mercoledì 7 dicembre 2011

Sette del Corriere della Sera 1.12.11
Valeria Solarino
Atea allo stato puro
intervista di Alessandra Arachi

qui

il Fatto 7.12.11
La Chiesa non fa sacrifici
Esenzione dell’Ici, otto per mille, insegnanti di Religione diventati statali, fondi alle scuole cattoliche e altri privilegi che il Vaticano non vuole toccare: dov’è la sobrietà uinvocata dal cardinale Scola?
di Marco Politi


La Chiesa si autoesenta, sacrifici mai. Resta attaccata ai suoi privilegi, ma è prodiga di consigli sull’equità della manovra. È da agosto che l’opinione pubblica aspetta dalla Cei un segnale di disponibilità ad aiutare lo Stato a ripianare il suo debito colossale. In tempi passati i vescovi fondevano l’oro dei sacri calici per sostenere la difesa di un regno invaso. Ora che il nemico finanziario è molto più subdolo e spietato, non succede nulla. Dalla gerarchia non è giunto il più piccolo segnale di “rinuncia”. Solo la dichiarazione del Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone, che ha affermato: “Il problema dell'Ici è un problema particolare, da studiare e approfondire”. Eppure quello che pensano gli italiani è chiarissimo. Sono contrari all’esenzione dell’I-ci, sono contrari a spolpare le casse dello Stato ai danni della scuola pubblica, perché credono al principio costituzionale che chi fonda una scuola privata la paga con i propri soldi. Soprattutto gli italiani sono convinti a grande maggioranza che la Chiesa predica bene e razzola male. Vedere per credere l’indagine del professor Garelli sulla “Religione all’italiana”.
QUANDO si parla di soldi, la gerarchia ecclesiastica si rifugia subito nel vittimismo, accusa complotti da parte dei nemici della Chiesa, si attacca a errori di conteggio sbagliati per qualche dettaglio o di chi mette sullo stesso piano la Cei (organismo nazionale) e il Vaticano, realtà internazionale. Nessuno trascura l’aiuto sistematico che è venuto in questi anni alle fasce più povere da parrocchie, episcopato e organizzazioni come la Caritas o Sant’Egidio. Ma ora è il momento di gesti straordinari e di uno sfoltimento di privilegi come avviene in tutto il Paese. Ci sono fatti molto precisi su cui la gerarchia non ha mai dato risposta e che costituiscono privilegi inaccettabili specialmente nella drammatica situazione economica attraversata dal Paese. Ne elenchiamo alcuni, che indignano egualmente credenti e diversamente credenti. Non limitare l’esenzione Ici agli edifici strettamente di culto è un’evasione fiscale legalizzata. L’attuale sistema di conteggio dell’8 per mille è truffaldino perché non tiene conto del fatto che quasi due terzi dei contribuenti – non mettendo la crocetta sulla dichiarazione delle tasse – intendono lasciare i soldi allo Stato. In Spagna, dove è stato a suo tempo copiato il sistema italiano, si conteggiano giustamente soltanto i “voti espressi”. In Germania il finanziamento alle chiese luterana e cattolica avviene con una “tassa ecclesiastica” che grava direttamente sul cittadino. Se il contribuente non vuole, si cancella. L’attuale sistema dell’8 per mille è uscito fuori controllo. Doveva garantire una somma più o meno equivalente alla vecchia congrua data dallo Stato ai sacerdoti, ma essendo agganciata all’Irpef la somma che il bilancio statale passa alla Cei è cresciuta a dismisura. Nel 1989 la Chiesa prendeva 406 miliardi di lire all’anno, oggi il miliardo di euro che incassa equivale a quasi 2.000 miliardi di lire. Cinque volte di più!
L’8 per mille è stato pensato (ed è approvato come principio dalla maggioranza degli italiani) per finanziare il clero in cura d’anime e l’edilizia di culto in primo luogo. Ciò nonostante la Chiesa si fa pagare ancora una volta a parte i cappellani nelle forze armate, nella polizia, negli ospedali, nelle carceri, persino nei cimiteri. Si tratta di decine di milioni di euro. Nessuno ignora quanti splendidi preti siano impegnati specialmente nelle prigioni, ma è il sistema del pagamento aggiuntivo che non è accettabile. Lo stesso vale per le decine di milioni aggiuntivi versati dallo Stato, dalle regioni e dai comuni per l’edilizia di culto, che è già coperta dall’8 per mille.
PER NON PARLARE dei milioni di euro elargiti ogni anno attraverso la famigerata “Legge mancia”. Invitando a uno stile di vita più sobrio per la festa di san-t’Ambrogio in Milano, il cardinale Scola afferma che con gli anni si è stravolto il concetto di “diritti”. In un clima di benessere e “senza fare i conti con le risorse veramente disponibili si sono avanzate pretese eccessive in termini di diritti nei confronti dello Stato”. Verissimo. C’è da aggiungere che anche la Chiesa ha partecipato alla gara. Non è bastato che gli insegnanti di Religione venissero stipendiati dallo Stato, si è preteso che da personale extra-ruolo venissero anche statalizzati. Contemporaneamente si è iniziato a mungere le casse statali per finanziare le scuole cattoliche. Altrove in Europa lo fanno, ma non c’è l’8 per mille. È l’ingordigia nel ricorso ai fondi statali che spaventa.
Quanto al Vaticano, i Trattati lateranensi garantiscono ad esempio un adeguato fornimento d’acqua al territorio papale. Non è prepotenza il rifiuto di contribuire allo smaltimento delle acque sporche? Costa all’Italia 4 milioni di euro l’anno. Cifra su cifra ci sono centinaia di milioni che possono essere risparmiati. Il premier Monti può fare tre cose subito. Decretare che, come accade in Germania e altri Paesi, i finanziamenti statali vanno solo a enti che pubblicano il bilancio integrale di patrimoni e redditi: così gli italiani e lo Stato conosceranno il patrimonio delle diocesi. Limitare l’esenzione dell’I-ci esclusivamente agli edifici di culto. Attivare la commissione paritetica prevista dall’art. 49 della legge istitutiva dell’8 per mille per rivedere la somma del gettito. Sarebbe molto europeo.

il Fatto 7.12.11
Santa Ici, basta chiedere
Per la Cassazione i Comuni possono pretendere il contributo dal Vaticano anche ora, senza una nuova legge
di Marco Palombi


Far pagare l’Ici agli immobili commerciali proprietà di enti ecclesiastici? “È una questione che non ci siamo posti”, ha risposto Mario Monti alla stampa estera. La beata dimenticanza del governo non attenua però l’insostenibilità della situazione, aggravata dal fatto che, proprio mentre non si poneva la questione dei beni con cui la Chiesa genera reddito per sé e le sue mille articolazioni, l’esecutivo tartassava la prima casa degli italiani per un ammontare di 3,8 miliardi di euro l’anno. ''Ll'Ici è un problema da studiare e approfondire, però la Chiesa fa la sua parte a sostegno alle fasce più deboli”, ha detto ieri il cardinale Tarcisio Bertone.
Il fatto è che questa esenzione non è solo palesemente ingiusta, ma pure contraria all’articolo 108 del Trattato europeo: lo ha stabilito, da ultimo, una sentenza della Corte di cassazione (la 16728/2010), anche alla luce del fatto che le norme comunitarie hanno rilievo costituzionale. Cosa significa? A stare ad autorevoli esperti una cosa molto semplice: la Suprema Corte ha stabilito che l’esenzione Ici per gli immobili ecclesiastici che siano usati, anche in parte, per attività di impresa costituisce un aiuto di Stato illegale e quindi i Comuni non devono applicarlo. Insomma, i sindaci volendo potrebbero richiedere il pagamento del maltolto fin da ora.
CONVIENE FARE un piccolo passo indietro. La Chiesa, l’Ici, non l’ha pagata mai: quando il governo Amato introdusse l’imposta, nel 1992, esentò gli immobili degli enti ecclesiastici. Nel 2004, però, successe l’imponderabile: la Consulta bocciò la norma e il governo Berlusconi fu costretto a reintrodurre l’esenzione in tutta fretta. Anche lì la faccenda si complicò: la Ue mise sotto indagine l’Italia (e anche la Spagna per le agevolazioni Iva) per aiuto di Stato e il nuovo governo ( Prodi), modificò di nuovo la legge sostenendo che l’imposta fosse dovuta, tranne che per quegli edifici a carattere non “esclusivamente” commerciale. Su quell’avverbio si conduce tutta la battaglia. Che vuol dire? Nessuno lo sa e così l’albergo delle Brigidine a piazza Farnese, centro di Roma, non paga l’Ici e solo metà dell’Ires. Finito? Macché. La Commissione europea, dopo un ricorso dei Radicali, ha aperto una nuova indagine, il cui esito è ancora sospeso: i funzionari, dice una fonte , hanno già finito il lavoro, che è sfavorevole agli interessi d’Oltretevere, ma la pronuncia ufficiale della Commissione è bloccata “dalle pressioni politiche provenienti dall’Italia”. Non ci si deve stupire: quando l’Ue impose alla Spagna di cancellare le agevolazioni Iva alla Chiesa, il mangiapreti Zapatero si oppose per due anni per poi, quando fu costretto, aumentare la contribuzione diretta dal 4 all’8 per mille.
In attesa dell’Europa, però, c’è la Cassazione: spiegano i giudici di legittimità che gli aiuti dello Stato – che non siano preventivamente comunicati alla Commissione Ue e da questa approvati – nei confronti di chiunque offra beni e servizi sul mercato vanno considerati illegali, anche se il fattaccio avviene in edifici parzialmente adibiti a luogo di culto (è il problema dell’avverbio “esclusivamente”).
I SINDACI dovrebbero dunque chiedere il pagamento dell’I-ci agli enti ecclesiastici e i giudici dargli ragione in caso di ricorso. Purtroppo non è così: il comune di Verbania, per dire, lo ha fatto e, dopo aver ottenuto il via libera dalla commissione tributaria provinciale, s’è visto dare torto da quella regionale, sempre per via dell’avverbio. Difficoltà confermata dal presidente dell’Anci Graziano Delrio: “Noi non abbiamo la possibilità di interpretare quali immobili siano palesemente commerciali e quali no: saremmo anche felici di farlo visto che continuano a tagliarci i finanziamenti, ma tanto poi le commissioni tributarie ci fermano...”. E così i Comuni si perdono un bel gettito: a Quartu hanno fatto i conti e scoperto che gli mancano 148 mila euro l’anno. In generale, tra Ici e Ires, si stima che l’erosione del gettito potrebbe arrivare a 1,5 miliardi, un po’ troppo per chi contesta la non equità della manovra. D’altronde, nemmeno i sindacati pagano l’Ici.

«O mio caro buon Gesù, fa’ che incassi sempre più»
il Fatto 7.12.11
Edifici esenti
Un privilegio che vale 700 milioni l’anno
di Luca de Carolis


Un privilegio da 700 milioni di euro all’anno. Tanto vale il mancato gettito fiscale da Ici sugli immobili della Chiesa, secondo la stima dell’Associazione nazionale comuni. Valutazione più che prudente di un patrimonio enorme, pressoché incalcolabile. C’è chi parla di un 20-25% degli immobili nazionali. Secondo il settimanale Il Male, solo a Roma i beni ecclesiastici esenti da Ici sono 306, mentre a Milano sono 42. Proprietà spesso in zone centrali, dalla metratura importante, a conferma che l’Ici “mancata” sui beni della Chiesa è una voragine per i bilanci dei Comuni. Anche perché spesso gli enti religiosi, facendo leva su una normativa ambigua, pretendono di non pagare l’imposta anche su immobili che danno reddito. Nel suo libro I senza Dio, il giornalista Stefano Li-viadotti riporta un documento del 2009 del Comune di Roma, pubblicato da l’Espresso, dalle cifre significative. Rispondendo a un’interrogazione sul mancato incasso dell’Ici nel 2006, il sindaco Alemanno scrive: “Le stime indicano in circa 25,5 milioni la perdita di gettito parziale per l’Ici ordinaria. Va aggiunto il minor introito per arretrati, stimato in circa 8 milioni”. Nel marzo scorso, Alemanno ha fornito nuovi numeri: “Gli uffici dell’amministrazione capitolina hanno effettuato una ricognizione, a partire dal 2005, delle attività degli enti ecclesiastici. L’accertamento ha consentito un recupero dell’imposta pari a 9 milioni e 338 mila euro, comprensivi di interessi e sanzioni”. A colpire è anche la destinazione d’uso dei beni ecclesiastici che non conoscono Ici. Tra i 306 immobili romani elencati dal Male, abbondano gli alberghi. Come il Nova Domus, hotel a quattro stelle nei pressi della basilica di San Pietro, o l’Hotel Santa Prisca, alle pendici del colle Aventino, che dà il nome a uno dei quartieri-bene di Roma. Oppure la Villa Eur Parco dei Pini, rinomata per i congressi. Tante le strutture per turismo prevalentemente religioso: in molti casi spartane, quasi sempre dall’ottima ubicazione. Di frequente piene, perché Roma è pur sempre la città dei pellegrini, dove il Giubileo del 2000 ha fatto spuntare decine tra alberghi e pensioni per fedeli da tutto il mondo. Ovviamente, di proprietà del Vaticano. A margine della selva di istituti per suore e ordini religiosi, anche cliniche e case di cura: talvolta enormi, con molto verde e ampi parcheggi. Stesso spartito a Milano, dove tra gli immobili esenti da Ici c’è anche la Residenza universitaria Torrescalla. All’inaugurazione dell’anno accademico, lo scorso 26 novembre, presenziava l’ad di Finmeccanica, Giuseppe Orsi.

