domenica 4 dicembre 2011

l’Unità 4.12.11
La scommessa del Pd:
investire sulla cultura per far ripartire il Paese
Idee e proposte dagli Stati generali dei Democratici: «Da qui nasce lavoro» Veltroni: «Costruire un nuovo modello di crescita». Oggi chiude Bersani
di Maria Zegarelli e Luca Del Frà


Le Officine Marconi sono fuori dalla città e dal suo cuore pulsante. Una ex fabbrica, quale luogo migliore per assemblare i tanti pezzi che compongono la macchina della cultura, mai così in sofferenza come in questi anni dove c’è stato chi la considerava addirittura superflua, perché “non si mangia”. E qui, agli «Stati generali» organizzati dal Pd i pezzi ci sono tutti, e colpisce accanto a quella di scrittori, artisti dello spettacolo, la presenza mai così numerosa degli operatori dei Beni culturali, archeologi, restauratori e architetti. Sono lavoratori, «non è una platea di partito» – come dice l’organizzatore Matteo Orfini, responsabile del settore per il Nazareno – «Sono i 450 rappresentanti che sono stati delegati in oltre 70 incontri svolti su tutto il territorio». Quello che sperano non è cosa semplice: rimettere al centro della Politica, quella con la “P” maiuscola, la cultura, proprio adesso, quando la crisi è più acuta e i morsi si fanno sentire come mai. E non è un caso, allora, se «i tassi di accesso culturale più bassi sono in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda, ovvero proprio quei paesi che sono stati colpiti dalla crisi» spiega Orfini aprendo i lavori.
Giovanna Melandri, ministro per i Beni culturali dal 1998 al 2001, non ha dubbi: «Usciremo dalla marginalità soltanto se dimostreremo che le politiche culturali sono cruciali per la crescita del Paese». E a Stefano Fassina e Pier Luigi Bersani suggerisce: «Dovrebbero essere parte integrante del programma economico del partito». Fassina a sua volta non tarda a battere un colpo: «Cultura e lavoro – conclude nel suo intervento – sono facce della stessa medaglia». Nessuna lagnanza per la scarsità delle risorse nei tanti interventi, ma una massa enorme di proposte: dalla regolamentazione delle professioni culturali, alla necessità di una centralità del ministero dei Beni Culturali per la tutela del territorio, ribadita da Irene Berlingò di Assotecnici, alla necessità di un welfare per i lavoratori dello spettacolo, secondo Maurizio Roi dell’Agis fattibile con i contributi che l’Empals non riesce a erogare e accumula, alla forza politica che possono avere i modelli culturali nella vita, come ha ricordato Vincenzo Vita della commissione cultura del Senato.
«È importante che gli intellettuali abbiano risposto a questo appello – chiosa Orfini – a ritrovare la gioia dell’impegno civile per cambiare e non conservare vecchi privilegi». Che non sia una platea tenera lo dimostra Paola Stelzter, trentina scesa fino a Roma per protestare contro il sindaco di Trento, Alessandro Andreatta del Pd, che vuole tagliare i fondi alla Galleria Civica della città che rischia di chiudere: lei come imprenditrice la sostiene economicamente e come militante del Pd vuole occupare per farla rimanere aperta.
Roberto Cecchi, fresco di nomina a sottosegretario ai Beni Culturali, denuncia subito le condizioni del ministero che rischia di non ottemperare più al dettato della Costituzione e cioè la tutela che, spiega non è più per il bene culturale, ma per il paesaggio. Rilancia la creazione dei piani paesaggistici con le regioni, chiosando: «Se ne parla dal 1937».
Walter Veltroni sceglie tre temi per il suo intervento conclusivo: cose, persone, parole. Ecco la chiave da cui ripartire, quella perduta in questi anni di crescente «paura, dettata dal tempo difficile che stiamo vivendo».
Cose, persone, parole per riaccendere la connessione di energie, per immaginare «un nuovo modello di crescita e di sviluppo» e per innestare «nuovi strumenti di regolazione». E più cresce la capacità di conoscenza più crescono le aspettative. Ma è quando diminuisce la speranza di vederle realizzate che si corrono i rischi più gravi: ecco perché la cultura, dice l’ex segretario Pd, oggi deve essere intesa «come opportunità, incontro, relazione tra produzione e fruizione», ricostruendo il tessuto sociale attraverso una continua connessione tra passato e futuro, «superando l’eterno presente». E se questo eterno presente sembra un tunnel, un modo per uscirne c’è: puntare sulla conoscenza, intesa come scuola, università, ricerca, cultura. Senza timidezza «per il finanziamento pubblico della cultura».

l’Unità 4.12.11
Intervista a Carlo Lizzani
«Agli intellettuali: la politica si fa insieme senza individualismi»
Il regista di «Achtung! Banditi!» all’iniziativa del Pd: il berlusconismo ha fallito per 15 anni nel settore culturale, la sinistra ritrovi l’energia
di Luca Del Frà


D opo la guerra il Paese era distrutto e dovevamo fare la nostra parte, allora abbiamo agito un po’ come una squadra, insieme: oggi non c’è questo senso di appartenenza». Lizzani Carlo, classe 1922, regista tra i protagonisti della stagione neorealista, saggista e critico: giunto nel suo novantesimo anno, è lui il grande vecchio degli Stati generali della Cultura del Pd, che si stanno tenendo a Roma.
Nella giornata di ieri ha scaldato con le sue parole il pubblico e i tantissimi delegati, e ci affida alcune riflessioni sul rapporto tra politica e cultura che negli ultimi anni si è venuto pericolosamente incrinando. I governi di centrodestra nel settore culturale hanno miseramente fallito, la sinistra ha perso quella egemonia che sembrava avere fino a venti anni fa, e gli intellettuali? La stessa parola intellettuali oggi non sembra più un complimento.
Allora, Lizzani, cosa è successo nel dopoguerra che ha reso così particolare la situazione italiana?
«Due cose fondamentali: la prima è che il neorealismo non era affatto un fenomeno naturalista, ma vi convergevano influssi diversissimi, dal surrealismo a tutte le altre avanguardie del Novecento. Il che comportava un rapporto gomito a gomito tra intellettuali diversissimi: registi, pittori, scrittori, musicisti».
E il rapporto con la politica, anzi con i politici?
«In quella generazione di intellettuali, la mia, metà si gettò nelle battaglie politiche, penso a Ingrao e a tanti altri, e l’altra metà si mise a lavorare nella cultura. A molti, come me, sembrava un arretramento, ma in quegli anni cominciarono a uscire i quaderni di Gramsci, dove scoprivamo che l’intellettuale era parte integrante della battaglia politica». L’egemonia e l’intellettuale organico, tutto questo non portava limitazione al vostro agire?
«Limitazioni direi di no. Scontri, attriti, sì. Mi torna in mente la polemica tra Togliatti e Vittorini, e quindi anche le fortissime incomprensioni e le divisioni. E poi occorre ricordare che quell’egemonia era anche un po’ regalata: il potere democristiano considerava pericolosi sovversivi registi come Germi, Lattuada e perfino Monicelli, che era iscritto al Partito Socialista ma era un feroce anticomunista. E questo solo perché affrontavano temi scottanti. In definitiva con tutti gli scontri, le scomuniche e le eresie, a me quegli anni sembrano molto più interessanti di quanto accade oggi».
E che accade oggi?
«Anche a sinistra abbiamo assistito a uno scollamento: da una parte una forma di abbandono degli intellettuali da parte della politica, dall’altra gli intellettuali hanno risposto con scelte sempre più individualiste».
In queste scelte individualiste è il modello berlusconiano che ha trionfato?
«Definirlo berlusconiano rischia di essere una semplificazione, e non ci fa comprendere un fenomeno complesso che riguarda tutti, profondamente. Ancora la generazione di Bellocchio e dei Taviani stava insieme, si concentrava su un lavoro politico che era fatto di pazienza e reciproca comprensione, oggi si fanno scelte diverse, forse più sbrigative».
Per esempio la vicinanza di molti intellettuali agli indignati?
«È un buon esempio: la cause della protesta degli indignati sono nobili, giuste, condivisibili. Ma tutto viene affrontato sull’onda di un’emozione, che sembra comodo cavalcare. Occorre anche porsi di fronte a un lavoro intellettuale, non dico risolverli, ma almeno affrontarli quei problemi».
E la sinistra, la sua classe politica non ha nulla da rimproverarsi? «Nel tempo si è sfilacciato il contatto continuativo tra politici e intellettuali e anche in questi ultimi fra loro. E così è successo che anche la vicinanza tra intellettuali e politici ha funzionato più come immagine che non come stimolo per entrambi. Ma questi quindici anni di Berlusconi ci devono insegnare che la destra ha fallito miseramente in questo settore. Così resta una enorme potenzialità di egemonia».
In che senso?
«La politica si fa stando insieme, scontrandosi e ascoltando, cose che oggi accadono sempre meno. È indubitabile che iniziative come gli Stati Generali del Pd mostrino una rinnovata attenzione alla cultura, ma poi l’impressione è che ognuno torni nel suo alveo. Non dovrebbe accadere».

il Fatto 4.12.11
Gli italiani dicono basta ai santissimi privilegi del Vaticano
L’87% dei cittadini non ammette scappatoie della Chiesa sull’Ici
E solo il 33 vuole l’esenzione per parrocchie e conventi
di Marco Politi


Gli italiani vogliono che la Chiesa paghi l’Ici. Solo il 12% appoggia l’esenzione totale. Sarà bene che il governo Monti ne tenga conto. Perché sacrifici per tutti deve significare veramente per “tutti”. Non è il proclama di un bollettino ateo. È il risultato di una seria e ampia inchiesta sulla religiosità dell’Italia contemporanea, condotta da Franco Garelli uno dei più importanti sociologi cattolici, già autore negli anni Novanta di una fondamentale indagine per conto della Conferenza episcopale.
L’inchiesta rivela che gli italiani sono portatori di una fede molto individualizzata, flessibile, attenta ai grandi valori indicati dalla Chiesa cattolica. Ma sono fedeli dotati di grande realismo nel giudicare gli appetiti economici e politici della gerarchia ecclesiastica.
DUNQUE se l’inchiesta registra un’adesione di principio del 57% di interrogati al sistema dell’8 per mille per finanziare le varie religioni (pur mancando spiegazioni e risposte specifiche sul meccanismo distorto che non rispetto il “non-voto” della maggioranza degli italiani) sull’Ici l’italiano non scherza: l’87% non ammette scappatoie perché la Chiesa non paghi, approfittando di attività economiche agganciate a edifici religiosi. Il 54,8 afferma seccamente di essere “contrario a qualsiasi tipo di esenzione”. Il 32,9 l’ammette unicamente per “edifici a finalità religiosa”.
Finora la Cei non ha mai voluto scremare con una propria accurata inchiesta interna quanti siano i propri enti che approfittano di un’interpretazione capziosa delle legge attuale (che ammette una zona grigia basata sull’esenzione “anche” ad attività economiche legate a un edificio religioso), mentre i governi precedenti non hanno avuto il coraggio di limitare le esenzioni “esclusivamente” alle mura di chiese, cappelle o conventi. La grande maggioranza della società – lo testimonia F. Garelli Religione all’italiana ed. Mulino – non condivide nemmeno la continua richiesta di soldi delle autorità ecclesiastiche per le scuole confessionali. Il 43% è in linea con la Costituzione e sostiene che “chi vuole scuole non statali se le paghi”, mentre un altro 37% ritiene che la scuola “debba essere soltanto statale”.
Da questo punto di vista gli italiani, che al 70% (tra convinti e agitati da dubbi) affermano di credere in Dio e che al 65% sarebbero allarmati se chiudesse la parrocchia di quartiere e che invitano al 71% la Chiesa di tenere fermi i propri principi, esprimono poi nel concreto giudizi molto precisi. Il 63% ritiene che “la Chiesa predica bene, ma non mette in pratica ciò che afferma”. E due terzi degli italiani sostengono che “oggi in Italia la Chiesa e le organizzazioni religiose hanno troppo potere”.
LA RICERCA di Garelli è estremamente ricca e porta alla luce molte contraddizioni degli italiani e dei cattolici, suddivisi a loro volta in: convinti e attivi, convinti non sempre attivi, cattolici per tradizione ed educazione, infine persone che “condividono alcune idee del cattolicesimo”. La stagnazione del pontificato ratzingeriano, che non affronta nodi cruciali della vita ecclesiale, risalta dai giudizi espressi in merito ad alcuni tabù del Vaticano. Il 47% è favorevole ad abolire il celibato (contro il 33 che lo vuole mantenere). Paradossalmente è ancora minore l’opposizione al sacerdozio delle donne. Contrari 27%, favorevoli 43, sullo sfondo di un 28% incerto.
Papa Ratzinger da alcuni anni ha perso il consenso della maggioranza degli italiani. Il suo governo ha provocato una spaccatura netta. Il consenso nei suoi confronti si ferma al 49,4%.

il Fatto 4.12.11
Partiti e lobby. Chi tira i fili del governo tecnico
Dalle banche al Vaticvano, al Colle, altro che “indipendenti”
di Paolo Zanca


Il governo dei tecnici, tanto tecnico non è. Per mettere insieme l’esecutivo dell’emergenza, Mario Monti ha dovuto applicare alla lettera il manuale Cencelli e spartire gli incarichi tra partiti, lobby e poteri forti. Pdl, Pd e Terzo polo non hanno resistito alla tentazione di “suggerire” nomi: e se Monti ha chiuso la porta ai politici di professione, non ha potuto dire no a cattedratici, prefetti, ammiragli e funzionari di provata esperienza (e di provata fede).
Così la pattuglia di ministri e sottosegretari si popola di facce sconosciute al popolo, ma familiarissime ai potenti. Il sistema delle banche conta almeno 6 uomini, il Vaticano altrettanti. Dai Ciampi boys alle personalità internazionali anche l’area del Colle ha i suoi rappresentanti al governo. Senza parlare dei partiti che si sono divisi le poltrone con il bilancino degli attuali seggi in Parlamento. E la chiamavano “discontinuità”.

