martedì 6 dicembre 2011

Riccardo Lombardi
L'inchiesta 4.12.11
L'Inchiesta Hanno ammazzato il cattocomunismo

di Pino Di Maula

Amava definirsi a-comunista, non anti-comunista. Quando gli chiesero: “che cosa ha imparato dalla vita?”, Riccardo Lombardi rispose: “ad essere onesto!”. Semplice, ecco in tre parole l’essenza dell'intransigente socialista che ricercava una terza via, alternativa al Pci e alla Dc. Lombardi voleva superare il comunismo senza schiacciarsi sul pensiero cristiano e senza cadere nel ribellismo sessantottino fine a se stesso: la rincorsa verso una libertà effimera e antagonista dell'identità. Quale la differenza con Lucio Magri. Il fondatore del Manifesto nasce nel cattolicesimo democratico, nella Dc di De Gasperi e Dosetti. Artefice, negli anni 50, del termine “cattocomunista”, fu di esempio per tanti: da Luisa Morgantini a Mario Capanna, da Pierre Carniti a Nichi Vendola. È passato mezzo secolo e l'orribile epilogo manifesta ora nitidamente il loro fallimento, ma non del comunismo. Anzi. É il fallimento della loro rivolta al comunismo. È il fallimento delle loro bufale teoriche alimentate da Basaglia e dalla psicoanalisi che tutto può considerarsi fuorché cura medica, ricerca e formazione scientifica sulla realtà umana. La morte di Magri che andrebbe denunciata come assassinio per mano degli operatori svizzeri, complice chi lo ha accompagnato, svela l'inganno. “Magri – spiega Massimo Fagioli dal settimanale Left - ha voluto dire a tutti che la sua vita brillante, bella, di rivolta per cambiare il mondo è fallita. Ed è fallita perché il ’68 non fu rifiuto, perché ci fu una fusione tra cattolicesimo e comunismo, perché si usò la ragione lucida del calcolo per tentare il cambiamento. Se si ha – afferma l'autore di Istinto di morte e conoscenza - tutto il diritto di evitare sofferenze inutili quanto incurabili, diversamente sul depresso non è più eutanasia, buona morte, ma cattiva morte. Omicidio. La depressione – conclude lo psicoterapeuta - non è una malattia organica, la persona depressa ha il corpo vivo e funzionante. La caratteristica fondamentale della vita umana non è solo la stazione eretta, ma il pensiero. E questo pensiero va studiato perché nella depressione è il pensiero ad ammalarsi, non il fegato o il cuore”. Tornando a Lombardi. Quando morì, nel settembre del 1984, per un polmone torturato dai fascisti, mentre il comunista Napolitano lo ricordava alla Camera, i socialisti tappezzarono mezza Italia con una sua frase: "È socialista quella società che riesce a dare a ciascun individuo la massima possibilità di costruire la propria vita". Una bella differenza, no?

l’Unità 6.12.11
Franceschini e Finocchiaro in aula: modifiche per tutelare i più deboli
Bersani al coordinamento: «Subito al lavoro per definire i correttivi»
L’offensiva del Pd: in Parlamento bisogna cambiare
Il Pd lavorerà affinché la manovra venga modificata per allegerire le misure su pensioni e Ici. «Ci aspettavamo misure più eque». Bersani: «Proporremo agenda di riforme in Parlamento».
di Maria Zegarelli

Una manovra dura, «di cui si percepisce la dolorosa necessità», come dice Pier Luigi Bersani, ma «ce l’aspettavamo più equa». Per questo ora ci si aspetta «correzioni, anche se ci sono tracce delle nostre proposte». Il segretario Pd commenta così gli interventi da 30 miliardi di euro lordi tesi a «salvare l’Italia» dal rischio fallimento.
Si può e si deve migliorare, lo dice il numero uno del Nazareno nel corso del coordinamento del partito, lo dicono i due capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, e lo dice la quasi totalità dei democratici, compresi i Modem, con sfumature più morbide i lettiani.
Ed è per questo che da ieri pomeriggio, subito dopo il discorso del premier alla Camera, è entrata in azione l’alta diplomazia dei partiti con il governo alla ricerca di una «sintesi» che lo stesso esecutivo dovrebbe trovare sulla base delle indicazioni arrivate ieri e sotto forma di un emendamento al dl. Troppo rischioso avventurarsi sul terreno scivoloso degli emendamenti e poco, pochissimo, tempo per approvare la manovra. Ma così come è entra nella carne viva della fascia medio-bassa dei cittadini e i partiti sanno bene quale sia l’umore dei propri elettori ai quali, come dicono sia Franceschini sia Cicchitto, vanno dati dei segnali.
IL CONFRONTO CON IL GOVERNO
Durante il coordinamento di ieri il Pd si è trovato su una posizione unitaria circa i punti sui quali sarà necessario aprire il confronto con il governo per intervenire nel senso dell’equità e sulla necessità, come ha detto Bersani, di proporre «un’agenda di riforme in Parlamento» tra cui sicuramente la legge elettorale e il superamento del bicameralismo perfetto. Quanto all’emergenza, ha detto il segretario, «confermiamo che siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità ma abbiamo detto anche con nettezza cosa faremmo noi e cosa chiediamo che si faccia: dobbiamo assolutamente migliorare la manovra alleggerendola su alcuni punti».
Sono Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, dopo aver fatto il punto in una capigruppo con il segretario, ad elencarli in Aula: «Sia noi che la destra probabilmente avremmo rispettato gli impegni europei facendo manovre diverse dice il primo avremmo lavorato su una maggiore equità, un intervento più graduale sulle pensioni, su chi si vede alzare l’età avendo già perso il lavoro, e poi non bisogna dimenticarsi dei lavoratori precoci. Vorremmo una franchigia maggiore sulla prima casa, avremmo voluto di più dai grandi patrimoni, avremmo cercato risorse dal patrimonio pubblico immobiliare e dall’asta sulle frequenze».
Alla base di tutto, dice Franceschini tra gli applausi Pd, deve esserci un principio: «Quello della giustizia sociale, il principio che il sacrificio va chiesto a ognuno in base ai propri mezzi e che non si tollerano più furbizie e vigliaccherie».
Oggi il Pd incontrerà l’Idv, Casini e cercherà di sondare gli umori del Pdl per capire i margini di intervento. Per i democratici la tassa sui capitali scudati va alzata almeno al 2% (Sergio D’Antoni la vorrebbe al 15), per poter lasciare l’indicizzazione a chi prende 1500-2000 euro di pensione, mentre un altro «correttivo» dovrebbe riguardare le pensioni di anzianità per i lavoratori precoci: no alla penale per chi lascia il lavoro prima dei 42 anni e 1 mese di contribuzione gli uomini e 41 e un mese le donne. Lo ribadisce la capogruppo al Senato: «Vorremo più coraggio sui grandi patrimoni per alleggerire l’intervento sulle pensioni per i lavoratori precoci e incrementare l’esenzione dell’Ici sulla prima casa». Preoccupata Livia Turco: «Le modifiche sono necessarie, le fasce sociali più deboli non sono ancora sufficientemente tutelate». Dalla minoranza Pd Walter Veltroni e Valter Verini sono convinti che sia possibile apportare modifiche. Altro fronte caldo, di cui si è discusso al coordinamento, è l’Europa e la linea Merkel-Sarkosy. È Rosy Bindi a chiedere che Monti apra in quella sede un confronto sulle scelte future, «altrimenti i nostri sacrifici saranno vani».

l’Unità 6.12.11
Misure da cambiare Non possiamo tacere
I temi dell’equità e dello sviluppo restano in ombra Colpire transazioni e rendite, tutelare il Welfare
di Cesare Damiano

A ll’atto del suo insediamento il Presidente del Consiglio aveva promesso rigore, sviluppo ed equità. Adesso che la manovra è stata presentata, possiamo constatare che i temi dell’equità e dello sviluppo sono rimasti in ombra.
Abbiamo apprezzato le modifiche dell’ultima ora che sono state prodotte dal Consiglio dei Ministri di domenica scorsa e che hanno introdotto una tassazione dell’1,5% sui capitali scudati e rientrati dall’estero. Tassazione che ha consentito di cancellare il blocco delle indicizzazione delle pensioni fino a quelle di importo pari a 960 euro lordi mensili, cioè due volte il minimo. Però tutto questo non è sufficiente. Rintracciamo nella manovra un intervento eccessivo a scapito dei soliti noti, soprattutto dei pensionati e di coloro che sono in procinto di diventarlo.
Questo intervento così sbilanciato si basa su una affermazione infondata: che il sistema pensionistico del nostro Paese sia statico, non sufficientemente riformato nel corso di questi anni e che per questo non abbia consentito di far risparmiare sufficiente risorse. Non condividiamo questa affermazione anche perché nella Nota di aggiornamento al Def approvata nel settembre scorso dal Consiglio dei Ministri, che porta la firma d Berlusconi e Tremonti, si affermava che le modifiche al sistema pensionistico degli ultimi anni, ben 4 dal 2004 al 2011, hanno comportato una significativa riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil. Tremonti, e immagino la Ragioneria dello Stato, hanno certificato in quel documento un risparmio medio di 1,4 punti percentuali annui nell’intero periodo 2015/2040. In termini cumulati al 2050 l’insieme degli interventi darà luogo, secondo l’ex Ministro dell’Economia, ad una riduzione di circa 39 punti percentuali di incidenza della spesa previdenziale sul Pil. Propaganda del vecchio governo Berlusconi? Verità contabile della Ragioneria dello Stato, sempre molto attenta ai conti?
Questa domanda l’abbiamo rivolta inutilmente, da parecchio tempo a questa parte, agli esponenti del vecchio governo e all’Inps, ma sin qui non abbiamo ricevuto nessuna risposta concreta. La rivolgiamo adesso al nuovo governo, non tanto perché vogliamo escludere interventi sulle pensioni, sulla base della parola d’ordine «abbiamo già dato», ma perché vorremmo suggerire a Monti di ricavare analoghi risparmi da patrimoni, capitali scudati, transazioni finanziarie e rendite per pareggiare i conti e mantenere, di conseguenza, la mano leggera sul welfare.
Abbiamo già avuto modo di dire che non c’è da parte nostra una pregiudiziale opposizione all’adozione del sistema contributivo pro rata a partire dal 1 gennaio 2012. Vorremmo però sollevare alcuni problemi di equità sociale indifferibili che richiedono degli aggiustamenti alla manovra, anche attraverso pochi e selezionati interventi. In primo luogo va chiarito che chi andrà in pensione di anzianità dopo 41-42 anni di contributi non può subire penalizzazioni anche se ha meno di 63 anni. Anzi, l’intero periodo dovrebbe valere per il calcolo della pensione. In secondo luogo non è sufficiente l’indicizzazione delle pensioni al 100% solo per gli importi fino a 960 euro lordi mensili (circa 700 netti). In questo modo si escludono le pensioni medio basse di operai e impiegati. Va chiarito che tutti i lavoratori posti in mobilità potranno andare in pensione e che coloro che avrebbero potuto andare in pensione con le quote 96 e 97 del 2012 e del 2013, non possono correre il rischio di aspettare il momento della pensione fino a un massimo di altri 6 anni. Sarebbe un’ingiustizia troppo forte. Va trovato un diverso equilibrio nella manovra e va fatto un ulteriore passo avanti: la tassazione dell’1,5% dei capitali scudati può essere ulteriormente innalzata. Il Paese ha bisogno di un segnale di equità incontrovertibile.

La Stampa 6.12.11
Intervista Finocchiaro:
una carezza a chi ha fatto rientrare i capitali grazie allo scudo
di Paolo Festuccia

Questa manovra è ancora sbilanciata. Penso, ad esempio, alla vicenda degli scudati: per quei soggetti che hanno violato la legge portando all’estero i loro capitali, per poi farli rientrare pagando solo il 4 per cento, francamente è ancora una carezza». La pensa così, Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Partito democratico che aggiunge: «E’ giusto che chi con quello “scudo” ha guadagnato molto, ora aiuti il Paese».
Sulla patrimoniale le richieste del Pd non hanno trovato spazio nelle proposte del governo Monti...
«Anche la questione degli scudati non era prevista nella prima stesura. E’ stata introdotta dopo la concertazione, che è stata vera, e mi auguro che prosegua nelle commissioni. Comunque, dopo quel confronto c’è stato anche un alleggerimento sulle pensioni di vecchiaia e di anzianità con la revisione sulle indicizzazioni. Penso, però, che si possa agire di più sui grandi patrimoni, sulla dismissione dei beni dello Stato, e sulle frequenze televisive. Ma certamente occorre insistere sulle grandi ricchezze».
I sindacati sono sul piede di guerra. La Cgil ha proclamato uno sciopero di quattro ore...
«Tutti i sindacati si sono mossi in questo senso. Noi lavoreremo perché nella discussione parlamentare questa manovra venga rimodulata in maniera da garantire meglio il principio di equità».
Pensate a degli emendamenti?
«Ci troviamo in una situazione un po’ strana: perché non essendoci in aula né una maggioranza ne un’opposizione ben definita si potrebbero registrare anche cose un po’ stravaganti. La mia opinione è che dobbiamo cercar di far approdare in aula il testo sul quale nelle commissioni si sia svolto il massimo della concertazione possibile».
Crede che il governo porrà la fiducia?
Non lo so. Vedremo. Noi, però, abbiamo davvero la necessità di agire al meglio e in un tempo più che ragionevole. Ricorderà che il mio partito, i nostri gruppi parlamentari hanno garantito l’approvazione di manovre che non erano le nostre, che non condividevamo assolutamente nel giro di tre giorni per il bene dell’Italia, e quindi, penso che ci si debba muovere con la stessa responsabilità anche adesso».
Perché così pochi applausi per Monti in aula?
«L’applauso più significativo è arrivato dai mercati. Lo avevamo detto che sarebbe potuto accadere se si fosse dato un segnale di serietà. Ma comunque è una situazione esclusivamente psicologica, perché l’aula è una realtà che bisogna conoscere per interpretare. Il rapporto tra le forze politiche e il governo è una relazione tutta nuova. E quindi, quel pezzo che è esclusivamente legato al tifo di partito è ovvio che non c’è. E’ tutto più asciutto, più laico. E la cosa, francamente, non mi sconvolge».

Corriere della Sera 6.12.11
Fassina
«Non c'è equità Sulle pensioni intervento brutale»
Maria Teresa Meli

ROMA — Fassina, che cosa pensa di questa manovra?
«Ritengo che sia necessaria sul piano politico. Serve al nostro governo e quindi all'Italia per andare a Bruxelles e cambiare una linea economica sbagliata, che rischia di mandare a picco il nostro Paese e l'Europa. È la linea portata avanti dai governi conservatori tedesco e francese, impostata sull'ossessione dell'austerità, senza nessuna strategia per la crescita».
E nel merito, qual è il suo giudizio?
«Cominciamo dagli aspetti che mi convincono. Certamente è positivo che si torni a essere attenti all'economia reale. Nella manovra sono contenute misure di politica industriale che noi abbiamo sempre sostenuto. Ma ci sono altri punti che non vanno bene. Il primo è l'intervento brutale sul pensionamento di anzianità, che non distingue tra lavoratori che si trovano in condizioni molto diverse. Comporterà degli effetti pesantissimi sulla vita delle persone. C'è poi il blocco dell'indicizzazione sopra i 960 euro lordi. È un punto che per noi va rivisto. Non si può non tener conto che in questo modo ci sarà gente che non arriverà alla quarta settimana. E questo non va bene: non è coerente con il principio di equità».
Si dice equità per non cambiare niente?
«Non è così. Non dimentichiamoci che la stagione del governo Berlusconi, a livello di equità, non è finita pari, ma è finita quattro a zero. I lavoratori hanno già pagato prezzi pesanti prima, non si può non tenerne conto».
Il governo ha deciso di tassare i capitali scudati.
«È un fatto sicuramente positivo, ma è un intervento timido. Chi ha evaso e poi regolarizzato un milione di euro ne pagherà quindicimila, la stessa cifra che perde annualmente un operaio che ha lavorato duramente per quarant'anni e che viene bloccato per cinque, sei anni nel suo progetto di vita».
Che cosa manca nella manovra?
«È debole il capitolo della lotta all'evasione. Il limite di mille euro per la tracciabilità è il doppio di quanto hanno proposto le rappresentanze delle imprese a settembre. E soprattutto non c'è nulla per il welfare dei giovani e delle donne».
Il Pd ha paura delle reazioni dei suoi elettori?
«È diverso: noi ci facciamo carico delle domande di milioni di lavoratrici e lavoratori, di giovani e meno giovani, che non riconoscono l'equità necessaria in questo pacchetto di misure economiche. Da questo punto di vista guardiamo con preoccupazione allo scavalcamento da parte del governo delle parti sociali, che hanno sempre dimostrato di farsi carico del problemi del Paese. Questo cortocircuito democratico non aiuta il Paese. Perciò mi auguro che il governo incontri le parti sociali durante il passaggio della manovra in Parlamento».
Passaggio fulmineo: pare che Monti chieda la fiducia.
«Spero che non sia un passaggio parlamentare di maniera e mi auguro che il governo ascolti le proposte del Parlamento. Sull'interlocuzione con le forze sociali e sul rapporto con il Parlamento si gioca la credibilità del governo Monti».
Comunque voi voterete questa manovra.
«Noi ci assumeremo le nostre responsabilità. Pdl e Lega hanno portato l'Italia a un centimetro dal baratro. Ora, è fondamentale che questa manovra consenta a Monti di spostare la signora Merkel su una politica economica diversa. Già, la manovra è necessaria, ma non sufficiente, perché se la linea continua a essere quella del governo tedesco le misure contenute nel decreto non rimetteranno in pista né l'euro, né l'Italia. La Merkel sta portando l'Europa a sbattere».

Repubblica 6.12.11
L’ex ministro delle Finanze ed esponente del Pd: bisognava essere coraggiosi sui capitali scudati
Visco: i sacrifici erano inevitabili ma sull´evasione andava fatto di più
Rischia di passare un messaggio devastante: i pensionati possono essere massacrati, chi non paga le tasse no
di Luisa Grion

ROMA È vero, il tempo era poco, le pressioni tante, il rischio di default dietro l´angolo. La manovra non poteva che essere durissima, ma almeno per quanto riguarda la lotta all´evasione fiscale «si poteva fare di più e meglio». Il punto cruciale del testo, per Vincenzo Visco, Pd, ex ministro delle Finanze, è proprio questo. «Si rischia di far passare un messaggio devastante: i pensionati possono essere massacrati, ma gli evasori non si toccano».
C´è la tracciabilità per pagamenti oltre i mille euro, non basta?
«No, non basta. Un conto è limitare l´uso del contante misura tipica contro il riciclaggio e solo indirettamente utilizzabile contro l´evasione fiscale un conto è preparare un pacchetto di provvedimenti sulla tracciabilità delle transizioni che aumenti il controllo, spinga i contribuenti all´emersione spontanea e crei un clima di consapevolezza».
Poteva fare tutto questo un governo in carica da tre settimane?
«Si trattava di riprendere in mano alcune misure già introdotte dall´allora governo Prodi e ispirarsi a quello che fanno tutti gli altri paesi. Penso all´elenco clienti-fornitori, all´invio telematico dei corrispettivi, all´obbligo per i professionisti di non richiedere pagamento in contanti. Si poteva, per esempio, introdurre il borsellino elettronico per le spese spicciole, dal giornale al bar, come già fanno in Francia e Belgio. È mancato invece un progetto organico contro l´evasione. Su questo tema il governo Monti ha agito in continuità con quello Berlusconi concentrandosi sui grandi evasori, ma il gettito si recupera solo agendo a tutto raggio».
Monti ha perso un´occasione?
«Spero ci sia tempo e modo per rimediare».
Con una seria lotta all´evasione, gli interventi sulle pensioni potevano essere meno pesanti?
«Le misure previdenziali si possono considerare inevitabili, ma anche qui si poteva fare meglio, allargando la fascia dei trattamenti da indicizzare. Bastava alzare l´aliquota del prelievo sui capitali scudati: quella prevista dalla manovra è un buffetto sulla guancia».
Perché il governo ha evitato la patrimoniale?
«L´Ici in realtà è già una patrimoniale, ma anche qui si poteva fare di più, se non altro per un fatto simbolico. E l´equità secondo me sarebbe stata maggiore se invece di basare l´imposta sul patrimonio sulle rendite catastali si fosse fatto riferimento ai prezzi di mercato delle abitazioni».
Poco sviluppo e troppe misure recessive, dicono gli oppositori, condivide?
«Purtroppo tutte le manovre che stanno chiedendo la Bce e l´Europa provocheranno una recessione nei vari Paesi. E´ un problema di miopia teutonica. Negli anni Trenta ci fu il grande dibattito fra il Tesoro inglese e Keynes, vinse l´ortodossia. Ne derivò la crisi e il nazismo, la ripresa arrivò solo dopo la guerra. La storia non ha insegnato nulla».

il Fatto 12.6.11
Ma perché il Vaticano non paga l’Ici?
di Pino Corrias

NON AVENDO Ruby da farsi perdonare, né lo spergiuro sulla testa dei figli, né tanto meno le vacanze con Previti, Gheddafi e Putin, ci chiedevamo cosa diavolo avesse Mario Monti da farsi perdonare per avere messo in salvo anche questa volta il Vaticano dalla nuova fucilazione di tasse che a quanto pare dovrebbe salvarci la pelle, bucherellandocela. Tra le ragioni azzardavamo pure la santità di Corrado Passera che per di più risulta un poco ottenebrata dal recente divorzio e perciò ancora più sensibile ai soffici ammonimenti della virtuosa gerarchia. Ci chiedevamo (dunque) come mai venisse di nuovo tassata la prima casa di tutti i cristiani, tranne quella dei padri della cristianità. E insomma, perché mai le grasse casse di Ratzinger che già ci aspirano l’8 per mille non dovessero almeno restituirci i 600 milioni di Ici non versati ogni anno. È a quel punto della giornata che si è fatto vivo monsignor Giancarlo Bregantini, responsabile della Cei per i problemi sociali, che ha detto: “La manovra poteva essere più equa. Specialmente coi redditi alti”. Tipo i patrimoni Vaticani? Ma questo monsignor Bregantini che oggi parla di corda in casa dell’impiccato, ci è o cristianamente ci fa?

il Fatto 12.6.11
LA CEI non paga l’Ici e critica la manovra

Per i Vescovi la manovra di Monti doveva essere più equa. Secondo monsignor Bregantini, dalla presentazione della manovra si ricava l’impressione che “si poteva fare di più sui redditi alti con l’Irpef” mentre, aggiunge, “bisogna essere molto attenti sulle pensioni e forse le misure andavano presentate in contemporanea con quelle per la ripresa. Sarebbe stato forse più opportuno mettere tutte e due le mani insieme, la mano sul fisco e sulla crescita”. “A questo punto – prosegue il responsabile Cei – si deve puntare sulla seconda fase organizzando molto bene l’aspetto della ripresa”, essendo “propositivi”. “Il mondo sindacale guarda con preoccupazione” alle mosse del governo, osserva ancora l’arcivescovo, “ma sarebbe opportuno dialogare per poter arrivare a delle proposte precise soprattutto nel settore dove tutti facciamo fatica, quello della precarietà giovanile”. Bregantini auspica inoltre nuove misure a favore della famiglia e il sostegno della politica al governo Monti. Ma i Radicali protestano perché la Chiesa, ancora una volta, pur protestando, resta immune dai sacrifici degli italiani. ''Ha davvero una gran faccia tosta la Cei a obiettare che la manovra avrebbe potuto essere più equa – dice Mario Staderini, segretario nazionale – Purché a pagare siano gli altri e non la Chiesa, evidentemente . Tanto per cominciare, infatti, sarebbe stata più equa se avesse abolito l’esenzione dell’Ici anche per le attività commerciali degli enti ecclesiastici e similari, piuttosto che fare cassa sulle prime case degli italiani”. “Da un primo esame delle misure risulta ancora troppo timido il ridimensionamento della spesa pubblica, che – conclude Staderini – avrebbe dovuto costituire il nucleo centrale dell’intervento di emergenza e che invece vede ancora prevalere le nuove tassazioni”.

il Riformista 6-12.11
Sarà Ici anche per le società di comodo Ma per la Chiesa è sempre esenzione
di Gianmaria Pica

CARO CASA. Il viceministro Grilli afferma che l’imposta immobiliare la dovranno pagare tutti, anche le imprese. Intanto, sui beni gestiti dal Vaticano, il premier glissa: «È una questione che non ci siamo posti ancora».