Repubblica 7.12.11
La Cei chiede equità ma la Chiesa non paga l’Ici
risponde Corrado Augias


Caro Augias, leggo che la Cei ha dichiarato: «Le misure dovevano essere più eque». Mi stupisce il risveglio della Chiesa in aperta critica alla gestione del governo. Doveva aspettare che una persona di buona volontà si rendesse disponibile a sbrogliare la matassa che i precedenti governi avevano ingarbugliato? Forse anche la Chiesa, come purtroppo tanti cittadini, aveva davvero creduto alla storiella che la crisi non c'era e che comunque l' Italia stava meglio degli altri? La Chiesa avrebbe dovuto far sentire la sua voce quando il governo per anni si è occupato solo di intercettazioni , processo lungo e/o breve, legittimo impedimento ecc, mai di argomenti concreti per i cittadini. Avrebbe dovuto farsi sentire quando riempivano le pagine dei giornali scandali, ruberie e sperperi che sottraevano soldi che potevano essere destinati ai servizi dei cittadini. Quando ha tollerato bestemmie "contestualizzate", scorrerie libertine, oscenità e offese che se io le confessassi il mio prete mi darebbe penitenze micidiali. Ora si comincia a criticare il nuovo governo. Ma se vogliamo parlare di equità chiediamoci: perché io , che sono pensionato e posseggo solo la casa dove abito dovrò pagare l' Ici e gli immobili commerciali della Chiesa invece no?
Giovanni Conte

La domanda del signor Giovanni Conte, rivolta con grande veemenza, è giusta. Infatti se la sono posta e ne hanno scritto molti lettori di questo giornale. Per esempio il signor Gianfranco Costarelli (gfcostarelli@ gmail. com): «Sono pensionato, proprietario d'un appartamento in Ancona, fatto in cooperativa 33 anni fa, e d'una casetta ereditata da mia zia nel paese dove sono nato, Cassero di Camerata Picena. Perché nella manovra non si parla mai di IMU per i beni immobili commerciali della Chiesa?». Il signor Franco Ajmar : «Mi chiedo, come molti, se non avrà in qualche modo interferito sulle scelte del governo in tema di tasse il fatto che il presidente del Consiglio e numerosi ministri siano di stretta osservanza cattolica. Il contributo di oltre 6 miliardi annui che la Repubblica elargisce alla Chiesa cattolica mi sembra particolarmente sbilanciato non solo in assoluto e nel merito, ma anche in rapporto ai sacrifici che tutti gli italiani, credenti e non, sono costretti a fare in questi giorni». Parlare di 'equità' nelle condizioni di vantaggio di cui la Chiesa cattolica oggettivamente gode in Italia è stato un gesto improvvido. Sarebbe stato invece generoso (e avveduto anche al fine di recuperare un'appannata credibilità) se le gerarchie avessero spontaneamente annunciato di voler contribuire ai sacrifici imposti a tutti dando un costruttivo segno di disponibilità dopo i numerosi passi falsi del recente passato.

Corriere della Sera 7.12.11
Concordato tra Stato e Chiesa
È stato dimenticato l’Art. 1
risponde Sergio Romano


Posso scusare l'ignoranza della lettrice sulle ragioni dell'esenzione dei beni della Chiesa e di quella di tutte le istituzioni laiche «no profit» (piccolo particolare dimenticato forse scientemente dagli anticlericali di destra e di sinistra), ma non posso accettare il suo, in un certo verso, censorio attacco alla libertà di esponenti della Chiesa cattolica a prendere posizione sulla gestione della politica nel nostro paese. Devo forse ascoltare come cattolico solo i pareri delle centrali sindacali, dei partiti o del Pontefice romano?
Giorgio Vittorio Bossi

Caro Bossi,
Fra l'Italia e la Santa Sede esiste da più di ottant'anni un Concordato. Quello firmato da Mussolini nel 1929 garantiva alla Chiesa un certo numero di diritti e privilegi. Quello firmato da Bettino Craxi nel 1984 ha tenuto conto della evoluzione delle sensibilità pubbliche, soprattutto nei due decenni precedenti, e comincia con un articolo nuovo, molto importante, che ha il merito di precisare meglio il principio fondamentale del documento. Secondo l'art. 1, «La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese».
Tradotta in linguaggio corrente, questa frase significa che ciascuno dei contraenti s'impegna a non interferire negli affari dell'altro. So che non è sempre facile tracciare una frontiera tra gli affari dello Stato e quelli della Chiesa in un Paese dove politica e religione sono purtroppo strettamente intrecciati sin dalla fine dell'Impero romano. Ma vi sono circostanze in cui la violazione del principio è evidente. Mussolini non fu «concordatario», ad esempio, quando dichiarò guerra all'Azione cattolica e cercò d'impedire che la Chiesa aspirasse alla formazione della gioventù italiana. La Chiesa non fu concordataria quando la Segreteria di Stato partecipò alla redazione della Costituzione rivedendo e discutendo i progetti dei singoli articoli che alcuni deputati della Democrazia cristiana sottoponevano alla sua attenzione. E non fu concordataria quando il cardinale Ruini, allora presidente della Conferenza episcopale italiana, esortò gli italiani ad astenersi dal voto nei referendum sulla procreazione assistita.
Un caso particolare è quelle delle pubbliche dichiarazioni del cardinale Angelo Bagnasco, successore di Ruini alla presidenza della Cei. I suoi interventi sono spesso stati interpretati come un indice della maggiore o minore simpatia della Chiesa per il governo Berlusconi. Questo non sarebbe accaduto se la Chiesa non si fosse comportata, in alcune particolari questioni, come una lobby. Quando una istituzione spirituale chiede al governo di legiferare o non legiferare su specifici problemi come la procreazione assistita, la ricerca sulle cellule staminali o il testamento biologico, che cosa può promettere in cambio se non voti e consenso? Questo rapporto nuoce allo Stato, nuoce alla Chiesa e non è concordatario. Se davvero tiene al Concordato, la Chiesa dovrebbe rispettare anzitutto il suo primo articolo.

Repubblica 7.12.11
Una Roma senza Papa
Il fascino segreto della capitale nella primavera del Medioevo
di Jacques Le Goff


Un affresco inedito che prende in considerazione il periodo tra gli anni 1143 e 1398
Quello splendore lascia tracce nell´arte dove brillano campanili e mosaici in un´orgia di colori
Le Goff racconta l´importanza del saggio di Vigueur sull´età comunale

Lo storico franco-italiano Jean-Claude Maire-Vigueur, che insegna storia medievale all´Università Roma III, ha appena ricevuto al Musée Cluny, il museo del Medioevo a Parigi, il premio della Dame à la Licorne, che evoca uno dei più begli arazzi del XV secolo conservati in questo museo, quello appunto della Dama con l´Unicorno. Il riconoscimento è stato assegnato per un libro pubblicato in francese l´anno scorso che ci racconta una Roma diversa. Lo dice già il titolo: L´autre Rome. Une histoire des Romains à l´époque communale (XIIe-XIVe siècles) è uscito per le edizioni Tallendier, adesso la traduzione italiana è stata pubblicata da Einaudi (L´altra Roma. Una storia dei romani all´epoca dei Comuni, XII-XIV secolo).
Quest´opera importantissima mostra, con criteri scientifici, il volto e la storia di un´altra Roma medievale, rispetto a quelli di una città fin qui considerata essenzialmente come luogo di confronto fra i due principali poteri della Cristianità: il papa e l´imperatore. In questa visione tradizionale (condivisa non soltanto dagli storici del Medioevo, ma anche da buona parte degli stessi romani) di una Roma che nel Medioevo non sarebbe stata altro che un ammasso di rovine, offrendo un´immagine agli antipodi di quella della Roma antica in tutto il suo splendore, da qualche tempo alcuni medievalisti hanno fatto rinascere un´altra Roma medievale, che sarebbe stata essenzialmente una Roma comunale, dal 1143, data storica e fondamentale della creazione del Comune, fino al 1398; e questa Roma sarebbe stata un gioiello dell´Italia dei Comuni.
Nessuno storico meglio di Jean-Claude Maire-Vigueur, autore di un´opera di primaria importanza come Cavalieri e cittadini. Guerre, conflitti e società nell´Italia comunale, per i tipi del Mulino, poteva parlare della Roma medievale fornendo spiegazioni e riflessioni importanti, arricchendo la storia dell´Italia medievale. Ne L´altra Roma, Jean-Claude Maire-Vigueur risponde a «tre grandi interrogativi che vertono 1) sul modo in cui si forgia e si consolida l´identità di un gruppo sociale, 2) sulla maniera in cui un gruppo sociale può essere indotto a ridefinire la sua identità sotto l´effetto di un fattore esterno, 3) sulla capacità del sistema politico comunale di adattarsi a questo processo, o a questi processi, di "ricomposizione identitaria". L´Italia comunale reale avrebbe comportato due periodi, un primo, fino al XIII secolo, in cui la città era sotto il dominio di una milizia, e un secondo, nel corso di questo XIII secolo, quando sarebbe avvenuta la folgorante ascesa di una parte delle grandi famiglie: i baroni. Uno dei fondamenti della loro potenza sarebbe stato il possesso di villaggi fortificati (i castra, o castelli) nella campagna romana e nel Lazio. Questa Roma comunale ha basi tanto solide che quando, nel 1347, sale al potere Cola di Rienzo, ripulisce l´amministrazione dai corrotti, ma non procede a riforme amministrative significative.
Il popolo di Roma è, come in altri posti, un mondo di mestieri, con due anime: il mestiere e il quartiere. Nel XIV secolo, si instaurano due grandi reti di relazioni fra i Colonna e gli Orsini e questa iniziativa della nobiltà cittadina sfocia nella potenza dei baroni, elemento che costituisce un´"anomalia romana". Questo sistema è stabile e flessibile al tempo stesso, malgrado periodici conflitti, come nel 1203-1204, e malgrado l´esistenza di un´ostilità dei romani nei confronti del papato. Il popolo si riprese il governo della città dopo il lungo predominio dei baroni soprannominati i "Lupi" (1250-1350). Dopo la caduta di Cola di Rienzo, il potere fu esercitato dal popolo in generale, sostenuto da milizie (una della principali era la Felice Società dei Balestrini e dei Pavesati).
Lo splendore del periodo comunale lascia tracce anche nell´arte, dove brillano chiese e palazzi, campanili e mosaici in un´orgia di colori. Infine, Roma dà un contributo fondamentale alla nascita della pittura moderna: fra i primi grandi pittori bisogna citare il romano Cavallini. Insomma, quest´altra Roma non si lascia soffocare dal ricordo della Roma antica, è vitale e creatrice, specialmente nel contesto comunale. E grazie a Jean-Claude Maire-Vigueur rinnova la sua vitalità creatrice nonostante le distruzioni: il sacco di Roma da parte dei soldati di Carlo V nel 1527, la "barocchizzazione" delle chiese da parte dei papi del Cinque-Seicento, il distanziamento e poi l´assorbimento da parte dello Stato unitario, e infine i deliri del fascismo. Insomma: altra, ma anche bella, forte e in prima fila nell´Italia comunale del Medioevo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 7.12.11
Destra e sinistra allora esistono
di Francesco Cundari


