemi legati alla sfera riproduttiva, dovuti alla scarsa produzione di ormoni sessuali, o i problemi di digestione, o la facilità di pre ndersi un'influenza per colpa di un sistema immunitario messo in secondo piano, ma anche la stanchezza cronica dovuta al consumo energetico elevato o la pressione alta. Il corpo, sotto stress, è come un governo che, preoccupato di una guerra ipotetica, pensa solo a stanziare fondi per la Difesa e non aggiusta più le strade».
Esiste anche un danno cerebrale legato allo stress e nel suo saggio «Lei lo chiama Monkeyluv» dedica all’argomento un capitolo: di cosa si tratta?
«I glucocorticoidi prendono di mira anche le cellule nervose del cervello. Se vengono secreti in modo transitorio, in risposta ad un evento stressante acuto, questi ormoni sono utili.
Nel momento di pericolo la mente si acutizza, i sensi si potenziano e ciò è utile per salvarsi la vita. Si rinforzano le connessioni tra i neuroni dell'ippocampo e ciò consolida la memoria. Ecco perché ognuno di noi si ricorda dov’era quando ha saputo dell'11 settembre. Dato che nell'ippocampo vi sono molti recettori per i glucocorticoidi, questa parte del cervello è anche una delle zone che più facilmente diventano vittime dello stress prolungato. Uno studio a Yale ha sottolineato che negli individui che soffrono di “Disturbo post-traumatico da stress”, come i soldati o i minori che hanno subito abusi, quest'area del cervello è più piccola della media».
Però non tutti siamo vittime dello stress allo stesso modo. Da che cosa dipende questa variabilità?
«Le differenze individuali sono uno dei campi di ricerca più interessanti. Alcune risposte le abbiamo già e sono legate all' importanza delle prime esperienze di vita. Ma da alcuni miei studi anche altri fattori sembrano importanti nella gestione dello stress: aiuta, per esempio, avere il controllo di quanto sta per accadere e sapere quando, come e per quanto tempo durerà l'evento stressante. E' anche importante avere valvole di sfogo, come un hobby. Forse l'aspetto più utile è non essere solo, ma avere buoni rapporti sociali. La morale: non è la nottata passata a lavorare che ci ucciderà, ma la sensazione di fare un lavoro su cui non abbiamo controllo».
L'ispirazione per gli studi sullo stress nasce da 30 anni passati a osservare i babbuini nel Serengeti. Cosa abbiamo in comune con loro?
«Se sei un babbuino e sei infelice, quasi sicuramente non è a causa di un leopardo che ti insegue, ma perché altri babbuini ti stressano. Loro passano 3 ore al giorno a mangiare e le 9 rimanenti le impegnano a rendere miserabile la vita altrui; ciò li rende perfetti soggetti di studio sulle società umane. Anche noi siamo ecologicamente fortunati da poter impegnare il tempo a stressarci l'un l'altro».
E dai babbuini che cosa ha imparato?
«L'effetto protettivo sulla salute derivante dalle relazioni sociali. Più sei un babbuino isolato, più il sistema immunitario è debole».
Si potrà eliminare lo stress con un vaccino o una cura?
«Mi auguro che ciò non avvenga mai. Lo scopo non è eliminare lo stress. Se non è grave e prolungato, lo amiamo e lo chiamiamo “stimolo”».
Lei lavora in una delle più competitive università Usa: come riesce a convivere con lo stress lavorativo?
«Non sono riuscito a cambiare di una virgola il mio stile di vita: sono una vittima dello stress, altrimenti perché crede che ci lavorerei sopra per 80 ore alla settimana?».

La Stampa TuttoScienze 30.11.11
Sono veri quei fantastici cavalli
di Gabriele Beccaria


Un capolavoro risalente a 35 mila anni fa: i cavalli maculati della grotta francese di Pech-Merle

