giovedì 1 dicembre 2011

l’Unità 1.12.11
Il Pd sotto pressione
E Bersani al premier chiederà equità
Il segretario aspetta di incontrare Monti per conoscere
i provvedimenti: si può discutere sulle pensioni ma prima si faccia pagare chi ha di più. In rete l’allarme degli elettori
di Simone Collini


Un po’ c’è il problema del black out delle comunicazioni con il governo, visto che l’incontro con Monti ancora non c’è stato né è stata fissata una data in agenda. Ma intanto, ed ecco il secondo problema, sui giornali iniziano a uscire le prime indiscrezioni su quali sarebbero i contenuti della manovra che il governo varerà lunedì, misure riguardanti le pensioni comprese. E per il Pd comincia la prova del fuoco. Bersani vuole evitare di commentare indiscrezioni giornalistiche («si tratta di una materia troppo delicata») e aspetta una chiamata dal presidente del Consiglio tra domani e domenica. A quel colloquio il leader del Pd dirà che «una riforma previdenziale può anche essere discussa, ma va preceduta da misure che garantiscano equità, facendo pagare di più chi ha di più». Una patrimoniale insomma, perché Bersani è anche disponibile a «ingoiare rospi», ma solo se nel complesso il pacchetto anticrisi non concentrerà i sacrifici «sui soliti noti».
Ma intanto il leader del Pd non può permettersi di far passare troppo tempo prima di conoscere i reali contenuti del pacchetto anticrisi: per tutta la giornata di ieri ha visto aumentare il numero delle mail indirizzate al partito e dei commenti sulla sua pagina Facebook in cui elettori del Pd chiedevano di dire subito un no chiaro a una riforma previdenziale che preveda il superamento delle pensioni di anzianità e l’innalzamento del numero di anni obbligatori per il ritiro dal lavoro.
Non c’è tempo da perdere e oggi il responsabile Economia Stefano Fassina e i componenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato si riuniranno per fare il punto. Il fatto che non solo la Cgil ma anche la Cisl abbia duramente criticato le ricette sulle pensioni fatte filtrare permette ancora di evitare una seria lacerazione nel Pd. Ma il partito ha la necessità di trovare una sintesi interna sia sul sistema previdenziale che sul tema occupazionale. Una parte dei Democratici non ha problemi di principio a votare le (ipotetiche) misure riguardanti le pensioni, mentre gli esponenti più vicini al sindacato sono intenzionati a dare battaglia: «Non è proponibile un intervento sulle pensioni di anzianità», dice il capogruppo del Pd in commissione Lavoro alla Camera Cesare Damiano.
Bersani sa bene che veti preventivi dal Pd non possono arrivare. Ma sa anche che i consensi registrati negli ultimi sondaggi (il suo partito è dato tra il 28,5 e il 32%) per il senso di responsabilità dimostrato nel rinunciare alla tentazione del voto anticipato e nel sostegno al governo di emergenza, potrebbero pericolosamente ridimensionarsi quando le misure anticrisi andranno a regime.
Per questo il leader del Pd lancia due messaggi, uno al Pdl e uno al governo. Il primo è che «chi pone condizioni scherza col fuoco», che un no alla patrimoniale è inaccettabile perché «se siamo chiamati a uno sforzo collettivo i patrimoni rilevanti, a cominciare da quelli immobiliari non possono essere esentati». Il secondo, riferito alla riforma previdenziale, è che «su alcuni punti siamo d’accordo, su altri no».
Il Pd andrà al dibattito parlamentare presentando le sue proposte. A cominciare da quella che prevede un sistema flessibile che consentirebbe al lavoratore, attraverso incentivi e disincentivi, di uscire tra i 62 e i 70 anni su base volontaria. Una proposta che però non porterebbe nelle casse dello Stato le stesse cifre determinate da misure come quelle anticipate sui giornali. Se saranno queste, ad essere alla fine messe in votazione in Parlamento? Bersani ribadisce che la situazione di emergenza impone di votare anche le misure con cui il Pd non è d’accordo al 100%. «Ma poi bisogna anche guardare la percentuale, neanche lo 0 è possibile eh?», è la battuta fatta di fronte a chi si domandava fino a che punto il Pd possa «ingoiare rospi».

il Riformista 1.12.11
«Decido io, niente congresso» Ma l’anticipo al 2012 è più vicino
Bersani smentisce le assise l’anno prossimo: «Non ci penso proprio». Ma gli ultras dell’ipotesi si moltiplicano,anchenell’areaFranceschini.Sitemonoricadute già all’assemblea del 16 dicembre. Sembra il remake del 2008. E il «fango» da Finmeccanica fa discutere
di Tommaso Labate


L’aveva detto ieri l’altro, chiudendo la riunione della segreteria del Pd: «Pregherei ciascuno di voi, compresi gli alti dirigenti, di lasciare che per qualche settimana sia io a fissare pubblicamente la linea del partito». Ma vista la difficoltà di arginare dibattiti interni come quelli sull’anticipo delle assise, in programma nel 2013, ieri Pier Luigi Bersani è stato ancora più chiaro: «Congresso anticipato? Lasciate pure che circoli la voce». Tanto, ha aggiunto a margine della presentazione del libro di Eugenio Mazzarella, «decido io e non ci penso neanche».
Tirando le somme: il segretario mette a verbale la sua ferma contrarietà a celebrare il congresso prima della scadenza naturale. Al contrario, gli uomini della sua stessa «squadra» rimangono fedeli a questa ipotesi. L’ha detto Matteo Orfini, durante la consueta riunione del martedì al Nazareno. Lo pensa Stefano Fassina, che ne ha parlato con più d’un collega di partito. E l’ha scandito, nel corso di un’intervista all’Unità di domenica, anche Andrea Orlando. “Conta” generale o congresso programmatico, «l’ipotesi non può essere esclusa». Perché, ha aggiunto il responsabile Giustizia del partito dando voce ai pensieri di molti Bersani boys, «prima delle politiche c’è bisogno di un momento di riflessione collettiva».
Sembra di guardare il remake di un film che, dentro il perimetro del Pd, è già andato in onda due anni fa. Quando i fedelissimi di Veltroni, che denunciavano l’accerchiamento delle correnti ai danni
dell’allora segretario, provarono a spiegare a «Walter» l’urgenza di ricorrere a un congresso straordinario per blindare la linea politica. E, sottotesto, anche la leadership. Ci provarono in tanti: da Goffredo Bettini a Giorgio Tonini, tutti fedelissimi della prima cerchia veltroniana. Finì come tutti sanno. Con Veltroni che scartò l’idea e si arrese alle dimissioni qualche mese più avanti, subito dopo la sconfitta di Renato Soru alle regionali sarde.
Le analogie tra il Pd versione 2011 e quello del 2008 non sono finite. Oggi come allora, anche al di là dei fedelissimi del segretario, si discute dell’ipotesi di andare a un congresso anticipato. Basta guardare al dibattito che si sta svolgendo nell’area che fa capo a Dario Franceschini. Il capogruppo continua a opporsi all’anticipo delle assise. Al contrario del suo uomomacchina Antonello Giacomelli, sempre più convinto che sia necessario cogliere la palla al balzo e contarsi sulla linea politica. Già, la linea politica. Più d’uno dentro il Pd comincia a intravedere qualche pericolo, che potrebbe materializzarsi già nell’assemblea nazionale convocata il 16 e 17 dicembre prossimi. Giacomelli, uno di quelli che sostiene convintamente sia il segretario che il governo Monti, la mette così: «Forse non avevamo calcolato che quest’assemblea avrebbe avuto luogo dopo i primi provvedimenti dell’esecutivo», che sono in agenda per il 5 dicembre. Di conseguenza, «che cosa succederebbe aggiunge il deputato franceschiniano se Monti, tra le riforme urgenti, mettesse in cantiere soltanto le pensioni, rinviando magari le forme più dure di patri-
moniale al nuovo anno?».
La risposta è semplice. E rimanda al possibile esacerbarsi di uno scontro già in corso. La sinistra del partito contro l’area Letta e i veltroniani. La «linea Fassina» contro «la linea Bce». Con ricadute ed effetti collaterali che, al momento, sono incalcolabili.
Come incalcolabili sono i risultati degli «schizzi di fango» che il Pd potrebbe subire sul caso Finmeccanica. Luigi Berlinguer, presidente della commissione di garanzia del partito, mette nero su bianco una rettifica rispetto alla ricostruzione fatta ieri dal Riformista (la lettera è pubblicata in questa stessa pagina, ndr). Eppure i segnali d’allarme resistono anche alle smentite tattiche o di facciata. La prova? Basta leggere le presunte “rivelazioni” del manager Lorenzo Borgnoni, che sui favori fatti ai politici (leggasi, contratti ai «figli di») ha chiamato in causa anche il senatore democratico Nicola Latorre. Che ha negato con forza: «Non ho mai segnalato il nominativo di mio figlio né al signor Borgogni né al presidente Guarguaglini né al dottor Orsi. Ci sono molti modi per contestare la mia figura politica ma prendersela con mio figlio non è né il più degno e né il più nobile».

l’Unità 1.12.11
Bersani: «Una politica legata ai valori». Coscienza e vita nel libro di Mazzarella
di S. C.


Ci sono valori non negoziabili? Secondo Pier Luigi Bersani è pericoloso postularlo, soprattutto per chi discute di politica e soprattutto in una fase storica come questa, in cui c’è bisogno di «una discussione profonda» tra chi si occupa di approvare delle leggi e «l’universo culturale del mondo cattolico», una fase in cui «il Paese ha bisogno di risorse civiche e morali». Bersani apre questa riflessione, che ha molto a che fare col rapporto tra laici e cattolici, nel corso della presentazione a Roma del libro del filosofo e deputato del Pd Eugenio Mazzarella Vita, politica, valori (Guida editore). Il leader dei Democratici, nella discussione con Lucetta Scaraffia e il vescovo di Piacenza monsignor Gianni Ambrosio, sottolinea che «la politica non può far negozio né di valori, né di gerarchie di valori» perché «c'è un limite insuperabile che è quello della coscienza». Ma poi aggiunge che la politica «o cerca di negoziare soluzioni o non ha mestiere»: «Altrimenti sarebbe come dire che accettiamo l’idea che la politica non ha in nessun modo a che fare con i valori». Un rischio per la particolare disciplina ma anche per gli stessi valori. Bersani infatti insiste sul fatto che «la convivenza necessita di risposte», che possono essere date se si lavora sul «compromesso»: «È una cosa nobile perché in sé contiene l’idea che si preservi l’essenziale, e se uno abbandona l'idea di compromesso finisce per annacquare anche i valori». Nel compromesso, dice Bersani, «si discutono i valori, ma li si fa vivere. Altrimenti, fuori del compromesso e del negoziato, i valori rimangono immutati ma astratti».
Un discorso che deve valere per tutte le forze politiche ma che per Bersani è tanto più importante per un partito come il Pd, in cui ci sono credenti e non credenti, e nel quale sulle questioni eticamente sensibili bisogna «trovare la sintesi e mettere le soluzioni al servizio del Paese».

l’Unità 1.12.11
Anzianità: c’è un limite invalicabile. Marcegaglia replica: nulla può essere per sempre
La risposta: perché non partiamo dalla patrimoniale? No al blocco degli aumenti legati all’inflazione
Pensioni, muro dei sindacati
Camusso: 40 cifra intoccabile
Ai sindacati non piace il piano Monti sulle pensioni circolato sin qui. Secco botta e risposta Cgil-Marcegaglia, soprattutto sulla stretta per quelle di anzianità. Bonanni, Cisl: «Il governo apra il confronto».
di Laura Matteucci