La condizione di emergenza in cui si trova l’Italia, imponendo a tutti tempi e margini di manovra strettissimi, ha costretto ciascuno ad andare all’essenziale: governo, partiti, parti sociali e commentatori. La gravità del momento ha reso i confini più netti. Con enorme beneficio, se non altro, del nostro dibattito pubblico.
In un momento come questo, a nessuno viene nemmeno in mente di chiedere a ministri o leader politici di far sognare o emozionare, e nemmeno di saper comunicare. Non solo perché gli effetti speciali sono passati di moda (ora si porta molto lo stile sobrio e rigoroso), ma per una ragione, per dir così, sistemica: la crisi, nella sua durezza materiale, ci ha fatto uscire dalla realtà virtuale e rientrare bruscamente nel mondo reale. È tornata la forza di gravità: i corpi hanno riacquistato il loro peso, smettendo di galleggiare nel vuoto. Non stupisce che il tema della comunicazione, su cui tanto ci siamo concentrati in questi vent’anni, perda d’importanza: quando si discute di chi paga e quanto, non c’è problema di comunicazione che tenga, ci si capisce subito.
Dopo vent’anni di bipolarismo forzoso, accompagnati paradossalmente dalla generale convinzione che destra e sinistra fossero categorie ormai superate, la differenza tra i due concetti è riemersa di colpo, con cristallina chiarezza. E proprio grazie a un governo tecnico, sostenuto da una maggioranza parlamentare che va dal centrodestra al centrosinistra.
Oggi la discussione è tra chi, come il Partito democratico, preme per alzare la tassazione su chi ha beneficiato dello scudo fiscale, allo scopo di risparmiare chi vive di una pensione di 460 o anche di mille euro lordi al mese, e chi, come il Pdl, preferisce lasciare tutto così. Tra chi chiede di tutelare le fasce più deboli e chi chiede di non mettere nuove tasse. Tra chi si batte per aumentare la progressività nella tassazione sulla casa e chi si batte per eliminarla. La differenza, che è essenzialmente la differenza tra destra e sinistra, non sfugge a nessuno.
Dopo vent’anni in cui le forze politiche si sono divise attorno a leggi elettorali e questioni morali, battaglie simboliche, ipotesi di riforma istituzionale, valori più e meno negoziabili su tutto ciò, insomma, che non riguarda e non tocca direttamente gli interessi materiali di nessuno – ecco che all’improvviso la gravità della crisi e la necessità di trovare risposte immediate ed efficaci fanno ripiombare i partiti dal cielo dei valori al duro terreno degli interessi.
In tutti questi anni, però, le diseguaglianze sociali non sono rimaste invariate. Al contrario: mentre durante la deprecata Prima Repubblica le distanze tra i più deboli e i più forti si erano progressivamente ridotte, dal ’92 a oggi non hanno fatto che allargarsi. Un fenomeno che non ha riguardato soltanto l’Italia, ma che in Italia è stato particolarmente brutale.
È anche per questo che adesso, a vent’anni quasi esatti dai primi governi tecnici chiamati a salvare il Paese dalla bancarotta finanziaria e dal fallimento di un intero sistema politico, a ridurre il debito pubblico, a tagliare gli sprechi e a rinnovare le istituzioni, il rischio maggiore non è la crisi economica, ma la crisi di nervi. Dopo vent’anni di manovre e di retorica del rigore e dei sacrifici, la richiesta di equità e discontinuità quanto meno nella distribuzione dei pesi non è solo legittima, è la condizione minima per preservare un minimo di credibilità del sistema democratico. E non c’è taglio ai costi della politica, effettivo o presunto, che possa compensare l’assenza di un criterio di giustizia.
Le responsabilità del governo Berlusconi sono evidenti e incancellabili. E troppo a lungo sono state confuse nel mucchio di una generica e troppo facile critica contro la politica. Il bilancio di questi vent’anni è ormai incontrovertibile: i governi di centrosinistra, con tutti i loro limiti e i loro errori, hanno avviato il risanamento, permettendo all’Italia di entrare nell’euro e di restarci; il centrodestra berlusconiano l’ha portata sull’orlo della bancarotta finanziaria e del commissariamento internazionale.
Tuttavia anche il centrosinistra dovrebbe interrogarsi sulle ragioni di sistema che hanno consentito al berlusconismo di durare così a lungo, e di fare tanti danni, senza incontrare resistenze (o trovando addirittura incoraggiamento) nell’assetto politico-istituzionale emerso all’inizio degli anni novanta dalle macerie di Tangentopoli e dai referendum maggioritari. Da una improvvisa e diffusa infatuazione per un modello americano fondato sulla più estrema personalizzazione della politica, sul primato del leader sui partiti, del governo sul Parlamento e del capo del governo sull’intero sistema. Grazie alla finzione dell’elezione diretta del premier e delle maggioranze nate nelle urne e in quanto tali immodificabili. Arrivati sull’orlo del baratro, per allontanare l’Italia dal precipizio si è reso necessario contravvenire a ciascuno di questi principi. Ma un sistema istituzionale che non funziona in caso di crisi assomiglia molto a un estintore che non funzioni in caso di incendio.

il Fatto 7 12.11
Lacrime e mercati
di Furio Colombo


Fin dall’inizio avremmo dovuto notare che il governo Monti ha due missioni. Una è liberarci dalla vergogna di Berlusconi e dal ridicolo nel mondo, oltre che della totale incapacità di governare di Brunetta, Sacconi, Gelmini, Romani e Romano (con relativi carichi pendenti). La seconda missione, che tiene in ansia (a momenti, si direbbe, in ammirazione) tutta l’Europa, è di fronteggiare la gravissima crisi economica evitando la scomparsa del nostro Paese e una ferita a morte per l’Unione. La prima missione è riuscita, con plauso e successo che ha coinvolto i più prestigiosi quotidiani del mondo (vedi l’intera pagina del New York Times dedicata a Napolitano che ha saputo rendere possibile questa missione). Mentre scrivo è impossibile non notare che Monti è arrivato in tempo per impedire che il rappresentante del clan dei Casalesi, certo Nicola Cosentino (fonte: la Procura di Napoli) sedesse ancora nel Consiglio dei ministri italiano, nonostante l’evidente conflitto di interessi. La seconda missione è quella del grande esperto che deve riparare il disastro di un lungo e incosciente vuoto di governo. Da tecnico, Mario Monti sembra essersi ispirato a tre realistici criteri: tagliare si deve; per essere alto, un taglio deve essere esteso; l’equità è un principio da rivendicare, ma senza compromettere la quantità necessaria e senza misurarsi con il compito impossibile di affrontare la ricchezza. Considerate che un grande limite sono i tempi stretti. I poveri (i pensionati da 1000 euro privati della indicizzazione) si trovano subito, i ricchi no. Si è tornati alla precauzione di arrestare tutti gli anarchici quando il re arrivava in città. Infine: ogni audacia di tipo “sociale” irrita i mercati. Come è noto, i mercati turbolenti creano perdite, dunque impoveriscono i poveri. Ne consegue che agire con cautela sul versante della ricchezza, in modo da non scatenare nuove speculazioni (a quanto pare vi è un rapporto di causa ed effetto), vuol dire salvare un po’ i meno abbienti. In questo senso possiamo parlare di equità. Equità pagata dai poveri. Quella pagata dai ricchi non esiste in natura. E forse a questo pensava Elsa Fornero, persona seria e sensibile, ma anche rigorosamente competente, quando le si è spezzata la voce, in quel momento della verità da non dimenticare.

il Fatto 7.12.11
Parliamo un po’ di noi
di Marco Travaglio


La luna di miele più rapida della storia è già finita. Siamo ancora qui che rispondiamo alle lettere della settimana scorsa, scritte da bravi lettori che ci invitavano a “lasciar lavorare Monti” e giunte col giusto ritardo grazie alle Poste “risanate” da Passera e dai suoi successori, e già ci arrivano mail di lettori inferociti (speriamo non gli stessi) che ci invitano a cantarle chiare a questo governo che “fa pagare sempre i soliti noti” ed è “come e peggio degli altri”. Sempre così, noi italiani. Capaci di diventare seri solo se costretti dal disastro incombente, e solo per brevi parentesi (Tangentopoli nel '92-'93, l’entrata nell’euro nel 1998, l’allarme spread nel 2011) fra un Carnevale e l’altro. Per il resto, sempre sotto il balcone di Qualcuno che promette miracoli subito: l’Uomo Forte, l’Uomo Nuovo, l’Uomo Che Decide, l’Uomo Con Le Palle, l’Uomo della Provvidenza, il Salvatore della Patria, Quello Che S’è Fatto Da Sé, il Tecnico Che Risolve. L’altra sera, a Servizio Pubblico, con una punta di sciovinismo francese e di commiserazione verso i poveri italiani, l’economista Jean-Paul Fitoussi ci avvertiva: “Non esiste Zorro, non esiste Superman!”. Come a dire: cari italiani, ma quando la smetterete di credere alle favole? Noi, intendiamoci, non pensiamo affatto che questo governo sia come o peggio del precedente (basta ricordare chi c’era fino a un mese fa nei vari ministeri, per trovare molto simpatica persino madama Fornero, detta anche Maria Chiagnusa o la Madonna di Civitavecchia). Ma nemmeno siamo stati mai disposti a “lasciarlo lavorare”, perché la stampa non deve lasciar lavorare nessuno: deve pungolare tutti, rispettando il patto con i lettori, che è quello di stare sempre e comunque all’opposizione, chiunque governi. Un’opposizione, si capisce, graduata sulle caratteristiche dei singoli governi. Un governo di banditi meritava un’opposizione totale e irriducibile. Un governo di persone perbene, salvo un condannato e qualcuno in conflitto d’interessi, merita un atteggiamento guardingo, ma “caso per caso”. Perciò abbiamo messo alla berlina i giornaloni sdraiati ai piedi (naturalmente sobri) di Monti e della sua signora e financo del suo cane. Gli stessi che fino a un mese fa incensavano il Cainano e ora metteranno in croce anche i tecnici per non perdere i lettori superstiti. Ma non si poteva pensarci prima? Invece di suonare le trombe, i tromboni e le viole del pensiero al passaggio del nuovo salvatore della patria, il nuovo Cavour, il “nuovo Cincinnato” (ma sì, il Corriere ha scritto anche questo), bastava tenere acceso il cervello e usare un minimo di spirito critico, diciamo pure di sobrietà: si capiva subito che un governo senza consenso elettorale, tenuto su dai partiti come la corda sostiene l’impiccato e dallo stesso Parlamento delle leggi vergogna e di Ruby nipote di Mubarak, non avrebbe potuto fare nulla di ciò che speravamo. Cioè far pagare il conto della crisi a chi ha sempre vissuto sulle spalle altrui: politici e partiti, enti pubblici, enti locali, grandi evasori, nababbi dalle fortune misteriose, tangentari, mafiosi, pensionati d’oro, Vaticano, Mediaset. E ora eccoci qui, con una stangata degna della vecchissima politica, come se occorresse quel trust di cervelli per escogitare l’ennesima rapina ai pensionati, l’ennesimo aumento della benzina e dell’Iva, l’ennesima ritassazione delle prime case (esclusi, si capisce, gli edifici religiosi a scopo di lucro), l’ennesimo spreco di risorse per l’inutile Tav (2 miliardi) e magari prossimamente al Ponte sullo Stretto tanto caro al banchiere-sottosegretario Ciaccia, l’ennesimo regalo di Natale alle banche e a Mediaset. Né c’era bisogno di riunire i mejo tecnici del bigoncio per fare passerella a Porta a Porta e a Ballarò. No, non esiste Zorro, e nemmeno Superman. Ma quando ci decidiamo a diventare adulti?

l’Unità 7.12.11
Il Pd aveva presentato al premier un dettagliato piano di undici punti sul tema specifico
Troppo timidi con gli evasori
Le norme antievasione sono poche, deboli e inefficaci. Il Pd aveva proposto 11 punti: nulla è stato accettato
La tracciabilità non fa emergere la base imponibile. Eppure i tecnici hanno elaborato strumenti sofisticati
di Bianca Di Giovanni


Appena tre misure, per di più blande o inefficaci, e in alcuni casi infilate all’ultimo minuto. Questa la «mini-cura» antievasione proposta dalla squadra Monti, che tuttavia chiede sacrifici «per salvare l’Italia». Non si sa cosa dicono nell’Ue dei record di infedeltà fiscale: pare che a Bruxelles preferiscano parlare di pensioni (almeno così raccontano).
Così alla fine, come al solito, il Belpaese si salverà grazie agli onesti, che spesso si concentrano tra i meno abbienti e in quello sterminato ceto medio che sta diventando sempre più povero.
Tracciabilità dei pagamenti a mille euro, regime premiale per gli autonomi che accettano di essere «radiografati» dall’amministrazione, e comunicazione degli operatori finanziari (banche e simili) alle agenzie delle entrate dei movimenti dei loro clienti. Questa la lista degli interventi. L’ultimo punto è entrato in zona Cesarini nel testo finale solo dopo un poderoso pressing del Pd. Peccato che non sia entrato nella versione che i Democratici volevano. Su questo fronte c’è stato un braccio di ferro: Pier Luigi Bersani ha incontrato Mario Monti e ha messo sulla sua scrivania 11 punti da inserire. Ma di tutto questo non si è visto nulla. Almeno finora. Le tre misure, comunque, non funzioneranno. Lo sanno i tecnici e anche i professori. Difficile che la tracciabilità possa far emergere base imponibile, non soltanto per la soglia troppo alta (quante spese di mille euro fa in un anno una famiglia?). Il vero handicap sta nel fatto che chi non rispetta la regola va «pizzicato». Chi potrà davvero controllare questi pagamenti? Si sarebbe potuto imporre pagamenti elettronici ai professionisti con conti dedicati, o per gli affitti. Di questo neanche l’ombra.
COMUNICAZIONE
Quanto alla comunicazione dei movimenti finanziari all’anagrafe tributaria, anche in questo caso c’è un limite che depotenzia la norma. In tutti gli altri Paesi (a proposito di adeguamento agli standard europei) l’amministrazione fiscale può ordinariamente conoscere tali movimenti, cosa che non viene ritenuta un attacco al segreto bancario né alla privacy in nome del principio superiore della compliance alle regole della convivenza civile. Da noi, invece, lo si può fare solo con una procedura complicata, tanto che nel 2010 sono stati effettuati appena 9.300 controlli su 42 milioni di contribuenti. La manovra Monti non migliora le cose, e mantiene il vincolo dell’accesso solo in caso di apertura di un accertamento. La norma sul regime premiale, poi, non comporterà alcun maggior gettito ma solo più spese. Quello che più colpisce in questo caso è che si premiano i cittadini che si concedono benefici (sia fiscali che in termini di servizi, anche costosi) a cittadini che semplicemente
fanno il loro dovere: cioè pagare le tasse sui loro redditi. Il retropensiero è pericolosamente in linea con quanto il centrodestra berlusconiano ha predicato negli ultimi 15 anni: evadere a volte è necessario. Esattamente il contrario di quello che l’Italia dovrebbe sostenere per restare a pieno titolo tra i Grandi d’Europa. Si dirà: il testo aiuta le partite Iva e le ditte individuali ad avere un rapporto più friendly con il fisco. Si affidano all’amministrazione, che cura tutte le loro questioni fiscali (si evita così il commercialista) e in cambio avranno uno sconto. Il risultato sarà che aderiranno gli onesti, si dovranno pagare i servizi, si rinuncerà a una parte di gettito e i disonesti continueranno ad evadere. Semplice. L’unico effetto positivo sarà che si potranno concentrare i controlli su chi non aderisce. Per aiutare i piccoli, comunque, si poteva reintrodurre il prelievo fisso del 20% inserito dal governo Prodi.
Un bilancio davvero misero quello della lotta all’evasione. Si sarebbe potuto fare molto meglio. Non solo l’elenco clienti-fornitori, oggi anche poco costoso visti gli strumenti informatici. Non solo l’accordo con la Svizzera con un prelievo del 20% su tutti i depositi italiani nella Confederazione. Gli esperti della materia hanno sviluppato strumenti molto raffinati, che in questa fase di emergenza avrebbero potuto essere applicati. Sul sito fiscoequo.it Oreste Saccone, ad esempio, propone 7 obiettivi che costituiscono un vero piano sistematico di controlli. Tra le proposte, anche dati incrociati tra Agenzie delle entrate e Inps, banche, o accertamenti specifici sui dati Isee. Senza contare il recupero dell’Iva, l’imposta più evasa, superando i semplici accertamenti sintetici (solo sul reddito non giustificato dall’attività dichiarata). Le antenne del fisco, poi, dovrebbero finalmente intercettare le migliaia di case fantasma, ancora ignorate dal catasto, su cui nessuno pagherà l’Ici.