l’Unità 4.12.11
Bersani chiede equità «Adesso paghi di più chi ha avuto privilegi»
Bersani nell’incontro di ieri sera con il premier ha presentato le proposte del Pd: equità, liberalizzazioni, patrimoniale, per far dare di più a chi finora non ha dato. Nel partito l’obiettivo è: manterere l’unità. Militanti preoccupati.
di Maria Zegarelli


«Andiamo a Palazzo Chigi chiedendo che questa manovra sia equa, che imponga di dare di più a chi finora ha dato di meno e che non sia recessiva, che preveda misure per la crescita e la revisione per le procedure beauty contest, ossia la gara per le frequenze digitali, oltre alla riduzione dei costi della politica». Pier Luigi Bersani con questo spirito ieri sera alle nove e mezza ha incontrato il presidente del Consiglio, insieme ai capigruppo Finocchiaro e Franceschini, sapendo quanto la partita sia difficile e fondamentale. Il Pd appoggia questo governo, con responsabilità, senza porre veti, ma con le «proprie idee», consapevole della grande preoccupazione nell’opinione pubblica e dei rischi, anche in termini di consensi, che corrono al Nazareno. Le «proprie idee» ieri sera erano contenute in una cartella che il segretario ha portato con sé, molti degli emendamenti presentati durante le due manovre d’estate, e che ha illustrato al premier: dall’introduzione di una patrimoniale reale, non simbolica, a un pacchetto di liberalizzazioni, interventi per la razionalizzazione e dell’efficientamento della pubblica amministrazione e quindi della spesa pubblica.
Ma è soprattutto dei punti dolenti per il Pd che si è discusso: il blocco delle indicizzazioni delle pensioni rispetto all’inflazione e il tetto delle pensioni di anzianità che dovrebbe essere alzato a 42 anni di contribuzione. «Non si può bloccare l’adeguamento all’inflazione delle pensioni inferiori ai mille euro al mese», ha spiegato il leader Pd, così come per le anzianità è necessario prevedere modulazioni: non si può chiedere a chi ha iniziato a lavorare prima dei 18 anni di età, facendo lavori anche pesanti, di continuare a farlo oltre i 40 anni di contribuzione. Bersani ha ribadito a Monti in privato quello che ha detto più volte pubblicamente: c’è bisogno di un cambio di passo, non si può chiedere sempre e soltanto a chi ha già dato, a chi questa volta non sarebbe in grado di sostenere ulteriori sacrifici perché è già sui livelli minimi. Bisogna dare un segnale forte al Paese con misure che stavolta chiamino in campo chi è stato fino ad ora agevolato dai condoni fiscali, edilizi e dai privilegi di casta. Dunque, una tassa sui grandi patrimoni immobiliari, una seria lotta all’evasione attraverso la tracciabilità delle transazioni, un elenco clienti-fornitori, la comunicazione all’Agenzia delle entrate dei saldi dei conti correnti, obbligo di indicare nella dichiarazione dei redditi l’ammontare del patrimonio. «Noi ribadiamo la nostra posizione sull'equità come segno di discontinuità al governo Berlusconi. I redditi bassi hanno già dato tanto e altri soggetti sociali devono iniziare a contribuire», ha ribadire ieri il responsabile Economia Stefano Fassina, che martedì mattina incontrerà i capigruppo delle Commissioni Bilancio, Lavoro e Finanze di Camera e Senato per valutare le misure e decidere insieme la strategia per l’aula. L’obiettivo è anche quello di preservare l’unità con cui finora il Pd ha gestito la battaglia per mandare a casa Berlusconi e poi quella per la nascita del governo di «salvezza nazionale». «Il Pd non è mai stato unito come adesso e convinto della necessità di questo passaggio: l'abbiamo gestito bene tutti insieme», ha detto Walter Veltroni in un’intervista al Corriere. «Approvata questa manovra è necessario che finisca il gioco delle ombre cinesi, di una politica che c’è ma non si vede e vota per forza – dice Beppe Fioroni , per passare a un sostegno corresponsabile e profondamente riformatore. Questo sarà un modo per sciogliere i nodi di merito anche nel nostro partito». Ma si deve gestire questa fase e tanti elettori e militanti del Pd in migliaia di email inviate al Nazareno chiedono cosa succederà, quanto ancora dovranno pagare.
E Bersani sa bene che il mondo di riferimento del Pd, gran parte del quale è lo stesso che ieri si è incontrato al PalaLottomatica, se ha capito e premiato – come dimostrano i sondaggi che danno il partito tra il 28,5% e il 32% la linea della responsabilità, oggi si aspetta però che il Pd riesca ad essere incisivo rispetto alle misure anticrisi che il governo sta per varare.

l’Unità 4.12.11
All’assemblea dei delegati il segretario Cgil difende pensioni e articolo 18
Oggi con Cisl e Uil all’incontro con Monti: non sia solo una comunicazione
La Cgil non smobilita Camusso al governo: equità e discontinuità
In un’ora di intervento Camusso avverte il governo: pronti a contrastare scelte sbagliate. Il programma per la discontinuità della Cgil parte da patrimoniale e lotta all’evasione, piano per il lavoro e infrastrutture.
di Massimo Franchi


«Arrivederci a presto». Susanna Camusso saluta così i 15mila del PalaLottomatica. L’invito però sembra riferito più al governo. Certo, oggi il segretario generale della Cgil risponderà «alla convocazione, che non avveniva da tempo, a palazzo Chigi». Ma «il rischio che sia fin troppo ampia e si traduca in una mera comunicazione» porta a far mettere le mani avanti sul contenuto della manovra: «Le scelte di equità daranno la misura del nostro giudizio» e «tagliare sanità e Irap alle imprese non lo sarebbero». Il messaggio a Monti è quindi chiaro: «Per tre anni non ci siamo rassegnati e abbiamo promosso il cambiamento; non ci rassegniamo oggi: le nostre proposte sono le nostre bandiere e siamo altrettanto determinati a contrastare scelte che riterremmo sbagliate».
CURARE IL LAVORO
Ad ascoltare il segretario generale della Cgil ci sono vari esponenti del Pd (Damiano e Baretta in prima fila), Nichi Vendola e alcuni rappresentati della segreteria della Uil (calorosamente salutati). L’espressione chiave del discorso è «curare il lavoro», «averlo a cuore come misura collettiva delle vita», «grazie ai diritti e ai contratti». E la prima vera discontinuità chiesta al governo è quella di «ripartire dal lavoro per non essere in straordinaria continuità col governo che se n’è andato».
«I numeri magici, i limiti invalicabili» di Camusso diventano due. Se giovedì aveva anticipato «i 40 anni di anzianità per andare in pensione», specificando ieri che «non tutelano solo gli operai del nord ma tantissimi lavoratori pubblici, dai pompieri alle infermiere, mansioni ugualmente pesanti», e che 40 è «una quota che non deve essere un’imposizione, ma un diritto per le persone che potranno poi scegliere di rimanere al lavoro»; ieri ha aggiunto l’articolo 18: «Non ci convinceranno mai a cambiarlo».
L’altro No chiaro e tondo è sulla rivalutazione delle pensioni, possibile oggetto della nuova manovra. «In una situazione di impoverimento quale mente può pensare al blocco della perequazione delle pensioni come risposta? Come si può dimenticare che i pensionati stanno mantenendo i giovani che non trovano lavoro?», chiede il segretario.
In un’ora di discorso, Susanna Camusso sceglie di non nominare alcun interlocutore. Non Sacconi, quando parla di articolo 8 («ultimo lascito di quel ministro, che combatteremo a partire dalla Corte Costituzionale»), né la Fiat quando parla della «volontà di cancellare la Cgil da quell’azienda» chiedendo al governo «di partire dalla modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori», quello “sfruttato” da Marchionne per il passaggio dalle Rsu alle Rsa nell’estendere il modello Pomigliano all’intera Fabbrica Italia. Ai tanti giovani sul palco e in platea Camusso ribadisce la necessità di «allargare a tutti gli ammortizzatori sociali» e di «tornare ad avere un criterio nel rapporto lavoro-retribuzione per favorire il tempo indeterminato ed evitare gli scandali dei compensi dei manager, a partire da Finmeccanica, dove chi ne ha rovinato l’immagine è stato liquidato con milioni». L’altra proposta è quella di «estendere l’obbligo scolastico a 18 anni, legando lavoro e studio».
LA PREVIDENZA DEI GIOVANI
Le proposte sono precise e sono indirizzate al nuovo governo con l’invito a «non rovinarci la festa» partita con l’addio di Berlusconi. Se «equità e coesione sono parole usate da Monti» vanno coniugate con «un’imposta sulle grandi ricchezze, lotta all’evasione, con tracciabilità sotto i 500 euro, elenco fornitori-clienti, banche dati, contratti di emersione e accordo con la Svizzera per capire dove sono finiti i capitali». In più serve «un grande piano per il lavoro dei giovani» e sulla loro pensione la proposta di «integrare subito quel 6% di indicizzazione persa per il calo del Pil di questi anni». Non dimenticando «un piano energetico, l’allentamento del patto di stabilità per i Comuni», «treni e infrastrutture per il Sud».

Repubblica 4.12.11
Bersani attacca: troppo poco contro gli evasori
Camusso: ci sono punti indigeribili. Alfano: non paghino i soliti. Bossi: indipendenza
di Silvio Buzzanca

Lega, Zaia e Cota ricevuti a Palazzo Chigi. Vendola: Monti cambi musica o sono guai
Casini: medicina amara, occorre tutelare le famiglie Critiche severe anche da Cisl e Uil

ROMA - «Ci sono molte cose che non ci convincono. Abbiamo detto a Monti che bisogna attenuare il carico sulle fasce deboli e i pensionati, e che le misure sull´evasione sono insufficienti». Così il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al termine di oltre due ore di vertice con il premier. È l´ultimo in ordine di tempo, e forse il più pesante politicamente, dei giudizi espressi ieri dai leader di partito che sostengono il governo.
Di «medicina severa e amara» aveva parlato in mattinata il leader del Terzo polo Pier Ferdinando Casini. Il segretario del Pdl Angelino Alfano ha sottolineato la necessità di «non colpire i soliti». Intanto la Lega riunisce oggi il Parlamento padano e rilancia la secessione con un titolo della "Padania": "Indipendenza unica via. Bossi: ma sia consensuale".
Le critiche a Monti sono state un crescendo. Dall´assemblea dei delegati Cgil, il segretario Susanna Camusso aveva avvertito: «Se sono queste le proposte del governo sono indigeribili». Al centro dell´attacco ci sono soprattutto le pensioni. Quelle presenti e quella future. E la Camusso avverte Palazzo Chigi di essere «pronta a sostenere le scelte giuste ma anche determinata a contrastare quelle che riteniamo sbagliate». Un avvertimento che ha il sapore dell´arrivo di manifestazioni di piazza. Giudizi negativi anche dalla Uil e dalla Cisl. «La preoccupazione maggiore è la contrazione dei consumi legata alla diminuzione del potere d´acquisto», dice il segretario Luigi Angeletti.
Ieri il presidente del Consiglio si è confrontato con la politica e i partiti che lo appoggiano, incontrando Alfano, Casini, Rutelli, Della Vedova e, in serata, Bersani. Alla fine del suo incontro il leader dell´Udc, - che ha chiesto «attenzione per la famiglia, grande dimenticata del paese», - parla di manovra «severa, molto pesante; quando il medico arriva in casa, difficilmente prescrive medicine buone. Le medicine sono sempre amare ma evitano al paziente di morire».
«Sui temi sociali», ha affermato Bersani, «abbiamo letto cose che non ci hanno convinto. Abbiamo quindi detto la nostra su tutte le questioni che riguardando le maggiori tutele per pensionati e pensionandi, e sui redditi bassi. Bisogna attenuare il carico». Bersani ha spiegato che è stato un «confronto impegnativo», quindi ha aggiunto: «nessuno più di noi conosce la gravità della situazione, il momento difficile sia nella dimensione internazionale che in quella nazionale». Il segretario pd ha anche ricordato: «noi lo abbiamo detto da tempo, anche quando si parlava di conti a posto... Questo significa che conosciamo l´esigenza di intervenire purtroppo con misure anche dolorose». Ma su diritti dei pensionati e lotta all´evasione «abbiamo letto misure non sufficienti alla bisogna, secondo noi». «Noi abbiamo detto quello che pensiamo, noi rispettiamo il lavoro del governo».
Alfano ha chiesto e a quanto pare ottenuto di alzare la soglia dei 55 mila euro oltre la quale scatterebbe l´aumento delle aliquote Irpef. «Quella cifra non è una soglia di ricchezza ma di quelli che sono già tartassati. Se ci fosse, avremo grandi problemi a votarla. Bisogna stare bene attenti a che non paghino sempre gli stessi», dice il segretario del Pdl.
Gli altri partiti contestano la manovra. Lo fa Antonio Di Pietro che dice di condividere i ragionamenti della Camusso e della Cgil. Nichi Vendola invita Monti a «cambiare musica o saranno guai». Ma i governatori Cota e Zaia, che diserteranno l´incontro di oggi con le Regioni, ieri si sono presentati a Palazzo Chigi. Li ha ricevuti il ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda.