«Il governo deve sapere che 40 è un numero magico e intoccabile». Una battuta per porre i 40 anni come paletto seriamente invalicabile, argomento «esaustivo della discussione», dice la leader Cgil Susanna Camusso. Le indiscrezioni sulle misure che il governo Monti sta approntando in tema di pensioni hanno già messo in allerta i sindacati. Tutti. Tanto più in assenza di una convocazione sulla quale lo stesso Monti mette le mani avanti: «Avremo tempi molto ristretti per le consultazioni. Siamo in una situazione straordinariamente delicata e faccio appello al senso collettivo di urgenza e responsabilità». Il tema è un classico dello scontro sindacati-confindustriali. E a Camusso arriva immediata, infatti, la replica della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia: «Ormai di intoccabile non c’è più niente dice Davanti alla crisi dell’eurodebito e al fatto che le manovre in Italia sono essenziali anche per salvare l’euro, bisogna capire che o ci salviamo tutti o perdiamo tutti. Noi siamo d’accordo sul fatto che la manovra debba essere equa. Certamente credo che vadano toccate le pensioni, le pensioni di anzianità: 40 anni non è un numero invalicabile».
Marcegaglia insiste: «Si tratterebbe di lavorare un po’ di più come succede ovunque, perchè in nessun paese si va ancora in pensione a 58 anni», dice, come non fossero le aziende a decidere di prepensionare. Ma «non è questo il momento di porre veti, qui bisogna salvare il Paese», chiude. A stretto giro, controreplica Cgil: «Giusto, non poniamo veti: perchè non cominciamo dalla patrimoniale?», propone Danilo Barbi, segretario confederale. Che poi ricorda a Marcegaglia «che in molte vertenze sono le aziende che spingono per espellere i lavoratori di una certa età e che, per quanto riguarda l’età pensionabile, i lavoratori hanno già pagato per i provvedimenti del precedente governo».
Rispetto all’annuncio dei tagli ai vitalizi per i parlamentari, riprende Camusso: «La politica retribuita è un’arma contro il fatto che sia predominio dei ricchi, ma penso anche che il sistema pensionistico debba essere uguale per tutti», risponde la segretaria Cgil. «Ci sono privilegi da cancellare ricorda Si è cominciato a dire delle cose in proposito, andiamo avanti».
I CONTI
Sul tavolo, al momento, solo ipotesi. Le carte Monti se le giocherà il 5 dicembre, ma la «stretta» sulle pensioni di anzianità sembra essere tra le proposte ineluttabili. La scure sulle pensioni varrebbe da sola 10 miliardi, tra l’innalzamento da 40 a 41-43 anni gli anni di contribuzione, il blocco degli adeguamenti economici al tasso d’inflazione per gli assegni già erogati (a parte quelli minimi), estensione del contribuivo pro rata, accelerazione della parificazione dell’età pensionabile per le donne nel settore privato, il cui percorso dovrebbe chiudersi entro il 2016, massimo 2020. Due conti li fa lo Spi Cgil: nel 2011 la spesa per le pensioni è stata di circa 242 miliardi. L’aumento dell’anzianità contributiva oltre i 40 anni comporta l’obbligo di versare i contributi all’ente previdenziale ma non porterebbe alcun vantaggio al pensionato perché il massimo del rendimento si ha con i 40 anni.
Anche per il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni è arrivato «il momento di un confronto pubblico». «Sulle pensioni non vogliamo un blitz, le persone non sono uguali avverte E se il governo dovesse procedere da solo non approveremo». L’appello di Monti al senso di responsabilità «non lo capisco», dice: «Sappiamo che la situazione è difficile ma proprio per questo dobbiamo dare un senso a cosa facciamo. Non è possibile dare assenso sulle pensioni», prosegue poi, se si colpiscono le fasce deboli. Piuttosto, dice, «parliamo di una patrimoniale, che è criterio usato in tutta Europa». Anche il leader Uil Luigi Angeletti delinea le prime «linee di confine»: «Bisogna ricevere in proporzione a quello che si è pagato. Tanti contributi hai versato, tanto ricevi», dice, aggiungendo la sua contrarietà all’ipotesi di aumentare gli anni di contributi.

il Riformista 1.12.11
Se l’amnistia si fa strada in Parlamento
Il ministro Severino dice che non rientra tra le facoltà del governo. I Radicali: «Noi un testo ce l’abbiamo». E annunciano iniziative.
di Alessandro Calvi


«Noi un testo ce lo abbiamo», dice Rita Bernardini. E si riferisce alla amnistia. Ciò significa che, se Paola Severino ripete da giorni che questa non è materia alla quale possa metter mano il governo bensì il Parlamento e, con ciò, sembra lasciare aperto uno spiraglio, ebbene: i radicali in quello spiraglio hanno tutta l’intenzione di infilarcisi.
E infatti: «Ritengo, dopo le dichiarazioni del ministro della Giustizia di ieri, che occorre riprendere l’agitazione. Armi della nonviolenza, dunque. Entro due giorni tornerò ad uno sciopero della fame», spiegava Marco Pannella ai microfoni di RadioCarcere, rubrica di Radio Radicale, dopo aver preso atto di quanto il Guardasigilli aveva affermato nel corso della audizione in commissione Giustizia del Senato, l’altro ieri. Ieri, poi, è stata la volta della Camera e la Severino è tornata a battere sugli stessi tasti: efficienza e risparmio. Quanto ai cardini del lavoro del suo ministero, saranno quelli annunciati: le carceri, il processo civile, la geografia delle circoscrizioni giudiziarie.
È però soprattutto sulle carceri che il nuovo governo ha deciso di fare le prime uscite pubbliche. Si tratta di una materia delicata ma trasversale e sulla quale nessuno, se davvero vi fosse una iniziativa politica seria, potrebbe legittimamente voltarsi dall’altra parte, né il centrodestra postberlusconiano né il centrosinistra, per quanto sempre più smarrito sulla giustizia. Altro sarebbe iniziare dai temi più controversi, come le leggi ad personam ancora giacenti alle Camere. La Severino lo sa bene, tanto da averlo messo a verbale già da qualche giorno: «Iniziare da lì sarebbe tatticamente sbagliato».
Ecco, dunque, il discorso sul braccialetto elettronico, che tanto successo ha ottenuto sulla stampa, e sul quale il Guardasigilli è tornata anche ieri precisando che, però, «non lo considero una soluzione finché non sarà provato che sia meno costoso del carcere e che funzioni». Ed ecco anche una riflessione sull’allargamento della «platea di applicazione della detenzione domiciliare in chiave preventiva» o ad «istituti già sperimentati come quello della messa in prova».
Infine, l’amnistia. «La domanda è posta al soggetto sbagliato», ha fatto notare il ministro a chi le chiedeva cosa farà il governo. D’altra parte, è da giorni che la Severino ripete che la materia è di competenza del Parlamento. E se il Parlamento «troverà la maggioranza qualificata richiesta, nulla quaestio». A fine audizione, il pdl Enrico Costa ha invocato una necessaria «continuità» con il lavoro degli esecutivi precedenti, ma per il resto è stato tutto un coro di «apprezzabile», «condivisibile» e via così, da maggioanza e opposizione. Ed ecco che, come spesso accade, la sveglia alla politica, che la si condivida o meno, arriva ancora una volta dai radicali.
«Quella del ministro mi è parsa una relazione sottotono», dice la deputata Rita Bernardini, che si dice contenta di vedere che la questione carceri sia tornata al centro del dibattito ma dispiaciuta per alcune mancate risposte a una situazione «di totale illegalità che non riguarda soltanto le carceri» ma anche la mole di procedimenti penali e civili che rendono la giustizia ciò che è in Italia oggi. «Invece, con la nostra proposta sulla amnistia diciamo che, riducendo drasticamente i procedimenti penali destinati alla prescrizione, si possono liberare risorse da impiegare in modo più razionale, oltre a riparare alla flagrante violazione di leggi e principi che, dal nostro punto di vista, sono la dimensione della autorevolezza di uno Stato». Ebbene, «non abbiamo ascoltato dice la deputata radicale risposte che abbiano la stessa efficacia di una amnistia».
Ed ecco, allora, Pannella e il suo annuncio sulla ripresa di «una iniziativa non violenta». «Noi ha detto ancora a RadioCarcere riteniamo che abbiano avuto ragione tutti coloro che il 28 luglio, proprio a partire dal Capo dello Stato, hanno denunciato senza nessun dubbio questa condizione criminale di questa nostra Repubblica, del nostro regime repellente nei confronti dei diritti umani. Il problema di interrompere questa flagranza, che non riguarda solo le carceri, riguarda la giustizia, è il problema che continuiamo a porre».

l’Unità 1.12.11
Lucio, un comunista critico che amava costruire politica
Il discorso alla Camera in memoria di Magri: le discussioni sul Pci sulla sinistra e sulla svolta. «Il suo ultimo libro è un testamento»
di Massimo D’Alema


Sono personalmente colpito e addolorato per la morte tragica e disperata di Lucio Magri, militante e dirigente della sinistra, uomo intelligente, colto e appassionato. Non è il momento di ripercorrere qui l’itinerario tormentato della sua vita, da giovane dirigente della Democrazia cristiana, alla scelta di militare nel Partito comunista, all’esperienza del Manifesto, che fu per lui fondamentale sul piano umano e intellettuale. E, ancora, dalla fondazione del Pdup, al ritorno nel Partito comunista, fino alla battaglia contro la “svolta” e alla difesa dell’esperienza del comunismo italiano.
Ebbi modo di incontrare Lucio Magri per la prima volta nel 1969, quando, insieme a Fabio Mussi e ad altri studenti pisani, raccoglievamo gli abbonamenti al Manifesto. L’ultima volta -e quindi nell’arco di oltre un quarantenniol’ho incontrato qualche giorno fa qui, nel Transatlantico di Montecitorio. Abbiamo passato una lunga vita vicini, per la comune appartenenza e, nello stesso tempo, quasi sempre lontani nelle scelte politiche che a ogni crocevia della nostra storia ci hanno visto su opposte sponde. Da quel lontano 1969, quando noi rifiutammo di spingere il dissenso fino alla scelta di farsi cacciare dal Partito comunista, nella convinzione che non vi fosse prospettiva al di fuori della grande forza storica del movimento operaio. E sino alle discussioni dopo l’89, negli anni sofferti della “svolta” e della diaspora.
Lucio non è mai stato un dogmatico, ha difeso il patrimonio del comunismo italiano, pur essendone stato uno dei critici più acuti e più anticipatori. E non fu neppure un eretico, nel senso della testimonianza solitaria, dell’estremismo. Non amava la politica predicata, anzi, si sforzò sempre di praticarla. In questo, davvero, proponendosi come un continuatore nel solco della migliore tradizione togliattiana, quella che ha saputo combinare il mito rivoluzionario con il realismo politico, con il gusto per la strategia, il calcolo dei rapporti di forza, la capacità di intravedere i possibili passi in avanti.
Così fu quando non si contrappose al compromesso storico nel nome di un moralistico rifiuto della politica, ma nel nome di un’acuta idea del compromesso per l’alternativa. E così fu quando, nel ’95, non accettò il rifiuto di Rifondazione comunista al governo Dini, in cui vide, pure nella differenza profonda, un possibile passo in avanti.
È forse questo gusto per la politica che lo ha reso per me, per molti di noi, un interlocutore importante, intelligente, con cui discutere, approfondire, ricercare le soluzioni, mettere a confronto le analisi e le proposte.
Lucio ci ha lasciato con “Il Sarto di Ulm”: una riflessione critica e insieme un atto di amore verso la nostra storia. Quel libro contiene la consapevolezza di una sconfitta, perché il sarto di Bertolt Brecht fallisce nell’ambizione folle di volare e si schianta al suolo. Ma egli riteneva che quella testimonianza disperata avesse comunque lasciato un segno, perché è pur vero che poi l’uomo è riuscito a volare.
Lucio portava il peso della sconfitta e non aveva tollerato la morte dolorosa della sua compagna Mara. C’era in lui una lucida disperazione. E resta nei suoi amici e nei suoi compagni il rimpianto di non avere forse compreso fino in fondo e di non essere riusciti ad aiutarlo a restituire un senso alla sua esistenza.
Ecco, non vorrei che l’emozione per le circostanze della sua morte finisca per cancellare la memoria della sua vita, il suo impegno politico e intellettuale, la testimonianza che egli ci ha lasciato delle sue ricerche, delle sue battaglie, dei suoi scritti.
Anche noi, insieme ai suoi compagni, siamo pronti a ricordarlo, a raccogliere le sue opere, a discuterle e a tramandarne il senso ai giovani che vogliono impegnarsi nella politica di oggi.

il Fatto 12.1.11
Il suicidio assistito di Lucio Magri divide i compagni del Manifesto
Amici e lettori del quotidiano cercano un senso per quel gesto
di Luca Telese