l’Unità 7.12.11
Ancora cortesie con i soliti furbi «Tracciati» gli onesti
C’è continuità con il sistema Berlusconi. La deterrenza si ottiene se i contribuenti sanno che il fisco può conoscere le loro attività. Di questo nella manovra non c’è traccia
di Vincenzo Visco


Nel programma del nuovo governo la lotta all' evasione fiscale sembrava essere un punto centrale, caratterizzante. Guardando i provvedimenti effettivamente varati, così non sembra, così non è.
Quello che emerge è una sostanziale continuità con l'approccio seguito dal governo Berlusconi che, pur avendo fatto poco, era riuscito a convincere molti di aver realizzato successi strepitosi nella lotta all'evasione.
Si è parlato di 35 miliardi di gettito recuperato in un solo anno dall' amministrazione. È stato tuttavia dimostrato che facendo bene i conti ed evitando di manipolare i dati, il presumibile recupero effettivo si riduce a circa 1,5 miliardi. A ben vedere l'unico risultato tangibile ottenuto dal precedente governo e dall'attuale amministrazione è stata la riduzione delle compensazioni Iva (6 miliardi) recuperando e rendendo più incisiva una norma già introdotta dal governo Prodi e subito abrogata da Berlusconi. In altre parole, la strategia seguita, basata prevalentemente sulle verifiche e sui controlli delle dichiarazioni, appare chiaramente insufficiente. Ciò è inevitabile se si continua a ritenere che l'evasione si combatte essenzialmente ex-post, con gli accertamenti (magari induttivi come quelli basati sul redditometro), e non anche ex-ante, con la de-
terrenza e la promozione sistematica dell'adempimento spontaneo, strategia seguita con successo negli unici due periodi in cui l'evasione si è effettivamente ridotta nel nostro paese, quelli tra il 1996 e il 2000 e tra il 2006 e il 2008).
La deterrenza si ottiene se i contribuenti sono consapevoli del fatto che il fisco può essere portato a conoscenza delle loro attività o dei loro guadagni da parti terze: questo e non altro è il significato del termine «tracciabilità» che riguarda essenzialmente la conoscenza delle transazioni effettuate. Nel dibattito corrente il termine «tracciabilità» viene spesso identificato con la riduzione dell'uso del contante. Non è così. La riduzione dell'uso del contante è sicuramente un obiettivo strategico nel contrasto all'evasione, va però perseguito non già fissando soglie generali, ma diffondendo l'uso di strumenti di pagamento elettronico anche, e direi soprattutto, per le piccole (e minime) transazioni (cosiddetto «borsellino elettronico») come avviene in Francia, Belgio e via dicendo. E individuando settori e pagamenti in cui si può imporre il ricorso a ritenute o si può imporre il divieto dell'uso del contante, come fu fatto per esempio dal governo Prodi per quanto riguarda i compensi dei professionisti.
Tracciabili sono anche i rapporti che prevedono il ricorso a ritenute che andrebbero generalizzate. A quanto è dato di sapere nella manovra vi sono (forse) alcune norme volte a incentivare i pagamenti elettronici ed è prevista la riduzione a mille euro dell'uso del contante, norma che risulterà di scarsa utilità pratica dal momento che potrà essere facilmente elusa e ha poco a che vedere con la «tracciabilità» ai fini fiscali. In altre parole, non bisogna confondere l'evasione fiscale con il riciclaggio.
Vi è poi una norma veramente singolare che a qualcuno potrebbe apparire addirittura provocatoria: si prevede, cioè un incentivo per quei lavoratori autonomi e piccole imprese che accettano un tutoraggio diretto dei loro conti e attività da parte delle amministrazioni finanziarie che prevede anche l'uso di strumenti elettronici di pagamento e fatturazione; in sostanza un incentivo a essere «onesti». Con il risultato che solo chi già paga le tasse perché già si trova nella condizione tecniche per non poter evadere aderirà (monomandatari, lavoratori precari con ritenuta d'acconto, eccetera), e quindi si verificherà una situazione paradossale per cui gli «onesti» saranno «tracciati» e i «disonesti» resteranno fuori dalla possibilità di controllo del fisco. Né si capisce perché mentre un lavoratore dipendente è costretto a essere «onesto», e cioè pagare fino all'ultimo euro (ritenuta alla fonte), un autonomo debba invece essere «incentivato».
Uno strumento di deterrenza-controllo molto importante è l'elenco clienti-fornitori (fonte fondamentale di third party information). Sollecitato in proposito, il governo ha sostenuto che reintrodurre questa misura, soppressa dall'esecutivo Berlusconi, ma che aveva dato risultati molto rilevanti nel breve periodo in cui era stata in vigore, era inutile perché è già prevista l'applicazione della fatturazione elettronica. Chi scrive ha varato le norme che hanno introdotto la fatturazione elettronica in Italia, ma ha anche introdotto l'elenco clienti-fornitori (previsto in via temporanea) nella consapevolezza che prima che la fatturazione elettronica possa andare
a regime potranno passare anche dieci anni, e che d'altra parte sarebbe pericoloso collegare fin dall'inizio il nuovo strumento all'attività del fisco.
Nel suo intervento alle Camere sul programma di governo il presidente Monti aveva indicato la necessità di pervenire alla conoscenza dello stato patrimoniale di ciascun contribuente: in proposito alcuni mesi fa Guido Tabellini e altri avevano proposto di prevedere una dichiarazione apposita. Tuttavia sarebbe inutile costringere i contribuenti a compilare una ulteriore dichiarazione la cui veridicità dovrebbe poi essere verificata (presso le banche). Più semplice sarebbe (stato) chiedere direttamente alle banche di inviare al fisco le consistenze iniziali, finali e medie dei conti gestiti e l'importo complessivo delle operazioni, così come avviene in Francia e in altri paesi, in modo da poter ricostruire, utilizzando anche i dati del catasto, la situazione patrimoniale complessiva di ciascuno.
Sfortunatamente i buoni propositi sono rimasti tali e la pubblicazione dello stato patrimoniale è stata limitata esclusivamente ai ministri!
Altre misure di «tracciabilità» potrebbero essere indicate. Purtroppo il governo ha rinunciato (rifiutato) a percorrere coerentemente questa via, impopolare forse, ma sicuramente efficace, e cioè di creare una rete di informazioni, generalizzata, omnicomprensiva, poco costosa perché si tratta di informazioni già disponibili e accessibili, in grado di fornire deterrenza ex ante e strumenti per l'accertamento ex post. Confermando invece una strategia perdente perché reticente e perché non affronta alla radice il problema dell'evasione di massa nel nostro Paese. Quasi che fosse più facile e meno impopolare bloccare l'indicizzazione delle pensioni piuttosto che aggredire evasione ed evasori.

il Fatto 7.12.11
L’accusa di Di Pietro
“Frequenze gratis, patto tra Monti e B.?”
di Chiara Paolin


Antonio Di Pietro ormai ha deciso: è ora di pensare a una contromanovra. Sul suo blog ieri il leader Idv ha messo giù numeri e ipotesi, a partire dalla tormentosa vicenda delle nuove frequenze televisive regalate agli operatori già in campo: “Fare cassa a spese dei poveracci sì, ma un’asta per far pagare i diritti televisivi, che per Mediaset sono gratuiti, no. E sì che qualche soldino sarebbe entrato! In Germania l’asta ha portato allo Stato 4,4 miliardi di euro, negli Usa 20 miliardi di dollari. Non è per pensare male, ma non vorrei che questa distrazione non fosse casuale e rispondesse invece a un patto con Berlusconi: io vi faccio fare il governo e voi mi continuate a regalare le frequenze. Tanto poi ci sono sempre i pensionati da spremere”. Al telefono Di Pietro conferma tutto: “Ma è chiaro che su questo punto c’è stata una trattativa. Tu, caro Monti, non tocchi la questione delle televisioni. E io ti darò l’appoggio in aula. Solo che così va a finire come al solito: i privilegi ai potenti, e la povera gente a pagare. Non va bene, per questo abbiamo presentato mozioni, interrogazioni, interpellanze, tutto quel che serve in questi 60 giorni per migliorare la manovra. Si può, si deve”. Ma se Monti dovesse toccare le frequenze che scottano, come potrebbe poi trovare la maggioranza in aula? “Eh ho capito io – continua di Pietro -, ma mica potremo fare quel che piace a Berlusconi anche dopo che Berlusconi se n’è andato. O no? Se Monti non ha una sua linea utile al Paese andiamo subito a elezioni, come l’Idv sostiene da sempre. Speriamo che pure il Pd si convinca. Dalle pensioni a ‘sto beauty con-test dovranno vedere pure loro che i conti non tornano”.
Un bel sasso lanciato nello stagno delle polemiche, che il senatore Idv Pacho Pardi raccoglie volentieri e mette sul tavolo con un’interrogazione al ministro Passera: “Vorrei tanto sapere perché la questione del beauty contest non sia stata esaminata per inserirla in manovra – spiega Pardi -. Già quell’annuncio fatto in conferenza stampa, “non ne abbiamo discusso”, mi suona come un’ammissione chiarissima: non vogliamo parlarne. Sennò, per gente che deve andare a caccia di miliardi, era proprio quello il primo passo. Il più banale: basterebbe che Passera facesse una telefonata al presidente della commissione messa lì a decidere sulla gara dicendo “scusate, cambio di programma, le frequenze ce le vendiamo anziché regalarle”. Tutto qua, e miliardi di euro in bilancio da subito: perché rinunciarci se non per aver preso un impegno preciso sul punto?”.
IN EFFETTI i – parecchi – miliardi in arrivo da un’asta delle frequenze farebbero comodo. “Ma vogliamo parlare delle spese per gli armamenti? Da qui al 2026 abbiamo messo in pista 50 miliardi di euro per un settore che non ha alcun senso – spiega Massimo Donadi -. Altro che Iva e pensioni, questi sì sono soldi da ridare alla gente, alla scuola, alle famiglie. Cominciando dai 131 cacciabombardieri F35 che abbiamo ordinato, totalmente inutili visto che per fortuna non abbiamo intenzione di dichiarare guerra a nessuno. Solo quelli costano 19 miliardi. E poi ci sono i 100 caccia Eurofighter Typhoon, per qualcosa come 10 miliardi di euro". Dettagliato il rapporto del senatore Idv Augusto di Stanislao, che ha preparato una mozione da inserire in manovra: "Vogliamo la cancellazione dei finanziamenti previsti per il 2012 per la produzione di 4 sommergibili, dei cacciabombardieri F35 e delle due fregate Orizzonte. Oltre al blocco della mini naja 'ViVi le forze armate' con un risparmio immediato di circa 8,5 milioni di euro”. Certo molti contratti sono già attivi e non sarebbe semplice sganciarsi. Soprattutto perché l’attuale ministro in carica, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ebbe un ruolo centrale nel firmare l’accordo tra Italia e Usa per la produzione degli F35. Troppo tardi ormai? “No. Tutto si può fare. Basta rinegoziare, decidere, dare un’impronta più forte a questa manovra che finisce addosso ai cittadini e lascia intatti i grandi interessi – insiste Donadi -. Infatti tra qualche giorno presenteremo un progetto organico di lotta all’evasione fiscale, punto su cui Monti si è dimostrato poco aggressivo. Insomma bisogna fare di più e molto meglio su diversi fronti. Se questa manovra resterà così com’è, noi non la voteremo di sicuro”.

l’Unità 7.12.11
Tagli. Con il decreto «salva Italia» dal 2014 scompare il sostegno diretto per i giornali politici
Fnsi. «Manovra poco equa. Ecco dove trovare le risorse per tutelare la libertà d’informazione»
Editoria, fondi in estinzione Pluralismo in pericolo
Cancellato il sostegno alla libertà d’informazione. Le risorse pubbliche saranno destinate a tutte le testate, compresi i grandi gruppi. A rischio sopravvivenza centinaia di giornali, da l’Unità a Il Secolo d’Italia
di Roberto Monteforte