Basta trucchetti fiscali. Se la villa, l’appartamento, o il capannone industriale sono intestati a società, il titolare dell’impresa non potrà più sfuggire e dovrà versare all’erario l’imposta Ici (oggi super-Imu) anche su questi beni immobiliari.
Così, come ha spiegato il viceministro Grilli, saranno chiamate a pagare tutte le imprese, anche le società di comodo e i trust. Il trust è un istituto giuridico attraverso cui è possibile creare in maniera piuttosto flessibile un rapporto fiduciario tra un primo soggetto che mette a disposizione i beni e un secondo soggetto che gestirà il patrimonio conferito nel trust. La società di comodo (o società non operativa), invece, si costituisce al solo fine di amministrare i patrimoni personali dei soci, anziché esercitare un’effettiva attività commerciale. Un esempio concreto? Il patrimonio di Silvio Berlusconi non è costituito solo di televisioni ed editoria. Anche le case sono nel cuore del Cavaliere-imprenditore. Così, anche Berlusconi custodisce i suoi gioielli immobiliari in una cassaforte del mattone: si tratta della Immobiliare Idra (controllata dalla Dolcedrago che appartiere al 99,5 per cento allo stesso Berlusconi). L’Immobiliare Idra ha in pancia una settantina di proprietà, tra cui le rimanenze di Milano 2, alcune case e ville a Roma e i beni più preziosi: Villa La Certosa (residenza estiva dell’ex premier), Villa San Martino (la dimora berlusconiana ad Arcore), e Villa Belvedere Visconti di Modrone a Macherio (castello ottocentesco, residenza dell’ex moglie Veronica Lario). Insomma, adesso anche Berlusconi sarà chiamato a pagare la super-Ici sui beni custoditi nell’Immobiliare Idra-Dolcedrago, un impero che vale centinaia di milioni di euro.
Ma a quale sacrificio economico saranno chiamati gli italiani? La manovra correttiva approva-
ta domenica dal Consiglio dei ministri prevede che l’Imu sostituisca la vecchia Ici. Dunque, l’Imu si pagherà anche sulla prima casa con un’aliquota dello 0,4 percento (con una detrazione di 200 euro), rispetto allo 0,76 per cento dell’aliquota ordinaria per la seconda casa. È prevista anche una rivalutazione degli estimi catastali del 60 per cento, che toccherà anche gli uffici. In sostanza, il decreto Monti prevede una rivalutazione dei valori catastali che passa da 50 a 80 per gli uffici (più 60 per cento), mentre non è ancora chiaro quale sarà l’incremento per gli immobili commerciali. Al di là dei tecnicismi, il Tesoro quantifica in 10-12 miliardi le entrate da Imu. Naturalmente, l’impatto del ritorno dell’Ici (previsto dal primo gennaio 2012) sarà molto forte sulle famiglie, il cui costo medio sarà pari a 1.680 euro l’anno. Equivalente all’8 per cento del reddito medio di una famiglia del Mezzogiorno e al 4 per cento del reddito annuo di una famiglia del Centro-Nord.
Ma ci sono sempre i soliti noti che non pagheranno un euro di Imu. Ieri, il presidente del Consiglio Mario Monti sulla questione Ici-Chiesa ha glissato: «È una questione che non ci siamo posti ancora». Per comprendere meglio il paradosso di quest’esenzione dobbiamo fare un salto indietro nel tempo. Nel 1992 il governo Amato stabilisce alcune esenzioni per le proprietà della Chiesa. La questione su quale tipo di edifici e proprietà dovessero essere esentati ha portato negli anni a diversi procedimenti giudiziari, fino al 2004 quando la norma viene in parte bocciata dalla Consulta che elimina le agevolazioni fiscali per gli immobili a scopo di lucro. L’esenzione, però, viene reintrodotta nel 2005 dal governo Berlusconi III che cambia la vecchia normativa, includendo gli immobili destinati ad attività commerciali tra quelli compresi nel diritto all’esenzione. Nel 2006, l’allora governo Prodi, modifica nuovamente la legislazione. Tuttavia un emendamento alla legge permise di mantenere l’esenzione per le sedi di attività che abbiano fini «non esclusivamente commerciali».
Oggi solo il 10 per cento circa delle proprietà della Chiesa paga l’imposta. Il mancato gettito annuale è stimato in 400-600 milioni di euro.

La Stampa 6.12.11
Equità
di Massimo Gramellini

(s.f.) Contrazione di E-qui-taglio. Diffusissima fra i cavalli e le altre bestie da tiro, come i muli, i buoi e i lavoratori con almeno 42 anni di contributi. Ex moglie dell’ex ministro Tremonti, con il quale ha avuto una figlia: Equitalia.
Esempio di equità: andare in pensione alla stessa età dei tedeschi senza però avere mai percepito gli stipendi francamente esosi dei tedeschi. Altro caso tipico di equità è il raddoppio dell’Ici alle vedove che vivono in case fin troppo grandi, per contribuire al fondo di solidarietà «Mansarde di Stato con vista panoramica abitate dai parlamentari a loro insaputa».
Aggettivo: equo. Nel sentire comune è equo che paghino gli altri, mentre è iniquo che paghi io. La saga «Lamento dell’Equo» di Evasor Multiplex racconta le avventure dei possessori di yacht in nero, che la tassa sui posti-barca costringerà a tentare un attracco di fortuna in qualche isolotto dei mari del Sud, dopo una sosta nei centri di raccolta svizzeri per fare il pieno di banconote non scudabili e difficilmente scusabili. Sinonimi: torna qua, hai da pagà, ma va là. Frasi celebri: «Rogito, equo suv» (pronunciata dal filosofo Cartesio, già ministro tecnico nel governo Ciampi, alla notizia della rivalutazione degli estimi catastali).
Curiosità: dopo le lacrime della ministra Elsa Fornero, alla manovra «Lacrime e Sangue» verrà presto aggiunto il sangue dei pensionati. Per equità.

l’Espresso 6.12.11
Quello che non c’è
di Alessandro Gilioli

Quello che non c’è, prima di tutto, è una patrimoniale. Per carità, i patrimoni non si toccano, in questo paese dove il cinquanta per cento della ricchezza è in mano al dieci per cento dei cittadini.
Quello che non c’è è un’imposta sulle attività finanziarie: e suona patetico gabellare per tale (come ha fatto Grilli) l’aumentino del bollo di Stato sul conto titoli.
Quello che non c’è è un taglio alle spese militari: continuiamo a comprare armi come se stessimo preparandoci a un’invasione aliena.
Quello che non c’è è un passo qualsiasi per abolire i privilegi della Chiesa, dall’Ici in giù: e ci mancherebbe, con l’asse cattolico che ha portato Monti a Palazzo Chigi.
Quello che non c’è è un taglio vero ai privilegi e alle spese della politica: unico punto pervenuto, il dimagrimento delle province, per il resto ciccia.
Quello che non c’è è un passo deciso verso la banda larga e la green economy: solo belle parole e vaghi propositi.
Quello che non c’è è il coraggio di aumentare l’Irpef almeno a chi prende più di 100 mila euro l’anno, e che se pure ne scuce un paio alla comunità in crisi non si suicida di certo.
Quello che non c’è è una severa legge penale tributaria, davvero curioso per un governo i cui membri hanno tutti studiato o lavorato negli Usa, dove le pene per gli evasori fiscali arrivano a 15 anni.
Quello che non c’è insomma è il coraggio di cambiare passo, di mostrare una nuova visione, una cultura diversa, un’ipotesi alternativa di futuro.
E quello che non c’è mi sembra, purtroppo, più importante e brutto di quello che invece c’è.

Corriere della Sera 6.12.11
Costi della politica. I tagli che mancano
di Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella

Li vuole davvero, Mario Monti, dei suggerimenti sui tagli possibili ai costi esorbitanti della politica come ha deto in tivù l’altra sera? Sono tante le cose che si possono fare stando alla larga dal qualunquismo, dal populismo, dalla demagogia. Purché abbia chiaro che si metterà contro il più grande dei partiti italiani, il Pti: Partito Trasversale Ingordi.
Vuole partire dal Parlamento? Ci provò, quattro anni fa, Tommaso Padoa-Schioppa, che avrebbe voluto imporre un taglio delle spese correnti, cresciute tra il 2001 e il 2006, al di là dell'inflazione, del 15,2% a Montecitorio e addirittura del 38,8 a Palazzo Madama. Un'impennata inaccettabile. Tanto più che il Paese da anni non cresceva.
E subito, nei corridoi delle Camere, si levò un grido di rivolta: «Il Parlamento è sovrano!». Fausto Bertinotti e Franco Marini presero carta e penna e risposero assai piccati che per «autonoma assunzione di responsabilità» avevano deciso di rinunciare ad aumentare i costi in linea con il Pil nominale, accontentandosi dell'inflazione programmata. Come fosse una rinuncia epocale. Risultato: dal 2006 al 2010 le spese correnti di Montecitorio, con la sinistra e con la destra, sono salite ancora del 12,6% per un ammontare di 149 milioni. Quelle di Palazzo Madama del 9,4%, per altri 46 e mezzo. Totale: 195 milioni in più. Negli anni della grande crisi.
Senza ledere alcuna autonomia, né rischiare ricorsi alla Corte Costituzionale, il governo ha in mano una leva: il potere di affamare la politica più insaziabile. E sarebbe un peccato se esitasse a usarla. A partire dal meccanismo che, ipocritamente, sostituì il finanziamento pubblico abolito dal referendum.
I rimborsi elettorali
Ogni cittadino italiano (senza considerare i contributi ai gruppi parlamentari o ai gruppi consiliari regionali) spende per mantenere i partiti circa 3 euro e 30 centesimi l'anno. È molto più rispetto alla Spagna (2 euro e 30) ma il doppio della Germania (1,61 euro, anche se lì vengono finanziate pure le fondazioni che ai partiti sono strettamente legate) e due volte e mezzo rispetto alla Francia (1,25 euro). Giulio Tremonti e Vittorio Grilli lo scorso anno ci avevano provato, a ridurre i rimborsi del 50%. Battaglia persa: il taglio fu ridotto al 30, poi al 20, poi al 10%. La motivazione? Inconfessabile: il rischio che con i partiti a corto di soldi la corruzione avrebbe ripreso vigore. La risposta è nella umiliante classifica di Transparency appena pubblicata, dove per onestà amministrativa siamo sessantanovesimi. Un'impennata del 1110% in un decennio dei rimborsi elettorali non ha alcuna giustificazione. È cambiato il mondo, rispetto all'anno scorso. Se il nuovo premier vuole può riprovarci, a tagliare lì. E vediamo chi avrà il fegato di votargli contro.
«Total disclosure»
Sulla trasparenza basterebbe copiare il Regno Unito. Introdurre cioè l'obbligo di pubblicare su Internet non solo i redditi e le situazioni patrimoniali di tutti i parlamentari e i titolari di cariche elettive, ma anche gli interessi economici che fanno capo a ciascuno. Identico obbligo di trasparenza dovrebbe valere per i contributi privati ai partiti e ai singoli politici, oggi consultabili solo da chi fisicamente si presenta a un certo sportello della Camera. Vanno messi tutti su Internet, cominciando con l'abolire il limite dei 50 mila euro introdotto nel 2006 al di sotto del quale quei versamenti possono restare occulti. In Inghilterra Tony Blair, lasciando Downing Street, fu costretto a mettere in vendita 16 dei 18 orologi (due li comprò a prezzo di mercato) che gli aveva regalato il Cavaliere: che da noi si possano segretamente donare 100 milioni di vecchie lire a un partito è assurdo. Va da sé che in parallelo, finalmente, dovrebbe essere imposto a tutti i segretari amministrativi l'obbligo di certificazione dei bilanci.
Benefici fiscali
Basta un decreto per spazzare via la più indecente delle leggine, quella che spiega come «le erogazioni liberali in denaro» a organizzazioni, enti, associazioni di assistenza si possono detrarre dalle imposte per il 19% fino a un tetto massimo di 2.065 euro e 83 centesimi. Tetto che per i finanziamenti politici è cinquanta volte più alto. Di qua un risparmio di 392 euro per chi regala 100.000 euro alla ricerca sulle cardiopatie infantili, di là uno di 19.000 per chi versa la stessa somma ad Alfano o Bersani. I risparmi non sarebbero molti? È una questione di principio. Ineludibile.
Bilanci
Tutti i rendiconti (dallo Stato a quelli degli enti locali) devono essere resi omogenei, confrontabili e leggibili. I capitoli di spesa devono essere chiari e trasparenti. Un esempio? Spulciando nel bilancio di palazzo Chigi il neoarrivato Mario Monti troverà 50 milioni di euro sotto la voce opaca «Fondo unico di presidenza»: che cosa sono? Spese di rappresentanza?
Dotazioni delle Camere
Secondo l'istituto Bruno Leoni per mantenere il Parlamento ogni cittadino italiano spende 26,33 euro, contro 13,60 di un francese, 10,19 di un britannico, 5,10 di un americano. Camera e Senato, mentre votano una manovra con tagli che spingono al pianto il ministro Elsa Fornero, continuano a chiedere allo Stato sempre gli stessi soldi fino al 2014? Se davvero non si può, come dicono, interferire nella loro autonomia, il governo potrebbe tuttavia ridurre la loro dotazione a carico del Tesoro. Tanto più che a Montecitorio e Palazzo Madama c'è un tesoretto accumulato fra avanzi di amministrazione e fondi «di solidarietà» che si aggira sui 700 milioni di euro. Con la crisi che c'è, rompano quel loro «salvadanaio».
Palazzo Chigi
La presidenza del Consiglio è arrivata a occupare 20 sedi in un progressivo gigantismo che ha ridicolizzato le promesse di asciugare l'apparato che oggi occupa circa 4.600 persone: più del triplo del Cabinet office, la corrispondente struttura del Regno Unito. Per farlo, però, è fondamentale una norma che riporti la presidenza del Consiglio sotto la Ragioneria generale dello Stato, com'era fino al 1999 (senza rischi né umiliazioni per la democrazia…) prima che D'Alema rivendicasse l'autonomia finanziaria.
Vitalizi e pensioni
Stravolte pesantemente le pensioni di alcuni milioni di italiani, è essenziale un segnale dall'alto netto. Quello arrivato finora, che fa scattare il contributivo dal 2012 per i vitalizi parlamentari, è insufficiente. E anche qui è assai discutibile che il governo sia impossibilitato a intervenire. Potrebbe infatti decidere un prelievo eccezionale sugli altri redditi dei titolari di vitalizi parlamentari o regionali, più elevato per coloro che ancora non hanno raggiunto l'età per la pensione di vecchiaia. Sono diritti acquisiti? Lo erano anche quelli dei cittadini che si sono visti «cambiare il contratto» che avevano firmato con lo Stato quando erano entrati nel mondo del lavoro.
Di più: oggi deputati e senatori che durante il mandato istituzionale intendono continuare ad accumulare anche la pensione, possono farlo versando soltanto il 9% della retribuzione relativa alla loro vecchia attività: magistrato, professore, medico, dirigente d'azienda... Il restante 24% è un contributo figurativo che grava sulle casse dell'ente di previdenza. Cioè quasi sempre dello Stato. Porre l'intero 33% a carico del beneficiario sarebbe una misura di giustizia elementare.
Regioni
È dimostrato che un consiglio regionale come quello della Lombardia e dell'Emilia-Romagna possono funzionare con un costo di circa 8 euro a cittadino. Molto dignitosamente. Applicando questo standard a tutte le regioni (alcune arrivano a costare procapite 50 volte di più) si potrebbero risparmiare ogni anno 606 milioni di euro. Lo Stato non può intervenire sulle autonomie regionali, pena l'immancabile causa alla Consulta? Il governo potrebbe aggirare l'ostacolo decretando un taglio ai trasferimenti alle Regioni corrispondente alla differenza fra gli 8 euro procapite e la spesa attuale.
Gettoni di presenza
Equiparare i livelli dei gettoni di presenza nei consigli comunali, spesso diversissimi da città a città nella stessa Regione (45,90 euro a Padova, 92 a Treviso, 160 a Verona) è urgentissimo. Si fissi un parametro basato sulla popolazione e fine. Altrettanto urgente è frenare gli abusi resi oggi possibili dalle leggi sugli enti locali. Un consigliere comunale di Palermo, come abbiamo raccontato, può arrivare a intascare 9 mila euro al mese. Ricordate? Per legge il Comune deve compensare il datore di lavoro per le ore perdute dal consigliere a causa degli impegni istituzionali. Capita quindi che qualche consigliere, in precedenza disoccupato o con una retribuzione modesta, si faccia assumere appena eletto da un'impresa di famiglia con uno stipendio stratosferico: il Comune non ha scampo, deve pagare all'azienda «amica» i «danni» per quel consigliere perennemente impegnato in municipio. Una pratica molto diffusa, da stroncare: non c'è posto al mondo dove un consigliere comunale, in gettoni e rimborsi vari, possa guadagnare 10.000 euro al mese.
Auto blu
Lo Stato vuole avviare un grande piano di dismissioni del patrimonio edilizio pubblico? Bene. Ma perché non fare la stessa cosa con lo sterminato parco di auto blu, mettendole in vendita? Ne guadagnerebbe anche l'immagine della politica. Si dirà che il maggior numero di auto blu è in periferia, e su quelle il governo non può intervenire. Fissi degli standard, basati sulla popolazione e la chiuda lì.
Voli blu
In Inghilterra tutti i voli di Stato sono sul web: aeroporto di partenza, di arrivo, chi c'era a bordo, dove andava e perché aveva quel tale ospite con nome e cognome. La sola trasparenza, possiamo scommettere, ridurrebbe moltissimo decolli e atterraggi. Con risparmi conseguenti.
Scorte
Che per Roma girino ogni giorno otto auto di scorta a politici e magistrati contro una sola gazzella dei carabinieri o volante della polizia impegnata sul fronte della sicurezza dei cittadini è inaccettabile. Il ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri lo sa. E sa quanto i cittadini aspettino un segnale: più auto per la sicurezza, meno per le scorte.
Dirigenti
Il governo Prodi aveva introdotto il tetto alle retribuzioni dei dirigenti pubblici intorno ai 289 mila euro lordi l'anno. Una norma che aveva fatto a lungo discutere finché con Berlusconi era stata sostanzialmente svuotata. Non sarebbe il caso, visti i tempi, di ripristinare il tetto? Vietando, soprattutto, cumuli inaccettabili come quelli di cui godono alcuni magistrati i quali incassano lauti stipendi da componenti di authority continuando a percepire la retribuzione da magistrato «fuori ruolo»?
Conflitti d'interessi
L'Italia è il Paese dei conflitti d'interessi e intervenire a tutto campo è laborioso. Ma alcune cose si possono fare subito. Perché non stabilire che per i consigli delle società pubbliche (tutte, senza esclusione) non ci possano essere più di tre amministratori? E perché non vietare per almeno cinque anni a chi ha avuto un incarico elettivo o di governo di diventare consigliere? Sparirebbero d'incanto molte delle circa 7 mila società controllate da enti locali e Stato. Almeno quelle che servono solo a dare una poltrona ai trombati. I risparmi? Considerevoli: gli amministratori e gli alti dirigenti di quelle società sono 38 mila. Ancora più urgente, però, è fissare un paletto insuperabile: chi governa ha il diritto di scegliere gli amministratori delle società pubbliche o miste. Ma deve anche rispondere dei bilanci che essi presentano: basta con i buchi colossali che emergono da bilanci «distrattamente» approvati nella speranza che poi, a tappare la voragine, arrivi lo Stato.

