venerdì 9 dicembre 2011

il Riformista 9.12.11
Pompei di sabbia nel Nord Africa da Mille e una notte
Viaggio. Città di fango in Mali, "in sale" in Egitto, la moschea di Haji Piyada in Afghanistan. Forme "perdute" dell'abitare, rintracciate dall'arch. Tonietti, domenica a "Più libri più liberi".
di Andrea Consoli

L'arte di abitare la terra (L'Asino d'oro edizioni, 250 pagine, 27,00 euro) di Ugo Tonietti, architetto e professore di Scienza delle costruzioni presso l'Università di Firenze, è un prezioso Baedeker per avvicinarsi allo studio delle architetture antiche (spesso preistoriche), non poche volte indecifrabili agli stessi occhi degli studiosi. La storia dell'abitare - dell'abitare, cioè, il mondo - è affrontato da Tonietti osservando e indagando le costruzioni fantastiche e prodigiose che sono sopravvissute alle corrosioni del tempo, e che spesso sono nate nel cuore di civiltà povere, nomadi, pastorali, abituate a ogni tipo di ostilità della natura, ma nelle quali era ancora forte il legame - che valeva per tutti - tra il pensare e l'agire architettonico.
Il viaggio inizia alla medina di Chefchouen, nel Rif, zona montuosa del nord del Marocco, dove antichi e sapienti "maalem" (maestri muratori) hanno costruito un affascinante groviglio abitativo di "dar" (cellule abitative) e di "derb" (isolati), e che oggi è gravato da innesti "moderni" che ne minacciano la sopravvivenza. Il viaggio prosegue a Djenné, nel Mali, presso le misteriose architetture primitive saadiane in terra cruda, e giunge a Shali, presso il lago salato dell'Oasi di Siwa, nell'Egitto occidentale (al confine con la Libia), dove Tonietti spiega e racconta le difficili architetture di sale, realizzate mediante la complessa lavorazione dei "karshif", ovvero zolle di sale. Sempre in terra africana, Tonietti non poteva non visitare Lalibela, in Etiopia, famosa in ogni dove (e patrimonio mondiale dell'Unesco) per le misteriose basiliche ciclopiche ipogee costruite scavando nella roccia e che, come tutte le architetture antiche - spesso in terra cruda o in terra pressata e mischiata con la paglia - sono in grave pericolo conservativo.
L'arte di abitare la terra, poi, lascia l'Africa per due tappe "orientali": la prima è ad Aleppo, nella Siria del Nord, dove strane costruzioni in terra continuano ad intrigare per le strane cupole della abitazioni (il viaggio poi prosegue a Palmira, la Regina del deserto, la cui decadenza si lega alla ribellione della regina Zenobia nei confronti dei Romani); la seconda è nel lontano Afghanistan, precisamente nella città di Balkh (luogo natio del filosofo Avicenna, e centro del culto mistico zoroastriano), dove Tonietti ci fa conoscere la moschea di Haji Piyada, anch'essa in terra, e che gli storici e gli archeologi hanno difficoltà a datare. L'arte di abitare la terra, non è soltanto un libro di architettura - o, più precisamente, di tecnica antica delle architetture - ma un vero e proprio taccuino antropologico, un libro di viaggi, finanche un libro poetico, perché forte è la suggestione nello sguardo dello studioso di miti e leggende antiche (per intenderci, tra la Bibbia e le Mille e una notte).
Attraversando deserti e tornanti di montagna - avvincenti quelli di un Afghanistan ancora infestato di mine e ricoperto di carcasse di carri armati russi -, facendosi accompagnare da autisti irresponsabili (come in Mali) e osservando le donne con il burqa (sempre in Afghanistan), Tonietti - che pubblicò in parte questi viaggi sulla rivista Left - s'immerge pienamente nel mondo preistorico di alcune delle più antiche civiltà (notevoli le analisi "matissiane" delle incisioni rupestri), e indaga il rapporto dell'uomo antico con la terra, con l'abitare, con la tecnica costruttiva, la cui analisi mai si disgiunge da una lettura socio-antropologica che prevede finanche il mistero, il fascino evocativo, e al cui centro, molto spesso, c'è la presenza femminile, ora generatrice e gioiosa, ora ridotta a schiavitù da oscure leggi castranti (come a Shali, o a Balkh).
L'arte di abitare la terra verrà presentato domenica a Roma alla fiera della piccola editoria "Più libri più liberi" (Palazzo dei Congressi all'Eur, Sala Diamante, ore 16)e, insieme con l'autore, ne parleranno Simona Maggiorelli e Lavinia Ripepi.

il Fatto 9.12.11
Non solo esenzione dall’Ici. Per la Chiesa nessuna rivalutazione delle rendite catastali
Ecco una delle sorprese contenute nel decreto salva-Italia, come rivela Il Sole24Ore con un effetto sulle casse dell'erario stimato in 400 milioni di euro l'anno. Insomma, un vero e proprio tesoretto per le zoppicanti casse dello Stato alla perenne ricerca di denaro fresco
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/09/solo-esenzione-dallici-chiesa-nessuna-rivalutazione-delle-rendite-catastali/176340/

il Fatto 9.12.11
Le “innocenti” evasioni  di Santa Romana Chiesa
di Marco Politi
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/09/le-innocenti-evasioni-di-santa-romana-chiesa/176237/

l’Unità 9.12.11
Riccardi: verifica dei Comuni sull’Ici della Chiesa
Divampa in rete e nei partiti la polemica sull’Ici per gli immobili della Chiesa. Il ministro Riccardi: «Paghi sugli immobili adibiti ad attività commerciali». Berlusconi: «Libertà di coscienza per i miei».
di M.Ze.

Divampa su internet e dentro i partiti la polemica sull’esenzione dell’Ici per gli immobili della Chiesa. E dopo un’intensa giornata di botta e risposta tra favorevoli e contrari ecco a fine serata la dichiarazione del ministro per la Cooperazione e l'Integrazione, Andrea Riccardi: «Credo dice intervistato da Lucia Annunziata su Rai Tre che le attività di culto, culturali della Chiesa siano una ricchezza per il Paese e quindi l'Ici-l' Imu non va pagata. Per quelle che possono essere le attività commerciali gestite dalla Chiesa, dai religiosi, dalle associazioni cattoliche vigilino i Comuni o chi è preposto a questo per vedere se l'imposta viene pagata e intervenga. Inutile fare una grande battaglia. Si tirino fuori i casi, si valuti caso per caso e si intervenga: se c'è stata mala fede conclude si prendano le misure necessarie». Tema su cui si dibatte da quando Silvio Berlusconi ne decise l’abolizione ma che oggi di fronte alle misure lacrime e sangue della manovra -, è di grandissima attualità tanto che in meno di 24 ore l'appello lanciato da MicroMega che chiede di eliminare i privilegi sull'Ici dagli immobili della Chiesa cattolica ha superato 50.000 firme. «È scandaloso ha scritto Barbara Spinelli sul sito della rivista che la Chiesa italiana chieda più equità nella manovra, e non sia sfiorata dal dubbio che anche lei debba contribuire ai sacrifici chiesti agli italiani». IL DIBATTITO NEI PARTITI Nel Pd le posizioni sono diverse. «I patrimoni immobiliari della Chiesa, come quelli di altre organizzazioni destinati all'assistenza e a scopi umanitari, dovrebbero essere protetti dalla tassazione. Ma sugli immobili che determinano un profitto credo che anche la Chiesa debba fare la sua parte», sostiene Ignazio Marino. Intanto venti deputati Pd (primi firmatari Concia e Esposito) hanno presentato una mozione ad hoc, mentre il vicecapogruppo Pd romano, Fabrizio Panecaldo, presenterà lunedì in Campidoglio un'ordine del giorno per chiedere al Governo di imporre l'Imu al patrimonio immobiliare del Vaticano adibito ad uso esclusivamente commerciale». «L'Ici sui locali commerciali dice Beppe Fioroni la Chiesa già la paga, in base ad una norma voluta dal governo Prodi», ma all’ex ministro sembra rispondere indirettamente Marco Cappato, dai radicali: solo a Milano, dice, sarebbero 17 le strutture ricettive ecclesiastiche che si dichiarano esenti dall'Ici. «Altre 23 strutture non pagano né fanno dichiarazione», secondo quanto risulta dall'elenco reso noto dal consigliere comunale radicale «sulla base delle informazioni fornite su mia richiesta dall'amministrazione comunale». Giorgio Merlo, invece, spera «che il segretario Bersani non raccolga questa ventata laicista e che non aderisca alla moda, ricorrente, di colpire la Chiesa per rispondere ad un singolare e curioso istinto “progressista”». Non va meglio nel Pdl: Gabriella Giammanco chiede «un sacrificio alla Chiesa per aiutare i pensionati e chi, con tanti sacrifici, è riuscito ad acquistare una casa», mentre il collega Stefano Saglia si allarma: «Sulla tassazione degli immobili alla Chiesa cattolica il Pdl dovrebbe avere una posizione unitaria» e contrastare le «mistificazioni laicista». Denis Verdini e Nunzia De Girolamo spingono in direzione opposta e alla fine Silvio Berlusconi si chiama fuori. Dice: «Io non d’accordo, ma lascerò libertà di coscienza ai membri del mio partito». Fli, dal canto suo, presenta un emendamento per l'istituzione presso il Ministero dell'Economia di una Commissione paritetica mista Stato-Chiesa cattolica e altre confessioni religiose per individuare di comune accordo le fattispecie che danno luogo a esenzioni dall' imposta sugli immobili (ex Ici) », mentre Idv e Sel sono nette: nessuno sconto.

il Fatto 9.12.11
I crociati dell’Ici. La tassa vaticana spacca i partiti
Il fronte cattolico dal Pd al Pdl. Ma sul web è rivolta anti-privilegi
di Fabrizio d’Esposito

Una guerra trasversale nei poli. Per far pagare alla Chiesa l’Ici (o Imu) a Cesare, cioè allo Stato. Una questione che sul sito di Micromega in sole ventiquattr’ore ha già mobilitato 70mila persone. Anche in Parlamento la maggioranza potrebbe essere ampia. Lo dicono le due donne che, da un lato e dall’altro, conducono in prima fila questa guerra. Paola Concia per il Pd e Gabriella Giammanco per il Pdl. Sostiene Concia: “Da quando ho presentato la mozione mi stanno telefonando in tanti. Le firme per il momento sono trenta”.
Il segretario democrat Pier Luigi Bersani ieri non si è espresso in merito. L’ala cattolica, con in testa Beppe Fioroni, preme per stoppare il dibattito. In agosto, però, Bersani aprì a modifiche dell’attuale normativa che sì prevede già il pagamento dell’Ici per gli immobili commerciali di proprietà della Chiesa, ma introduce un escamotage: una cappella in un albergo, per esempio, porta all’esenzione. E si potrebbe continuare all’infinito.
CONTINUA Concia: “Bersani era favorevole a un esame caso per caso. Leggo che persino Casini è d’accordo sul principio e Fli e Idv vogliono fare degli emendamenti. Io presento una mozione perché comunque si arriverà a un voto. Chiediamo un censimento serio, non fumoso, delle proprietà e una quota del 30 per cento sul patrimonio della Chiesa. Se mettono la fiducia al decreto gli emendamenti saltano”.
Il punto è questo. Nel Pdl, Giammanco sta preparando un emendamento ma se ci sarà la fiducia sul “Salva Italia”, salta tutto. E sono pochissime anche le speranze di far entrare questa battaglia nel nuovo provvedimento. Di certo c’è che il Pdl per bocca del capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto vuole la blindatura con la fiducia. In più il segretario Angelino Alfano (ex democristiano) è contrario a mettere in discussione in privilegi del Vaticano. Silvio Berlusconi ha assicurato però che lascerà “libertà di coscienza ai membri del partito”. Dice Giammanco: “La posizione di Berlusconi mi rincuora. In un grande partito ci sono opinioni diverse. Io sto preparando un emendamento.
ll governo ha detto di essere disposto a ragionare sull’indicizzazione delle pensioni fino a 1400 euro e sulla riduzione dell’Imu sulla prima casa purché a saldi invariati. È indispensabile, perciò chiedere un sacrificio alla Chiesa per aiutare i pensionati e chi, con tanti sacrifici, è riuscito ad acquistare una casa. Preciso che dico queste cose da cattolica praticante, che ogni domenica va a messa”. Giammanco ritorna sulla questione dell’ultima legge che regola la materia, quella del 2006, con trucchetti annessi: “Per evitare inutili demagogie sull’argomento è bene chiarire che per legge dal 2006 gli immobili della Chiesa che non hanno esclusivamente natura commerciale sono esentati dal pagamento dell’Ici. Inserendo l’avverbio esclusivamente il legislatore ha trovato un escamotage per sottrarre al fisco gli immobili del Vaticano messi a reddito. È sufficiente, infatti, una piccola cappella all’interno di edifici usati per scopi commerciali per non pagare l’Ici”.
ANCHE nel Pdl, si parla di un fronte ampio. Il triumviro ancora in carica, Denis Verdini, ha detto che “da laico farebbe pagare l’Ici alla Chiesa”. Gli ex socialisti come Margherita Boniver, ma pure lo stesso Cicchitto, sarebbero favorevoli. Altri nomi sono questi: l’ex ministro Romani, Beccalossi (vicina a La Russa), Mottola, Rampelli. Dice la deputata Nunzia De Girolamo: “Siamo in tanti nel Pdl a pensarla così, il punto è capire se ci saranno o no gli emendamenti a causa della fiducia. In un momento d’emergenza e di crisi come questo la Chiesa ha chiesto equità ed è giusto che dia il suo contributo. Oggi a Milano, per fare un altro esempio, ci sono teatri che fanno beneficenza ma producono anche reddito e non pagano”.
Il fronte trasversale dei clericali che si oppongono e vogliono lasciare le cose così come sono ieri ha registrato l’adesione del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Un sindaco papista: “'Credo ci sia una polemica inutile attorno a questa vicenda perché c’è una legge dello Stato molto precisa che distingue gli immobili a uso commerciale rispetto a quelli di culto o utilizzati a scopi sociali. Se ci sono violazioni della legge basta fare denunce specifiche. Ho la sensazione che facendo un discorso confuso si voglia fare un’opera di discredito nei confronti della Chiesa cattolica”.
Stessa linea per il ministro per la Cooperazione, il cattolico Riccardi, mentre nel Pd Merlo invita Bersani a “respingere la menzogna laicista”. Nei due poli si stanno insomma delineando due partiti trasversali su Chiesa e Ici. E la mozione di Concia potrebbe avere una maggioranza laica. Forse.

La Stampa 9.12.11
Dilaga la polemica sull’Ici alla Chiesa

ROMA. MicroMega in un solo giorno ha raccolto oltre 50 mila adesioni per chiedere l’abolizione dei privilegi della Chiesa, su Facebook la pagina «Vaticano pagaci tu la manovra finanziaria» in tre giorni è arrivata oltre i 160 mila «mi piace». Il governo rimette mano all’Ici e subito si riapre la polemica, che dilaga dai blog alle dirette radio, dai giornali alle discussioni tra la gente. Con Avvenire e Famiglia Cristiana impegnate in prima fila nella contro-crociata. «È scandaloso - ha scritto Barbara Spinelli sul sito di MicroMega - che la Chiesa italiana chieda più equità nella manovra, e non sia sfiorata dal dubbio che anche lei debba contribuire ai sacrifici chiesti agli italiani». «Laicismo col trucco», ribatte il settimanale dei Paolini. «Chi riaccende ciclicamente la campagna di mistificazione sull’Ici non pagata non lo fa per caso, ma intende creare confusione e colpire e sfregiare la Chiesa e l’intero mondo del non profit: non sopporta l’idea che ci sia un altro modo di usare strumenti e beni e vorrebbe riuscire a tassare anche la solidarietà, facendo passare l’idea che sia un business, un losco affare, una vergogna», scrive il direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio che ieri ha ripubblicato pari pari l’editoriale del giorno prima al grido di «repetita juvant».
Sull’agenzia dei vescovi «Sir» il giurista e rettore della Lumsa, Giuseppe Dalla Torre chiarisce che l’esenzione dall’Ici è un «beneficio fiscale di cui gode non solo la Chiesa, ma anche la pluralità di organizzazioni ed enti laici, pubblici o privati, non commerciali e riconducibili al non profit».
Intanto il Parlamento si spacca trasversalmente tra «pro» e «contro». Venti deputati del Pd (tra i quali Pollastrini, Concia, Argentin, Touadì, Capano) hanno presentato a Montecitorio una mozione per proporre al governo di far pagare alla Chiesa almeno il 30% dell’Ici «dovuta». Contro l’«iniqua tassazione della solidarietà» si schierano, invece, i cattolici del Terzo Polo (Casini, Buttiglione, Baio, Binetti), Fioroni del Pd, Mantovano e Gelmini del Pdl. E sulla richiesta, arrivata da più parti, Pdl compreso, di introdurre l’Ici anche per i beni ecclesiastici, Silvio Berlusconi evidenzia come «tutte le risorse che la Chiesa risparmia vanno in opere e in aiuto a chi ha bisogno, ma sulla questione ho lasciato ai membri del mio partito libertà di coscienza». Il Fli intende affidare la soluzione a una commissione Stato-Chiesa.

La Stampa 9.12.11
Una norma “pasticciata” sotto la lente di Bruxelles
100mila immobili. A tanto ammonta il patrimonio della Chiesa in Italia Di questi, 9 mila sono scuole 26 mila strutture ecclesiastiche e 5 mila strutture sanitarie
Da subito erano state previste esenzioni per gli «enti non commerciali», ma dopo i limiti posti dalla Cassazione (2004), lo Stato è intervenuto con altre due leggi
L’Anci propone la mappatura di un possibile tesoretto da 700 milioni
di Paolo Baroni e Giacomo Galeazzi

Per avere l’esenzione totale basta che all’interno dell’immobile a uso commerciale ci sia anche una piccola struttura destinata ad attività di culto Gianfranco Mascia Promotore della biciclettata «Santa B-Ici» del Popolo Viola che ieri ha fatto tappa vicino ad alcuni edifici del Vaticano Il Vaticano è di nuovo nel mirino per l’esenzione dall’Ici dei suoi immobili
Ma la Chiesa l’Ici la paga oppure no? E se la dovesse pagare su tutti gli immobili ora esentati quale sarebbe il gettito previsto di un’operazione del genere? La polemica impazza e la confusione è davvero tanta. Come riassume nella sua «inchiesta» on line Arianna Ciccone, sul sito «viola» valigiablu.it, l’introduzione dell’Ici risale al 1992 ma da allora il legislatore ha previsto molte correzioni. Da subito erano previste esenzioni che riguardavano non solo la Chiesa cattolica, ma anche tutti gli immobili utilizzati da «enti non commerciali», il cosiddetto non profit (associazioni, enti, comunità, circoli culturali, sindacati, partiti politici, ecc.) «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive».
Nel 2004 la Cassazione, prendendo spunto da una caso legato ad un pensionato studentesco, introduce una prima novità e cancella l’esenzione per gli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, «destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali». Insomma, l’etichetta «non profit» non basta più a garantire l’esenzione: non deve esserci traccia alcuna di attività commerciale o economica. Nel 2005 lo Stato corre ai ripari e con una prima «interpretazione autentica» ripristina l’impostazione originaria della legge. Ma «questa impostazione - ricorda Ciccone, che per mettere le cose in chiaro si professa “non credente” - viene impugnata di fronte alla Commissione europea e denunciata come “aiuto di Stato”: gli enti non commerciali che svolgono quelle attività socialmente rilevanti sono comunque da considerare “imprese” a tutti gli effetti, e dunque l’esenzione costituirebbe una distorsione della concorrenza nei confronti dei soggetti (società e imprenditori) che svolgono le stesse attività con fine di lucro soggettivo». La palla a questo punto passa al governo Prodi che, con un decreto a firma dell’allora ministro dello Sviluppo Pierluigi Bersani, introduce un nuovo concetto, quello di attività «non esclusivamente commerciale» e affida ad una commissione del ministero dell’Economia la definizione dei dettagli. A Bruxelles la precisazione basta e la procedura contro l’Italia viene archiviata. I Radicali non demordono e chiamano in causa direttamente la Corte di giustizia di Lussemburgo. A sua volta, il nuovo Commissario alla concorrenza Almunia riapre il fascicolo sui possibili «aiuti di Stato». Entro maggio 2012 Bruxelles dovrà decidere se assolvere o condannare l’Italia con multa ed eventualmente porre fine ai privilegi e disporre il rimborso all’erario delle tasse non pagate in cinque anni dagli enti ecclesiastici» ricorda «valigiablu». Intanto, la questione Ici-Chiesa ha fatto capolino anche nella legge dell’agosto 2010 sul federalismo fiscale: introducendo la nuova imposta unica municipale il governo Berlusconi aveva deciso di togliere l’esenzione Ici su ospedali, scuole e alberghi a partire dal 2014. Poi, sono insorti dubbi interpretativi e si è tornati alla norma precedente.
A quanto ammonta il patrimonio della Chiesa in Italia? Si parla di circa 100 mila immobili, di questi 9 mila sono scuole, 26 mila strutture ecclesiastiche e quasi 5 mila strutture sanitarie. Per l’Agenzia delle entrate significa un potenziale introito di due miliardi di euro all’anno. Stime che risalgono al 2005 fatte dall’Anci, l’Associazione dei Comuni, ridimensionano questa cifra a 400 milioni che oggi, con le rivalutazioni decise col decreto Salva-Italia salgono a 700 milioni. Altri parlano di un miliardo. Solo a Milano denunciavano ieri i Radicali esistono 17 strutture ricettive che si dichiarano esenti dall’Ici (dalla Casa del Clero Domius Mater Ecclesiae a due immobili del Centro salesiano Paolo VI a diversi pensionati femminili gestiti da suore) e altre 23 che non fanno dichiarazione. A Roma il Popolo viola parla di 306 immobili tra case di accoglienza, case per ferie, domus, hotel e istituti vari Ici-esenti. Tra questi l’albergo Giusti, l’hotel Domus Pacis, l’hotel Villa Rosa. La confusione è tale e tanta che il nuovo presidente dell’Anci, il reggiano Graziano Delrio, dalle colonne dell’Unità ieri ha proposto un censimento generale per avere «un quadro preciso». E poi spiega: «Laddove è chiaro il carattere commerciale delle attività svolte in un immobile, per quei locali l’Ici va pagata. Se di fianco a un santuario c’è un bar, non credo che questo sia funzionale al culto».
La Chiesa cosa dice? Come risponde a questa nuova campagna? In Vaticano si fa notare che all’origine della controversia c’è l’eccessivo margine di interpretazione consentito dalla distinzione tra attività «commerciali» e «parzialmente commerciali». Anche per questo la battaglia dell’Ici è fatta più di parole che di numeri: alla stima dei 700 milioni di euro di esenzione non corrispondono «contro-cifre» da parte della Cei.


il Fatto 9.12.11
Manovra, quei soliti inciuci tra Vaticano e frequenze tv
Su previdenza e Imu intesa Pd-Pdl e Terzo polo
Il relatore “Le coperture? Non ci abbiamo pensato”
“Demagogia” l’imposta alla Chiesa
“Mica possiamo colpire Berlusconi”, la “spiegazione sulle televisioni
di Wanda Marra