Pesa e in modo drammatico anche sull’editoria il decreto «Salva Italia» di Mario Monti. Al di là delle esigenze di rigore e di moralizzazione, si annunciano tagli che poco hanno a che fare con l’equità. Che anzi finiranno per mettere seriamente in discussione il pluralismo informativo del nostro paese. Quello che è stato annunciato con l’articolo 29 comma 3 della manovra sarà praticamente la cancellazione dell’editoria di idee, cooperativa, non-profit e politica. Dal 1 ̊ gennaio rischiano di non essere più in edicola testate come l’Unità, Liberazione, Europa, Il Secolo d’Italia, la Padania, il Riformista, Il Manifesto, l’Avvenire, Terra, i settimanali diocesani, periodici come Rassegna sindacale, Salvagente o Conquiste del Lavoro, giornali editi da cooperative e tutti gli altri che sino ad oggi hanno avuto diritto ai finanziamenti «diretti» da parte dello Stato.
I NUOVI CRITERI
Ieri è arrivato secco l’annuncio. In nome del pareggio del bilancio i contributi diretti o meglio quel poco che resta una ventina di euro finiranno con la gestione 2013. Dalla fine del 2014 saranno operativi nuovi criteri per assegnare le risorse. L’altro annuncio è che dal prossimo 1 ̊ gennaio 1012 il governo rivedrà i criteri per l’assegnazione dei finanziamenti «diretti» con l’obiettivo «di risanare» e «selezionare in modo più rigoroso» l'accesso alle risorse. I risparmi saranno destinati nel 2014 «alla ristrutturazione delle aziende, già destinatarie della contribuzione diretta, all'innovazione tecnologica del settore, a contenere l'aumento del costo delle materie prime, all'informatizzazione della rete distributiva». Ma quali resisteranno sino al 2014? Il contributo pubblico sarà destinato a tutti, compresi i grandi gruppi editoriali. Scompare, così, quell’impegno pubblico a tutela del pluralismo e della libertà di informazione per chi non ha alle spalle potentati finanziari ed industriali, richiamato recentemente e in modo autorevole dallo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Sono oltre cento le testate che rischiano di morire per mancanza di quel «sostegno» che dovrebbe correggere un mercato nettamente sbilanciato. Rischiano di chiudere testate che esprimono spesso un punto di vista autonomo e critico sulla realtà. La linea del governo Monti pare così allineata con le posizioni della Fieg (la federazione editori) di cui l’attuale sottosegretario con la delega per
l’Editoria, Carlo Malinconico è stato sino a ieri presidente.
Che vi sia un’esigenza di «equità» anche nel mondo dei media lo ha sottolineato con una nota la Fnsi. «La manovra del Governo non ha cancellato le azioni pubbliche che rischiano di portare alla morte presto decine e decine di testate giornalistiche» osserva il sindacato giornalisti. Quale processo di innovazione si può attivare «senza risorse», visto che «nell'attesa centinaia di testate giornalistiche risulterebbero già chiuse, morte per asfissia e con essi cancellati migliaia di posti di lavoro»? «Le banche chiuderanno persino le linee di credito e andare avanti sarà impossibile. «Il Governo non può essere inerte, né limitarsi a registrare il disastro» afferma la Fnsi che indica al governo dove è possibile trovare le risorse «senza incidere sugli attuali capitoli di spesa dello Stato»: «cancellare i regali sulle frequenze tv facendone pagare il giusto valore in un'asta veramente aperta», attingere agli utili delle fondazioni bancarie, definire «un'aliquota di prelievo sulla pubblicità televisiva» per compensare le distorsioni del mercato. Così insiste non si perseguono equità e sviluppo, ma si favoriscono «solo i colossi e le concentrazioni». Parola chiare. Come quelle pronunciate dal segretario Cgil, Fulvio Fammoni che sottolinea come nella manovra ci sia «una pietra tombale sull'editoria». Ci si opporrà. Fammoni annuncia «la mobilitazione di tutto il mondo dell'editoria».

il Riformista 7.12.11
L’autonomia sindacale
e il governo Monti
di Emanuele Macaluso

qui


Corriere della Sera 7.12.11
Il regno dei raccomandati
L'Italia si fonda sulla demeritocrazia. Contano le amicizie, non i titoli
di Gian Antonio Stella


«Zefiro continuava ad esserci propizio con l'aiuto di un po' di Garbino, ma un altro giorno era passato senza scoprire terra. Il terzo giorno, all'alba delle mosche, cioè a dire sul mezzodì, apparve un'isola triangolare che somigliava moltissimo, per forma e posizione, alla Sicilia. Si chiamava Isola delle Parentele».
Così François Rabelais racconta, nel suo irresistibile Gargantua et Pantagruel, la scoperta di quell'isola in cui (...) tutti «erano parenti e insieme collegati, e se ne vantavano». Non è chiarissimo quanta malizia mise il grande scrittore francese nello scegliere come paragone la Sicilia. (...) Ridurre il fenomeno a una dimensione solo siciliana o meridionale (Clemente Mastella si spinse a teorizzare che «la raccomandazione è un peccato veniale che per molto tempo è servito a riequilibrare le ingiustizie Nord-Sud») sarebbe un errore.
Basti ricordare alcuni dei casi finiti sui giornali in questi anni. Come quello dell'avvocatessa padovana Elisabetta Casellati, berlusconiana della prima ora, che dopo essersi insediata come sottosegretario alla Sanità scelse quale capo della sua segreteria, con uno stipendio doppio rispetto a un funzionario del nono livello con quindici anni di anzianità, sua figlia Ludovica. Oppure quello, leggendario, di Claudio Regis, detto «Valvola» perché in gioventù era stato un provetto elettricista, piazzato dalla Lega Nord ai vertici dell'Enea, l'Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente dove arrivò a dare del somaro al premio Nobel Carlo Rubbia: «Nessuno mette in discussione le sue competenze sulle particelle, ma quando parla di ingegneria è un sonoro incompetente». Giudizio avventato, se non altro per uno che, nonostante il decreto di nomina di Letizia Moratti lo definisse «Ing.» e nonostante scrivesse sulla rivista online «Kosmos» articoli firmati «Claudio Regis, ingegnere Enea», non era affatto laureato. (...)
Né si può dire che si tratti di un fenomeno recente. (...) Ce lo ricordano meravigliosi aneddoti come quello attribuito al senese Enea Silvio Piccolomini, diventato papa nel 1458 con il nome di Pio II e subito assediato da questuanti affamati di ruoli e prebende: «Quand'ero solo Enea / nessun mi conoscea / ora che sono Pio / tutti mi chiaman zio».
Proprio per questo, però, servirebbero regole rigide. (...) Da noi, come spiega Antonio Merlo, direttore del dipartimento del Penn Institute for Economic Research a Filadelfia, la selezione si è via via specializzata nello scegliere sulla base non della preparazione ma della fedeltà: «L'Italia è una Repubblica fondata sulla mediocrità, una "mediocracy". Cioè un sistema che seleziona e promuove scientificamente una classe dirigente di basso profilo che non è funzionale al Paese ma al partito. Al leader. Al segretario».
E a mano a mano che i costi della politica si gonfiavano e la politica tracimava uscendo dai suoi alvei tradizionali per occupare ogni spazio della società, ogni ruolo è diventato una poltrona con cui «fare politica». (...) A che serve, ormai, il curriculum? A niente, rispondono casi clamorosi come quello (...) di Clemente Marconi, archeologo, dottorato di ricerca alla Normale, tra i massimi esperti mondiali di Magna Grecia, che inutilmente cercò per anni, come ha raccontato al «Giornale di Sicilia», di restare in patria: «Arrivavo sempre secondo».
Il giorno in cui prese possesso della cattedra vinta alla Columbia University di New York, ricevette una lettera dalla Regione Sicilia: «Gentile collega, siamo giunti alla conclusione che Lei non possiede i requisiti accademici per entrare nel nostro staff. La sua domanda per un posto da archeologo ai Beni culturali siciliani viene pertanto respinta, cordiali saluti».
Va da sé che quando Paolo Casicci e Alberto Fiorillo hanno deciso di scrivere Scurriculum. Viaggio nell'Italia della demeritocrazia, hanno trovato un mucchio di storie esemplari. Storie che dimostrano in modo inequivocabile come l'attuale sistema, ignobile e suicida, mortifichi i più bravi costringendoli spesso a regalare la loro intelligenza, la loro preparazione alle università, alle aziende, ai Paesi stranieri. E premia al contrario quanti hanno in tasca la tessera «giusta» o nel cellulare il telefono del deputato «giusto». I quali utilizzano sistematicamente le aziende statali o comunali «come sfogatoio per i trombati o premio per i fedelissimi». O ancora per agganciare vistose signorine dai curriculum estrosi.
Quanto possa essere perdente la diffusione di questi meccanismi perversi ormai è sotto gli occhi di tutti. Peggio, ne abbiamo già fatto esperienza in passato. Lo ricorda, ad esempio, Ludovico Incisa di Camerana nel libro Il grande esodo sulla storia delle migrazioni italiane nel mondo. Dove si racconta che, grazie alle imprese pionieristiche del padovano Giovanni Battista Belzoni e all'amore per l'Italia di un viceré d'origine albanese, il chedivè Mohammed Ali, l'Egitto, in coincidenza con il Risorgimento, spalancò le porte agli italiani: «Durante il suo regno (1801-1849) e quello dei suoi successori, Abbas e Said (1849-1863), l'amministrazione interna è in gran parte affidata agli italiani; italiana è egualmente l'amministrazione delle poste, create su iniziativa italiana, dei servizi sanitari, della sicurezza pubblica...». (...) E insomma «la lingua italiana era così diffusa nel Paese che poteva considerarsi quale la sua seconda lingua tanto che, fino a tutto il regno di Mohammed Ali, la nostra era la lingua diplomatica dell'Egitto e la sola usata dal governo egiziano nei rapporti internazionali».
Un'occasione unica, straordinaria, irripetibile per il nostro ruolo nel Mediterraneo. Sapete come fu buttata via? Lo scrive nel 1905 Giuseppe Salvago Raggi, agente diplomatico presso il sultano e console generale al Cairo... (...) «L'Agenzia d'Italia oppressa dalle numerosissime raccomandazioni rinunciò in pratica a ottener buoni impieghi per gli italiani e si contentò di impiegarne molti. In tal modo si venne applicando la regola che le alte posizioni vennero occupate da francesi (...), da alcuni austriaci, da pochi inglesi e da pochissimi tedeschi, quelle più umili da italiani e le infime da greci». (...)
Quanto lo stesso errore possa infettare la società italiana, rendendola sempre più debole e incapace di stare al passo di un mondo che cambia a velocità immensamente superiore alla nostra, è dimostrato da questo libro passo dopo passo. A partire dalla contraddizione fra le parole, le promesse, i proclami, e la pratica quotidiana. Valga per tutti il caso di Massimo Zennaro, il portavoce del ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini nominato direttore della Comunicazione a viale Trastevere e autore dello stupefacente comunicato che rivendicava al merito della sua datrice di lavoro, dopo la scoperta della velocità dei neutrini, la costruzione di un tunnel di settecento chilometri dal Gran Sasso a Ginevra. Sciocchezza planetaria liquidata da migliaia di internauti con una battuta: settecento chilometri e neanche un autogrill!

l’Unità 7.12.11
Reparti antisommossa entrano di primo mattino nella capitale
In cella quasi tutti i leader dell’opposizione extraparlamentare
La piazza sfida Putin Mosca blindata centinaia di arresti
Putin promette cambiamenti ma manda in piazza gli agenti antisommossa. Ancora proteste contro il voto truccato. Truppe del ministero dell’Interno davanti alla sede del governo, dei servizi segreti, al Cremlino
di Marina Mastroluca