“Lucio in The Sky”. Lucio Magri come la bambina dei Beatles, sospesa fra la fantasia lisergica e il sogno, e per un giorno il Manifesto illustrato da questo titolo é tornato esaurito nelle edicole. Lucio suicida volontario, il compagno che anche chiedendo di non ricevere esequie fa esplodere il dolore e la discussione fra i compagni: “Non mi sono arrabbiato abbastanza – dice in una umanissima e straziante intervista a La Repubblica Valentino Parlato – questo sudicio mi turba profondamente. Ho come l'impressione di non aver fatto abbastanza. L'ho subito, insomma, e non me lo perdono”. Il suicidio di un intellettuale politico non può essere mai un fatto privato. È sempre un cortocircuito per chi nella politica pensava che si abbattessero le bandiere del privato. É stato così in Francia per il filosofo André Gorz e per lo scrittore Arthur Koestler. In Italia è stato altrettanto sconvolgente il dibattito sulla scomparsa di Primo Levi: scrivere il più bel libro della letteratura italiana sulla salvezza dalla morte, e poi correre incontro alla morte gettandosi da una trova delle scale.
E SE IL SENSO di impotenza di Parlato è il sentimento di un compagno di mille battaglie, di uno che con Magri iniziò l'avventura de Il Manifesto, ancora più drammatica é la condizione di chi, come Famiano Crucianelli – l'allievo prediletto – lo ha accompagnato nei due lunghi anni della depressione.
Un sentiero difficile: da un lato provare a dissuadere un compagno di vita, e dall'altro fermarsi solo alla fine, per rispettare le sue scelte. Ma dovendo accompagnarlo ed assisterlo. Crucianelli non ha scritto articoli, perché i drammi umani – spiega – “non si possono condensare in settanta righe”. Però racconta il sentimento scisso e devastante che lo attraversa in queste ore: “Io e Lucio abbiamo iniziato a fare politica insieme nel 1969. Sono più di quarant'anni di vita insieme. La sua malattia non era un'ombra che si fa sparire con una pasticchetta. Era un disagio profondissimo, e senza rimedio. L'idea che fosse compiuta la missione di una vita, e che non avesse alcun senso continuare ad esistere . Quando succede questo – spiega Crucianelli – nulla di quello che puoi dire o fare ha più senso”. Poi, mentre parla, l'ex leader dei Comunisti unitari fa una lunga pausa: “L'unica risposta che riesco a darmi, per non subire l'assalto del dolore, é questa: il suo suicidio, per tutti noi che lo abbiamo conosciuto e amato, è l'inizio di una disperazione. Per lui invece è stato la fine di una disperazione, un liberazione da quella angoscia incontenibile” .
Per rispettare le ultime volontà del fondatore del Pdup, gli amici di Magri si riuniranno in forma privata per scambiarsi la lettera di saluto che il fondatore del Pdup ha scritto per loro. Una sorta di cerimonia laica e sobria. “Ma poi – spiega Crucianelli – faremo un grande convegno politico per ricordare il suo pensiero, e anche un libro per raccogliere le cose profetiche che ha scritto in questi anni sul futuro della sinistra. Non per un'ansia memoriale, ma per un senso di utilità”. Luciana Castellina ha scritto su Il Manifesto, affrontando il problema di quella fine: “Il suo peccato maggiore è stato di andarsene così come se ne è andato. Riteneva di non dover poter più dare niente per una rinascita della sinistra di cui diceva: ‘Ci sarà ma ci vorranno decenni, e io comunque non sono più in grado di dare nessun contributo’. Sbagliava naturalmente”.
PIÙ FATALISTA Norma Rangeri: “La scelta di morire, lungamente meditata come approdo di un percorso umano e politici, addolora ma non stupisce, è l'ultimo atto di chi non si è mai accontentato di predicare soltanto”. Diversa l'idea di Aldo Tortorella, che con lui nel Pci condivide anche l'ultima battaglia sul no alla Svolta: “Non é vero che lascia un messaggio di disperazione”. Dice Tortorella che la sua vita è come la parabola del sarto di Ulm di Brecht: “Si sfracella al suolo ma alla fine l'uomo imparerà a volare”. Emanuele Macaluso scriverà solo domenica, sul suo giornale: “Se n'è andato lasciandoci un testamento che è il suo libro. Ho passato giorni a discutere con lui, solo di quello”. Insomma, la morte di un militante interroga una intera comunità. Dice Rossana Rossanda, che lo ha accompagnato nelle ultime ore: “È stato tristissimo, non terribile, ma tristissimo. Ti puoi immaginare come si sta in un momento del genere”. Ecco perché forse ha ragione Massimo D'Alema quando dice: “Non vorrei che l'emozione per le circostanze della sua morte finisse per cancellare la memoria della sua vita, del suo impegno intellettuale e politico, della testimonianza che ci la lasciato”.

Repubblica 1.12.11
Quella fine che è espressione di libertà
Risponde Corrado Augias


Gentile Augias, sono rimasta sconvolta dal suicidio di Lucio Magri; lo shock ha poi lasciato il posto a un'immensa pietà e commozione. Mi sono passate davanti agli occhi le immagini di lui, dei suoi compagni e del suo tempo, che poi è stato anche il mio. Ho 56 anni e faccio parte di quella generazione che, nonostante i divieti familiari (soprattutto paterni), si è ostinata a portare pantaloni, minigonne e zoccoli ai piedi. È banale affermare che poi tutto è cambiato, o meglio, che tutto è stato ribaltato e l'umanità non ha solo perduto la sua ingenuità ma non è nemmeno più in grado di recuperarne una fetta, per ora. Ma perché queste belle intelligenze sono state cancellate persino dai nostri ricordi? Perché non abbiamo più pensato a loro? Loro che hanno cambiato le nostre vite! Perché ci siamo accorti che ancora ci sono, solo in un'occasione così terribile e struggente? Ma poi perché loro, queste belle intelligenze, non si sono fatte largo in mezzo alla volgarità ed alla banalità che ci circonda? Ci hanno aperto gli occhi e poi ci hanno lasciato soli. Smanettando tra le notizie sulla vita di Magri, mi è venuta sotto agli occhi la sua carta d'identità; il suo titolo di studio era la licenza media inferiore? mi ha preso un'enorme tenerezza. Grazie Lucio, che mi stupisci ancora.
Patrizia Zavattiero

Mi ha fatto piacere la sobrietà con la quale il suicidio di Lucio Magri è stato commentato. Alla morte si addice il silenzio, alla decisione di uccidersi il rispetto. Nella cultura stoica della classicità, il suicidio era un gesto supremo, nobile, talvolta indispensabile. Il suicidio assistito, come oggi lo definiamo, veniva spesso affidato allo schiavo al quale si faceva sorreggere un gladio contro il quale gettarsi. Così Marco Giunio Bruto dopo la sconfitta di Filippi. A chi lo esortava a fuggire rispose con le celebri parole: «Fuga sì, ma questa volta con le mani non con i piedi». E si fece trafiggere. Nello stesso modo, secoli dopo, si uccise il geniale Borromini ma goffamente, da solo, incastrando la spada nel telaio del letto e lanciandosi contro la lama. C'è una tragica grandezza in chi decide di porre fine alla sua vita, liberamente, con un atto d'imperio che l'intelletto impone alla carne, massima espressione di libertà perché della nostra personale esistenza ognuno di noi è responsabile e padrone. Il signor Andrea Sillioni (Bolsena, Viterbo) mi ricorda le parole finali di Cesare Pavese: "Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". Aggiunge: «Mettere fine alle proprie sofferenze fisiche e psichiche merita il silenzio e per chi ha fede la preghiera. Caro Magri, che almeno la terra ti sia lieve». Era un'epigrafe romana colma di delicato rimpianto: Terra sit tibi laevis .

Repubblica 1.12.11
Liberi di morire
Disporre della propria vita lusso supremo della civiltà
di Adriano Sofri


La scelta di Lucio Magri ci mette di fronte a vicende dolorose che non è possibile affrontare solo con leggi e regolamenti
Teniamoci la contraddizione: la scelta è un bene prezioso ma se lo fa chi ami ti ribelli
Se la causa è una malattia senza rimedio o un´anima spezzata non cambia il problema
I casi di Primo Levi e di Jean Améry che si uccisero dopo essere sopravvissuti all´Olocausto

E di nuovo qualcuno, qualche specialista, ci ammonisce: «Non siamo padroni della nostra vita».
"Non siamo padroni", questa sì che è una bella espressione, sarebbe piaciuta anche a Lucio Magri. Ma se vogliono metterci in balia di un altro padrone, allora siamo pronti a rubargliela e riprendercela, "la nostra vita".
Quando non si sia a questo punto, quando non si voglia pignorarci la vita, lasciamo diritti e doveri ai codici, avere e dare ai registri contabili. Teniamoci la contraddizione. Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l´eventualità che una persona che amo scelga di morire. Non solo: nessuna proclamazione sulla virtù del suicidio mi impedirà di desiderare che il mio prossimo improvviso, l´uomo della spalletta del ponte, rinunci al suo salto, e di tendergli una mano perché torni di qua. Il suicidio è un sublime tema filosofico e un grandioso tema sociologico e statistico, ma è un altro affare nei fatti, e nei fatti i suicidi sono altrettanto diversi quante sono le persone che li compiono. Nei commenti a vicende come questa non vale la pena di attardarsi fra l´uno o l´altro partito preso religioso, che riescono a ripetersi imperterriti nella loro lingua morta. C´è una pena che cambia di colpo le cose, e non è affatto così condizionata dall´una o dall´altra fede, dall´esistenza o dall´assenza di una fede. Il suicidio assistito – prende un suono sindacale, come tutte le formule burocratiche. Ha un risvolto, il suicidio abbandonato, spoliato. Stiamo parlando oggi di un uomo vicino agli ottant´anni, che era andato e tornato, è andato e non è più tornato, dunque era libero. Ne aveva novantacinque Mario Monicelli, che si schiantò davvero come il sarto di Ulm, e non si illudeva affatto di volare.
Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati. Mi colpisce un´affinità fra il suicidio degli adolescenti (la loro seconda causa di morte, se non sbaglio, dopo i disastri stradali) e quello dei detenuti che si ammazzano nei primi tempi della loro galera, spesso senza essere stati giudicati. Nella loro primavera, non alla fine di un inverno. La galera è fatta per indurre chi ci incappa (anche i guardiani) alla disperazione e all´insensatezza, dunque all´incombenza e alla tentazione del suicidio, e al tempo stesso è regolata in modo da simulare il divieto del suicidio. Vi tolgono la cintura dei calzoni e dell´accappatoio, il fornellino del gas, i vetri e tutto ciò che taglia. Basta pensare per un momento –immaginarlo, immaginarvisi – a uno che annodi di nascosto i lacci delle scarpe, ammesso che sia riuscito a tenerseli, e scelga con cura il minuto necessario a sventare lo sguardo d´altri in quella ressa, per capire che cos´è un suicidio non assistito. Si chiedono, i giornali, quale ultimo lago svizzero, quale ultimo pensiero abbiano attraversato la mente del morente: nella cella sordida cui alludo ogni energia estrema, ogni ultimo pensiero è riservato a un muro sporco e alla determinazione millimetrica necessaria a farcela. Ma questo non è un ennesimo articolo sul carcere, insinuato surrettiziamente nella commozione per la morte di Magri. Parlo di tutti, dei liberi, e del punto in cui prigionia e libertà si rovesciano l´una nell´altra. Il nervo più profondo del totalitarismo sta nella pretesa capricciosa che le democrazie riservano ai regolamenti penitenziari, salvo trasferirle ai testamenti biologici: di impedirti di vivere e di impedirti di morire. Di renderti impossibile la vita e la morte. Le reti o le barriere piazzate lungo il Ponte di Spoleto o attorno alla Torre di Pisa servono a non sporcare il greto e il selciato, non a dissuadere i suicidi.
La lezione dello stoicismo, gli amici convocati, il convito, la conversazione e il commiato, resta magnifica, ma è davvero distante. Vicina a noi è l´aberrazione dei suicidi-omicidi, questa sì un´epidemia contagiosa e gregaria e orrenda, ebbra dell´illusione di non morire soli e non uccidere soli; ora imprevedibilmente riscattata da gesti oscuri come quello di Sidi Bouzid (la città tunisina dove un ambulante si diede fuoco dando il via alla "rivoluzione dei gelsomini", ndr.). Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati. Che questo venga da una malattia senza riparo e piena di mortificazione, o da un´anima vedova e spezzata, o dall´offesa di una bambina cui siano stati tagliati a forza i capelli, non è questione da dibattito. Né la distinzione fra una malattia "terminale" e una depressione: certo che una depressione si può curare, ma credete che Magri non lo sapesse? Si può volere con ogni fibra di un corpo martoriato la vita fino all´ultimo istante, e si può ripudiarla anche quando si sia un corpo sano. In ogni caso faremo di tutto perché i nostri cari, e magari il nostro prossimo, restino attaccati alla propria vita. Ma desidereremo una Svizzera per noi e dunque per tutti. La ricetta, «Si sciolgono 15 grammi di pentobarbital di sodio in un bicchiere d´acqua…», non è cinica là e affabile qua, dove dev´essere spacciata di nascosto. È strana, la Svizzera, lo è proverbialmente. Ha le banche, i caveau, è neutrale e affarista. È terra di rifugio, neutrale e accogliente. Noi siamo, quanto a caveau, una Svizzera colossale, e quanto ad accoglienza, una penisola di piccole Svizzere clandestine, in cui si muore al nero. Certo la ricetta e la liceità dell´assistenza al suicida non tolgono il dolore, la disperazione e lo schianto. Immagino che anche in Svizzera una tromba delle scale possa attirare più che una bevanda antiemetica. Primo Levi era un chimico, avrebbe saputo come fare.
Voglio dire un´ultima cosa. Il lusso supremo della civiltà umana sta nel disporre di una propria vita personale, dunque di una propria personale morte. Vite e morti venivano e vengono spazzate e mietute all´ingrosso, senza riguardo all´età – anzi, con una predilezione per i giovani. Quando succede, si può provare a resistere oltre ogni limite immaginato, scampare, e cedere poi quando sia passata la tempesta, e le persone restituite a un loro destino individuale. Améry, Levi… Adesso stiamo pensando a uno di noi, che siamo appena diventati sette miliardi. Questo lusso prezioso è ogni giorno a repentaglio. Nelle altre pagine i titoli sull´euro, su Durban, su Teheran, parlano d´altro, parlano di quell´antico anonimo mercato all´ingrosso delle vite e delle morti.