Passando alla Camera in questi giorni capita di imbattersi in inediti capannelli: come quello di martedì, fuori dalla porta della Commissione Lavoro, in cui Giulio Santagata, Ciro Bocuzzo e altri deputati del Pd, carte alla mano, cercavano di spiegare a Giuliano Cazzola (Pdl) come e perché bisognava modificare la norma della Manovra sulle pensioni. Ne è uscito fuori un parere condiviso e ufficiale della suddetta Commissione. Ecco, nei sobri tempi dell’era Monti si fa così: vertici più o meno informali, estenuanti sedute di Commissione, riunioni dei gruppi per discutere (e per blindare il dissenso), proposte, modifiche e pareri “condivisi” dall’inedita maggioranza in Parlamento, Pd, Pdl e Terzo Polo. Martedì si sono incontrati i tre leader, Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pierferdinando Casini per mettersi d’accordo sugli aggiustamenti da apportare alla manovra. In Commissione Bilancio, quella che deve effettivamente trovare la quadra a livello parlamentare, a tenere le fila sono due mediatori, i relatori per Pd e Pdl, Pier Paolo Baretta e Maurizio Leo. Di “importanti convergenze” ha parlato il primo a giornata conclusa. E infatti Pd, Pdl e Terzo Polo sono sostanzialmente d’accordo su due questioni: le pensioni (e dunque, sulla necessità di portare l’aumento legato all’inflazione anche agli assegni fino a 1400 euro, e su quella di introdurre una maggior gradualità dell'innalzamento dell' etàpensionabile per il lavoratori) e l’Imu, ovvero le tasse sugli immobili di proprietà (l’ipotesi sul campo è quella di aumentare la franchigia sulla prima casa). Il punto, però, è quello delle coperture. E qui cominciano i guai. Leo ieri dichiarava (candidamente?): “Non ci abbiamo pensato”. Anche qui, le questioni in campo sono teoricamente tre. TEORICAMENTE, perché tassare gli immobili del Vaticano “è questione che non esiste”. Lo dice senza mezzi termini lo stesso Beretta, lo confermano un po’ tutti. “Questa è demagogia”, liquida la questione il piddino Francesco Boccia “Stiamo parlando di modifiche che richiedono coperture per 3 miliardi e mezzo - 4 miliardi di euro. Forse di più. E che ci facciamo con l’Ici al Vaticano? ”. Per la questione gara sulle frequenze tv la questione è un po’ più sfumata. Berlusconi ieri ha espresso un’altolà nel suo pieno stile: “La gara sulle frequenze? Andrebbe deserta”. E anche se nel Pd spingono perché si faccia, è Roberto Rao, fedelissimo di Casini, a chiarire il punto: “È difficile. Berlusconi penserebbe che ce l’abbiamo con lui”. E i Democratici, d’altronde, ripetono il mantra degli ultimi giorni: “Sta fallendo il paese, mica possiamo far cadere il governo per questo”. Rimane il prelievo sui capitali scudati. Si ragiona fino a un raddoppio (dall’1,5 di ora al 3 per cento per un gettito di 2 miliardi di euro): il Pd l’ha chiesto subito, il Pdl potrebbe cedere. Da sottolineare, però, che proprio ieri i tecnici della Camera hanno avvertito che potrebbe essere difficile applicare la tassa. Proprio quella dell’equità. STAMATTINA scade il termine per gli emendamenti. E il Pdl deciderà sempre stamattina se presentarli, il Pd si regolerà di conseguenza. L’Udc ha già detto che non lo farà e Fli ne ha presentati alcuni “di testimonianza”. Alla fine, nella sostanza, una volta che si sarà arrivati a un ventaglio di proposte condiviso, questo verrà presentato al governo. Forse già da stasera. Forse alla fine del week - end. Starà all’esecutivo - con il ministro per i Rapporti con il Parlamento Giarda nelle vesti di mediatore - dire di sì o di no. Dopodichè con ogni probabilità il tutto confluirà in un maxi-emendamento che arriva in Aula martedì e sul quale Monti porrà la fiducia (ieri è tornato a chiederlo lo stesso Berlusconi). Non prima di altri contatti più o meno informali con Alfano, Casini e Bersani, che dovranno sostanzialmente mettere il timbro su quel che hanno e non hanno ottenuto. Chi non lo farà sarà l’Idv. Per tutti, il capogruppo a Montecitorio, Donadi: “Quella di Monti è una manovra classista che tutela evasori fiscali e banche”.
il Fatto 9.12.11
Dopo il no all’accordo con la Svizzera
Intoccabili evasori
“Bocciata” anche la tassa sui capitali scudati
di Caterina Perniconi

Gli evasori fiscali italiani possono continuare a dormire tra due cuscini. I sacrifici per il Paese li faranno i pensionati, a loro non sarà chiesto nient’altro. L’accordo con la Svizzera, per tassare i capitali detenuti clandestinamente, appare impossibile. E anche la nuova tassazione sui soldi riportati in Italia con lo scudo fiscali sta sfumando.
IERI, INFATTI, i tecnici della Commissione Bilancio della Camera hanno manifestato dubbi sulla possibilità di applicare la nuova tassa “una tantum”. L’imposta, spiegano i tecnici, “potrebbe non trovare applicazione sul complesso dei capitali già emersi” visto che il contribuente potrebbe avere investito in altre attività o potrebbe avere “spostato la sua posizione presso un altro intermediario”.
Insomma, o pagavano di più subito, o adesso è difficile recuperare quell’1,5% richiesto dalla manovra Monti, e considerato comunque un valore molto basso. Perché tassando i capitali al 5%, il gettito aumenterebbe da 2 a 7 miliardi. Ma i problemi a far rispettare questa norma sono molti, a partire dalla privacy. Infatti per i tecnici della Camera è necessario un chiarimento supplementare sulla “garanzia di anonimato delle dichiarazioni di emersione delle attività da parte degli intermediari nei confronti dell’amministrazione finanziaria”.
Si potrebbe intervenire, quindi, su coloro che i capitali in Svizzera li hanno lasciati. Ma il governo, per voce del ministro dei Rapporti col Parlamento, Piero Giarda, ha escluso categoricamente questa ipotesi. Che non significava una caccia alle streghe, perché la lista degli evasori non è necessario che sia pubblica.
GRAN BRETAGNA e Germania hanno stipulato un accordo col paese elvetico affinché entro maggio del 2013 i cittadini dei due Paesi che esportano soldi all’estero paghino un’imposta tra il 19 e il 35% sulla media dei soldi presenti nella banca tra il 2003 e il 2010 e un’aliquota fissa del 25% sulle rendite di quel capitale. Le tasse vengono quindi riscosse dalla Svizzera a fronte della conservazione dell’anonimato dei clienti. “É assurdo – ha scritto il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, sul suo blog – che proprio l’Italia, cioè il Paese che più di tutti è flagellato dall’evasione fiscale e dalla fuga dei capitali all’estero, invece di essere il primo a firmare quegli accordi guardi da un’altra parte proprio come faceva Berlusconi. Di questo passo, caro professor Monti, di soluzione ne resta una sola: evasione impunita e ogni tanto un bel condono. Ci siamo già passati”.
Contemporaneamente la manovra impone alle Amministrazioni pubbliche di non fare più pagamenti in contanti oltre i 500 euro. Nella pratica significa che le Poste non potranno più erogare le pensioni cash. E gli anziani che non hanno un conto corrente saranno costretti ad aprirlo, spese incluse. Per la gioia delle banche e dei soliti noti. Berlino e Londra
Hanno stipulato un accordo con la Svizzera affinché entro il maggio 2013 i cittadini dei due Paesi che esportano soldi all’estero paghino un’imposta tra il 19 e il 35% sulla media dei soldi presenti nella banca tra il 2003 e il 2010 e un’aliquota fissa del 25% sulle rendite di quel capitale

il Fatto 9.12.11
I signori del Palazzo: sacrifici zero
La riforma delle pensioni non si applica ai dipendenti di Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale
di Eduardo Di Blasi

 Il dettaglio è nella Nota illustrativa del bilancio di previsione per il 2011 dell’Amministrazione della Presidenza della Repubblica, il documento che, per opera dell’attuale presidente in carica, rende un po’ più trasparente il bilancio del Quirinale. È qui che al paragrafo sull’andamento della spesa è scritto: “Per cercare di contenere la dinamica della spesa del comparto pensionistico, è stata di recente modificata in modo incisivo la normativa dei pensionamenti anticipati di anzianità, fissando a regime il limite di 60 anni di età e 35 anni di anzianità utile al pensionamento e introducendo misure dissuasive con la previsione di significative riduzioni di trattamenti pensionistici”. La nota ci informa di due cose. La prima, poco conosciuta ma sancita dalla legge, è che gli organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, governo, Camera, Senato e Corte costituzionale) conservano una propria autonomia organizzativa e di bilancio. La seconda è che, al Quirinale, dopo una modifica “incisiva” della normativa intervenuta nei mesi passati, si può andare in pensione al compimento dei 60 anni e con 35 anni di anzianità. E che ciò si potrà fare, nonostante la manovra del governo che impone da subito il passaggio al sistema contributivo “per tutti” e che allunga i tempi per la pensione di anzianità oltre i 40 anni di contribuzione. Il carico delle pensioni non è negato nella nota al bilancio. Pesa anzi enormemente sul conto del Colle ed è in continua ascesa: 92,3 milioni di euro per il 2011, contro gli 88,5 del 2010. Una cifra che copre il 37,8% del bilancio per il 2011, a fronte di una contribuzione previdenziale degli attuali dipendenti vicina agli 8 milioni di euro annui. Nonostante le rigide regole che valgono fuori dai Palazzi, all’interno tutto è regolato da direttive interne che lavorano su tempi diversi. Va dato atto al Colle di essersi fatto carico di inserire nel proprio ordinamento interno i due decreti economici sui tagli al pubblico impiego (il 78 del 2010 e il 98 del 2011), circostanza che è stata tradotta con una “riduzione del 5% e del 10% delle retribuzioni e delle pensioni per la parte eccedente i 90 mila e i 150 mila euro” (che ha prodotto un risparmio di circa mezzo milione di euro l’anno), il blocco delle progressioni automatiche delle retribuzioni e delle pensioni al tasso dell’inflazione programmata e il blocco delle progressioni automatiche di anzianità per le pensioni più elevate (qui il risparmio è stato più consistente, poco più di 2,7 milioni di euro l’anno). Sulla disciplina dei pensionamenti “anticipati” adottata, il dato del risparmio conseguito è ancora da calcolare.
COSÌ COME il Quirinale, anche Camera e Senato dispongono di un proprio bilancio interno che copre non solo deputati e senatori ma l’intero apparato statale che lì è assunto. Sulla vicenda che riguarda i primi, si sta cercando una convergenza sul tema dei vitalizi. Sul tema dei dipendenti, però, le leggi non ancora aggiornate ci dicono che al Senato “con le nuove e più restrittive disposizioni”, “fermo restando il collocamento a riposo d’ufficio per uomini e donne a 65 anni di età”, si può andare in pensione al compimento dei 60 anni se in possesso dei requisiti richiesti (20 anni di servizio effettivo e 35 anni di contributi), “conservando la facoltà di un’anticipazione” a 57 anni “ma con l’applicazione di forti penalizzazioni”. L’aliquota contributiva a carico dei dipendenti a decorrere dal primo gennaio 2011è addirittura scesa: è passata dal 9,7 all’8,8. Certo è da dire che sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, così come già detto per il Colle, sono stati applicati i parametri dei decreti di luglio. Sul fronte pensioni anche nel bilancio della Camera si prevede un “inasprimento dei requisiti per il pensionamento di anzianità”, ma la nota la bilancio 2011 non chiarisce quali siano. Anche per i bilanci di Camera e Senato, d’altronde, il peso delle pensioni è considerevole. I trattamenti previdenziali pesano ogni anno su quello del Senato per 182 milioni e su quello della Camera per 209.
SUL TEMA pensionistico, infine, la Corte costituzionale si adegua, per i propri giudici, al corso della previdenza in magistratura. Il regolamento interno deliberò che i membri della Corte venissero pensionati con un’auto blu di rappresentanza.
La Cgia di Mestre ha fatto i conti in tasca agli italiani per la manovra prossima ventura: costerà 830 euro l’anno netti a famiglia, quasi 2000 se si aggiungono a quella le precedenti manovre estive di Berlusconi. La mancata rivalutazione della pensione costerà di media 280 euro l’anno, con picchi di 311 euro in meno nel La-zio. Cioè, non proprio in tutto il Lazio. In alcuni palazzi di Roma la tempesta verrà affrontata, probabilmente, con maggior tatto.

l’Unità 9.11.12
Editoria: contro i tagli la Fnsi da Malinconico

Il sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico si incontrerà oggi con i vertici della Fnsi. Avrà modo di chiarire la contraddizione tra le sue rassicuranti dichiarazioni sul mantenimento del Fondo per l’editoria a tutela del pluralismo e quanto è prescritto dal comma 3 dell’articolo 29 della «manovra» Monti: la sua cancellazione, il cui effetto sarà la morte dell’editoria cooperativa, politica e di idee.
In queste ore il destino di oltre cento testate è appeso al filo dei possibili emendamenti al testo. Senza un’immediata inversione di rotta quattromila lavoratori rischiano di trovarsi per strada. Quali aziende arriveranno sino al 2014 senza il finanziamento pubblico e a cosa servirà un Fondo senza risorse? È a rischio il pluralismo del nostro Paese. Lo denunciano «Il manifesto» e «Liberazione», i periodici diocesani, le altre testate «vere», come l’Unità e Avvenire, che hanno potuto usufruire del finanziamento «diretto» a compensazione delle distorsioni del mercato pubblicitario. Se è un settore «debole» dal punto di vista finanziario che ha già vissuto stati di crisi e tagli, costituisce un patrimonio essenziale per la ricchezza culturale e dell’informazione nel nostro Paese. Lo ha riconosciuto anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che rispondendo alla lettera dei direttori di cento testate, aveva sollecitato il governo Berlusconi a tutelare questa realtà. Ora il governo Monti terrà conto di questa raccomandazione? Farlo significa definire da subito criteri rigorosi per l’assegnazione dei fondi da predisporre per gli esercizi 2011 e 2012: meno di cento milioni di euro. Su dove reperirli insistono il portavoce di Articolo 21, Beppe Giulietti e il senatore Vincenzo Vita (Pd): «Attuando una vera asta competitiva per le frequenze digitali».

La Stampa 9.12.11
La crisi. Le ricette del Pd
Intervista a D’Alema: “Questa volta pagano pure i ricchi Non era mai successo”
“Le pensioni? Il governo ascolti le richieste dei sindacati”
di Riccardo Barenghi

ROMA. Leader democratico Massimo D’Alema è stato segretario del partito, premier e più volte ministro Ultimo incarico: presidente del Comitato di controllo sui servizi segreti
Il governo Monti e la sua manovra, i sacrifici per gli italiani e i sindacati che scioperano, i rischi per il Pd che deve convincere la sua base sociale insoddisfatta, le elezioni tra sei mesi o tra un anno e mezzo, le prospettive di un'Europa a rischio. Ne parliamo con Massimo D'Alema.
Molte tasse, pochi tagli, poca equità, poca crescita, pensioni sotto tiro, assenza di una vera patrimoniale... Soddisfatto D'Alema?
«Mi pare francamente una sintesi totalmente inappropriata, non è questa la manovra. Innanzitutto, vorrei ricordare le parole del presidente Napolitano: " Eravamo sull'orlo di una catastrofe". Il rischio era che andasse deserta l'asta sui titoli di Stato e ciò avrebbe significato non pagare le pensioni e gli stipendi dei lavoratori pubblici. Se non teniamo conto di questa situazione reale, le dissertazioni appaiono non adeguate alla gravità del momento».
Però la manovra del governo non è stata accolta da cori di giubilo, soprattutto a sinistra.
«Difficile gioire quando bisogna sacrificarsi. Ma bisogna rendersi conto che eravamo arrivati a un punto di non ritorno grazie a Berlusconi. Oggi sembra che Berlusconi sia un fenomeno di cent'anni fa, invece è stato capo del governo fino all'altro ieri. E per tre anni ha fatto finta che la crisi non esistesse».
Nessuna responsabilità del centrosinistra che pure ha governato per sette anni negli ultimi quindici?
«Chi dice che la colpa è di tutta la politica, dice una colossale balla. Nel 2008 noi abbiamo lasciato il debito pubblico al 103,2, la percentuale più bassa degli ultimi vent'anni. Lo Spread era a quota 32. E queste sono cifre, non opinioni. Certo, c'è stata la crisi, ma questo non basta a giustificare i dati di oggi. Se la crisi fosse stata affrontata e non negata, saremmo in una situazione diversa dall'attuale. Ma noi non ci limitiamo a recriminare sulle responsabilità di Berlusconi. Non abbiamo chiesto le elezioni, nonostante i sondaggi a noi favorevoli, e abbiamo votato la fiducia al governo Monti assumendoci una grande responsabilità nell'interesse del Paese. D'altra parte, due mesi di campagna elettorale avrebbero fatto precipitare l'Italia nella condizione della Grecia o peggio. Una classe dirigente seria sa sfidare anche l'impopolarità per riparare i guasti provocati dalla destra».
Ora c'è il tecnico a riparare questi guasti, secondo lei ha fatto un buon lavoro finora?
«Il professor Monti si è trovato ad operare in una situazione di drammatica emergenza e con pochissimo tempo a disposizione. Anche per questo non era facile improvvisare innovazioni, che richiedono tempo e analisi approfondite. Oggi, però, possiamo partecipare al Consiglio europeo con le carte in regola. E magari cominciare a far sentire la nostra voce affinché ci sia una svolta nella politica europea, altrimenti le manovre nazionali serviranno a poco».
Una svolta di quale genere?
«Bisogna dare alla Bce un ruolo più attivo in modo che possa intervenire direttamente sui mercati. E’ molto opportuna l'iniziativa di Draghi sul taglio dei tassi di interesse, ma qui servono decisioni politiche. Bisogna puntare sugli Eurobond e convincere la Merkel, che non ne vuol sentir parlare. Bisogna attivare un piano europeo di sviluppo e di investimenti sulle infrastrutture. Bisogna mettere in campo e armonizzare politiche sociali e fiscali. L'Europa è a un bivio: o fa questo salto di qualità oppure non reggeranno neanche le conquiste fin qui realizzate».
Torniamo alla manovra, lei la giudica tutta positiva?
«E' positivo che non siano state aumentate le aliquote Irpef, imposta che pagano gli italiani onesti. Ed è positivo che si siano cominciati a tassare i patrimoni, soprattutto le seconde case e quelle di lusso».
E le case del vaticano vanno tassate?
«Certo, bisogna studiare una soluzione, esentando gli edifici adibiti al culto e quelli utilizzati per fini sociali».
A proposito di patrimoni, non si può dire che anche i ricchi piangono.
«Non so se piangano, ma so che per la prima volta si introduce un prelievo sui patrimoni e si fanno pagare di più coloro che hanno riportato in Italia i capitali dall'estero. Si tratta ancora di prelievi bassi. Si possono alzare anche per venire incontro alle richieste comprensibili dei sindacati sul tema delle pensioni».
Questo è proprio il capitolo più doloroso, tanto che i sindacati per la prima volta da sei anni hanno indetto uno sciopero unitario: era proprio necessario colpirle così duramente?
«E' vero, si tratta del capitolo socialmente più pesante. Per questo abbiamo presentato proposte in Parlamento per mantenere l'indicizzazione sulle pensioni che arrivano al triplo di quelle minime e vedo che si sta andando in questa direzione. E sarebbe giusto anche lasciare liberi di andare in pensione coloro che hanno svolto lavori usuranti. C'è poi la questione importante della detrazione Ici sulla prima casa. E infine si possono recuperare risorse sull'assegnazione delle frequenze radiotelevisive, altra richiesta del mio partito».
Ma lei aderisce allo sciopero di lunedì come hanno già fatto altri del Pd?
«Noi lavoriamo in Parlamento per cercare di migliorare la manovra e renderla più equa, per rispondere con i fatti alla protesta. E consiglio caldamente il governo di accogliere alcune richieste dei sindacati, che sono anche le nostre».
Lei che ha sempre rivendicato il primato della politica non pensa che in questo caso la politica abbia abdicato al proprio ruolo rifugiandosi dietro un governo tecnico? Non sarebbe stato meglio andare alle elezioni?
«Guardi che l'alternativa non era tra governo tecnico o elezioni, ma tra governo tecnico o permanenza di Berlusconi. Se non si fosse concretizzata l'ipotesi di Monti, la maggioranza di centrodestra non si sarebbe sfarinata e noi avremmo ancora il Cavaliere a palazzo Chigi. Altro che politica morta… Si è trattato, al contrario, di una positiva operazione politica».
Se il governo Monti durasse un anno e mezzo, cos'altro si dovrebbe fare oltre al risanamento finanziario?
«Una nuova legge elettorale e una riforma istituzionale che modifichi il bicameralismo perfetto e riduca drasticamente il numero dei parlamentari. Soprattutto così si tagliano i costi della politica».
Ma tra un anno e mezzo sarà ancora in piedi quell'alleanza con Vendola e Di Pietro che tutti i sondaggi consideravano vincente?
«Le alleanze non sono prodotti alimentari che scadono, non vanno a male se passa il tempo. Non mi spaventa che ci possano essere, in certi passaggi, opinioni diverse, ma occorrono correttezza e serietà nella discussione. In questo periodo non si devono scatenare polemiche assurde, perché questo sì, sarebbe lacerante. Dopo una settimana che si è votata la fiducia, dire che questo governo è un inciucio tra destra e Pd è inammissibile. E vorrei che si guardasse al di là dell'emergenza per realizzare una prospettiva di governo per il Paese. Si tratta di ricostruire l'Italia su basi più giuste e assicurare un futuro di progresso. Questo richiede un'alleanza che vada oltre il centrosinistra e punti a una collaborazione con il Terzo polo. Guai ad assumere oggi comportamenti che compromettano questa prospettiva».

l’Unità 9.12.11
Vendola
«No a misure inique, ma è sbagliato dividere il centrosinistra»
Il leader di Sel: «Attenti a non uccidere l’orizzonte di un’alternativa Abbiamo il compito di piegare l’agenda di governo nel segno dell’equità»
intervista di Andrea Carugati

Nichi Vendola non cede alle sirene che arrivano dalla sua sinistra, e anche dall’Idv. Non strappa col Pd, nonostante un giudizio fortemente critico sulla manovra del governo dei professori, definita «iniqua e per questo anche inefficace». «I nostri maestri di politica ci hanno insegnato che in strettoie drammatiche come queste servono “calma e gesso”. Non si può pensare di dividere la sinistra. Ho un giudizio più critico del Pd rispetto alle scelte di Monti, credo che Bersani dovrebbe avere toni meno ultimativi verso l’Idv, ma a Di Pietro dico: non è giusto accusare il Pd di tradimento o di inciucio. Abbiamo tutti il dovere comune di non uccidere l’orizzonte di una alternativa, perché sarà il centrosinistra a dover completare la de-berlusconizzazione dell’Italia». Non sembra un compito facile tenere unita la coalizione...
«Eppure tutti insieme abbiamo il compito di piegare l’agenda politica e di governo nel segno della giustizia sociale. Tra noi forze del centrosinistra vedo una convergenza nell’idea che non si possa affrontare la crisi devastando il welfare e impoverendo il ceto medio. Dobbiamo fare tutti insieme una grande battaglia per la patrimoniale. A salvi invariati, bisogna battersi per spostare i pesi dai pensionati e dal ceto medio verso i forzieri della ricchezza. E trovo stucchevoli le parole del ministro Giarda, che ha detto di non poter fare quelle intese con la Svizzera sulla tassazione delle ricchezze che pure hanno fatto Germania e Gran Bretagna. Non è una questione tecnica, ma di volontà politica».
La Commissione Ue esprime perplessità su quelle intese con la Svizzera... «Se la Commissione pensa a una procedura di infrazione, allora bisogna alzare la voce contro il cinismo di questa Europa. Vorrei che quelle procedura si aprissero quando la disoccupazione supera certe soglie. E invece sembra che si possano toccare tutti i diritti tranne le ricchezze».
Se fosse in Parlamento voterebbe no alla manovra?
«Il problema non sono io. Di fronte a critiche così larghe e fondate, dalla Chiesa ai sindacati, il Parlamento non può restare indifferente. E man mano che i cittadini si renderanno conto del danno subito crescerà il disagio sociale, la protesta».
Lei è stato critico sulla nascita del governo tecnico. Dopo le prime mosse è cambiato il suo giudizio?
«Il congedo dal circo mediatico della politica ridotta ad avanspettacolo ha prodotto una discontinuità che consente di riabilitare l’immagine del Paese. E tuttavia si tratta di un’operazione tecnocratica costruita con spirito giacobino, senza un elemento strutturale di consenso con i grandi attori della società, e per questo ad alto rischio. C’è un’impostazione ideologica che acceca, impedisce di vedere le alternative, spinge l’Europa in un angolo buio dove rischia di squagliarsi. E per fortuna che c’è Prodi che ci aiuta a decifrare le miserie di questa Europa franco-tedesca».
La sua è una bocciatura totale?
«Le cose sono ancora peggiori di come appaiono. C’è qualcosa di feroce nel mutamento della qualità della vita che colpirà milioni di persone che già arrancavano. La manovra avrà anche effetti collaterali finora non considerati, come la fuga verso la pensione negli ospedali. Rischiamo di perdere centinaia di medici senza neppure poterli sostituire per il blocco del turn over».
Eppure lei non strappa col Pd...
«Nel passato in fasi come queste di crisi e recessione è dilagato il populismo reazionario, e la sinistra si è divisa, con i risultati tragici che tutti ricordiamo. Per questo, e per il ruolo di lampara che il popolo ha affidato al Quirinale, mi sono sentito in dovere di non rompere un patto di coalizione, di non sconnettermi da un sentimento popolare così diffuso».
Ferrero e Di Pietro la incalzano...
«Deve prevalere uno sforzo comune di pressione per guadagnare cambiamenti, discutere della patrimoniale, dell’asta delle frequenze tv, delle spese militari. Se i tre principali sindacati scioperano insieme, i “migliori” al governo non sono esentati dal dovere della condivisione. Altrimenti, se un governo presentabile fa le stesse cose di quello impresentabile, nasce una domanda. Ma la nostra critica al berlusconismo era solo estetica? Io non voglio fare giochi tattici per guadagnare qualcosa sulla pelle del Pd, che ha fatto una scelta difficile. E tuttavia, se tra i democratici non ci fossero così tante voci più realiste del re nei confronti del governo, avremmo più forza per pretendere maggiore equità».
Eppure i sondaggi sembrano premiare questo Pd “governista”...
«Ai miei compagni di partito ho detto di non leggere i sondaggi per i prossimi 3-4 mesi. Gli effetti, e vale per tutti, li vedremo dopo che si saranno dispiegati gli effetti della manovra. Nel momento in cui si conclude il carnevale berlusconiano e si dice al Paese che erano a rischio gli stipendi, è chiaro che il governo Monti, e con esso anche il Pd, vengono percepiti come un’alternativa al baratro. Il problema è che la violenza della crisi produrrà populismo e noi dovremo fronteggiarlo, per evitare che la salvezza venga individuata fuori dalla politica».
Lei coltiva ancora la prospettiva del voto nel 2012?
«Oggi la priorità è salvare il Paese, cambiare la manovra, e far pesare di più nei vertici internazionali un vero progetto europeista. Monti ha le carte in regola, ma deve avere più coraggio nel sostenere gli Stati Uniti d’Europa. Servono un fisco e un welfare comune, e soprattutto una legittimazione democratica reale di chi prende le decisioni».