l’Unità 6.12.11
Renato Brunetta
«È la strada giusta segnata dal Cavaliere»
«In futuro si punterà sulla crescita e sui tagli ai manager. Se cade l’euro, perde Merkel»
di Claudia Fusani

Professor Brunetta, contrario alla manovra Monti? «Neanche per idea. Le misure presentate oggi sono parte di un progetto più ampio. Quindi, da Professore a Professore, conservo la fiducia».
La sua ricetta anticrisi ha sempre puntato su sviluppo e crescita. Si comincia invece da tagli e tasse. Perchè? «Ho fiducia che in seguito verranno gli interventi per la crescita e lo sviluppo. In questa fase è primario rispondere alle linee di intervento indicate dalla Bce. Io probabilmente avrei cominciato dall’altra parte, da quella della crescita. Ma ora sono solo Professore».
Da Professore, Monti è sulla giusta via?
«Se lo spread torna a 200, Monti ha vinto. A me piace usare l’immagine del vasetto di olive, quello che tanti provano ad aprire ma inutilmente. Poi arriva uno che sfrutta le pressioni già fatte dagli altri e riesce ad aprire. Monti è riuscito ad aprire il vasetto di olive. E’ merito suo o anche di chi ci ha provato prima di lui?».
Lei che dice?
«Merito di tutti. Il governo Berlusconi dal 2008 al 2014 ha messo in cantiere una manovra per 265 miliardi. Quella di Monti ne vale trenta. Totale: 295. Quindi, nove decimi della manovra di pareggio li ha predisposti il governo Berlusconi».
A cui però i mercati hanno fatto capire in tutti i modi che doveva lasciare. «Il colpo finale al vasetto di olive Monti lo ha dato grazie alla riforma sulle pensioni che è la stessa che la lega ci ha impedito di fare a luglio. Non solo: nel nostro governo si sono scontrate due linee, quella del presidente Berlusconi che privilegiava lo sviluppo e quella Tremonti che privilegiava i tagli. È stato l’elemento di maggiore debolezza del nostro governo. Se avessimo dato ascolto alla linea sviluppista del presidente Berlusconi, molto probabilmente i mercati ci avrebbero premiati».
160 miliardi di evasione fiscale in Italia. Si poteva fare qualcosa di più e subito in questo fronte?
«Sono sicuro che in futuro sarà fatto di più per combattere l’evasione fiscale. In questo momento la sfida è il pareggio di bilancio nel 2013». L’Ici sulla prima casa. Ancora una volta si va sul sicuro. Concorda? «No, su questo no. Ok invece alla revisione degli estimi catastali».
Il Pdl sta diventando euroscettico?
«L’Italia sta dando risposte concrete. Adesso le dia anche l’Europa con una nuova governance e soprattutto con una vera banca centrale come la Fed, la Banca d’Inghilterra o del Giappone. La Fed deve poter stampare moneta ed emettere i bund. Un mio studio dimostra che se la Bce fosse come la Fed nulla sarebbe accaduto». Merkel e Germania non saranno mai d’accordo.
«Non mi piace il duo Merkel-Sarkozy. E sia chiaro: se l’euro dovesse morire, la prima a rimetterci sarebbe la Germania». Monti poteva almeno rivedere gli stipendi dei manager pubblici? «Spero che il premier applicherà presto i risultati della Commissione Giovannini che parifica i costi dell’alta burocrazia in Europa. Quello sarà un bel taglio ai costi della politica».


il Fatto 6.12.11
Promesse tradite
di Marco Onado

Mario Monti aveva promesso una manovra fatta di rigore, sviluppo ed equità. Solo il primo ingrediente è stato dispensato a piene mani, ma il secondo è scarso (un soupçon, direbbero i ricettari francesi) e il terzo praticamente assente.
L’equità è necessaria per raccogliere un consenso adeguato in Parlamento, ma soprattutto per rendere accettabili i sacrifici che ci attendono. Ma come si può considerare equa la decisione di sospendere l’indicizzazione delle pensioni sopra i 980 euro? Economisti di destra e di sinistra considerano da sempre l’inflazione come la più ingiusta delle tasse, perché colpisce soprattutto i più deboli e perché agisce subdolamente. Non si dica che basta l’esenzione della fascia minima (quella della vera e propria sopravvivenza) e la promessa di temporaneità per rendere accettabile il provvedimento. Con un’inflazione prevista del 3 per cento circa (ma il paniere dei beni e servizi acquistati dagli anziani aumenta più rapidamente dell’indice Istat) questo significa un taglio delle pensioni quasi del 10 per cento in due anni sulla fascia eccedente i primi 953 euro. E questo senza neppure il bel gesto di una seria sforbiciata alle pensioni d’oro.
Purtroppo questo è l’esempio più clamoroso, ma non l’unico di rinuncia all’equità. L’Ici sulla prima casa era inevitabile, ma ancora una volta si rinuncia a tassare il patrimonio immobiliare ecclesiastico non dedicato al culto, perpetuando così un altro privilegio assurdo e odioso. E che dire della lotta all’evasione fiscale? Aggiungere all’aliquota irrisoria dello scudo fiscale di Tremonti un’altra aliquota irrisoria non corregge la profonda distorsione di un provvedimento che premia, di fatto, gli evasori di ieri. Molto meglio sarebbe stato impegnarsi a colpire i patrimoni ancora all’estero, tramite accordi con i vari paradisi fiscali, come hanno già fatto Germania e Inghilterra, assicurandosi entrate per vari miliardi all’anno. Anche perché in questo modo si potrebbero finalmente scovare gli evasori di oggi.
La reazione positiva dei mercati non deve ingannare, perché agli investitori interessa solo che il conto venga pagato, non certo quali sono le tasche cui si attinge. Ma fino a quando si rinuncerà a toccare i mille privilegi di cui è intrisa la società italiana, le manovre economiche risulteranno socialmente inique (e anche zoppe dal punto di vista dello sviluppo) ; quel che è peggio, le speranze di una vera svolta politica dopo due decenni di berlusconismo andranno in frantumi.

il Fatto 6.12.11
Sulla pagina Facebook di Bersani la rivolta dei tartassati
Il popolo dei mille euro al mese contro il Pd: non ci avete difeso
La non rivalutazione può costare oltre 250 euro l’anno E c’è chi dovrà lavorare 5 anni in piu Trappola pensioni
Il Pd accetta norme che fanno infuriare i suoi elettori, la Cgil litiga con Cisl e Uil sullo sciopero
di Salvatore Cannavò

La vittima designata della manovra Monti potrebbe essere il Pd e forse la Cgil. La decisione di quest’ultima di proclamare lo sciopero di quattro ore, lunedì 12 dicembre, sulla scia di Cisl e Uil che, spiazzando tutti, hanno proclamato l’astensione nella stessa data, ha portato allo scoperto le contraddizioni di Pier Luigi Bersani. Il Pd non condivide la manovra, “non è quella che avremmo fatto noi”, ha spiegato la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro. Però la voterà, per senso di responsabilità, perché non può affondare Monti dopo aver-gli votato convintamente la fiducia all’insediamento. Lo sciopero dei sindacati apre le ferite in un partito che si sente particolarmente colpito dalle misure sulle pensioni. Che, in effetti, sono particolarmente dure. In un colpo solo, infatti, si passa al sistema contributivo, si aboliscono, di fatto, le pensioni di anzianità, si innalza la pensione di vecchiaia, si deindicizzano pensioni da mille euro al mese. Sulle pensioni di anzianità, in particolare, si procede a un “super-scalone” di cinque-sei anni. Chi vorrà andare in pensione prima dei 62 anni dovrà pagare una penale del 2 per cento annuo. La pensione di vecchiaia viene fissata a 62 anni per le donne (che salgono a 66 nel 2018) e a 66 anni per gli uomini (agli autonomi si aggiungono sei mesi) ma in questo contesto è prevista anche una revisione dei coefficienti di trasformazione dei contributi versati che dal 2019 si farà ogni due anni invece che tre. Anche se il blocco della perequazione automatica non riguarderà le pensioni fino al doppio delle minime (quindi fino a 935 euro), l’impatto sulle pensioni “medie” da 1000 a 1400 euro si farà sentire in termini di centinaia di euro all’anno. In larga parte sono i settori sociali della sinistra, del Pd e del sindacato.
Lo sciopero della Cgil non è contro il Pd. Anzi, ieri mattina, il sindacato di Susanna Camusso aveva diramato una nota in cui si diceva soddisfatta per l’eliminazione dalla manovra degli aumenti Irpef e per la riduzione della deindicizzazione. E proponeva a Cisl e Uil di lavorare insieme per migliorare la manovra. Un atteggiamento funzionale alle dichiarazioni di tutti i dirigenti Pd, da Bersani – “ci sono ancora dei passi da fare” – a Veltroni – “possibili miglioramenti in Parlamento”.
A METÀ GIORNATA, però, arriva l’accelerazione di Cisl e Uil. Un po’ a sorpresa, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti convocano una conferenza stampa congiunta in cui proclamano uno sciopero di due ore per lunedì 12 dicembre. I toni dei due sindacati, formalmente più moderati, sono duri. In Cgil si percepisce un certo panico. La segreteria nazionale si riunisce subito e deve rispondere alle pressioni per lo sciopero generale. Lo chiede la minoranza interna ma anche categorie come la Fiom e la Funzione pubblica. Se lo aspettano anche gli iscritti e i delegati che sabato scorso hanno applaudito alle dichiarazioni più dure e combattive. L’irritazione della Cgil si legge in calce al comunicato che convoca lo sciopero di quattro ore: “Abbiamo proposto a Cisl e Uil di decidere insieme proposte ed iniziative per cambiare la manovra, la risposta ci è arrivata tramite conferenza stampa con relative autonome decisioni”. E nel profilo Facebook della Cgil si leggono dichiarazioni urticanti: "Davanti a provvedimenti così gravi il problema di Cisl e Uil (è) unicamente quello di avere un confronto e non le necessarie modifiche". In serata, la decisione della riunione congiunta tra i tre sindacati prevista per stamattina. La mobilitazione è scontata e sarà probabilmente unitaria. Di fronte allo sciopero sindacale, il Pd è dunque messo con le spalle al muro. Stefano Fassina, responsabile economico del partito, dice però al Fatto: “Non è vero che siamo in difficoltà, da questa situazione usciremo distinguendo la nostra posizione da quella dettata da uno stato di necessità la cui responsabilità va addebitata al governo Berlusconi”. Quindi si lavorerà con emendamenti in Parlamento: sulla deindicizzazione sulle pensioni di anzianità ma soprattutto sullo scudo fiscale. “La tassa dell’1,5 per cento è un buffetto” scrive in serata Pierluigi Bersani su Twitter: “Lavoreremo per migliorarla”. Il Pd spera nell’ ”ascolto”da parte di Monti e dunque nella possibilità che vengano recepite le sue proposte. Ma non sarà facile perché l’ipotesi del voto di fiducia si fa sempre più forte dopo che a chiederla sono stati Pierferdinando Casini ma soprattutto Silvio Berlusconi. E così i Democratici vedono totalmente scoperto il loro fianco sinistro. Antonio Di Pietro assicura che “la manovra così com’è non sarà votata” dall’Idv. E sulla posizione della Cgil decide di schiacciarsi Sel ma anche la Federazione della sinistra. La separazione tra Cgil e Bersani non è facile ma una frattura è stata provocata tra il Pd e il suo mondo di riferimento. E’ uno dei primi risultati del nuovo governo Monti. Nei sondaggi de La7 di Mentana, ieri sera il Pd era sempre il primo partito, al 28,8%. Ma per la prima volta da diverso tempo il Pdl risaliva di mezzo punto collocandosi al 25,4%.

il Fatto 12.6.11
Protesta in rete contro Bersani
“Siete contro i deboli e i lavoratori: affonderete!”

Delusione, rabbia, frustrazione, voglia di rivalsa: ieri la pagina Facebook di Bersani è stata invasa dai commenti di elettori del Pd ai quali l’accettazione della manovra presentata da Mario Monti proprio non va giù. “Se non tutelerete quelli che stavano per andare in pensione, addio Pd” dice esplicitamente Giuseppe Malfitano. E su questa linea sono in molti che – increduli – chiedono al segretario democratico di “tirare fuori gli attributi” e di tutelare i più deboli che – per inciso – sono anche la tradizionale base elettorale dei Democratici.
LA SINISTRA, che non lo è più, continua ancora a chiedere il voto dei lavoratori, ma quando è al potere legifera contro i lavoratori e quando è all'opposizione non si schiera apertamente con i dei lavoratori.
Salvatore Monaco
MA CHE aspetti ad alzare la voce, hai il partito di maggioranza relativa e te la fai addosso..., e che diavolo tirate fuori gli attributi altrimenti elezioni subito e balleremo il sirtaki tutti...
Vincenzo Muzii
COME SI FA a votare ancora per voi? Mi hai delusa e anche tanto. Ho il blocco sullo stipendio che tre anni fa era più alto, mi manderanno in pensione con 41 anni di contributi, mi fanno pagare ancora l'Enam che è un ex ente e ora vogliono far confluire l'Inpdap nell'Inps... Tutte rapine. Voi che fate? Il governo tecnico vi ha fatto comodo, così direte che che la colpa non è vostra. Questa volta avete toppato, abbiamo finalmente aperto gli occhi e vi vediamo per quelli che siete: inutili e dannosi!
Enza Izzo
NON CAPISCO siete il partito con l'elettorato che viene colpito da questa manovra e cosa fate appoggiate il governo che la fa, colpisce pensionati, lavoratori, famiglie, soprattutto i giovani che non avranno più futuro e pensione lavoreranno sempre da precari grazie per aver tolto il futuro a gran parte del paese. Dimettiti Bersani
Andrea Di Franco
LAVORATE sulle pensioni: non si può spostare l'età pensionabile di botto, tenuto conto della disoccupazione al 50%. I giovani faranno i precari a vita? aumentate tassazione su capitali scudati e in previsione operate per una convenzione con la Svizzera per tassare come si deve i capitali all'estero. In più si può prevedere una tassa sulle transazioni finanziarie. Forza Bersani, coraggio!
Rita Rossello
RIGUARDO alla riforma delle pensioni. Si deve esser più flessibili non solo avendo a riguardo il reddito del pensionato, ma considerando anche la sua condizione lavorativa. In Germania vi è la possibilità di pensione anticipata per i disoccupati da lunga data e di età avanzata. Chi assume un cinquantacinquenne o un sessantenne? Penso questo sia un pensiero di tanti. Non volete ascoltarci. Bene, anzi male. Oltre al disagio materiale e morale in cui sicuramente cadrà il Paese, mettete una pietra tombale sul Pd. Guardate che fine a fatto l’estrema sinistra… Voto sinistra da quarant’anni. Se dovrò lavorare altri due anni causa le nuove norme, mi toglierò almeno l’ultima e magra soddisfazione di vedervi affondare. Anzi, mi impegnerò per questo. Con me, stavolta, saremo in tanti
Ivan Zincarli
NOI LAVORATORI precoci in mobilità arriviamo a 41 o 42 anni intorno ai 59 di età oltre e oltre al contributivo che ci decurta la pensione dobbiamo subire un 3% ogni anni fino ad arrivare a 62??? Ma vi rendete conto di cosa significa. O cancellate almeno questo o ci ridate un lavoro. Non siamo fantasmi!!
Ubaldina Santinelli
SE NON tutelerete quelli che stavano per andare in pensione addio Pd!!!! Bersani al solito non si capisce che cosa proponete "io vorrei -non vorreima se vuoi". Prendete esempio da Di Pietro che è stato chiaro
Giuseppe Malfitano

La Stampa 6.12.11
La classe ’52 sotto choc “Lavoreremo fino a cinque anni in più”
La protesta anche su Internet: “Molti di noi sono in mobilità, come pagheremo?”
di Sandra Riccio

Per qualcuno quello di ieri è stato un risveglio con un bel fardello in più da portare. La riforma del sistema pensionistico appena varato da Monti ha riaperto per molti la partita del ritiro dal lavoro. La doccia fredda è arrivata però sui nati nel 1952, quelli che compiranno 60 anni nel corso del 2012, e che, calcoli alla mano, erano già pronti a lasciare il lavoro tra poco più di un anno, nel 2013. Da ieri quei calcoli non valgono più nulla. Tutto da rifare con la certezza di dover lavorare ancora a lungo perché il posticipo rischia di arrivare a cinque anni, fino al 2018.
Dall’altra parte del fatidico anno di confine, un bel pò di fortuna l’hanno invece avuta i nati nel 1951, quelli che hanno compiuto i 60 anni di età nel 2011 e hanno maturato 36 anni di contributi. Potranno andare in pensione con i requisiti attuali. Per i nati nel ‘51 l’uscita in tempi brevi verso la pensione dipenderà comunque dagli anni di lavoro fatti. Si è salvato chi lavora almeno dal 1975 e ha raggiunto i 36 anni di contributi nel 2011 mentre dovrà lavorare ancora a lungo chi ha cominciato nel 1976. Ma la riforma ha portato un bel groviglio di numeri e calcoli da rifare per tutti, non solo per i nati nel ‘52 o nel ‘51. E sono tante le domande e gli interrogativi finiti su siti, sui forum e i blog fin dalla mattina presto di ieri.
Ogni post esponeva un caso diverso. «Sembra che i nati nel 1952, come me, siano i più sfortunati: da poche settimane o mesi di attesa per la pensione passiamo a sei anni (o cinque con penalizzazione) nel giro di una notte» commentava in Internet PatrizioB.
«Spero, con tutto me stesso, di essermi sbagliato ed avere capito male i numeri della riforma delle pensioni» scriveva invece gc070653 dopo aver rimesso mano ai calcoli sul suo caso. Licenziato e messo in mobilità nel Luglio 2009 avrebbe dovuto ritirarsi dal lavoro nell’ottobre 2013 all’età di 60 anni e 4 mesi e con una contribuzione di 40 anni. «Adesso che sono senza lavoro e senza alcuna prospettiva di trovarlo, mi viene chiesto di contribuire alla crisi con i seguenti sacrifici: 40.000 euro per il pagamento di 2 anni di contribuzione volontaria per passare da 40 a 42 anni. A cui si sommano 60.000 per 2 anni di mancato ricevimento della pensione. Più un 8% di decurtazione della pensione per pensionamento anticipato (2% per ogni anno di anticipo da 62 anni a 66 anni). Adeguamento al contributivo pro rata per i contributi versati dal 2012 in poi. L’alternativa è quella di rimanere senza alcuna retribuzione per 6 anni (dai 60 ai 66) per una perdita pari a 180.000 euro» rifletteva amareggiato ieri sul forum de LaStampa.
La nuova architettura del sistema pensionistico per tanti non fa che peggiorare una situazione già precaria. «Ho 56 anni, sono in mobilità dal 1/5/2010, il 31/12 avrò 39anni e 50 (sic) settimane. Sarei andato in pensione nel 2012, ma ora chi paga i restanti contributi? La mobilità arriverà fino ad aprile 2013, manca ancora quasi un anno. Certo che avrei lavorato se l’azienda non avesse spostato tutto in India e Cina», lamentava dan ieri in rete. Tanti poi i beffati per un soffio. Giuseppe del ‘56 per esempio è stato assunto il 10 gennaio del 1972, significa che il prossimo 10 gennaio maturerà quarant’anni di contributi. Con questi numeri aveva la pensione a portata di mano.
Ma ora la riforma ha rimescolato le carte in tavola, e per soli dieci giorni di differenza, gli toccherà continuare a lavorare ancora due anni. «Non sono tra i più sfortunati», dice. Speriamo però che le regole restino queste e che non le cambino ancora.

il Fatto 6.12.11
Piace solo ai mercati
La manovra abbatte lo spread, ma in Parlamento il testo sarà blindato e i sindacati scioperano
di Stefano Feltri