Erano veri i famosi cavalli maculati, dal pelo bianco e punteggiato di macchie in stile leopardo.
Raffigurati in uno dei maggiori «affreschi» del Paleolitico, nella grotta francese di Pech-Merle, hanno tormentato a lungo gli studiosi, convinti che all’epoca non potessero ancora esistere. Pensavano di essere di fronte a una scena simbolica: si trattava di cavalli-spiriti dicevano -, incarnazioni colorate di sogni sciamanici, forse espressioni di un’arcaica forma di religiosità nascente. E invece sembra proprio di no. Il Dna (ormai diventato protagonista anche nelle ricerche sui nostri progenitori) suggerisce un’altra verità. Venticinquemila anni fa, quando presero forma sulle irregolari pareti di roccia, quegli strani animali selvaggi esistevano già e galoppavano, non ancora domati, tra le sparse tribù di Sapiens, impegnati a osservarli a distanza e a chiedersi come catturarli.
Il ribaltamento di prospettiva è eloquente: sono stati analizzati i genomi di 31 esemplari pre-domestici, risalenti a 35 mila anni fa e ricavati da frammenti di ossa e denti. Li hanno portati alla luce in una quindicina di siti, dall’Est all’Ovest, dalla Siberia all’Europa periferica e profonda, e in laboratorio è emersa una storia inattesa. Quattro campioni risalenti al Pleistocene e altri due appartenenti all’Età del Rame condividono il gene che fa la differenza: è quello associato allo spettacolare look con le macchie di leopardo, che oggi esibiscono razze come gli Appaloosa, i Knabstrupper e i Noriker. E non basta. Le analisi dicono che gli antenati dei quadrupedi attuali possedevano già le varianti che conosciamo, anche il mantello baio e quello «total black». Insomma: i fotogrammi arrivati fino a noi, attraversando un ponte di 250 secoli, sono tutt’altro che fiction, ma rappresentano la vivida concretezza di un mondo perduto.
«Erano artisti e molto abili, in grado di descrivere la realtà in dettaglio ha commentato uno degli autori della ricerca, Arne Ludwig, genetista evoluzionista al “Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research” -. La spiccata capacità di osservazione ha notato sulla rivista “Proceeding of the National Academy of Sciences” costituiva una delle chiavi del loro successo come cacciatori e lo sarebbe stata anche più tardi, nel Neolitico, quando cominciarono ad addomesticare gli animali».
Adesso si apre una nuova era per rileggere da capo la paleoarte, facendo dialogare genomi e fenotipi con immagini enigmatiche, che sembrano prendersi costantemente gioco delle interpretazioni dei moderni. Ludwig è tra chi pensa che dalle scene parietali c’è molto da spremere per esplorare i sentieri dell’evoluzione cognitiva e culturale di esseri umani che inventarono la pittura senza pennelli: i colori si mischiavano alla saliva e poi si sputavano sulla «tela». Prove di bravura che restano ineguagliate.

La Stampa TuttoScienze 30.11.11
E adesso la materia oscura inizia a svelare le sue curve
“Ogni galassia è inglobata da sfere secondo rapporti costanti”
di Marco Pivato