Repubblica 4.12.11
Fassina, responsabile economico del Pd
"Trattativa fino all’ultimo per il massimo di equità"
Bisogna colpire chi ha evaso ed evade il fisco non chi ha fatto lavori pesanti. No al blocco Istat delle pensioni
di Giovanna Casadio


ROMA - «Lavoriamo ancora, trattiamo fino all´ultimo istante per realizzare il massimo di equità». Stefano Fassina, il responsabile economia, linea gauchista del Pd, tiene il punto.
Fassina, sarà una stangata, ma ve l´aspettavate?
«L´importante è che si tratti di un pacchetto di misure, e che dia chiarissimo il segno di discontinuità rispetto al passato governo Berlusconi. La partita non comincia ora, con il decreto del presidente Monti; è cominciata sin dall´inizio della legislatura: è da allora che i redditi bassi hanno perso 4 a 0. Bisogna insomma tenere conto del carico di iniquità che hanno avuto le manovre dell´esecutivo Berlusconi».
Ecco, l´equità è diventato una specie di mantra. Cos´è equo per i Democratici?
«Equo è far contribuire in questo sforzo chi non ha contribuito e in particolare i patrimoni di grande valore; equo è disturbare i signori dei 105 miliardi di capitali evasi condonati da Berlusconi, Bossi e Tremonti facendo pagare una miseria, il 5%, di tassa mentre negli altri paesi hanno versato il 30 o 40%. Equo è garantire l´indicizzazione delle pensioni; eque sono le misure efficaci di contrasto all´evasione come l´elenco clienti fornitori, oltre alla tracciabilità dei pagamenti».
Sull´aumento delle aliquote Irpef?
«Vedremo se ci sarà».
E i 40 anni massimo di contributi sono un numero sacro come dice la Camusso? A lei, Fassina, preme mantenere l´asse con la Cgil?
«Chi ha lavorato 40 anni va tutelato e non si penalizzi chi ha fatto lavori pesanti. A me interessa salvare l´asse con i lavoratori di questo paese».
Comunque ci saranno emendamenti del Pd in Parlamento?
«Lavoriamo perché l´equità ci sia sin dall´inizio nel decreto. E i parlamentari possono prendere le iniziative che ritengono».

Repubblica 4.12.11
Camusso (Cgil) chiede al governo Monti di correggere l´articolo 19. Landini: partita con la Fiat ancora aperta
"Rafforzare lo Statuto dei lavoratori rappresentanza certa per i sindacati"
di Paolo Griseri


La norma permette di escludere le sigle che non firmano gli accordi come capita a Fiom
Domani trattativa a Torino, il Lingotto vuole chiudere per sfruttare l´effetto Sacconi

ROMA - Per risolvere lo scontro alla Fiat «l´articolo 19 dello Statuto dei lavoratori va integrato con le libertà sindacali». Altrimenti, nell´attuale formulazione, «c´è il rischio che diventi una regola per sindacati di comodo». Susanna Camusso lancia la proposta di fronte all´assemblea nazionale dei delegati Cgil. La mossa cade alla vigilia della ripresa, domani a Torino, della trattativa tra Lingotto e sindacati per estendere a tutto il gruppo le clausole degli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori. Tra quelle clausole c´è l´estromissione dalla fabbrica della Cgil perché non firmataria degli accordi con Marchionne. Questo proprio in base a una interpretazione dell´articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che consegna solo ai sindacati firmatari degli accordi il diritto di essere presenti nei consigli di fabbrica. Situazione paradossale e anche giuridicamente dubbia, come dimostra la sentenza contraria emessa in estate dal Tribunale di Torino proprio contro la Fiat
Camusso definisce l´attuale formulazione dell´articolo 19 «una regola per i sindacati di comodo». Il paradosso infatti è che la norma consente a un mini sindacato di avere delegati perché ha firmato un contratto e nega al sindacato più grande di trattare perché non lo ha firmato. Una proposta di modifica dell´articolo 19 è stata presentata dall´ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. «Rimanere fuori dalla Fiat per la Cgil sarebbe una sconfitta», ha detto nei giorni scorsi Camusso. Per Maurizio Landini «oggi non c´è sconfitta perché la partita è ancora in corso. La Fiat ha usato i referendum in modo strumentale, quando le faceva comodo: tant´è vero che oggi l´accordo di Pomigliano viene esteso a 80 mila lavoratori senza referendum».
Tutto questo resta sullo sfondo di una trattativa che la Fiat intende invece chiudere rapidamente. Domani le parti si incontrano a Torino in un clima di grande tensione. Domani si fronteggeranno i lavoratori dei due fronti sindacali contrapposti. Nel campo del "sì" stanno affiorando alcune divisioni. Mentre per il Fismic domani «ci si siede al tavolo e si dichiara da subito che cosa si vuole fare, in modo che la trattativa vada avanti spedita», per la Fim «più che presto è necessario chiudere bene». Per la Uilm «si potrebbe chiudere entro metà mese», su «un accordo punte valido per il 2012». Uno dei motivi della fretta della Fiat potrebbe essere legato al tentativo di sfruttare fino in fondo l´effetto Sacconi, la posizione di vantaggio che nasce dall´impostazione data alla vicenda dal ministro precedente.



il Fatto 4.12.11
Il libro scritto da Lucio Magri
Il “Sarto” racconta la sinistra che non sa volare
di Luca Telese


E alla fine, ancora una volta, arrivò il successo postumo. Il “Sarto di Ulm”, l’ultimo libro di Lucio Magri, che nel 2009 aveva raccolto un coro di recensioni favorevoli, ma solo poche migliaia di copie vendute in libreria, ha bruciato cinquemila esemplari in due soli giorni, andando letteralmente a ruba, ed è andato esaurito. Certo, ancora una volta un libro e una vita si sono intrecciati fino a contorcersi, entrando in cortocircuito. Ancora una volta un libro racconta della vita e diventa motivo della sua prosecuzione mentre è in fase di scrittura, e una delle cause della morte, quando viene compiuto. Quanto avrà contato sui lettori? Difficile stabilirlo.
Certo che in questo successo, contano il clamore suscitato dal primo “suicidio assistito” venuto a conoscenza dell’opinione pubblica italiana. E conta di sicuro il dibattito innescato sul piano dei diritti civili, sui limiti e sulle potenzialità del fine vita.
Ma forse – a bene vedere – il risultato era già iscritto a pagina 387 del “Sarto di Ulm”, all’inizio del penultimo capitolo, dove interrompendo per un istante un saggio molto serio sulla sconfitta della sinistra, Magri apriva la strada all’irruzione del privato, con questa folgorante confessione: “Arrivo ora all’ultima tappa del mio lavoro, la fine del Pci. Ci arrivo in condizioni pessime. Anzitutto e soprattutto perché – dopo un breve intervallo – riprendo la penna in mano nel momento in cui vivo un dramma umano profondo. È scomparsa – scriveva il dirigente comunista nel 2009 – la mia amatissima compagna Mara: non solo un dolore, ma una amputazione di me stesso, che non si rimarginerà, rende opaca l’intelligenza e fiacca la volontà”. Come è incredibile il paradosso della letteratura, la trasmissione delle emozioni alla pagina. Il peso di due anni trascorsi da quel pubblico annuncio, con il senno del poi, rende queste righe ancora più pesanti, irrevocabili, drammatiche. Gettano una luce retroattiva sul suicidio, ma anche sull’ultimo lavoro di Magri: “Proprio sul letto di morte – aggiungeva infatti – Mara mi ha imposto la promessa di continuare a campare senza di lei, almeno fino a quando non avrò finito il lavoro che avevo cominciato durante gli anni delle sue sofferenze. E so che se sospendessi ora non sarei più in grado di mantenere la promessa”.
Il libro, come una missione. Ma anche come un lascito testamentario, un dovere da compiere. E forse, a ben vedere, il libro come un congegno a tempo, che può riattivarsi in qualsiasi momento. Il “Cappello di ciliege” di Oriana Fallaci sulla sua famiglia, per esempio, con la sua appendice di beghe ereditarie, memoriali e private. Oppure “il Gattopardo” di To-masi di Lampedusa, che diventa il romanzo chiave dell’identità nazionale, solo perché Elena Croce fa avere a Giorgio Bassani il manoscritto dopo la morte del suo autore. Oppure “L’ultimo giro di giostra” di Tiziano Terzani, scritto per tramandare un’idea della vita e sottrarla alla condanna della morte. Nel caso di Magri, invece, un libro già pubblicato torna improvvisamente attuale per il pubblico. Ed è tale il senso di urgenza che – esaurito provvisoriamente il tascabile (Il Saggiatore fa salti mortali per avere la ristampa martedì) i librai stanno esaurendo anche le rese della prima edizione (che pure costava 20 euro, 8 in più!) prontamente rimesse in circolo. Il che, probabilmente, farà gioire l’editore che non aveva avviato quel migliaio di copie al macero, come si fa abitualmente quando esce un’edizione più economica. Riccardo Gentile, il giovane e dinamico direttore della libreria Mondadori di piazza Cola di Rienzo – uno scienziato dei numeri – mi mostra sui tabulati l’unico esemplare venduto nel-l’ultimo anno, in contrasto con la pioggia di richieste di queste ore.
Eppure, a ben vedere, esiste un’altra verità, che Italo Calvino ha splendidamente riassunto in questo aforisma: “Un classico è un libro che non smette mai di dire quello che ha da dire”. Forse il testamento politico di Magri è attuale perché è una riflessione sofferta e appassionata sui perché di una sconfitta epocale. Forse perché è uno dei primi libri di un testimone diretto dei fatti: “Mi trovo ad affrontare – scrive – il tema più complesso e a sua volta doloroso, della fine del Pci proprio nel momento in cui non il Pci, ma l’intera sinistra sembra scomparsa, o in totale confusione: e contemporaneamente riaffiora una seria crisi dell’avversario che l’aveva sconfitta, e dunque sarebbe più che mai necessaria”. Chi mai potrebbe giurare che queste righe sono state scritte due anni fa e non oggi? Ecco che, come dice Calvino, il libro che riesce a diventare classico parla anche ai tempi che seguono. Così come l’evocazione del grande apologo brechtiano, quello sul Sarto di Ulm: “Quell’artigiano – scriveva Magri – fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò dal vescovo e gli disse: ‘Eccolo, posso volare’. Il vescovo lo condusse alla finestra dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e, ovviamente, si spiaccicò sul selciato. Tuttavia – commenta Brecht – alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare”. Magri ha scritto pensando al giorno – chissà quando – la sinistra avrà di nuovo le ali. Anche per questo un libro che ha venduto tremila copie in tre anni, può venderne tremila in tre giorni.

l’Unità 4.12.11
La Rai va alla guerra. Del profilattico
di Silvia Ballestra


La dirigenza di Radio Uno Rai ha diramato una nota perché nella giornata mondiale contro L’Aids non si dicesse in onda la parola «profilattico». È come se nella giornata mondiale contro gli incidenti stradali si proibisse di usa-re le parole «cinture di sicurezza», e il fatto si commenta da sé. Un buon dizionario dei sinonimi avrebbe potuto evitare la figuraccia. Condom (internazionale), profilattico (medico-farmaceutico), guanto (volgar-popolare), goldone (idem), contraerea (gergal-giovanile), impermeabile (anni 50), e ognuno continui come vuole, sbizzarrendosi nelle infinite declinazioni dialettali, regionali, metaforiche e immaginifiche del «profilattico» (qui si può dire). Ma fin qui siamo alla superficie.
Scavando un po’ la faccenda peggiora. Punto uno. In un primo momento dalla Rai hanno detto di aver seguito la linea del Ministero della Salute, ed è una prima scemenza: da quando un libero mezzo di comunicazione deve seguire le veline di un ministero? Punto due. Il ministero ha prontamente smentito dicendo di non aver emanato nessuna direttiva in proposito. Molto bene. Punto tre. Lo stesso ministero ha sottolineato che in effetti nella sua campagna anti-Aids (che suppongo predisposta dal precedente ministro) non si parla di preservativo. Molto male. Punto quattro, restiamo al Ministero. Né nel comunicato ufficiale dell’iniziativa né nella conferenza stampa sono state usate le parole “profilattico” o “preservativo”. Sempre peggio. Punto sei. Il Ministero ha fatto sapere che i suoi esperti hanno potuto parlare alla radio liberamente. E ci mancherebbe! Precisazione un po’ grottesca. Punto sette. Non fate i fessi: chiamatelo come vi pare e usate il preservativo.