il Fatto 9.12.11
Breivick
Delitto e castigo
risponde Furio Colombo

   Caro Furio Colombo, propongo il caso della pena detentiva da applicare ad Anders Breivik, il massacratore norvegese di 77 persone. Il procuratore Inga Bejer Engh ha dichiarato: “Una persona psicotica non può essere condannata alla prigione. Può solo essere chiusa in un ospedale psichiatrico. Anche a vita”. L'avvocato di Breivik si è unito agli avvocati delle vittime per affermare: “L'importante è che non possa camminare per strada”. Ma in questo modo si dà per scontato che sia inutile curare uno come Breivik perché non potrà mai guarire. Mi sembra che vinca la vendetta sulla razionalità.
Franco

   COMINCIAMO con il ricordare che il fatto è enorme e raro. Le vittime, come ricorda il nostro interlocutore, sono più o meno come quelle di un kamikaze. Ma il kamikaze è un suicida che intende compiere un atto di guerra. Quasi sempre però (vedi il caso della Columbine, scuola americana resa celebre dal documentario di Michael Moore) il vero problema, in tempo di pace, è la mancata identificazione di un pericolo che altri (insegnanti, medici, amici) avrebbero dovuto notare in tempo. Un solo caso ricorda Breivik. È quello del giovane soldato Timothy Mc Veight, che sarebbe stato l'autore solitario della strage di Oklahoma City (1995, esplosione nel palazzo degli uffici federali, con 150 morti fra cui 48 bambini) , che è stato processato subito, condannato a morte in pochi giorni, sentenza eseguita entro una settimana. Su quel gravissimo evento restano dubbi (era solo? con altri? mandante? vere ragioni?) che gravano tuttora sull'America. Intorno a Breivik c'è, come per Mc Veight, il caso raro dell'attentatore da processare. Ma a differenza che a Oklahoma, è stato studiato, accertato, accolto il principio della malattia mentale come causa. A questo punto non resta che la reclusione in una istituzione medica. Se gli ospedali giudiziari norvegesi non sono come gli orrendi luoghi italiani documentati dal senatore e medico Ignazio Marino, non c'è dubbio che l'impegno della cura prevarrà su quello della vendetta.

il Fatto 9.12.11
La trinità della Repubblica italiana
di Nicola Tranfaglia

Un gruppo, formato da Giuseppe Casarrubea e Mario Cereghino e da chi scrive, ha ricostruito, attraverso ricerche negli archivi inglesi e americani aperti dopo il decreto del presidente Clinton nel 2000 e liberati dal segreto di Stato che invece in Italia domina ancora. La ricerca storica ha dimostrato che nel nostro Paese le resistenze alla democrazia repubblicana sono state più forti dei partiti politici e delle correnti culturali che volevano fondare un nuovo Stato, democratico e repubblicano. Leggendo con attenzione i documenti che vengono dagli archivi del Terzo Reich, ma anche da quelli del Regno britannico e degli Stati Uniti del presidente Roosevelt, ci si rende conto di alcuni elementi che gran parte degli storici, nel primo cinquantennio di lavoro ricostruttivo dopo la Seconda guerra mondiale, hanno senza dubbio trascurato. Il primo è l’atteggiamento filotedesco che il pontefice Pio XII (ossessionato dal timore di una vittoria comunista in Italia) tiene negli ultimi due anni di guerra, 1943-‘45, sperando fino all’ultimo nella vittoria finale della Germania nazionalsocialista.
SULLA POLITICA del Papa cattolico si rivela perfetto il giudizio storico, emesso alcuni anni fa da Giovanni Miccoli che ha messo in luce nel suo libro su Pio XII del 2007, l’eccezionalità della crisi vissuta dal pontificato e l’indubbia incapacità di papa Pacelli di cogliere la difficoltà, insuperabile per la Chiesa cattolica, di difendere la causa nazista e fascista, pur di fronte alla difficile e contraddittoria alleanza politica tra le potenze democratiche e l’impero sovietico. Il secondo elemento importante è la grande rinascita della mafia siciliana, segnalata più volte dagli agenti inglesi e americani (in particolare dell’Office of Stategic Services degli Stati Uniti), che sottolineano nello stesso tempo, il tentativo di riorganizzare il fascismo in Sicilia e nell’Italia meridionale, secondo un progetto che era stato a suo tempo del segretario del Pnf Alessandro Pavolini e che vuole mettere insieme le disperse forze contrarie al bolscevismo e al pericolo comunista. La logica diventerà, dopo il 1947 e per molti anni, quella non di De Gasperi (in quanto autonomo dalla Santa Sede) ma della destra democristiana, a cominciare da Giulio Andreotti.
Emerge con chiarezza dai documenti anglo-americani e tedeschi come le istituzioni dominanti della società italiana siano schierate contro i partiti storici della sinistra (comunisti, socialisti e azionisti) e che abbiano già stabilito un legame forte con la rinata organizzazione mafiosa siciliana che esercita nell’isola un indubbio potere di cui si sentiranno presto gli effetti. Il 2 giugno 1946 la Repubblica ha vinto, ma troppo forti sono gli ostacoli e i condizionamenti che vengono dalle istituzioni che hanno resistito, la mafia siciliana e il papato antibolscevico. Di qui la persistenza, nei 70 anni dell’Italia repubblicana, di colpi ricorrenti contro l’ordinamento costituzionale e la democrazia, di un potere invisibile più forte di quello pubblico e controllabile dagli italiani. Lo denunciò Norberto Bobbio più di vent’anni fa.

La Stampa 9.12.11
Fame di diamanti per l’India e la Cina
La produzione mondiale non regge la loro richiesta
di Ilaria Maria Sala

PECHINO. I diamanti, si sa, dovrebbero essere «per sempre», ma sembra che la fame di gemme dei nuovi ricchi cinesi e indiani stia mettendo a dura prova le riserve, che potrebbero non durare poi così a lungo: secondo l’ultimo documento prodotto dalla Bain & Co (un gruppo di consulenze che si occupa del settore del lusso), la richiesta di diamanti aumenta del 6% l’anno, in particolare grazie all’allargarsi del mercato in Cina e in India. L’offerta, invece, aumenta solo del 2,6% annuo, e la prospettiva è dunque di un incremento prossimo dei prezzi, in particolare per le gemme più grosse. L’investimento in diamanti è più delicato che quello nell’oro o nell’argento (anche questi preziosi molto richiesti sia in Cina sia in India), dal momento che il mercato è meno trasparente e la valutazione delle pietre meno precisa che per i classici metalli-rifugio. Ma questo non scoraggia chi può permettersi di puntare grosso. Così, in India, ecco che Amitabh Chandel, stilista e discendente di una famiglia aristocratica, ha deciso di lanciare una nuova linea di camicie che hanno diamanti al posto dei bottoni e che sono cucite con discreti fili d’oro vero – «per l’uomo reale contemporaneo», dice Chandel, che trova che aggiungere diamanti all’abbigliamento maschile sia un modo per ricondurre lo stile degli indiani contemporanei a quello opulento dei rajah del passato. Per il rajah moderno, basteranno circa 80.000 euro per concedersi una camicia degna di questo nome. Per il momento almeno i cinesi non hanno ancora pensato a cucirsi addosso dei diamanti, ma la loro passione per i preziosi non è da meno. La più grande gioielleria del mondo si trova ad Hong Kong, si chiama Chow Tai Fook e sta per entrare in Borsa in quella che tutti gli osservatori prevedono sarà la più importante quotazione iniziale dell’anno: si ipotizza che ottenga più di 2 miliardi di euro, e il multimiliardario americano George Soros ha già reso noto che acquisterà azioni per circa 40 milioni di dollari Usa.
La Chow Tai Fook ha più di 1400 negozi in Cina, e progetta di aprirne molti di più nei prossimi anni per posizionarsi ancora meglio fra i consumatori di «lusso di massa»: la Cina, infatti, dovrebbe diventare il primo mercato per la gioielleria di qui al 2015, sorpassando gli Usa, anche per una tradizionale preferenza cinese per i beni di valore facilmente trasportabili, che è andata radicandosi in più di un secolo e mezzo di frequenti sconvolgimenti politici. Hong Kong, con i suoi innumerevoli banchi pegni dalle grandi insegne al neon pronti a servire i nuovi immigrati dal continente cinese, lo testimonia, tanto quanto il successo della Chow Tai Fook. Fondata nel 1929 a Canton, l’azienda è ora controllata da Cheng Yu-tung, tycoon dell’immobiliare, e da suo figlio Henry Cheng. Per i suoi diamanti, la Chow Tai Fook si serve direttamente dal distributore di De Beers, la Diamond Trading Co, e da Rio Tinto Plc, il colosso australiano delle miniere. Tanto entusiasmo per le gemme, però, non è senza problemi. Il gruppo Global Witness, la principale Ong di monitoraggio del modo in cui sono utilizzate le risorse naturali, ha appena abbandonato il Piano Kimberley creato dopo anni di pressioni per cercare di arginare il fenomeno dei «diamanti di sangue» – ovvero, proventi dalle miniere di diamanti, in particolare in Africa, utilizzati da regimi violenti e repressivi per finanziarieguerre e abusi, come venne divulgato dal popolare film «Blood Diamond» del 2006, con Leonardo DiCaprio. «I consumatori ancora non hanno modo di verificare da dove vengono i loro diamanti», ha dichiarato Charmian Gooch, uno dei fondatori di Global Witness, «né se servono a finanziare la violenza armata e i regimi repressivi».

Repubblica 9.12.11
Quel massone di Mosè
L´origine misteriosa dell´ebraismo
di Adriano Prosperi

Finalmente tradotto in Italia il fondamentale studio di Reinhold gesuita, poi protestante e "libero muratore"
Il relativismo che propone confronti e analizza le relazioni è il motore che fa avanzare la conoscenza
Il profeta è visto come un capo politico che ha fatto della sapienza egizia la religione del suo popolo

Il relativismo è la bestia nera di tutti i fondamentalismi religiosi. Chi propone una verità esclusiva non tollera che la sua merce sia messa sullo stesso banco delle altre, paragonata e soppesata e magari individuata come un prodotto storico, con tanto di data di nascita e rapporti di parentela con quelli della concorrenza. E tuttavia non c´è dubbio sul fatto che la cultura occidentale è impastata di relativismo: lo scopriamo ogni volta che ci confrontiamo con l´alterità culturale di paesi dove – è storia di questi giorni – i meccanismi elettorali democratici portano al potere partiti religiosi. Naturalmente, qui si impone una distinzione necessaria: c´è un relativismo banalizzante, quello che si esprime nella considerazione che non c´è niente di nuovo sotto il sole; e c´è un relativismo stimolante, quello che confronta, analizza e cerca di cogliere le relazioni. Quando Niccolò Machiavelli confrontò Mosé con Numa Pompilio e la religione antica di Roma con quella della Roma cattolica, fece il salto di qualità che distingue il relativismo banalizzante dal distacco intellettuale di chi si pone come osservatore al di fuori e davanti all´oggetto osservato. In termini di storia della cultura, la conquista del punto di vista dell´osservatore occupò la cultura europea su di un lungo arco di tempo, dal ´400 italiano fino all´Illuminismo, passando attraverso la scoperta dell´America e le tragedie delle guerre di religione e del colonialismo benedetto dai missionari cristiani.
Ma questo stesso percorso si propose e continua a riproporsi nella vita delle persone e può essere compiuto nello spazio di una vita individuale. Lo dimostra il caso di Carl Leonhard Reinhold, un autore importante nella cultura di lingua tedesca che solo oggi trova per la prima volta un editore italiano. Sulle sue qualità di scrittore basti dire che senza la sua opera la filosofia di Kant non avrebbe conquistato il mondo della scuola e dell´università nel secolo d´oro dell´idealismo filosofico. Ma la ragione che riporta tra noi questo scritto va cercata nella biografia intellettuale di uno dei più noti e letti studiosi del fenomeno religioso e della teologia politica. Senza questo scritto forse Jan Assmann non avrebbe avuto l´idea di fondo del suo Mosé l´egizio. Perché questo è precisamente il tema del piccolo libro di Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa, edito da Quodlibet (pagg. 258, 18 euro), a cura e con un saggio di Gianluca Paolucci e con una introduzione scritta appositamente da Jan Assmann. Davanti a un titolo che parla dell´ebraismo come la più antica massoneria forse qualche lettore si chiederà se non si tratta per caso dell´accusa di complotto giudaico-massonico scagliato contro i rivoluzionari francesi a fine ´700 dall´abate Barruel e diventato la fissazione dei gesuiti della Civiltà cattolica negli anni di quella feroce battaglia antigiudaica e antimassonica che li vide condividere l´antisemitismo del "socialismo degli imbecilli". Il fatto è che Reinhold fu gesuita e massone. Un fatto solo apparentemente singolare, che ci aiuta a capire come la storia cambi continuamente i colori delle cose e i significati delle parole. Nel suo tempo tra Compagnia di Gesù e Massoneria ci fu un´intensa simpatia; i gesuiti frequentavano le logge stimolati dall´idea che presiedeva all´origine del loro Ordine, quella della fiducia nel potenziale rivoluzionario dell´intelligenza come strumento d´azione di una piccola élite illuminata da Dio.
Carl Leonhard Reinhold (nato in Austria nel 1758, morto a Weimar nel 1823) cominciò la sua carriera come gesuita e lo rimase fino allo scioglimento della Compagnia, un evento traumatico per un Ordine religioso che si sentì mal protetto dal papato e che vide la dispersione degli ex membri. La storia dei gesuiti nell´impero asburgico e dei loro percorsi massonici, come ha mostrato un ottimo libro di Antonio Trampus, vide i membri del disciolto Ordine religioso confluire nelle logge massoniche per dividersi poi tra un versante illuministico aperto a idee rousseauiane e un versante reazionario di appoggio all´assolutismo. Reinhold non seguì né l´uno né l´altro filone: convertitosi al protestantesimo per l´influsso di Herder, trovò in Kant il maestro della sua vita, colui al quale dedicò la sua straordinaria capacità di divulgatore e di docente universitario nella fase matura della sua attività. Da questo rapido curriculum si può già intuire come i percorsi della sua vita lo avessero predisposto al relativismo e stimolato alla comparazione. La Compagnia di Gesù aveva portato un suo straordinario contributo in tal senso quando, sul fondamento di un impulso mistico all´azione salvifica, aveva innestato il suo metodo che fu detto dell´accomodamento: porsi dalla parte dell´altro, imparare la lingua di giapponesi, cinesi, indios d´America, abituarsi a vedere le cose coi loro occhi come mezzo per poter meglio conquistare neofiti al cristianesimo. Ma il mezzo era rischioso, come intuirono i rivali domenicani. Comportava da un lato l´abitudine a ricercare analogie e parentele, e dall´altro la semplificazione delle dottrine, col risultato di spogliare il cristianesimo della lussureggiante vegetazione di culture europee cresciuta sul suo tronco. Quanto al lavoro della comparazione, i punti obbligati di riferimento erano sempre quelli: la religione ebraica, madre che resisteva all´abbraccio e alle vessazioni dei figli cristiani; e la misteriosa religione egizia, con quelle piramidi e quei tipi umani così simili ai reperti archeologici delle culture dell´America centrale da suggerire l´ipotesi di una lontanissima migrazione di popoli mediterranei oltre Oceano.
L´idea di Reinhold fu semplicissima: mentre altri sviluppavano comparazioni superficiali cercando analogie formali fra miti pagani antichi e racconti biblici, egli propose l´idea di un nesso diretto, un anello storico di trasmissione tra i misteri egizi e la religione mosaica. L´anello sarebbe stato Mosé, una specie di massone ante litteram, un capo politico che avrebbe fatto della sapienza segreta degli egizi la religione del popolo ebraico. Era un passo ulteriore rispetto all´intuizione di Machiavelli. Si poteva così ritrovare il nucleo della religione di Mosé in quei misteri egizi così familiari ai frequentatori delle logge massoniche e prima che a loro all´erudizione curiosa e raffinata della cultura gesuitica del ´600. Dalla comparazione nasceva un´ipotesi di derivazione e di sviluppo. È su questa base che si doveva sviluppare ai nostri giorni la ricerca di Jan Assman. Ma anche, prima e più in generale, doveva partire da qui l´impulso a porre la comparazione come metodo al centro della moderna scienza storica delle religioni in un assetto statale del sapere.

Corriere della Sera 9.12.11
Quei ratti che sono altruisti e solidali
L'altruismo non è solo umano
La solidarietà fra i ratti ha fondamenti biologici molto simili ai nostri
di Massimo Piattelli Palmarini

L'altruismo non è una qualità soltanto umana. Secondo gli esperimenti condotti dal neurobiologo Jean Decety dell'Università di Chicago la solidarietà fra ratti esiste, ha fondamenti biologici molto simili ai nostri: i roditori sono capaci di empatia. La ricerca apre nuove prospettive sull'evoluzione e sul mondo animale.

T ra ricevere una tavoletta di cioccolata e liberare un compagno ingiustamente imprigionato, cosa sceglieremmo? Penso proprio che apriremmo quella cella. Molti di noi, potendo fare entrambe le cose, sceglierebbero di liberare il compagno e poi dividere con lui la cioccolata. Normalissimo. Era assai poco prevedibile, però, fino ad oggi, che anche un roditore, un ratto, posto di fronte a una simile scelta, preferisce liberare il suo compagno e rinunciare al saporito pasto, oppure condividerlo con lui.
Il neurobiologo Jean Decety, dell'Università di Chicago, pubblica oggi su «Science» questo risultato. Con i suoi collaboratori Inbal Ben-Ami Bartal e Peggy Mason, Decety ha messo ripetutamente in una curiosa nuova situazione due ratti che avevano a lungo condiviso la stessa gabbietta. La nuova situazione consiste nel porre uno dei due, ben visibilmente, intrappolato in uno stretto tubo trasparente. Il piccolo prigioniero mostra palesi segni di malessere, agitandosi nella sua prigione. L'altro, che è invece libero di circolare nella solita gabbia, osserva la situazione e presto impara che, toccando con il muso una porticina, può liberare il compagno. E lo fa. In una variante di questo esperimento, oltre al tubo di plexiglass con dentro lo sventurato altro ratto, c'è anche un simile tubo che contiene cioccolata. Il ratto fuori dal tubo è libero di mangiarsi tutta la cioccolata. Invece, in molti casi, prima libera l'altro ratto e poi divide la cioccolata con lui. Oppure prima mangia una parte della cioccolata, poi libera il compagno e gli lascia divorare il resto.
In sostanza, questi roditori mostrano che il piacere di liberare il compagno è pari a quello di mangiare la cioccolata (cibo ambitissimo anche dai roditori, superato solo dalla massima loro golosità per la polpa di avocado). Come questi autori ragionevolmente concludono, si verifica in tal modo che i roditori sono capaci di empatia e di altruismo. Provare empatia significa soffrire quando si osserva soffrire un altro e gioire quando si vede gioire un altro (ma la gioia sarebbe arduo mostrarla in un animale). Il mondo degli esseri umani è pieno di empatia e alcuni dati, ancora non solidissimi, avevano rivelato che l'empatia esiste anche nelle scimmie. La sua esistenza nei roditori, ora dimostrata, fa girare indietro il filmato dell'evoluzione di decine di milioni di anni. Le radici neurobiologiche e neurochimiche dei comportamenti sociali altruisti sono, quindi, non solo molto più antiche di quanto si sarebbe supposto, ma sono rimaste proprio le stesse, dai roditori a noi.
«L'empatia», mi dice Decety, «si basa su processi neuronali e ormonali coinvolti anche negli scambi affettivi e nel nostro profondo legame con i figli, specie quando sono piccolissimi. I circuiti cerebrali sono gli stessi in noi e nei roditori: i nuclei del tronco cerebrale, l'amigdala, l'ipotalamo, l'insula e la corteccia orbito-frontale. Anche gli ormoni responsabili dell'attivazione di questi centri cerebrali sono gli stessi: l'ossitocina, la prolattina e la vasopressina». Mi spiega che questi esperimenti sono stati effettuati sia sulle femmine che sui maschi, con risultati identici. Ma si trattava di ratto femmina con ratto femmina o maschio con maschio. Come mai non avete provato anche con femmine che liberano un maschio o viceversa? «Abbiamo impiegato due anni a mettere a punto questi esperimenti e ad analizzare i dati, compresi i correlati neurobiologici e ormonali, che pubblicheremo tra breve. Osservare empatia e altruismo tra i due sessi aggiunge una complicazione. Lo faremo in futuro».
Negli esseri umani, empatia e altruismo variano tra un individuo e un altro. Anche nei ratti si hanno queste variazioni individuali? «Sì», risponde Decety, «alcuni ratti sono più lenti di altri nel liberare il compagno e alcuni, circa un 30 per cento, non lo liberano affatto. Questo potrebbe anche essere un problema cognitivo, per esempio alcuni animali potrebbero non capire bene la situazione o non accorgersi che esiste la possibilità di aprire la porticina».
Lo incalzo con una domanda inevitabile: al di fuori del mondo delle neuroscienze, cosa possono dire di interessante questi risultati al lettore non specialista?
«Innanzitutto, che il provare empatia per chi soffre e cercare intenzionalmente di venire in soccorso è qualcosa di radicato nell'evoluzione biologica da lungo tempo. Inoltre, nei roditori possiamo studiare il fenomeno alla base, osservando dei mutanti, modificando i centri cerebrali, somministrando o bloccando gli ormoni responsabili, variando la situazione sperimentale. Cose che, ovviamente, per ragioni etiche, sarebbe impossibile fare con gli esseri umani». Il che pone implicitamente un problema etico: è giusto far soffrire un animale che sente un po' come noi? Vien da rispondere con la scienza: è giusto, perché a noi sta più a cuore la nostra specie di quella dei ratti.
Decety ama molto il passaggio di un discorso di Barack Obama dell'agosto 2006, prima che diventasse presidente: «Si parla molto del deficit federale, ma dovremmo parlare di più del nostro deficit di empatia, dell'abilità di metterci nei panni altrui: il bimbo che ha fame, il metalmeccanico che è stato licenziato, la famiglia che ha perso la casa nell'uragano. Quando allarghiamo così l'orizzonte delle nostre preoccupazioni fino a includere degli estranei, diventa arduo non agire, non aiutare». Decety aggiunge che l'empatia non va confusa con il fenomeno più viscerale chiamato contagio emotivo: ridere quando gli altri ridono, essere tristi vedendo facce tristi intorno a noi. Questo processo istintivo, in genere, non produce alcuna azione. Invece l'empatia, quella vera, è un processo cognitivo più astratto, invita a fare qualcosa, a venire in soccorso. Ce lo insegnano Decety, Obama e, assai più umilmente, i roditori.