La manovra di Mario Monti raggiunge il primo obiettivo: rassicurare i mercati. Ma fallisce il secondo: rassicurare il Paese. Lo spread, la differenza tra il rendimento dei nostri titoli di Stato a 10 anni e gli omologhi tedeschi, crolla. La fiducia dei mercati nelle misure approvate nel Consiglio dei ministri di domenica sera è tale che lo spread passa in una sola seduta da 455 punti a 375, un crollo del 17,5 per cento. “Senza questo pacchetto l'Italia crolla, diventa simile alla Grecia, Paese per il quale abbiamo grande simpatia ma che non vogliamo imitare”, spiega il premier alla Camera, illustrando il pacchetto di misure davanti ai parlamentari. Per una curiosa coincidenza, proprio in quelle ore, dal vertice francotedesco di Parigi sul destino dell’euro a cui Monti non è stato invitato, il presidente francese Nicolas Sarkozy assicurava: “Non possiamo paragonare una grande economia come quella italiana, o quella spagnola, alla Grecia”. In realtà, anche sui mercati, un sospetto c’è: che la manvora di Monti risulti più recessiva del previsto, cioè che per risanare i conti e raggiungere l’obiettivo intermedio del deficit all’1,6 per cento nel 2012 (in vista del deficit zero nel 2013) il governo finisca per aggravare la recessione, per il momento prevista in una caduta del Pil dello 0,5 per cento. “Senza una crescita maggiore sarebbe non sostenibile il risanamento del disavanzo”, dice lo stesso Monti. Il risparmio degli interessi dovuto al calo dello spread da solo non basta.
LA RIFORMA delle pensioni preparata dal ministro del Welfare Elsa Fornero non ha effetti negativi sulla crescita, perché alzando l’età contributiva per la pensione di anzianità (41 anni per le donne, 42 per gli uomini) mantiene al lavoro persone che sarebbero andate in pensione. Loro avranno un reddito più alto, lo stato risparmierà gli assegni previdenziali per un po’. Le riforme per la crescita, annunciate domenica sera dal ministro dello Sviluppo Corrado Passera, sono un po’ fumose e il loro effetto difficile da quantificare. Altre misure trovano un largo consenso ma avranno impatti soprattutto simbolici o nel lungo periodo: lo svuotamento delle province (consigli con solo 10 membri, niente giunta), la cancellazione dell’autorità che vigila sulle poste e del comitato parlamentare che controllava (male) il settore idrico, da ora sotto la responsabilità dell’Authority per l’energia. Tutti contenti (tranne la Lega) anche per il ritorno dell’Istituto del commercio estero, abolito dal governo Berlsoni. Ma il grosso della manovra avrà un impatto negativo sul Pil, a cominciare dall’a mancata rivalutazione delle pensioni medio-basse che verranno erose da un’inflazione vicina al 3 per cento. E anche le tasse sulla casa (l’Imu) e quelle sui titoli (a sorpresa valgono alcuni miliardi) ridurranno le risorse a disposizione per i consumi, per non parlare poi dell’aumento dell’Iva che anche se dovrebbe scattare soltanto nella seconda metà del 2012 potrebbe spingere i negozianti a mettersi avanti con i rincari. La Cgia di Mestre, un centro studi, ha fatto una stima grezza e a spanne (manca il testo ufficiale) dell’impatto della manovra: nel triennio 2012-2014 potrebbe pesare per 635 euro a famiglia.
VISTO CHE i più colpiti sono i pensionati, ormai la categoria più rappresentata dai grandi sindacati, Cisl e Uil hanno proclamato uno sciopero per lunedì prossimo, seguite subito dalla Cgil che avrebbe preferito però un’iniziativa unitaria. E vedremo nei prossimi giorni quale sarà l’ordine del giorno dello sciopero, visto (per ora contro la manovra), visto che già oggi con l’audizione del ministro Fornero alla Camera si comincerà a parlare anche delle riforme del mercato del lavoro, rimaste fuori dalla manovra.
L’iter parlamentare della stangata da 24 miliardi (30 di tagli e tasse, di cui una parte redistribuiti per sgravi fiscali e maggiori spese) dovrebbe procedere spedito. Ieri Silvio Berlusconi ha detto che "Devono porre la fiducia altrimenti non credo che ci sia la possibilità di approvare la manovra”. Una mossa ad uso interno del Pdl, certo, per non far emergere le mille fratture dentro il partito che il cambio di governo ha nascosto ma non risolto. Però un’evoluzione che fa comodo anche all’Udc e al Pd,, visto che l’alternativa è una defatigante guerra di emendamenti che nessuno si sente davvero pronto a combattere.
L’Italia sta facendo i suoi “compiti a casa”, come li ha chiamati Angela Merkel. Ma Francia e Germania non hanno fatto i loro: il vertice di ieri si è chiuso senza svolte nella gestione della crisi. E se anche la riunione a Bruxelles di domani e giovedì dovesse lasciare ai mercati l’impressione che l’Europa non sa che fare, l’effetto della manovra sullo spread durerà poco. “L'Italia è determinata a svolgere pienamente il suo ruolo in Europa. É nostro interesse mantenere il metodo comunitario”, ha detto ieri Monti in una conferenza stampa con i giornalisti stranieri. Ma ci sono parecchi dubbi sul fatto che anche Francia e Germania abbiano lo stesso obiettivo.

il Fatto 6.12.11
Irpef, B. comanda ancora (al telefono)
È bastata una chiamata dell’ex premier per far saltare l’aumento dell’aliquota
di Sara Nicoli

C’era. Eccome se c’era. Nelle bozze circolate fino a poche ore prima del Consiglio dei ministri di domenica, la parola Irpef, con aumento dell’aliquota dal 41% al 43% per i redditi superiori ai 75 mila euro, c’era. Poi, di colpo, sparito tutto.
UN ABBAGLIO collettivo? Pareva di sì, quando il ministro Pietro Giarda ha annunciato che di Irpef nell’articolato non c’è traccia. Dopo sono cominciati a salire i sospetti. Anche a giudicare dall’inusuale asprezza con cui un accigliato professor Monti ha strapazzato niente di meno che gli amici economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che domenica mattina, sul Corriere avevano osato criticare le indiscrezioni sulla manovra (anche l’aumento Irpef) in prima: “Caro presidente no, così non va”. La lesa maestà si paga cara. “Costoro – ha scandito con voce tagliente – si sono fidati più delle indiscrezioni frettolose che del nostro buonsenso”. Fatta salva la diatriba accademica c’è un motivo politico per cui Monti è apparso nervoso sull’argomento Irpef. La sua spiegazione sul fatto che un aumento dell’imposta sulle persone fisiche avrebbe “irritato gli italiani che pagano le tasse” non ha convinto nessuno. È stato – dopo – un ministro di peso del governo a spiegare quello che è accaduto durante le consultazioni. E poi in Consiglio dei ministri, quando Monti ha annunciato la sua volontà di stralciare l’aumento previsto.
Tutto ruota intorno al colloquio con il segretario Pdl Alfano. Che ha chiesto apertamente a Monti di soprassedere all’introduzione dell’odiosa misura che avrebbe colpito una fetta consistente del bacino elettorale pidiellino. Poi è arrivato Raffaele Bonanni, alfiere del sindacato cattolico, che ha messo in atto una pressione molto forte per convincere Monti a desistere. Ma la svolta è arrivata più tardi, quando sono intercorse due telefonate del premier; quella con Bersani, per farsi dare il via libera sulle pensioni, seguita a quella con Berlusconi. Il Cavaliere ha fatto capire a Monti che all’aumento dell’Irpef sarebbe corrisposta – come minimo – un’astensione del gruppo del Pdl alla Camera. Un atto politicamente forte, di sostanziale rifiuto della manovra, che avrebbe messo Monti in grave difficoltà. Berlusconi, poi, di certo ha pensato anche a se stesso quando ha parlato di “misura impopolare e sconcertante per chi ha sempre pagato le tasse”.
LE PAROLE di Berlusconi devono essere state oltremodo convincenti se poi Monti è arrivato a Palazzo Chigi nel pomeriggio dicendo che dell’aumento Irpef non se ne faceva più nulla. Quindi, si sarebbe rivolto alla Fornero spiegando l’impossibilità di proseguire nell’incentivazione delle pensioni sopra i mille euro e provocando lo sconcerto della ministra che, infatti, in conferenza stampa si è sciolta in lacrime, considerando il taglio sulle pensioni quasi una sua sconfitta personale. Insomma tra il no di Berlusconi sull’Irpef e l’ira di qualche migliaia di pensionati, la scelta non si è neppure posta.

il Fatto 6.12.11
Monti rinuncia a 5mila euro. Gli altri chissà
I tagli a Province e Municipi richiederanno battaglie politiche
di Eduardo Di Blasi

Mario Monti lo chiama un “atto di sensibilità istituzionale”, quello di rinunciare all’indennità che prenderebbe da presidente del Consiglio. Nel momento difficile che il Paese attraversa, la scelta annunciata appare giudiziosa. Il suo predecessore Silvio Berlusconi, di quei 5102,42 euro lordi spettanti mensilmente a un capo del governo che già sieda in Parlamento, affermava di farci beneficenza. Bontà sua.
Il nuovo premier, del resto, conserva lo “stipendio” da senatore a vita con una indennità di 12.005,95 euro lordi al mese, cui si sommano 3.500 euro di diaria, 4.180 euro (2.500 dei quali si ritiene debbano essere versati al gruppo politico di appartenenza, qui difficile da identificare) di “rimborso forfettario per l’attività di senatore” e di un ulteriore “rimborso forfettario” per spese accessorie di 1.650 euro.
I suoi ministri, tutti “non parlamentari”, hanno un’indennità parametrata sul Parlamento nazionale, vale a dire 12mila euro al mese per dodici mensilità, che fanno 144mila euro lordi l’anno. Per questo motivo qualcuno ha già eccepito che il governo tecnico costi agli italiani più di quello politico (12mila euro lordi sono più di 5.102). Eppure i 5.102 euro lordi messi a disposizione da Mario Monti, sono l’unica cifra che il governo riuscirà ad incamerare senza conflitti tra quelli che ha scelto di sottrarre alla “politica”. Sugli altri, infatti, dovrà lottare. Nella bozza del decreto che in questi giorni è all’attenzione di Camera e Senato, ci sono almeno quattro altri fronti aperti. Si chiamano Province, municipalità, enti inutili e indennità dei parlamentari. Vediamo cosa vorrebbe fare il governo e quali difficoltà troverà sul suo cammino.
La carica degli Enti locali
CHISSÀ se il 30 aprile 2012 ci sarà ancora il governo Monti. Entro quella data, infatti, le Regioni dovranno trovare il meccanismo che metterà in grado i Consigli comunali del territorio di eleggere“nonpiùdidiecicomponenti” del proprio nuovo “Consiglio provinciale”, di trasferire le competenze delle vecchie Province a se stesse o ai Comuni e di provvedere che, assieme a queste, si muovano verso gli enti locali “risorse umane, finanziarie e strumentali”permettereingradoenti comunali e regionali di esercitare al meglio quelle competenze. Quando queste leggi saranno completate, le Province elette come noi le conosciamo, decadranno in automatico. E se entro la fine di aprile le Regioni non avranno provveduto, lo farà lo Stato.
Una partita complicata che ieri, all’assemblea nazionale dell’Upi (l’Unione delle Province) si è concretizzataconalcunifischiall’augurio di buon lavoro fatto pervenire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e nelle frasi rivolte a Nicola Zingaretti, presidente Pd della Provincia di Roma, reo, a detta di un contestatore, di non aver protestato con “i comunisti” e con “Bersani” per le nuove misure avanzate dal governo.
La modifica “per decreto” viaggia sul sentiero stretto dell’articolo V della Costituzione, quindi non “cancella” ma modifica competenzeefunzionidelleProvince, prosciugandonelefunzioni politiche. Affermano i diretti interessati al taglio che Consigli provinciali e giunte costano 35 milioni di euro l’anno: troppo poco per meritare tanta attenzione. Quelle che cadono nelle Regioni a Statuto speciale, invece, già si blindano dietro la Costituzione per evitare il taglio. Monti conta che le Camere decidano di cancellarle con legge costituzionale. Occorrerà del tempo, oltre che la volontà.
La battaglia dei gettoni
L’ALTRO FRONTE aperto è quello con le municipalità. È scritto nella bozza che i Comuni sipossonodotarediorganidiraccordo ma senza spendere. Tutti gli organi territoriali eletti non previsti dalla Costituzione (quindi Circoscrizioni e Municipi) devono essere considerati “onorifici” e non prevedere gettoni di presenza.
Gli ultimi due fronti aperti sono con le Autorità, che vedranno ridotti il numero dei consiglieri (simile dieta seguirà il Cnel). Su alcunientiinutilisistudiaunaccorpamento. Infine a Camera e Senato si chiede conto dell’indagine, avviata quando premier era Berlusconi, sulle indennità “medie” dei Paese Ue. Camera e Senato hanno tempo sino a fine anno. Un appunto: i partiti, anche questa volta, non pagano nulla.

il Fatto 6.12.11
Capitali prima scudati e poi graziati
La nuova tassazione ha un’aliquota bassissima
1,5%. Un altro rospo da ingoiare per il Pd
di Giorgio Meletti

La nuova tassazione dei cosiddetti “capitali scudati” ha il sapore della beffa per chi da mesi la invocava. Se n’era parlato molto nel corso dell’estate, durante la laboriosa gestazione della manovra firmata Berlusconi-Tremonti. E il punto sembrava abbastanza chiaro. Chi aveva portato irregolarmente i soldi all’estero si era potuto avvalere di un generoso condono, ideato e realizzato dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti, potendo rimettere tutto in regola con il pagamento di un’aliquota del 5 per cento, laddove in altri Paesi si era arrivati anche al 27 per cento.
Quando Berlusconi dovette mettere mano alla maxi manovra estiva, in molti chiesero di far pagare i furbetti dell’off-shore. Il Pd propose un’aliquota del 15 per cento: Essendo stati “scudati” circa 90-100 miliardi, si potevano mettere in cassi 15 miliardi. La trincea del governo di centro-destra fu inespugnabile. Dicevano che era una mossa inconstituzionale, che avrebbe dato luogo a un contenzioso infinito, visto che tassava retroattivamente capitali sui quali lo Stato aveva firmato un patto di non aggressione.
Ora il premier Mario Monti e il ministro dell’Economia Ma-rio Monti hanno deciso che quel problema di legittimità non sussiste e hanno ritassato i capitali scudati. Però con un’aliquota omeopatica dell’1,5 per cento: gettito previsto tra 1 e 1,5 miliardi.
Il Pd, che durante l’estate tuonava contro il ministro amico degli evasori e dei paradisi fiscali, adesso protesta. Dice il segretario Pier Luigi Bersani: “È importante che sia passato il principio degli scudati, l’abbiamo voluto e abbiamo insistito per tanto tempo, ma l’1,5 per cento è un buffetto”. Durante l’estate, quando alcuni esponenti del Pdl avevano aperto all’ipotesi di una tassazione nell’ordine dell1-2 per cento, Bersani aveva definito “risibile” l’idea. Adesso ha il problema di come ingoiare il risibile buffetto, e votarlo.
Si apre dunque un braccio di ferro. Il Pd chiede che l’aliquota sia aumentata, almeno al 2 per cento, ha detto il capogruppo Dario Franceschini alla Camera. Ma la faccenda si presenta durissima. È evidente che Monti ha toccato i capitali scudati con mano leggera per non suscitare le reazioni del Pdl, e i margini di manovra sono assai ristretti, vista la singolare conformazione della maggioranza che sostiene il governo.
Anche da parte di qualche associazione che rappresenta le piccole e media imprese c’è nervosismo per l’occhio di riguardo che il governo riserva alle grandi ricchezza. La Confcommercio, per esempio, ricorda a Monti che andrebbe fatto il famoso accordo con la Svizzera per la tassazione dei capitali italiani depositati nelle banche elvetiche, come hanno già fatto Germania e Gran Bretagna, portando nelle casse statali qualche decina di miliardi di euro.
Il problema è che oltre alla beffa c’è il danno. Il denaro che Monti non ha voluto, o potuto, chiedere agli esportatori di capitali, lo ha chiesto a chi tiene disciplinatamente i risparmi nelle banche italiane. La nuova imposta di bollo sui prodotti finanziari, presentata durante la conferenza stampa di domenica sera come un aggiustamento quasi marginale, si è rivelata ieri una notevole stangata. In pratica, ha spiegato Monti alla Camera, tutti i titoli finanziari, comprese le polizze vita, verranno tassati con la stessa aliquota degli scudati, l’1,5 per cento. Il gettito previsto, anche se il governo non ha dato in merito una comunicazione precisa, è stimato attorno ai 4 miliardi di euro.
Si tratta in pratica di una tosatura abbastanza severa delle ricchezze finanziarie di tutti gli italiani, anche dei fondi d’investimento. Nella migliore delle ipotesi, in questi anni di vacche magre, la tassa dell’1,5 per cento rischia di portarsi via tutto il rendimento di un fondo comune o di una polizza vita. Nella peggiore, la tassa erode il capitale. È una piccola patrimoniale, come ha detto lo stesso Monti, con una caratteristica precisa. Non solo non colpisce le grandi ricchezze, ma con l’aliquota unica non è nemmeno progressiva. Insomma, chi ha meno sarà più colpito.

il Fatto 6.12.11
La truffa delle frequenze non interessa a Passera
Il ministro: “Non abbiamo ancora esaminato il problema”
di Marco Lillo

Quando il ministro dello sviluppo economico, Corra-do Passera, nella conferenza stampa di domenica scorsa ha ammesso candidamente: “non abbiamo ancora esaminato il problema delle frequenze televisive”, il Governo ha certificato la sua debolezza politica. La prima prova d’esame alla quale dovrà rispondere il professor Monti è la seguente: come si fa a chiedere agli ultimi di pagare il conto di un regalo ai primi?
Come può il Governo negare a un pensionato persino l’adeguamento all’inflazione dei suoi 700 euro al mese mentre dona quattro miliardi di euro ai magnati delle telecomunicazioni? Come fa Monti a parlare di equità mentre un suo ministro, Elsa Fornero, piange per i sacrifici dei poveri e il collega Passera un minuto dopo sorvola sul regalo all’uomo più ricco d’Italia?
Anche il Pd ieri si è finalmente accorto dell’insostenibilità di questo paradosso. “È uno scandalo che Rai e Mediasetnon abbiano pagato le frequenze ricevute dallo Stato”, ha detto Walter Veltroni, “chi ha ricevuto gratuitamente nuove frequenze, le paghi”. Tutto lo stato maggiore dei democratici, da Pierluigi Bersani a Dario Franceschini passando persino per Anna Finocchiaro, ieri ha invocato un intervento del Governo per fermare lo scandaloso regalo alle tv, in testa Mediaset.
LA RISPOSTA di Passera in conferenza stampa però non sembra una distrazione ma un atto di coerenza che certifica la dipendenza di questo Governo dal suo azionista di maggioranza, che purtroppo è lo stesso di Mediaset. Il via libera ai sacrifici per gli italiani da parte del leader del Pdl si regge più che sulle parole spese da Monti su quelle omesse da Passera. Il Cavaliere non ha nulla da temere. Le frequenze tv tra pochi giorni potrebbero essere assegnate gratuitamente a Mediaset in perfetta continuità con la politica aziendale del Cavaliere .
In altri paesi lo spettro di frequenze liberato grazie al passaggio al digitale è stato pagato a caro prezzo dagli operatori. In Germania l’asta ha permesso di incasssare 4,4 miliardi di euro. Negli Stati Uniti sono arrivati nelle casse dello Stato 20 miliardi di dollari, in Canada si prevede un’asta che dovrebbe portare dai 4 ai 6 miliardi di euro e anche in Italia i tre principali operatori telefonici hanno pagato pochi mesi fa 4 miliardi di euro per implementare il 4g. Solo le televisioni, in testa Mediaset, non tireranno fuori un euro. E oltre al danno, nella veste di contribuenti, c’è anche la beffa, stavolta nella veste di telespettatori.
Il Governo Berlusconi ha finto di volere il beauty contest (“concorso di bellezza”, dove vince senza pagare un euro chi ha i numeri migliori e non chi offre di più) per adeguarsi ai voleri dell’Unione Europea. Bruxelles aveva aperto una procedura di infrazione contro il nostro paese per la concentrazione della proprietà delle tv. La scelta di donare le frequenze era stata contrabbandata come un’agevolazione all’ingresso dei nuovi entranti. Ovviamente era una balla, un diversivo per evitare la gara. Il ministro in carica fino a poche settimane fa, Paolo Romani, con la complice distrazione della sinistra e dell’Europa (che forse pensavano di aiutare Sky ad entrare nel digitale dalla porta principale) ha creato un bando fatto su misura per perpetuare l’oligopolio e tagliare le gambe ai veri operatori nuovi.
ALLA FINE anche Sky si è ritirata e il Pd ha ritrovato la voce. Domenica Monti ha chiesto agli italiani molti sacrifici: l’Ici sulla prima casa, un’aliquota che può superare l’uno per cento sulla seconda casa, l’aumento dell’Iva. Ma non ha presentato un provvedimento che da solo porterebbe almeno 4 miliardi di euro. E non ha intenzione di farlo. Per capirlo bisogna parlare con il professor Vincenzo Franceschelli, un giurista 64enne scelto dall’ex ministro Paolo Romani, per comporre la commissione che dovrà decidere le sorti delle frequenze tv liberate dal passaggio al digitale. Franceschelli, insieme al dirigente del ministero dello sviluppo Francesco Troisi e all’avvocato dello Stato in pensione Giorgio D’Amato, che presiede, dovrà assegnare i punteggi. In questo momento decisivo, il professore non si è mosso dal suo studio milanese. I lavori della commissione sono fermi ma secondo lui la politica non c’entra nulla. “Sono a Milano per la festa di Sant’Ambrogio. Immediatamente dopo le festività la commissione riprenderà i suoi lavori”, spiega al Fatto. A sentire Franceschelli il ministro Passera non ha contattato il presidente della commissione e lunedì prossimo, passate le feste, la commissione potrebbe assegnare le frequenze (probabilmente anche a Mediaset) senza chiedere il permesso a nessuno. “Nessuno mi ha informato del contrario. Ho un decreto di nomina e non mi è arrivata nessuna notizia di revoca”, spiega Franceschelli, “non credo che il presidente D’Amato abbia avuto contatti con il ministro. Dopo la nomina di una commissione nessuno può influire sui suoi lavori”. Per Passera è rimasto poco tempo. “Nel bando non c’è un termine per chiudere i lavori”, spiega Franceschelli, “ma penso che prima di Natale chiuderemo”.