Dalla finzione alla realtà Gli aloni sferoidali di materia oscura che permeano i corpi celesti hanno forma e misura che non è mai causale ma sempre costante e regolare Nella foto piccola uno degli autori della ricerca il cosmologo Paolo Salucci della Sissa di Trieste
Uno studio su una delle più autorevoli riviste inglesi, la «Monthly Notices» della Royal Society, aggiunge un tassello inedito al puzzle di uno dei più grandi misteri della cosmologia: gli aloni sferoidali di materia oscura che permeano gli astri hanno forma e misura mai causale, ma sempre costante, come matriosche costruite ad arte dalla natura che rispettano grandezze regolari in relazione tra loro. Il motivo? Due le ipotesi: la geometria potrebbe dipendere dalle caratteristiche delle particelle che compongono la materia oscura oppure da un’ancora sconosciuta caratteristica della forza di gravità, la cui natura, però, andrebbe aggiornata, anzi tutta da rivedere, con buona pace di Einstein. Del team di astrofisici coinvolti nello studio fanno parte le università di Leicester, Harvard, Cambridge, Heidelberg, Rio de Janeiro, Johns Hopkins e la Sissa di Trieste. In testa il cosmologo Paolo Salucci.
Professor Salucci, cosa sappiamo in più dal vostro articolo sulla materia oscura?
«Abbiamo provato che la sua disposizione nello spazio non è casuale, ma simile a sfere in scala tra loro: si capisce meglio pensando al concetto di similitudine in geometria, il quale stabilisce che la grandezza del rapporto tra due figure “simili” è sempre un multiplo».
Come i quadrati?
«Esatto: tutti i quadrati sono “simili” tra loro. Nel caso della materia oscura parliamo di sfere, ma vale la stessa relazione».
Come se la grandezza di questi aloni che permeano le galassie fosse quantizzata: come mai?
«È una domanda da un milione di dollari. Crediamo dipenda dalle particelle elementari che compongono la materia oscura, per la verità ancora mai osservate sperimentalmente ma teorizzate. Molti altri cosmologi con cui ci siamo confrontati, invece, pensano che per spiegare la nostra osservazione vada rivalutata la natura della forza di gravità così come la intendeva Einstein nella Relatività generale. Se così fosse, sarebbe una rivoluzione».
Siete però prudenti: ritenete che la costanza delle sfere di materia oscura dipenda dalla natura delle sue particelle. Ma non sappiamo nulla sulle caratteristiche, giusto?
«Anche se sperimentalmente non sono mai state “fotografate”, le particelle candidate a comporre la materia oscura sono previste dalla teoria: potrebbero essere neutralini, neutrini sterili, assioni, addirittura il famoso neutrino di Majorana. L'esperimento Xenon, nei laboratori del Gran Sasso a cura dell'Infn, cerca di catturare queste elusive particelle, le cosiddette Wimp, Weakly Interacting Massive Particles, usando cristalli di germanio. Ci sono inoltre altri laboratori alla ricerca delle presunte particelle di materia oscura, per esempio l'Ice Cube, un chilometro sotto il ghiaccio del Polo Sud. Secondo la teoria, viaggiano alla velocità della luce e dovrebbe essere possibile afferrare dai 300 ai 3 milioni di particele di materia oscura per centimetro cubo di rivelatore».
Ma le particelle non sono cadute nella trappola. Allora come avete fatto a studiare la forma degli ammassi oscuri e stabilire l'inedita proprietà di cui parla il vostro articolo?
«Abbiamo osservato gli ammassi più vicini a noi. Attorno alla nostra galassia, infatti, ruotano, attratti dal suo campo gravitazionale, altre piccole galassie satelliti. Sono circa una decina e distano dai 30 ai 100 mila anni luce. Rappresentano un immenso laboratorio naturale di astrofisica».
In che modo questo laboratorio naturale ha contribuito alla prova che vi prestate a sottoporre alla comunità di astrofisici e cosmologi?
«Abbiamo verificato che le stelle di queste galassie satelliti si comportano in modo inusuale ed è questa la novità più curiosa: andando verso l'esterno, la loro velocità di rotazione dovrebbe diminuire, perché diminuisce l'influenza gravitazionale della nostra galassia centrale, eppure la loro velocità aumenta con la distanza».
Come si spiega?
«Con la presenza di altra massa, altrimenti i moti non potrebbero decrescere con la distanza. Questi corpi celesti sono quindi influenzati dalla presenza di massa oscura che li avvolge e li permea come aloni geometricamente simili tra loro».
Da quando conosciamo queste galassie satelliti che oggi ci servono da laboratori naturali?
«Le scoprì negli Anni 80 l'astronomo Marc Aaronson. Morì nell’87 schiacciato dallo sportello della cupola del telescopio Mayall a Kitt Peak. A lui è dedicato l'asteroide 3277».

La Stampa 30.11.11
Intervista
Lucy tra gli ominidi con i diamanti
3,2 milioni di anni fa: «Le origini dell’uomo risalgono a un passato ben più remoto di quanto si pensasse prima»"
Parla Yves Coppens, che nel ’74 scoprì i resti della femmina di Australopithecus e la battezzò ispirandosi ai Beatles
di Alessandra Iadicicco