La Stampa 9.12.11
“Il mio Fidelio tra libertà e amore coniugale”
L’opera di Beethoven diretta da Noseda con la regia di Martone apre stasera la stagione del Regio di Torino
di Sandro Cappelletto

TORINO. Fidelio, o l’amore coniugale, l’opera di Beethoven che inaugura questa sera la nuova stagione del Teatro Regio, è un atto di fede, nella libertà di tutti e di ciascuno. Nella loro indissolubile relazione: posso essere libero e amare soltanto se sono cittadino di un mondo che pone questo valore come fondante la comunità degli uomini. C’è una «gioia senza nome» nel ritrovarsi di due sposi - ed è lei, con immenso coraggio, a liberare lui - alla fine di molte peripezie, c’è una felicità perfino indicibile nel sentire l’aria fresca che accarezza il volto dei prigionieri usciti dalla tenebre delle loro galere. Di questo soggetto illuminista e, ai tempi, rivoluzionario Beethoven si innamora, e con Fidelio compone l’unico suo titolo operistico.
Un soggetto eroico? «Da un lato il carcere, dall’altro l’aria, simbolo di libertà. In mezzo, uno spazio da scoprire. Sulla dialettica tra buio e luce verte la nostra messinscena», racconta Mario Martone. In Noi credevamo, il film dedicato al Risorgimento, il regista napoletano ha fatto emergere non l’entusiasmo, piuttosto le ambiguità del nostro cammino verso l’unità nazionale. Né con i Borboni, né con i Savoia, è sembrato dire, se gli umili rimangono comunque oppressi, schiacciati. Una visione che conferma anche in occasione di questa regia operistica: «Proprio guardando alle nostre tormentate vicende risorgimentali, si capisce quanto poco retta sia la linea che viene percorsa dalle lotte, individuali o collettive, per gli ideali di giustizia. Il viaggio è scandito da ambiguità e fallimenti non meno che da conquiste eroiche».
In un’opera che debutta a Vienna, occupata dalle truppe napoleoniche nel 1805 e che Beethoven, dopo l’iniziale insuccesso, rivede radicalmente fino alla versione definitiva del 1814 (scelta anche in questa occasione, e senza la celebre ouverture Leonore n. 3), Martone percepisce «intuizioni romantiche» e così spiega la scelta di un impianto scenico fisso: «La forza di Fidelio deriva dall’intreccio dei tanti caratteri che lo attraversano: c’è il lato comico e quello eroico, quello familiare e quello tragico. Il pubblico vedrà una serie di azioni sovrapporsi, simultaneamente».
Con Fidelio, Gianandrea Noseda prosegue un percorso beethoveniano che lo ha portato alla recente esecuzione integrale delle Nove Sinfonie: «Nelle sue partiture tutto è subordinato all’espressione, è questa la forza nuova che Beethoven imprime alla musica». Ma nell’opera, in particolare nelle scene iniziali, ambientate nel carcere dove è tenuto prigioniero Florestano, l’azione si sofferma anche su minuzie quotidiane, domestiche: «È proprio questa la caratteristica principale e Martone l’ha resa magistralmente. L’eroismo di Leonore, la moglie di Florestano che arriva in quel carcere vestita da uomo e facendosi chiamare Fidelio, nasce dal rapporto coniugale, ed è vivendo la normalità del quotidiano che si può arrivare a cambiare la storia». E così i sommersi potranno diventare i salvati. Inizio alle ore 20, collegamento in diretta di Rai-Radio Tre, repliche fino a domenica 18.

giovedì 8 dicembre 2011

La Stampa 8.12.11
Il decreto Petrolini
di Massimo Gramellini


La manovracadabra dei bocconiani stimola alcuni punti interrogativi poco sobri, di cui mi scuso anticipatamente.
Quante lauree in originalità economica bisogna prendere per avere l’ideona di tappare i buchi dello Stato aumentando la benzina?
Perché in tutto il mondo i diritti televisivi costano miliardi, mentre in Italia le frequenze sono come i biglietti dei vip: omaggio?
A quale titolo il bar di un oratorio continua a non pagare l'Ici? Forse distribuisce cocacola santa?
Come mai neppure i bocconiani ci permetteranno di scaricare la fattura dell’idraulico, affinché noi ci si senta finalmente motivati a pretenderla?
La vecchina che va nella sede più vicina del sindacato a lamentarsi che le hanno congelato la pensione e raddoppiato l'imposta sulla casa, è al corrente che per quella sede il sindacato non paga un euro d’Ici?
L’Europa ci ha chiesto di alzare l’età pensionabile e noi lo abbiamo fatto. Però l’Europa ci ha anche chiesto di ridurre i privilegi di tutte le caste: perché non lo abbiamo fatto?
Un tetto di 5000 euro alle pensioni d’oro di politici e alti funzionari pubblici quante pensioni di piombo avrebbe permesso di salvare?
Com’è che diceva il padre di tutti i fiorelli, Ettore Petrolini?
Ecco, qui almeno ho la risposta: «Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti».

La Stampa 8.12.11
Esenzioni per il Vaticano Si allarga il fronte del “no”
di Giacomo Galeazzi


ROMA Apertura Il presidente della Cei Angelo Bagnasco e il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone Anche nella Chiesa ci sono aperture all’ipotesi di introdurre l’imposta sui suoi immobili
In un momento di sacrifici generalizzati, la Chiesa esentata dall’Ici infiamma il dibattito su entrambe le sponde del Tevere. E non è solo una questione di principio, visto che sul tavolo c’è un mancato introito che da solo vale più due terzi dell’aumento delle accise. Nessuna crociata simbolica, né guerra di religione tra «pro» e contro», ma pragmatica verifica dei bilanci. Nel 2005 l’Anci aveva stimato in 400 milioni di euro il mancato introito: oggi, alla luce della rivalutazione del 60% degli estimi catastali, 700 milioni. Finora il solo parlarne era «tabù». Martedì il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone ha aperto ad una revisione mentre in Cei si ricorda che, a differenza dell’8 per mille, si tratta di una legge e non di un’intesa tra Stato e Santa Sede. Come dire, decidano i politici sugli immobili non inerenti al culto o all’attività pastorale e caritativa. Per il quotidiano dei vescovi, «Avvenire» quella dell’Ici non pagata per un’ingiusta esenzione è un’invenzione. «Nessuna legge stabilisce un simile “privilegio”- ricorda Tarquinio -. Le attività commerciali svolte da enti e realtà riconducibili alla Chiesa sono tenute a pagare l’Ici e tutte le altre imposte previste esattamente come ogni attività commerciale». Nella base c’è chi, come il genovese don Farinella, pagherà «per equità» l’Ici sugli appartamenti della parrocchia.
Intanto in Parlamento cresce il partito trasversale di chi chiede che la Chiesa paghi l’Ici sui locali ad uso commerciale: da Di Pietro alla Polverini, da settori del Pdl e al leghista Stiffoni, da Vendola all’ala laica dei Pd (20 deputati hanno presentato una mozione che impegna il governo «ad attivare le necessarie procedure» per recuperare il 30% della cifra: 230 milioni di euro). A dimostrazione del mutato clima, ieri la berlusconiana Gabriella Giammanco ha proposto d’introdurre l’Ici sugli immobili della Chiesa non utilizzati a fini di culto o per scopi sociali ma per attività economiche in diretta concorrenza con i privati. Finora il Pdl aveva stoppato ogni iniziativa che potesse essere percepita come «ostile» nei Sacri Palazzi: dall’eutanasia, alle coppie di fatto e appunto all’Ici. Ed è boom di adesioni all’appello online promosso da MicroMega (15 mila nelle prime 4 ore) affinché «uno tra gli aspetti insopportabili della manovra del governo Monti venga immediatamente rivisto». Mario Staderini, segretario di Radicali Italiani invoca «l’eliminazione dei privilegi fiscali garantiti alle strutture ecclesiastiche che fanno business, ad esempio nel settore turistico o ricettivo: non è vero, come sostiene “Avvenire” che pagano l’Ici». Grazie alle norme attuali, infatti, «un pensionato religioso che fa pagare una retta di 600 euro al mese ad uno studente per una camera non paga l’Ici. Idem nelle case per ferie che si comportano di fatto come alberghi». E «l’idea di far pagare alla Chiesa il 30% della cifra è uno sconto vergognoso mentre si taglia su tutto», precisa Staderini. Solo a Roma Alemanno ha recuperato in un anno oltre 10 milioni di euro di Ici non pagata grazie ad alcuni accertamenti. Sul fronte opposto, Casini, Fioroni, Gelmini, Mantovano, Rotondi e le «teocon» Binetti e Baio fanno quadrato a difesa dell’esenzione. Parli dell’Ici e scatta la polemica sulle esenzioni alla Chiesa. Era successo ad agosto con la manovra bis di Berlusconi. Succede oggi, dopo il pacchetto Monti.

l’Unità 8.12.11
Intervista a Graziano Del Rio
«Ici per la Chiesa? Subito un censimento e una legge più chiara»
Il presidente dell’Anci: il problema è l’esenzione per gli spazi definiti «parzialmente» commerciali Siano i Comuni a dire in quali casi applicare l’Imu
di Alessandra Rubenni


Se si vuole polemizzare è un conto, se si vuole discutere per risolvere i problemi un altro». Il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio liquida con poche parole gli scenari da battaglia tra «clericali convinti e laici furiosi», che «non rendono un buon servizio a nessuno», e da presidente dell’Anci lancia la sua proposta per «eliminare ogni ambiguità» sugli obblighi di pagamento ma pure sulle esenzioni in tema di Ici, o meglio di Imu, per la Chiesa.
Insomma, niente tabù ma neanche atteggiamenti punitivi. Lo ha detto anche Vendola...
«Non credo che la Chiesa chieda o pretenda privilegi, ma solo di poter esercitare le sue attività. Fatto salvo il rispetto per la libertà di culto, il tema dell’Ici per gli immobili di proprietà ecclesiastica deve essere inquadrato secondo un principio semplice: laddove è chiaro il carattere commerciale delle attività svolte in un immobile, per quei locali l’Ici va pagata. Se di fianco a un santuario c’è un bar, non credo che questo sia funzionale al culto. In questi casi il tema si pone meno».
Dov’è allora, il nodo?
«Già oggi per le attività commerciali la Chiesa ha l’obbligo di pagare. La vicenda è molto più complessa di come viene disegnata. Non si tratta della volontà o meno di far versare l’Ici alla Chiesa. Il punto sono quei casi che il decreto Bersani, varato sotto il governo Prodi, ha definito di carattere ‘parzialmente’ commerciale e che godono dell’esenzione. Se il proprietario ritiene ‘parzialmente’ commerciale l’uso che fa di un immobile, non ha l’obbligo di presentare la dichiarazione ai fini dell’Ici».
Ad esempio? Quali attività ricadono in questo spazio grigio?
«Può essere il caso di uno spazio di accoglienza alberghiera gestito da un ordine religioso, magari legato a un luogo di culto: si può dire che è parzialmente commerciale o no?».
Se fa concorrenza alle strutture ricettive private, non è commerciale?
«Gli enti religiosi pensano di no. E non dichiarano ai fini Ici, ritenendolo ‘parzialmente’ commerciale. Il codice civile, però, non prevede l’esistenza di un’attività mista, commerciale e non commerciale. Quindi, in caso di contenzioso, tutto viene rinviato al giudice». Come intervenire, allora? «Innanzitutto occorre fare un censimento degli immobili ecclesiastici. C’è chi dice che valgano più di un miliardo, in termini di gettito Ici. Bisogna averne un quadro preciso. E poi, con tutto il rispetto per il mio segretario, si potrebbe superare l’interpretazione di Bersani su quel ‘parzialmente’ commerciale».
Quindi?
«Una volta che si disporrà di un’anagrafe degli immobili, quelli destinati al culto ovviamente continueranno ad essere esentati e quelli commerciali come è già stabilito a dover pagare. Per i locali su cui esista un dubbio, credo sia giusto che sia il Comune di appartenenza a giudicare se vada versata l’imposta o meno, sulla base delle attività che si svolgono lì dentro».
Un gruppo di 20 deputati del Pd proprio ieri ha chiesto con una mozione che la Chiesa paghi e che venga determinato al più presto il gettito che dovrebbe derivare dal patrimonio immobiliare ecclesiastico... «Certo, è fondamentale una ricognizione precisa. Ma come dicevo, la questione è complessa e il punto è che vanno eliminate ambiguità interpretative dalla legge. E dove va chiarito che tipo di uso si fa di un immobile, intervengano i Comuni».
E questo garantirà davvero che la Chiesa paghi l’Imu anche per quegli immobili che finora usufruivano delle esenzioni grazie a quel “parzialmente commerciale”? «Credo proprio di sì. E se l’applicazione dell’Ici sarà affidata ai Comuni, come è sempre stato, sarà difficile che venga tassata una mensa della Caritas o i locali dove si fa il catechismo. Una volta eliminati i potenziali contenziosi, si rende giustizia alla Chiesa e ai cittadini».

l’Unità 8.12.11
La mozione
Venti deputati Pd: «Chiedere al Vaticano il 30% del gettito»


Venti deputati Pd hanno presentato una mozione con cui vorrebbero impegnare il governo «ad attivare le necessarie procedure per determinare il gettito che deriverebbe dalla tassazione del patrimonio immobiliare della Chiesa cattolica, richiedendo il pagamento di una quota pari al 30 % del totale del gettito stimato». I firmatari, fra i quali Paola Concia, Ileana Argentin, Leonard Touadì, Barbara Pollastrini, sottolineano che «è arrivato il momento» di affrontare il tema della tassazione «senza riaprire una inutile e sterile polemica tra laici e cattolici, tenendo conto del recentissimo richiamo della Cei sulla necessità di una maggiore equità della manovra proposta dal governo Monti».

il Fatto on line 8.12.11
Ici, dal Pdl a Fli: “Paghi anche la Chiesa”
Radicali: I convitti sono alberghi

qui

Avvenire 7.12.11
La vergogna dell'Ici
di Marco Tarquinio

qui

Corriere della Sera 8.12.11
Gli Edifici della Chiesa, le Regole sull'Ici
Mozione pd: devono pagare. Polverini d'accordo e il Pdl si divide. Casini: falsa polemica

di Alessandro Trocino

ROMA — Estendere l'Ici (anzi l'Imu) a tutti gli edifici della Chiesa cattolica? «È una questione che nel pacchetto urgente non ci siamo posti ancora», ha detto il premier Mario Monti incontrando i giornalisti della stampa estera, lunedì scorso. Ma la polemica sulle esenzioni Ici alla Chiesa in relazione a immobili che pur non essendo di culto, tuttavia non sono esclusivamente commerciali, era destinata a esplodere di nuovo. Mentre l'Ici torna ad essere applicata sulla prima casa delle famiglie italiane e viene incrementata su tutte le altre proprietà immobiliari, nel mirino sono finiti pensionati e case per ferie per studenti e turisti gestiti da religiosi in edifici ecclesiastici esentasse.
Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, ieri, ha scritto un editoriale in cui parla di ciclica «campagna di mistificazione», visto che «le esenzioni previste per le attività solidali e culturali svolte senza l'obiettivo di guadagnarci riguardano non solo la Chiesa cattolica ma ogni altra religione che abbia intese con lo Stato italiano e ogni altra attività non profit di qualunque ispirazione, laica o religiosa». Toni molto accesi da parte di Famiglia Cristiana («I soliti indignados de noantri»).
Ma ormai vari esponenti dei partiti maggiori hanno cominciato a chiedere di modificare le esenzioni. Per la prima volta è stata presentata una mozione in questo senso da parte di venti deputati del Pd (primi firmatari Esposito e Concia). Per il Pdl, si è espresso Denis Verdini, d'accordo con la collega Gabriella Giammanco («Se fosse per me, che sono un laico, metterei l'Ici sulla Chiesa, o meglio su una parte di beni della Chiesa dedicati a usi commerciali e non religiosi»). E il governatore del Lazio, Renata Polverini: «L'Ici è una tassa che deve ritornare per tutti». Il leader dell'Udc Pierferdinando Casini ha stigmatizzato la «falsa polemica nata sul nulla che come tale va spenta», ma tuttavia ha chiesto chiaramente che la Chiesa paghi l'Ici sulle attività commerciali, «cosa che in gran parte già accade, giusta è invece l'esenzione se è attività benefica». Più a sinistra è un coro per l'abolizione. Dal vicepresidente del Senato, radicale, Emma Bonino ad Antonio Di Pietro, a Nichi Vendola.
Il Concordato tra Stato e Vaticano del 1984 stabilisce che siano soggette al regime tributario ordinario le attività svolte da enti ecclesiastici diverse da quelle di religione e di culto. Invece, da quando venne introdotta l'Ici, nel 1992, essa fu esclusa per tutti gli immobili ecclesiastici che ospitassero attività considerate «particolarmente meritevoli». Dicitura ambigua sulla quale, su ricorso dei Comuni, è intervenuta la Cassazione, nel 2004, stabilendo che l'esenzione sarebbe dovuta spettare solo alle unità all'interno delle quali si svolga «un'attività effettivamente meritoria e legata al culto». Il governo Berlusconi (2005) con legge interpretativa ha riportato la questione alla situazione precedente la sentenza della suprema Corte. Il governo Prodi (agosto 2006) ha poi reintrodotto il regime di esenzione limitatamente agli immobili «non esclusivamente commerciali». Sull'avverbio, «non esclusivamente», si è giocata la partita fino a oggi. Secondo stime dell'Anci del 2005 il danno erariale sarebbe stato di 500 milioni di euro l'anno. La rivalutazione dell'inflazione, oggi, porterebbe a superare i 600 milioni di euro annui e a sfiorare gli 800 milioni (se a quegli edifici si applicasse la rivalutazione degli estimi catastali prevista dalla manovra Monti). Un fenomeno che a macchia di leopardo riguarda tutto il Paese (per circa 50 mila immobili, di cui 30 mila non di culto), ma che è particolarmente pesante nella capitale, dove il sindaco Alemanno ha stimato nel 2009 annualmente un'esenzione di 25,5 milioni e circa 11 milioni di elusione.
Il ministero dell'Economia il 26 gennaio 2009 ha dovuto emanare una circolare interpretativa per «frenare» il fenomeno. I radicali hanno fatto ricorso alla Corte di giustizia del Lussemburgo, e la Commissione europea deve verificare se la legge del 2006 è contraria alle direttive comunitarie sulla concorrenza: il termine ultimo per la sentenza è fissato tra sei mesi, giugno 2012. Che il problema esista lo ha riconosciuto anche il segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone: «Il problema dell'Ici è un problema particolare: un problema da studiare e da approfondire». «Però la Chiesa fa la sua parte — ha aggiunto il cardinale — , soprattutto a favore delle fasce più deboli della popolazione».
M.Antonietta Calabrò

Corriere della Sera 8.12.11
Camere ai turisti ma niente imposta


(M.A.C.) Casa del clero di Milano, proprio dietro la Scala, esterno, giorno. L'esponente radicale Marco Staderini, munito di microcamera, ha registrato e spedito su YouTube (http://youtu.be/-BLdH4mUsXA) «la prova» dell'evasione fiscale compiuta da enti ecclesiastici che non pagano l'Ici pur svolgendo attività commerciale rivolta al pubblico. Come è documentato dal video, Staderini chiede a una suora in portineria di poter alloggiare nella Casa del clero per quattro notti, all'inizio del mese di settembre scorso, essendo per lavoro a Milano. La suora lo accompagna a vedere la stanza, molto sobria, posta al secondo piano dell'edificio e che a suo dire è riservato agli ospiti non preti. La stanza è disponibile e il prezzo è di 50 euro a notte per una persona. La portinaia racconta che quasi sempre c'è un gran movimento di turisti (anche dall'Australia) che pernottano nella Casa del clero. Staderini quindi è fortunato ad aver trovato posto, dopo che la suora ha controllato il registro delle presenze. In un altro video, sempre su YouTube, Staderini ha documentato cosa accade in pensionati e convitti (http://youtu.be/vowNZyCYS0U). In base a una circolare del 2009 del ministero dell'Economia, invece, la ricettività turistica può essere esente dall'Ici solo se vengono rispettate alcune condizioni. Cioè: l'accessibilità limitata non è rivolta a un pubblico indifferenziato e la discontinuità nell'apertura non deve essere svolta per l'intero anno solare.

Repubblica 8.12.11
Il Vaticano e l´Ici mistero da un miliardo
Quasi 160mila persone in fila su Facebook nel gruppo "Vaticano pagaci tu la manovra". Un fiume di messaggi (venti al minuto ieri sera) su Twitter alla voce Ici-Chiesa.
Palazzi, scuole, alberghi e ospedali tutti gli immobili di "Vaticano spa"
di Ettore Livini


Tassare i beni del clero potrebbe fruttare fino a tre miliardi l´anno, ma riscuotere è quasi impossibile
Cresce la protesta per l´esclusione delle proprietà ecclesiastiche dall´Ici, su cui non esiste però una stima reale
Ieri una ventina di deputati del Pd ha presentato una proposta di legge per estendere la tassazione ai beni di oltre Tevere
A Roma ci sono 23mila tra terreni e fabbricati, 20 case di riposo, 18 istituti di ricovero Il patrimonio di Propaganda Fide vale da solo 9 miliardi

La manovra Salva-Italia ha riaperto una ferita mai chiusa: quella delle esenzioni fiscali della Santa Sede Spa. Il loro valore reale è materia di discussione accademica: 3 miliardi l´anno dicono i Radicali (che nel mazzo infilano anche il miliardo dell´8 per mille). Poche centinaia di milioni – rispondono oltreTevere – meritatissimi da chi tra oratori, mense e servizi di assistenza finisce per tappare (gratis) i buchi del welfare pubblico. Unica certezza: la Ue ha aperto un´indagine per aiuti di stato sulle leggi salva-Vaticano: l´esenzione-Ici per le realtà no profit (laiche e cattoliche) e lo sconto del 50% sull´Ires per associazioni di assistenza e beneficenza. Una norma utilizzata in qualche caso da suore e preti – sospetta la Ue – per far funzionare ospedali, scuole e hotel facendo concorrenza ai privati. Il capitolo più delicato, come testimonia il dibattito in rete, è quello dell´Ici-Imu. La stangata sulla casa costerà 11 miliardi agli italiani. E in molti chiedono che anche la Chiesa faccia la sua parte: ieri lo hanno fatto con una proposta di legge venti deputati Pd.
Vaticano Real Estate
Quanto vale il patrimonio immobiliare della Chiesa? Una stima reale non esiste. I beni del Vaticano sfuggono a qualsiasi radiografia catastale. L´Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa), l´ombrello ufficiale del mattone di Dio, ha a bilancio beni per soli 50 milioni, ma si tratta di valori storici inattuali. In realtà ogni congregazione è un piccolo impero immobiliare a sé, in costante metamorfosi: solo a Roma, per dare un´idea, ci sono circa 10mila testamenti l´anno a favore del clero. Secondo il Gruppo Re, una società che gestisce immobili per gli enti ecclesiastici, il 20% del real estate italiano fa capo in un modo o nell´altro a realtà religiose. Le stime di settore parlano di qualcosa come 115mila immobili, quasi 9mila scuole e oltre 4mila tra ospedali e centri sanitari. A Roma sotto il cappello del Santa Sede ci sono 23mila tra terreni e fabbricati, 20 case di riposo, 18 istituti di ricovero, 6 ospizi. Solo il patrimonio di Propaganda Fide – finita nell´occhio del ciclone per la gestione disinvolta dei suoi appartamenti – vale qualcosa come 9 miliardi.
Un impero (quasi) esentasse
Le attività commerciali svolte da enti e realtà riconducibili alla Chiesa – l´ha ribadito ieri "L´Avvenire" – «sono tenute a pagare l´Ici e lo fanno. E chi non lo fa merita di essere sanzionato». Vero? Purtroppo è difficile dirlo. Perché la legge al riguardo è ambigua. Il Governo Berlusconi nel 2005 aveva esentato dall´imposta tutti gli immobili di enti no-profit senza distinzioni sul loro utilizzo. La minaccia di un´indagine Ue aveva convinto l´esecutivo Prodi a limitare il beneficio agli edifici «che non hanno esclusivamente natura commerciale». Il problema è l´avverbio. Nessuno, nemmeno quei mangiapreti dei Radicali, pretende che oratorie parrocchie paghino l´Ici. Nel mirino c´è l´immensa zona grigia in cui si trovano migliaia di altri beni della Santa Sede. Palazzi e ville trasformati in alberghi. Scuole private e ospedali che fan concorrenza a prezzi salatissimi con il pubblico. Oratori diventati palestre Vip. Oppure le 214 case per ferie censite sul sito di Roma Turismo, punta dell´iceberg di quel business del turismo religioso che nella capitale – come lamenta Giuseppe Roscioli, presidente di Federalberghi Roma – muove 10mila posti letto e 700 milioni di giro d´affari l´anno. Senza il fastidio dell´Ici.
La guerra in tribunale
Di casi come questi ce ne sono a migliaia in tutta Italia. La Cassazione ha obbligato l´Alma Mater, la clinica delle Suore infermiere dell´Addolorata di La Spezia, a pagare 38.327 euro di Ici perché lavorava a fine di lucro con pazienti privati. «In Provincia abbiamo un centinaio di situazioni di questo genere», racconta Paola Michelini, assessore al bilancio della città ligure. Cagliari ha spedito a decine di enti religiosi cartelle esattoriali («tutte oltre i 50mila euro», dicono all´ufficio tributi) secondo un criterio semplice: nessuna richiesta alla scuola privata che accoglie i bimbi a rischio del tribunale dei minorenni. Avvisi di riscossione invece a realtà come l´istituto Infanzia Lieta, dove si pagano fior di rette in concorrenza con la scuola pubblica o alla Casa della Studentessa delle Figlie di San Giuseppe, «130 camere usate d´inverno per le figlie delle famiglie più ricche e d´estate per i turisti». Le cartelle finiscono di solito in tribunale. E l´equivoco sulla natura «non esclusivamente commerciale» ha portato a una giurisprudenza confusa sull´argomento.
La posta in ballo
Quanto vale l´Ici (o l´Imu) non pagata sugli edifici della Chiesa? Anche qui dipende dall´avverbio. L´ufficio studi dell´Anci ha stimato qualche anno fa un gettito potenziale di 400-700 milioni di euro. L´Associazione ricerca e sviluppo sociale (Ares) si è spinta fino ai 2,2 miliardi. Luca Antonini, presidente della Commissione attuazione del federalismo fiscale, è più prudente. «Un´elaborazione del Tesoro fatta incrociando le dichiarazioni degli enti non commerciali con Irap e Iva, stima un gettito Imu di 70-80 milioni dal patrimonio ecclesiastico davvero "commerciale"». Il discrimine è il solito: l´ "esclusivamente". Propaganda Fide e Apsa sono il secondo e terzo contribuente tra gli enti non commerciali a Roma, per carità. Ma solo un po´ di attività d´indagine del Comune della capitale sull´effettivo utilizzo degli edifici ecclesiastici ha portato dal 2005 ad oggi al recupero di 9,3 milioni di tasse.