il Fatto 4.12.11
Da Le Havre a Lampedusa
di Furio Colombo


In questi giorni si proietta nei cinema italiani un film eversivo. La parola non è esagerata. Eversivo vuol dire fuori dalla legge e contro la legge. Sto parlando di Miracolo a Le Havre che è la storia di un bambino africano, illegale e clandestino che viene nascosto, accolto e protetto da una intera comunità e messo in salvo da un poliziotto. Se Roberto Maroni, ministro dell'Interno italiano fino a pochi infelici giorni fa, fosse ancora al suo posto, il suo mattinale descriverebbe così Le Havre: “Mercanti di carne umana trasportano illegalmente in Europa un nero che non è meno pericoloso solo perché è un bambino. Crescerà e sarà una nuova recluta del vasto esercito di criminali immigrati che mettono in pericolo la sicurezza dei bianchi”. Non vi sembri un gioco, una parodia. Purtroppo non lo è. Tranne il riferimento iniziale al film, ho trascritto frasi che il ministro dell'Interno italiano ha effettivamente detto nel nostro Parlamento, tra applausi, ovazioni e pioggia di voti favorevoli per il suo "pacchetto sicurezza", una legge stravolta che vedeva un criminale e un nemico in ogni profugo, in ogni rifugiato, in ogni persona e famiglia che, rischiando la vita nella traversata del mare, veniva a chiedere aiuto in Italia. E aveva introdotto nella legge italiana il reato di "clandestinità", un reato che solo un razzista poteva inventare, perché punisce quello che sei, non quello che fai. Il regista di Le Havre, il finlandese Aki Kaurismäki, è stato fortunato. Fino a pochi giorni fa avrebbe potuto essere incriminato, in Italia. Ma fortunati sono certamente i cittadini italiani che in questi giorni stanno affollando le sale in cui il film sta diventando una zona extraterritoriale di civiltà.
IN ESSO sono in vigore principi e sentimenti che l'Italia aveva abbandonato e disprezzato apertamente durante gli anni del regime, e a cui aveva tentato di piegare (per fortuna non sempre con successo) le istituzioni. Per capire è bene tornare al film e alla storia. Idrissa, ragazzino nero rinchiuso in un container assieme ad altri neri del mondo in fuga da una tragedia e in cerca di vita (Idrissa cerca la madre) riesce a fuggire mentre il container viene aperto per un’ispezione nel porto di Le Havre. Un poliziotto sta per sparare sul piccolo transfuga, ma il commissario Monet lo blocca. "Io sono indifferente al destino di un criminale. Ma non alla vita di un bambino profugo”. Ecco uno che ci ricorda, nella poetica invenzione di un film, una persona vera, il prefetto di Roma Carlo Mosca, che si è dimesso (ovvero, gli sono state chieste le dimissioni) piuttosto che ubbidire alla folle idea di prendere le impronte digitali al bambini nomadi.
Ma è questa la grandezza del film. Pone continuamente lo spettatore, che non guarda il passato o l'immaginazione, ma la storia di questi tempi e di questi giorni, di fronte alla domanda: tu che cosa faresti? Un dignitoso e povero lustrascarpe che nella sua vita ha solo un cane affettuoso e una moglie amorosa e malata terminale, porta al sicuro il bambino in fuga, se ne occupa con altruismo austero e del tutto indifferente alla legge (che non è la persecuzione italiana, ma è pur sempre arbitraria e prepotente con i poveri) e intanto cura la moglie. E avviene questo "miracolo" che dà il titolo al film: i vicini, che potrebbero denunciare il bambino nascosto, proteggono (tranne uno, uno solo, a cui viene data la voce e il volto di qualcuno che denuncia gli ebrei negli anni Quaranta). Il commissariodipoliziavedeenon vede, seguendo un codice umano che per lui conta di più e viene prima delle forme legali che lui dovrebbe seguire. Ma due storie si intrecciano e per un momento si toccano, per il protagonista, che è il lustrascarpe buono: la fuga del bambino, la malattia della moglie.
LUI PRESTA la stessa meticolosa attenzione all'uno e all'altra, mostrando che impegnarsi nella vita degli altri non è qualcosa che si fa nel tempo libero. È una regola di vita. Il rigore austero del regista, di cui il lustrascarpe buono è " la persona" e il simbolo, fa accettare con gratitudine agli spettatori il fatto che un miracolo è un miracolo. Il bambino si salva e la moglie malata guarisce. Tutto ciò non serve a dire che se siete buoni sarete ricompensati. Dice invece, con uno strano candore e una forza che sembra, alla fine, conquistare gli spettatori, che ogni cosa buona e onesta e altruistica produce "miracoli" ovvero altre cose buone. Resta una domanda: poiché qui parliamo di eventi pubblici e comuni (che fare con gli immigrati che vengono a invadere la nostra vita), che tipo di fiaba è? Rispondo che è un manifesto politico per un partito che non esiste e ripropone la fraternità come il legame che cambia tutto. La bellezza del film di Kaurismäki è di non essere né troppo grande né troppo piccolo. Non grida e non sussurra. Semplicemente racconta. Lo fa con una fermezza e un coraggio che prima non aveva avuto nessuno. Uscite dalla sala e pensate agli uomini, alle madri, ai bambini, alle giovani donne incinte che sono stati ritrovati sotto le barche rovesciate davanti a Lampedusa. Pensate ai "respingi-menti in mare", agli affondamenti, ai pescatori incriminati per avere soccorso in mare e portato aiuto. Alle navi della Nato che avvistano e ignorano gente che sta morendo. Pensate ai profughi lasciati per due mesi aggrappati agli scogli di Lampedusa col sole e la pioggia, senza nessuna assistenza o intervento. Pensate ai campi di detenzione detti "di identificazione e di espulsione", dove la detenzione è arbitraria, priva di regole. E vi rendete conto che, per l'Italia, Kaurismäki arriva come un medico che porta, con ferma benevolenza, una cura: contro la cattiveria organizzata che ha tormentato per anni il nostro Paese.

Repubblica 4.12.11
Perché la Chiesa non condanna don Verzè
risponde Corrado Augias


Gentile Corrado Augias, leggo di Don Verzè e della scandalosa gestione del San Raffaele. Oltre al delirio di onnipotenza che lo ha portato a commissionare una cupola in acciaio da milioni di euro, avere yacht, opzionare un'inutile flotta di aeroplani, tutte spese folli passate inosservate, univa questi comportamenti lussuosi ad un fare da vero capobastone mafioso. Un malinteso senso della missione ecumenica? Ne dubito fortemente. Quando si gestiscono conti correnti all'estero, misteriose società, e si riesce a comandare anche sulla finanza, organo statale, dirottandolo a proprio piacimento sui vicini che gli impediscono ulteriori acquisizioni (e sfracelli ?), siamo di fronte ad una vera associazione a delinquere. O no? Cosa attendono allora le alte gerarchie d'Oltretevere a sanzionare il ras del San Raffaele con una santa scomunica? La tristezza nel notare tanto garbato silenzio da parte della Chiesa dilapida ulteriormente quel poco di credibilità che stentatamente il Papa cerca di ritrovare. Come mai certi comportamenti laicamente inaccettabili sono religiosamente consentiti?
Marco Bernardi

Don Luigi Maria Verzè è nato nel 1920 e ha dunque superato i 90 anni di vita dando prova ininterrotta di un'energia e di una capacità di visione straordinarie. A mio parere bisogna partire da questo per tentare di spiegarsi la serie di catastrofici errori, compreso l'ultimo imperdonabile e ridicolo di paragonare le sue disavventure giudiziarie alla passione di Gesù. Il signor Bernardi si chiede che cosa aspettino le gerarchie vaticane a scomunicarlo. Da osservatore esterno ricordo che il Vaticano, a prescindere da ogni effettiva dimostrazione di colpevolezza, procede sempre con prudenza in casi del genere, sulla base del noto principio "quietare sopire" che si è spesso rivelato il più efficace. I fatti si succedono velocemente, nuovi eventi fanno scomparire nell'oblio i precedenti. Basta pensare a tutto ciò che non venne fatto quando scoppiò lo scandalo di monsignor Marcinkus nella gestione della banca vaticana (il famigerato Ior) o del tempo che è stato necessario perché il Papa si decidesse a intervenire di fronte all'altro scandalo mondiale dei preti pedofili. O ancora del silenzio prudente con cui giorni addietro è stata accolta la notizia che il boss mafioso calabrese Giulio Lampada era stato nominato cavaliere dell'Ordine di san Silvestro papa. Ciò che a noi maggiormente interessa non è però l'eventuale scomunica di don Verzè ma i comportamenti di stampo mafioso di un uomo che aveva dato vita ad un ospedale e ad un'università di ottimo livello, e che si è perso dietro la sua megalomania, causando immenso dolore e la morte di un suo collaboratore. Di questo don Verzè dovrebbe chiedere perdono invece del suo vaniloquio su Gesù.

La Stampa 4.12.11
L’autore della strage di Utoya: la perizia psichiatrica è sbagliata
Oslo, Breivik attacca “Non sono pazzo Adesso processatemi”
Da piccolo fu affidato agli assistenti sociali e allontanato da casa: subiva abusi sessuali
di Francesco S. Alonzo


Anders Behring Breivik respinge la tesi espressa dagli esperti psichiatrici e definisce la perizia che lo descrive schizofrenico e paranoico come una scappatoia basata su motivi politici. L’autore della strage di Oslo del 22 luglio scorso, che si considera un eroe in difesa dei valori morali, si è scontrato anche con il suo avvocato Geir Lippestad, che aveva sostenuto la tesi dell’insanità mentale per fargli evitare il carcere e ha fatto capire che probabilmente al processo Breivik sceglierà un altro legale.
Che il pluriomicida non sia malato di mente è confermato dal professore Ulf Aasgaard, esperto in analisi di elementi criminali: «Non è pazzo, ma un esaltato al limite dell’allucinazione. Impugnare un’arma, seminando la morte fra centinaia di persone, gli ha dato una sensazione di dominio assoluto che gli ha fatto perdere ogni controllo. Ma la strage era stata preparata da una mente calcolatrice e fredda».
Intanto emergono particolari sconcertanti sulla sua formazione mentale negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Da un’intervista fatta dalla televisione norvegese ad alcune persone vicine alla famiglia Breivik si è appreso che «le cose non andavano bene per il bambino Anders». Tanto è vero che gli assistenti sociali erano intervenuti più volte sottraendolo all’autorità del padre, sospettato di avere abusato sessualmente di lui. Era stata proprio la madre a chiederne l’intervento, incapace di resistere ai maltrattamenti di carattere sessuale ai quali veniva esposto continuamente il bambino. Breivik trascorse lunghi periodi lontano da casa, affidato alle cure di una famiglia che abitava alla periferia di Oslo. Lo psicologo che all’epoca fu incaricato di studiare il comportamento del bambino e dei suoi genitori, nella sua relazione descrisse Anders come «un individuo nel quale si stavano sviluppando gravi turbe psichiche».
Tutta questa vicenda nel corso degli anni è stata circondata dalla massima segretezza e, dato che non è stata sporta alcuna denuncia, non si sa se l’autore degli abusi sessuali sia stato il padre di Breivik o qualcun altro. Rimane il fatto che da quell’esperienza infantile Breivik ha riportato un odio per la famiglia e per tutti quelli che rappresentano valori a suo avviso degenerati e condannabili. Da qui la sua «esaltazione purificatrice» culminata nella strage dell’isola di Utoya.
Commentando il comportamento del figlio nell’ambiente domestico, la madre ha raccontato: «Abitavamo insieme, ma era totalmente isolato da me mentalmente. Talvolta mi faceva paura. Girava per casa indossando una maschera per paura di essere contagiato da qualche infezione». Breivik ha già fatto sapere di non desiderare che la madre assista al processo: «È l’unica persona capace di rendermi mentalmente instabile. È il mio tallone d’Achille».

il Fatto 4.12.11
Rapporto Reporter Sans Frontieres
La Primavera araba e l’inverno della censura
di Alessandro Oppes


Maikel Nabil Sanad, blogger egiziano, conosciuto con lo pseudonimo di Son of Ra, è stato arrestato il 28 marzo e, dopo appena 2 settimane, condannato a 3 anni di carcere. L’accusa: “Insulto all’istituzione militare, diffusione di notizie false e attentato alla sicurezza pubblica”. Sul suo sito web aveva diffuso un rapporto nel quale metteva in discussione l’apparente “neutralità” dell’esercito durante le manifestazioni del gennaio e febbraio che precedettero la caduta del regime di Hosni Mubarak, rivelando il coinvolgimento di militari in arresti, detenzioni arbitrarie e torture. Il 24 agosto Sanad ha cominciato uno sciopero della fame, il giudizio d’appello è stato più volte rinviato e a fine ottobre un magistrato ha disposto il trasferimento del blogger in un ospedale psichiatrico. Le violenze delle ultime settimane sulla piazza Tahrir e nel centro del Cairo, con nuovi casi di giornalisti – locali e stranieri – arrestati o aggrediti, è la conferma che Sanad aveva visto giusto.
Non sempre c’è un prima e un dopo, una netta linea di demarcazione, nei paesi mediorientali spazzati in questi mesi dal vento della rivoluzione. L’avvertimento viene da Reporters sans Frontières, che a un anno dall’inizio della “primavera araba” pubblica un corposo dossier sul ruolo dei mass media, “testimoni chiave” del cambiamento ma anche protagonisti nella delicatissima fase della transizione.
Un anno nel quale la stampa, come sempre accade nei luoghi dove si fa la storia, ha pagato un prezzo molto alto: 13 professionisti dell’informazione (2 in Egitto, 1 in Tunisia, 5 in Libia, 2 in Bahrein e 3 in Yemen) hanno perso la vita in questo periodo mentre realizzavano il loro lavoro: tra di essi alcuni fotoreporter di fama internazionale, ma la maggior parte delle vittime sono giornalisti locali, tragicamente esposti alla violenza dei regimi.
ALL’IMPIEGO massiccio di nuovi strumenti di comunicazione, come Facebook e Twitter, i governi autoritari hanno risposto con vecchi e nuove forme di repressione. Così le sintetizza Soazig Dollet, responsabile per il Medio Oriente di Rsf: “Vigilanza della Rete, blocco di Internet, black-out delle reti di telefonia mobile, interferenze sui network che trasmettevano via satellite, confisca di giornali, aggressioni e arresti di professionisti dell’informazione, bloggers e internauti, sequestri e omicidi, espulsione di giornalisti stranieri, negazione di visti”. Una batteria di misure che comunque non hanno bloccato le proteste. In Tunisia, prima della caduta di Ben Ali, gli sforzi della cyber-polizia “Ammar 404” sono stati vanificati dagli hackers di Anonymous con attacchi a siti governativi. In Egitto, il black-out imposto a Internet da Mubarak venne presto rimosso dopo aver provocato perdite finanzairie per 90 milioni di dollari. Anche in Libia, mentre vedeva la situazione sfuggirgli di mano, Gheddafi cercò di rispondere con il taglio delle linee telefoniche e lo stretto controllo su Internet (il cui principale provider era di propietà del figlio Mohammed). Ma a un anno dall’inizio delle rivolte, la situazione più delicata resta quella della Siria, con 25 giornalisti e blogger in carcere, altri sequestrati e torturati, e numerosi corrispondenti stranieri privati dell’accredito ed espulsi.

il Fatto 4.12.11
Il capitalismo, fede economica dei nuovi poteri islamici
di Massimo Zaurrini


Una nuova fase della politica nei Paesi arabi: questa, secondo Massimo Campanini, uno dei più stimati storici orientali italiani e professore all’Università di Trento, la maggiore novità che potrebbe emergere dopo le elezioni in Tunisia, Marocco, Egitto. “Ciò che è interessante è che potenzialmente tutte le forze islamiche che stanno uscendo vincitrici sono in grado di operare una revisione del modello politico che finora si è avuto nei paesi arabi. La vera sfida, per loro, è vedere se riusciranno a ideare nuove categorie politiche, aggiornando il pensiero islamico classico e mantenendo quel pragmatismo che li ha contraddistinti”. Secondo l’autore di “I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo”, in molti paesi, “c’è la potenzialità di realizzare una sorta di blocco storico come inteso da Gramsci”, ovvero un’alleanza strategica tra forze diverse, apparentemente in contrasto, come i Fratelli Musulmani e le formazioni salafite, per modificare lo scenario politico-sociale.
“Le potenzialità ci sono – spiega – l’importante è vedere se queste promesse si tradurranno in azione politica concreta e se riusciranno questi movimenti ad adattare al mondo moderno concetti cari all’Islam”. Un rapido adattamento alla modernità, spiega ancora l’esperto, si è già registrato: “Dal punto di vista economico i movimenti di orientamento religioso sono filo capitalisti”, dice Campanini, spiegando che nel liberismo economico di questi partiti o movimenti “vi è, potenzialmente, una contraddizione tra l’ispirazione coranica (che mira a una giustizia sociale e a un’equa distribuzione delle risorse) e l’accettazione del sistema capitalistico internazionale”. Sulla strada della realizzazione di questa ‘rivoluzione politica’ del mondo islamico un ruolo importante lo giocherà l’Occidente. “A prescindere dal valore oggettivo delle proposte politiche di questi partiti e dal fatto che siano o meno aperti alle trasformazioni, alle riforme e alla salvaguardia dei diritti, affinché si realizzi il cambiamento l’Occidente dovrà mettere da parte l’atteggiamento discriminatorio e oppressivo finora avuto nei confronti di partiti e movimenti islamici”, conclude Campanini.