Corriere della Sera 6.12.11
 La Chiesa, la morte e il libero arbitrio
. . Qualche considerazione in margine al suicidio di Lucio Magri
di Dacia Maraini

La notizia della morte di Lucio Magri mi ha molto colpita. Ho conosciuto Magri tanti anni fa nel pieno della sua felicità politica. Ricordo di essere stata folgorata dalla sua bellezza e dalla sua intelligenza festosa e ironica. Un uomo che qualsiasi donna avrebbe volentieri corteggiato. Peccato che fosse già impegnato.
Ora leggere della sua crudele decisione di tagliare ogni rapporto con la vita mi sorprende e mi addolora. Istintivamente si pensa: chissà se discutendo, magari arrabbiandosi, non avrebbe rinunciato a darsi la morte. Ma è un pensiero infantile perché sono sicura che gli amici del Manifesto e le persone a lui care hanno provato in tutti i modi a fargli cambiare idea. La sua decisione deve essere stata talmente radicale e profonda da rifiutare ogni consolazione. Dicono che la risoluzione sia stata provocata dalla morte precoce di una moglie amata. Può darsi. I rapporti di ciascuno di noi con la morte sono misteriosi e profondi e nessuno dovrebbe sindacare sulle decisioni che si prendono, ma solo «simpatizzare» con il dolore.
Certo colpisce la determinazione razionale con cui ha affrontato le cose. Un uomo che di impeto si butta sotto un treno o che ingoia una manciata di pillole e muore fra atroci dolori non fa lo stesso effetto di chi a freddo inizia un percorso anche burocratico verso la propria eliminazione: l'appuntamento col medico, la prenotazione del biglietto e forse anche di un albergo se l'operazione è prevista di prima mattina, la scelta dei vestiti (ci sarà bisogno di una valigia?). E quanti soldi bisognerà portarsi dietro? E chi deciderà del funerale? Cremazione o sepoltura? Ogni cosa deve essere stabilita in anticipo e con precisione. Ecco è proprio questa precisione e il controllo sulle emozioni che impressiona. Ci vuole coraggio per essere coerenti fino in fondo.
Ma perché Magri ha dovuto andare in Svizzera per affrontare una morte che non strazia il corpo ma lo consegna intero e dignitoso alla tomba? La risposta la sappiamo: in Italia vige il divieto cattolico a disporre del proprio corpo. Questo non impedisce che decine di persone si suicidino ogni giorno buttandosi da una finestra, o puntandosi una pistola in bocca. La Chiesa li ignora. Ma per uno che organizza razionalmente la propria fine con l'aiuto di un medico pietoso, arrivano le parole di condanna. Che il divieto valga per i cattolici è comprensibile ma per chi cattolico non è? Perché la Chiesa, che ha accettato per secoli la pena di morte e la tortura, ha da ridire sulla libera scelta di morire? Non sarà esattamente l'autonomia della decisione a ripugnarle? Il fatto che così facendo la persona sfugge al controllo di chi vuole stabilire il destino delle anime e dei corpi? Non sarà la pratica del libero arbitrio, contro cui combatte da sempre, a sembrarle inaccettabile? Tutto può essere perdonato, salvo la sovrana decisione di sé. In tanti Paesi che si pretendono democratici questa libertà è oggi considerata una solida conquista. A quando la compiutezza di un diritto che emancipi la nostra Repubblica dai condizionamenti della Chiesa?


La Stampa 6.12.11
L’authority per l’infanzia soffocata nella culla
Era nata quattro mesi fa: il presidente in carica sei giorni
di Flavia Amabile

Sono poche righe secche in una manovra sterminata. Bastano per cancellare anni di lavoro. L’Agenzia per il Terzo Settore, l’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione, l’Ente nazionale per il microcredito e l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza vengono soppresse, recita il provvedimento. Per l’ente che doveva occuparsi di minori è una fine inaspettata e decisamente prematura ma soprattutto un insieme di paradossi e situazioni al limite del surreale.
L’Autorità ha poco più di quattro mesi di vita, un presidente nominato da sei giorni, e si è vista uccidere sul nascere un futuro che si annunciava roseo e pieno di promesse a leggere solo quello che avveniva nemmeno una settimana fa quando a capo della giovane Autorità veniva nominato Vincenzo Spadafora, allora brillante presidente dell’Unicef Italia, il più giovane mai arrivato così in alto nell’organizzazione, come recita il suo curriculum. Spadafora accetta, si dice commosso e orgoglioso e si impegna a realizzare il suo compito «nel superiore ed esclusivo interesse dei bambini e degli adolescenti».
È il primo presidente della nuova Authority. Alla sua nomina provvedono cinque mesi dopo il via dell’organismo i presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, così come prevede la legge. Dovrebbe durare in carica quattro anni e la sua nomina potrà essere rinnovata una sola volta.
La nomina viene accolta da un coro di apprezzamenti da ogni parte, centrodestra e centrosinistra. Mara Carfagna, ormai non più ministro, ma reduce insieme a molti altri da un lungo periodo di lavoro per arrivare all’istituzione del Garante, applaude con entusiasmo: «Da oggi i bambini saranno più tutelati».
È quello che ci chiedeva l’Onu da venti anni. Il Garante infatti è una figura istituzionale già presente in gran parte dei Paesi europei ed attesa da tempo in Italia tenuto conto che era prevista e sollecitata già nella Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’Onu del 1991. Trattative, stop, marce indietro, e una legge che fatica ad avanzare. Viene presentata in Assemblea nel settembre del 2009 e poi rinviata alle commissioni Affari Costituzionali e Affari Sociali. Il loro lavoro si conclude il 9 marzo e il via libera della Camera arriva il 16 marzo. Il 22 giugno l’approvazione del Senato.
Da questo momento nulla sembra più ostacolare il provvedimento che per la prima volta attua l’articolo 31 della Costituzione che prevede l’agevolazione con misure economiche della formazione della famiglia e in particolare delle famiglie numerose. Finalmente dicono tutti l’Italia ha un punto di riferimento per chi voglia denunciare anche solo telefonicamente violazioni o situazioni di rischio per i minori. Finalmente c’è chi garantirà che al centro dell’agenda politica vi sia anche la garanzia di adeguati investimenti sull’infanzia attraverso la destinazione di fondi specifici a sostegno delle politiche e delle normative nazionali. Finalmente c’è l’organismo che potrà avere un dialogo alla pari con le Istituzioni nazionali e regionali, con le magistrature, soprattutto con quella minorile, come pure con il sistema dei servizi sociali nazionale e regionale. Si sbagliavano: due giorni fa è stato soppresso.

l’Unità 6.12.11
Diritto d’asilo: pochi posti per l’accoglienza, i soldi dirottati sull’emergenza
A fronte degli oltre 60mila arrivi dal Nord Africa, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che nel 2010 contava 3.146 posti ne conta solo 1500 in più. Il resto degli arrivi è stato tutto gestito in emergenza.
di Mariagrazia Gerina

Di là dal mare, le autorità libiche provano a dare segnali di una nuova stretta sull’emigrazione bloccando a largo di Tripoli 430 profughi, stipati sull’ennesimo barcone dopo aver pagato fino a 1500 euro per un viaggio “clandestino” che non faranno mai. Di qua dal mare, però, la parola chiave è ancora emergenza. E non tanto per i nuovi arrivi. Quanto perché i conti con i 60mila profughi approdati nei mesi scorsi dal Nord Africa ancora non tornano.
I dati dell’ultimo Rapporto sul Sprar presentato ieri a Roma dicono che a fronte di 60.656 profughi giunti nei primi nove mesi dell’anno sulle coste italiane (51.595 solo tra Lampedusa e Linosa), i posti di accoglienza attivati nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati sono solo 1.500 in più rispetto ai 3.146 dell’anno precedente. Posti insufficienti anche nell’ordinario. Tanto che persino il 2010, definito «l’anno nero dell’asilo» per la diminuzione drastica delle domande, si è chiuso secondo il rapporto con 6.855 persone accolte e 2500 persone in lista d’attesa.
Potenziare lo Sprar poteva essere una risposta al nuovo flusso migratorio determinato dalle rivolte nel Nord Africa e dalla guerra in Libia. È quello che chiedeva tra gli altri il Consiglio italiano per i rifugiati. Ma il governo Berlusconi-Maroni ha preferito rispondere con un piano d’emergenza, affidato alla Protezione civile. E a ottobre, poco prima di cedere il passo al nuovo governo tecnico, è arrivata anche la proroga. Il vecchio esecutivo ha deciso che l’emergenza continua, fino a tutto il 2012. E i finanziamenti erogati, altri 230 milioni di euro che vanno ad alimentare un sistema d’accoglienza parallelo, anche.
Il risultato, è che ai numerosi sforzi compiuti dalle Regioni e dagli enti locali corrispondono servizi garantiti in modo molto disomogeneo sul territorio nazionale, sintetizza Flavio Zanonato, delegato Anci per l’immigrazione.
E il problema è che nel frattempo ai profughi arrivati dalla Libia non è stato riconosciuto alcuno status. Accolti perché tutti quanti in fuga da un paese in guerra, sono stati spinti a fare uno per uno domanda l’asilo. Solo che molti di loro, emigrati in Libia per trovare lavoro, sono originari di paesi dove, in teoria, potrebbero tornare senza rischiare né persecuzioni né guerra, anche se in pratica, non avendo lì né casa né famiglia, non ci torneranno. Risultato: le commissioni territoriali chiamate ad esaminare le loro richieste d’asilo, stanno rispondendo con una valanga di dinieghi. E l’effetto è che migliaia di quei 60mila stranieri arrivati sulle coste italiane da profughi si stanno trasformando in irregolari.
La soluzione ci sarebbe. Un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Simile a quello rilasciato per i primi tunisini approdati a Lampedusa. È quello che chiede un appello per il «Diritto di scelta» lanciato dalle associazioni che si occupano di rifugiati e sottoscritto già da tremila persone. Oltretutto, in tempi di crisi, sarebbero davvero uno spreco se dopo tutti quei soldi spesi in emergenza per l’accoglienza si finisse per produrre solo nuova manovalanza in balia del lavoro nero e della criminalità organizzata.

Corriere della Sera 6.12.11
La «squadretta» delle punizioni che seviziava i detenuti
Tra i 6 coinvolti anche un medico. Nel mirino soprattutto stranieri

di Ilaria Sacchettoni


ROMA — Umiliazioni, percosse, violenza, sevizie: nella «squadretta», come la chiamavano a Regina Coeli, militavano almeno in sei. Non solo guardie carcerarie ma anche personale sanitario. Fra cui il medico del reparto della settima sezione, Rolando Degli Angioli, per il quale il pm Francesco Scavo ha chiesto il rinvio a giudizio per abuso, falso e violenza privata. E infermieri come Luigi Di Paolo, ora accusato di violenza privata.
Contro di loro, militanti di una sorta di «codice rosso» in vigore dietro le sbarre, ci sono le testimonianze delle stesse vittime. «Mi tenevano in piedi per non farmi dormire — racconta ai magistrati Oltean Gavrila, uno dei romeni accusati dello stupro di gruppo della Caffarella, il 14 febbraio del 2009 e finito nel carcere di Regina Coeli e vittima della "squadretta" —. Arrivavano da me alle undici di sera e mi dicevano di stare in piedi, non dormire, poi dopo un po' mi dicevano "puoi dormire venti minuti" e in venti minuti non ce la facevo...». Per sottrarsi a un supplizio durato giorni, Gavrila si attacca a una bottiglia di detersivo e il 19 febbraio viene trasferito in infermeria. Da qui chiede di parlare con un magistrato al quale racconta tutto. Si tratta di Vincenzo Barba, uno dei pm del caso Cucchi.
Anche in quell'occasione, Degli Angioli, medico con una predilezione per la professione di agente carcerario (nel suo armadietto era custodita una giacca della divisa penitenziaria) era presente. Ma allora, sarebbe intervenuto solo per consigliare il ricovero in ospedale di Cucchi, già con lividi e fisicamente compromesso.
Sono serviti due anni di indagini per rompere l'involucro omertoso del penitenziario e ricostruire, almeno in parte, quello che accadeva da anni. La «squadretta» entrava in gioco con detenuti accusati di delitti sessuali o reati particolarmente allarmanti sul piano sociale. Spesso contro immigrati o comunque stranieri. Meglio ancora se con patologie invalidanti che rendevano ancora meno credibile la loro (già improbabile) denuncia.
Sarà Julien Monnet la vittima «illustre» che farà scattare le indagini. L'ingegnere francese di 37 anni, accusato di tentato omicidio nei confronti della figlia (le avrebbe sbattuto la testa sui gradini dell'Altare della Patria: era l'agosto 2008) subì il «trattamento». Ma Monnet non è un extracomunitario qualunque. Il suo caso fu seguito, giorno per giorno, dall'ambasciata di palazzo Farnese. Dunque l'uomo denuncia e in procura, spiega il suo difensore Michele Gentiloni Silveri, viene aperto un fascicolo.
Legato a un letto di contenzione (ce n'è uno nella settima sezione, utilizzato in caso di crisi suicide o raptus omicida del detenuto) «con della stoffa marrone» Monnet racconta: «A un certo punto, la persona con il camice bianco che mi stava schiaffeggiando in viso... si è spostato alla mia destra...». Nel frattempo una seconda persona «continuava a picchiarmi sui piedi» con un grosso bastone. Monnet spiega che, a un tratto, uno dei due prende un tubo: «E approfittando che ero legato ha cominciato a inserirmi un catetere. Questa operazione si è conclusa dopo almeno quattro tentativi, durante i quali io urlavo per il dolore a ogni tentativo fallito. Ricordo perfettamente che tutti e due erano incuranti del dolore che mi stavano provocando, il primo per il modo in cui tentava di inserirmi il tubo, l'altro perché ad ogni grido riprendeva a picchiarmi sui piedi».
Monnet denuncerà la tortura subita, mentre della «sonda vescicale» che gli venne applicata è scomparsa ogni traccia dal registro degli interventi effettuati quel giorno. Resta la domanda: qualcuno controlla quei registri?
È in seguito alla denuncia di Monnet che si apre anche l'inchiesta interna della polizia penitenziaria, al termine della quale vengono presi provvedimenti disciplinari nei confronti di Degli Angioli. Il medico viene allontanato. Ma il francese non è solo. La squadra punitiva prende di mira anche un giovane filippino B. R., arrestato con in corpo tanto shaboo (allucinogeno) da dover richiedere l'intervento di una decina di agenti per placarlo. Su di lui si sbizzarriscono fino a incaprettarlo e a spegnergli sigarette accese sul corpo. E A. R., omosessuale, con patologie psichiatriche gravemente invalidanti, arrestato per violenza sessuale, racconta: «Per farmi desistere dal desiderio di avere rapporti mi facevano camminare lungo il corridoio della sezione in maniera da essere veduto da tutti mentre ripetevo ad alta voce "sono scemo, sono scemo"». Per intimidirlo si svolgevano anche «rappresentazioni di pericolo» nei confronti della sua famiglia, racconta A. R. Una sorta di perverso gioco dei mimi nel quale si allude a ritorsioni a donne «della mia famiglia, mia madre, mia zia, mia cognata». Minacce che si sarebbero realizzate in caso di denuncia.

l’Unità 6.12.11
«Siamo i vincitori ma non i nuovi padroni dell’Egitto»
La guida suprema dei Fratelli musulmani «La nostra vittoria non è
la sconfitta di Piazza Tahrir». La sharia? «Un riferimento costituzionale,
non uno strumento di dittatura». Israele preoccupato? «Un punto d’onore»
di Umberto De Giovannangeli

Siamo i vincitori di una elezione ma non ci sentiamo i nuovi padroni dell’Egitto». E ancora: «Solo chi non conosce a fondo l’Egitto, chi non ha visitato i quartieri più poveri e non ha prestato ascolto alla sofferenza dei più deboli, può meravigliarsi del successo ottenuto dalla Fratellanza». A parlare è Mohammed Badie, ottava Guida generale dei Fratelli Musulmani. A quanti considerano la vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani come la sconfitta della “Rivoluzione dei Loto”, il leader dei Fratelli Musulmani ribatte: «I nostri ragazzi sono stati parte attiva della rivolta che ha portato alla caduta di Mubarak, ma la nostra opposizione non nasce in quei giorni, le carceri del regime hanno ospitato per decenni militanti della Fratellanza. Le nostre fila sono piene di Shahid (martiri, ndr). Sconfitto, semmai, è chi riteneva che la rivoluzione fosse contro l’Islam e non contro un regime corrotto». L’intervista a Mohammed Badie avviene il giorno del secondo turno delle elezioni per il rinnovo della Camera bassa del parlamento, in cui gli islamici moderati cercheranno di confermare la supremazia sui salafiti registrata nella prima tornata elettorale del 28 e 29 novembre. Al primo turno il partito di Giustizia e Libertà dei Fratelli Musulmani ha ottenuto il 36.6% delle preferenze contro il 24.3% fatto registrare da al-Nour, partito d’ispirazione musulmana radicale. «Il nuovo governo avverte Badie – scaturirà dalla maggioranza del Parlamento e a pesare saranno i consensi che ogni partito avrà conquistato. La volontà del popolo non può essere svilita. Da nessuno». La Guida generale della Fratellanza concorda con quanto affermato nei giorni scorsi da Mohamed Albetagy, leader del Cairo di Giustizia e Liberta: «Se il popolo egiziano dovesse scegliere come presidente della Repubblica una donna o un copto, gli islamici non avrebbero problemi ad appoggiarlo». «È così dice Badie ma il discorso deve valere anche se il popolo sceglierà come Presidente un islamico. Chi non vuole preclusioni non deve neanche proporle».
Il primo turno delle prime elezioni del dopo-Mubarak ha visto i partiti islamici come vincitori. C’è chi teme che quel voto apra la strada ad una «dittatura della sharia» (la legge islamica). «La Sharia è un riferimento costituzionale, non è lo strumento di una dittatura. D’altro canto, coloro che hanno votato le liste della Fratellanza, i suoi candidati, lo hanno fatto sapendo perfettamente quale era il programma, l’identità culturale, l’Islam a cui ci ispiriamo. Non ci siamo mai “mascherati”. La Fratellanza è parte fondamentale della società egiziana e il voto ne è la conferma. Per quanto ci riguarda, crediamo nelle riforme graduali che avvengono in modo pacifico e nel rispetto delle istituzioni. Rigettiamo la violenza e la denunciamo in tutte le sue manifestazioni».
C’è chi sostiene che la vittoria della Fratellanza è la sconfitta di Piazza Tahrir...
«Non è così. Di quella Piazza come della rivolta contro il regime di Hosni Mubarak, i nostri ragazzi, i nostri “shahid” (martiri, ndr) sono stati parte attiva, pagando un altissimo tributo di sangue. Per anni le carceri del regime si sono riempite di militanti della Fratellanza, la repressione nei nostri confronti è stata brutale. E il popolo egiziano non l’ha dimenticato nel momento del voto. Sconfitto, semmai, è chi ha interpretato la rivolta come un rigetto dell’Islam e non di un regime corrotto. La nostra, semmai, è la vittoria della solidarietà islamica, a pagare è il lavoro di assistenza verso i più deboli che abbiamo portato avanti per anni, spesso da soli (in un Paese in cui il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno, i Fratelli musulmani, offrono scuole gratuite, sussidi ai più bisognosi e addirittura una dote matrimoniale alle ragazze più povere, ndr)».
Tra quanti hanno espresso preoccupazione per il successo della Fratellanza ci sono i governanti israeliani. «La loro “preoccupazione” è per noi un punto d’onore. L’onore di chi si è sempre schierato con i fratelli palestinesi che lottano contro l’occupazione sionista della Palestina. La pace non può fondarsi sui crimini perpetrati a Gaza o sull’apartheid imposto in Cisgiordania col Muro della vergogna. Per questo riteniamo doveroso rivedere gli accordi di Camp David (sottoscritti nel settembre ’78 dal presidente egiziano Sadat e dal premier di Israele Begin, ndr)». Molti analisti sostengono che il futuro dell’Egitto nasce sotto il segno di un patto di potere tra i militari e i Fratelli Musulmani.
«Riconoscere il ruolo che l’Esercito ha avuto nella fine del passato regime come in questa fase di transizione non significa per noi aver stipulato patti di potere. Il nuovo Egitto non nasce sotto tutela». Nella campagna elettorale, i candidati della Fratellanza hanno cercato di accreditare l’immagine di un Islam moderato. È solo tattica? «Non so cosa significhi moderato. L’Islam non ha bisogno di aggettivi né di giustificazioni, tanto meno di visioni caricaturali, demonizzanti. Di certo, non è sinonimo di oscurantismo o di ritorno al Medio Evo».