l’Unità 8.12.11
Intervista a Susanna Camusso
«L’unità dei sindacati ha già dato i primi frutti. Ma la manovra è iniqua»
Parla il segretario della Cgil «L’equità non è un vezzo populistico,
è indispensabile alla ripresa. Tagliare i redditi più bassi porta recessione»
Lotta all’evasione. Per la tracciabilità mille euro rappresentano una soglia troppo alta, mentre l’1,5 per cento sui capitali scudati sembra una inezia
di Oreste Pivetta


Non è una bella ricetta dire salvo il Paese e ammazzo la popolazione». Parole di Susanna Camusso, segretario Cgil, colte ieri mattina davanti a Montecitorio.
A tarda sera è cambiato qualcosa? «Mi pare che non sia cambiato nulla. Credo anche che qualche effetto abbia suscitato la ritrovata unità dei sindacati, che davanti alle commissioni Bilancio della Camera e del Senato si sono presentati forti di un loro documento e di una proposta molto concreta. Per il resto si coglie una maggiore attenzione al tema della rivalutazione delle pensioni, niente di più invece rispetto al tema pensionistico in generale, sia per quanto riguarda le donne, sempre le più penalizzate, sia per quanto riguarda uomini e donne, quindi il sistema. Si torna a far cassa colpendo, attraverso le pensioni, i lavoratori. Si torna a far cassa senza neppure porsi l’obiettivo, in ragione di una maggior equità, di aumentare ad esempio le aliquote contributive per gli autonomi o per i coltivatori diretti».
Quindi lunedì 12 dicembre, lo sciopero. Cgil, Cisl, Uil di nuovo insieme. Molti osservano però che l’emergenza è enorme, la manovra indispensabile e che all’epoca della riforma Dini non si contò neanche un’ora di sciopero...
«Al contrario. In quei mesi la mobilitazione in tutto il Paese fu vivissima, si arrivò a una manifestazione a Roma, tanto grande che si divise in tre piazze diverse. La trattativa continuò e si concluse con un accordo, per una riforma che comportava sacrifici, ma che rimetteva in equilibrio in sistema. Non è vero che fu una riforma per quelli che sarebbero venuti dopo, per le future generazioni, perché quella legge cambiava le carte in tavola anche per chi stava già al lavoro e vedeva allontanarsi l’orizzonte della pensione. In questo caso non ci sono poi da rimettere in sesto i conti dell’Inps. Ci sono soldi da recuperare».
Siamo tutti convinti che la situazione sia grave. Ogni giorno leggiamo prediche sulla inderogabilità dei sacrifici. Mi sbaglierò, ma mi sembra di non aver trovata eco, ad esempio sul Corriere della Sera, del dissenso sindacale. In compenso i seriosi ammonimenti si sprecano.
«Sì, dobbiamo subire anche un certo benpensantismo, rappresentato autorevolmente da certa stampa, di quanti sdottorano a proposito del sacrificio degli altri. In nome naturalmente della salvezza dell’Italia. A parte il cattivo gusto di chi chiacchiera sapendo che di pesi non ne dovrà sopportare, c’è anche di peggio: non capire che deprimere la condizione di chi lavora, tagliare i redditi più bassi, conduce l’Italia verso una spirale recessiva, non capire che l’equità non è un vezzo populistico ma serve proprio alla ripresa». Ma questa riforma pensionistica in fondo accerta solo che la nostra vita s’allunga e quindi può allungarsi anche la nostra vita lavorativa.
«Non faccio nomi, ma un parlamentare non certo di sinistra in corridoio mi ha sussurrato: sono sempre stato un ammiratore della Thatcher, ma una riforma di questo genere non sarei mai riuscito a immaginarla neppure io. Che cosa vuol dire? Vuol dire che siamo andati oltre i limiti e, nell’accelerazione oltre i limiti, c’è la persecuzione. Pensiamo a quei lavoratori a metà del guado, dipendenti da un’azienda in crisi, alle soglie della pensione: che cosa ne facciamo? Ne facciamo dei disoccupati nell’età più difficile per rientrare in un’azienda? Aggiungiamo mancato adeguamento, accise, iva, tasse sulla casa: il prelievo è pesantissimo e indiscriminato. A fronte di che cosa? Verrà poi una riforma del mercato del lavoro. Ma con quale scopo? Per facilitare i licenziamenti? C’è una contropartita? Qualcosa che faccia pensare all’equità? Non mi pare».
Ci sono la tracciabilità dei pagamenti oltre i mille euro, l’1,5 per cento sui capitali cosiddetti scudati, la tassa sulle barche che magari battono bandiera panamense... Non è equità?
«Mille euro rappresentano una soglia troppo alta e poi bisognerebbe poter mettere in piedi una rete efficace di controlli, incrociando dati, per dare un senso a quell’intervento. L’1,5 sui capitali scudati sembra una inezia. Siamo davanti all’ennesima manovra finanziaria, la quinta o la sesta quest’anno, ho perso il conto, sempre dello stesso segno... In compenso si è chiesto che venissero poste in vendita le frequenze televisive: era un modo per far cassa, senza ricorrere ancora alla leva fiscale. Ma di frequenze televisive in vendita non c’è traccia. E non c’è traccia neppure di risparmi tagliando qualche caccia bombardiere».
In verità si parla di casa, di quel balzello che Berlusconi aveva cancellato. Mi permetta una considerazione: va bene pagar le tasse sugli immobili, ma la proprietà della casa d’abitazione in un paese con un mercato degli affitti bloccato e costosissimo non mi sembra un gran lusso.
«Un mercato degli affitti bloccato, costoso e in nero. Quando Berlusconi cancellò l’Ici, manifestammo la nostra perplessità».
Ci dicono anche che è una tassa che tutta l’Europa paga.
«Ma in Europa non c’è una dimensione del possesso di case pari a quello che si misura in Italia. E poi si dovrebbe colpire chi di case ne ha dieci, insieme magari con un reddito altissimo, non chi ha risparmiato una vita per comprarsi i due locali in cui vive».
C’è un punto però a favore di questa manovra: gli aiuti all’impresa. La Confindustria applaude. La Cgil? «Avremmo voluto sostegno all’impresa e sostegno ai redditi. Sostegno ai redditi per rilanciare i consumi e quindi riavviare la produzione. Altrimenti con l’Iva in aumento, le accise, le paure universali, si ferma tutto. Questo è il pericolo. Non si spende perché non ci sono soldi e perché si teme per il futuro. Peccato che l’industria italiana viva molto di un mercato nazionale. Aggiungo un particolare: quando si parla di Irap, per incentivare nuova occupazione, si fa menzione di lavoratori dipendenti e assimilati. Che cosa si vuole? Incrementare il precariato? Gli assimilati sono i precari. Ne avremmo molte altre: ad esempio niente si dice a proposito di lavoro nero, di sommerso, eppure intervenire in quel campo sarebbe un bel modo per colpire l’evasione fiscale. In questo tema, una funzione antievasione avrebbe la regolarizzazione degli immigrati. Pare che si debba aspettare però».
Ad ascoltare le voci di questi giorni, viene da pensare che siate rimasti soli o quasi a fare opposizione e che comunque abbiate marcato in questo senso la vostra forte autonomia. Penso anche a Uil e Cisl. È d’accordo?
«Il vero problema è la crisi della politica. Sarà una parentesi. Speriamo che la parentesi non diventi una via di affossamento della politica».
Il sindacato crede nell’euro?
«Il sindacato si è adoperato, anche a costo di gravi impegni, perché l’Italia entrasse nella moneta unica. Respingo l’idea di una produttività che passi attraverso la svalutazione, come una volta ci era consentito e come sostengono i nemici dell’euro. La maggior produttività nasce dalla capacità di innovazione. Non crediamo ovviamente in un’Europa dipendente dalla Banca centrale europea, ma in un’Europa che pensi a strategie politiche ed economiche comuni».

Repubblica 8.12.11
Un nuovo contratto
di Susanna Camusso


L´Unione europea attraversa la crisi più profonda della sua storia. Una crisi finanziaria ed economica che ha gravi conseguenze sociali ma che è divenuta, soprattutto, crisi politica della stessa Ue. Chi poteva immaginare, appena due anni or sono, che tante voci, anche molto qualificate, potessero prevedere una possibile rottura dell´euro? Significherebbe la distruzione dello stesso progetto europeo. Come si è potuti arrivare a questo?
La radicale virata politica del Consiglio d´Europa del 9 maggio 2010 fu dichiarata necessaria per recuperare fiducia dei mercati finanziari e permettere ai loro agenti di finanziare gli stati europei con tassi di interesse ragionevoli. Da quella data, il Consiglio, la Commissione e la Bce hanno promosso, o imposto, politiche di austerità basate sulla riduzione delle spese pubbliche e sulle famose "riforme strutturali" consacrate nel Piano di governance economica e nel Patto Europlus. Il prossimo vertice del Consiglio europeo, il 9 dicembre, lancerà il dibattito sulla riforma del Trattato di Lisbona per mettere queste politiche al centro di una governance economica rafforzata della zona Euro.
Il fatto è che queste politiche sono naufragate. Sul piano economico, la crisi dei debiti sovrani si è propagata ed aggravata. Le conseguenze sociali della riduzione dei salari e delle pensioni, della contrazione delle spese della protezione sociale, dell´istruzione e della salute sono evidenti. Parallelamente, la solidarietà tra paesi si sta riducendo. Fatto inedito, le istituzioni europee incoraggiano una profonda erosione del modello sociale. Le istituzioni europee e di molti paesi stanno per rompere quel patto sociale che aveva permesso, dopo la seconda guerra mondiale, di costruire gli Stati previdenziali europei e il progetto comune che ha portato all´Unione europea. Il sindacalismo europeo, riunito in seno alla Confederazione europea dei sindacati Ces, ha rifiutato fermamente tali politiche e si è mobilitato. Non è chiaro, finora, fino a che punto i fatti stiano dando ragione alle sue proposte ed analisi. Costruiamo a sostenere che non ci sia altra soluzione che approfondire il progetto europeo, ma con formule ben diverse dalle politiche sbagliate e ingiuste che gli attuali responsabili europei ci impongono. Non è il momento di rimettersi ai governi di tecnocrati, c´è bisogno di maggiore azione politica e di partecipazione dei cittadini.
Cosa proponiamo per uscire da questa crisi economica e politica dell´Ue? Innanzitutto, fermare i meccanismi della speculazione, garantire la capacità finanziaria di tutti gli stati membri. Il solo annuncio, credibile, di una garanzia assoluta dei debiti sovrani porrebbe un freno alla speculazione dei mercati. Tale garanzia potrebbe concretizzarsi nell´emissione di euro-obbligazioni e nella trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza. Anche il sindacalismo europeo è molto preoccupato della stabilità delle finanze pubbliche. Non si può tuttavia raggiungere gli obiettivi di riduzione del deficit e del debito annientando le economie. Pensiamo che oggi più che mai si abbia bisogno di una nuova politica monetaria, economica e sociale, nel quadro di una governance economica forte della zona Euro, coordinata con quella dell´Ue a 27, ma con contenuti assai diversi da quanto propostoci dai governi. Affrontare l´insieme delle sfide europee è impossibile con un esangue stanziamento che arriva appena al 1% del Pil. Abbiamo bisogno di una istituzione europea che emetta debito e non soltanto di una banca centrale la cui unica missione è controllare l´inflazione.
Il Consiglio europeo del 9 dicembre dovrà risolvere problemi immediati del debito e della crescita, nonché dare chiare indicazioni sulla prospettiva che noi proponiamo. Il movimento sindacale europeo non difende una posizione di parte: noi cerchiamo di proteggere l´interesse generale. È necessario un nuovo patto sociale.
Il patto fiscale, le politiche di redistribuzione delle ricchezze, il diritto del lavoro e la negoziazione collettiva sono stati il collante del più lungo periodo di prosperità economica e democratica in Europa. Tale collante ha consolidato relazioni del lavoro moderne, permettendo un forte coinvolgimento dei lavoratori, attraverso le loro organizzazioni, nella vita delle imprese. Soltanto basandoci su questi valori, che hanno definito il modello sociale europeo si potrà uscire dalla crisi.
Esigiamo che venga realizzata una futura revisione dei trattati integrando la dimensione sociale. I diritti sociali fondamentali, in particolare quelli riguardanti la negoziazione collettiva, debbono essere rispettati ed inclusi in tutte le misure anticrisi.
Il progresso dell´Unione europea si deve basare sulla coesione sociale e la solidarietà interna tra gli stati membri e nella solidarietà e la coesione politica tra essi. Per raggiungere questo, bisogna agire in un quadro comune europeo e rafforzare il dialogo sociale. È per questo che avanziamo queste proposte, esigendo che non si marginalizzino i lavoratori nella ricerca delle soluzioni, manifestando la volontà di mobilitarci in un quadro europeo, per ottenerle.
La lettera aperta è firmata anche da Ignacio Fernandez Toxo, segretario generale Ccoo Spagna, Candido Mendez, segretario generale Ugt Spagna, Michael Sommer, segretario generale Dgb Germania, Bernard Thibault, segretario generale Cgt Francia, François Cherèque, segretario generale Cfdt Francia, Anne Demelenne, segretario generale Fgtb Belgio, Claude Rolin, segretario generale Csc Belgio

il Fatto 8.12.11
In lotta e al governo, nel Pd si litiga sullo sciopero
I lettiani a Fassina: non si può manifestare contro la Manovra
E l’alleanza con Di Pietro è quasi un ricordo
di Wanda Marra


“Non si può tenere a lungo il piede in due staffe, magari protestando la mattina (in piazza) contro provvedimenti che il proprio partito vota la sera (in Parlamento) ”. È il sito di Trecentosessanta - ovvero l’associazione di Enrico Letta - che pubblica in un articolo (a firma Alessia Mosca e Marco Meloni) un attacco a freddo contro il responsabile economico dei Democratici, Stefano Fassina, che aveva espresso la volontà di andare al presidio organizzato dai sindacati lunedì. “Non mi interessa”, si limita a mormorare una versione del “no comment” particolarmente dolente l’interessato, che lo scopre in diretta telefonica col Fatto, col tono di chi non è in grado di sopportare altre domande, altre questioni. Indizi evidenti della temperatura che in casa democratica è sempre caldissima. L’articolo è al vetriolo: "Non esiste - se non nella mente di qualche nostalgico di altre stagioni - lo spazio per la creazione di 'un partito di lotta e di governo”. Tanto più “se si hanno incarichi di responsabilità nel partito”. Commenta Matteo Orfini, responsabile Cultura e Informazione dei Democratici, con il solito umorismo corrosivo: “Una minaccia? Ma no, era un’autocritica. Intendevano dire che hanno capito che non si può chiedere equità e festeggiare la manovra”. Ha un bel gettare acqua sul fuoco Letta, parlando di “scaramucce”. Lui che nelle vesti di mediatore ha annunciato l’ok condiviso di Pd, Pdl e Terzo Polo a modifiche su tre punti (“recupero dell’inflazione esteso a tutte le pensioni superiori almeno di tre volte alla minima; scalone meno rigido; aumento sulla franchigia sull'Ici sulla prima casa”). Ha un bel minimizzare, ma i più “radical” del partito sono messi sempre più all’angolo. E l’arria che si respira è elettrica.
Questo è solo l’ultimo episodio di un escalation di tensioni. Aveva iniziato l’altroieri sera Di Pietro annunciando voto contrario alla manovra e parlando di “inciuci” in Parlamento. Ripreso da Bersani, in diretta tv con la Berlinguer al Tg3 e visibilmente teso: “Se fa così andrà da solo”. L’alleanza con Idv e Sel (“la foto di Vasto”) vacilla. Anzi, forse già non esiste più. D’altra parte Bersani le accuse di inciucio proprio non le manda giù e rispetto a questo sembra pronto a lasciar andare i dipietristi per la loro strada. ”Basta giocare” è la parola d’ordine, e il Pd - in evidente difficoltà con i suoi elettori (che in questi giorni hanno invaso siti, blog e pagine Face-book di insulti e delusione) - sente che il leader Idv lucra sulle sue difficoltà. “Noi siamo responsabili, Di Pietro non si prende le sue responsabilità”, dice ancora lo stesso Fassina. Che si trova nella scomoda posizione di difendere una manovra che ha criticato e un governo sul quale ha espresso tutta la sua perplessità. “Non è il governo del Pd. È il governo anche del Pdl”. Sì, ma l’impressione è che sia un po’ troppo del Pdl. “Noi stiamo facendo di tutto per migliorare questa manovra”.
Bersani - infatti - sta facendo un’opera di mediazione in prima persona. Ieri ha parlato con Giarda, con Alfano, Con Casini. E in mattinata ha riunito il gruppo del Pd chiedendo ancora una volta “responsabilità” sulla manovra. Richiesta sostanzialmente accolta da tutti, anche se da posizioni opposte: a molti l’impostazione di Monti va sostanzialmente bene, altri la mandano giù a fatica e insistono per modificarla il più possibile. Tra loro, Cesare Damiano (un altro che non ha escluso la partecipazione allo sciopero di lunedì). Espressione delle posizioni più radical nel partito ha portato avanti una vera e propria trattativa in Commissione Lavoro a Montecitorio. Tanto da giungere a un accordo condiviso con il Pdl, dopo una vera e propria trattativa (nel merito: oltre alla indicizzazione per le pensioni tre volte superiori alla minima, alla gradualità dello scalone, il superamento della penalizzazione dei lavoratori che vanno in pensione avendo meno di 62 anni di età). “È un compromesso”, ammette. Come afferma chiaramente: “Certo, l’alleanza di Vasto è condizionata da quel che è successo in questi mesi”. Se lui lo dice a malincuore, Francesco Boccia (non a caso lettiano) ha tutto un altro tono: “La foto di Vasto? Quell'alleanza non è mai esistita”. Il terzo protagonista di quella foto, Nichi Vendola (che ieri ha presentato una contromanovra, incentrata su una patrimoniale straordinaria con un gettito di addirittura 200 miliardi e il rifiuto dell’idea di fare cassa sulle pensioni) ha ammonito: “Nessuno, tranne gli elettori ha diritto a stracciare la foto di Vasto”. E poi ci ha tenuto a esprimere “rispetto” pur nel dissenso a Monti e lo stesso “rispetto” alla posizione assunta dai Democratici. Ieri nella sede di Sel si respirava un’aria di ri-partenza, quasi euforica. E Vendola ha scelto un profilo basso, una strategia opposta a quella di Di Pietro. Forse ha intercettato la volontà dell’elettorato di dialogare con Monti, seppur per criticarlo. O forse aspetta che qualcuno tra i Democratici non ne possa più dei “bocconi amari” e scelga Sel.

Corriere della Sera 8.12.11
Manovra e sciopero, i tormenti del Pd
Fassina: ascoltiamo i lavoratori. I «lettiani»: no al partito di lotta e di governo


ROMA — Da una parte l'appoggio al governo d'emergenza, la necessità di tener fede all'immagine di forza responsabile che accetta di subire una manovra che non condivide in toto. Dall'altra, l'insofferenza della sinistra del partito e della base, i riflessi dell'antico collateralismo, ormai sbiadito, così come è sbiadita la celebre foto di Vasto, istantanea che suggellava una non dichiarata ma evocata alleanza con Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Giorni difficili per Pier Luigi Bersani, che deve controllare un partito diviso e alleati pronti a soffiare sul fuoco dell'insofferenza sociale per occupare spazi a sinistra.
Il primo banco di prova è lo sciopero indetto dalla Cgil per lunedì. Una parte del partito sceglie di stare con la Fiom e il sindacato. Lo fa Stefano Fassina, già oggetto di una polemica per le sue critiche, giudicate eccessive, all'esecutivo: «Andrò al presidio per ascoltare i lavoratori, i disagi sono veri». Sulla stessa linea è Cesare Damiano.
La decisione di partecipare non piace all'ala centrista del partito, da Paolo Gentiloni e Franco Marini. E non piace ai «lettiani» Alessia Mosca e Marco Meloni, che scrivono una nota sul sito TrecentoSessanta e accusano Fassina di tenere il piede in due staffe. «Non esiste — se non nella mente di qualche nostalgico di altre stagioni — lo spazio per la creazione di un partito di lotta e di governo». Fassina non ci sta: «Chi vive superficialmente quello che sta accadendo non conosce i drammi sociali dietro all'intervento sulle pensioni».
All'assemblea di ieri dei deputati democratici il malumore era altissimo. Massimo D'Alema, secondo alcune ricostruzioni, avrebbe detto, rivolto ai dirigenti Pd che manifesteranno con i sindacati: «Il nostro compito non è andare ai cortei ma ottenere miglioramenti in Parlamento».
Uno stop che è in linea con gli altri massimi dirigenti del partito. A mediare ci prova Bersani, che all'assemblea manda un messaggio chiaro ad Antonio Di Pietro: «Uno può non condividere, criticare, ma non accetto che venga a dire che qui sotto c'è un inciucio. Questo è inaccettabile. Ho voluto fargli capire che così non si va avanti. Se è così, ognuno vada per la sua strada».
Parole non condivise da Nichi Vendola: «Nessuno ha il diritto di stracciare la foto di Vasto». Accordo che, peraltro, secondo il pd Francesco Boccia, «non è mai esistito». Ma è sempre Vendola a tirare bordate al governo: «Sulle pensioni il governo racconta una gigantesca cazzata e cioè che la riforma serve a risolvere il conflitto generazionale. Non c'entra niente». Salvo poi correggersi: «Non mi riferivo al governo, ma al dibattito pubblico».
Sulla manovra, la strategia di Bersani per placare i suoi è quella di blindarla, evitando una valanga di emendamenti personali o di corrente. Per questo spiegano di essere già al lavoro per correggere il testo. L'obiettivo del Pd è mettere a punto, entro venerdì o sabato, quelle pochissime modifiche che il governo accetterà e che saranno concordate con Pdl e Udc. Per incidere non sui saldi ma sull'equità, le correzioni saranno concentrate su pensioni e Ici. Si lavorerà principalmente sull'innalzamento della soglia di esenzione dal blocco della rivalutazione delle pensioni.

Repubblica 8.12.11
Il leader dell´Idv sempre più lontano dal Pd. Ferrero lancia un appello a chi contesta la manovra
Di Pietro: "Il governo protegge i mafiosi" Sfuma la foto di Vasto, asse con Sel e Prc
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - Ci sono foto maledette. Immagini che dicono troppo, o troppo presto. Il quadretto a tre di Vasto - il simbolo dell´alleanza tra Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola e Antonio Di Pietro - è una di quelle. A qualcuno - nel Pd - non è mai piaciuta. Altri non ci hanno creduto fino in fondo. E anche tra chi la considerava inevitabile, sono cominciati i ripensamenti.
Il segretario pd attacca Antonio Di Pietro: «Uno può non condividere, criticare, ma non accetto che venga a dire che qui c´è sotto un inciucio. Se è così, vada per la propria strada». Il leader Idv rincara: «Ogni giorno che passa l´esecutivo è sempre più a difesa degli evasori, mafiosi e criminali e non degli italiani». Nichi Vendola cerca di metter pace. Boccia la manovra, propone una patrimoniale straordinaria («un´imposta del 10 per cento sulle ricchezze finanziarie»), ma invita gli alleati a «non stracciare la foto di Vasto perché appartiene alle speranze del popolo italiano». Il leader di Sel apprezza i tentativi del Pd di cambiare il decreto, e spiega: «A Di Pietro nessuno chiede di rinunciare alla propria autonomia, solo di non agire a spese degli altri invocando parole come "tradimento"». Sforzo apprezzabile. Difficile che basti. «Prendo atto che Di Pietro si sta allontanando - scrive su Facebook il vicesegretario democratico Enrico Letta - mi auguro che ci ripensi. Di alleanze discuteremo in futuro. Ed è chiaro che molto dipenderà da come si affronterà quest´esperienza». Più esplicito, Francesco Boccia: «Quell´alleanza non è mai esistita. A Vendola e a Di Pietro dico che gli accordi per il futuro avverranno su base programmatica: per esser chiari, bisogna avere le stesse idee economiche e sulla politica internazionale». Duro, il capogruppo Dario Franceschini: «Ci sono dei momenti in cui le persone e i partiti devono scegliere tra l´interesse del Paese e i consensi al proprio partito. Noi - a differenza di Di Pietro - abbiamo scelto», dice. In questo quadro, non sorprende che il leader di Rifondazione comunista Paolo Ferrero si affretti a prendere carta e penna per chiedere alle forze della sinistra che contrastano la manovra - a Idv e Sel, non al Pd - di «fare congiuntamente battaglia politica». Saranno insieme in piazza, lunedì, al fianco dei sindacati. Ci sarà anche Stefano Fassina, responsabile economico dei democratici, già attaccato per questo da Paolo Gentiloni a da alcuni deputati vicini a Letta. Questa però è un´altra storia, un´altra grana da risolvere.

il Fatto 8.12.11
Il rischio di Monti
di Paolo Flores d’Arcais


Se il decreto “salva Italia” resta quello che è (un decreto “salva privilegiati”) il governo dei tecnici rischia grosso, addirittura di fallire già nella culla. A Monti la sorte (e Napolitano) ha offerto una opportunità straordinaria, quella di potere decidere in assoluta libertà e secondo coscienza i contenuti della manovra: i due partiti maggiori, Pd e Pdl, la fiducia l’avrebbero votata comunque, magari “obtortissimo collo”, per non andare a elezioni immediate col marchio di affossatori dei titoli pubblici (che sarebbero precipitati con “effetto Argentina”). Dal professore della Bocconi non si pretendeva neppure la tanto sbandierata (e nei fatti svillaneggiata) “equità”, ma molto meno: un colpo al cerchio e uno alla botte. Purché eguali per intensità, energia e “cattiveria”.
Il colpo alla botte, al “terzo Stato”, è arrivato: tutto e subito. Con aspetti addirittura odiosi: l’adeguamento delle pensioni già ora copre solo il 70% dell’aumento del costo della vita, il che significa l’impoverimento anno per anno. Bloccarlo per due anni significa rivoltare il coltello nella piaga di chi è alle soglie della povertà, e ogni lacrima in proposito – per quanto sincera – è lacrima di coccodrillo. Il colpo al cerchio dei privilegiati invece non si è visto affatto. Bastava aumentare le aliquote Irpef per i redditi alti (sopra i 75 mila euro all’anno, e aliquote progressivamente incrementate per chi ne guadagna 200, 500...), prelevare una “una tantum” sulle pensioni più ricche (alcune fino all’indecenza) e sulle “buonuscite” milionarie (Guarguaglini docet). E soprattutto sui capitali “scudati”: la tassa dell’1,5% dimostra che un prelievo non è affatto incostituzionale (mai lo avrebbero proposto i Tecnici e firmato il Custode della Costituzione), e visto che gli antipatrioti dei capitali all’estero avevano pagatoil5%anzichéil30%pretesodaigovernimoderati e di destra di Cameron e Merkel c’era un margine del 25% in cui pescare senza fare torto alcuno ai suddetti fedifraghi fiscali.
Il governo può ancora correggersi, dappoiché “errare humanum, perseverare diabolicum”. E dovrà comunque decidere della propria “natura” sulla questione delle frequenze tv digitali (che al valore di mercatoporterebberoincassa4o 5 miliardi: esattamente la grassazione compiuta contro i pensionati). Se saranno regalate a Berlusconi sarà inevitabile che il governo Monti finisca per apparire come un mero “berlusconismo dal voltoeducato”. Consegnandosiai desiderata del Caimano, il governo rischia di cadere non appena al Caimano farà comodo.