Corriere della Sera 4.12.11
Anatema islamico contro Mahfuz
I salafiti bollano i libri del Nobel come «pornografia»
di Cecilia Zecchinelli


Il padre delle letteratura araba, l'unico Nobel tra gli scrittori del Medio Oriente, il maestro Nagib Mahfuz veneratissimo già prima della sua morte nel 2006, è tornato nel mirino dei fondamentalisti egiziani.
Nel pieno delle elezioni che a sorpresa stanno trasformandosi in una vittoria massiccia non solo per i Fratelli Musulmani (al 40% nei risultati parziali) ma per gli integralisti salafiti (al 20%), un leader di questi ultimi ha lanciato un anatema contro il grande scrittore che già nel 1994 fu quasi ucciso da un estremista. «Le opere di Mahfuz incitano alla promiscuità, all'ateismo e alla prostituzione. I suoi romanzi sono ambientati tra droga e bordelli», lo ha liquidato in un'intervista in tv Abdel Moneim Al Shahat, candidato qualificatosi per il secondo turno ad Alessandria per il partito Al Nur, il più importante tra quelli d'ispirazione wahhabita. E ancora: «Il suo libro Awlad Harretna (uscito nel 1991 in Italia come Il rione dei ragazzi) è propaganda per l'ateismo». Se Al Nur andasse al potere, è il messaggio, le opere del grande scrittore sarebbero bandite in Egitto, insieme a chissà quante altre a partire dalle Mille e una notte.
Shahat non è nuovo a proclami del genere, è autore tra l'altro di una campagna per coprire le statue dell'Antico Egitto perché «di una civiltà corrotta e infedele», cosa che ha suscitato i timori degli archeologi e di un Paese che vive sul turismo, seppur non adesso. E il suo attacco a Mahfuz è stato accolto con sdegno, nonostante il dibattito sui media e nell'élite abbia ora ben altre priorità.
Sui social network, le reazioni sono di allarme: «Finiremo come a Kandahar», qualcuno ha scritto, riferendosi non solo al caso Mahfuz. Dagli scrittori che hanno sempre difeso a amato il maestro, anche se qualcuno in passato notava con benevolenza che fosse «il solo tra noi ad aver evitato il carcere, per la sua cautela o forse perché lavorava all'ufficio censura», è emersa una generale condanna. Qualcuno come Ibrahim Abdel Megid su Al Ahram sostiene che «non vale nemmeno la pena di reagire a gente rimasta nel Medio Evo».
«È vero che nella Trilogia del Cairo e in molti altri libri di Mahfuz ci sono prostitute, drogati, perfino gay perché non è stato Alaa Al Aswany con Palazzo Yacoubian a rompere questi tabù — dice Isabella Camera d'Afflitto, professoressa di letteratura araba a Roma e la più nota traduttrice di autori in questa lingua —. Mahfuz parlava della vera umanità dell'Egitto, il suo messaggio era di tolleranza universale per il diverso. È pazzesco che il nuovo attacco avvenga alla vigilia del centenario della sua nascita, l'11 dicembre 1911, celebrato ovunque, dal nostro convegno domani e martedì alla Sapienza di Roma alla Fiera del libro di Algeri dedicata proprio a lui, riconosciuto da tutti gli autori arabi come il più grande e a cui tutti ancora oggi in qualche modo si ispirano».

Corriere della Sera 4.12.11
La sfida della «generazione Putin»
Nati dopo il crollo dell'Urss, oggi votano per la prima volta Molti sono delusi, ma resta uno zoccolo duro di fedelissimi
di Paolo Valentino


MOSCA — Filipp Avdejev aveva appena 11 anni nell'ottobre del 2002, quando i terroristi ceceni assaltarono il teatro Dubrovka di Mosca sparando all'impazzata. Era un attore-bambino, recitava nello spettacolo Nord-Ost. E fu tra i pochi che scamparono al massacro, riuscendo a fuggire da una finestra prima che gli attentatori li trovassero.
La sua vita cambiò quel giorno, «decisi di fare l'attore per mestiere, lo dovevo ai due amici e coetanei che recitavano con me, i miei migliori amici, che non ebbero fortuna e morirono in quella tragedia».
Stamane Filipp andrà a votare, nelle elezioni per la Duma russa. Per lui e tutti quelli nati nel 1991, l'anno della sparizione dell'Urss, sarà la prima volta alle urne. È il battesimo democratico per una generazione di ragazze e ragazzi che non hanno vissuto il comunismo neppure da neonati. Ma è anche l'esordio di una classe di cittadini russi, che da adulti coscienti hanno conosciuto il potere di un solo leader: Vladimir Putin.
E sono loro, i ventenni della Nuova Russia, il termometro instabile di un Paese scettico e inquieto, deluso ma scosso da sussulti di uno sdegno che non è ancora ribellione. Rifiutano l'ottimismo della propaganda ufficiale, si abbeverano per le loro informazioni alla blogosfera dei siti senza censura, riscoprono con timore la parola zastoi, stagnazione, che nella storia di questo Paese rievoca la cupa epoca brezneviana.
Filipp non crede ai politici, che «ci ingannano tutti». Non trova «un partito o una sola persona per cui valga la pena di votare con convinzione». Ma una cosa la sa bene: «Non voterò per Russia unita», il partito di Putin, il primo ministro che in marzo tornerà a riprendersi la presidenza dal suo prestanome Dmitrij Medvedev, come se il Cremlino fosse un affare privato. E poiché per qualcuno deve pur decidersi, il nostro attore sembra orientato a scegliere i comunisti di Zjuganov, «per protesta, per battere un colpo, per dire che così non va bene». Quando gli rammento che Zjuganov è il passato comunista che vorrebbe tornare, Filipp non si scompone: «L'Urss è fallita per sempre, ma la gente almeno era mossa da un ideale forte, qui non ci sono più aspirazioni, la Russia non è né carne, né pesce».
Cosa motiva il malessere di cui sono preda i ragazzi del '91? Per Nadezhda, che lavora al bar dell'Hotel Ucraina e frequenta i corsi serali all'Istituto per il Turismo, è la «politica fatta di grandi annunci e nessun fatto concreto», è la corruzione a tutti i livelli, «se non paghi, non ottieni nulla, dappertutto», che rende difficile trovare un lavoro, mortifica il talento, «premia i raccomandati». Figlia di un capitano della marina che comanda un sommergibile nel Baltico, Nadezhda voterà per i nazionalisti di Vladimir Zhirinovskij, anche lei per dire no a Russia Unita. E così farà Nastia, studentessa a scienze politiche, che in perfetto italiano mi spiega di «volere un'opposizione, altrimenti è una monarchia». Al potere in carica rimprovera di «non aver fatto nulla per avere migliori ospedali, migliori scuole, migliori trasporti pubblici» e di «non dare una speranza ai giovani». A lei, poi, di Vladimir Vladimirovich «non piace neppure lo stile, il modo di essere politico», che trova «volgare, di basso livello e troppo macho».
Anche Karina fa scienze politiche e vuole sfidare il successo annunciato di Russia unita. Ma il suo voto lo darà a Russia giusta, formazione di centrosinistra creata su ispirazione del Cremlino e in apparenza sfuggita di mano agli strateghi del premier: «Deve cambiare qualcosa, non mi piace che la nostra venga definita la "generazione Putin". Non è così. Putin ha fatto qualcosa all'inizio, ma oggi non stiamo andando nella giusta direzione, invece di aprirsi il Paese si sta chiudendo. E la corruzione si divora tutto: mio padre è poliziotto e mi racconta cose spaventose».
Eppure la «generazione Putin» non è solo un'invenzione. Saranno inquadrati, avranno subito il lavaggio del cervello, ma resta che sono migliaia le ragazze e i ragazzi aderenti a «Nashi», i nostri, l'organizzazione giovanile fiancheggiatrice di Russia unita. La Putinjugend, dicono i critici più velenosi. La loro devozione al primo ministro e futuro presidente è totale. Yulia Rizhkova, anche lei classe 1991, è una militante di Molodaja Gvardija, la guardia giovane, movimento studentesco ultrapatriottico gemello di Nashi. Viene da una famiglia modesta, è arrivata a Mosca dalla provincia, di giorno lavora nell'organizzazione, la sera studia da ingegnere: «Putin e Medvedev hanno riportato grande stabilità in Russia e ci hanno ridato fiducia nel futuro. Hanno migliorato le nostre vite. La Russia ha bisogno di leader forti e di uno Stato forte. La corruzione? C'è, ma Putin la combatte. E poi, è un prezzo da pagare all'unità del Paese».
Sono migliaia i giovani come Yulia, che in tutta la Federazione sono stati mobilitati per il successo di Russia unita. Nella capitale ne sono arrivati diverse centinaia, venerdì sera, convocati da Viktor Sadovnichij, rettore della prestigiosa Mgu, l'Università Lomonosov. Preoccupato di un esito troppo negativo per il partito presidenziale nell'ateneo, solo il 10% degli studenti lo voterebbe secondo i sondaggi, il magnifico si è inventato una fantomatica conferenza, che autorizza i partecipanti a votare nel seggio universitario. Secondo la denuncia di professori e studenti, il rettore cerca così di bilanciare il risultato, compiacendo il Cremlino, che già ce l'ha nel mirino per il suo legame con Yurij Luzhkov, l'ex sindaco di Mosca cacciato da Putin. Non è affatto sicuro che basterà.

Corriere della Sera 4.12.11
La lunga marcia dei comunisti

MOSCA — Revival comunista in Russia? Secondo i sondaggi, al voto per il rinnovo della Duma, la camera bassa del Parlamento, il partito nato sulle ceneri del Pcus, guidato da Gennady Zjuganov, può aspirare al 17, anche il 20% delle preferenze. Dalle ultime elezioni, nel 2007, sarebbe un balzo in avanti del 5-7%, proprio mentre il partito al potere, Russia unita, rischierebbe di fermarsi sotto la maggioranza dei due terzi. Le due cose sono direttamente collegate, ma Zjuganov assicura che non si tratta di mero trasferimento dei voti dei «disillusi» di Russia unita, in mancanza di altri veri partiti di opposizione. A suo avviso, il Kprf, il Partito comunista della Federazione russa, si appresta piuttosto a raccogliere i frutti di un costante rinnovamento dei ranghi del partito, della partecipazione alle liste di personaggi in vista, e della campagna elettorale «sul territorio».


l’Unità 4.12.11
La protesta In mille contro i licenziamenti di massa, interviene la polizia
Le vertenze si stanno moltiplicando. E c’è chi profetizza la fine del boom
Scioperi e scontri a Shanghai
Il lato oscuro del miracolo cinese
La protesta In mille contro i licenziamenti di massa, interviene la polizia
Le vertenze si stanno moltiplicando. E c’è chi profetizza la fine del boom
Nella città-simbolo del boom scioperi e incidenti con la polizia. Pochi giorni fa le proteste nel sud-est. Calano le esportazioni nella Repubblica popolare, crescono i fallimenti: anche la Cina comincia ad avere paura.
di Gabriel Bertinetto


Nell’atrio sconfinato del lussuoso hotel «Pudong Shangri-la», a Shanghai, lo chef Yusuf Yaran e gli ottanta cuochi dello staff alberghiero esibiscono con orgoglio l’ultima loro creatura culinaria: una torta natalizia lunga un chilometro e 68 metri, subito registrata nel Guinness dei primati come il più grande dolciume mai preparato sulla faccia della terra. Il colosso in vaniglia e cioccolato viene venduto a fette in una sorta di asta benefica, perché il ricavato verrà devoluto alla cura dei bambini malati di cancro. Shanghai, megalopoli ultramoderna, locomotiva del miracolo economico cinese, ostenta la sua opulenza. Peccato che nelle periferie ignorate dai turisti ed evitate dai manager internazionali in queste stesse ore si respiri un clima assai meno festoso. Ai cancelli della Hi-P International, un’azienda elettronica di Singapore che fornisce di componenti a giganti come Apple e Hewlett Packard, ieri l’altro cinquanta irriducibili bloccavano ancora gli ingressi, dopo che il violento intervento della polizia aveva costretto alla fuga o al ricovero in ospedale gran parte dei compagni di lotta. Erano più di mille mercoledì, i dipendenti della Hi-P, decisi a far valere le loro ragioni, dopo avere appreso quale dono natalizio la dirigenza si apprestava a impacchettare per loro: chiusura dello stabilimento che sarà trasferito altrove e licenziamento in tronco per la stragrande maggioranza delle maestranze. Nella Cina del boom produttivo accade sempre più spesso che il boom si sgonfi d’improvviso. E chi per qualche anno ne ha beneficiato, si ritrova a terra. Senza mediazioni. Senza tutele sindacali. Senza quelli che in Occidente chiamiamo ammortizzatori sociali.
CRISI GLOBALE
Vertenze come quella soffocata a Shanghai si stanno moltiplicando da quando la crisi globale ha coinvolto la Repubblica popolare. Calano gli acquisti dall’Europa e dagli Usa, alle prese con debiti sovrani fuori controllo e prolungati crolli produttivi, e a Pechino viene meno la principale fonte della
formidabile espansione economica degli ultimi anni, cioè l’export. Gli ultimi dati descrivono un’attività manifatturiera precipitata ai suoi livelli più bassi degli ultimi 32 mesi. Qualcuno comincia persino a dubitare che il miracolo cinese sia una favola. Per Larry Lang, che insegna scienza delle finanze a Hong Kong, l’economia nazionale sarebbe addirittura «sull’orlo della bancarotta».
Le statistiche ufficiali fornite dalle autorità a suo giudizio sono false. L’inflazione non è al 6,2% ma al 16%. Il tasso di crescita del 9% sarebbe invece prossimo allo zero, e questo perché negli ultimi due anni si è assistito ad una impressionante catena di fallimenti fra le compagnie private, che da sole coprono il 70% del Pil. Lo Stato, che viene spesso dipinto come il salvatore del sistema creditizio globale per i continui massicci acquisti di buoni del tesoro americani, è indebitato a sua volta fino al collo per una cifra totale di 5,68 migliaia di miliardi di dollari. Larry Lang teme che «nel momento in cui lo tsunami si metterà in moto, il regime perderà credibilità, e la Cina diventerà il Paese più povero della terra». Speriamo che i suoi calcoli siano sbagliati.