Lucy, l’ominide il cui scheletro venne ritrovato nel 1974 nell’Africa Orientale Yves Coppens, 77 anni, è il paleoantropologo francese che con due colleghi dirigeva la squadra degli scopritori di Lucy
Uomini in giro non ce n’erano quando Lucy si aggirava camminando in equilibrio sui due piedi e dondolandosi tra i rami su cui pure sapeva arrampicarsi con slancio. Si muoveva sulla terra, in una regione vulcanica dell’Africa Orientale, caduta giù nel mondo sublunare da un cielo trapunto di diamanti. Una vera star: Lucy in the sky with diamonds, cantavano di lei i quattro di Liverpool nel ’67, ben prima che si trovassero le sue tracce sul nostro pianeta. Solo nel 1974 un gruppo di paleoscienziati, su un campo etiope, estrassero le schegge del suo scheletro. Lo ricomposero come un puzzle, numerando ogni tessera in ordine crescente: Afar Localité 287, 288, 289… Quand’ebbero ricomposto l’osso del bacino la riconobbero: è una femmina! Stupefacente più dell’Lsd nascosto nel ritornello dei Beatles che in quel momento suonava alla radio. Stanchi di noiose numerazioni, decisero di darle un nome. Sull’onda dell’emozione e della musica la chiamarono Lucy.
È Yves Coppens, paleoantropologo della squadra operativa all’inizio degli Anni Settanta nella regione africana di Afar, a raccontare con immutata passione e talento affabulatore la vecchia storia più antica della preistoria che è già una leggenda. La scoperta di quel giovane esemplare femmina di Australopithecus segnò infatti per molti versi una svolta. Narratore infaticabile di una vicenda stuzzicante per l’immaginario di chiunque, lo scienziato francese è giunto a Milano per parlare a un convegno dell’Università Cattolica. Lo abbiamo incontriamo da Jaca Book, l’editore della sua opera completa che ha appena pubblicato il cofanetto con la sua storia illustrata dell’umanità per ragazzi.
Chi era Lucy? Evidentemente non un uomo. Neanche Homo però… «Era un ominide: un essere preumano. Visse circa tre milioni e duecentomila anni fa. Era in grado di camminare in posizione eretta, come attestano le fattezze della sua colonna vertebrale, del bacino e delle ossa femorali. Contemporaneamente era ancora arboricola, come dimostrano le sue ginocchia, le caviglie, gli arti superiori. Con ciò ho enunciato tre dirompenti scoperte. Anzitutto la datazione: le origini dell’uomo, l’esistenza dei suoi più diretti antenati risalivano a un passato ben più remoto dei 500-600 mila anni cui fino alla fine degli Anni Cinquanta veniva datata la sua nascita. Il nuovo metodo di analisi del decadimento radioattivo, introdotto nel 1961 e compiuto sui minerali instabili contenuti nel terreno sotto cui era sepolta Lucy, ci permisero di spostare quell’inizio a oltre tre milioni di anni fa. Ciò dà una nuova profondità alla storia dell’uomo sulla terra, dà un nuovo spessore al tempo. Poi c’è la doppia funzione di locomozione di un essere arboricolo già in grado di stare eretto. Infine tutto ciò schiudeva l’ampio campo di analisi di una nuova disciplina: la paleoantropologia che, fino a 50 anni fa, come “paleontologia umana”, era solo un ramo minore della scienza che studia la genesi di ogni pianta e animale sul pianeta. Un paleoantropologo studia come l’uomo procedette dal mondo animale sviluppandosi da antenati preumani».
Com’è, dunque, che da una costola di Lucy nacque l’uomo?
«Più che di una diretta discendenza, si trattò di un opportuno adattamento. Tre milioni di anni fa avvenne un grande cambiamento del clima, che da molto umido si fece secco, provocando una notevole riduzione delle piante a disposizione dei primati per cibarsi. Fu allora che l’uomo trasformò la propria struttura per sopravvivere. Si dotò di denti adatti alla masticazione di carne e da vegetariano divenne onnivoro. Espanse le dimensioni del proprio cervello e sviluppò le facoltà di previsione, decisione, coscienza, necessarie a far fronte da nudo, fragile e lento bipede qual era a un ambiente più ostile. Sapeva di sapere: la nascita del pensiero come sottolinea il grande teologo evoluzionista Teilhard de Chardin coincide con la nascita dell’uomo».
Quand’è che «il vento» si trasformò per lui in un fantasma, uno spirito, un afflato divino?
«Io sono uno scienziato: lavoro su ossa e denti, traggo le mie conclusioni da concrete dimostrazioni. Riguardo ai fantasmi non faccio ipotesi. Ma posso dire per certo che, dacché esiste sulla terra, l’ Homo è religiosus. Lo attestano le tracce ocra dipinte attorno alle sue abitazioni, i pozzi funerari, le prime tombe. Parlo di espressioni risalenti nell’ordine a 500, 100, 50 mila anni fa. C’è, è evidente, un’evoluzione. Una ritualità, un simbolismo sempre più elaborati. Ma dacché l’uomo è uomo, dacché due milioni e mezzo di anni fa sbalzava pietre e costruiva utensili per procacciarsi il cibo e difendersi, nutre sentimenti di angoscia davanti all’ignoto, paura della morte, stupore per l’immenso, l’eterno, l’infinito».