Corriere della Sera 8.12.11
«Esecutivo di destra?». L'Unità lancia il dibattito
di Alessandro Trocino


Tesi sostenuta da Cancrini e poi da Di Pietro Ignazi: è presto. Macaluso: ex pm populista
ROMA — Destra e sinistra sembravano ormai reperti archeologici, categorie seppellite dal crollo delle ideologie e dal prevalere della più moderna e sbrigativa dicotomia berlusconismo-antiberlusconismo. Con l'avvento del governo tecnico, archiviati i dibattiti sulle leggi ad personam, tornano di moda contrasti antichi: poveri e ricchi, borghesi e proletari, destra e sinistra. E proprio il governo Monti — che nasce come esecutivo tecnico composto da non parlamentari — viene ora etichettato come «governo di destra». Succede due volte in due giorni e sempre sull'Unità: lo definiscono così Luigi Cancrini e Antonio Di Pietro.
Il titolo della rubrica di Cancrini rende l'idea: «Perbene ma di destra». Lo psichiatra ed ex deputato del Pci, sostiene che bisogna sbarazzarsi dall'ipocrisia di chiamare tecnico questo governo, perché ha fatto «una manovra fortemente caratterizzata dal punto di vista politico, una manovra di destra». Magari «europea» e «pulita», ma pur sempre di destra. Gli fa eco Antonio Di Pietro, che — contestando le norme «dettate da banchieri, speculatori e proprietari dell'industria bellica» — spiega: «Questo, piaccia o no, è un governo di destra». Aggiunge Massimo Donadi: «Ha fatto una manovra classista. Io non sono come Rifondazione che nel 2007 fece appendere i manifesti con scritto: "Anche i ricchi piangano". Però vedo i pensionati che soffrono e la ricca borghesia che è raggiante. Questo governo difende gli interessi delle banche e non dell'Italia».
Non è d'accordo il politologo Piero Ignazi: «Aspetterei qualche mese prima di affibbiare un'etichetta del genere: per ora è solo emergenza e non ideologia. Se poi colpire i redditi bassi diventasse una scelta di fondo, allora lo si potrebbe dire».
Emanuele Macaluso, direttore del Riformista, s'arrabbia: «Di Pietro è di destra, molto più di Monti. Lo ha detto lui stesso che se non ci fosse stato Berlusconi sarebbe stato con An. E poi la sinistra fa analisi politiche, la destra populista ragiona per slogan. Se mi portate una sua analisi politica vi do un premio». Macaluso avverte: «Pensavate che dopo un governo di destra ne venisse uno di sinistra? Non è così, non c'era alternativa, rassegnatevi».
Salvatore Vassallo, Pd, evoca Norberto Bobbio: «Secondo la sua analisi, la destra attribuisce maggior rilievo alla libertà, la sinistra all'eguaglianza. Ma la sinistra riformista non predilige l'eguaglianza al punto da rinunciare alla libertà. Questo governo assomiglia meno al governo Berlusconi che ai governi Amato e Prodi degli anni 90. Non è certamente amico della sinistra, ma come si fa a dire che sono di destra persone come Michele Salvati, Maurizio Ferrera, Pietro Ichino o Paolo Onofri?». Sulla stessa linea Furio Colombo: «La destra la conosciamo bene, l'abbiamo avuta per dieci anni. Se è di destra Monti, è di destra tutta l'Europa. E anche Obama e i democratici americani, che sono, grossomodo, una delle fonti di ispirazione di questo governo».

il Fatto 8.12.11
Non aprite quel forziere
Il governo: “Tassare i soldi portati in Svizzera? Non se ne parla”
Anche sull’Ici alla Chiesa nessun provvedimento
Pensioni, accordo per tutelare quelle sotto i 1.400 euro
di Stefano Feltri e Marco Palombi


Altro che manovra blindata e intoccabile. Oggi Mario Monti sarà a Bruxelles, per il vertice dei capi di governo dell’euro che dovrebbe salvare la moneta unica e che invece lascia intravedere solo le solite dichiarazioni. Ma a Roma si tratta eccome sulla manovra da 21 miliardi, che ne vale però 30 tra nuovi tagli e tasse. I punti su cui si tratta sono quattro: il taglio delle pensioni medio basse, il beauty contest che regala le frequenze liberate dal passaggio al digitale, l’Ici sugli immobili commerciali della Chiesa e la tassazione dei capitali degli evasori in Svizzera.
Previdenza
La commissione Lavoro della Camera ieri ha esaminato la manovra, ha dato parere favorevole ma ha chiesto di garantire l’aumento legato all’inflazione anche alle pensioni fino a 1400 euro, mentre la soglia attuale fissata dal decreto Monti è di 960 euro. Le risorse potrebbero arrivare da un intervento sulle baby pensioni (la Fornero si è già detta disponibile), cioè quegli assegni versati da anni a lavoratori andati in pensione con un numero molto basso di anni di lavoro, celebri quelli dei “19 anni 6 mesi e un giorno” (ora la soglia è salita a 41-42). Oppure si potrebbe alzare dall’1,5 al 2-3 per cento la tassa sui capitali scudati. Ma potrebbe anche rimanere tutto così com’è, visto che il parere della commissione Lavoro non è affatto vincolante per il governo.
Immobili “sacri”
Ed è praticamente certo che non si toccherà la disciplina sugli immobili che hanno anche finalità commerciali della Chiesa cattolica, oggi esentati dall’Ici grazie a una normativa volutamente ambigua. Si parla di risorse tra i 700 milioni e 1,5 miliardi. Ma qualche spiraglio di consenso tra i partiti ci sarebbe: una parte del Pd è favorevole, non ostili rami del Pdl, Enrico Letta (Pd) sostiene che c’è un’intesa perfino nel Terzo Polo di Pier Ferdinando Casini. Ma dal governo non si registrano segnali di interesse in questo senso, nonostante il consenso sul tema sia sempre più diffuso, almeno stando alle reazioni in rete e su Facebook.
Televisione
Altri 4 miliardi di euro, ampiamente sufficienti a evitare i tagli delle pensioni medio-basse, potrebbero arrivare dalla sostituzione del beauty contest con un’asta vera. Le frequenze televisive liberate dal passaggio al digitale non verrebbero più regalate agli operatori (a cominciare da Rai e Mediaset) ma vendute a caro prezzo. Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera non ha ancora esaminato il dossier, ma la pressione cresce. Ieri Ezio Mauro, direttore di Repubblica (parte di un gruppo editoriale che partecipa al beauty contest), che chiesto l’annullamento della gara: “Basta il buonsenso e il senso del dovere”.
Libere evasioni
Ma il caso più sorprendente è quello del netto rifiuto del governo di imitare Germania e Gran Bretagna e fare un accordo con la Svizzera che imponga a Berna di tassare i capitali degli evasori nei suoi forzieri. Una misura che potrebbe portare, a seconda delle stime, tra i 5 e i 10 miliardi di euro nelle casse dello Stato: non se ne parla nemmeno, è contro le regole europee e quelle Ocse. É questa la dichiarazione del presidente del Consiglio Mario Monti: è stata letta dal ministro Piero Giarda nell’aula della Camera in risposta ad un’interrogazione sul tema di Massimo Dona-di, capogruppo di Italia dei Valori (“allora il governo protegge gli evasori e gli esportatori illegali di moneta”, commenta Donadi).
Il ministro per i Rapporti col Parlamento Giarda specifica di leggere “un documento del Tesoro”, quasi a sottolineare una sua divergenza personale rispetto al capo del governo.
Quest’anno Germania e Gran Bretagna hanno stipulato un accordo bilaterale con la Svizzera: entro maggio 2013 i residenti di quei paesi che abbiano conti nei Cantoni dovranno pagare un’imposta tra il 19 per ceno e il 35 per cento sulla media dei soldi presenti in banca tra il 2003 e il 2010 e un’aliquota fissa del 25 per cento sulle rendite di quel capitale. Berna, in sostanza, accetta di raccogliere le tasse per Londra e Berlino e in cambio conserva l’anonimato per i suoi clienti. Questi ultimi, se non aderiscono, hanno solo due possibilità: autodenunciarsi al fisco o portare via i capitali dalla Svizzera, rischiando di farsi beccare. Eppure, dice il governo, non si può imitare Berlino. Monti, stando a quanto legge Giarda, sostiene che gli accordi di Germania e Gran Bretagna “sono basati su una sanatoria del pregresso”, cioè un condono, “ed escludono l’identificazione del contribuente”. Per questo “stanno sollevando le critiche e le perplessità dell'Ue per l'incompatibilità con la direttiva sul risparmio”. É vero, ma ancora non c’è alcuna presa di posizione ufficiale, la Commissione non ha aperto alcuna procedura di infrazione. E in ogni caso con Bruxelles si negozia sul “come” non sul “se”. Ma l’Italia non farà nulla. Gli evasori possono stare tranquilli, come quando c’erano Berlusconi e Tremonti.

Corriere della Sera 8.12.11
Niente stretta (per ora) sui capitali in Svizzera
Giarda in Parlamento: rischio sanzioni dalla Ue
Claudio Del Frate


MILANO — I circa 150 miliardi di euro depositati da contribuenti italiani nella banche di Lugano e dintorni possono al momento dormire sonni tranquilli: con una dichiarazione a sorpresa il governo Monti ha annunciato ieri che non seguirà l'esempio di Germania e Gran Bretagna e che non firmerà accordi per tassare i capitali fuggiti all'estero. «C'è il rischio che l'Unione Europea apra una procedura di infrazione e infligga pesanti sanzioni» ha detto il ministro per i rapporti con il parlamento Pietro Giarda, rispondendo a Montecitorio durante il question time. Massimo Donadi, capogruppo Idv e firmatario dell'interrogazione in proposito, si è scatenato: «Il governo in questo modo protegge evasori e mafiosi».
Stiamo parlando dei capitali che nel corso degli anni migliaia di contribuenti italiani hanno posto sotto l'ombrello di conti cifrati elvetici e che nessuno dei tre scudi fiscali è riuscito a stanare. Le parole del ministro Giarda, che ha letto una risposta scritta da Monti, rappresentano una brusca virata rispetto a intenzioni manifestate solo pochi mesi fa: la scorsa estate una delegazione di parlamentari svizzeri si era incontrata a Roma con colleghi italiani per discutere della tassazione dei conti esteri ed era stata ipotizzata addirittura una deadline entro la quale firmare il patto, il marzo del 2012.
Londra e Berlino hanno già sottoscritto un accordo con Berna che prevede un doppio prelievo sui capitali rifugiatisi in Svizzera: una «sanatoria» calcolata sull'ammontare del singolo deposito e sulla sua anzianità; una seconda imposizione che colpisce la rendita annua di ogni tesoretto. In tutti i casi le aliquote possono oscillare tra il 26 e il 34%; secondo una stima parziale la sola Germania ricaverà da questa operazione 2 miliardi di euro l'anno. La Svizzera si impegna a fare da esattore per conto degli altri governi ma in cambio chiede che sia garantito l'anonimato dei correntisti.
E proprio su questo punto si concentrano le perplessità del governo Monti. «Gli accordi firmati da Germania e Regno Unito — ha spiegato Giarda all'aula — non rientrano nella tipologia delle convenzioni ispirate al modello Ocse, ma sono invece basati sostanzialmente su di una sanatoria. L'Unione Europea potrebbe poi ritenere che tali accordi coprano aree di competenza comunitaria e non esiterà a intraprendere misure correttive. Non viene esclusa in sostanza una procedura di infrazione». Spetta insomma a Bruxelles e non ai singoli stati trattare la materia.
Eppure proprio ieri una personalità di spicco del mondo economico come Guido Rossi aveva auspicato un accordo italo-svizzero contro l'evasione: «L'Italia deve fare come Germania e Inghilterra». A Lugano, terza piazza finanziaria della Confederazione e rifugio di molti peccatori fiscali italiani, tirano un sospiro di sollievo: «I clienti italiani di molte banche e di consulenti — rivela Paolo Bernasconi avvocato e già procuratore capo nella città ticinese — erano assillati proprio dal timore che su di loro potesse piombare una tassa simile a quella concordata con inglesi e tedeschi. Ma attenzione: la comunità internazionale sta premendo sulla Svizzera e pretende in campo fiscale uno scambio automatico di informazioni; sarebbe un duro colpo per il segreto bancario elvetico. Ecco perché nei mesi scorsi Berna ha offerto ai governi europei il "ramoscello d'ulivo dorato" degli accordi bilaterali».
«Procedere uniti anziché in ordine sparo è preferibile» commenta invece Lara Comi, europarlamentare Pdl che in estate aveva fatto da «pontiere» per l'apertura di un dialogo tra Italia e Svizzera. Che aggiunge: «Mario Monti aveva collaborato con Barroso per la stesura del single market act, che punta all'armonizzazione fiscale tra tutti gli stati membri dell'Unione. Il Monti uno, insomma, non poteva smentire il Monti due».

Corriere della Sera 8.12.11
Un comma rinvia i tagli alle Province
I tempi saranno definiti con una legge. L'incognita del via libera dei partiti
di Sergio Rizzo


ROMA — Mario Monti ha imparato a proprie spese che cosa significhi toccare le Province. Tutti, a destra come a sinistra, sentenziano che sono inutili. Tutti, a sinistra come a destra, dicono che bisogna abolirle. Guai, però, soltanto a sfiorarle. Subito parte la sassaiola. Che mai è stata così violenta: questa volta avevano capito che si stava facendo sul serio, anche per l'urgenza di mandare un segnale chiaro e inequivocabile a Francoforte. Ricordate la famosa lettera della Banca centrale europea firmata congiuntamente dal presidente uscente Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi, pubblicata lo scorso 29 settembre dal Corriere? Meno esplicito, il suggerimento che conteneva non poteva essere: «C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)». E Monti l'ha preso talmente sul serio da aver trovato un grimaldello micidiale per assestare un colpo mortale a quegli enti, senza dover ricorrere a una faticosa modifica costituzionale. Ha semplicemente svuotato le Province dei loro scarsi poteri, disponendo per decreto la conseguente abolizione delle giunte e la drastica riduzione dei consigli provinciali.
Difficile dire se avesse messo nel conto la pioggia di pietre che gli sono arrivate addosso da tutte le parti. Destra e sinistra ancora una volta davvero in sintonia. «Noi ce ne andiamo dall'Unione delle Province italiane», ha ringhiato il presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani, pidiellino. «Tagliamo tutto quello che dobbiamo tagliare, ma non a casaccio», ha messo le mani avanti il leader della sinistra Nichi Vendola. Mentre dal segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, arrivava ai rivoltosi un messaggio di tangibile solidarietà: «Avete tutto il nostro sostegno. Vi appoggiamo perché la vostra è una battaglia di democrazia». Intanto il presidente della Conferenza delle Regioni, il democratico Vasco Errani, ammoniva: «Attenti. Ci possono essere costi più alti. Il personale, per esempio, dove va a finire?». E il deputato del Pd Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia di Roma, tagliava corto: «Cancellare gli eletti dal popolo senza che abbiano terminato il loro mandato la trovo una scelta demagogica e grave». Ma a Monti nemmeno il suo successore Nicola Zingaretti le mandava a dire: «Siamo quelli che di più si sono impegnati per ridurre o eliminare la spesa pubblica. Chi oggi guida le Province lo fa perché è stato votato da milioni di italiani». Senza contare poi altri aspetti non marginali del problema, come dimostra il caso della Provincia di Bologna, attualmente impegnata in un investimento di oltre 30 milioni per costruire una nuova sede. A quel punto assolutamente inutile.
Nel Pd, insomma, il malumore cresceva fino a prendere la forma di una protesta semiufficiale contro la decadenza automatica e per decreto delle giunte e dei consiglieri. Idem capitava nel Pdl, dove volavano anche parole grosse all'indirizzo della decisione di Monti. «Gettano fumo negli occhi e fanno demagogia», ha commentato il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà, berlusconiano di ferro. Né ha usato particolari diplomazie il presidente dell'Unione Province, Giuseppe Castiglione, pidiellino e presidente della Provincia di Catania: il quale ha minacciato il ricorso alla Corte costituzionale, anche dopo la notizia che il governo ci aveva ripensato.
All'articolo 23 della versione definitiva del decreto «salva Italia» è infatti spuntato a sorpresa un comma con il quale si stabilisce che sarà una «legge dello Stato» a dire entro quale termine gli organi delle Province decadranno. Se sia stato il Quirinale a imporre questa modifica, preoccupato per le possibili proteste alla Consulta, oppure se sia il risultato delle pressioni inaudite che si sono scatenate, lo sapremo presto. Vero è che difficilmente, se fosse scoppiato un contenzioso davanti alla Corte costituzionale, la Corte suprema avrebbe potuto dare man forte al governo bocciando i ricorsi di consiglieri eletti per cinque anni e dimissionati per decreto. La conseguenza è che nel frattempo in 4.520 hanno tirato un bel respiro di sollievo. Tanti sono consiglieri e assessori che potenzialmente avrebbero rischiato di perdere la poltrona, come diceva la versione di partenza della norma, il 30 novembre 2012. E che adesso, invece, potranno sperare di arrivare almeno fino alla fine del loro mandato. Il che non è un dettaglio. La maggior parte delle giunte provinciali in carica ha ancora tre anni e mezzo di vita. Per allora potrà succedere di tutto. Questo è il vero rischio: il governo di Mario Monti non durerà oltre la primavera del 2013. E possiamo già scommettere che assisteremo a una estenuante melina per non far vedere la luce a quella legge prima di allora.
L'importante è che questo imprevisto, che però non era nemmeno troppo complicato prevedere, non diventi la pietra tombale dell'operazione compromettendo la vera sostanza del provvedimento, cioè il trasferimento delle competenze provinciali a Comuni e Regioni entro il prossimo 30 aprile. Saranno quelli, e non i tagli delle poltrone (che la relazione tecnica alla manovra cifra in 65 milioni di euro), a dare i risparmi in prospettiva più consistenti. Meno passaggi intermedi, meno burocrazia, meno veti da dover rimuovere ogni volta che c'è da prendere una decisione. Vi pare poco?

Corriere della Sera 8.12.11
Evasione, è stato fatto tutto il possibile?
di Enrico Marro


ROMA — Nella manovra Monti ci sono cose molto importanti per la lotta all'evasione, ma ne mancano tante altre. E il contribuente onesto si chiede perché. Per esempio: il premier, domenica scorsa, illustrando il decreto-stangata, ha solennemente annunciato che aveva deciso «per i membri di governo di adottare un criterio di trasparenza. Sulle nostre dichiarazioni dei redditi abbiamo deciso di dichiarare per intero i patrimoni, perché non vediamo per quale ragione il possesso di obbligazioni, azioni e fondi di investimento debba essere esentato da una dichiarazione patrimoniale». Giusto. Ma visto che c'era perché questa decisione non è stata estesa a tutti i contribuenti? Tanto più che un suggerimento del genere era arrivato da due economisti della Bocconi che Monti conosce molto bene: il rettore Guido Tabellini, che tra l'altro è stato in corsa per entrare nella squadra di governo, e il professor Angelo Provasoli.
I due, in un articolo sul Sole 24 Ore del 3 settembre, proponevano questa soluzione: «La dichiarazione annuale dovrebbe fornire non solo i dati dei redditi conseguiti ma anche quelli della consistenza del patrimonio. I rapporti con gli intermediari finanziari dovrebbero essere documentati con l'attestazione delle disponibilità detenute dal contribuente, comprese quelle in strumenti finanziari». Sarebbe un deterrente all'evasione, perché delle due l'una: o se si dichiarano imponibili Irpef irrisori si mente sulle proprie disponibilità finanziarie, assumendosi tutti i rischi del caso, o si rende la propria denuncia più veritiera.
Si dirà che la dichiarazione patrimoniale non c'è, ma che una delle principali misure antievasione della manovra è la costituzione di un «grande fratello» fiscale che consentirà all'Agenzia delle entrate di ottenere, dal 2012, da tutti gli operatori (banche, poste, finanziarie), tutti i rapporti e le movimentazioni, sul conto e fuori conto (cambio assegni) fatte dai propri clienti. E quindi di conoscere essa stessa la situazione finanziaria di ciascuno. Queste informazioni verranno incrociate con le dichiarazioni dei redditi per tirar fuori le liste dei sospetti evasori sui quali concentrare i controlli. Bene. È chiaro però che questo «grande fratello» potrà funzionare solo se l'amministrazione disporrà di personale. Ma di un rafforzamento dell'esercito antievasione non c'è traccia.
Ora, uno dei tanti motivi per i quali, rispetto a un'evasione che si stima sottragga ogni anno almeno 120 miliardi di euro alle casse dello Stato, si riesce a recuperare poco, è che l'esercito appunto è ridotto. Nel triennio 2008-2010 l'Agenzia ha svolto quasi 74 mila accertamenti sintetici. Quest'anno l'obbiettivo è di 35 mila, fissato tenendo conto che su 32 mila dipendenti, quelli addetti ai controlli sono 13-14 mila. Per recuperare più evasione dovrebbero essere potenziate le banche dati e gli incroci, e questo c'è nella manovra — così come è importante la configurazione del reato per chi dichiari il falso nel contraddittorio con l'amministrazione — ma ci vorrebbero anche più controllori: assunzioni che si autoripagherebbero. Tanto per dire, ieri abbiamo appreso che la Guardia di Finanza, nella sola provincia di Roma, nei primi 11 mesi del 2011, ha scovato 537 evasori totali, totalmente sconosciuti al Fisco: ristoratori, imprenditori edili, immobiliari, di call center, di autotrasporto, di pulizie e commercianti ambulanti.
Se invece uno volesse sposare un approccio diverso, cioè non quello della punizione ma della prevenzione, allora si potrebbe facilmente sostenere che il tetto all'utilizzo del contante a mille euro è insufficiente e facilmente aggirabile frazionando le operazioni. Fin troppo semplice, infine, osservare che sui capitali scudati — ben 182 miliardi di euro — Monti avrebbe potuto chiedere ben più di un altro 1,5% di prelievo. Resta il fatto che le grandi ricchezze evase sono le più difficili da colpire. Si stima che nella sola Svizzera siano nascosti almeno altri 100 miliardi di euro. Tassare barche, aerei, elicotteri e auto di lusso, come fa la manovra, è il minimo, ma può avere conseguenze negative sul turismo. I ricchi sanno spostare rapidamente beni e capitali, ne ha accennato anche Monti giustificando la decisione di non varare una patrimoniale che, secondo lui, avrebbe dato poco gettito. Difficile avere opinioni certe. Nessun dubbio invece che davanti a un altro aumento della pressione fiscale, che arriverà al 46%, c'è una sola cosa da fare: diminuire le tasse sui contribuenti che non possono evadere, quelli col sostituto d'imposta. Infine due questioni. 1) Non si poteva introdurre un po' di contrasto d'interessi, magari per vedere se funziona? Tipo: se chiamo l'idraulico posso scaricarmi la fattura. 2) La tassa più evasa è il canone Rai: perché la manovra si preoccupa di recuperare solo quello evaso dalle imprese, obbligate a indicare nella dichiarazione dei redditi il numero di abbonamento, e non dice nulla sulle persone?