Repubblica 4.12.11
"Mi diedero del pazzo ma quell´idea ha ridato la speranza alle donne"
Veronesi: ora il cancro al seno si batte 85 volte su 100
di Dario Cresto-Dina


La mia ricerca del ´69 sembrava visionaria: rinunciare alla mastectomia andava contro le certezze del Ghota dell´oncologia
In quegli anni vinceva il fatalismo, il male era considerato incurabile E molti pazienti dopo la diagnosi venivano abbandonati a se stessi

MILANO - Fu l´intuizione che salvò la femminilità. Trent´anni or sono il «New England of Medicine» riconobbe e pubblicò il lavoro di Umberto Veronesi sulla quadrantectomia, confermando per la prima volta l´efficacia di un intervento «non invasivo» nella cura del cancro al seno. Arrivò al traguardo un cammino scientifico cominciato dodici anni prima.
Professor Veronesi, che cosa ricorda di quei giorni?
«Lo sguardo scandalizzato del Gotha mondiale della medicina quando esposi l´idea al congresso di Ginevra. Era il 1969. Le reazioni furono ostili. Ero giovane, ero italiano, venivamo considerati scienziati di serie B, e trasgredivo all´ortodossia del tempo. Tre qualità sufficienti a venire isolato dalla confraternita. In altre parole, mi diedero del pazzo».
Non c´era anche la paura di sbagliare?
«L´ho avuta per otto anni. L´angoscia dell´errore. Non ci dormivo di notte».
In che cosa trasgrediva, come medico?
«Credevo in una speranza. Negli anni Sessanta la lotta ai tumori era in un vicolo cieco. La presunta incurabilità del male trasformava in fatalisti la maggior parte degli oncologi. Pazienti venivano mandati a casa senza terapie, altri subivano interventi demolitivi che li annientavano sul piano psicologico».
Lei ha scritto che quando entrò per la prima volta all´Istituto tumori di Milano le sembrò di aver messo piede in un lazzaretto. Perché?
«Stava vicino a casa mia, ci passavo davanti in bici. Nel ‘51, avevo ventisei anni, in un bar di piazza Piola un impresario teatrale mi domandò se volevo conoscere il professor Piero Bucalossi, allora direttore della chirurgia dell´ospedale. In quell´incontro si compì il mio destino. Nelle stanze dell´Istituto Tumori fui meravigliato dal mio maestro, ma rischiai anche di venire travolto dalla sofferenza e dalla rassegnazione che si respirava a quel tempo. Un´aria da peste manzoniana».
Com´era per le donne?
«Nei confronti delle donne colpite da un cancro al seno scattava il dogma della mastectomia, cioè l´asportazione totale della mammella, dei linfonodi dell´ascella e dei muscoli pettorali a cui si aggiungevano lunghe sedute di radioterapia».
Una devastazione fisica.
«Chi rifiutava l´intervento veniva respinta e condannata a morire. Decisi di provare a scavalcare il protocollo. Da anni studiavo gli esami istologici per trovare la conferma di un´idea: pensavo che per curare un tumore del seno di piccole dimensioni sarebbe stato sufficiente togliere il lobo della ghiandola nella quale si insediava il nodulo. Al microscopio mi ero reso conto che nella fase iniziale le cellule malate si riproducevano in modo meno aggressivo».
Quando s´iniziò la sperimentazione?
«Lo studio clinico cominciò nel 1973 e durò otto anni su 700 donne. La metà di loro venne sottoposta a mastectomia, le altre alla quadrantectomia che prevedeva l´asportazione di una sola parte della mammella. La mia prima paziente, quello che si chiama il Paziente Zero, fu Laura, una ragazza milanese di 26 anni che, lo ricordo ancora, abitava in piazzale Bacone. Mi disse: mi sposo tra poche settimane, ho un bel seno, non voglio perderlo. Laura si è sposata e sta bene ancora oggi».
Fu una rivoluzione per l´oncologia?
«Senza dubbio fu un salto in avanti di due posizioni. Per la prima volta l´oncologia poteva pensare non solo di salvare una vita, anche la sua qualità. Venne sradicato il principio del massimo tollerabile a favore del minimo efficace. La mortalità diminuì, oggi siamo alla quota di sopravvivenza dell´85 per cento, e senza lo spettro dell´amputazione sempre e comunque le donne cominciarono ad avvicinarsi alla diagnosi precoce. Forse l´autentica rivoluzione si è manifestata nel rapporto medico-paziente. L´attenzione all´integrità fisica e alla dimensione psicologica della malattia introdusse l´elemento dell´empatia, cioè la partecipazione consapevole del malato alla propria cura. Un fondamento della medicina moderna».
Professore, lei ha più di 80 anni. Quali sono state le più importanti tappe della medicina di cui è stato testimone?
«Le vaccinazioni contro le grandi malattie virali come il vaiolo, la difterite e la poliomielite, gli antibiotici per debellare le infezioni, la radioterapia per i tumori, i trapianti d´organo, la decodifica del DNA, l´applicazione del calcolo informatico all´imaging diagnostico, le cellule staminali».
Sconfiggeremo il cancro?
«Io penso che un giorno l´uomo vincerà anche questa sfida. La prossima scoperta decisiva potrebbe chiamarsi Mirna. Significa microRNA: frammenti genetici specifici che le cellule tumorali immettono nel sangue alcuni anni prima che il tumore diventi anche solo una presenza di pochi millimetri. Attraverso un semplice esame del sangue ora è già possibile individuare il cancro del polmone molto prima che si manifesti. E presto il test sarà disponibile anche per il tumore del seno».

Corriere della Sera Salute 4.12.11
Depressione post parto, pochi i centri dedicati
di Elena Meli


In attesa di un bambino, o con un bebè in braccio: devi essere felice per forza. Come si può non toccare il cielo con un dito? Difficile trovare chi non pensi che la maternità per una donna sia il periodo più bello della vita. Per tante, invece, non è così e l'arrivo di un bimbo si accompagna alla depressione, prima o dopo il parto: succede ogni anno a circa 80 mila italiane (il 16% delle neomamme). È pensando a loro che l'Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (ONDa) ha stilato, insieme con gli specialisti di sei Centri di riferimento nazionali, le prime Linee guida italiane per la gestione della depressione in gravidanza e nel post parto.
«In altri Paesi esistono già strumenti simili — spiega uno degli autori del documento (concluso dopo 8 anni di lavori), Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze dell'Azienda ospedaliera Fatebenefratelli di Milano —. Le Linee guida sono rivolte a ginecologi, neonatologi, pediatri e medici di famiglia per aiutarli a identificare i fattori di rischio e i sintomi più importanti della depressione perinatale (ad esempio, il pensiero ossessivo di fare del male al bimbo) per offrire alle mamme un primo aiuto. Le Linee guida indicano la necessità di raccogliere non solo la storia clinica della donna, ma anche informazioni sulle eventuali patologie psichiatriche precedenti e soprattutto sul contesto familiare (ad esempio, l'esistenza di una conflittualità con il partner), perché queste possono incidere molto sull'evoluzione dei disturbi dell'umore. L'obiettivo è arrivare a una conoscenza diffusa del problema, sgombrando il campo da valutazioni soggettive e interpretazioni vaghe».
Ce n'è bisogno, perché, come racconta Francesca Merzagora, presidente di ONDa, perfino i medici a volte negano l'esistenza della depressione post parto: «Attraverso il nostro progetto abbiamo voluto preparare una mappa delle strutture dedicate alla gestione della depressione perinatale. Abbiamo perciò telefonato a tutti gli ospedali d'Italia dotati di Centri di salute mentale: in molti casi ci hanno risposto che di un percorso assistenziale per la depressione perinatale non hanno bisogno perché non ci sono pazienti che ne soffrono. Non è affatto così e occorrerebbe garantire almeno un Centro di riferimento in ogni Regione. In Italia esistono solo nove strutture dedicate, sei possono essere considerati Centri di eccellenza: altrove, se ci sono ambulatori o piccole esperienze di sostegno, lo si deve alla sola buona volontà dei medici. Vorremmo perciò diffondere in ogni Centro di salute mentale le nuove Linee guida: forse si smetterebbe di ignorare la depressione post parto e si creerebbe qualche struttura dedicata in più».
La scarsa consapevolezza generale è uno degli scogli più grossi da superare, come osserva Mencacci: «Le mamme si vergognano, perché tutti si aspettano di vederle felici e invece non lo sono. Per i nove mesi della gravidanza e dopo la nascita l'attenzione è sempre concentrata sul bimbo, invece dovremmo pensare di più anche al benessere della madre». ONDa promuove per questo la campagna "Un sorriso per le mamme", presente anche su YouTube e Facebook, e il sito www.depressionepostpartum.it attraverso cui le neomamme possono informarsi e soprattutto capire che non sono sole e che, condividendo le loro paure, possono uscire dalla depressione.
«C'è molto da fare: occorrerebbe anche una seria politica di sostegno alla maternità, visto che, ad esempio, un terzo delle donne abbandona il lavoro dopo la nascita di un figlio e sui congedi di paternità l'Italia è assai indietro rispetto al resto d'Europa. Le difficoltà sul lavoro rendono le madri ancora più vulnerabili ai disturbi dell'umore: tutelare maggiormente l'impiego delle donne sarebbe un importante strumento di prevenzione» conclude Francesca Merzagora.

Corriere della Sera Salute 4.12.11
L’epilessia di Dostoevskij nei suoi personaggi
Un morbo che creava sgomento
di Marco Rossari


«A un tratto, in mezzo alla tristezza, al buio e all'oppressione, il suo cervello sembrava accendersi di colpo, tendendo in un estremo impulso tutte le proprie energie vitali. In quell'attimo, che aveva la durata di un lampo, la sensazione della vita e il senso dell'autocoscienza sembravano decuplicare di forza. Il cuore e lo spirito si illuminavano di una luce straordinaria. Tutti i dubbi, tutte le ansie e le agitazioni sembravano quietarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di armonica e serena letizia, di speranza, di ragionevolezza e di penetrazione suprema». Oggi non sarà facile convincere con queste parole una persona affetta da epilessia del lato estatico di un male che nel corso del tempo ha beneficiato di molte definizioni, quasi a volerne ribadire l'inafferrabilità, come assenza, grande e piccolo male, mal caduco, sindrome comiziale, male sacro, ma che deve il suo nome al termine greco per attacco, capace di suscitare più angoscia che pace, più insicurezza che incanto.
Eppure furono queste le parole che Fëdor Dostoevskij, del quale da poco è ricorso il 190° anniversario della nascita, mise in bocca al mite principe Myškin de L'idiota, per raccontare con tutta probabilità il proprio rapporto con un male che lo accompagnò per tutta una vita di tribolazioni.
Certo, l'immagine evocata non è la norma. «Solo alcune persone affette da epilessia del lobo temporale, uno dei molti tipi di epilessia, provano sensazioni assimilabili a quella descritta — chiarisce Maria Paola Canevini, vicedirettore del entro epilessia dell'ospedale San Paolo di Milano —. E la cosa non è generalizzabile. Nella mia esperienza non è raro che la prima crisi convulsiva, magari preceduta da anni da episodi "minori", si verifichi in occasione di un trauma importante come un lutto per un familiare». La prima ipotesi — avanzata dalla sorella, ma oggi confutata — è, infatti, che Dostoevskij ebbe il primo attacco di convulsioni a 18 anni, alla morte del padre, uomo dispotico e violento. Di sicuro, non molti anni dopo la morte traumatica di questa figura amata e temuta — successiva alla perdita della madre per tisi — il giovane Dostoevskij venne arrestato come sovversivo e condannato a morte, per venire graziato pochi minuti prima dell'esecuzione e deportato in Siberia. Qui, gli stenti e la paura contribuirono a esasperarne lo stato di salute e a rendergli evidente il malessere, di cui forse in precedenza aveva sottovalutato la gravità. Si presume che in seguito alle prime nozze con Marija Dimitrevna — sempre nel tentativo, quasi agiografico, di far combaciare l'affioramento del male con gli snodi più rilevanti di una vita — Dostoevskij venne colpito da un fortissimo attacco che lo lasciò immobilizzato a letto per qualche giorno. In realtà pare che la crisi fosse più dovuta allo champagne. «In assenza di terapia, le crisi si ripetono spontaneamente — spiega la dottoressa Canevini —. Ma a volte si riscontrano fattori favorenti. E l'alcol in questo caso può aver giocato un ruolo nel peggiorare la frequenza degli attacchi». In ogni caso nemmeno la lettera che l'autore del già acclamato Povera gente scrisse allo zar, per convincerlo a lasciarlo tornare a Pietroburgo da Tver', dove si trovava relegato, fuga i dubbi. «A ogni attacco perdo la memoria, la capacità immaginativa, le forze fisiche e spirituali» scriveva Dostoevskij. «L'esito (…) è l'indebolimento, la morte o la pazzia». Sappiamo che da quel momento in poi ebbe invece avvio, anche per il contratto capestro che lo costrinse a una prolificità a tappe forzate, la sua più grande stagione creativa. E con il passare degli anni gli attacchi si diradarono. Le testimonianze lasciate da mogli, amici e medici curanti intorno a crisi, amnesie, accessi si rincorrono per tutta la vita e anche dopo, quando si provò a ricostruire un'anamnesi difficoltosa: un caso di allucinazione acustica all'età di sette anni, un'afasia passeggera, le assenze in luogo pubblico e i racconti degli attacchi notturni, i resoconti dell'amico Strakhov o dell'amica Kovalevskaya secondo i quali Dostoevskij paragonava il momento antecedente all'attacco alla visione paradisiaca di Maometto. Di certo, al di là di qualche salasso, non si tentò mai una cura e questo non era insolito per un'epoca che ancora marchiava l'epilessia come un male dell'anima. Le nebbie non si dissiparono nemmeno quando, a visitare postumo l'illustre paziente, ci si mise per via indiretta Sigmund Freud. Nel contestato saggio sul parricidio, pur mettendo le mani avanti sull'insufficienza delle fonti, il padre della psicoanalisi bollò l'epilessia di Dostoevskij come un semplice sintomo di nevrosi e la riclassificò come istero-epilessia, attribuibile a un complesso edipico. Forse piccato per una battuta del libro che definiva la psicologia "un'arma a doppio taglio", arrivò a scrivere che la "simpatia di Dostoevskij per il criminale supera i confini della compassione alla quale l'infelice ha diritto, ricorda l'orrore sacro con cui l'antichità guardava all'epilettico e al malato di mente». Di conseguenza — era la conclusione, forse troppo disinvolta — questa compassione doveva essere fondata sui medesimi impulsi assassini.
Gli ultimi studi, per quanto sempre più disorientati dalla molteplicità delle fonti e delle analisi, tendono a diagnosticare un'epilessia del lobo temporale mesiale sinistro, probabilmente esordita intorno al 1846, quindi al tempo dell'arresto. Resta soprattutto che l'epilessia rivestì un ruolo tanto cruciale nella vita di Dostoevskij da attribuirla a diversi suoi personaggi, fra i quali due figure-chiave, ossia l'ateo suicida Kirillov dei Demonî e, nell'ultimo capolavoro, il figlio illegittimo di Fëdor Karamazov, lo Smerdjakov che simula un attacco per difendersi dall'accusa di omicidio.
Soprattutto la incarnò il principe Myškin, al quale fece raccontare la cosiddetta "aura", il momento estatico che precede l'attacco, arrecando al paziente una visione di grande bellezza. «Che importa se è malattia?» diceva il suo personaggio più straziante. «... l'effetto che esso produce, risulta sommamente armonico e sublime» Non solo. È singolare notare come l'immagine di questo male si sposi alla poetica di un'opera complessiva, in cui i dilemmi morali e psicologici, la crisi dei valori, le tensioni ideali, il tema della scissione e gli afflati mistici scorrono attraverso un quadro vivido, il cosiddetto romanzo polifonico, come un fiume carsico — o una scarica elettrica, appunto — per emergere a un tratto dal sottosuolo, inaspettati e potenti, emblema di una psiche tormentata, ma anche di una delle menti più grandi nella storia della letteratura.