La sede del governo, la Casa Bianca, è presidiata dagli Omon, gli agenti antisommossa. Tutta l’area tra la Lubianka, la sede dei servizi segreti fino al Cremlino è sotto chiave, tenuta d’occhio dalle truppe del ministero degli interni. Ci sono anche le forze speciali della divisione d’élite Dzertzhinski, chiamate a garantire l’ordine pubblico a Mosca. Alla stampa Putin assicura che saprà tener conto della richiesta di modernizzazione del Paese filtrata dal voto. Promette di lottare contro la corruzione la Russia è al 143 ̊ posto nella lista di Transparency International, nell’area opaca del pianeta. Il premier prefigura anche cambiamenti alla compagine di governo dopo le presidenziali: cadranno teste tra i governatori, senza però «distruggere la spina dorsale dell’amministrazione». Aggiustamenti a venire, ma la prima risposta alla piazza e al web che protestano contro la frode elettorale è nelle autocolonne di agenti che al mattino presto convergono verso la capitale, a dispetto delle smentite del ministero dell’interno. «Nessuna forza supplementare», dicono, tutto è sotto controllo.
Terzo giorno di proteste, botte e di arresti, a Mosca come a San Pietroburgo. «La rivoluzione continua? Sì!», è il nome del gruppo che su Facebook ieri chiamava a raccolta nella piazza Triumfalmaya, dopo le migliaia riunite lunedì sera a Chistie Prudi. Sfidando i divieti e l’irresistibile impulso del regime a riprendersi la piazza con le bandiere dei suoi sovrastati numericamente nelle prime proteste e i manganelli degli Omon. «Coloro che cercheranno di organizzare qualsiasi evento non autorizzato devono avere ben chiaro che verranno arrestati», avverte una nota della polizia.
Sceso al di sotto della soglia anche psicologica del 50%, Putin non si è mostrato per niente disposto a concedere margine alle manifestazioni di dissenso. Dopo quelli di domenica e lunedì, centinaia di arresti anche ieri, i leader dei principali gruppi dell’opposizione extraparlamentare dietro alle sbarre. Quindici giorni di carcere al leader di Solidarnost Ilya Yashin e al popolare blogger Aleksei Navalny, arrestato anche il capo della ong Memorial Oleg Orlov e uno dei cofondatori di Parnas, Boris Nemtsov, ex vicepremier di Eltsin. «L’hanno preso quando era ancora nel sottopassaggio», prima ancora che arrivasse in piazza, denuncia su Twitter il direttore di radio Echo di Mosca, Aleksei Venediktov. Arrestati lo scrittore Eduard Limonov e il leader del Partito riformatore filo-occidentale Iabloko, Serghei Mitrokhin.
VOLANO LE MOLOTOV
In piazza ci sono anche i Nashi e sostenitori di Russia Unita, a pochi metri di distanza. Tra la folla degli oppositori scoppiano due molotov, non si sa chi le abbia lanciate né se ci siano feriti. Da una parte si grida «Russia, Russia, Putin», dall’altra «Russia senza Putin». È Mosca, ma anche San Pietroburgo, Murmansk, Samara, Ufa e Rostov. A far montare la rabbia i video che continuano a passare sul web. Come quello di Duda, che ha ripreso un presidente di seggio mentre compilava schede a favore di Russia Unita e lo ha postato su YouTube. Osservatore improvvisato, come altri che in queste ore hanno fatto la differenza denunciando ciò che vedevano: non alle autorità, ma alla platea di Internet.
Medvedev ha chiesto di far luce sulle irregolarità, negando però che i video dimostrino i brogli. Il presidente ha annunciato che incontrerà «i leader dei partiti parlamentari ed extraparlamentari per discutere degli esiti del voto». Ma Medvedev ha respinto le critiche dell’Osce e della segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, che ha definito le elezioni «né libere né giuste». Il funzionamento del sistema politico ha detto Medvedev «è affare di competenza dei russi». Chissà se anche di quelli che protestano in piazza.

Repubblica 7.12.11
L’accusa di Gorbaciov a Putin "Elezioni truccate, vanno rifatte"
L’ex presidente teme nuove rivolte: "La gente è esasperata"
di Fiammetta Cucurnia


«Al punto in cui siamo c´è un´unica soluzione, che è anche il mio consiglio: annullare le elezioni e indire nuove consultazioni». Due giorni dopo il voto più contestato dell´era di Putin, Mikhail Gorbaciov dà voce al disagio dei russi e ci spiega perché il Cremlino, obtorto collo, deve fare un passo indietro. «È un´onda che cresce. Sempre più persone nel Paese non credono ai risultati elettorali. Non prestare attenzione all´opinione pubblica discredita il potere. E destabilizza la società. Il governo deve riconoscere che ci sono stati falsificazioni e brogli massicci. Dunque i risultati non riflettono la volontà degli elettori».
Mikhail Sergheevic, non è certo la prima volta che accade in Russia. Perché in questo caso la reazione è stata così violenta?
«Sì, certo, come diceva Stalin, quando si vota, l´importante è contare. Ma il mondo è cambiato, e anche la Russia. I giornali scrivono, la gente parla. Sono usciti articoli, ci sono state trasmissioni radio. Faccio un solo esempio: è stato annunciato che la Commissione elettorale renderà pubblici i risultati definitivi del voto sabato prossimo, il 10 dicembre, sebbene ci sia tempo fino al 19. Vuol dire che hanno fretta. Ma dopo l´esplosione di sconcerto, di critiche e di proteste durante la dimostrazione che si tenuta ieri ai Cistje Prudy, così numerosa come non si vedeva da tanto tempo, è divenuto evidente che cresce il dissenso per i metodi utilizzati nel conteggio, a favore di Russia Unita. Si è fatta strada la convinzione, e questo dicono i dimostranti, che il partito di Putin non sia andato oltre al 25 per cento, altro che 50. È una cosa molto seria».
Lei crede che abbiano ragione?
«Io credo che sia la verità. Guardate Mosca. Gli exit poll dell´Istituto di studi sociali e i collaboratori della commissione elettorale dicono che Russia Unita ha raccolto meno del 28 per cento, superando i comunisti appena del 3-5 per cento. Russia Giusta e Jabloko, avrebbero ottenuto il 17 e il 15, rispettivamente. I dati vengono da un giornale serio e credibile come Vedomosti. Sono riusciti a mettere le mani sui registri dello spoglio in due quartieri popolari di Mosca: nel primo Russia Unita ha avuto il 24,65 per cento; nel secondo, poco più del 31. Perfino nel seggio Gagarin dove ha voltato Putin, Russia Unita ha preso appena il 23,7, meno del partito comunista che ha avuto più del 26 per cento. E tuttavia il presidente della Commissione elettorale di Mosca, Gorbunov, ha dichiarato ai giornalisti che, ultimato lo spoglio del 97 per cento dei seggi, Russia Unita si attesta sul 46,5 per cento. Lo stesso è accaduto a Pietroburgo. Di conseguenza, tutti gli altri partiti risultano abbassati. I dati elettorali sono stati cuciti sullo schema desiderato. È un´indecenza».
Lei ha detto che il Cremlino è arrivato sulla linea rossa.
«Si, è giunto su quella frontiera che non va mai varcata».
Teme che questa situazione possa spingere il Paese alla rivolta?
«Il momento è grave. Perfino un politico serio come Ghennadij Gudkov, che ha lavorato a lungo negli organi di Sicurezza, ha detto: "Non ho mai visto elezioni così sporche". Ma lo scontro non va radicalizzato, gli animi non vanno infuocati. Al contrario, sono convinto che la scelta giusta, assolutamente necessaria, sia che il presidente e il primo ministro prendano l´iniziativa per mantenere tutto dentro il processo democratico. Abbiamo di fronte difficili decisioni da prendere, grandi e inevitabili cambiamenti, e non lo si può fare senza o contro i cittadini. Un inganno come quello di oggi distrugge la fiducia nel governo. Dunque io penso che sia necessario annullare questo voto e indire una nuova consultazione».
Putin non sembra però incamminarsi per questa strada: proprio oggi ha ringraziato per la vittoria, ha detto che farà un rimpasto di governo, e prenderà misure per la lotta alla corruzione.
«Questa è la mia opinione. E il mio consiglio».
Intanto Mosca è piena di polizia e di soldati.
«È così. Vuol dire che non sono poi così tranquilli come vorrebbero darci ad intendere».

Corriere della Sera 7.12.11
Socialismo senza rivoluzione
Gaetano Salvemini non abbandonò mai l'obiettivo di cancellare la miseria con un'azione riformatrice
di Gaetano Pecora


Nel 1954, tre anni prima della fine, Gaetano Salvemini si provò a incastonare tutta la sua opera precedente in un breve giro di frasi. E fu allora che l'ideale socialista, da molti dato per scomparso, ricomparve, e più caro ancora perché accompagnato dal sentimento di non averlo mai perduto. «Sono — disse — un socialista democratico all'antica».
«Socialismo» (e peggio se «antico») è però di quelle parole fosforescenti che spiegano tutto e non dicono niente. Per cui bisogna innanzitutto fermare quell'unico tra i mille possibili socialismi che Salvemini carezzava (contropelo) dei suoi favori. Ora, per andare subito al centro delle cose, diremo così: il socialismo di Salvemini, ancorché adattato alle condizioni italiane, era lo stesso socialismo affermatosi con la socialdemocrazia della Seconda Internazionale, fondata nel 1889. Da lì gli venivano molti insegnamenti. Gli veniva, intanto, l'opzione riformistica e quindi l'idea che il riscatto degli umili dovesse rifluire nell'alveo di una democrazia compiuta e moderna, che per essere moderna e compiuta doveva di necessità estendere il diritto di voto a tutti, ma proprio a tutti, compresi evidentemente gli analfabeti. Donde la campagna per il suffragio universale che lo urtò ferocissimamente con molti dei suoi stessi compagni di partito, troppo uncinati alle loro piccole comodità per lasciare che pure i «trogloditi» del Mezzogiorno decidessero dei verdetti elettorali.
Sempre l'impostazione «secondointernazionalistica» assisteva Salvemini in una convinzione che gli si era fitta in mente assai presto e che lo accompagnò per sempre; prima, durante e dopo la sua militanza nel Partito socialista; lo confortava cioè nella convinzione che i ritrovati democratici fossero altrettanti strumenti asettici, neutrali, che proprio perché neutrali riuscivano buoni per qualunque fine, non ultimo l'abolizione del mercato e della proprietà privata: «Non vi è alcuna necessità — scriveva nel 1937 — di supporre che la democrazia politica sia logicamente congiunta con l'iniziativa privata».
Ancora nel 1949, nell'introduzione a L'età giolittiana di William Salomone, ancora lì Salvemini martellava sul punto: «Si può concepire un regime democratico… anche senza la libera concorrenza economica». Ma dalla sapienza socialdemocratica egli derivava soprattutto una certa concezione della storia, e precisamente quella concezione secondo cui alle vicende umane presiede la legge della continuità, per cui il socialismo non sarebbe stato, non avrebbe potuto essere, il conato di una volontà rivoluzionaria, intesa la rivoluzione come l'atto (uno solo) risolutivo e conclusivo che tronca di netto col mondo precedente: socialismo sì, come precisava Salvemini nel 1944, ma socialismo che si produce per accumulo di riforme progressive. Rivolgendosi all'esecutivo di un partito che si voleva «rivoluzionario», Salvemini in quell'occasione proseguiva così: «Voi intendete lavorare a un rinnovamento sociale totale, cioè all'abolizione del regime capitalista. Nello stesso tempo, voi riconoscete che la lotta per quel rinnovamento deve essere condotta da uomini liberi col metodo della libertà». Tanto posto, veniva all'obiezione: «Io non vedo perché la politica diretta a promuovere una trasformazione totale attraverso un processo graduale debba essere chiamata "rivoluzionaria"… Voi non avete nessun bisogno di chiamarvi rivoluzionari. Dovrebbe bastare di chiamarsi "socialisti"».
Con il che ritorna l'antico, l'antica idea che gli fu diletta fin dalla giovinezza, l'idea cioè che nessun obiettivo fosse interdetto ai socialisti purché conseguito gradualmente e col metodo della democrazia. Ritorna l'antico e rincula il moderno, dove all'opposto si dà per acquisito che il socialismo, quando voglia rimanere democratico, può proporsi alcune finalità, non altre; che tra queste finalità inconciliabili con la democrazia c'è proprio il «rinnovamento sociale totale». Quando invece, sotto il fungo del vecchio, spunta il nuovo, come cambia colore il socialismo di Salvemini! Da questo punto di vista fa testo una liberissima lettera a una amica torinese dove egli si confida, e confidandosi procura al socialismo quel particolare fermento che è proprio il respiro delle cose vive. «Io — scriveva — ho raggiunto gli 82 anni; da sessant'anni sento parlare di rivoluzione; ma una rivoluzione non l'ho mai vista. Invece ho visto una evoluzione: lenta, frammentaria, continuamente interrotta, eppure visibile. C'è oggi in Italia meno miseria che nel 1890, quando io avevo diciassette anni. Queste conquiste sono state l'opera di persone come Lei e — se mi consente di aggiungere — come me, che abbiamo sofferto all'idea di coloro che stavano peggio di noi. Nel 1947, quando tornai dall'America dopo 22 anni di assenza, mi misi a conversare con una donna di servizio, intelligentissima e squisitamente buona. Lei mi disse che era stata sempre socialista e aveva sessant'anni. Le domandai: "Perché sei stata sempre socialista?". Mi rispose: "Perché penso che ci deve essere un po' di bene per tutti". Questo, cara amica, è il socialismo».
Dal «rinnovamento totale» a un «po' di bene per tutti»: la distanza è tanta! Ecco: dall'inizio alla fine Salvemini fu conteso da entrambe le aspirazioni e a tutte e due disse di sì. Sicché, volendo tornare da dove eravamo partiti, diremo che egli aveva ragione quando a tarda età ci tenne a dirsi «socialista riformista»: questa è la verità, la verità vera. Con una postilla: che sotto la copertura di quell'unico lemma — socialismo, appunto — egli riuniva in unità due movimenti, l'antico e il moderno, che non fanno centro l'uno nell'altro. E allora: socialista Salvemini? Senz'altro. E fino all'ultimo. Ma un socialista un po' particolare: antico e moderno insieme. Un socialista percorso da sensibilità moderna e un moderno che aveva ancora attivo il ricordo dell'antico. Questo fu Salvemini. Noi non sappiamo se il moderno fosse più grande dell'antico. Certo ce lo sentiamo più vicino.