Repubblica 1.12.11
Il momento della pietas
Nella Bibbia nessun anatema su chi recide la propria esistenza. Sansone anzi è un padre della fede
Compassione per i suicidi troppo facile condannarli
di Vito Mancuso


Il compito dei cristiani non è emettere sentenze negative Piuttosto bisogna saper assaporare l´energia vitale e dare un valore spirituale all´esperienza religiosa

Di fronte a un gesto estremo come quello di Lucio Magri è naturale che negli animi si accendano le passioni.
E che da queste sorgano giudizi di approvazione o disapprovazione a seconda delle provenienze culturali. Ogni coscienza responsabile sa però che la complessa situazione del nostro mondo non ha certo bisogno di "kamikaze del pensiero" che ripetono aprioristicamente convinzioni vecchie di secoli.
Ha bisogno piuttosto di analisi pacate e di conoscenza oggettiva perché l´etica non divenga un motivo in più di divisione, ma realizzi la sua vera missione di far vivere in armonia gli esseri umani. E in questa prospettiva si impone alla mente una prima inderogabile condizione: rispetto.
Aggiungo che se c´è una situazione in cui hanno senso le parole di Gesù «non giudicare» (Matteo 7,1), è proprio quella nella quale un essere umano sceglie di porre fine alla sua vita. Sostengo in altri termini che, di contro a una tradizione secolare che non ha esitato a condannare nel modo più crudo i suicidi, oggi il compito della teologia e della fede responsabile è di sospendere il giudizio, offrire dati, produrre analisi, al fine di generare pietas.
La riflessione umana presenta un dato sorprendente: mentre tutte le grandi tradizioni spirituali dell´umanità, sia religiose sia filosofiche, condannano senza mezzi termini l´omicidio, per il suicidio le cose non sono altrettanto chiare. Nelle religioni rimangono di gran lunga prevalenti le posizioni di condanna, com´è il caso di ebraismo, cristianesimo, islam, e poi di induismo, buddhismo, confucianesimo. Il medesimo orientamento di condanna è maggioritario in filosofia, come mostrano Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Heidegger. Tra i filosofi però si danno anche punti di vista che giungono a non condannare, talora anzi a valutare positivamente, il suicidio: così gli epicurei, gli stoici, Montaigne, Nietzsche, Jaspers. Ma l´aspetto veramente sorprendente, soprattutto per un cristiano, è il fatto che la Bibbia non condanni mai, in nessun luogo, il suicidio. L´hanno osservato nel ´900 i maggiori teologi contemporanei, tra cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. «Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia», scrive Barth, aggiungendo che si tratta di «un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e servirsene in senso morale!».
Sono una decina i suicidi narrati dalla Bibbia e per nessuno vi è una condanna. Anzi un suicida, per l´esattezza Sansone, viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri della fede. Non deve stupire quindi che nella Bibbia si ritrovino parole come queste: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica» (Siracide 30,17). Nel libro di Giobbe si legge di uomini che «aspettano la morte», «che la cercano più di un tesoro», «che gioiscono quando la trovano» (Giobbe 3,21-22), e non per condannare questi uomini, perché chi viene condannato è piuttosto chi sostiene con arroganza e intransigenza la prospettiva contraria come i cosiddetti amici di Giobbe cioè i dogmatici Elifaz, Bildad, Zofar, Elihu.
Certo, tutti sanno che dalla Bibbia emerge soprattutto il messaggio della sensatezza e della sacralità della vita, quello secondo cui la nostra vita è «nelle mani di Dio» (Salmo 16,5), in Dio è «la sorgente della vita» (Salmo 36,10) ed esiste quindi una sorta di rifugio imprendibile dentro cui la nostra energia spirituale più preziosa, detta tradizionalmente anima, non corre pericolo: «Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l´anima» (Matteo 10,28).
Alla luce di questi dati emerge che il compito dei cristiani oggi non è di emettere condanne qualificando negativamente le sofferte scelte di chi si suicida. È piuttosto di vivere la fede nella dimensione spirituale dentro cui l´anima vive al sicuro, anche quando il corpo tradisce. È da questa prospettiva spirituale che io giungo a valutare negativamente il suicidio, e a lottare perché la fiducia verso la vita non venga mai meno, ma si possa assaporare ogni istante l´energia vitale che ci è stata data (se da un Dio personale o dall´impersonalità del processo cosmico, a questo riguardo è una questione secondaria).
Concludendo l´articolo sul compagno di tante battaglie, ieri Valentino Parlato scriveva della necessità di «affrontare l´attuale, e storica, crisi della sinistra, per ridare alle donne e agli uomini la speranza di un cambiamento, di una uscita dall´attuale stato di mortificazione degli esseri umani». Ottimo obiettivo, ma per raggiungerlo io non conosco modo migliore di ospitare fino all´ultimo dentro di sé un sentimento di gratitudine verso la vita in tutte le sue manifestazioni, quel medesimo sentimento che ha portato Violeta Parra a comporre e a cantare la sua bellissima canzone Gracias a la vida.

La Stampa 12.1.11
Lucio Magri e il suicidio assistito
di Guido Ceronetti


Novità, nel morire, se ne danno poche. Il suicidio che diciamo «assistito» non è per nulla nuovo, sotto il sole: per tradizione il suicida ha sempre avuto chi assistesse e prestasse aiuto. Abolita la schiavitù e l’amicizia profonda venute meno, il suicidio è diventato solitario, orbato di riti, o clandestinità e ammiccamento d’ospedale. Hanno colpito, nei tempi recenti e recentissimi (pochi giorni fa) l’inaudito gettarsi nel vuoto di Mario Monicelli, all’età di novantacinque anni, e la partenza per una località svizzera, dove il cantone autorizza l’associazione DIGNITAS a fornire, dopo accertamenti, gli strumenti di morte rapida e indolore, del fondatore del Manifesto Lucio Magri. Si tratta di una forma di eutanasia: di fatto il paziente è lasciato solo con la sua determinazione, può fermarsi e tornare indietro, mi pare, anche all’ultimo momento.
Magri ebbe i suoi meriti nell’essere stato spina nel fianco del PCI, che in Italia espelleva gli eretici, invece di torturarli e fucilarli come nella rimpianta URSS. Nel caso di Magri, l’Assistente Invisibile è stato il male epidemico dell’Occidente tra metà del XX e l’attuale inoltrato secolo: la Depressione. Nelle sue manifestazioni estreme, spinge facilmente nel vuoto, non meno di una incurabile intollerabilità delle condizioni di vita. In una depressione di più anni, come si dice di Magri, l’Assistente Invisibile ci chiama irresistibilmente in Svizzera, o in ogni luogo dove la pratica sia pulita e perfino autorizzata. Ma qui c’è un peccato fondamentale: l’asetticità, la regolazione affidata al computer, l’assenza di nobiltà del gesto, che tradizionalmente implica violenza, brutalità verso il proprio corpo, sporcizia. Il suicidio di Bruto e Cassio è un finale tragico; nella morte volontaria di Magri, e dei molti che prendono la stessa via, il tragico non c’è.
E ancora, dopo una vita da ideologo mondano, com’è descritta, nella sua determinazione non sono neppure immaginabili scrupoli, timori dell’Oltre, tenui lucori di speranza in una trascendenza: nulla che colleghi il nostro povero esistere a un piano di realtà metafisica. Soltanto l’accompagnamento affettuoso della collega Rossana Rossanda può avere ingentilito questo suo ultimo viaggio.

l’Unità 1.12.11
Sciopero I dipendenti pubblici incrociano le braccia contro i progetti di riforma governativi
Le Unions: ai lavoratori chiedono contributi più alti per pensioni minori e più lontane nel tempo
Gb, due milioni di no alle pensioni del premier
Lezioni cancellate nelle scuole, aeroporti deserti, migliaia di interventi chirurgici rinviati negli ospedali: lo sciopero ha bloccato il Regno Unito. I sindacati: ci vogliono imporre contributi più alti e pensioni più basse.
di Gabriel Bertinetto


David Cameron l’ha liquidato come un fiasco, o per usare l’espressione colloquiale inglese, «un petardo bagnato». Intervenendo ai Comuni, il premier conservatore ha fornito le cifre provvisorie del presunto fallimento di uno sciopero (quattro scuole su dieci aperte, oltre due terzi di dipendenti statali al lavoro) che fino al giorno prima aveva dipinto come una incombente catastrofe per l’economia nazionale.
Fra l’esorcismo governativo a evento in corso e la demonizzazione della vigilia, stanno le cifre della massiccia adesione alla mobilitazione sindacale contro il progetto di riforma pensionistica preparato dal governo di centrodestra: due milioni di persone, vale a dire il più imponente sciopero nazionale degli ultimi trent’anni.
DISERZIONI A DOWNING STREET
Lezioni cancellate nella maggior parte delle scuole statali. Migliaia di interventi chirurgici rinviati negli ospedali, dove è stata comunque garantita l’assistenza sanitaria d’emergenza. Operazioni rallentate dall’assenza di personale ai posti di frontiera marittimi e aeroportuali. Allo scalo internazionale di Heathrow è andato in scena lo show dei funzionari mi-nisteriali mandati a rimpiazzare gli scioperanti, compreso il capo ufficio stampa di Cameron, Gabby Bertin, che ha trascorso la giornata a verificare i passaporti dei viaggiatori in arrivo. Ma ben più vicino a casa sua, il primo ministro ha dovuto incassare la diserzione di un gruppo di collaboratori, evidentemente poco entusiasti dei piani elaborati dal loro capo per l’epoca futura in cui non dovranno più recarsi quotidianamente a Downing Street 10.
Lo sciopero, programmato da mesi, aveva per bersaglio la riforma delle pensioni dei dipendenti pubblici. Per il governo bisogna colmare il gap fra il trattamento «privilegiato» di cui godrebbero gli statali, rispetto ai privati, nel momento in cui smettono di lavorare. Basta con le pensioni calcolate sui salari percepiti a fine carriera. A partire dall’anno prossimo verrà esteso agli statali il metodo contributivo già vigente per la maggior parte dei lavoratori privati.
Le Unions contestano la sostanza e il dettaglio del piano, perché sono previsti aumenti dei contributi a carico del dipendente pari al 3,2%, perché cambiano in maniera penalizzante i coefficienti per indicizzare le pensioni rispetto all’inflazione, perché a partire dal 2016 salirà a 67 anni l’età minima per ritirarsi dall’attività. Brendan Barber, segretario generale della Tuc (Confederazione delle Trade Unions) parla di «attacco» governativo al settore pubblico. «La dimensione dei cambiamenti che stanno cercando di imporre, costringe la gente a lavorare molto, ma molto più a lungo, per ottenere molto, ma molto di meno». L’opposizione laburista, aveva inizialmente preso le distanze dall’agitazione sindacale, sostenendo che la decisione era stata presa prematuramente, a vertenza ancora in corso. Ma a ridosso dello sciopero il Labour ha cambiato atteggiamento, criticando l’esecutivo per non avere seriamente tentato di riavviare il negoziato. Il capo del partito Ed Miliband ha dichiarato ieri di «non poter condannare le infermiere e gli insegnanti che hanno deciso di scioperare perché si sentono messi in una situazione insostenibile da un governo che ha rifiutato di trattare correttamente». Un’affermazione che gli è valsa da parte di Cameron l’accusa di essere «di sinistra».
OFFERTE VANTAGGIOSE
In realtà alcune settimane fa il capo della delegazione governativa ai negoziati Francis Maude ha proposto alcune correzioni alla riforma, definendole «vantaggiose» nel momento stesso in cui bollava però come «irreponsabile» chiunque non le accettasse. Fra queste l’esenzione dai nuovi meccanismi di calcolo per chi sia a meno di dieci anni dalla data del pensionamento. Proposte giudicate dalle Unions parziali, confuse e non inserite in un serio quadro di colloqui formali. «Alla gente che lavora -dichiara Len McCluskey, capo di Unite, uno dei più grandi sindacati inglesiviene chiesto di pagare per il caos economico provocato dall’avida élite della City, verso i cui comportamenti un governo senza spina dorsale è stato ripetutamente incapace di contrapporsi».

l’Unità 1.12.11
Dal Cairo a Casablanca
Se l’onda lunga islamica porta alla democrazia
In Egitto i primi dati vedono trionfanti i Fratelli musulmani e i salafiti
Ma sia qui come in Marocco la prospettiva è quella dei governi di coalizione In bilico tra tradizione e sviluppo, per ora prevale il messaggio di stabilità
di Umberto De Giovannangeli