l’Unità 4.12.11
«Tripla A» per il nostro sito. Sul web siamo sesti al mondo


In tempi in cui la parola “rating” basta a far tremare operatori di Borsa e leader politici, anche noi all'Unità abbiamo fatto un piccolo salto sulla sedia quando abbiamo letto quello assegnatoci da Innova et Bella. Niente paura, però. I dati della società di ricerca parlano di una tripla A. E di un quotidiano che su Facebook si posiziona per il secondo anno consecutivo tra i primi cinque al mondo. Davanti al Guardian, al Pais, a Repubblica, al Sole 24 Ore e a molte altre testate protagoniste del palcoscenico mondiale. Secondi, in Italia, solo dopo il Corriere della Sera.
Con i suoi 101 mila “likers” (oggi sono oltre 160mila, la ricerca è aggiornata al 19 aprile 2011) il quotidiano fondato da Gramsci ha ottenuto il massimo rispetto a tre parametri fondamentali: la qualità e il numero delle migliori pratiche relazionali offerte agli utenti Facebook, lo sviluppo interattivo della comunicazione, il numero dei sostenitori iscritti.
«L’Unità è stata premiata per la ricchezza di pratiche interattive con i likers, che di volta in volta vengono invitati a partecipare alle discussioni nei blog, a lasciare commenti nelle rubriche, a partecipare ai sondaggi e a scaricare le prime pagine del quotidiano», si legge nel report di Innova et Bella.
Dati che a noi fa piacere leggere incrociandoli con quelli che emergono da Twitter. Unita.it è, tra gli account delle principali testate italiane, quarta per numero di follower. Con oltre 12 mila persone che seguono i suoi tweet, si prende una rivincita sul Corriere (6.832Follower), e si posiziona dietro solo a Repubblica, Stampa e Il Giornale. E premiatissimi sono i nostri blogger, anche quest’anno.

il Fatto 4.12.11
Letteratura della nuova Italia
di Maurizio Viroli


Se i libri che si pubblicano sono indicativi della sensibilità morale e politica di un popolo, allora è lecito pensare che in Italia si sta rafforzando l’esigenza di un cambiamento che non sia semplice correzione, ma una radicale rottura con il regime di Berlusconi nel senso di una vera e propria rinascita civile. Da pochi giorni sono infatti arrivati nelle librerie l’Elogio del moralismo di Stefano Rodotà (Laterza) e La questione civile di Roberta De Monticelli (Raffaello Cortina Editore). Fosse ancora viva la buonanima di Bendetto Croce, li commenterebbe sotto la rubrica ‘Letteratura della nuova Italia’, di una nuova Italia auspicata.
Diversi per stile di pensiero e per sensibilità, i due libri sono documenti della sofferenza che abbiamo vissuto nei lunghi anni in cui il volto e le parole di Berlusconi penetravano ovunque, e le loro malefatte deturpavano la vita civile. Ma con altrettanta forza esprimono la volontà di vivere da cittadini liberi.
ROBERTA De Monticelli definisce infatti il suo saggio un “abbozzo di una filosofia del risveglio, scioglie un “inno a Socrate” e chiude con un’ “invettiva finale e razionale” che nel paese dei toni sommessi e dei passi indietro è una lodevole eccezione. Stefano Rodotà scrive che “si riscopre un bisogno di moralità” e che è tempo di ridare al moralismo la forza di termine di denuncia e di “riflessione impietosa su quanto ci circonda e, insieme, precetto […] capace di suscitare se non rispetto in coloro ai quali si rivolge, riprovazione in quanti assistono all’inverecondo spettacolo”. Dove è il caso di rilevare che parlare di riflessione impietosa nel paese dei professionisti della comprensione (verso i criminali e i corrotti) è davvero un’altra musica. I due saggi convergono anche nella proposta etico – politica. Roberta De Monticelli pone l’accento sulla giustizia. Quando il pensiero e la vita si rinnovano, scrive, ciò avviene grazie a “un risvegliarsi del sentimento di giustizia che è anche un approfondimento della conoscenza di nuovi strati o nuovi aspetti di questo valore. Morale, diritto e politica e forse religione [... ] si rinnovano a partire dalla giustizia”. E giustizia vuol dire in primo luogo porre fine alla “criminosa svendita di legalità in cambio di consenso”, e alla sistematica rapina nei confronti dei pubblici beni, a partire dalla bellezza del nostro ambiente naturale e delle nostre città e borghi. Rodotà ci invita a ricordare che democrazia non vuole dire soltanto governo del popolo (entro i limiti definiti dalla Costituzione), ma anche governo ‘in pubblico’, e dunque sono inammissibili tanto la menzogna, quanto la pretesa da parte dei politici, di non rendere conto dei propri comportamenti. Chi deride i moralisti non capisce, o fa finta di non capire, che chi ha l’onore di rappresentare i cittadini ha la responsabilità di dimostrare che la sua condotta pubblica e privata è irreprensibile e che merita dunque la fiducia che gli è stata accordata.
LETTI L’UNO dopo l’altro, i due libri indicano non soltanto una prospettiva ideale, ma anche una strategia politica che consiste nel mettere da parte gli atteggiamenti politici accomodanti verso gli uomini e i metodi del regime berlusconiano e imboccare invece la via dell’intransigenza. A proposito della tesi che una politica accomodante con Berlusconi avrebbe permesso di conquistare il consenso dei ‘moderati’, Roberta De Monticelli scrive: “stupisce che oggi, dopo che questo ripudio [della Costituzione] ha prodotto gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti, molti politici d’opposizione parlino ancora dei ‘moderati’, quegli elettori ‘moderati’ che bisognerebbe riconquistare alla democrazia. Ma dov’erano questi ‘moderati’? Dove sono? Può essere definito ‘moderato’ un desiderio ed un programma di questo tipo? ”. Stefano Rodotà è altrettanto incisivo e sottolinea, a proposito della propensità di molti oppositori al compromesso con Berlusconi, che “quando comparve la proposta di riforma costituzionale della giustizia, subito si materializzò il singolare partito dei ‘sedersialtavolisti’. Ma chi mai accetterebbe di sedersi ad un tavolo da gioco insieme ad un baro, al tavolo di un ristorante dove il cuoco è un avvelenatore travestito da chef creativo? ”.
Temo che saranno assai pochi i leaders politici e gli intellettuali che signoreggiano nel mondo dei media che sapranno raccogliere la saggezza che questi libri offrono. È facile prevedere che vedremo invece dispiegarsi una politica e una cultura accomodanti all’insegna delle parole d’ordine ‘dimentichiamo’ e ‘lavoriamo tutti insieme’. Ma la storia insegna che questa è la ricetta per offrire ai servi del passato regime la possibilità di avere presto la loro rivincita e per avvilire ancora una volta le forze migliori che hanno lottato e lottano per fare dell’Italia un paese dove vincono i prepotenti e i furbi.

il Fatto 4.12.11
Bruno Vespa
Se amore fa rima con squallore
di Silvia Truzzi


Il bello e il brutto delle redazioni culturali dei giornali è che arrivano i libri. Tutti, o quasi, quelli che escono. Una festa, si dirà. Più o meno. Ti capitano meraviglie inaspettate o anche brutte sorprese. Ho preso in mano il libro di Bruno Vespa con ritardo, in questi giorni dell’annuncio di Mario Monti a Porta a Porta (vabbè, no comment; chissà quale scrivania). Il libro s’intitola “Questo amore. Il sentimento misterioso che muove il mondo”, una specie di viaggio tra abitudini degli italiani e dichiarazioni di veri o presunti vip. Non voglio dire ovvietà, né riportare il ritratto del’ex premier seduttore, un po’ playboy scavezzacollo ma simpatico, le sue noemi, patrizie, sabine, ruby. È il quadro generale, oltre le piccinerie dei singoli, che fa spavento. Ne esce una fotografia tristissima di rapporti senza profondità, di do ut des, egoismi e mercificazioni assortite. Non che mi aspettassi l’incanto, ma nemmeno questo amore-squallore. Dove l’altro è o un corpo o un problema, una noia di cui liberarsi. Una prigione da cui scappare. Come se nessuno avesse più l’idea che l’altro – la persona teoricamente “amata” – meritasse rispetto, comportamenti dignitosi, sguardi che vedono oltre il sé. Oltre, soprattutto, l’idea che le persone sono intercambiabili. Tra le solitudini, la più spaventosa è quella di una coppia “opportunista”, dove il “mi fa comodo stare con te” prende il posto del “desidero stare con te”. Tra i capitoli uno è dedicato alla fede: s’intitola “Amore di Dio” e sembra un verso di Sandro Bondi, che naturalmente compare anche come protagonista per il suo rapporto sentimentale con l’onorevole Emanuela Repetti. Sentite questa (Alberoni citato da Vespa): “Le donne sono molto più selettive dei maschi. Sono attratte dai maschi che emergono (...) Avete mai visto un gruppo di preadolescenti in presenza del proprio idolo? Si protendono verso di lui, rosse, congestionate, lanciano urla roche, qualcuna sviene, i loro genitori faticano a trattenerle. È la prima manifestazione della sessualità. Ma anche dell’amore. Perché lo amano, lo adorano, per lui sarebbero disposte a fare qualunque cosa... Questa tendenza si attenua con il passare degli anni, ma non svanisce mai del tutto”. Un’alberonata classica che dipinge un mondo di personaggi, senza persone. Dice poi Vespa che “le donne sono sempre state attratte dal potere”. Non so quali donne e quale potere. Certo quello di cui siamo stati spettatori negli ultimi anni è assai poco attraente. Ce ne sono stati di più atroci: il libro di Anna Kanakis (“L’amante di Goebbels”), ne racconta uno terribile. Non solo perché il protagonista è l’odiatissimo ministro della propaganda del Reich. Ma anche perché sullo sfondo c’è la ferocia di un regime che schiaccia come un carro armato la vita delle persone. La storia di Lidia Baarova è famosa: attrice cecoslovacca, s’innamorò di Goebbels quando era già sposato e divenne la sua l’amante. Il giudizio è fin troppo semplice: l’uomo sbagliato, in ogni senso. Però attorno a questa storia ci sono figure altrettanto tremende: come la moglie del gerarca, disposta a qualunque patto con l’altra donna pur di non perdere il suo potere. Si torna sempre lì, al potere. Che è tutto fuori dalle persone: è fama, denaro, visibilità. A un’immagine di sé, non a sé. Forse una nuova educazione sentimentale che non insegni a guardare fuori, ma dentro, ci aiuterebbe a essere tutti meno poveri, disperati e soli.