Repubblica 8.12.11
Il bisogno di equità sociale nell´epoca dei sacrifici
di Carlo Galli


La crisi e la manovra del governo impongono scelte radicali. Ma le élites, per essere credibili, non possono aumentare le disuguaglianze
Le situazioni di pericolo eccezionale dovrebbero produrre leadership che sanno condurre la lotta all´esterno e imporre la pace all´interno
Chi è veramente il nemico? Il nostro debito o chi ci specula sopra? La Bce o la politica che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi?

Il 13 maggio 1940, alla Camera dei Comuni, il nuovo premier e ministro della Difesa, Winston Churchill, presentando il suo governo e accingendosi a «guidare gli affari di Sua Maestà Britannica» nel momento più duro della storia inglese, disse: «non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime. La nostra politica è fare la guerra: nostra mèta, la vittoria». La Camera gli diede unanimemente la fiducia, e anche tutta «la nazione fu unita e piena d´entusiasmo come non mai».
Dopo la battaglia di Canne (216 a. C.) anche un altro impero, quello romano, era stato in pericolo mortale; perduti almeno sessantamila soldati, un console morto in battaglia, il nemico più formidabile di Roma, Annibale, libero di agire nel cuore dell´Italia meridionale. Tuttavia, la città non si perse d´animo. Effettuò gli ultimi sacrifici umani della sua storia per placare gli dei, e il popolo si affidò alla dittatura informale del ceto senatorio. La Roma repubblicana non ebbe allora un leader capace di alta retorica come Churchill, ma un abile attico della guerra di logoramento, Quinto Fabio Massimo. Alla fine, però, Cartagine fu vinta, come Berlino.
Lacrime e sangue, dunque – il dolore per la sconfitta, che però non annienta; la ferita aperta, che però non abbatte –, dicono di un caso d´emergenza, di una necessità che rafforza l´animo di chi la deve fronteggiare. E dicono anche che questa condizione eccezionale di pericolo produce l´emergere di una leadership, individuale o collettiva, per condurre la lotta all´esterno, e per imporre, al tempo stesso, la pace sociale e politica all´interno. Come dopo Canne s´interruppe il confronto fra patrizi e plebei, così nell´imminenza della battaglia di Francia Churchill formò un governo di unità nazionale e non accontentò coloro che chiedevano la testa dei politici conservatori che avevano voluto Monaco, nel settembre del 1938: «se il presente cercasse di erigersi a giudice del passato, perderebbe il futuro», rispose il premier.
Non sempre è andata così: la Francia rivoluzionaria, minacciata nel 1792 dal prussiano Brunswick, risponde con la guerra – la battaglia di Valmy –, ma al tempo stesso con le stragi di settembre, cioè con l´uccisione di qualche migliaio di aristocratici prigionieri. In questo caso, la logica amico-nemico che scatta nelle emergenze – serrare i ranghi per resistere all´ora difficile, e per passare al contrattacco – si manifesta anche all´interno, e non solo verso l´esterno. Una rivoluzione, infatti, contro il nemico che sta davanti alle porte trae forza dalla guerra civile contro il nemico che sta dentro le mura; i sacrifici umani con cui Roma aveva cercato di propiziarsi gli dei diventano atti sacrificali della nuova religione rivoluzionaria. Il sangue e le lacrime non sono solo quelle dei cittadini; anche i nemici del popolo piangono e muoiono, mentre l´esercito sanculotto – formato dalla leva in massa – corre alle frontiere.
Ma quando non si va alla ricerca di un capro espiatorio, "lacrime e sangue" indica una situazione di necessità davanti alla quale tutti sono uniti e tutti sono uguali; senza che le differenze sociali e politiche vengano cancellate, sono tuttavia momentaneamente neutralizzate da una mobilitazione corale dei cittadini, chiamati alle armi per salvare la patria. Se è vero che le categorie di giusto e ingiusto spariscono davanti allo stato d´eccezione, in cui vale solo la logica dell´efficacia e dell´inefficacia, è anche vero che senza l´attenuazione dei privilegi, senza la consapevolezza che tutti sopportano gli stessi rischi e sacrifici, anche la risposta all´emergenza viene indebolita. Nei momenti di crisi, l´equità – il far sì che i piatti della bilancia siano pari, livellati, senza che uno penda a terra, gravato da oneri vessatori e l´altro salga al cielo, libero e leggero da ogni gravame – è una delle condizioni dell´efficacia. Si possono richiamare tutti al coraggio e al sacrificio solo se nessuno fa affari con l´emergenza.
Tutto ciò vale anche ai tempi nostri, anche se la guerra è solo economica e se non è neppure ben chiaro chi sia il nemico: esterno o interno? il nostro debito o chi ci specula sopra? Le logiche severissime su cui si fonda l´euro o quelle speculative dei mercati? La Bce con le sue lettere o la Germania con la sua riluttanza a una politica economica europea centralizzata? La crisi finanziaria nata a Wall Street nel 2008 o, in ultima analisi, noi stessi e la politica, da noi voluta, che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi? E vale ancor più nel momento in cui a gestire la cosa pubblica sono chiamati gli esponenti delle ultime élites che il Paese ha a disposizione, le ultime riserve della Repubblica: professori universitari e manager cattolici. Che devono trovare la forza di dare segnali chiari e forti di equità e di lotta ai privilegi; sia perché solo così la manovra può essere condivisa, e quindi sostenibile, sia perché la qualità e la legittimità delle élites – di quelle politiche e di quelle sociali – si rivela proprio quando a esse un Paese si affida, aspettandosi che diano l´esempio. Dopo tutto, non si chiedono sacrifici umani, né guerre civili ideologiche; ma ragionevole uguaglianza nel portare il peso dell´emergenza. Forse le rispettabili lacrime di un ministro equivalgono simbolicamente al gesto d´espiazione delle matrone romane che, dopo Canne, spazzavano i pavimenti dei templi con le loro lunghe chiome sciolte. Ma oggi alle élites si chiedono altri segni, più tangibili, di partecipazione alle lacrime e al sangue di tutti.

Repubblica 8.12.11
Non esiste solo l’utilità economica ma anche quella psichica. E può accadere che la consapevolezza di perdere qualcosa per una causa importante dia alla persona la coscienza di riempire la propria vita
La difficile scelta tra il bene presente e quello futuro
Dare un senso alla rinuncia
di Michela Marzano


Quando si parla di sacrifici non è tanto difficile deciderli quanto saper convincere gli altri che devono farli. Difficile è dare un senso alla rinuncia che viene chiesta. Perché il principio di utilità, che secondo Bentham è l´unico criterio con cui si può giudicare l´adeguatezza dell´azione umana, funziona perfettamente sul piano teorico, ma poi, quando dalla teoria si passa ai fatti, diventa molto meno seducente. Quando si parla di sacrifici, infatti, non è più solo una questione di calcolo razionale o di massimizzazione del bisogno collettivo. La voglia di agire per il bene del proprio paese e delle generazioni future – quello dei propri figli e dei propri nipoti – non può che scontrarsi con la durezza della realtà e con la necessità di mettere tra parentesi il proprio benessere individuale. Il desiderio di agire bene, si infrange inesorabilmente contro la violenza intrinseca del sacrificio. Soprattutto quando il sacrificio non riguarda solo il "superfluo" ma anche il "necessario". Come si fa a sacrificare il poco, talvolta il "quasi niente"? Si può rinunciare a un beneficio, ottenuto grazie al proprio lavoro, solo perché si deve?
Originariamente, il sacrificio era un´offerta fatta agli dei: seguendo alcune cerimonie, si offrivano alle divinità vittime e doni. Come nel caso di Ifigenia. Ed è sempre nel nome del bene generale, che alcuni utilitaristi contemporanei continuano a giustificare il ricorso al sacrificio. Il filosofo John Harris , di fronte al problema della scarsità di organi da trapiantare, teorizza la possibilità di utilizzare un individuo, sacrificandolo, se questo permette poi di salvarne molti altri. Certo, ormai non si parla più di sacrificio in termini religiosi. E d´altra parte i sacrifici di oggi, dettati dalla crisi, riguardano le singole persone: ognuno dovrebbe "cedere" qualcosa di suo, rinunciare, lavorare di più, ancora. Il problema di fronte al quale ci si trova, allora, non è tanto quello della giustificazione morale del sacrificio. È piuttosto il suo "costo" in termini psicologici e umani. Visto che, nonostante tutto, saranno altri a godersene i frutti. Come fare allora a sopportare questo peso individuale? Solo dando un senso, appunto.
Chiunque abbia un po´ di dimestichezza con la psiche umana e il suo delicato modo di funzionare, sa bene che, oltre all´utilità economica, esiste anche un´utilità psichica. E che, a livello psicologico, la consapevolezza di sacrificarsi per una causa importante ha talvolta il merito di dare un senso alla propria vita. Ecco perché, in termini di economia psichica, anche chi sacrifica qualcosa di sé riceve sempre qualcosa d´altro. Come Babette, nel racconto di Karen Blixen, che sacrifica tutto quello che ha vinto alla lotteria per organizzare una grande festa. Perché l´unica cosa che resta, alla fine della propria vita, è tutto quello che si è donato agli altri, dice Babette. Dietro tanti sacrifici, oltre all´arida utilità economica, c´è anche la nozione di dono. Quando doniamo qualcosa, non possiamo mai essere sicuri che il dono fatto sarà poi ricambiato. La maggior parte delle volte non lo è. Eppure è proprio il dono che permettere alle relazioni interpersonali di esistere e di svilupparsi. Dunque l´unico modo realistico per convincere a sopportare un peso psicologico così grande è quello di entrare in una economia collettiva dove si deve pensare che si sta "regalando" una parte di sé per salvare qualcosa, qualcuno. Il presente, il futuro.

Repubblica 8.12.11
Una storia che ritorna
di Guido Crainz


"Oro per la patria" chiese il fascismo agli italiani per sostenere la guerra di aggressione all´Etiopia, e nella "giornata della fede" le donne furono chiamate a donare l´anello nuziale.
Cominciò così il percorso che ci avrebbe portati alla tragedia della seconda guerra mondiale, e la Liberazione vide un Paese piegato e piagato. Un Paese che seppe però trovare la forza per risollevarsi e dare avvio ad una Ricostruzione materiale ed etica. In un quadro di drammatica miseria e di inflazione senza freni la moderazione responsabilmente scelta dal sindacato portò a sacrifici pesanti per i lavoratori ma fu decisiva. Ad essa non corrisposero però altre misure: ad esempio una imposta patrimoniale straordinaria e progressiva, e un cambio della moneta volto a colpire gli arricchimenti occulti. Le avevano proposte con forza le sinistre, che parteciparono al governo sino al 1947, ma vi si opposero la destra conservatrice e i grandi poteri economici e finanziari. E le sinistre furono poi estromesse dal governo nel clima della "guerra fredda".
Per risollevarci furono certo decisivi gli aiuti americani e il Piano Marshall ma quel clima pesò negativamente. Alimentò un´offensiva anticomunista e antisindacale che aprì la via a licenziamenti massicci, ad uno sfruttamento intenso nelle fabbriche e al mantenimento di salari bassissimi: profonde iniquità sociali segnarono così il nostro sviluppo e contribuirono alla sua interna debolezza. Ebbero radici qui le tensioni che emersero negli anni del "miracolo", ulteriormente alimentate poi da una dura controffensiva padronale. E destinate inevitabilmente ad esplodere: vennero così l´"autunno caldo" del 1969 e una "conflittualità permanente" che rese più acuta da noi la crisi degli anni settanta. Una crisi aggravata dallo shock petrolifero del 1973, che accentuò la nostra fragilità e mandò in frantumi la più generale illusione di uno "sviluppo senza limiti".
Negli anni Ottanta rimuovemmo quei nodi e dimenticammo colpevolmente che stavano crescendo ormai "i figli del trilione", come fu detto: si stava avvicinando infatti a cifre stratosferiche il debito pubblico che gli adulti stavano scaricando sulle loro spalle. E che salì dal 60% del Pil nel 1981 al 120% e oltre dei primi anni Novanta. La crisi internazionale mise allora impietosamente a nudo le nostre responsabilità, ruppe il "patto di finzione" su cui era apparentemente prosperata l´Italia craxiana e ci fece giungere in pessime condizioni alla sfida europea. Una sfida che apparve allora quasi impossibile ma che venne affrontata positivamente grazie al duro sforzo di risanamento iniziato dai governi guidati fra il 1992 e il 1994 da Amato prima e da Ciampi poi. Furono aiutati da sofferte scelte sindacali sul costo del lavoro (e dal coraggio di leader come Bruno Trentin), e furono meno condizionati che in passato dai partiti, travolti dalla bufera di Tangentopoli. Un paradosso, a ben vedere, che avrebbe dovuto imporre una riflessione profonda e una rigenerazione radicale della classe dirigente: così non fu, e ad una parte del Paese il "nuovo" parve identificarsi allora con le illusioni del populismo antipolitico e mediatico.
Il severo risanamento fu proseguito invece dal primo governo Prodi, che ci assicurò l´ingresso in Europa. Forse in qualcosa fu troppo debole: ad esempio nel farci comprendere il significato profondo del progetto che giustificava i sacrifici. Nell´aiutarci a dare corpo e soprattutto anima ad un futuro europeo da costruire. Oggi abbiamo di fronte lo stesso nodo, ulteriormente aggravato.

il Fatto 8.12.11
Editoria: soldi a fondo perduto solo a chi investe
di Chiara Paolin


La linea Monti sui contributi per l’editoria sembra dura e pura, a leggerla in manovra. Recita l’articolo 29 del decreto Salva Italia: “Allo scopo di contribuire all’obiettivo del pareggio di bilancio entro la fine dell’anno 2013, il sistema di contribuzione diretta di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250 cessa alla data del 31 dicembre 2014, con riferimento alla gestione 2013”. Ovvero: dal 2014 addio ai fondi direttamente concessi alle testate di partiti, cooperative e fondazioni. Accidenti, proprio una bella pulizia. E aggiunge ancora il decreto: “Il Governo provvede, con decorrenza dal 1 gennaio 2012, a rivedere il regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 25 novembre 2010, n. 223, al fine di conseguire il risanamento della contribuzione pubblica, una più rigorosa selezione dell’accesso alle risorse, nonché risparmi nella spesa pubblica. Detti risparmi, compatibilmente con le esigenze di pareggio di bilancio, sono destinati alla ristrutturazione delle aziende già destinatarie della contribuzione diretta, all’innovazione tecnologica del settore, a contenere l’aumento del costo delle materie prime, all’informatizzazione della rete distributiva.
Traducendo, significa che Carlo Malinconico, presidente uscente della Federazione italiana degli editori (cioè i proprietari delle testate cartacee più importanti), ha preso appuntamento per i primi di gennaio con le parti interessate: signori prego, vi spiego i tagli.
UN PRIMO DATO è già sul tavolo. La riduzione del quantum operata dal governo Berlusconi resta intatta: ben che vada, dai previsti 180 milioni di euro si arriverà a 46 circa, di cui solo una ventina materialmente destinata ai giornali. Ma l’indicazione di Malinconico è esplicita soprattutto quando parla di aziende capaci di innovazione: una buona idea, si dirà ricordando quanto discutibili siano stati fin qui i finanziamenti concessi (ai bei tempi il fondo sforava i 500 milioni annui e bastava avere due parlamentari amici per fondare un quotidiano). Eppure il diavolo si nasconde nei dettagli, ed è un noto esponente del mondo cattolico a mettere in chiaro cosa significhi davvero la svolta annunciata: “In pratica accederanno al fondo solo coloro che investono, cioè le testate più forti” ha detto all’Avvenire Francesco Zanotti, presidente della Federazione settimanali cattolici. “Non era quello lo spirito della legge sull’editoria, che finora sosteneva le realtà più deboli per riequilibrare un mercato pubblicitario dominato dall’oligopolio dei network - continua Zanotti -. Spiace ritrovare nel decreto solo le posizioni della Fieg, la federazione degli editori, il cui ex presidente è ora sottosegretario all’editoria”.
DUNQUE un attacco in piena regola al conflitto di interessi che molti individuano in Malinconico: fino a ieri impegnato nel difendere i grandi gruppi, come intende ora occuparsi di microeconomia editoriale? E, soprattutto, potrà questo governo a caccia di maggioranze parlamentari già nervosette sopportare lo scontro diretto con partiti e gruppi d’opinione saldamente piazzati dietro testate storiche che vivono grazie al sostegno statale? L’onorevole Beppe Giulietti (Articolo 21) sintetizza: “Fare pulizia è necessario, ma questi signori mostrano i muscoli coi deboli mentre rinunciano alla gara sulle frequenze. Propongo: se la gara proprio non si può fare, potremmo almeno chiedere agli assegnatari un contributo destinato alla buona e libera informazione (come in Francia)? Non è difficile individuare i criteri per espellere i profittatori e favorire l’editoria indipendente, che oggi viaggia spesso online. Al governo abbiamo tecnici capaci di innovare il sistema o funzionari che tremano quando tocca colpire interessi precostituiti? ”
Di certo le grandi testate non hanno da temere. Il cambiamento riguarda solo i contributi diretti, cioè il finanziamento a fondo perduto che lo Stato garantiva alla stampa per favorire la circolazione delle idee, mentre i fondi indiretti, che prevedono contributi per le spese (tipo spedizione dei giornali e costo della carta), non verranno toccati. Pochi, ma salvi.

il Fatto 8.12.11
Scalfari, permette una domanda?
di Angelo Cannatà


Caro Eugenio Scalfari, non sorprenderti se scrivo – dalle pagine de Il Fatto Quotidiano – una lettera aperta. Ho dedicato alcuni anni della mia vita alla lettura e allo studio dei tuoi libri. Ho avuto la possibilità di conoscerti, di dialogare, di sentire – con piacere – l’affetto della tua amicizia. Ho pubblicato Eugenio Scalfari e il suo tempo, e sto curando il Meridiano delle sue opere per Mondadori. Perché scrivo? Innanzitutto perché avverto qualcosa di strano nelle conclusioni dell’editoriale di Repubblica del 27 novembre 2011. Si parla del governo istituzionale di Mario Monti: “Chi non capisce che esso non confisca affatto la democrazia e non umilia affatto il Parlamento, al quale anzi affida piena centralità – scrivi – chi non capisce queste lapalissiane verità è in palese malafede oppure mi permetto di dire che è un perfetto imbecille”. Non va bene. L’intellettuale che ho apprezzato leggendo Alla ricerca della morale perduta (Rizzoli, 1995), non può aver pensato davvero che quanti usano una chiave ermeneutica diversa dalla sua, siano “perfetti imbecilli”.
NON IGNORI certo il Principe deiLumi, colquale–amabilmente – dialoghi: “In verità, signor de Voltaire, nessuno più di voi si è battuto perché la tolleranza diventasse un valore” (p. 100). La tolleranza, appunto. Dunque, perché negare – con una sola frase – decenni di dibattiti sul pluralismo delle idee? Penso (anche) al “Dibattito sul laicismo”, da te avviato nel 2005. Capisco la fiducia a un governo nato per uscire dalla crisi, per rimettere i conti in ordine, per liberarci dalle macerie del berlusconismo. Giusto. Ma è possibile porre domande – caro Eugenio – o, avendo criticato Berlusconi, dobbiamo accettare “tutto” del professore Monti?
E allora, andiamo alla sostanza: cosa dicono – al di là dello stile – le prime mosse del neo Presidente? Il suo governo chiude per davvero col berlusconismo, o ne rappresenta la continuità in settori chiave e nell'impianto generale? La scuola. Insegno Filosofia e ho vissuto da vicino, a Roma, le contestazioni studentesche al ministro Gelmini, il rifiuto di una politica che ha spostato denaro (troppo denaro) verso le scuole private, deprimendo le pubbliche di ogni ordine e grado. Cambia qualcosa col nuovo ministro? Non cambia assolutamente nulla. Risulta che Mario Monti abbia sostenuto la Gelmini e il ministro Profumo sia legato alla Cei e al Cardinal Bagnasco. C'è piena continuità. Possiamo non dirlo? Di più: come neoministro della Difesa abbiamo un ammiraglio, Giampaolo Di Paola, da tempo ai piani alti della Nato. Cosa possiamo aspettarci? Autonomia e indipendenza rispetto alle decisioni di Washington? Direi proprio di no. D'altronde, Monti non pensa a riduzioni delle spese militari: per ridurre il debito, colpisce il ceto medio. Dobbiamo stare allegri? Eancora: avevamopropriobisogno – dopo Berlusconi – del nuovo conflitto d'interessi di Corrado Passera? Il neoministro dovrebbe tutelare l'interesse generale, contro la speculazione dei poteri forti e delle banche: è l'uomo giusto, avendo guidato per anni Banca Intesa? Sono temi noti, sui quali anche chi apprezza – come me – la statura intellettuale di Monti e “tifa” per il nuovo governo, manifesta delle perplessità.
QUANTO AL tema sollevato da Visentini, sul governo tecnico (che in realtà è politico), sono d’accordo: non c’è nessun golpe e nessuna violazione della democrazia. Tutto avviene dentro i paletti stabiliti dalla Costituzione. Ma questo – credimi – lo sanno anche i critici, da sinistra, del governo Monti. È una posizione che mi interessa, mi attrae (la critica da sinistra a Monti): non si nega la costituzionalità del governo in carica, se ne misura il valore – in termini di giustizia sociale – dalle scelte che compie. Se l’equità e la giustizia sociale hanno qualcosa a che fare con la democrazia, allora siamo chiamati a giudicare il tasso d’attenzione al demos che le misure del governo contengono. Da una prima lettura non mi sembra che ci sia equità. Troppi sacrifici per i poveri, pochi per i ricchi, esenzioni per il Vaticano. Hanno ragione Cgil Cisl e Uil, pagano sempre gli stessi. Tu scrivi che ci sarà un secondo tempo. Vedremo. Intanto Monti da Vespa – come dice qualcuno – somigliava a Forlani. Possiamo stare tranquilli? Si può non essere d’accordo con questa lettura. Giusto. Ma senza ostracizzarla con parole forti. Il rischio è difendere una presunta “verità assoluta”. Per un intellettuale come te che ha esaltato, anche di recente (“Per l’alto mare aperto”, cap. II “Nelle terre di Montaigne”), il valore del relativismo è peggio di un delitto. È un errore. Infine, una domanda: il governo Monti saprà opporsi alla linea “Merkel-Sarkozy”? Su questo ho le stesse perplessità di BarbaraSpinelli: “Diconodivolersalvare l’Europa, ma in realtà la stanno affossando”. È uno sguardo problematico, su uno dei momenti più difficili della recente storia d’Italia e d’Europa: l’unico che – nella situazione data – mi sembra giustificabile.

il Fatto 8.12.11
Quegli strani suicidi dell’Era Tangentopoli
Le incongruenze sulle morti di Castellari, Cagliari e Gardini diventano undramma teatrale
di Elisabetta Ambrosi