Partiti islamisti al potere. Non è il Jihad globale, ma è la via «islamica» alle urne. Più Ankara che Teheran. Una via che dalla Tunisia si estende al Marocco, e dal Marocco all’Egitto. Laddove non si vota, si spara: in Siria, nello Yemen, nel «dimenticato» Bahrein. E la piazza comincia a infiammarsi anche in Arabia Saudita. Occhi puntati sull’Egitto, il più popolato Paese arabo. I Fratelli musulmani sono il primo partito in Egitto, secondo le prime indiscrezioni riferite dalla stampa locale. Mentre continua lo spoglio delle schede per la quota uninominale nelle prime elezioni legislative del dopo Mubarak, le indicazioni sono che Giustizia e Libertà, il partito affiliato alla confraternita, e la coalizione di partiti salafiti al Nour sono in testa i sei governatorati, scrive il quotidiano Al Ahram. Secondo il quotidiano al Shouruk, Giustizia e libertà ha preso il 47% dei voti mentre la coalizione laica e moderata del Blocco egiziano ha incassato il 22% dei voti.
Nella prima tornata di voto, che si è chiusa l’altro ieri, sono andati a votare di nove governatorati fra i quali il Cairo Alessandria, Luxor, Assiut, porto Said. Di successo elettorale parlano i Fratelli musulmani in un loro comunicato, nel quale sostengono che «in base ai dati preliminari», il partito Giustizia e Libertà è in testa. Il secondo partito sarebbe la coalizione salafita di el Nour e il terzo classificato è l’alleanza moderata del Blocco egiziano, nel quale figurano gli Egiziani liberi del tycoon copto Naguib Sawiris.
Nel comunicato i fratelli musulmani segnalano che nella regione di Fayyoum, a sud del Cairo, hanno raggiunto il maggior numero di consensi, seguiti dal Mar Rosso e dal Cairo. La competizione è serrata con i salafiti di al Nour ad Alessandria, storica roccaforte della confraternita, e Kar el Sheikh a nord del Cairo. I primi dati indicano che numerosi candidati individuali dei Fratelli sono già passati e che esponenti dell'ex partito di Mubarak, il partito nazionale democratico, sono stati «esclusi dal popolo». Questo dimostra che il popolo egiziano ha esercitato il suo diritto di «isolare politicamente» gli eredi del Pnd. L’annuncio ufficiale dei risultati del primo turno, comunica la Commissione elettorale, slitta ad oggi.
Il prossimo governo sarà di coalizione e sarà la maggioranza parlamentare che uscirà dalle urne a formare il nuovo governo. Ad affermarlo è Mohamed Morsi, capo del partito Giustizia e libertà, secondo quanto riferisce al Ahram online. Morsi ha anche spiegato di non immaginare la Costituzione egiziana senza l'articolo 2, che prevede che la legge islamica della sharia sia la base giuridica nazionale.
Altre elezioni partecipate. Altro successo islamista. Il re del Marocco, Mohammed VI, ha designato il filo-islamico Abelillah Benkirane a primo ministro, dopo che il suo Partito per la Giustizia e lo sviluppo (Pjd) aveva conquistato 107 seggi parlamentari su 395 nelle elezioni di venerdì scorso. È la prima volta che un partito islamico guida una coalizione di governo nel Paese nordafricano, anche se il Pjd a differenza dei partiti più estremisti non si oppone al re. Benkirane ha giurato fedeltà alla monarchia dopo un breve colloquio con Mohammed VI. Il 57enne premier designato ha poi dato il via alle consultazione per la formazione dell'esecutivo che sarà di ampia coalizione e avrà come priorità «la democrazia e il buon governo». Per ora si sono dette disponibili tre formazioni che facevano parte della precedente maggioranza, il partito indipendente Istiqlal, i liberali della Coalizione indipendente e l'Unione socialista delle Forze popolari.
L’onda islamica conquista anche Tunisi. Ennahda (Rinascita), il partito islamista vince le prime elezioni del dopo-Ben Ali, con poco meno del 40 per cento dei voti, tradotti in 90 deputati su 217 nel nuovo parlamento che avrà il compito di completare la transizione seguita alla caduta del regime di Zine el Abidine Ben Alì, scegliere un governo provvisorio e scrivere la nuova Costituzione nazionale, prima di indire nuove elezioni presidenziali e parlamentari. Come in Marocco così anche in Tunisia, Il primo messaggio lanciato dai vincitori è in linea con la campagna elettorale. Moderato, rassicurante: «Faremo tutti gli sforzi per dare stabilità al Paese». Vincitori – Ennahda conquista 89 dei 217 seggi nella nuova Assemblea costituente della Tunisia ma non «padroni». Perché in Tunisia come in Marocco e, con ogni probabilità, in Egitto, i partiti islamisti dovranno fare i conti con i giochi della politica: alleanze, mediazioni, governi di coalizione. In Tunisia, in particolare, la forza politica guidata da Rachid Ghannouchi non diventa il padrone assoluto del Paese: al secondo posto si colloca il Congress for the Republic (CPR), che ottiene 29 seggi, seguito dal Popular Petition con 26 seggi. Il partito di sinistra Ettakatol conquista 20 seggi, il Partito Progressist Democratic Party 16, mentre il Democratic Modernist Pole 5. «Ennahda ha vinto perché è all’opposizione da 25 anni, durante i quali sono stati incarcerati 30mila militanti e altrettanti mandati in esilio», spiega uno dei leader del partito, Abdel Fattah Mourou. «Ennahda è stata la maggiore vittima politica di Ben Ali. Questo la gente lo sa. Non solo, gli altri partiti hanno polarizzato la campagna insistendo sul laicismo: i tunisini sono dei moderati ma attaccati profondamente alla loro identità musulmana». Coniugare tradizione e modernità, identità e sviluppo: è la sfida che ha di fronte a sé l’Islam politico, chiamato ora alla prova decisiva: quella di governo.

il Fatto 1.12.11
Il sociologo Jabbar
Il tramonto del laicismo e la nuova alba islamica
di Gianfranco Belgrano


Ennahda in Tunisia, poi il partito Giustizia e sviluppo in Marocco. La marcia dei partiti di ispirazione islamica nei paesi arabi sembra inarrestabile: dovunque sia possibile votare in maniera libera e democratica, le formazioni che fanno riferimento ai valori della tradizione religiosa stanno ottenendo piena affermazione e legittimazione. Forti anche di un diverso approccio da parte di quella comunità internazionale che non molti anni fa ebbe tutt'altro atteggiamento rispetto all'avanzata del Fronte islamico di salvezza in Algeria (1991) e alla vittoria di Hamas (ideologicamente vicina ai Fratelli musulmani) nei Territori palestinesi, alle legislative del 2006.
SITUAZIONI e contesti diversi quelli algerino e palestinese, ma i partiti islamici stanno lasciando un po' ovunque tutti indietro, anche grazie alla via tracciata dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan al potere dal 2002 con il suo partito, pure chiamato Giustizia e sviluppo, e soprattutto grazie ai modelli proposti in un momento di ricerca di nuove identità. E Tunisia e Marocco potrebbero essere solo l'anticipazione di una tendenza più generale, valida anche per l'Egitto dove si è votato nei giorni scorsi e dove, all'interno di un complesso sistema elettorale, per le legislative si continuerà a votare a più riprese fino a gennaio 2012.
Secondo il sociologo iracheno Adel Jabbar, da anni in Italia, “il fallimento delle tre principali correnti affermatesi nel mondo arabo nel corso del Novecento ha aperto la strada all'affermazione di un islam politico che non ha avuto finora un ruolo guida e che ogni qual volta è arrivato al potere è stato costretto con la forza a farsi da parte”.
Per tutto il Novecento, spiega Jabbar, i protagonisti del mondo arabo sono state le forze secolari e laiche: liberisti, comunisti o socialisti, nazionalisti. “Ma i paesi nominalmente a conduzione liberale hanno costituito un esempio poco democratico, e allo stesso modo nazionalisti e socialisti hanno mostrato tutti i loro limiti. Non sono state date risposte politiche, non sono state costruite economie forti, la ricchezza nazionale non è stata ridistribuita equamente, la corruzione è aumentata”.
Tutti nodi venuti al pettine e portati alla ribalta dalla cosiddetta Primavera araba. Così, se è vero che sono state avanguardie di giovani delusi a innescare le proteste, è altrettanto evidente che alla prova del voto ad affermarsi sono stati quei partiti con anni di vera opposizione e che richiamano valori ben noti alle società arabe. “I movimenti giovanili – prosegue Jabbar – non hanno avuto il tempo di creare strutture, di dotarsi di leader riconosciuti, di organizzarsi attorno a riferimenti precisi. Discorso inverso per le formazioni di ispirazione islamica”.
DOPO LA TUNISIA, il Marocco ha confermato la tendenza in atto. “Anzi – sottolinea ancora il saggista iracheno – a perdere in maniera evidente sono stati i partiti più vicini alla monarchia, che pure ha voluto le riforme per disinnescare potenziali contestazioni a larga scala”.
In Egitto, però, la situazione è più complessa per la grandezza del paese, per la presenza di una forte minoranza cristiana, per partiti anche laici con una lunga storia alle spalle. A contendersi il voto islamico saranno poi tre partiti: Al-Nour, il partito della Luce, di ispirazione salafita; Al-Hurriya wa al-Adala, il partito Libertà e giustizia, dei Fratelli musulmani; Al-Wasat, il partito del Centro, fondato nel 1996 da un'ala modernista dei Fratelli musulmani .
“A queste tre formazioni – prosegue Jabbar – dovremmo aggiungere le congregazioni sufi (mistiche) a cui in Egitto aderiscono 10 milioni di persone, soprattutto nelle zone rurali. I sufi, così come i salafiti, non si sono mai avvicinati alla vita politica, sono sempre stati più attenti e in maniera opposta alla religiosità. Più mistico e interiore l'approccio dei sufi, più formale, chiuso e attento alla morale pubblica quello dei salafiti. Entrambi si presenteranno alle elezioni perché dopo aver convissuto senza particolari problemi con il regime di Hosni Mubarak, sono ora costretti a confrontarsi nell'arena politica per avere voce in capitolo sull'Egitto che verrà. Ma più che di programmi, per loro si può parlare di richiami religiosi privi di una chiara visione politica, che possono fare presa sui ceti più poveri e sulle popolazioni rurali”.
DIVERSO IL DISCORSO per al-Wasat e per i Fratelli musulmani. “Non sono così ideologici come spesso sono stati presentati, fanno riferimento ai ceti medi, hanno programmi politici ben definiti e altrettante chiare idee sulla lotta alla corruzione, sull'occupazione e sullo sviluppo economico. E in questo momento rispondono forse meglio di altri partiti alle rivendicazioni venite fuori con la Primavera araba: giustizia, libertà e dignità (adala, hurriya, karama)”. La novità, conclude Jabbar, “sono le elezioni libere, la notizia è la performance dei partiti islamici, che escono dalla marginalità politica in cui erano artificiosamente costretti e si presentano aperti al confronto anche con formazioni molto diverse da loro, pragmatiche e pronte al compromesso, favorevoli a meccanismi democratici come quello dell'alternanza”.

Corriere della Sera 1.12.11
Pace (possibile) tra Israele e Palestina
Ripartiamo dagli accordi di Ginevra
di Bernhard-Henri Lévy