Repubblica 30.11.11
Etiopia
Alle radici del cristianesimo cercando il tesoro di Indiana Jones
La magia del lago e dei monasteri
di Simonetta Caratti


Dalle sorgenti del Nilo Blu alle tavole di Mosé che la leggenda vuole custodite nella città di Axum fino a raggiungere le chiese rupestri di Lalibela Nel segno del sacro e dell´avventura, l’itinerario giusto per un Natale diverso

AXUM Bahir Dar. Sulle tracce di Indiana Jones alla scoperta di tesori antichi. Avventura e sacralità. Questo promette l´Etiopia del nord. Un viaggio nel tempo che inizia sulle acque dello sconfinato lago Tana la sorgente del Nilo Blu, con trentasette isole e venti monasteri nascosti da una fitta giungla e continua verso le città sacre di Axum e Lalibela per scoprire le radici antiche del cristianesimo nella terra degli dei, tra chiese rupestri, testi sacri e leggende, che narrano di come il figlio del re Salomone e della regina di Saba portò da Israele in Etiopia l´arca perduta: le tavole che Dio dettò a Mosè.
Il famoso tesoro di Indiana Jones sarebbe ben custodito nella città sacra per gli ortodossi, Axum, quasi al confine con l´Eritrea, in una piccola cappella con inferriate azzurre. Nessuno può metterci piede a parte il suo custode: all´interno vive, quasi recluso, un monaco, ha 57 anni, monta la guardia, per l´intera sua vita, giorno dopo giorno, facendo una piccola pausa solo per mangiare. È stato scelto tanti anni fa tra molti pretendenti. Dopo di lui toccherà a un altro: dovrà essere vergine, cospargerà l´arca di incenso giorno e notte. Cosa sia l´arca resta un mistero, pezzi di legno con delle scritte, si sussurra tra i fedeli. Inutile insistere con la guida: «Ci vuole fede», è la risposta.
Lasciata Axum con i suoi fitti misteri, inizia il tortuoso viaggio verso la seconda città sacra, la più famosa dell´Etiopia: Lalibela con le sue dodici chiese scavate nella roccia rossa, senza muratura, né pietre, né legname. Si dice siano state scolpite con l´aiuto degli angeli. Si dice siano state realizzate per volontà di re Lalibela (1185-1225) che, a seguito della caduta di Gerusalemme in mani non cristiane, volle costruire una nuova città santa nell´altopiano etiope. Il viaggio è lungo, attraverso il Tigrai, una regione tra le più aride del Paese, che custodisce tra le sue rocce rosse, spaccate dal sole, 250 chiese rupestri. Molte si raggiungono solo con pericolose scalate o issandosi con corde, seguendo i solchi lasciati nella roccia da migliaia di monaci. Si cammina per ore, prima di conquistare la meta: più lontana sarà, più l´anima del monastero sarà sacra, confida un pellegrino che sulle spalle porta un´ampia sciarpa bianca gli terrà caldo quando dormirà nella foresta attorno alla chiesa. Ha 70 anni, si arrampica agile come una gazzella. Ha con sé una tanica gialla, è per l´acqua sacra, che troverà al tempio. Servirà a purificare corpo e spirito dopo il battesimo, l´imposizione della croce e le preghiere del prete. Una purificazione con l´acqua sacra (che si sconsiglia di assaggiare) è abituale tra gli ortodossi per guarire chi è malato o carico di peccati da espiare. L´uomo spera di curare la sua pelle martoriata. Come lui, altri sono in cammino. Ognuno con il suo fardello di pene e speranze. L´altro volto di un Paese messo in ginocchio da carestie e conflitti interni, dove l´aspettativa di vita è di 45 anni e il salario medio 120 euro al mese. Una povertà evidente, ma sempre rispettosa del viaggiatore.
Arrivati a Mekele, la capitale del Tigrai, inizia la tortuosa salita verso Lalibela (2700 metri), quasi inaccessibile fino a pochi decenni fa. Dieci ore su e giù attraverso una catena montuosa tra le più imponenti d´Africa, tra sconfinati altopiani punteggiati da campi di grano lungo una strada polverosa che si snoda come un serpente. Lalibela è un museo all´aperto, la città è protetta dall´Unesco ed è stato costruito un villaggio per le famiglie che vivevano nell´area delle chiese.
Il viaggio è faticoso, ma pieno di piacevoli sorprese. Lungo la strada bimbi vestiti di stracci offrono canna da zucchero da succhiare o piselli appena tolti dal baccello. Impolverati dalla terra rossa sollevata dalle potenti jeep accolgono i foreign, così chiamano gli stranieri, con grandi sorrisi. Urlano, agitano le mani dalle vette delle montagne dove pascolano pecore e mucche. Altri camminano agili con i quaderni sotto il braccio, marciano anche tre ore per andare a scuola: l´istruzione è un punto di forza del governo che ha creato diversi istituti, anche nelle zone rurali. Madri, figlie e nonne avanzano piegate sotto il peso di fascine di legna da venti chili, marciano per decine di chilometri.
Tutti in cammino, l´Africa è sempre in movimento. Ed è camminando che si scopre la sua anima. Una breve sosta in un villaggio hamari sulla via per Lalibela spalanca una finestra su una quotidianità di altri tempi. Il tempo scorre diversamente. È il qui e ora che conta, domani si vedrà. E il tempo si è fermato anche qui, tra le dodici chiese della Gerusalemme d´Etiopia. Prima di entrare i fedeli si tolgono le scarpe, baciano ripetutamente lo stipite della porta, si fanno il segno della croce, quindi pregano, alcuni appoggiati ad un bastone, altri inginocchiati seguono le recitazioni e i rintocchi dei tamburi sacri. Piccoli gesti, antichi rituali che si ripetono immutati da generazioni e generazioni.