La Stampa 6.12.11
Russia dopo le elezioni
Mosca, ora è la piazza a sfidare Putin
Scontri fra manifestanti e polizia, 300 arresti
L’Osce: ci sono stati brogli. Medvedev: indagheremo
di Anna Zafesova

La protesta Oltre 300 persone sono state arrestate ieri durante le proteste contro i brogli alle elezioni di domenica Siamo preoccupati per le modalità di svolgimento delle elezioni Serve un’indagine Hillary Clinton Segretario di Stato americano Queste elezioni erano come un gioco in cui solo ad alcuni giocatori è stato consentito andare in campo Petros Efthymiou Coordinatore della missione Osce
La rivoluzione russa si consuma nelle urne, ma in piazza incontra ancora i manganelli. Ieri gli oppositori di Mosca hanno cercato di sfilare per il centro della capitale protestando contro i brogli elettorali e chiedendo le dimissioni del premier. Migliaia di persone all’appuntamento dato via social network a Chistye Prudy, non si riusciva a passare. Ma quando i leader della protesta – giornalisti d’opposizione, blogger famosi come Alexey Navalny, politici liberali come Boris Nemzov – hanno cercato di portare la folla verso la Commissione elettorale centrale, lo scenario è stato lo stesso di sempre. I giovani che gridavano «Russia senza Putin», «Rivoluzione» e «Russia senza Russia Unita» sono stati bloccati dalla polizia e dalle truppe del ministero dell'Interno. A decine sono riusciti ad aggirare le transenne e arrivare fino al Bolshoi, dove i manifestanti sono stati arrestati, la polizia ammette 300 fermi.
Un test che molti si aspettavano dopo la batosta presa nelle urne da Russia Unita. Il partito del potere si è fermato appena sotto il 50%, anche se Vladimir Putin – riapparso ieri nella versione pragmatica e sbrigativa di premier, dopo che nella notte gli exit poll gli hanno impedito il trionfo da eroe popolare – ha ribadito che si tratta di «un successo», in quanto Russia Unita comunque riesce, grazie al minipremio di maggioranza, a ottenere 238 seggi su 450. Ma il «successo» è apparso sempre meno convincente man mano che sono arrivati i dati dalle regioni russe. A parte la perdita di 77 seggi e di 14 punti percentuali, in alcune zone il partito di Putin non è nemmeno al primo posto, avendo ceduto il primato ai comunisti, e in diverse regioni soprattutto della Russia centrale e industriale, non supera il 33-38%. A Pietroburgo, feudo putiniano, è stato incalzato da Russia Giusta, la formazione di sinistra dell’ex fedelissimo dello zar Serghey Mironov, che ieri ha già annunciato che sfiderà il premier alle presidenziali del 4 marzo. Stessa mossa è stata fatta dallo storico leader comunista Ghennady Ziuganov, forte del raddoppio dei consensi e della vittoria in una serie di seggi importanti. Il leader del Pc ha anche chiamato tutti gli oppositori a fare fronte unico contro il Cremlino. Ma Mironov è rimasto prudente: coalizioni solo su temi singoli.
Di «coalizione», parola rimasta fuori dal vocabolario politico russo per anni, ieri è tornato a parlare anche Dmitry Medvedev, dicendosi soddisfatto per un Parlamento «più divertente», dove «nessuno ha il monopolio sulla verità». Il presidente è tornato a ribadire che il risultato di Russia Unita è «meritato», anche se non ha escluso «conclusioni» per i governatori con risultati elettorali particolarmente scarsi, pur smentendo l'utilizzo delle «risorse amministrative» nel voto. Che invece è stato ammesso esplicitamente dagli osservatori occidentali, che hanno parlato di «ingerenza» delle autorità. Il capo della missione del Consiglio d’Europa e dell’Osce, Petros Eftimiu, ha fatto una lunga lista di violazioni: «Osservatori non ammessi ai seggi, violazioni dello scrutinio, inserimento di schede precompilate nelle urne, iniquità nel trattamento dei concorrenti». Giudizio di una durezza senza precedenti, forse dovuto anche al fatto che il presidente della Cec russa Churov aveva accusato gli emissari occidentali di essere «prevenuti». Anche Hillary Clinton ha espresso «preoccupazione» per i brogli invocando un'indagine.
La valanga di brogli stavolta è stata difficile da ignorare, grazie anche alla tecnologia e alle associazioni indipendenti, che hanno messo sul Web decine di filmati girati nei seggi. Perfino Medvedev è stato costretto ad ammettere di averli guardati: «Non si capisce molto, si vede poco e tutti gridano “vergogna” e “orrore”, ma bisogna indagare», ha detto. Ziuganov ha promesso decine di ricorsi e ha dichiarato le elezioni «illegittime». Mironov vuole contestare il conto dei voti a Pietroburgo e Astrakhan. Yabloko, pur non avendo superato la soglia del 7%, è riuscito a dimostrare i brogli in un seggio di Mosca dove, dopo il riconteggio, risultavano il primo partito, e i suoi leader non escludono che la percentuale nazionale di Russia Unita sia in realtà intorno al 30%. Nella capitale le violazioni sono state particolarmente diffuse, con decine di segnalazioni di protocolli con discrepanze anche di centinaia di voti (per Russia Unita, ovviamente) rispetto ai verbali iniziali, e diversi osservatori aggrediti brutalmente. Il sito dell' associazione Golos ha registrato 7000 denunce, e gli attacchi alla Ong durante la campagna elettorale sono stati criticati dagli osservatori occidentali. "Grazie al minipremio «Russia Unita» è riuscita a tenere la maggioranza dei seggi"

Corriere della Sera 6.12.11
La Siberia ai comunisti

Trionfo dei comunisti russi in Siberia. Il partito di Ghennadi Ziuganov (Kprf) — che ha guadagnato il 20% dei consensi e raddoppiato i propri seggi in Parlamento (92) — ha battuto «Russia Unita» di Putin in diverse città siberiane: Omsk (30,5% contro il 27,4), Irkutsk (31% contro 25%) e Novosibirsk (34,1% contro 27,6%). Nonostante l'ottimo risultato ottenuto, Ziuganov ha definito «illegittime dal punto di vista politico e morale» le elezioni: al partito di Putin sarebbe stato attribuito il 15% dei voti in più.

Corriere della Sera 6.12.11
Allarme a Pechino «Non siamo in grado di gestire disordini»
150 mila «incidenti di massa» l'anno
di Marco Del Corona

PECHINO — Uno dopo l'altro, un giorno dopo l'altro, hanno detto la stessa cosa davanti a platee diverse e con parole calibrate caso per caso. Che la crisi dell'euro e, comunque, gli affanni globali non mancheranno di fare sentire i loro nefasti effetti sulla Cina, e dunque occorre prepararsi. I leader di Pechino si espongono perché a essere esposta, ormai, è la Cina, che ode scricchiolii che la turbano. La Repubblica Popolare, tuttavia, dev'essere pronta a «imporre il suo discorso al mondo» e a un Occidente quattro volte debole, come sanciva ieri un editoriale.
Il più crudo è stato venerdì Zhou Yongkang, uno dei nove membri del comitato permanente del Politburo. A un consesso di dirigenti provinciali, ha esortato a «pensare a come mettere in piedi un sistema di gestione sociale con caratteristiche cinesi che s'intoni con la nostra economia socialista di mercato».
Il vicepremier Wang Qishan ha parlato invece nel weekend in Manciuria: «La situazione grave e complessa dell'economia globale si tradurrà inevitabilmente in una domanda mondiale insufficiente» a sostenere ancora un export cinese spinto: dunque, «va ristrutturato il commercio».
Il ministro competente proprio per il Commercio, Chen Deming, ha infine facilmente predetto che, «a causa della contrazione dell'economia mondiale, la crescita della Cina potrà rallentare». Cosa che sta già facendo, se il Pil, da più 10,4% nel 2010 è progressivamente sceso al 9,1% del terzo trimestre di quest'anno.
Zhou alludeva a una recente serie di «incidenti di massa» quando avvertiva che a fronte degli «effetti negativi dell'economia di mercato, non abbiamo ancora messo a punto un maturo sistema per la gestione sociale».
Non esistono statistiche affidabili sugli «incidenti di massa» — ovvero scioperi, proteste contro funzionari corrotti, la requisizione di terre, fabbriche chiuse e/o spostate e così via — anche se circolano stime di 100-150 mila episodi l'anno, di entità variabile. È viva la percezione che gli «incidenti» (mille operai di una ditta di Singapore a Shanghai, centinaia a Taicang nel Jiangsu, gli autisti di bus di Hainan e del Guangxi…, come annota il China Labour Bulletin di Hong Kong) siano un'epidemia.
Anche se le autorità (il sindacato ufficiale o il Partito), quando non cavalcano direttamente le rivendicazioni che riguardino società straniere, appaiono spesso o molto spesso in controllo della situazione.
A sostenere che il contagio sia un prodotto della fragilità di Europa e Stati Uniti, è intervenuto ieri il Global Times, arrembante quotidiano nella sfera del Partito. Ha aggiornato la fascinazione cinese per gli slogan numerici (dalle Quattro Modernizzazioni di Deng Xiaoping alle Tre Rappresentanze di Jiang Zemin, per dire) lanciando le Quattro Incapacità dell'Occidente. Che è, uno, incapace di spirito pratico ed è anzi ideologico nei rapporti col mondo; due, incapace di scegliersi leader competenti; tre, incapace di avere una buona politica e una buona governance (le beghe tra democratici e repubblicani americani sono citate esplicitamente); quattro, incapace di programmare strategicamente.
Morale: l'autorevolezza dell'Occidente è esaurita, tocca alla Cina imporre agenda e principi. Incidenti di massa, turbolenze e ansie varie permettendo.

Corriere della Sera 6.12.11
La finanza spegne la democrazia
Questa crisi ha radici lontane e proseguirà nei prossimi decenni I mercati globali stanno usurpando il potere degli elettori
di Adam Haslett

Nel prepararci ad affrontare il quarto anno di crisi finanziaria globale, appare sempre più chiaro che il patto economico e politico che sta alla base della nostra società postbellica è ormai in pieno disfacimento. Non è più il caso di interrogarsi su quando le nostre società torneranno alla normalità, perché ciò non avverrà. Né dovremmo chiederci quando finirà la crisi, perché è destinata a prolungarsi forse per decenni. Ed è una crisi che cambierà la vita della stragrande maggioranza della popolazione più radicalmente di quanto non abbia fatto la fine della Guerra fredda o l'11 settembre.
Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni 60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l'inflazione. Dovendo fronteggiare la recessione dei primi anni 70, i governi hanno preferito stampare denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la disoccupazione. Ma entro la fine del decennio l'inflazione aveva strangolato i nuovi investimenti, facendo aumentare la disoccupazione. Nei primi anni 80, ancora una volta davanti allo spettro della recessione, i governi hanno fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando il deficit dello Stato per rilanciare i consumi, Usa e Gran Bretagna in particolare hanno ingaggiato un braccio di ferro con i sindacati nel tentativo di ostacolare le loro richieste di aumenti salariali.
Però, già nei primi anni 90, debito pubblico e difficoltà di bilancio avevano cominciato a innervosire i mercati finanziari. Nel tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre il deficit, sia Washington che Londra hanno liberalizzato in maniera decisiva il settore finanziario. Lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato un'infinità di nuovi strumenti di gestione del debito privato, i governi hanno distolto lo sguardo dagli Stati sovrani, preferendo chiedere prestiti da aziende e individui in grado di finanziare i loro consumi (e speculazioni), finendo per indebitare le future generazioni.
Ne sono venute fuori due bolle degli asset, la prima nel settore informatico e la seconda nel mercato immobiliare americano, provocando il crollo di Lehman Brothers nel 2008 e dando avvio all'attuale crisi. Pertanto, se consideriamo il contesto storico, è lecito affermare che ciò che è in fase di sviluppo non può definirsi semplicemente una contrazione particolarmente grave del ciclo economico ordinario, destinata a esaurirsi. No, oggi assistiamo all'accelerazione di una crisi endemica delle economie occidentali che va aggravandosi da un quarantennio, man mano che si è tentato di ripetere i successi economici, considerati «normali», di quello che era in realtà un periodo storico anomalo, ovvero gli anni del dopoguerra. Inoltre, nel corso degli ultimi due decenni, l'industria finanziaria, sgravata da ogni vincolo, si è conquistata un potere politico talmente grande da bloccare qualsiasi riforma delle sue operazioni, in particolare su scala globale, dove sono indispensabili, imponendo la pratica della distribuzione verso l'alto dei profitti raccolti.
Negli Usa, stagnazione economica e ripartizione sempre più oligarchica della ricchezza hanno innescato proteste popolari su una scala che non si vedeva dagli anni 60. Nel frattempo in Europa l'euro rischia di sparire e l'intero progetto postbellico di integrazione potrebbe da un momento all'altro inserire la marcia indietro, molto più in fretta di quanto si possa immaginare. I governi tecnici insediati in Grecia e Italia sono probabilmente condannati al fallimento perché le misure varate non sono legittimate dal suffragio popolare. Negli Usa, l'egemonia del mercato si fa sentire attraverso i contributi illimitati che il mondo finanziario e industriale può offrire alla campagna elettorale, e tramite le pressioni esercitate sul Congresso si rivela capace di aggirare e vanificare le scelte popolari a favore di una più equa ridistribuzione della ricchezza. Sia al di qua che al di là dell'Atlantico, le esigenze delle élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare, apertamente ignorata. Se dovessero radicarsi, tali tendenze potrebbero sfociare in un assetto politico non più riconoscibile come democrazia, dando vita a un sistema capitalistico, sì, ma non democratico. È assai poco rincuorante constatare che l'attuale crisi non rappresenta che un semplice ingranaggio nell'evoluzione storica complessiva del capitalismo occidentale, che continua a ridistribuire la ricchezza verso l'alto, a indebolire le istituzioni democratiche e a concentrare il potere nelle mani di pochi individui. È questa forza trascinante che continuerà a influenzare la nostra vita nei prossimi decenni, non le vicende altalenanti delle odierne difficoltà economiche. E se per il momento non è possibile imbrigliare questa forza, non ci resta che sforzarci di comprenderla con maggior chiarezza.

Corriere della Sera 6.12.11
Parri tra guerra e democrazia
Dal Carso alla Resistenza, sognò un'Italia dei combattenti
di Antonio Carioti

Dirigente della Resistenza e del Partito d'Azione, capo del governo per pochi mesi subito dopo la Liberazione, poi custode della memoria antifascista. Così è ricordato Ferruccio Parri, scomparso trent'anni fa l'8 dicembre 1981. Ma nella sua biografia, ricostruita anni fa da Luca Polese Remaggi nel saggio La nazione perduta (Il Mulino), vi sono altre tappe importanti.
C'è anche il Parri redattore del «Corriere della Sera» dal 1922 al 1925, fino alla cacciata di Luigi Albertini voluta dai fascisti. Ma soprattutto c'è la sua esperienza durante la Prima guerra mondiale, cui partecipò da ufficiale e da convinto interventista, nella speranza che il conflitto potesse innescare un profondo rinnovamento della vita italiana, spazzando via per sempre il clima mediocre e compromissorio del parlamentarismo giolittiano.
Per un anno e mezzo il futuro capo del governo si battè valorosamente in prima linea, meritandosi tre medaglie d'argento, cui si aggiunse anche una croce di guerra francese. Allontanato dal fronte per via di un congelamento, fu promosso maggiore e nei mesi a cavallo tra il 1917 e il 1918 frequentò a Verona un corso ufficiali che lo avrebbe proiettato verso lo stato maggiore dell'esercito, dove prestò servizio fino al termine del conflitto.
Nel frattempo le armate italiane avevano subito la disfatta di Caporetto, che su Parri ebbe ovviamente un forte impatto. Lo si vede dai brani inediti, riportati qui accanto, di una lettera al padre del 14 novembre 1917: non devono ingannare gli episodi tragicomici riferiti dal giovane ufficiale (era nato a Pinerolo nel 1890) sul comportamento delle truppe in ritirata, perché il dato più saliente è la sua sfiducia verso il fronte interno, verso coloro che sono rimasti lontani dalle trincee.
Parri pensa che costoro «non si rendano conto bene» dei pericoli che corre la patria in quel momento drammatico. Giudica la situazione talmente degradata «che anche una disfatta ci servirebbe». Dichiara apertamente il suo «schifo». Teme insomma che l'Italia non sia all'altezza della prova. Partito per il fronte augurandosi che la guerra desse un forte scossone al Paese, si era convinto ancor più, come ha scritto Polese Remaggi, che «una nuova aristocrazia borghese intellettuale, forgiatasi nelle trincee, dovesse mettersi a capo di una rivoluzione nazionale».
Infatti all'indomani della guerra Parri invocherà una «democrazia dei combattenti», capace d'integrare le masse nello Stato. E questo ci dice quanto fosse discutibile la pretesa del fascismo d'incarnare «l'Italia di Vittorio Veneto», poiché una parte tutt'altro che trascurabile dell'interventismo e del combattentismo (oltre a Parri si possono citare Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Randolfo Pacciardi, Raffaele Rossetti) si era invece schierata contro Mussolini.
Allo stesso tempo è interessante notare come il Parri della Grande guerra anticipi per alcuni versi quello della Resistenza. Anche dopo il 1945 il leader antifascista riteneva che le forze temprate dalla lotta partigiana dovessero costituire la spina dorsale della nuova Italia. E anche allora andò incontro a una cocente delusione, per quanto meno amara di quella che lo aveva visto, negli anni Venti, opporsi coraggiosamente, ma invano, all'avanzata delle camicie nere verso la dittatura.

Corriere della Sera 6.12.11
«Chi è lontano dal fronte non capisce la situazione»
di Ferruccio Parri

14 novembre 1917
Oggi è stato ucciso da una scheggia di granata uno dei Caire, tenente del Genio: di Casale. Sono 5 fratelli in guerra. Questo era il terzo. Ninì lo conosceva. Comandava una compagnia del Genio della nostra Divisione — Abbiamo dei reparti di ragazzetti del '99 — Oggi una granata ne ha uccisi 2 o 3 e feriti una ventina: gli altri intorno si sono messi a piangere come bambini. Ma questo non è nulla rispetto allo scempio del Veneto — Oramai il Veneto lo conoscevamo tutti; e gli volevamo bene. Abbiamo fatto conoscenze dappertutto. Non ci par vero.
E poi… questo esercito ci pare come l'avessimo fatto noi, guidato noi. I suoi guai ci feriscono come ferite personali.
Ma… preferisco del resto star qui. Ritengo che in Italia non si rendano conto bene. Siamo così ridotti che anche una disfatta ci servirebbe. Meglio star qui, e non sapere e non ricordarsi di tante cose che farebbero certamente schifo. (...)
Per calmare la fame faccio la cura dell'uva. I vigneti non vendemmiati sono carichi. Figuratevi il fante! Il fante si arrangia. Ha tirato il collo a tutti i pollastri del Veneto. E si è rivelato nemico diretto dei porchetti. Se la Sussistenza non poteva funzionare, tu vedevi reparti in marcia con in coda un vitello o due: rancio ambulante. Pochi giorni fa ce n'erano 8 o 10 aggrappati ad un enorme porco restio: e chi lo spingeva di dietro e chi lo tirava per le gambe per le orecchie per i peli; arriva il colonnello e dà di piglio ad un randellaccio (lo vedevo già sulle spalle dei soldati): e dai a picchiare il porco urlando «Forza ragazzi: questo è il rancio».
Il colmo è stato quando ho visto due carabinieri seriamente intenti ad accalappiare con una cordicella a nodo scorsoio un bel maialetto ritroso. Un motociclista se ne andava con una capra mezza strozzata legata alla macchina persuadendola in romanesco a non volersi lasciar prendere prigioniera dagli austriaci.
Sono sporco, non mi lavo da assai. Il fango (piove purtroppo ostinatamente) mi si è incrostato stabilmente.