La Stampa 4.12.11
Domani a Palazzo Ducale di Genova
Non tutti i barbari vengono per nuocere
L’iconografia dell’invasore nasce nell’800. In realtà fuori dall’impero si desiderava condividere il benessere di Roma, non distruggerlo
di Alessandro Barbero


Domani sera, a Palazzo Ducale di Genova, si apre la rassegna di lezioni di storia «Noi e gli antichi», organizzata dal Comune di Genova in tandem con la Fondazione Edoardo Garrone e la Casa Editrice Laterza. Il primo incontro è con lo storico Alessandro Barbero (nella foto) che terrà una relazione dal titolo Chi sono i barbari? di cui anticipiamo un estratto. I prossimi appuntamenti sono il 12 dicembre con Andrea Carandini (parlerà di Vergine madre ), il 19 dicembre sarà la volta di Eva Cantarella che affronterà il tema Uccidere il padre. Si riprende l’anno prossimo, il 9 gennaio, con Andrea Giardina che spiegherà L’invenzione di Roma. Il 16 gennaio Giovanni Filoramo illustrerà La religione da Giove a Cristo, il 23 gennaio Massimo Montanari si chiederà Quanto è antica la cucina mediterranea? Il Sacco di Roma come fu visto dal pittore Joseph-Noël Sylvestre nel 1890
Le invasioni barbariche sono fra i temi preferiti della pittura pompier dell’Ottocento. L’iconografia prevede poche varianti fondamentali: torme di barbari urlanti, coperti di ferine pellicce, galoppano fra i templi e i monumenti, impugnando le fiaccole con cui tra poco ridurranno in cenere la civiltà. In alternativa il capo barbaro, un ghigno soddisfatto che spunta tra i baffoni incolti, spalanca la porta dell’harem del palazzo imperiale, dove lo attendono schiave e concubine tremanti. I barbari, era una certezza, avevano distrutto Roma perché odiavano la civiltà, e quindi l’avevano fatto apposta: nel 1890 Joseph-Noël Sylvestre rappresentò il sacco di Roma da parte dei Goti, nel 410, immaginando barbari nudi intenti ad annodare una corda intorno al collo d’una statua, per poi trascinarla rovinosamente a terra. Si possono immaginare i brividi del colto pubblico della Belle Époque, che non temeva più invasioni di barbari, giacché in ogni angolo del mondo gli indigeni eran comandati a bacchetta dall’uomo bianco, ma i barbari cominciava a temere di averli in casa: scioperanti, anarchici, comunisti, tutti nemici, comunque, del benessere e della civiltà.
Oggi, in verità, sappiamo che i barbari non volevano affatto distruggere la civiltà antica. Perché mai, altrimenti, avrebbero avuto così tanta voglia di venire a vivere nell’impero romano? Anche loro volevano abitare nei palazzi, assistere ai giochi del circo, aver l’acqua in casa grazie agli acquedotti, trovare al mercato tutte le merci del mondo. I loro antenati c’erano riusciti attraverso duri sacrifici, venendo a lavorare nell’impero da umili immigrati; molti avevano avuto successo, erano diventati ufficiali dell’esercito, e i loro figli erano saliti in quella società aperta e multietnica fino a diventare generali e ministri. Dalla fine del IV secolo, però, il meccanismo s’incrinò. Certi errori del governo imperiale nel gestire i flussi di immigrazione fecero sì che il problema sfuggisse di mano, e che i barbari, sempre più numerosi, venissero a stabilirsi nell’impero senza obbedire alle regole, anzi pretendendo di comandare: è questo l’inizio delle invasioni barbariche.
L’ironia della storia sta nel fatto che quando i barbari si furono trasferiti in massa, e da padroni, sul suolo romano, tutte le meravigliose infrastrutture che li avevano attirati cominciarono a funzionare sempre peggio, e alla lunga andarono fuori uso. Ci volle molto più tempo di quello che c’immaginiamo, perché, ripetiamolo, non lo fecero apposta: per secoli i re barbari continuarono a organizzare i giochi del circo, a pagare gli ingegneri che facevano funzionare gli acquedotti, a spendere per la manutenzione delle strade, mentre capi e capetti s’installavano nelle lussuose ville di campagna, dotate di terme e mosaici. Ma di soldi ce n’erano sempre meno, adesso che l’onnipotente governo centrale dell’impero era stato sostituito da tanti piccoli re; i mercanti dell’Oriente non si spingevano più volentieri in luoghi diventati pericolosi; il knowhow si perdeva, la qualità dei tecnici peggiorava, le riparazioni non riuscivano, il denaro circolava di meno e la gente preferiva seppellirlo sotto terra, i mercati si svuotavano, le scuole chiudevano, e benché nessuno l’avesse voluto la prosperità antica divenne solo un ricordo.
Bisognerà dunque rinunciare ai barbari urlanti e alle loro fiaccole, o meglio limitare l’immagine a casi specifici ed enormi, come la distruzione di Aquileia da parte degli Unni di Attila. E dovremmo esserne contenti, perché quegli Unni si sono poi perduti nelle pieghe della storia e di loro non si è più saputo niente, mentre da quei Goti, Franchi, Longobardi che invasero l’impero discendiamo, almeno un po', noi Europei dell’Occidente. Sarà per questo che il dipinto di Jean-Noël Sylvestre, a vederlo oggi, fa un’impressione così curiosa? I barbari intenti alla loro impresa iconoclasta non ci suscitano più quella ripugnanza che dovevano suscitare un secolo fa; anzi, ci sembrano curiosamente familiari. Pare quasi di averla già vista, quella scena; di averla vista coi nostri occhi, e non in un museo, ma dal vero o quasi, su uno schermo televisivo; e di essere stati addirittura d’accordo. Ed è proprio così: basta riandare con la memoria all’entrata delle truppe americane a Baghdad, nell’aprile 2003, quando i soldati si arrampicarono sulla statua colossale di Saddam Hussein in piazza Firdaus, la legarono con una corda e poi la tirarono giù.
La scena è la stessa, salvo il fatto che i barbari di Sylvestre sono nudi, mentre nella realtà sarebbero stati coperti da robuste armature, proprio come gli americani a Baghdad. L’altra differenza è che nel quadro pompier i barbari sono soli in una Roma spettrale, da cui gli abitanti sono scomparsi; mentre nelle riprese televisive una folla di iracheni assiste all’impresa, quasi a garantirne la legittimità democratica. Ma è poi davvero una folla? In certe scene sembra che sia proprio così; ma gli esperti, che le hanno studiate, garantiscono che c’era al massimo un centinaio di persone, abilmente riprese in modo da farle sembrare molte di più: «La messa in scena fotografica più plateale dopo Iwo-Jima». La differenza fra civiltà e barbarie, a quanto pare, è soprattutto questione di uffici-stampa.

Corriere della Sera 4.12.11
Zar Caravaggio
In fila per il grande artista che può battere il record di Dalì «Era così stravagante, mi chiedo come abbia fatto simili capolavori»
di Fabrizio Dragosei


Davanti all'ingresso del Puškin fa freddo e nevica leggermente. Le automobili imbottigliate in quell'eterno ingorgo che è Mosca sono coperte da un sottile strato bianco. Un'ora dopo l'apertura, la fila per entrare al «Museo statale delle arti figurative Puškin» ha già superato l'angolo e gli ultimi sanno che non se la caveranno tanto velocemente. Si entra in gruppi di 30 persone ogni venti minuti. Ce ne vorranno ben più di sessanta per superare l'ingresso, affrontare l'imponente scalinata affiancata da enormi colonne e arrivare al piano della mostra, «la più grande di Caravaggio mai organizzata fuori dall'Italia», come recitano con orgoglio le locandine.
Il Puškin è un museo curioso. Oltre alle tantissime opere provenienti da tutto il mondo (unica la collezione di impressionisti francesi) ha anche una vasta sezione dedicata alle copie. Copia del Davide di Michelangelo, copia del colossale bronzo equestre al Gattamelata di Donatello, poi statue romane, busti greci, sculture assire, sarcofaghi egizi. Un museo «educativo» dove i cittadini sovietici che certo non potevano recarsi all'estero avevano modo di ammirare quei tesori.
E ancora oggi il Puškin è frequentatissimo dalle classi in gita, come quella proveniente da Tver che sta per entrare nella grande sala che ospita i Caravaggio. Sono ragazzini piccoli, ma tenuti in riga con pugno di ferro dalle insegnanti. Qui non si corre, non si grida, non si usa il cellulare e la settimana successiva si viene interrogati su quello che si è visto.
Ai russi piace documentarsi, non solo guardare le opere che sono esposte. Nel salone foderato di stoffa rossa che ospita gli 11 quadri giunti dall'Italia, sono appesi ben 13 grandi pannelli che raccontano tutto di Michelangelo Merisi. A fianco di ogni quadro, invece, solo poche righe: «Martirio di Sant'Orsola, Napoli Palazzo Zevallos Stigliano»; «Flagellazione, Napoli museo Capodimonte». Il tutto, naturalmente, in caratteri cirillici.
Lena, col naso gelato dopo 40 minuti di fila, è un medico in pensione e dice che quando può «va sempre a vedere le mostre che si tengono al museo che non è lontano da casa». Come pensionata paga 150 rubli, l'equivalente di 3 euro e mezzo che non sono certo pochi per chi prende 300 euro al mese. I visitatori normali pagano 300 rubli (7 euro), ma gli stranieri sono più «normali» degli altri in base a norme che non sono mai cambiate da quando c'era l'Urss e pagano 400 rubli. Entrano gratis invalidi, veterani di guerra, eroi dell'Urss e della Russia; i minorenni la prima domenica del mese. Davanti alla cassa c'è un tabellone fitto di regole, tabelle e tariffe. Anche questo rigorosamente solo in russo.
Yurij, 26 anni, fa lo scultore e quindi non poteva non visitare la mostra di Caravaggio. «Il mese scorso ho tentato di vedere anche l'esibizione di Salvador Dalì, ma la fila era troppo lunga», racconta. Per l'occasione è stato stabilito il record di visitatori: 270 mila in 11 settimane, più di 4 mila al giorno. La mostra di Caravaggio, che si tiene in contemporanea a quella sul pittore inglese William Blake, potrebbe fare ancora meglio. Tre anni fa il canale televisivo Cultura ha trasmesso con grande successo il film su Caravaggio prodotto dalla Rai e altre tv europee. E ciò ha sicuramente contribuito ad aumentare le attese. Irina, 26 anni, commessa in un negozio di vestiti, dice di essere molto curiosa. «Voglio capire come una persona dalla vita così stravagante abbia poi potuto dipingere simili opere».
Il salone rosso è affollatissimo, tra chi legge i pannelli, chi ascolta le audioguide e chi ammira le tele. La mostra è aperta dalle 10 del mattino alle 7 di sera. Ma già si pensa che presto il personale dovrà fare gli straordinari.

Corriere della Sera 4.12.11
Quei ricchi potenti ammaliati dal genio «borderline»
Il Cardinale invidiava l'artista straccione ma libero
di Francesca Bonazzoli


Quando, nel 1592, il ventunenne Caravaggio arrivò a Roma da Milano, era uno sconosciuto fra le centinaia di pittori che tentavano di guadagnarsi da vivere in una città stremata dalla carestia e dalla crisi alimentare; secondo i suoi biografi Mancini e Bellori, appariva «estremamente bisognoso et ignudo», «senza recapito e senza provedimento» e «senza denari».
Come fece uno così a farsi strada nella giungla della plebaglia romana? La sua pittura era dura, secca, e senza abbellimenti riproduceva la parte peggiore della realtà: bari, prostitute, zingare, pellegrini straccioni, frutta marcia, piedi nudi e sporchi. Chi poteva comprare quadri così, contro ogni regola del decoro? Chi furono i collezionisti che videro in Caravaggio un genio e lo tirarono fuori dalla povertà provando, inutilmente, a imporlo anche alle gerarchie ecclesiastiche, ligie alle regole della Controriforma e dell'Inquisizione?
Il primo fu il cardinal Francesco Maria Del Monte. Un diplomatico consumato, un gay sui quarantacinque anni che, vista la facilità con cui si veniva messi al rogo, conduceva una vita riservatissima. In qualità di rappresentante dei Medici a Roma, tutto sapeva e tutto conosceva, ma nessuno poteva dire altrettanto su di lui. Sotto l'amabilità e le belle maniere, proteggeva il suo privato con reticenza assoluta. Suonava, amava la musica, il teatro e la scienza; allestì una distilleria alchemica nella villa del giardino Ludovisi, fu il primo a possedere il nuovo telescopio dell'amico Galileo, ma riuscì a non compromettersi nemmeno quando difese lo scienziato durante i guai con l'Inquisizione. Era una specie di Gianni Letta: il potere passava dalle sue mani, ma non lo esercitava. E soprattutto, in quella Roma grigia, dove era pericoloso pensare e parlare, dove Clemente VIII faceva bruciare vivo Giordano Bruno e combatteva una feroce battaglia contro prostituzione e sodomia, «il vizio indicibile», Del Monte praticava l'arte del tacere e della discrezione, senza mai sollevare un pettegolezzo su di sé.
Ebbene, fu proprio un burocrate così che si prese in casa un pittore povero in canna, sporco (le cronache del tempo dicono che si lavava pochissimo, anche dopo il successo) e attaccabrighe come Caravaggio. Lo ospitò nel suo palazzo Madama e lo protesse facendolo uscire di prigione ogni volta che gli sbirri lo arrestavano. Probabilmente, il compassato cardinal Del Monte vedeva in Caravaggio quella libertà e quella noncuranza verso la trasgressione che egli non si poteva permettere.
I Giustiniani, invece, i secondi grandi collezionisti di Caravaggio, vedevano forse in lui «la scoperta» à la page del loro prestigioso vicino di casa, il Del Monte: dei due fratelli di una famiglia di banchieri genovesi che aveva avuto il controllo delle finanze degli Asburgo di Spagna, Benedetto era cardinale, talmente intimo con il re di Francia Enrico IV che questi lo chiamava mon cousin, mentre Vincenzo era l'uomo più ricco di Roma da cui dipendeva il deficit del Papa. Aveva quindici anni meno del suo amico Del Monte ed era tutt'un altro tipo: sposato, padre, amante della caccia, borghese per spirito e attività, aspirante al titolo nobiliare, che poi ottenne. Quando morì, Vincenzo aveva accumulato quindici tele di Caravaggio, mentre Del Monte ne possedeva solo otto.
Gli altri nobili collezionisti romani furono i Mattei, mentre i Colonna, marchesi di Caravaggio, imparentati con i Doria principi di Genova, furono soprattutto i protettori che stesero intorno al pittore assassino, condannato alla pena capitale dal Papa, una rete di aiuti estesa fino a Malta. Senza questi ricchi e potenti, dal comportamento eccentrico rispetto ai loro pari, quel «cervello stravantissimo» di Caravaggio non ce l'avrebbe fatta. Gli opposti hanno sempre qualcosa che li attrae e il collezionismo di oggi continua a dimostrare la regola.