Ginevra, è da qui che, otto anni fa, fu lanciato il famoso Piano di Ginevra elaborato e firmato, con l'appoggio di svizzeri e francesi, da personalità delle società civili palestinese e israeliana. Ed è qui che, nella stessa università, forse di fronte alle stesse persone, si sono ritrovati il 22 novembre i principali protagonisti dell'epoca, che il congelamento di ogni negoziato sembra non aver cambiato. Discorso della presidente della Confederazione elvetica, Micheline Calmy-Rey, che dice perché ha voluto, poche settimane prima di ritirarsi dal governo, questa serata di commemorazione e di rilancio del Piano.
Intervento di Yossi Beilin, promotore israeliano dell'iniziativa, che spiega ancora una volta come non esistano altre scelte per tirarsi fuori dalla pericolosa spirale del fanatismo e dell'odio, se non quella di accettare, da un lato come dall'altro, il doloroso sacrificio di una parte del proprio sogno.
Intervento di sostegno del rabbino Yitzhak Vaknin, responsabile del partito religioso Shas e vice-presidente della Knesset: la sola alternativa alla pace — ricorda — sarebbe la trasformazione di Israele in uno Stato binazionale che rinunciasse, quindi, al carattere ebraico che è al centro del suo progetto.
Discorso infervorato di Yasser Abed Rabbo, il partner palestinese di Beilin, quando risponde a una studentessa che gli rimprovera di aver abbandonato il «diritto al ritorno» dei profughi del 1948, dei loro figli, dei loro nipoti, e di aver così svenduto i sacrosanti interessi del proprio popolo: «È il contrario! — esclama —, è esattamente il contrario! La rinuncia a un diritto irrealistico era, e rimane, l'unico modo di evitare una nuova Nakba, in altri termini una nuova catastrofe!».
Quanto a me, cerco di definire diversi modi di agire, e non solo di commemorare, ma di continuare, arricchire, se non portare a termine, un giorno, la bella iniziativa del 2003.
Quando si è fatto quel che voi avete fatto, dico in sostanza a Beilin e a Rabbo, quando si è all'origine di un coraggio e di un genio politico tali, quando si è autori di un piano, l'unico mai concepito prima, che attesta come la coesistenza fra i due popoli sia, più che auspicabile, possibile; insomma, quando si ha fra le mani l'idea di un accordo di cui è stato delineato il minimo dettaglio, ci sono tre maniere di agire.
C'è la via kantiana o, forse, profetica: un'Idea, sì; una grande e magnifica idea che domini dall'alto i confusi e incerti tentativi di darle uno sbocco; un riferimento; un'unità di misura; un'idea che funga da statua, o una statua del Commendatore che presiede alle idee, che permetta di giudicare, di misurare, ho quasi voglia di dire valutare, gli sforzi dei politici, i loro tentennamenti più o meno sinceri, le loro approssimazioni.
C'è la via apostolica o, se si preferisce, democratica: far uscire l'idea dal suo mausoleo; propagarla; diffonderla; voler far conoscere al maggior numero di persone, in Israele, in Palestina, nel mondo, un progetto in cui non un tratto di deserto, non un boschetto di ulivi, non un sasso, non siano stati aspramente negoziati. Obbligare quest'idea, in altri termini, a scendere dal cielo sulla terra e convertire a essa, nella durata, un numero crescente di uomini e donne di buona volontà.
C'è poi la via che voi, amici autori del Piano, prendereste, se sceglieste di mettervi in mano ai re, cioè nel ruolo di coloro che la storia delle idee chiama sansimoniani: alla ricerca del re dell'Idea; alla ricerca di colui che se ne farà il portavoce più illuminato; affidandogliela; lasciandogliela in eredità, in consegna; contando su di lui per incarnarla e, incarnandola, farla entrare, un giorno, nella lettera di un trattato.
È necessario precisare che opto per la sintesi delle tre opzioni, e che tale sintesi ho raccomandato quel giorno?
Opzione numero 1: altre riunioni come questa, dove ci si accontenterà (ma sarà già molto, soprattutto se si terranno a Tel Aviv o a Ramallah) di mantenere viva la fiamma.
Opzione numero 2: portare la buona parola in incontri faccia a faccia, ma anche attraverso i media, i social network, Internet (tutti strumenti di diffusione di cui si è vista, all'inizio delle rivoluzioni arabe, la prodigiosa efficacia) per aiutare il buon vento di una primavera della Pace ad alzarsi.
Infine, soluzione numero 3: cercare, convincere e, forse, decidere il Gedeone, il Saul, il nuovo Sadat o il nuovo Begin, il responsabile americano, europeo, arabo, o dell'Onu, capace di adottare l'idea (e, adottandola, appropriandosela) di farla un giorno trionfare.
Bisogna tentare tutto. Perché è all'incrocio di queste tre vie che, fedeli allo spirito di Ginevra, abbiamo appuntamento con la pace.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere della Sera 1.12.11
La Cina ha 100 milioni di poveri in più potenza mondiale ma in via di sviluppo
di Marco Del Corona


Di colpo la Cina ha 100 milioni di poveri in più. È bastato un ritocco statistico per cambiare lo scenario sociale ed economico della Repubblica Popolare. Uno dei rami del Consiglio di Stato — il governo — ha infatti innalzato la soglia della povertà dai 1.196 renminbi al mese fissati solo due anni fa (187 dollari) a 2.300 renminbi (361 dollari), un incremento del 92%. Il nuovo discrimine si applica alle campagne, che raccolgono grosso modo la metà della popolazione cinese, ma è bastato per moltiplicare il numero dei poveri ufficiali da meno di 27 milioni a 128 milioni. Appunto, oltre 100 milioni di poveri in più.
La mossa, sottolineano le fonti cinesi, serve ad allineare le statistiche del Paese alla sua situazione reale, anche se il reddito giornaliero (un dollaro scarso al giorno) resta inferiore al limite fissato dall'Onu (1,25 dollari al giorno). A metà del mese scorso il libro bianco governativo sulla povertà aveva sottolineato con orgoglio come nel 2000 gli indigenti, con una soglia di 865 renminbi al mese, fossero ancora oltre 94 milioni e dunque la loro drammatica riduzione nel decennio successivo fosse un trionfo.
Benché gli organismi internazionali ritengano che la Cina abbia spesso nei confronti delle statistiche un atteggiamento quanto meno disinvolto, e benché nella stessa Cina il problema sia ben presente, i nuovi parametri della povertà rurale hanno il pregio di fare chiarezza. L'inflazione è scesa sotto il 6% ma resta sopra il 5% e chiunque abbia attraversato anche distrattamente persino i distretti rurali di una metropoli come Pechino, per non parlare di province remote come il Guangxi o il Qinghai, coglie che ci sia adesso una maggior rispondenza fra numeri ed esperienza empirica. E porta alla luce il paradosso, o la contraddizione, che la Cina agita nei rapporti con l'Occidente: seconda potenza economica ma anche Paese in via di sviluppo. La nuova classificazione certifica questa condizione. Sgombrato il campo dalle ambiguità, verrà a cadere anche qualche alibi. Per la Cina e per il resto del mondo. Ed è meglio per entrambi.

La Stampa 1.12.11
Mamme cattivissime sulle spine
di Elena Loewenthal


Nel suo Mamme cattivissime (Corbaccio), Elizabeth Badinter la chiama «crisi d’identità». È la condizione delle donne di oggi, confuse tra i ruoli tradizionali e il logorìo della vita moderna. Badinter, femminista della prima ora, punta il dito su una nuova idea di maternità, che si vuole perfetta e perfezionista. A costo di trasformare la propria vita in un inferno di stanchezza. Questa nuova maternità si riconduce a modelli antichi lo stretto contatto con il bambino, l’allattamento al seno a totale discrezione del pupo, magari sino alla pubertà. Perché essi rappresentano per queste mamme postmoderne l’unico modo per sfuggire a quei sensi colpa che ancora attanagliano la nostra coscienza. Una madre emancipata, che lavora, che non ha in testa soltanto le pappe dei bambini, è ancora sentita come una donna armata di «egoismo», una che pensa a se prima che alle proprie creature. Così, per evitare di essere additata, la donna/madre si fa in quattro, otto e multipli: a casa, al lavoro, in cucina.
Quello che Badinter denuncia con dovizia di dati viene in fondo confermato da un ampio studio condotto per «Valore D» (associazioni di grandi imprese per promuovere la leadership femminile in Italia) appena presentato a Milano. Donde emerge che, a ben guardare, non è il lavoro ma la famiglia il posto dove le donne continuano a sfangare molto più degli uomini, a cimentarsi quotidianamente e con fatica con quella vocazione al tuttofare che sostanzialmente significa sudare sempre. Anche a livelli sociali e di redditi alti, l’uomo di casa non si dimostra in grado di adeguarsi alle necessità domestiche e alle urgenze: resta ancorato al proprio comodo ruolo. Per questo, in tempi come quelli attuali di grandi e necessari cambiamenti, questo studio ispira la proposta di una tassazione del lavoro differenziata (leggermente), poco più alta per gli uomini; le donne inoltre si dimostrano molto più sensibili degli uomini, nel proprio rendimento, al cambiamento del salario, soprattutto quando questo va verso l’alto. Il premio stimola loro più del sesso forte. Quest’ansia di dimostrare che siamo brave è ancora l’onda lunga dell’emancipazione. Ci tiene, purtroppo, ancora sulle spine.

Repubblica 1.12.11
Il pensiero artificiale
Memoria e sogni, il computer decide per noi
di Piergiorgio Odifreddi


Tra i successi in questo campo, il prototipo Mycin che stabiliva, meglio degli esperti, le cause batteriche di un´infezione e le cure
I dispositivi nati per eseguire alcuni compiti sono cambiati raggiungendo possibilità che ci fanno riflettere sull´intelligenza
Da Turing ai robot di oggi, ecco come si sono evolute le capacità delle macchine

I sing the body electric, cantava Walt Whitman nel 1867. Il verso era un´aggiunta tarda alle sue Foglie d´erba e pagava un tributo di facciata all´elettricità. Come, d´altronde, aveva già fatto nel 1818 Mary Shelley in Frankenstein, o il moderno Prometeo, infondendo la vita al suo mostro attraverso una scossa elettrica, appunto.
Un secolo dopo Whitman, il suo verso ha raggiunto una certa popolarità grazie a due opere omonime: un racconto di fantascienza di Ray Bradbury, nel 1969, e un album di jazz fusion dei Weather Report, nel 1972. Oggi l´espressione "corpo elettrico" rimanda immediatamente ai progetti e alle realizzazioni della Robotica da un lato, e dell´Intelligenza Artificiale dall´altro. Cioè, alle due imprese scientifiche che mirano a riprodurre, rispettivamente, il corpo e la mente umana. Quest´ultima, ovviamente, intesa non nel senso dualista e cartesiano, come sostanza immateriale, bensì in senso materialista e funzionalista, come fenomeno collegato all´attività cerebrale.
Più precisamente, il fresco contributo informatico alla stantìa discussione filosofica riguardante la relazione fra la mente e il corpo consiste nel proporne un´analogia con il software e l´hardware. Formalmente l´analogia è stata enunciata nel 1960 da Hilary Putnam, in Menti e macchine, e consiste nell´affermare che la mente starebbe al corpo come i programmi stanno ai computer. Ma sostanzialmente l´analogia risale a uno storico lavoro del 1936 sui Numeri computabili, nel quale un ventiquattrenne di nome Alan Turing progettò quello che in seguito venne chiamato, non a caso, "cervello elettronico" (storicamente il progetto risale addirittura al 1837, quando un misconosciuto Charles Babbage inventò quello che si potrebbe chiamare un "computer a vapore"). Turing effettuò un´analisi dei processi coinvolti nelle tipiche operazioni del calcolo umano. Egli immaginò una "scatola nera" provvista di una rudimentale capacità di memoria interna, e in grado di eseguire alcuni compiti elementari quali leggere, scrivere e cancellare simboli su fogli a quadretti. E mostrò che bastavano istruzioni molto semplici, relative a questi compiti e dipendenti dallo stato attuale della macchina, per sintetizzare una cosiddetta "macchina universale", in grado di eseguire non soltanto i compiti per i quali è stata esplicitamente costruita, ma qualunque compito implicitamente codificabile mediante un insieme finito di istruzioni.
Naturalmente, fino a quando la "scatola nera" rimaneva tale, il modello di Turing restava sulla carta. Per realizzarlo bisognava riuscire a costruire la "scatola" stessa, e l´idea per farlo venne al neurofisiologo Warren McCulloch nel 1943. Insieme al matematico Walter Pitts, egli notò che bastava una versione semplificata del sistema nervoso centrale, o "rete neurale", consistente di fili elettrici e interruttori in grado di far passare la corrente in modo da simulare le più semplici operazioni logiche. Fu quasi imbarazzante, scoprire che molte complessità del pensiero logico non erano in realtà maggiori di quelle dei circuiti elettrici. Tutto confluiva dunque, in maniera elettrizzante, a riempire di significati il verso di Whitman e la metafora del "corpo elettrico".
Questi significati sono stati esplorati sistematicamente nel corso dell´era informatica, a partire dal primo dopoguerra. Anzitutto, dallo stesso Turing, che negli articoli raccolti nel libro Intelligenza meccanica (Bollati Boringhieri, 1994) si è domandato fino a che punto la simulazione artificiale potesse arrivare. Se soltanto all´intelligenza militare, che non va oltre la comprensione formale e la cieca esecuzione degli ordini meccanici, appunto. Oppure all´intelligenza animale, che permette di riconoscere oggetti o esseri, e di discriminare fra comportamenti alternativi. O, addirittura, alle profondità dell´intelligenza umana, che spazia dalle partite a scacchi alle dimostrazioni dei teoremi.
La sorprendente scoperta di mezzo secolo di ricerche è stata che oggi i computer battono senza problemi gli uomini a scacchi, e hanno cominciato a dimostrare nuovi teoremi indipendentemente da loro. Ma continuano ad avere grandi difficoltà nell´eseguire compiti che qualunque animale sa fare benissimo, come riconoscere facce o voci. Il che ha portato a una rivalutazione dell´animalità e a una svalutazione della razionalità, che costituivano le due facce della definizione stoica dell´uomo come "animale razionale".
Uno dei primi successi dell´Intelligenza Artificiale furono i cosiddetti "sistemi esperti", che codificano le conoscenze degli esperti di certe aree specifiche, fino ad arrivare a simularne il processo di decisione. Il più noto prototipo fu il Mycin, sviluppato a Stanford negli anni ´70 dal genetista Stanley Cohen, che risultò essere in grado di far meglio degli specialisti nell´identificare le cause batteriche delle infezioni e nel prescrivere le cure a base di antibiotici. La cosa fu abbastanza imbarazzante, ma non tanto quanto il programma Eliza sviluppato da Joseph Weizenbaum nel 1966 che era in grado di simulare meglio dell´originale la "terapia non direttiva" o "rogersiana". I pazienti ne furono rapidamente e profondamente coinvolti, gli psicologi arrivarono a considerarlo una forma autonoma di terapia e il suo programmatore ne rimase sconvolto, tanto da abbandonare la ricerca e diventare un critico dell´Intelligenza Artificiale.
Nei pochi decenni dalla sua progettazione e dalla sua realizzazione, il computer ha già fornito modelli per la Programmazione Logica, la Cibernetica, l´Intelligenza Artificiale, il Connessionismo e la Robotica, che cercano di realizzare versioni artificiali del pensiero, della comunicazione, della mente, del cervello e del corpo. E di affrontare, di passaggio, problematiche che vanno dal sogno alla memoria. Ma l´interesse per l´artificiale non è rimasto confinato all´uomo, e si è esteso al mondo intero. La Vita Artificiale è stata inaugurata con le spiegazioni informatiche del meccanismo di riproduzione cellulare offerte nel 1948 da John von Neumann, precedenti di cinque anni la scoperta biologica dello stesso meccanismo da parte di Watson e Crick. E la Realtà Virtuale e la Rete hanno ormai trasformato il computer nella porta d´accesso a mondi alternativi. Per questo un Whitman moderno, invece di limitarsi a cantare il "corpo elettrico", oggi dovrebbe intonare più globalmente: I sing the world electric.