La Stampa 6.12.11
La forza della scienza
di Umberto Veronesi

A trent’anni dallo studio che impose la chirurgia conservativa nel tumore del seno stanno nascendo nuove terapie per arrivare all’obiettivo mortalità zero

Il pensiero non è in crisi. La situazione economica mondiale assorbe, giustamente, la nostra attenzione quotidiana e ci assilla di preoccupazioni per il domani, ma dobbiamo ricordare che le difficoltà riguardano i capitali e i flussi finanziari, mentre la creatività scientifica, che è la chiave per il futuro, sta vivendo uno dei periodi più floridi della sua storia. Per lanciare questo messaggio ho accettato che i miei collaboratori più stretti organizzassero oggi a Roma la celebrazione dei 30 anni dalla pubblicazione sul New England Journal of Medicinedello studio che cambiò da subito le sorti delle donne colpite da tumore del seno, e poi di tutti i malati di cancro. Perché sarà una celebrazione della forza innovativa del pensiero razionale scientifico e della eccellenza della ricerca medica italiana, che pure non ha mai goduto né di grandi risorse, né di grande considerazione nelle strategie di crescita del nostro Paese. Volli personalmente quello studio (che durò dal 1973 al 1981 su 700 pazienti), contro il parere dell’oncologia mondiale. Il lavoro ha dimostrato che i tumori del seno in fase iniziale potevano essere curati con gli stessi risultati, conservando la mammella e asportando solo la parte sede del nodulo. Fu una rivoluzione profonda che pose fine all’accanimento sul corpo femminile e a ogni forma di eccesso di cura, e insegnò agli oncologi nel mondo a tener conto della qualità di vita dei malati e della loro percezione della malattia. Le donne furono motivate a controllare periodicamente il proprio seno e, poiché i tumori iniziali guariscono di più, l’impatto fu enorme: in 40 anni la guaribilità è passata dal 40% all’85% dei casi. Ora miriamo ad un obiettivo più ambizioso: sviluppare questa tendenza, fino a trasformare il tumore del seno in una malattia con mortalità vicino allo zero. Come? Sappiamo che la probabilità di guarigione del tumore del seno è proporzionale alla tempestività della diagnosi e oggi abbiamo a disposizione conoscenze più avanzate (abbiamo decodificato il genoma umano) e strumenti di indagine molto più efficaci e accurati di 40 anni fa. La sfida è quindi di applicarli su ampia scala e uniformemente a livello nazionale. All’Istituto Europeo di Oncologia abbiamo dimostrato con uno studio pilota su 1258 pazienti che, se il tumore del seno è scoperto quando è impalpabile e rilevabile solo con gli esami strumentali (mammografia, ecografia, risonanza magnetica), la percentuale di guaribilità è del 98%. Chirurgia e radioterapia si sono velocemente attrezzate per trattare tumori sempre più piccoli, diventando ancora meno invasive e più mirate: così sono nate e si svilupperanno le tecniche di chirurgia radioguidata e la radioterapia intraoperatoria. Quando arriveremo ad intercettare la maggioranza delle lesioni impalpabili, la chirurgia lascerà il passo a tecniche di cura senza bisturi, come i fasci di protoni, ioni carbonio e gli ultrasuoni (la tecnica Hifu). Molto ci attendiamo ancora dalla rivoluzione molecolare. Nella diagnosi la novità è la ricerca di MicroRNA (Mirna) nel sangue: frammenti di Rna (la «copia» del Dna) che ci permetteranno di agire sul tumore prima che sia un nodulo rilevabile da qualsiasi apparecchio diagnostico. L’analisi di questi frammenti è in grado di identificare quei tumori che non infiltreranno mai altri organi, e di distinguerli da quelli che invece tendono per loro natura a dare metastasi. Con un semplice esame del sangue, quindi, otterremo indicazioni fondamentali per l’approfondimento della diagnosi e l’orientamento della cura. Avremo più farmaci biologici diretti a bersagli molecolari e riusciremo a colpire le cellule staminali del cancro al seno, che già abbiamo individuato, e che sono le responsabili delle temute metastasi. La medicina è quindi in pieno fermento, ma i suoi risultati oggi non dipendono soltanto dal pensiero e dallo sviluppo, perché stiamo vivendo il passaggio, come dice il motto inglese, da un Welfare State a una Welfare Community. Non è più pensabile che lo Stato offra ai suoi cittadini un’assistenza totale, come era nel sogno garantista, ma è la comunità civile che deve assumere in prima persona la responsabilità della propria salute. Nella lotta ai tumori il primo passo è aderire ai programmi di diagnosi precoce. Per i tumori del seno, solo se le donne prenderanno coscienza, si faranno controllare in massa, educheranno le loro figlie, faranno lobby, ove necessario, l’obiettivo mortalità zero potrà davvero essere raggiunto.

Repubblica 6.12.11
Parla Rolf Heuer, a capo del Cern, che ha invitato i rappresentanti della Chiesa a Ginevra
“faremo incontrare il papa con la particella di Dio”
"Il bosone di Higgs è solo il primo dei misteri da risolvere. Dopo cercheremo di gettare una prima luce sulla materia oscura"
di Elena Dusi

Ottocento trilioni di protoni più tardi, il Large Hadron Collider di Ginevra è diventato il più grande caleidoscopio della fisica moderna. Tante sono le particelle che quest´anno si sono scontrate nell´anello sotterraneo di 27 chilometri che lambisce le montagne del Giura e il lago di Levano. Tra i loro frammenti, oltre 3mila fisici di tutto il mondo setacciano le particelle subnucleari più interessanti e foriere di novità. A colpi di collisioni fra i protoni, il gioiello del Cern si propone di superare la fisica subatomica di oggi (il cosiddetto modello standard) per esplorare teorie nuove. A capo dell´impresa c´è Rolf Heuer, fisico tedesco di 63 anni, da due direttore generale dell´Organizzazione europea per la ricerca nucleare. A Roma in Vaticano ha recentemente partecipato a un incontro di scienziati organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze. Il suo titolo: Subnuclear Physics: past, present and future.
Lhc dovrebbe essere ormai vicino al bosone di Higgs, la cosiddetta "particella di Dio". La Chiesa non apprezza la metafora. Né il dialogo fra scienza e fede su Big Bang e origine del mondo è mai stato facile. Come sono i rapporti fra Cern e Vaticano?
«Molto buoni, ho avuto un incontro con papa Benedetto XVI nel giugno 2010. All´inizio del prossimo anno abbiamo in agenda la visita di un gruppo di cardinali al Cern. La domanda su cosa esistesse prima del Big Bang riguarda noi tutti, non solo gli uomini di fede. Ma il rischio di incomprensioni è alto, soprattutto a causa di una mancanza di vocabolario comune. Chiesa e scienza devono lavorare per far coincidere i significati delle parole che usano, ma se riusciamo a superare questa difficoltà, il dialogo può portarci lontano. La teologia, la filosofia e la fisica sono tutte facce del sapere umano. Nessuna può escludere le altre. Se il papa stesso deciderà di visitare il Cern non spetta a me deciderlo. Ma lui sa di aver ricevuto un invito. Sarebbe un ospite molto gradito».
Il 13 dicembre è previsto un seminario al Cern con le ultime novità sulla ricerca del bosone di Higgs. Ma la particella che spiega come mai la materia abbia una massa non è l´unico obiettivo di Lhc. Cosa c´è nel futuro dell´acceleratore?
«Siamo solo al secondo anno di lavoro nel quadro di un programma ventennale. Abbiamo raggiunto livelli di energia mai esplorati prima: 3,5 Tev per ciascuno dei due fasci di protoni destinati a collidere. Ma siamo pronti al salto verso energie ancora più alte. Alla fine del 2012 chiuderemo la macchina per 18-20 mesi e rivedremo le 10mila connessioni fra i magneti. A quel punto saremo in grado di raggiungere i 14 Tev e avremo un nuovo, enorme, potenziale di scoperta».
Con quali obiettivi?
«Il bosone di Higgs è solo il primo dei misteri da risolvere. Subito dopo cercheremo di gettare una prima luce sulla materia oscura. Sappiamo che la materia così come la conosciamo costituisce solo il 4-5% dell´universo. Lo dimostrano i comportamenti delle galassie, e il Nobel di quest´anno è andato a tre fisici per le loro osservazioni sull´espansione accelerata dell´universo. Pensiamo che la materia oscura componga un quarto dell´universo. Siamo alla caccia di un primo indizio sulla sua natura».
A differenza del bosone di Higgs, non sappiamo nemmeno dove andare a cercare?
«Abbiamo dei candidati, come le particelle supersimmetriche. Ma troppi parametri restano sconosciuti e i modelli usati per descriverle sono ancora vaghi. La ricerca di queste particelle richiederà tempo, bisognerà procedere per tentativi. Lhc probabilmente dedicherà a questo tutti i suoi vent´anni di vita».
A settembre l´acceleratore Tevatron a Chicago ha chiuso i battenti per carenza di finanziamenti. Ora Lhc resta senza rivali.
«Un quarto di secolo fa l´interesse della fisica delle particelle si spostò dal Cern al Fermilab, il laboratorio che ospita Tevatron. Come un pendolo, oggi questo interesse ritorna in Europa. Molti scienziati raggiungeranno il Cern dall´America, e questa è una grande responsabilità per noi. Lhc d´altra parte rappresenta la frontiera nel mondo degli acceleratori. La sua energia è senza pari, anche se gli Usa cercheranno di migliorare dal punto di vista dell´intensità dei fasci di particelle e porteranno avanti gli esperimenti con i neutrini».
Il Cern è stata una delle prime istituzioni europee a nascere sulle rovine della guerra. Anche oggi resta un luogo in cui collaborano scienziati di quasi tutte le nazionalità del mondo.
«La cooperazione internazionale è il motivo per cui il Cern fu fondato e 50 anni più tardi quella ragione fondante resta viva. Il mondo ha molti problemi, ma la scienza rappresenta un linguaggio comune capace di far parlare anche persone di paesi in guerra. Alla sua fondazione, il Cern era composto da 12 paesi. Oggi i membri sono 20, e contiamo di arrivare a 26. Siamo nati come laboratorio europeo, ma stiamo diventando un laboratorio mondiale».
Come si può migliorare il rapporto fra scienza e pubblico?
«Come noi scienziati siamo eccitati dalle scoperte scientifiche, così lo è il pubblico. Le scoperte sono affascinanti, bisogna solo trovare le parole giuste per raccontarle. Per questo a Ginevra accogliamo le scuole e organizziamo corsi per i docenti. C´è poi uno strumento inusuale di cui ci possiamo servire: scienza ed arte sono molto simili e complementari. C´è bisogno di immaginazione in entrambi i campi, e l´obiettivo comune è rendere visibile quel che prima era invisibile».

Repubblica 6.12.11
Ieri il convegno con Ferraris, Rodotà, Gotor e Zagrebelsky
La lezione di Eco su verità e realismo
L´intervento dell´autore ha introdotto il dibattito con storici e filosofi

TORINO. Che cosa resta della verità dopo il declino – più o meno definitivo – della stagione dei populismi mediatici in Italia? Ieri a Torino si sono confrontati sul tema molti dei più importanti filosofi italiani, insieme a giuristi, storici e altri studiosi, per il convegno sul "Nuovo realismo" promosso dalla Fondazione Rosselli insieme al Laboratorio di Ontologia dell´Università di Torino. Dalla lectio introduttiva di Umberto Eco fino alle conclusioni di Stefano Rodotà, un pubblico vivace fatto anche di giovani (e di autori, come Franca D´Agostini, che al tema della verità si dedicano da tempo) ha seguito interventi ufficiali e altri nati sul momento: Gustavo Zagrebelsky, Massimo Dell´Utri, Diego Marconi, Andrea Lavazza, Armando Massarenti, Massimo Mori, Paolo Flores d´Arcais, introdotti da Maurizio Ferraris. Nel suo discorso, attesissimo, Eco ha ribadito: «Interpretazioni e schemi ci fanno vedere la realtà sotto prospettive diverse. Però c´è un limite a tutto: se pretendi che l´Ulisse racconti la storia di una contessa russa infelice in amore che si butta sotto il treno non stai interpretando Joyce, stai facendo altro. Così, noi non abbiamo alcun criterio ultimo per sapere se un´interpretazione è assolutamente giusta, visto che non siamo nella mente di Dio. Per contro, non c´è bisogno del sapere assoluto per rendersi conto che qualcosa è sbagliato».
Non è mancato un contraddittorio interpretativo tra lo stesso Eco e Mario De Caro a proposito di un passo de Il nome della rosa, a dimostrare che neppure l´autorevolezza di chi ha partorito un testo può essere sempre decisiva. E sempre per De Caro, invece, «se non si assume una posizione almeno moderatamente realistica, perdono senso alcune delle più importanti discussioni contemporanee, da quella sullo statuto della morale a quella sulla responsabilità collettiva delle imprese».
Ma, ha argomentato Roberta De Monticelli, «dalla negazione del cognitivismo morale, cioè della difendibilità con argomenti filosofici dei valori morali, segue che è possibile affermare la liceità di qualsiasi pratica, con gli effetti, anche sociali e politici, che abbiamo avuto sotto gli occhi fino a oggi: pensiamo al caso della lapidazione delle adultere in alcuni paesi islamici, e chiediamoci che cosa direbbe se interrogata ciascuna di quelle donne». «Contrariamente a quanto si pensa – ha sottolineato Ferraris – la modernità non è stata razionalista: uno dei suoi eroi è stato proprio Nietzsche, che ha criticato la pretesa di Socrate secondo cui la ragione e il sapere portano la virtù». Per d´Arcais, «ermeneutica e postmoderno non sono altro che la consolazione puramente immaginaria di una generazione che è stata sconfitta politicamente, e che ha cercato una emancipazione teorica. Peccato che quella emancipazione si sia trasformata in una forma di conservatorismo e populismo». Miguel Gotor ha evocato le "mezze verità" del caso Moro, e Alfredo Massarenti ha passato in rassegna tutti i nuovi problemi che un terreno come la bioetica pone al concetto stesso di verità. Non mancano esempi collegati all´attualità non solo politica: per De Caro, Joseph Ratzinger è oggi «il più grande anti-relativista». Ma l´applauso finale non è per un filosofo ma per un giurista, e tocca a Stefano Rodotà quando evoca quel «realismo del diritto che si fonda sui diritti delle persone». Il caso non è chiuso.


«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione»
Repubblica 6.12.11
La mistica del capitalismo
Dalle monete ai brand i nuovi oggetti di culto
di Roberto Esposito

Adesso gli studiosi discutono di come sia possibile uscire dal paradigma liturgico
Il discorso economico e finanziario, nel corso del tempo, ha assunto toni quasi religiosi
L´analogia funziona anche per i paesi dell´Oriente dove l´accostamento è con il taoismo
Il punto è come togliere questa impronta teologica tornando alle pratiche reali

«Nel capitalismo può ravvisarsi una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni». Queste fulminanti parole di Walter Benjamin – tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori Internazionali Riuniti – esprimono la situazione spirituale del nostro tempo meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso segna, rispetto alle note analisi di Weber sull´etica protestante e lo spirito del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è esso stesso una forma di religione. Con un solo colpo Benjamin sembra lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l´economia è sempre politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la politica è la vera erede moderna della teologia.
Del resto quel che chiamiamo "credito" non viene dal latino "credo"? Il che spiega il doppio significato, di "creditore" e "fedele", del termine tedesco Gläubiger. E la "conversione" non riguarda insieme l´ambito della fede e quello della moneta? Ma Benjamin non si ferma qui. Il capitalismo non è una religione come le altre, nel senso che risulta caratterizzato da tre tratti specifici: il primo è che non produce una dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è permanente, non prevede giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d´occhio il nesso semantico tra colpa e debito, l´attualità delle parole di Benjamin appare addirittura inquietante. Non soltanto il capitalismo è divenuto la nostra religione secolare, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza tregua che finisce per distruggere la nostra vita quotidiana.
Già Lacan aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel nostro presente da suscitare una domanda cui la riflessione filosofica contemporanea non può sottrarsi. Se il capitalismo è la religione del nostro tempo, vuol dire che oltre di esso non è possibile sporgersi? Che qualsiasi alternativa gli si possa contrapporre rientra inevitabilmente nei suoi confini – al punto che il mondo stesso è "dentro il capitale", come suona il titolo di un libro di Peter Sloterdijk (Il mondo dentro il capitale, Meltemi 2006)? Oppure, al di là di esso, si può pensare qualcosa di diverso – come si sforzano di fare i numerosi teorici del postcapitalismo? Intorno a questo plesso di questioni ruota un intrigante libro, originato da un dibattito tra filosofi tedeschi, ora tradotto a cura di Stefano Franchini e Paolo Perticari, da Mimesis, col titolo Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione.
Da un lato esso spinge l´analisi di Benjamin più avanti, per esempio in merito all´inesorabilità del nuovo culto del brand. Tale è la sua forza di attrazione che, anche se vi è scritto in caratteri cubitali che il fumo fa morire, compriamo lo stesso il pacchetto di sigarette. Come in ogni religione, la fede è più forte dell´evidenza. Dior, Prada o Lufthansa garantiscono per noi più di ogni nostra valutazione. Le azioni cultuali sono provvedimenti generatori di fiducia cui non è possibile sfuggire. Non a caso anche i partiti politici dichiarano "Fiducia nella Germania" a prescindere, non diversamente da come sul dollaro è scritto "In God we trust". Ma, allora, se il destino non è, come credeva Napoleone, la politica, ma piuttosto l´economia; se il capitale, come tutte le fedi, ha il suo luoghi di culto, i suoi sacerdoti, la sua liturgia – oltre che i suoi eretici, apostati e martiri – quale futuro ci attende?
Su questo punto i filosofi cominciano a dividersi. Secondo Sloterdijk, con l´ingresso in campo del modello orientale – nato a Singapore e di lì dilagato in Cina e in India – si va rompendo la triade occidentale di capitalismo, razionalismo e liberaldemocrazia in nome di un nuovo capitalismo autoritario. In effetti oggi si assiste a un curioso scambio di consegne tra Europa e Asia. Nel momento stesso in cui, a livello strutturale, la tecnologia europea, e poi americana, trionfa su scala planetaria, su quello culturale il buddismo e i diversi "tao" invadono l´Occidente. La tesi di Zizek è che tra i due versanti si sia determinato un perfetto (e perverso) gioco delle parti. In un saggio intitolato Guerre stellari III. Sull´etica taoista e lo spirito del capitalismo virtuale (ora incluso nello stesso volume), egli individua nel buddismo in salsa occidentale l´ideologia paradigmatica del tardo capitalismo. Nulla più di esso corrisponde al carattere virtuale dei flussi finanziari globali, privi di contatto con la realtà oggettiva, eppure capaci di influenzarla pesantemente. Da questo parallelismo si può trarre una conseguenza apologetica o anche una più critica, se riusciamo a non identificarci interiormente col giuoco di specchi, o di ombre cinesi, in cui pure ci muoviamo. Ma in ciascuno dei casi restiamo prigionieri di esso.
È questa l´ultima parola della filosofia? Diverremo tutti, prima o poi, officianti devoti del culto capitalistico, in qualsiasi versione, liberale o autoritaria, esso si presenti? Personalmente non tirerei questa desolata conclusione. Senza necessariamente accedere all´utopia avveniristica del Movimento Zeitgeist o del Venus Project – entrambi orientati a sostituire l´attuale economia finanziaria con un´organizzazione sociale basata sulle risorse naturali –, credo che l´unico grimaldello capace di forzare la nuova religione del capitale finanziario sia costituito dalla politica. A patto che anch´essa si liberi della sua, mai del tutto dismessa, maschera teologica. Prima ancora che sul terreno pratico, la battaglia si gioca sul piano della comprensione della realtà. Nel suo ultimo libro, Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), Federico Rampini percorre lo stesso itinerario – da Occidente a Oriente e ritorno – ma traendone una diversa lezione. All´idea di "mondo dentro il capitale" di Sloterdijk è possibile opporre una prospettiva rovesciata, che situi il capitale dentro il mondo, vale a dire che lo cali dentro le differenze della storia e della politica. Solo quest´ultima può sottrarre l´economia alla deriva autodissolutiva cui appare avviata, governandone i processi ed invertendone la direzione.

l’Unità 6.12.11
E il matematico scrive: il cinema dà i numeri
Un libro di Michele Emmer, che è anche un cineasta, analizza tutte le pellicole in cui teoremi o equazioni sono presenti nella trama e nella composizione della storia. Con un occhio speciale ai gialli classici
di Alberto Crespi

La pellicola cinematografica può essere di 8 (super), 16, 35 e 70 millimetri, e scorre nel proiettore alla velocità di 24 fotogrammi al secondo. Una bella cinquina, che si può giocare al lotto. Il cinema è nato ufficialmente il 28-12-1895, con la prima proiezione pubblica dei film dei fratelli Lumière (che erano 2, Louis e Auguste), però è una data convenzionale perché altri sperimentatori dell’epoca erano già arrivati a riprodurre l’immagine in movimento. Per cui il ’95 inteso come anno è un numero discutibile, e infatti non si può giocare al lotto.
Giochetti, che a un vero matematico non interessano. Chissà quante volte Michele Emmer se li è sentiti ripetere, in contesti poco scientifici. Essendo un matematico serio lo conosciamo bene, è anche collaboratore storico di questo giornale il rapporto cinema/matematica è, per lui, un’altra cosa. E poi Emmer non è solo un matematico. È anche un cineasta, e non solo perché ha esordito come attore bambino in un film di suo padre Luciano Emmer, Camilla. Ha diretto numerosi film tutti dedicati al rapporto fra numeri e immagini: Flatlandia, Escher, Le bolle di sapone. E da anni, in numerosi libri, indaga questi due mondi mettendoli in relazione fra loro.
Numeri immaginari (Bollati Booringhieri, pp.246, euro 18), ha un titolo e un sottotitolo ingannevoli. Uno legge «numeri immaginari» e pensa che sia un arcano trattato sui numeri impossibili che so, un «pi greco» capace di fermarsi e di non andare avanti all’infinito. Invece Emmer parla dei numeri all’interno di un immaginario ben definito, quello cinematografico. Infatti il sottotitolo del libro è Cinema e matematica, ma neanche questo è del tutto vero: a un certo punto Emmer si dedica a una lunga digressione sui matematici raccontati dalla letteratura, in particolare quella gialla. Perché un luogo comune sostiene che i matematici possano essere ottimi detective e che siano spesso sul punto di trasformarsi in spietati serial-killer. Le due cose giungono a un punto d’incontro in un romanzo che ha popolato gli incubi della nostra adolescenza, non provocando però almeno in chi scrive alcuna vocazione alla matematica: L’enigma dell’alfiere, di S.S. Van Dine, il creatore dell’investigatore dandy Philo Vance. Visto che anche le lingue si prestano a giochi combinatori e ad enigmi, e che secondo Mario Vargas Llosa la predisposizione per le lingue e quella per la matematica sono affini, ci ha sempre colpito il fatto che il romanzo di Van Dine abbia un titolo originale intraducibile in italiano. Si chiama in-
fatti The Bishop Murder Case, e forse a Emmer farà piacere se sottolineiamo -luinellibrononlofa-chetuttiiromanzi di Van Dine hanno un titolo simile dove solo la seconda parola cambia, ed è sempre una parola di 6 lettere: The Benson Murder Case (La strana morte del signor Benson), The Greene Murder Case (La fine dei Greene), The Canary Murder Case (La canarina assassinata) e così via. Nel caso di «bishop» Van Dine gioca sul doppio significato di questa parola, che in inglese significa «vescovo» ma indica anche un pezzo degli scacchi, appunto «l’alfiere». È la storia di un killer psicopatico e coltissimo che accanto alle sue vittime lascia sempre un alfiere e una filastrocca infantile (chissà se Dario Argento l’ha tenuto presente per Profondo rosso) alla quale i delitti sembrano ispirarsi. Naturalmente l’assassino non ha fatto i conti con la cultura infinita (come il 3,14...) di Vance, che colleziona Cézanne ma sa anche tutto sul tensore di Riemann-Christoffel, una formula matematica che giocherà un ruolo decisivo nell’indagine.
Van Dine è un campionissimo del giallo «deduttivo», alla Sherlock Holmes o alla Agatha Christie: romanzi che danno il piacere della sciarada, o delle parole crociate ad anelli di gran lunga il gioco più bello della Settimana Enigmistica, altro mondo dove i numeri sono fondamentali. Il cinema, come la musica, ha la matematica dentro di sé. Un racconto cinematografico deve avere una propria armonia interna (anche dissonante, come no?) e le leggi dell’armonia sono matematiche. Emmer nel suo libro analizza tutti i film in cui la matematica è presente nella trama e nella composizione della storia, partendo e finendo con il nastro di Moebius, uno dei paradossi più affascinanti della scienza e dell’immaginazione! Ad esso Luciano Emmer dedicò, con la consulenza di Michele, un film in cui appariva Ruggero Orlando, il leggendario corrispondente della Rai da New York che era laureato in matematica. Ma avrebbe potuto parlare di tutti i film esistenti, che tanto per cominciare sono tutti composti da un numero finito di fotogrammi e costruiti su un numero finito di tagli di montaggio.
TAGLI DI MONTAGGIO
Naturalmente tali numeri non dicono tutto di un film, ma qualcosa sì. Ad esempio, sapere che un film di durata media tra i 100 e 120 minuti contiene mediamente 6-700 tagli di montaggio, e che Il mucchio selvaggio di Peckinpah ne contiene addirittura 3.643 dice molte cose sullo stile del vecchio Sam e sul funambolismo del suo montatore Lou Lombardo; mentre ricordare che Arca russa non ne ha nemmeno uno (è un unico piano sequenza) dice qualcosa sul virtuosismo tecnico e narrativo di Aleksandr Sokurov. Se interessa a Emmer e a voi recentemente abbiamo contato con certosina pazienza, a scopo di studio, i tagli di montaggio della Finestra sul cortile di Hitchcock: sono 799. Speravamo fosse un numero primo, per chiudere con un parallelo fra Hitchcock e La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, ma non lo è. Pazienza.