La Stampa 30.11.11
Rai Educational: arte e letteratura online


Sono da oggi online le due nuove creature di Rai Educational, il portale di Arte e design (www.arte.rai.it) e quello di Letteratura (www.letteratura.rai.it), realizzati in partnership editoriale e tecnologica con Rai Teche. I due portali nascono dall’esigenza di raccogliere, organizzare e valorizzare i materiali audiovisivi legati all’universo dell’arte e della letteratura, proponendoli con un linguaggio e con strumenti tecnologici ormai accessibili a tutti.

Corriere della Sera 30.11.11
Creato il super virus Può sterminare la popolazione


All'Erasmus Medical Center, in Olanda, hanno creato un supervirus che, se diffuso, potrebbe sterminare la popolazione. L'autore, il virologo Ron Fouchier, vuole pubblicare il risultato e mostrare come con cinque passaggi sia riuscito a mutare il virus dell'aviaria (H5N1) in un'arma mortale. La sua intenzione ha scatenato subito violente reazioni nella comunità scientifica internazionale che si oppone alla diffusione delle informazioni sostenendo che si potrebbe favorire il bioterrorismo o comunque persone sconsiderate. Qualcosa di analogo sta accadendo pure con un'altra ricerca effettuata sempre sullo stesso virus dell'aviaria da scienziati dell'Università di Tokyo (Giappone) e del Wisconsin (Usa). Il National Science Advisory Board for Security statunitense sta esaminando la questione. Al massimo potrà solo chiedere di non pubblicare il lavoro non avendo il potere di bloccarlo. Fouchier era partito bene cercando di capire il pericolo virus al fine di combatterlo meglio, ma ora sembra prevalere la necessità di dimostrare le sue capacità di scienziato incurante dei rischi che la sua azione comporterebbe. «Mi sembra una vera follia — commenta Luca Cavalli Sforza, maestro della genetica delle popolazioni —. Prima di diffonderlo dovrebbe almeno dimostrare come si possa neutralizzare il micidiale virus». In una società della comunicazione senza barriere come l'attuale, è difficile immagine che l'olandese possa essere fermato se intenzionato a procedere. La ricerca torna a porsi delle domande fondamentali sui suoi limiti possibili o inapplicabili. Ma più che la scienza dovrebbe intervenire la coscienza.