Corriere della Sera 1.12.11
La pluralità della mente oltre i confini del cervello
di Antonio Carioti


Viviamo in tempi mutevoli e bisogna saper gestire il cambiamento. Il che significa anche «non avere paura delle emozioni che l'incertezza suscita, ma affrontare la complessità del mondo con un approccio plurale». Lo afferma Gabriella Pravettoni, docente di Psicologia dei processi cognitivi, nel delineare gli scopi del convegno «Mind set. La mente cresce, tu decidi, il mondo cambia», in programma oggi a Milano nell'aula magna dell'Università degli Studi (via Festa del Perdono 7). Un appuntamento, promosso dall'ateneo statale insieme alla Fondazione Umberto Veronesi, cui partecipano nomi noti come Edoardo Boncinelli, Michele Di Francesco, Mauro Maldonato, Marcello Massimini, Andrea Moro, Piergiorgio Odifreddi, Alberto Oliverio, Francesca Simion.
Al centro di tutto, una visione della mente umana decisamente plurale, articolata e sfaccettata, distante dal riduzionismo che appiattisce tutto sulle reazioni fisiochimiche del cervello. «Bisogna superare — osserva Gabriella Pravettoni — certe abitudini alla semplificazione, per cui sembra che gli esseri umani siano automi mossi dai meccanismi cerebrali. Ci sono processi cognitivi individuali: la capacità di memorizzare, quella di focalizzare l'attenzione, senza contare le emozioni e le motivazioni personali. E questi fenomeni vanno considerati nella loro interazione con l'ambiente esterno e i tanti fattori culturali da cui siamo influenzati. Tutto ciò aiuta l'individuo a maturare, a muoversi nel contesto che lo circonda, a mettere in moto il cambiamento. Intendiamoci, tra i relatori del nostro convegno ci sono anche un neuroscienziato, un biologo e un fisiologo: non vogliamo affatto sminuire il contributo di questi saperi. Ma riteniamo che, parlando della mente, il tutto sia qualcosa di più rispetto alla somma delle singole parti». Secondo la docente milanese, che dirige il Centro di ricerca interdipartimentale sui processi decisionali, le scienze cognitive devono dunque muoversi in una dimensione multidisciplinare: «Occorre collaborare tra diversi ambiti di studio non solo per spiegare la pluralità della mente, ma anche per capire come accoglierla e valorizzarla. Non ci sono al momento spiegazioni esaustive su come funziona il pensiero umano. La sfida del convegno è trovare una sintesi tra le ragioni delle neuroscienze e quelle di discipline come la psicologia e la filosofia».
 
l’Unità 1.12.11
I 50 anni di «Ada» signora della fisica
La macchina è la madre dell’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra
L’anello di accumulazione arrivò dopo solo 16 anni di sforzi per riempire il vuoto creato fra gli scienziati a causa delle leggi razziali varate in Italia
di Pietro Greco


Tutti, da Frascati a Ginevra, conoscono la «signora Ada». Almeno tutti i fisici. Non solo perché la «Ada», che domani festeggia 50 anni, è la madre di Lhc. Ma anche perché, nel 1961, l’Anello di accumulazione realizzato presso i Laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) – a Frascati, appunto – ha inaugurato quella «via italiana alle alte energie» che oggi costituisce il modello per buona parte delle grandi acceleratori di particelle realizzati in tutto il mondo, compreso la più grande macchina mai costruita dall’uomo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra.
LA RINASCITA
Ada rappresenta uno dei picchi della fisica italiana. Un esempio di come il nostro Paese, con pochi mezzi e grandi idee, riesca spesso a competere alla frontiera della conoscenza. Il picco, infatti, è stato raggiunto appena sedici anni dopo quello che Edoardo Amaldi ha definito il «disastro della fisica italiana», consumato all’ombra delle leggi razziali e dell’entrata in guerra dell’Italia. Enrico Fermi e Bruno Rossi avevano lasciato il Paese. Le loro scuole, che avevano fatto dell’Italia il punto di riferimento mondiale per la fisica nucleare e la fisica dei raggi cosmici, si erano dissolte. Alla fine del secondo conflitto mondiale non restavano che pochi uomini e nessun mezzo per ripartire.
Ma l’impresa di riconquistare il terreno perduto riesce. Nasce l’Infn e nasce l’idea di costruire a Frascati acceleratori italiani, a complemento di quelli europei del Cern. Il primo è l’elettrosincrotrone, una macchina realizzata negli anni ’50 da Giorgio Salvini e dai suoi «giovani leoni» (un gruppo di ragazzi, la gran parte dei quali non ancora trentenni), con cui la fisica italiana dimostra di essere di nuovo nel novero dei «grandi».
PARTE LA SFIDA
Ma quando, il 24 novembre 1959, al Cern di Ginevra viene inaugurato il Ps, il protosincrotrone da 28 GeV – il più grande acceleratore del mondo – a Frascati nasce il problema di decidere cosa fare per non essere tagliati fuori.
L’idea giusta viene a Bruno Touschek, un giovane fisico teorico di origine austriaca – allora l’Italia non respingeva, ma riusciva ad attrarre cervelli stranieri ottenendo eccellenti dividendi. Si tratta, in realtà, del combinato disposto di tre diverse idee. Accelerare un fascio di particelle e uno di antiparticelle in direzioni opposte e al momento opportuno falli scontrare frontalmente. Finora in tutto il mondo il lavoro di un acceleratore è consistito nel portare un fascio di particelle fino alla velocità giusta per bombardare un obiettivo fisso. Utilizzare come particelle i leptoni (elettroni e positroni) che, come dice Touschek, «parlano civilmente» invece della «teppaglia adronica», ovvero i protoni, che crea più rumore e chiede più energia.
Ma l’autentica novità sta nella proposta di utilizzare un solo anello – un anello di accumulazione – in cui far viaggiare in direzioni opposte elettroni e positroni, portandoli allo scontro al momento desiderato.
UNA SQUADRA D’ECCELLENZA
L’austriaco espone queste idee in un seminario tenuto a Frascati all’inizio del 1960. L’idea piace e in pochi giorni i progettisti iniziano a immaginare la macchina di nuova concezione. I problemi da superare non sono davvero pochi. Ma, dopo un accanito dibattito, si decide cercherà di verificarne la fattibilità mettendo a punto un prototipo molto piccolo, da un metro e mezzo di diametro.
Il progetto Ada (anello di accumulazione) viene sottoposto al Cnen, che in breve – grazie anche ai «buoni riflessi» di Felice Ippolito – lo approva e lo finanzia con 20 milioni. L’impresa può partire. La squadra, guidata da Touschek, è composta da Carlo Bernardini, Ruggero Querzoli, Gianfranco Corazza, Giorgio Ghigo e Mario Puglisi. Nel giro di un anno e mezzo tutti i problemi tecnici – grazie anche al trasferimento all’inizio del 1962 della macchina da Frascati a Orsay, in Francia, dove esiste un efficiente generatore di positroni – sono risolti. Ada è pronta. E funziona.
La macchina è un prototipo. Non ha energia sufficiente per produrre nuova fisica. Ma gli italiani hanno dimostrato che è possibile costruire macchine di concezione nuova, a fasci collidenti di particelle e di antiparticelle che viaggiano in un solo anello. Esiste, dunque, una «via italiana alle alte energie». Una via di assoluto successo: seguita da Lhc e da circa 80 acceleratori non lineari sparsi per il mondo.

l’Unità 1.12.11
Moni Ovadia e i suoni rom della vita
di Maria Grazia Gregori


Moni Ovadia ci ragiona e canta, ci ragiona e dice, ci ragiona e ascolta. Con un cappelluccio sulle ventitré si muove per la scena raccontando di rom, di sinti («zingari» secondo la voce popolare) e di ebrei, gente segnata, pur nella diversità della propria storia, da persecuzioni e campi di sterminio, citando Joseph Roth e i suoi ebrei orientali erranti come gli zingari e di zingari erranti come gli ebrei. Senza confini. Ebrei e zingari suona infatti il titolo del suo spettacolo concerto al Teatro dell’Elfo. Con una differenza dice Ovadia sornione: che gli ebrei dopo la guerra «sono entrati nel salotto buono» mentre il popolo dei rom ha continuato una vita segnata dall’emarginazione e dal razzismo. E pensare, sostiene il nostro ironico «buttafuori» che senza di loro non ci sarebbe ancora oggi tanta musica che amiamo, in Europa e in America. Ce lo dimostra lo straordinario complesso che lo accompagna formato da Ion Stefanescu, immenso violinista , Albert Florian Mihai, «principe» della fisarmonica, Marian Serban che fa meraviglie con il cymbalon, Marin Tanasache (contrabbasso) tutti rom insieme a Paolo Rocca (clarinetto) e Massimo Marcer (tromba) per i quali la musica non è solo virtuosismo ma gioco, stupore filtrato da quella magia che sarebbe piaciuta a Fellini.
SENZA CONFINI
Ovadia non riempie di sé tutta la scena che spesso lascia ai musicisti con i quali intreccia il suo canto e le sue parole nella luce cruda dei riflettori per raccontarci una verità molto semplice ma apparentemente tanto difficile da capire: la diversità delle culture non va guardata con ostilità piena di pregiudizi, ma è un’enorme opportunità di arricchimento per tutti in una società che sappia abbattere i muri dell’incomprensione. Senza confini, a briglia sciolta dentro una musica come quella rom il cui cuore pulsa dentro la musica colta, in quella popolare russa, nel grande musical americano, nella vita che viviamo, nei suoni che amiamo.

La Stampa 1.12.11
Scoperta un’antica città copta


Un’antica città copta del IV secolo d.C. è stata scoperta ad Ayn al-Sabil, nell’oasi di Dakhla, nel Sud dell’Egitto. Lo ha annunciato il segretario generale del Consiglio supremo per i Beni archeologici in Egitto, Mustafa Amin, spiegando che gli scavi hanno portato alla luce una chiesa a pianta basilicale e una serie di edifici annessi destinati a monaci, sacerdoti e visitatori. Sul sito sono state raccolte molte monete di bronzo del III-IV secolo d.C. e diversi frammenti di terracotta.