Repubblica 6.12.11
La decima edizione
Tra crisi e proposte i piccoli editori tornano in Fiera
di Raffaella De Sanctis

La crisi e il rallentamento del mercato librario approdano a Più libri più liberi, la Fiera nazionale della Piccola e media editoria, che si tiene a Roma al Palazzo dei Congressi. In occasione della decima edizione, infatti, non poche iniziative avranno come tema la situazione attuale della cultura. A cominciare da domani, giorno di inaugurazione, con due incontri dedicati all´editoria: Nuovi percorsi. Come cambierà l´editoria (ore 10.45, Sala Diamante, con Pierdomenico Baccalario, Emanuele Di Giorgi e Alessandro Furlan) e Crescere senza risorse (ore 13.30, Sala Smeraldo). Mentre in serata verrà presentato il Rapporto sullo stato del Paese (Quo vadis, Italia?, ore 20, Sala Ametista).
«Negli ultimi anni abbiamo avuto una crescita costante, ma ormai la curva è discendente e temo peggiorerà», spiega Antonio Monaco, coordinatore del Gruppo Editori per Ragazzi Aie ed editore di Sonda, che parlerà anche di questo domenica alle ore 10.45 (Sala Smeraldo). Dall´inizio degli anni Novanta a oggi il peso delle piccola e media editoria è raddoppiato, ma ora si è registrata una diminuzione: tra il 2009 e il 2010 gli editori con 11-50 titoli pubblicati nell´anno sono calati del 6,7% (da 1.297 a 1210). Crescono invece i titoli e-book, arrivati a oltre 18mila, mentre soffrono sempre di più le librerie indipendenti, cioè quelle su cui punta la piccola e media editoria, che a sua volta rappresenta il 13,6% del mercato editoriale italiano. Una fetta considerevole, sulla quale pesano i costi in costante aumento della promozione e della distribuzione, con un conseguente impatto negativo sul margine di guadagno.
La crisi c´è, ma registrare un dato non vuol dire subirlo. In fiera ci saranno grandi ospiti, dall´attivista messicana Lidia Cacho (giovedì ore 17, Sala Smeraldo), da Andrea Molesini (giovedì ore 19, Sala Rubino) a Andrea Camilleri (domenica ore 12, Sala Diamante). Inoltre tra i partecipanti c´è una forte voglia di essere propositivi. Non solo tra gli editori, che starebbero pensando di unire le forze sul modello dei grandi gruppi, ma anche da parte delle riviste. La rivista online doppiozero lancia il progetto Che fare, chiedendo a chi vive nelle varie città italiane di proporre idee concrete per la cultura (domani, Sala Diamante, ore 17, con Stefano Chiodi, Andrea Cortellessa, Christian Raimo), mentre Minima & Moralia, il blog culturale targato minimum fax, torna a riflettere su La conoscenza come bene comune da Elinor Ostrom all´università e scuola (sabato, ore 17). E c´è chi trasforma le difficoltà in idee di marketing. La casa editrice indipendente Miraggi, fondata da un gruppo di giovani precari torinesi solamente un anno e mezzo fa, è quest´anno presente alla manifestazione con ben 18 titoli. Segno dei tempi e della voglia di farcela.

La Stampa 6.12.11
Erika: “La mia famiglia merita pace”
Libera da ieri la 27enne che ammazzò mamma e fratello: voglio farmi una nuova vita
di Fabio Poletti

Dietro al cancello grigio sfila un paio di volte. Impossibile non notarla: la tuta fucsia griffata bucherebbe qualsiasi nebbia, figuriamoci questa foschia leggera che accarezza le colline verdissime con i maneggi e le ville e la comunità di recupero di don Mazzi. Ci sono fotografi che la aspettano dalle sei del mattino: Erika passa con un mezzo sorriso, poi ripassa tirandosi la treccia, poi ancora con altri ragazzi. Chi le vuole male la chiama «la principessa». Lei sembra solo l’attrice molto consumata di una tragedia andata in onda a febbraio di dieci anni fa, 97 coltellate al fratellino e alla madre alla quale ora assomiglia in modo spaventoso in un villino di Novi Ligure, cittadina tranquilla e assai rassicurante se non fosse per quello che hanno fatto lei e l’altro, Erika e Omar.
Omar ogni tanto va in televisione. Erika ci va con una lettera che don Mazzi legge in diretta: «Lasciatemi in pace a me e alla mia famiglia». Quel che resta, perché oramai della famiglia De Nardo è rimasto solo un padre premuroso aggrappato all’ultimo affetto che gli è rimasto, malgrado tutto. Di Erika che ieri nel suo primo giorno di libertà totale non ha avuto nemmeno il coraggio di andare oltre al cancello della comunità dove vive da mesi e dove sogna di continuare a vivere, si sa tutto. Si sa della sua laurea in Filosofia con 110 e lode con una tesi su Socrate, della foto che tiene sul comodino con il fratellino e la mamma che sorridono, mica come l’ultima volta che li ha avuti davanti. E poi si sa della sua passione per i cavalli e per i pony che scorrazzano liberi nella comunità dove vivono venti ragazzi difficili da recuperare molto difficili, nessuno quanto lei rinchiusi da un cancello grigio e si spera dal tormento delle loro coscienze.
Qualcuno dei venti ospiti assediati da fotografi e televisioni fa la faccia un po’ così. Don Mazzi va a un programma del pomeriggio per dire che «fuori dalla comunità c’è un assedio mediatico che non fa il bene di nessuno». Poi giura che lei non uscirà oggi, forse domani, magari con il padre pronto a venirla a prendere, giusto per non spegnere i riflettori. Solerti vigili urbani controllano i sentieri attorno alla comunità. Come se ci fosse qualcosa da nascondere. Come se non fosse tutto così ordinario, come ieri, come domani. Si sa che Erika rimarrà a fare volontariato nella comunità di Don Mazzi, qui o chissà dove. Lei lo scrive nella lettera che il sacerdote legge in tv: «Sono contenta di continuare a maturare e ad aiutare gli altri. Continuerò il mio percorso comunitario e ti prego di dire alla stampa di non contattare me né la mia famiglia che merita un po’ di pace, di essere lasciata in pace».
Dopo decine di foto che la ritraggono sorridente mentre gioca a pallavolo, l’altra sua grande passione, nella comunità si intravede un campo accanto alla piscina. Dopo decine di lettere, vere o verosimili spedite ai giornali, adesso Erika finalmente libera, vorrebbe essere libera davvero: «Voglio affrontare una nuova vita da costruire giorno per giorno». Giovanni Mazzi, nipote del sacerdote e coordinatore per il Nord di tutti i centri Exodus, si sforza di dipingere Erika uguale a tutti gli altri: «Un conto è finire la pena, un conto è quello che ti porti dentro. Nessuno dei nostri ragazzi ha finito il percorso».
Il calendario della normalità dei venti ragazzi di Sedana di Lonato passa anche attraverso le feste di Natale da trascorrere in famiglia. Lo stesso sarà per Erika con suo padre. Dove, non si sa. Difficile che sia ancora a Novi Ligure. Anche il padre vive altrove, vicino ma altrove, in città dicono con un’altra compagna. Erika attraverso don Mazzi confida che il padre si occupi più di se stesso che di lei. A questo ci pensano i ragazzi della comunità che non la mollano un momento, quasi avesse bisogno di protezione. Dall’alba quando suona la sveglia alla colazione in comune, ai lavori casalinghi fino alla cura dei cavalli. A cercare quella normalità che Erika quando faceva parte di «Erika ed Omar» non aveva. A distanza ora si mandano lettere velenose. Giovanni Mazzi spera che smettano di fare pure questo: «Meno sono in contatto meglio è per tutti. Loro due hanno scritto pagine molto brutte. Spero che adesso ne scrivano di belle».



Corriere della Sera 6.12.11
Le prime foto di Erika «Papà faccia la sua vita»

LONATO DEL GARDA (Brescia) — Erika l'adulta chiede aiuto per la prima volta. «Non vorrei trovarmi sola dopo il 5 dicembre ad affrontare la mia nuova vita...» ha confidato agli amici della Comunità. Oggi è il 6, la sua nuova vita è già qui: «Voglio costruirla con calma giorno per giorno» annuncia. E sarebbe felice se anche suo padre, che l'ha sempre sostenuta, «pensasse di più alla sua vita» senza preoccuparsi troppo per lei. La ragazzina che era quasi undici anni fa riemerge di tanto in tanto in una battuta, cose tipo: «Ti rendi conto che non riesco ad ammazzare una formica e ho ammazzato mia madre?». Don Mazzi parte proprio dalla comprensione per «cercare di cambiare Erika», per «tirar fuori da lei il buono che è rimasto». Dal salotto della trasmissione pomeridiana di Rai Uno La vita in diretta, il «don» (come lo chiama Erika) si dice sicuro che quella ragazza sia già molto cambiata, anche se «l'Italia ne dubita». Il 21 febbraio del 2001 Erika De Nardo, all'epoca sedicenne, e l'allora fidanzatino Omar Favaro, un anno più di lei, uccisero la madre e il fratellino di Erika, Susy Cassini, 41 anni, e Gianluca, 11. Novantasette coltellate, 40 alla donna, le altre al piccolino. Omar è già libero da mesi e da ieri sera a mezzanotte lo è anche Erika che nel pomeriggio si è fatta riprendere dai fotografi solo per pochi minuti mentre chiacchierava con altri ospiti della Comunità Exodus di don Mazzi, a Lonato del Garda. È lì che ha scontato il suo ultimo periodo di detenzione ed è lì che ha approfondito la sua amicizia con don Mazzi al quale ha affidato una lettera da rendere pubblica: «Ho deciso di lavorare con te per un po' perché sono contenta di continuare a maturare e aiutare gli altri». E poi una preghiera: «Dì alla stampa che non voglio nessun contatto e che desidero che la mia famiglia venga lasciata in pace».

Repubblica 6.12.11
Erika libera riabbraccia il padre "Adesso lasciatemi vivere in pace" 

di Meo Ponte

NOVI LIGURE È la tarda mattina di ieri quando una bimba scende dalla scuolabus alla fermata di via Martiri di Nassyria, proprio di fronte alla villetta a due piani della famiglia De Nardo e chiede alla mamma: «È vero che oggi Erika torna a casa? Ho paura, mi hanno detto che è stata tanto cattiva». L´attesa per il ritorno di Erika a Novi Ligure però svanisce in una sera di nebbia pesante. Giovanni Mazzi, uno dei coordinatori delle comunità Exodus ai giornalisti che sin dalle prime luci dell´alba assediano la sede nel bresciano, confida: «Non è ancora arrivato l´ordine di scarcerazione, quindi per oggi non se ne fa nulla».
Più tardi don Antonio Mazzi, leader e fondatore di Exodus, senza nascondere il suo fastidio per la curiosità intorno alla ragazza di Novi Ligure, si presenta in tv per leggere davanti alle telecamere della "Vita in diretta", l´ultima lettera di Erika: «Caro don Mazzi, come tu sai ho deciso di lavorare con te per un certo periodo perché sono contenta di continuare a maturare e ad aiutare gli altri ha scritto la giovane Continuerò il mio percorso comunitario e ti prego di dire alla stampa di non contattare né me, né la mia famiglia che merita un po´ di serenità, di lasciarla in pace». Per poi aggiungere: «Non vorrei trovarmi da sola il 5 dicembre ad affrontare una nuova vita che voglio costruire giorno per giorno».
A don Mazzi in più di un´occasione avrebbe confidato: «Pensa, ora non sarei capace di ammazzare una mosca e undici anni fa ho ucciso mia madre». Il sacerdote rivela alle telecamere che lei gli ha più volte chiesto di consigliare all´ingegner De Nardo di occuparsi anche di se stesso. «Vuole che lui faccia la sua vita» sottolinea don Mazzi precisando che oggi probabilmente il padre sarà ancora lì, come in tutti questi anni, accanto a lei. Questa volta per riportarla a casa, finalmente libera.
Ieri la villetta dove undici anni fa Erika e Omar massacrarono a coltellare Susy Cassini e suo figlio, il piccolo Gianluca, è rimasta chiusa per tutto il giorno. L´ingegner Francesco, contrariamente alle voci che circolano da mesi in città, abita ancora lì. «Lo vedo ogni mattina uscire per andare al lavoro» confida una vicina. Nel curatissimo giardino ha piantato nelle settimane scorse un piccolo ulivo. «Quindici giorni fa era tutto aperto come se stessero facendo le pulizie di primavera» rivela un´altra vicina. Erano i preparativi per accogliere Erika? Nel quartiere del Lodolino però avanzano un´altra ipotesi spiegando: «Potrebbe ospitare la figlia in una casa diversa, meno nota di questa». Intanto la gente si divide tra una gelida indifferenza e qualche timore per l´eventuale ritorno dell´assassina di undici anni fa. «Quella notte non sentii nulla ricorda un´impiegata che abita aldilà della strada ora quando passo davanti a quella casa mi sembra di sentire le urla di Susy e di suo figlio».

La Stampa 6.12.11
Coppie assassine quel che resta dell’amore
Legami solidi o fugaci: il crimine uccide anche il sentimento
di Pierangelo Sapegno

Quando il maresciallo Savoia venne ad arrestarli, lui le fece un sorriso mentre gli mettevano le manette: «Amore, non ti preoccupare. Va tutto bene». Li chiamavano gli amanti diabolici. Anno 1973, scioperi nelle fabbriche e cortei nelle piazze. Paolo Pan e Franca Ballerini scappavano sulle fuoriserie. Gli amanti diabolici, a volte, sono solo un delitto allo specchio, riflesso dalla nostra coscienza, dalla condanna a una morte, anche la loro. Nel primo giorno di libertà, Erika e Omar si accusano come odiosi nemici. Bonnie & Clyde morirono insieme. È che lo specchio a volte si rompe, a volte no.
Doretta Graneris, che con il fidanzato sterminò la sua famiglia, dice sempre che vorrebbe solo farsi dimenticare, ma che lei non dimentica nulla: «C’è questo mio dolore dentro che è solo mio, che non si può condividere con nessuno e con cui si deve imparare a vivere». Ora lavora fuori dal carcere e aiuta i ragazzi perduti. Al suo ex fidanzato, Guido Badini, invece, gli trovarono una lettera che aveva scritto per chiedere due Browning e una 38 proprio prima di uscire, «perché ho certi conti in sospeso da regolare a Novara». Non lo fecero più uscire. Anche loro erano una coppia diabolica. Ma oggi sarebbero due persone inesistenti, l’uno per l’altra. Lei, allora, si fece trascinare a fare la strage: «Il mio era un mondo piccolo. Stavo a casa, uscivo per andare a scuola, e in negozio a dare una mano. Poi venne Guido Badini».
Gli amanti sono fatti di una malattia, molte volte. È questo che non si capisce: nella sua grandezza, l’amore può anche essere un abisso che ti guarda. Come Martha Beck e Raymond Fernandez. Lei era stata violentata da piccola due volte dai fratelli. Lui era un eroe di guerra che era rimasto ferito alla testa: era cambiato da allora. S’era messo a fregare le donne dei Cuori Solitari. Incontrò lì Martha e si misero insieme. In due anni ne uccisero dodici. Però, morirono ancora insieme condannati dallo Stato di New York l’8 marzo 1951.
In un libro sulle Coppie Diaboliche, Giordano Lupi e Sabina Marchesi dicono che una coppia omicida si forma, tendenzialmente, per tratti complementari: c’è un elemento dominatore e uno succube, soggiogato e sedotto. «Vivono una sensazione di invulnerabilità, non estranea al delirio di onnipotenza». Poi, invece, vengono sempre presi. E nella maggior parte dei casi, in aula, questa follia comune si spezza e ognuno ritorna a essere se stesso. Nel 90 per cento dei casi l’elemento incube è il maschio.
Era stato così anche per Paolo Pan e Franca Ballerini. Paolo Pan sembrava un Alain Delon dei poveri, un po’ più torvo e un po’ più spaccone, ma in quella foto che i giornali continuavano a pubblicare, a torso nudo abbracciato a Franca Ballerini, c’era il senso di un tempo che su quello sfondo metteva insieme qualche utilitaria Fiat e una macchina da corsa, una spiaggia di Ventimiglia, e la villetta alla Pellerina dove era stato ucciso il marito di lei, Fulvio Magliacani. Lei la chiamavano «Occhi di ghiaccio». S’era innamorata di lui da ragazzina, così tenebroso. Era bella e bionda, «troppo bella per mio figlio», come raccontava il padre della vittima al maresciallo Savoia, quando gli confessava i suoi sospetti. Ci vollero quattro processi. Lei fu assolta. Lui si beccò l’ergastolo. Franca s’è rifatta una vita. Non ha più i capelli biondi e dicono che è rimasta «una gran bella signora». Lavorava come segretaria e s’era messa assieme a un fisioterapista. Lui invece era stato graziato nel ‘96. Era uscito di prigione e a un cronista aveva fatto sempre lo stesso sorriso: «Beh, il primo amore non si scorda mai». Poi, cinque anni dopo, l’avevano beccato all’aeroporto di Lima assieme a un amico con tre chili di cocaina. Li avevano sbattuti in carcere e condannati a 8 anni. L’amico implorava aiuto. Lui, niente. Nel 2004 è tornato in Italia. Di nuovo in galera. Franca Ballerini non volle più saper niente di lui. Finisce quasi sempre così.
I coniugi Bebawi, che erano la coppia diabolica dell’Italia del boom, riuscirono a scappare dopo la sentenza di primo grado. Furono condannati a 22 anni per aver ucciso Farouk Chorbagi, il ricchissimo amante di lei, quando erano già via. Da liberi, divorziarono. Lei ha vissuto al Cairo, facendo la guida turistica. Lui, in Svizzera, con i figli, ed è diventato un industriale di prodotti dietetici.
Olindo e Rosa, gli spietati assassini di Erba, continuano a scriversi lettere d’amore in carcere. Amanda e Raffaele, ora che sono tornati a essere due ragazzi normali anche per la Giustizia, hanno ripreso le loro vite com’erano prima di incrociare l’incubo della morte in una sera qualunque con le luci fioche e i rumori della noia.
Perché c’è molto del destino e del nostro tempo, nella perdizione che ci aspetta oltre l’amore e la solitudine. A volte, il riflesso dello specchio è semplicemente più grande di quello che sembra.