Corriere della Sera 7.12.11
In prima linea per il riscatto del Mezzogiorno


Nell'antologia La sinistra e la questione meridionale, che il «Corriere della Sera» manda in edicola domani con prefazione di Giovanni Russo, si riflette l'impegno di Gaetano Salvemini (1873-1957) per il riscatto del Sud, forse la più importante battaglia da lui intrapresa nella sua lunga attività politica. Si tratta della sesta uscita della collana «Laicicattolici. I maestri del pensiero democratico», in vendita ogni giovedì con il «Corriere della Sera» al prezzo di 1,50 più il costo del quotidiano. Nato a Molfetta e poi emigrato a Firenze, dove si afferma come valido studioso di storia, Salvemini aderisce al Partito socialista e cerca di spostarlo su posizioni riformatrici più sensibili ai problemi del Mezzogiorno. Esige che il Psi dia la priorità a temi come il suffragio universale, lo sviluppo delle autonomie locali, la riforma agraria. Ma non trova ascolto e alla fine lascia il partito per continuare il suo impegno attraverso la rivista «L'Unità». Sarà favorevole all'ingresso dell'Italia nella Prima guerra mondiale e poi combatterà a viso aperto il fascismo, che lo costringerà all'esilio. Ma ai problemi del Sud continuerà a dedicare attenzione, anche dopo il ritorno in patria, in un'Italia repubblicana di cui però non sarà mai soddisfatto. Nella serie del «Corriere» questo volume è seguito da un'opera di un altro riformista, il filosofo torinese Norberto Bobbio, del quale il 15 dicembre esce Quale socialismo?, con prefazione di Michele Salvati.

Repubblica 7.12.11
Le conseguenze nel dibattito pubblico della polemica sul postmodernismo
Realista e "impegnato" Ecco il nuovo filosofo
Spesso oggi ci troviamo nella situazione descritta da Bertrand Russell: "Quello che è buono non è originale e quello che è originale non è buono"
di Franca D’Agostini


«Quando si sentono i filosofi parlare di realtà – scriveva Kierkegaard – è come quando nella vetrina di un rigattiere si vede una vecchia insegna con su scritto "qui si lava": sarebbe inutile portarci i propri panni a lavare». In effetti, le dispute su realismo e antirealismo in filosofia assomigliano spesso a inutili controversie tra chi insiste a portare i panni a lavare dal rigattiere, e chi dopo averceli portati si lamenta di non averli indietro puliti. A uno sguardo superficiale, questo sembra essere anche il caso dell´attuale disputa su realisti e antirealisti, postmoderni e post-postmoderni, di cui si è discusso alla Fondazione Rosselli, proseguendo una serie di incontri, incominciata a New York questo autunno e che proseguirà a Bonn nella prossima primavera.
In realtà, come i contributi apparsi di recente sulle pagine di Repubblica e altrove stanno mostrando, la questione non è precisamente così. C´è qualcosa di più. Ma che cosa c´è di più? Ha scritto Diego Marconi: è la "fine della ricreazione" per i postmodernisti, che hanno maltrattato molto il concetto di realtà. Un po´ diversa è la tesi di Maurizio Ferraris, a cui si deve il lancio della discussione: si tratta di decidere tra il costruzionismo forte, quello di chi dice: tutti gli oggetti di cui parliamo sono "costruiti" dai nostri schemi concettuali, la Luna come i gatti, le equazioni di sesto grado come le nazioni e le emozioni; e costruzionismo debole, che dice: no, alcuni oggetti ci sono, ed è folle non riconoscerlo. Ancora diversa è la tesi di Mario De Caro: si tratta di rendere pubbliche le discussioni sul realismo che da sempre occupano i filosofi, e che di recente hanno dato buoni frutti (specie nell´ambito della filosofia analitica), perché tali discussioni sono di utilità comune, per i giuristi, i politici, gli scienziati.
Certamente, nell´intuizione che Ferraris ha espresso in termini di "new realism" ci sono tutte queste diverse componenti. Ma c´è anche, io credo, la proposta di un ripensamento della filosofia rispetto alla "sfera pubblica", tema che peraltro era al centro delle filosofie europee degli anni Ottanta, tra postmoderno, ermeneutica, pensiero debole, da cui il nuovo realismo vuole prendere le distanze. Più semplicemente, ci si chiede: a che cosa serve la filosofia in questo tempo di confusione post-post, in cui ci troviamo per così dire non "dopo Nietzsche e Heidegger", come ipotizzava Vattimo negli anni ottanta, ma piuttosto dopo il dopo, ovvero: dopo tutto? Che cosa significa pensare (leggasi: a che cosa serve la filosofia), dopo tutto?
Chi si pone oggi la questione del nuovo realismo è qualcuno che in qualche modo si misura con il problema dell´utilità della filosofia rispetto alla cultura, alla politica, alla società, e in questo senso, nella discussione entra anche, come ha suggerito Armando Massarenti, la discussione su "analitici e continentali", non perché i primi sarebbero realisti (o costruzionisti deboli) e i secondi antirealisti (o costruzionisti forti) – realismi e antirealismi di vario tipo sono sparsi un po´ ovunque – ma perché i primi sono allergici all´uso pubblico della filosofia, e i secondi sono invece afflitti da un´esagerata attenzione ai media e alla politica.
Ma che cosa c´entra il realismo, allora? Qui il suggerimento di Kierkegaard ci è di aiuto, e possiamo esprimerlo così: in filosofia non si tratta della realtà, ma del concetto di realtà. Non della realtà, ma dell´insegna "realtà" collocata nel polveroso negozio dei concetti filosofici. Come ha chiarito bene Roberto Casati nella sua Prima lezione di filosofia (Laterza, 2011), la filosofia è negoziazione concettuale. Si tratta di proporre nuove definizioni di concetti più o meno antichi, o riattivare e rivedere vecchie definizioni, sulla base delle esigenze che la scienza, la politica, la vita individuale e pubblica pongono al pensiero. Si tratta allora di rinegoziare il concetto di realtà, il quale da tempo, nei nostri confronti verbali, non sembra più adattarsi al quadro genericamente scettico-nichilista che ispirava la "ricreazione" postmoderna.
Personalmente, cerco di sostenere una posizione realista piuttosto radicale. L´operazione comunque non è facile, specie quando si ha a che fare con concetti così vasti e vaghi. Mi limiterei soltanto a segnalare qualche rischio (anche a me stessa). Il primo è quello indicato da Bertrand Russell, che commentando il lavoro di un amico disse: «c´è del buono e dell´originale, ma quel che è originale non è buono, e quel che è buono non è originale». Molte negoziazioni filosofiche di questi tempi corrispondono al caso: nella nostra situazione iper-comunicativa il giudizio sull´originalità è più difficile, per cui minestre riscaldatissime sembrano essere l´ultimo grido. Ma non c´è da scoraggiarsi: una buona minestra riscaldata è comunque una buona minestra. Piuttosto il problema è quando il vecchio che si spaccia per nuovo è peggio della copia, o ne costituisce una versione impasticciata e inutile.
E qui si presenta allora un altro rischio, che consiste nel cedere alla negoziazione di tipo parassitario, e oppositivo. Ridefinire i concetti, come è noto almeno dall´epoca del Filebo platonico (16b-d), non consiste nel contrapporre posizioni generiche: realismo contro postmodernismo, analitici contro continentali, ecc. Facendo ciò si dà luogo alla solita situazione per cui a un certo punto qualcuno propone la terza via, e si precipita nella noia. La buona filosofia, a quanto ne so, ha molti difetti, è a volte antipatica, difficile, astrusa, ma non è mai noiosa.

Repubblica 7.12.11
Psico Campana
"Ladri, insulsi, lecchini" un poeta contro i letterati
Esce il carteggio dell´artista che contiene lettere e giudizi sugli intellettuali dell´epoca Da Palazzeschi a Papini fino a Soffici
di Paolo Mauri


Il volume prova ad aggiungere un tassello alla sua tormentata biografia
Nell´opera non mancano gli inediti, come le missive del fratello

«Era matto e solo matto, è stato scambiato da molti per un vero poeta». Questo giudizio senza appello su Dino Campana e sulla sua poesia è firmato Umberto Saba. Piero Santi, uno scrittore fiorentino che lavorava alla radio, una volta con Saba ci litigò. Campana, gli disse, «è il maggior poeta italiano moderno». Era un colpo basso, una classifica improvvisata per umiliare Saba. Si sa che i poeti o si amano molto o non si amano affatto. Campana, per esempio, detestava Palazzeschi: «Questa lettera è insulsa come una poesia di Palazzeschi», scrisse al giornalista Aldo Orlandi nel novembre del ´17, ma già altre volte era stato velenoso. In una letteraccia del maggio 1913 scritta su carta da pacchi color lilla indirizzata a Papini dopo la lettura di un numero di Lacerba (la rivista che Papini dirigeva) lo invitava a licenziare l´intera redazione. «Il vostro giornale è monotono, molto monotono: l´immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici» e lo invitava a chiedere qualcosa a Marinetti «che è un ingegno superiore» non senza avergli ricordato di aver inviato al giornale un suo «bozzetto meraviglioso di un´arte veramente nuova» cestinato certo per invidia. Ma poche righe prima aveva scritto: «La vostra speranza sia: fondare l´alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze delle città elettriche, sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze». Del resto scrivendo a Emilio Cecchi nel marzo del 1916, Campana riassume la vicenda della perdita del prezioso manoscritto, per cui aveva minacciato di accoltellare i responsabili, e dichiara: «Posso provare che Papini e Soffici sono ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto. Questo l´ho scritto a loro 4 o 5 volte e parlando di loro ordinariamente non uso mai altri termini». E Cecchi replica: «Chi ha avvicinato Papini è sempre rimasto colpito… dalla commercialità e dal cinismo del suo tratto».
Non le mandava a dire Dino Campana. Ma bisogna leggere il Carteggio 1903-1931 ora pubblicato da Polistampa col titolo Lettere di un povero diavolo (pagg. 496, euro 30) per rendersi conto dell´intelligenza e della irrequietezza del poeta di Marradi. Un caso davvero singolare, che il curatore del volume, Gabriel Cacho Millet, studia da oltre trent´anni senza nulla trascurare, neppure il segnale o l´interlocutore più remoto, nella speranza di aggiungere un tassello ad una biografia tormentata e straordinaria, al punto da sembrare, certe volte, un´invenzione decadente. D´altra parte Carlo Pariani, lo psichiatra che ebbe in cura Campana nel manicomio di Castel Pulci fu indotto anche lui a scrivere, come si sa, una biografia "non romanzata" del poeta, frutto dei colloqui avuti con il suo non facile paziente, che del resto soffriva da tempo di crisi nervose e di eccitazione. Scrivendo al direttore del manicomio di Imola, dove Campana era stato ricoverato nel 1906, il padre, il maestro elementare Giovanni Campana, dopo aver ricordato d´essere ricorso anche lui alle sue cure per disturbi nevrastenici, raccontava che il figlio Dino aveva cominciato fin dal 1900 «a dare prova d´impulsività brutale, morbosa» specialmente nei confronti della madre. Il direttore del manicomio, Raffaele Brugia, rispose al padre, dicendogli che dopo due mesi di assidua osservazione gli confermava che Dino è "uno psicopatico grave" e tuttavia acconsentiva a dimetterlo su richiesta del padre stesso che però doveva assumersi ogni responsabilità su quello che poteva accadere. Molte di queste lettere si conoscevano e mancano qui le lettere del bollente carteggio d´amore con Sibilla Aleramo, più volte ristampato. Ma vi sono , per esempio, alcune lettere inedite degli anni Cinquanta di Manlio Campana, il fratello minore di Dino, dalle quali veniamo a sapere che quando Dino era andato in Argentina, doveva lavorare presso una farmacia, essendo studente del quarto anno in quella disciplina. Appena sbarcato, però, fece perdere le sue tracce e il farmacista scrisse al padre di Dino, rammaricandosi dell´accaduto. Una prova in più che testimonia la veridicità di quel viaggio che a qualcuno (per esempio Ungaretti) era sembrato un´invenzione.
Le lettere consentono anche di seguire l´attività letteraria di Dino, presto entrato in contatto con Mario Novaro, direttore della Riviera Ligure, una rivista liberty nata in seno all´industria dell´olio Sasso e da foglio pubblicitario presto trasformata in rivista di letteratura. Rispetto a quasi tutte le riviste italiane, la Riviera aveva un pregio: pagava e dunque poté presto vantare collaboratori illustri. Ma Novaro, che era anche lui poeta, come il fratello Angiolo Silvio, era aperto alle esperienze dei giovani e dunque Campana approdò su quelle pagine, scrivendo anche lettere al signor Geribò. Geribò era un´invenzione di Novaro: per togliersi d´impiccio s´era inventato un amministratore con questo nome, ma ad un certo punto dichiarò che forse era meglio farlo morire. A Novaro, Campana chiedeva anche aiuto per andarsene in Francia. L´andar via, l´altrove sarà sempre un segno distintivo del vagabondare del poeta: lo troviamo a Genova, in Svizzera, in Francia, in Argentina… Sapeva diverse lingue e in più occasioni si era offerto come traduttore. Non ebbe, neppure all´estero, vita facile: fu arrestato, messo in carcere e in manicomio.
C´è il rischio, qualcuno obietterà, che tutto questo materiale biografico faccia prevalere il personaggio Campana sul poeta Campana, ma è un rischio che ormai corriamo da un secolo buono. Parecchi anni fa, era il 1984, Sebastiano Vassalli scrisse un romanzo, La notte della cometa, ispirato a Dino Campana, «il mio babbo matto». «Sono quattordici anni», scriveva Vassalli, «che ricerco la verità della vita di Dino Campana». Compito non facile: e lo sanno i suoi lettori. Nel 1960 Enrico Falqui pubblicò presso Vallecchi gli inediti del Taccuinetto faentino che erano stati ritrovati dal fratello Manlio e trascritti da Domenico De Robertis. All´inizio degli anni Settanta dalla carte Soffici saltò fuori il famoso manoscritto dei Canti Orfici perduto mezzo secolo prima, poi ricostruito a memoria e variato da Campana stesso per la pubblicazione. Insomma, con Campana il conto è sempre aperto e ogni volta lo si rilegge con doloroso piacere.