Corriere della Sera 1.12.11
Il segreto dell’editoria e l’arte di «dire no»
Contro l'omologazione culturale, riscopriamo la critica
di Roberto Calasso


Quando un giorno qualcuno proverà a scrivere una storia dell'editoria del secolo XX si troverà di fronte a una vicenda affascinante, avventurosa e tortuosa. Ben più di ciò che si incontra trattando dell'editoria del secolo XIX. E fu proprio nel primo decennio del Novecento che si manifestò la novità essenziale: l'idea della casa editrice come forma, come luogo altamente idiosincratico che avrebbe accolto opere reciprocamente congeniali, anche se a prima vista divergenti o addirittura opposte, e le avrebbe rese pubbliche perseguendo un certo stile precisamente delineato e ben distinto da ogni altro. Fu questa l'idea — mai esplicitata perché non sembrava necessario — intorno a cui alcuni amici si raccolsero per fondare due riviste, «Die Insel» in Germania e «La Nouvelle Revue Française» in Francia, prima che, grazie all'impulso rispettivamente di Anton Kippenberg e di Gaston Gallimard, alle riviste venisse ad aggiungersi una nuova casa editrice fondata sugli stessi criteri. Ma la stessa idea, ogni volta in una variante singolare e non collegata necessariamente a una rivista, avrebbe guidato, negli stessi anni, editori così diversi come Kurt Wolff o Samuel Fischer o Ernst Rowohlt o Bruno Cassirer e, più tardi e in altri paesi, Leonard e Virginia Woolf o Alfred Knopf o James Laughlin. E infine Giulio Einaudi, Jerôme Lindon, Peter Suhrkamp, Siegfried Unseld.
Nei primi casi che ho citato si trattava di borghesi abbienti e colti, accomunati da un certo gusto e da un certo clima mentale, che si lanciavano nella loro impresa per passione, senza illudersi di renderla economicamente fruttuosa. Fare denaro producendo libri era, allora e anche oggi, una scelta fra le più aleatorie. Con i libri, come tutti sanno, è facile perdere molto denaro, mentre è arduo farne — e comunque in quantità poco rilevanti, utili soprattutto per continuare a investire. Le sorti industriali di quelle imprese sono state le più disparate: alcune case editrici, come Kurt Wolff, si sono chiuse nel giro di pochi, gloriosi anni; altre, come Gallimard, sono tuttora vivissime e ancorate alle proprie origini. Ogni volta quelle case editrici avevano sviluppato un profilo ben netto e inconfondibile, definito non soltanto dagli autori pubblicati e dallo stile delle pubblicazioni, ma dalle molte occasioni — in termini di autori e di stile — a cui quelle stesse case editrici avevano saputo dire no. Ed è questo punto che ci avvicina all'oggi e a un fenomeno opposto a cui stiamo assistendo: lo definirei l'obliterazione dei profili editoriali. Se si paragonano il primo decennio del Novecento e quello appena trascorso, si noterà subito che sono caratterizzati da due tendenze palesemente contrarie. Nei primi anni del Novecento si stava elaborando quell'idea della casa editrice come forma che poi avrebbe dominato tutto il secolo, dando talvolta un'impronta decisiva alla cultura di certi paesi in certi anni (come accadde con la «Suhrkamp culture» di cui parlò George Steiner a proposito della Suhrkamp di Unseld in rapporto alla Germania degli anni fra il Settanta e il Novanta o anche con l'Einaudi di Giulio Einaudi in rapporto all'Italia fra gli anni Cinquanta e Settanta). Nei primi dieci anni del secolo ventunesimo si è assistito invece a un progressivo appannamento delle differenze fra editori. A rigore, come ben sanno gli agenti più accorti, oggi tutti competono per gli stessi libri e il vincitore si distingue soltanto perché, vincendo, ne ha ricavato un titolo che si rivelerà un disastro o una fortuna economica. Poi, dopo qualche mese, che sia stato un successo o un fallimento, il libro in questione viene inghiottito nelle tenebre della backlist: magre tenebre, che occupano uno spazio sempre più ridotto e inessenziale, così come il passato in genere nella mente dell'ipotetico acquirente che la casa editrice vorrebbe conquistare. Tutto questo si avverte nei programmi e innanzitutto nei catalogues, quei bollettini assai significativi con i quali i libri vengono presentati ai librai — e che ormai hanno raggiunto un alto tasso di interscambiabilità, per il linguaggio, le immagini (incluse le foto degli autori) e le motivazioni suggerite per la vendita, infine per l'aspetto fisico dei libri. A questo punto, chi volesse definire che cosa una certa casa editrice non può fare, perché semplicemente non le si addice, si troverebbe in grave difficoltà. Negli Stati Uniti si può notare che il nome e il marchio dell'editore sono diventati una presenza sempre più discreta e talvolta quasi impercettibile sulle copertine dei libri, come se l'editore non volesse mostrarsi troppo invadente. Si obietterà: questo è dovuto a enormi cambiamenti strutturali che sono avvenuti e stanno avvenendo nel mercato del libro. Osservazione incontrovertibile, a cui però si può rispondere che tali cambiamenti non sarebbero di per sé incompatibili con la prosecuzione di quella linea della editoria come forma di cui ho parlato all'inizio. Di fatto, una delle nozioni oggi venerate in qualsiasi ramo di attività industriale è quella del marchio. Ma non si dà marchio che non si fondi su una netta, recisa selettività e idiosincraticità delle scelte. Altrimenti la forza del marchio non riesce a elaborarsi e svilupparsi.
Il mio timore è un altro: il drastico cambiamento nelle condizioni della produzione può aver indotto molti a credere, a torto, che quella certa idea dell'editoria, quale ha caratterizzato il secolo ventesimo, sia ormai, nell'illuminato nuovo millennio, obsoleta. Giudizio affrettato e infondato. Anche se occorre riconoscere che da qualche tempo non si vedono nascere imprese editoriali ispirate a quelle vecchie e sempre nuove idee. Un altro sintomo desolante è una certa mancanza di percezione della qualità e vastità dell'opera di un editore. Durante questa estate sono scomparse due grandi figure dell'editoria: Vladimir Dimitrijevic, editore dell'Âge d'Homme, e Daniel Keel, editore di Diogenes. La loro opera è testimoniata da cataloghi che comprendono migliaia di titoli con i quali un adolescente avido di letture potrebbe felicemente nutrirsi per anni. Ma ben poco di tutto questo traspariva sulla stampa che ha commentato la loro scomparsa. Di Daniel Keel si diceva, per esempio, che era un «amico dei suoi autori», come se questa caratteristica non fosse un requisito ovvio per qualsiasi editore. E per altro immancabile nei necrologi di certi editors, a cui si riconosce di aver seguito amorevolmente i loro autori. Ma un editore è cosa ben diversa da un editor. Editore è chi disegna il profilo di una casa editrice. E innanzitutto per la virtù e i difetti di quel profilo va giudicato e ricordato. Caso ancora più imbarazzante, la «Frankfurter Allgemeine» osserva che Daniel Keel aveva creato una terza possibilità fra la «letteratura seria» e la «letteratura di intrattenimento». Ma per Keel la stella polare del suo gusto letterario era Anton Cechov. Dovremmo includere anche Cechov in quella terra di nessuno che non è ancora «letteratura seria» e però va oltre la «letteratura d'intrattenimento» (e, nel caso di Diogenes, avrebbe dovuto includere scrittori come Friedrich Dürrenmatt, Georges Simenon o Carson Mc Cullers)?
Il triste sospetto è che questi giudizi siano una inconsapevole vendetta postuma per un felice slogan che Daniel Keel un giorno aveva inventato: «I libri Diogenes sono meno noiosi». Il presupposto ineccepibile di quella frase è che, alla lunga, soltanto la qualità non annoia. Ma, se la percezione della qualità in tutto ciò che definisce un oggetto — che sia un libro o una casa editrice — viene oscurata, perché la qualità stessa appare come un fattore irrilevante, la strada si apre verso una implacabile monotonia, dove l'unico brivido sarà dato dalle scosse galvaniche dei grandi anticipi, delle grandi tirature, dei grandi lanci pubblicitari, delle grandi vendite — e altrettanto spesso delle grandi rese, destinate ad alimentare la fiorente industria del macero.
Infine, appare ogni giorno più evidente che, per la tecnologia informatica, l'editore è un intralcio, un intermediario di cui volentieri si farebbe a meno. Ma il sospetto più grave è che, in questo momento, gli editori stiano collaborando con la tecnologia nel rendere superflui se stessi. Se l'editore rinuncia alla sua funzione di primo lettore e primo interprete dell'opera, non si vede perché l'opera dovrebbe accettare di entrare nel quadro di una casa editrice. Molto più conveniente affidarsi a un agente e a un distributore. Sarebbe l'agente, allora, a esercitare il primo giudizio sull'opera, che consiste nell'accettarla o meno. E ovviamente il giudizio dell'agente può essere anche più acuto di quello che, un tempo, era stato il giudizio dell'editore. Ma l'agente non dispone di una forma, né la crea. Un agente ha soltanto una lista di clienti. O altrimenti si può anche ipotizzare una soluzione ancora più semplice e radicale, dove sopravvivono solamente l'autore e il (gigantesco) libraio, il quale avrà riunito in sé le funzioni di editore, agente, distributore e — forse anche — di committente.
Viene naturale domandarsi se questo significherebbe un trionfo della democratizzazione o invece dell'ottundimento generale. Per parte mia, propendo per la seconda ipotesi. Quando Kurt Wolff, esattamente cento anni fa, pubblicava nella sua collana «Der Jüngste Tag», «Il giorno del giudizio», prosatori e poeti esordienti i cui nomi erano Franz Kafka, Robert Walser, Georg Trakl o Gottfried Benn, quegli scrittori trovavano immediatamente i loro primi e rari lettori perché qualcosa attirava i lettori già nell'aspetto di quei libri, che si presentavano come snelli quaderni neri con etichette e non erano accompagnati né da dichiarazioni programmatiche né da lanci pubblicitari. Ma sottintendevano qualcosa che si poteva già percepire nel nome della collana: sottintendevano un giudizio, che è la vera prova del fuoco per l'editore. In mancanza di quella prova, l'editore potrebbe anche ritirarsi dalla scena senza essere troppo notato e senza suscitare troppi rimpianti. Allora però dovrebbe anche trovarsi un altro mestiere, perché il valore del suo marchio sarebbe vicino a zero.

il Riformista 1.12.11
È incredibile la popolarità del Caravaggio?
di Adele Cambria


ROMA. La mostra a Palazzo Venezia mira a ridare visibilità a quegli artisti «che ebbero la sventura di vivere a Roma nei primi decenni del Seicento»

Non ho niente contro le mostre, in una vita affaticata da mille impicci burocratici non puoi decidere oggi non faccio niente e invece vado a rivedere il Caravaggio del “Riposo in Egitto” con il meraviglioso Angelo che suona il violino, alla Galleria Doria Pamphilj. Quindi il richiamo di uno slogan mi fa segnare sull’agenda quando si apre l’Evento (parola francamente orribile)...
Così è stato per “Roma al tempo del Caravaggio, 16001630”, la mostra appena inaugurata a Palazzo Venezia. Mi ha stupita l’aggettivo “incredibile” con cui la curatrice Rossella Vodret, Soprintendente per il Patrimonio Storico e Artistico e
per il Polo Museale della Città di Roma, ha definito «la popolarità raggiunta dal Caravaggio nei tempi moderni».
L’intento della mostra, secondo Vodret, è quello di «rendere giustizia e visibilità a quegli artisti che ebbero la sventura di vivere a Roma nei primi decenni del Seicento ...»
Sono andata a vedere i quadri, senz’altro ci sono delle belle sorprese, almeno al mio livello di volenterosa utente: parlo di una allegra “Natività” di Rubens con un piacente giovane pastore avvolto in un mantello rosso in primo piano, della toccante Susanna, dipinta da una diciassettenne Artemisia Gentileschi, e ancora di Orazio Gentileschi e del suo grande quadro notturno, dove l’Arcangelo Michele, rutilante di luce, le ali candide spiegate, l’elmo e lo scudo dai bagliori metallici, aggredisce il demonio (non meno atletico), adorno di due lugubri ali di pipistrello.
Tutto bene, dunque, se non fosse che su quasi duecento opere in mostra, del Caravaggio ce ne sono soltanto tre. Due sono definite le “Nuove proposte”: la prima offre un malinconico Sant’Agostino, proveniente dalla collezione Giustiniani, e la cui attribuzione è frutto della “carta d’identità” che gli ha fornito, in anni di ricerche, la studiosa Silvia Danesi Squarzina, una identificazione peraltro non condivisa da Claudio Strinati; la seconda è una struggente “Flagellazione di Cristo alla colonna”, ascritta dal Vasari a Giulio Romano, ma che Maurizio Calvesi che firma la scheda in catalogo aveva fin dal 1971 ipotizzato come un’opera lasciata incompiuta dal Pederzano e poi affidata al “grande allievo” Caravaggio. Dico al Professore Claudio Strinati che mi piace, questo giovane uomo legato alla colonna e che potrebbe ben difendersi, a parte la natura divina, anche soltanto con la forza dei suoi musco-
li,enonlofa.
«E a Lei piace, Professore?»,«Mi piace molto, ma per quel che riguarda l’eventuale attribuzione al Caravaggio mi sono limitato ad osservare che in questo caso l’autore sarebbe soltanto il Caravaggio, non il Pederzano.»
Ma è la terza opera, questa universalmente nota come dipinta dal Caravaggio, e cioè la Madonna di Loreto, o dei Pellegrini, a riconquistarmi ancora una volta: l’idea-base di Rossella Vodret è stata quella di af-
fiancarla ad una pala d’altare dello stesso soggetto, firmata da Annibale Carracci e bottega.
L’operazione mi sembra esplicita: “affiancare” Caravaggio ad Annibale Carracci. Eppure oso dire che la leggenda popolare della casa della Madonna portata in volo a Loreto è stata trasposta nella composizione del Carracci, con la forza suggestiva (a quei tempi) di una immaginetta sacra.
Nel Caravaggio la casa sparisce, ma i piedi sporchi del pellegrino inginocchiato davanti a una giovane madre anche lei scalza, che regge in braccio un bambino già grandicello, e rivolge uno sguardo colmo di pietas impotente ai due supplicanti, un uomo e una donna anziana, poveri quanto lei, come dimenticarli?