La Stampa 7.12.11
I wikileaks dell’epoca per capire Pearl Harbor
70 anni fa l’attacco giapponese. L’intelligence aveva lanciato l’allarme che non fu raccolto. Un libro analizza i documenti
di Umbero Gentiloni




La flotta Usa fu decimata. A quel punto l’ingresso in guerra fu inevitabile
Craig Shirley, già biografo di Reagan, cerca nuove chiavi di interpretazione

Una fotografia della base di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941: l’attacco giapponese fu concepito e guidato dall'ammiraglio Isoroku Yamamoto che sperava di distruggere la flotta americana nel Pacifico. L'operazione fu un successo, limitato solo dal mancato affondamento delle portaerei, poiché in poco più di un'ora i 350 aerei partiti dalle portaerei giapponesi affondarono 4 delle 8 corazzate americane. L’attacco avvenne senza una preventiva dichiarazione di guerra
Difficile di questi tempi immaginare che un documento o una fonte di archivio possano modificare la percezione di eventi del passato. Nell’era della rete e di Wikileaks ogni traccia sembra schiacciarci inesorabilmente su un presente senza tempo, che ci sovrasta e ci condiziona. Figuriamoci se l’argomento è la seconda guerra mondiale, alla vigilia dei settanta anni che ci separano dall’attacco giapponese nella base di Pearl Harbor. Il libro di Craig Shirley, December 1941: 31 Days that Changed America and Saved the World fresco di stampa dà conto di una mole di documentazione utile a ricostruire parte del contesto di allora, con particolare attenzione al significato di quel tornante per la storia degli Usa e per i futuri equilibri del pianeta. I termini del lungo titolo sono intercambiabili: i giorni che salvarono l’America cambiando il mondo; questo il lascito rinnovato dall’anniversario odierno. Tra le tesi del biografo di Ronald Reagan spicca il contenuto delle analisi di intelligence che anticipano il precipitare della situazione verso l’attacco giapponese; un segnale di allerta non raccolto. Le voci si rincorrono nei giorni che precedono il 7 dicembre 1941. Il testo di un Memorandum declassificato porta la data del 4 dicembre; venti pagine dall' Office for Naval Information alla Casa Bianca e ai comandi militari. Semplice il contenuto, aggressione molto vicina, alzare il livello di attenzione in tre aree: costa occidentale, canale di Panama e arcipelago delle isole Hawaii. Non una voce isolata, ma la spia di segnali e indicazioni che attraversano in modo contraddittorio e disordinato la fase di avvicinamento degli Usa al secondo conflitto mondiale.
Non deve sfuggire la consapevolezza che dietro ogni documento ci sono persone, funzionari inseriti dentro ingranaggi complessi, articolati su diversi livelli. Non ha senso ricondurre il quadro a semplificazioni di comodo del tipo «gli Stati Uniti pensano o sostengono che» così come sarebbe riduttivo e fuorviante estrapolare il contenuto dal contenitore, nel nostro caso il testo di intelligence dal momento nel quale è stato pensato e scritto in una rete di vincoli e relazioni ad esso sottese. Alcuni elementi di giudizio sono parte della riflessione storiografica degli ultimi anni e collocano l’attacco alle isole Hawaii tra gli episodi chiave del conflitto, non tanto per l’entità dell’operazione militare quanto per gli effetti a catena sui protagonisti. Le alleanze si allargano modificandosi: l’asse Roma Berlino diventa progressivamente un soggetto a tre, gli Usa superano a fatica le ultime resistenze isolazioniste per impegnarsi militarmente e soprattutto politicamente sugli assetti possibili del sistemainternazionale. È l’inizio di un processo irreversibile che segnerà il lungo dopoguerra; l’ampliamento dei confini e delle coordinate geopolitiche nel mondo globalizzato unito a un sensibile spostamento dell’asse delle priorità strategiche verso il Pacifico. Uno degli effetti più profondi della guerra totale, una delle eredità più attuali nel mondo post guerra fredda.
Il documento di Intelligence (Fbi) mette Roosevelt in allerta, o pensa di poterlo fare con pagine di allarmata previsione; non si poteva evitare l’esito del confronto, forse solo limitare il peso dell’effetto sorpresa. Ma come sappiamo per altre situazioni, l’intelligence non condiziona o vincola il processo decisionale e in molti casi l’eccesso di studi, missioni segrete e informazioni rischia di produrre un’assuefazione inconsapevole. Nessun rimprovero tardivo al Presidente Roosevelt. Lo sforzo di un’analisi seria è quello che mira a ricostruire un mosaico di posizioni e condizionamenti in modo che i protagonisti possano esser valutati nel vivo degli eventi. Da qui la centralità dell'attacco giapponese, fino a condizionare la stessa periodizzazione della guerra e di buona parte del secolo scorso: se ci spostiamo verso il teatro del fronte sul Pacifico cambiano i punti di vista e le prospettive di riferimento; l’atto iniziale non è tanto riconducibile all'aggressione della Polonia del settembre 1939, quanto alle premesse fondanti dell' espansionismo nipponico degli Anni 30. La nuova documentazione è parte di un processo conoscitivo, aiuta a sostenere e motivare gli interrogativi di oggi mettendo da parte la moda delle scorciatoie scandalistiche privilegiando un cammino di analisi e comprensione del passato.

Corriere della Sera 7.12.11
L'arte eterna del potere temporale
La strumentalizzazione politica delle opere antiche scandisce la storia


di Francesca Bonazzoli

Ansioso di ricevere da Roma i marmi antichi dei Borghese, il direttore dei musei imperiali Vivant Denon ricordava al generale Bonaparte che doveva essere «il primo sovrano d'Europa» e che «il secolo di Napoleone deve essere il secolo delle belle arti come è quello degli eroi». Denon non faceva altro che riproporre l'uso dell'antico come prestigiosa patente di legittimazione del potere già praticato dagli stessi imperatori romani che importavano da Atene le statue greche e ne ordinavano copie per nobilitare la loro autoritas, così come Virgilio aveva fatto risalire la nascita di Roma al greco Enea.
Salvo la parentesi dell'alto Medio Evo (e quella dei nostri tempi), l'uso politico dell'arte antica non ha mai conosciuto interruzioni. Dopo la febbre della Roma imperiale, la mania antiquaria riesplose nel Quattrocento, quando vediamo Isabella d'Este impegnata «in recogliere cose antique per honorare el mio studio». Già all'epoca, però, non era facile procurarsi i marmi che si scavavano per lo più a Roma e avevano prezzi alti: per strappare al Mantegna il busto della Faustina che l'anziano pittore, oppresso dai debiti, si trovò costretto a vendere, alla marchesa servirono sei mesi di mercanteggiamenti. Fu allora che cominciò la fortuna dei copisti come Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto l'Antico proprio perché gettava copie in bronzo in scala ridotta degli originali antichi.
Anche a Firenze Cosimo de Medici «aveva avuto di Roma molte anticaglie» e suo nipote Lorenzo aveva collocato nei portici e nel giardino del palazzo le statue su cui si formò il giovane Michelangelo. Le raccolte cominciavano a ingrandirsi e, sul modello degli antichi horti e atria, i collezionisti allestivano nuovi spazi che, collocati all'esterno, conferivano lustro al proprietario. Anche l'allestimento diventava importante e spesso affidato a nomi prestigiosi come quello di Michelangelo che, per il palazzo Farnese, pensò ad appositi spazi che enfatizzassero i capolavori antichi come il Toro e l'Ercole Farnese che la famiglia raccoglieva per promuovere la romanità del casato.
A sua volta, nel 1503, Giulio II aveva incaricato Bramante di progettare un cortile destinato ad accogliere le statue più celebrate nell'intera Europa: l'Apollo, la Cleopatra, il Commodo-Ercole, l'Ercole e Anteo, il Laocoonte, il Tevere, il Nilo, il Torso, la Venus felix. Nelle mani dei papi finiva il meglio di tutto quello che si rinveniva nell'Urbe, come appunto il Laocoonte, scavato nel 1506 in una vigna vicino a Santa Maria Maggiore da tale Felice de Fredis. La scoperta fece subito il giro del mondo nelle corrispondenze degli ambasciatori e fu considerata eccezionale perché vi si riconobbe l'originale greco di cui Plinio aveva scritto nella Naturalis Historia affermando che si trovava nella villa dell'imperatore Tito. Nemmeno il re di Francia Francesco I, che pure si era affrettato ad avanzare offerte, riuscì a spuntarla sul Papa il quale, per non offenderlo, gli concesse una copia in marmo, la prima in scala al vero di una grande statua antica che però Clemente VII decise di tenere per sé. E proprio le repliche delle statue del cortile del Belvedere che si trovavano in tutti i più ricchi palazzi d'Europa dimostrano l'uso politico dell'antico che si serviva dell'esibizione di alcune statue esemplari, consacrate da una catena di prestigiosi possessori. Le stesse di cui Luigi XIV, quando trasferì la corte a Versailles, ordinava copie così come farà ancora Pietro il Grande alla ricerca, per fondare e dare lustro alla nuova capitale dell'Impero, dei capolavori più ammirati, come l'Antinoo del Belvedere. Nella sua Analysis of Beauty, Hogarth poteva così scrivere che certe statue antiche erano ben più conosciute di qualsiasi pezzo moderno e nel 1875 la guida Baedeker citava la Venere di Milo come «il più celebrato tra i tesori del Louvre», dedicandogli più spazio di quello riservato alla Gioconda.
Poi le fortune dell'antico cessarono. L'ultimo a subirne il fascino fu quell'Adolf Hitler che sognava la ricostruzione di Berlino come una nuova Atene: dopo un intero anno di insistenze e rifiuti, nel 1938 Galeazzo Ciano gli vendette finalmente il Discobolo, copia romana dell'originale greco di Mirone, scoperta nel 1871 sull'Esquilino, un simbolo dell'antichità con cui Hitler voleva legittimare il Terzo Reich come l'erede del prestigioso passato dell'Impero romano. Per la cronaca, il Discobolo è tornato in Italia nel '48 e si trova al Museo nazionale alle Terme, molto meno visitato della Gioconda.

La Stampa 7.12.11
Ecco l’altra Terra “Là ci può essere vita”
La scoperta della Nasa: si trova a 600 anni luce da noi Il pianeta ha acqua liquida e un clima primaverile
di Maurizio Molinari


Si trova a 600 anni luce di distanza da noi, ha una temperatura media di 22 gradi centigradi, è protetto da un cuscinetto di atmosfera, possiede un raggio 2,4 volte quello della Terra e potrebbe essere coperto da acque: è questo l’identikit di Kepler-22b, il Pianeta individuato dalla Nasa come il più «simile» al nostro soprattutto per le caratteristiche di «abitabilità» che possiede, lasciando supporre la presenza di forme di vita.
A scoprirlo è stato il telescopio spaziale Kepler, lanciato tre anni fa dall’Agenzia spaziale americana e da allora impegnato a setacciare l’Universo alla ricerca di possibili forme di vita aliena. L’occhio di Kepler è diretto in particolare verso le costellazioni del Cygnus e della Lyra e ciò ha portato a osservare quello che Nathanie Batalha, vicecapo del team della Nasa che gestisce Keplero, definisce «un pianeta con dimensioni reali simili alla Terra» e caratteristiche tali da farlo considerare «abitabile». Da quando la Nasa ha iniziato ad analizzare i dati sulla percentuale di stelle della Via Lattea capaci di ospitare pianeti potenzialmente abitabili e con dimensioni analoghe alla Terra, questa è la prima volta che si trova di fronte ad un risultato concreto, sebbene situato a 600 anni luce che equivalgono a circa 10 mila miliardi di chilometri.
Kepler-22b, come è stato chiamato il nuovo pianeta, si trova ad una distanza dalla sua stella paragonabile a quella che separa la Terra dal Sole ovvero nella «zona abitabile», come gli scienziati definiscono la regione nella quale l’acqua liquida è in grado di esistere in superficie. Sono adesso in corso ulteriori studi per determinare se si tratta di un pianeta solido, come la Terra, oppure liquido, al pari di Nettuno. «Non sappiamo molto di pianeti con una dimensione fra quella della Terra e di Nettuno - ha aggiunto Batalha in una conferenza stampa dall’Ames Research Center di Moffert Field, in California - perché nel nostro Sistema Solare non ne abbiamo e dunque resta da determinare quanta parte è rocciosa, liquida, coperta d’acqua oppure da estensioni di ghiaccio».
Il fatto che la temperatura media sia, grazie alla presenza di un cuscino di atmosfera, di 22 gradi centigradi lascia tuttavia ipotizzare un clima primaverile simile a quello che distingue molte zone temperate della Terra, favorevole alla presenza di forme di vita. La Nasa non esclude comunque che possano esservi altri pianeti con caratteristiche analoghe perché fra i 2326 osservati fino a questo momento da Kepler circa dieci hanno dimensioni simili alla Terra e si trovano in «regioni abitabili» a causa della distanza dalla rispettiva stella. Le ricerche di Kepler coincidono per molti aspetti con l’intento di «Seti», un programma separato della Nasa per la ricerca di intelligence extraterrestri nello spazio, il cui direttore Jill Tarter assicura che «appena avremo trovato un esempio di vita indipendente nell’Universo ci accorgeremo che è presente quasi ovunque».