Scusa ma Castellari era consulente dell’Eni e si è ammazzato, Cagliari era presidente dell’Eni e si è ammazzato. Gardini voleva privatizzare l’Eni e si è ammazzato. Qui le cose sono due. O l’Eni porta sfiga. O tutti e tre sono entrati in uno stato depressivo contemporaneamente lo stesso anno”. Tangentopoli, con la disfatta della sua classe dirigente e il suo lascito di suicidi eccellenti, diventa commedia, vent’anni dopo.
Grazie all’incrocio civile e artistico tra Bebo Storti, l’attore e sceneggiatore Fabrizio Coniglio e un magistrato che negli anni 70 indagò per primo sullo scandalo Petroli, Mario Almerighi. “Suicidi? Le strane morti di Castellari, Cagliari e Gardini all’epoca di Tangentopoli” (tratto dal libro dello stesso Alme-righi, editore l’Università La Sapienza) va in scena in questi giorni al teatro Ambra Garbatella di Roma.
SUL PALCOSCENICO c’è un pupazzo cadavere per terra, due poliziotti e i loro dialoghi surreali. Che, più che avanzare una tesi, vogliono soprattutto suscitare dubbi sull’archiviazione dei suicidi di Sergio Castellari, allora Direttore generale del ministero delle Partecipazioni statali, di Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, protagonista con Gardini della vicenda Enimont, e dello stesso Raul Gardini. Tutti muoiono nel 1993, tutti sono coinvolti nelle inchieste Mani Pulite e spariscono dopo aver avere preso la decisione di uscire da un sistema che, scrive Almerighi, “aveva bisogno di persone ricatta-bili e che uccide chi diventa inaffidabile”. Ecco perché, commenta il poliziotto sul palco, “dopo queste tre morti eccellenti fuori dalla porta del tribunale c’era una lunga fila di uomini del sistema terrorizzati di essere anche loro suicidati”.
Lo spettacolo punta soprattutto sull’effetto straniante che nasce dalle incongruenze presenti sulle scene dei “delitti”. Il corpo di Castellari, trovato in un terreno alcuni giorni dopo la data del decesso, eppure “immune da processi putrefattivi, con abiti puliti, senza tracce di sangue né di fango, con le dita amputate, senza calotta cranica”. E con una pistola, priva di impronte, infilata nei pantaloni col grilletto alzato. Il suicidio di Cagliari in carcere da quattro mesi, la cui dinamica è compatibile con l’omicidio: la porta della cella lasciata aperta, il sacchetto con cui si sarebbe soffocato ancora gonfio (Cagliari era ancora vivo) non lacero, come avrebbe dovuto essere dopo i soccorsi, le ecchimosi precedenti all’applicazione del sacchetto. Infine la stanza di Palazzo Belgioioso, dove si suicida Gardini, completamente alterata, a partire dalla pistola trovata sulla scrivania senza impronte. E il biglietto lasciato ai familiari che però, in base al livello della pressione della scrittura sulla carta, sembrerebbe risalire addirittura a un anno prima. Altrettanto incompatibile
con la tesi del suicidio è il profilo psicologico dei tre, un aspetto sul quale gli autori si soffermano. “Castellari era spregiudicato e senza scrupoli e conosceva molti segreti: un uomo così non si suicida” sussurra la segretaria al telefono. Anche Cagliari e Gardini erano due duri. Nello spettacolo si fa riferimento a una cena in cui si spartiscono l’Enimont. “Brindiamo, la chimica sono io”, dice ridendo Gardini. “Ma che cazzo ridi? ”, risponde Cagliari. “Sai benissimo cosa c’è dietro l’Eni, il petrolio, cioè, il finanziamento ai partiti. Tu farai la fine di Mattei”.
“IL RAPPORTO tra magistratura e politica è in stato comatoso”, ha detto Almerighi sul palco alla fine della prima, “perché il lavoro di alcuni giudici non è stato accompagnato dalla stessa volontà di accertare la verità da parte della politica”. “Se non bevo non riesco a viverci in questo paese”, conclude il poliziotto Bebo Storti, sfiancato dagli eventi. “Ti faccio compagnia”, gli fa eco il figlio. “Nonostante Tangentopoli non è cambiato nulla – conclude l’attore Fabrizio Coniglio – basta vedere il caso del San Raffaele, dove c’è stato, anche lì, un suicidio. Anzi, le cose vanno peggio di prima, perché ormai alla corruzione siamo del tutto assuefatti”.

l’Unità 8.12.11
«Piazza Tahrir tradita da militari e islamisti. Ma io non mi arrendo»
Il premio Nobel: «La lotta per la libertà in questa transizione è stata calpestata Ora il rischio è che la delusione e la rabbia degenerino in violenza inarrestabile»
di Umberto di Giovannangeli


Il simbolo dell’Egitto laico e progressista non si arrende. Ed anzi rilancia la sua duplice sfida: ai militari e al fronte islamico, uscito vincitore dalla prima tornata elettorale dell’«era» post-Mubarak: Mohammed El Baradei, ex direttore dell’Aiea, Premio Nobel per la Pace, candidato alla presidenza in Egitto, guarda con estrema preoccupazione al futuro del suo Paese. «Alla base della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak dice a l’Unità El Baradei vi era una istanza di libertà, di giustizia che in questi mesi di transizione tradita è stata svilita, calpestata. Il rischio aggiunge il Premio Nobel per la Pace è che la delusione si trasformi in rabbia e la rabbia inneschi una spirale di violenza inarrestabile. Se ciò dovesse accadere, i primi responsabili andranno ricercati in coloro che nel nome dell’emergenza continua a far funzionare a pieno regime i tribunali militari, uno strumento degno di regimi fascisti. Una cosa è certa: io non mi arrendo».
E alla Guida generale dei Fratelli Musulmani, Mohammed Badie, che in una intervista a l’Unità aveva affermato: «Siamo i vincitori ma non i padroni dell’Egitto», El Baradei risponde così: «Per governare il Paese non bastano gli slogan e le belle parole. Non sarò certo io a criminalizzare il voto, ma il banco di prova per quanti si proclamano vincitori è dimostrare di saper governare».
Cosa la preoccupa maggiormente in questa fase cruciale nella storia dell’Egitto?
«Più ancora che il successo registrato dalle forze islamiche più conservatrici, come Al-Nour, ciò che m’inquieta è il profondo senso di delusione che ho riscontrato tra i giovani di Piazza Tahrir. La delusione è forte poiché nulla è cambiato». Di chi la responsabilità di questa situazione?
«Di chi si era fatto garante della transizione...».
I militari, dunque..
«Ciò che dovrebbe essere chiaro a tutti è che i militari hanno fallito nella gestione della transizione. Fallito perché in nome dell’emergenza hanno continuato a far funzionare i tribunali speciali, degni di un regime fascista e non di una democrazia in formazione, e perché hanno pensato di poter riconquistare la piazza attraverso un patto di potere con le forze islamiste».
In una recente intervista a l’Unità, la Guida generale della Fratellanza Musulmana, Mohammed Badie ha sostenuto che non è intenzione della Fratellanza realizzare una «dittatura della sharia», dichiarandosi disponibile a lavorare per un governo di coesione nazionale...
«Per governare non bastano gli slogan né affermazioni che dovrebbero suonare rassicuranti. Il banco di prova per chi si candida a governare è dimostrare di essere in grado di farlo. Di esserne all’altezza. Per quanto mi riguarda, cambiamento per me significa democrazia, libertà, giustizia sociale, rispetto delle minoranze. Principi non negoziabili. Sia chiaro: la mia non è una sentenza senza appello. Ritengo che nel fronte islamico vi siano posizioni moderate che spero possano prevalere. Sono certamente preoccupato per alcune delle prese di posizione estreme, inaccettabili, di alcuni salafiti, sentendo che la letteratura di personalità che hanno dato lustro all’Egitto, come Naguib Mahfouz, viene paragonata alla prostituzione, vedendo che stiamo ancora discutendo se le donne debbano guidare le loro auto, che ancora ci chiediamo se la democrazia sia contro la Sharia».
In un nostro precedente colloquio, prima dell’esplosione della rivolta in Egitto, lei aveva sottolineato l’importanza dei giovani, il loro protagonismo. È ancora di questo avviso?
«Certo che sì. Il motore del cambiamento continuano ad essere i giovani. Alla base della rivolta egiziana vi erano ragioni che si ritrovano anche in altre realtà, come quella tunisina: la mancanza di prospettive di lavoro per le giovani generazioni, l’ingiustizia sociale elevata alla massima potenza, una rivendicazione di libertà e di diritti che si scontra con le chiusure di un potere incapace di rinnovarsi. Per le giovani generazioni la rivolta è stata anche un investimento sul futuro. Futuro che si chiama lavoro, innanzitutto, istruzione, possibilità di realizzarsi. Libertà e giustizia sociale sono le due facce di una stessa medaglia: in Egitto il 42% della popolazione vive con un dollaro al giorno, il 30% non sa leggere e scrivere, la disoccupazione è dilagante, la corruzione ovunque. L’uscita di erano ragioni che si ritrovano anche in altre realtà, come quella tunisina: la mancanza di prospettive di lavoro per le giovani generazioni, l’ingiustizia sociale elevata alla massima potenza, una rivendicazione di libertà e di diritti che si scontra con le chiusure di un potere incapace di rinnovarsi. Per le giovani generazioni la rivolta è stata anche un investimento sul futuro. Futuro che si chiama lavoro, innanzitutto, istruzione, possibilità di realizzarsi. Libertà e giustizia sociale sono le due facce di una stessa medaglia: in Egitto il 42% della popolazione vive con un dollaro al giorno, il 30% non sa leggere e scrivere, la disoccupazione è dilagante, la corruzione ovunque. L’uscita di scena di Hosni Mubarak non ha determinato la messa a punto di politiche che affrontassero queste problematiche. La situazione è andata di male in peggio dopo il fallimento del Consiglio militare nella gestione del processo di transizione».
Alla vigilia del voto, lei si era detto pronto a guidare un governo di unione nazionale...
«Ma avevo sottolineato che non mi sarei prestato ad un’operazione di facciata, non sarei stato un primo ministro sotto tutela. Per questo i militari hanno preferito rivolgersi altrove».
C’è ancora spazio per la «Primavera egiziana»?
«C’è, se sapremo serrare i ranghi e privilegiare le ragioni dell’unità a personalismi e logiche di fazione. Questo spazio va difeso puntando sui giovani che hanno fatto di Piazza Tahrir il luogo della libertà. Sono convinto che saranno loro a dirigere il Paese in futuro. Un futuro che sta a noi trasformare in presente».

il Fatto 8.12.11
Germania Monumento dedicato al “risolutore finale”
Per chi suona la nazi-campana? Goering
di Bjorn Hengst


Tumlauer-Koog (Germania). A Tumlauer-Koog, paesino della Germania settentrionale, una campana adornata di svastiche, dedicata a Hermann Goering e collocata all’interno di un monumento ai caduti, è stata all’origine di un vespaio di polemiche. Comunque sia, fino all’intervento del governatore la popolazione locale non aveva mostrato alcun segno di fastidio. Una cerimonia commemorativa per i caduti della seconda guerra mondiale si è tenuta lo scorso 13 novembre alla presenza delle autorità del luogo che hanno ricordato i morti i cui nomi figurano sulle lapidi. LA CAMPANA di Goering fa parte del monumento dal 2008 e accanto si trova una targa dal contenuto fuorviante e ambiguo. In questi tre anni nessuno ha protestato forse perché erano pochi coloro che si prendevano la briga di leggere la targa. Ma qualche giorno fa un turista ha scritto a Peter Harry Carstensen, governatore del Land di Schleswig-Holstein, informandolo dell’esistenza della campana. La campana, donata dall’organizzazione nazista Reichsnahrstand, poggia su una base di mattoni come su un trono. ”I contadini tedeschi sono l’eterna fonte vitale del popolo tedesco”, dice la targa. Gli abitanti del luogo – un pezzo di terra strappato al mare e bonificato durante il nazismo – selezionati alla luce delle idee naziste sulla purezza della razza, volevano onorare Goering – all’epoca governatore della Prussia nel 1935 si recò nella zona in visita ufficiale. Il nome di Goering è inciso sulla campana accanto alle svastiche e all’aquila imperiale. All’epoca la visita di Goering deve aver fatto molto scalpore. ”Era vestito di bianco”, scrisse una ragazza presente alla cerimonia. La campana, originariamente collocata in una torre di legno, aveva lo scopo di allertare la popolazione in caso di incendio o di inondazione e i suoi rintocchi festeggiavano anche le nascite e altri eventi di particolare importanza per la comunità. Tuttavia negli ultimi anni non è mai stata usata. Nel 2008 nella torre è stata messa una campana nuova e quella dedicata a Goering è stata trasferita nel monumento ai caduti. Il sindaco Christian Marwig difende la sua scelta: ”Perché avremmo dovuto venderla all’asta o nasconderla? La campana fa parte della storia della nostra cittadina”. Accanto alla campana fu apposta una targa, ma l’ambiguità del testo non ha fatto che peggiorare le cose. Basterebbe la perla della prima frase: ”Il partito nazionalsocialista governa dal 1933” quasi a lasciar intendere che governi ancora oggi. Ma non basta: a quasi 80 anni di distanza sulla targa si legge: ”Non seguiamo più questa ideologia, ma dobbiamo accettare il fatto che fa parte della nostra storia”. Nemmeno una parola sull’Olocausto o sugli altri crimini di cui si macchiarono i nazisti e tanto meno sul fatto che Herman Goering diede l’ordine di organizzare la cosiddetta ”soluzione finale del problema ebraico”. UN PO’ di verità storica farebbe tutt’altro che male in questa zona della Germania la cui popolazione rurale fu particolarmente sensibile all’ideologia nazista e al mito ”sangue e suolo”. Ma il sindaco rifiuta l’idea che la sua cittadina possa essere il brodo di coltura di simpatie neo-naziste. Marwig afferma che in città nessuno vota per i neonazisti del Npd, il partito di estrema destra dichiaratamente nostalgico. Poi qualche settimana fa un turista proveniente da Amburgo ha visitato il monumento e non ha potuto trattenere una reazione di sdegno. Ha immediatamente scritto al governatore Carstensen allegando le foto della campana e della targa. ”Ritengo questo monumento del tutto fuori luogo e spero che lei sia d’accordo”, ha scritto il turista che ha preferito rimanere anonimo. Carstensen ha preso immediatamente provvedimenti. Ha risposto al turista, ha scritto al sindaco Marwig e poi lo ha chiamato al telefono. Il testo della targa ”si basa sulle ideologie nazionalsocialiste senza fare cenno al contesto storico del nazismo e alle tragiche conseguenze che quella dittatura ebbe per la Germania e per l’Europa”, ha detto un portavoce del governatore. La lettera si chiudeva stigmatizzando ”l’imprecisione storica della targa” e chiedendo la rimozione della campana. Marwig pur prendendo in parte le distanze, ha detto che avrebbe risposto al governatore e ha fatto togliere la campana dal monumento.
© 2011, Der Spiegel Distributed by The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 8.12.11
Pacifico conteso
Il governo cinese ha reagito alla decisione americana di inviare altri marines in Australia
La Cina sfida gli Stati Uniti “Siamo pronti alla guerra”
Hu Jintao: la Marina deve rafforzarsi e modernizzarsi
di Paolo Mastrolilli


Il presidente Hu Jintao ha parlato chiaro: «La Marina militare deve fare estesi preparativi per la guerra». È la risposta di Pechino alla decisione di Obama di schierare i Marines in Australia.

La Marina militare cinese deve fare «estesi preparativi per la guerra». Non è un giornale o un propagandista qualsiasi che parla, ma il presidente Hu Jintao in persona. La risposta più brusca che potesse dare alla decisione di Obama di schierare i Marines in Australia, confermando quanto sia grave la minaccia alla stabilità dell’intera regione del Pacifico, provocata dagli interessi economici e dalle mire espansionistiche di Pechino.
Hu ha parlato martedì alla Commissione militare centrale della Repubblica popolare. Secondo la traduzione dei media ufficiali cinesi, ha detto che «il nostro lavoro deve concentrarsi strettamente sul tema della difesa nazionale e della costruzione delle capacità militari». Quindi ha aggiunto che la Marina «deve accelerare la sua trasformazione e la modernizzazione in maniera robusta, e fare estesi preparativi per la guerra, per offrire un contributo più grande alla salvaguardia della sicurezza nazionale».
Il Pentagono, a caldo, ha ridimensionato la portata delle dichiarazioni di Hu. «Loro - ha commentato il portavoce George Little - hanno il diritto di sviluppare le capacità militari e fare piani, come noi. Ciò che abbiamo chiesto ripetutamente alle nostre controparti cinesi è la trasparenza, e questo è parte del rapporto che continuiamo a costruire con i militari cinesi». L’ammiraglio John Kirby ha usato lo stesso tono, aggiungendo però un avvertimento: «Qui nessuno sta cercando la rissa. Certamente non staremo ad invidiare o lesinare ad alcuna nazione l’opportunità, il diritto di sviluppare le forze navali affinché siano pronte. La nostra Marina è pronta, e resterà pronta». Anche il dipartimento di Stato, per bocca di Mark Toner, si è limitato a sottolineare che «vorremmo avere rapporti tra militari più forti con la Cina, e maggiore trasparenza. Ciò aiuterebbe a rispondere alle domande che potremmo avere sulle loro intenzioni».
La verità è che nella regione è in corso un vero braccio di ferro, in prima battuta tra la Cina e i Paesi vicini, e in seconda tra Pechino e Washington. La Repubblica popolare mira alle riserve di petrolio e gas del Mar Cinese Meridionale, dove si trovano anche zone molto pescose e rotte mercantili trafficatissime. Secondo le sue pretese, le acque territoriali che le appartengono sono raccolte dentro una U gigante, che si estende fino a mille chilometri dalle proprie coste. Una posizione che la mette in diretto contrasto non solo con i paesi più vicini, come Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei, ma anche con la potenza regionale indiana e la superpotenza americana. Pechino, ad esempio, ha criticato apertamente i piani di Nuova Delhi per fare esplorazioni petrolifere nella regione, così come i progetti della Exxon-Mobil davanti alle coste vietnamite.
Finora le forze armate cinesi, che sono le più numerose al mondo, hanno avuto una caratteristica prevalentemente terrena. Da qualche anno, però, queste ambizioni marittime di Pechino hanno accelerato gli investimenti nella Marina. L’esempio più lampante è la portaerei ex sovietica, che la Repubblica popolare ha acquistato e ristrutturato. Ora arriva l’incitamento di Hu preparare la guerra.
Gli Stati Uniti sono ancora la potenza navale dominante del Pacifico, ma forse negli ultimi tempi i cinesi hanno letto le difficoltà economiche di Washington come l’inizio di una progressiva ritirata. A modificare questa percezione e rincuorare gli alleati giapponesi e coreani ci ha pensato il presidente Obama, con il recente viaggio in cui ha annunciato l’arrivo dei Marines in Australia, ma anche il capo del Pentagono Panetta, quando ha dichiarato che «gli Usa sono e resteranno una presenza nel Pacifico. Semmai, ci rafforzeremo». Il segretario di Stato Clinton ha scritto su Foreign Policy che questo sarà «l’America’s Pacific Century», il secolo del Pacifico americano, e il suo recente viaggio a Myanmar ha confermato l’intenzione di Washington di contrastare le mire cinesi. Martedì Pechino ha risposto.

La Stampa 8.12.11
Lotta senza esclusione di colpi lungo le rotte del petrolio
Fra 30 anni Pechino importerà più degli Usa: il fronte si sposta dal Golfo al Pacifico
di Michael T. Klare


Per quanto riguarda la politica verso la Cina, l’Amministrazione Obama rischia di passare dalla padella nella brace. Nel tentativo di voltare pagina dopo le guerre disastrose nel Grande Medio Oriente, l’America potrebbe lanciare una nuova Guerra Fredda in Asia, guardando ancora una volta al petrolio come chiave della supremazia mondiale. Secondo quanto detto dal Presidente Usa nel suo viaggio in Australia, d’ora in avanti gli Stati Uniti concentreranno la loro potenza in Asia e nel Pacifico.
L’Amministrazione ha deciso una serie di mosse per rafforzare la potenza americana in Asia, e a mettere la Cina sulla difensiva. Come la decisione di schierare 250 marines, che potranno diventare 2500, nella base aerea di Darwin in Australia, o la «Dichiarazione di Manila» sui nuovi legami militari con le Filippine. Nel contempo la Casa Bianca ha annunciato la vendita di 24 cacciabombardieri F-16 a Taiwan e Hillary Clinton ha visitato la Birmania, stretto alleato di Pechino, prima visita di un segretario di Stato dopo 56 anni.
Queste mosse hanno lo scopo di massimizzare i vantaggi per l’America nel quadro diplomatico e militare attuale, mentre la Cina domina quello economico. In un articolo su «Foreign Policy», la Clinton ha argomentato che un’America indebolita economicamente non può dominare in più regioni del mondo contemporaneamente. Deve scegliere con cura i campi di battaglia e dispiegare le sue forze limitate in modo da ottenere il massimo vantaggio. «Nel prossimo decennio - scrive la Clinton - dovremo essere accurati e sistematici sul dove investire tempo ed energie... uno dei compiti più importanti... sarà nella regione dell’Asia-Pacifico».
Il rafforzamento militare statunitense e la probabile, potente, controffensiva cinese sono già stati oggetto di discussione sulla stampa dei due Paesi. Una dimensione cruciale di questo scontro imminente, però, non ha ricevuto alcuna attenzione: l’ i m p o r t a n z a cheha avuto nelle decisioni di W a s h i n g t o n una nuova analisi dell’equazione energetica globale, che ha rivelato crescenti punti vulnerabili sul lato cinese.
Per decenni gli Stati Uniti sono stati pesantemente dipendenti dal petrolio importato, mentre la Cina era largamente autosufficiente. Nel 2001 gli Stati Uniti consumavano 19,6 milioni di barili al giorno e ne producevano 9. La dipendenza dai produttori stranieri per 10,6 milioni di barili al giorno era una della maggiori preoccupazioni strategiche di Washington. La risposta è stata il rafforzamento, la militarizzazione, dei legami con il Medio Oriente.
Nel 2001, invece, la Cina consumava soltanto 5 milioni di barili al giorno e, con una produzione domestica di 3,3 milioni, ne importava 1,7. Ora le tabelle sono molto cambiate. La Cina in pieno boom sta girando al ritmo di 7,8 milioni di barili al giorno e arriverà a 13,6 nel 2020 e a 16,9 nel 2035, secondo le proiezioni del Dipartimento dell’energia Usa. La produzione nazionale invece crescerà dai 4 milioni attuali a 5,3 nel 2035, anno nel quale Pechino importerà 11,6 milioni di barili al giorno, più degli Stati Uniti.
Nel frattempo l’America può guardare una situazione energetica in via di miglioramento. Grazie alla maggior produzione di «petrolio difficile» nel Mar Artico, nelle acque profonde del Golfo del Messico, nelle rocce scistose in Montana, North Dakota e Texas, le importazioni sono previste in diminuzione. E più petrolio sarà disponibile in tutto l’Occidente: la produzione di Usa, Canada e Brasile crescerà di 10,6 milioni di barili al giorno fra il 2009 e il 2035.
Significa che Washington potrà contemplare un graduale allentamento dei suoi legami militari e politici con gli Stati petroliferi del Medio Oriente che hanno dominato la sua politica estera per così tanto tempo. Per la Cina, tutto ciò comporta uno sbilanciamento strategico. Sebbene parte del greggio importato in Cina viaggerà su vie terrestri, da Kazakhstan e dalla Russia, la gran parte arriverà ancora con le petroliere da Medio Oriente, Africa e America Latina, lungo rotte pattugliate dalla Marina Usa. Non c’è dubbio che la leadership cinese, in risposta, farà passi per proteggere la sicurezza delle linee vitali di approvvigionamento. Molti di questi passi saranno economici e diplomatici, come, per esempio corteggiare potenze regionali, a partire da Vietnam e Indonesia. Ma molti passi saranno di natura militare. Un significativo rafforzamento della Marina cinese è inevitabile.
Washington potrebbe ora accendere in Asia la miccia di una corsa agli armamenti in stile Guerra Fredda, che nessuno dei due contendenti può, sul lungo periodo, permettersi. E un maggior affidamento sul petrolio ricavato dalle sabbie bituminose canadesi, la più inquinante di tutte le fonti energetiche, comporterà maggiori emissioni di gas serra e altri rischi ambientali, come pure l’estrazione di petrolio in acque profonde. Tutto ciò significa che dal punto di vista ambientale, militare ed economico, ci troveremo tutti in un mondo più, e non meno, pericoloso.

il Fatto 8.12.11
Siria. Prove di battaglia navale tra Usa e Russia
Giochi pericolosi nel Mediterraneo Mosca e Washington si marcano stretti
di Francesca Cicardi


il Cairo. Noi non uccidiamo la nostra gente. Nessun governo lo fa, a meno di non essere guidati da un pazzo”. Queste le ultime dichiarazioni del presidente siriano Bashar al Assad alla televisione americana Abc News, in una delle rarissime interviste concesse ai media internazionali da quando è iniziata la rivoluzione in Siria, quasi nove mesi fa. Oltre quattro mila persone sono morte da allora, secondo il calcolo dell’Onu, mentre gli attivisti locali dicono che sono quasi cinque mila, più di 50 mila i dispersi, quasi 60 mi-la i prigionieri politici. Ma mantenendo la versione ufficiale che il regime ha difeso fin dall’inizio (la rivoluzione non è popolare ma guidata da terroristi e gruppi armati), Assad dichiarava all’emittente americana che la “gran parte” degli ammazzati in Siria “sono sostenitori del governo” e non dell’opposizione, assicurando che non ha mai ordinato di uccidere i manifestanti. Senza osservatori indipendenti che possano verificare cosa stia succedendo in Siria, si conosce solo la versione del regime e quella dell’opposizione, e le rivelazioni dei media regionali. Quelli egiziani davano notizia di navi da guerra statunitensi e russe dirette verso la costa siriana all’inizio della settimana, mentre ieri la tv satellitare Al Arabiya parlava di un sottomarino nucleare americano che avrebbe già attraversato il Canale di Suez in direzione del Mar Mediterraneo, teoricamente in rotta verso la Siria. Già lo scorso 20 novembre, la portaerei Usa George Bush era passata dal Mar Rosso alle acque del Mediterraneo. Non c’è conferma ufficiale dei movimenti americani ma di quelli russi (a difesa di Damasco in chiave anti-Usa) vi è certezza: la portaerei Ammiraglio Kuznetsov è entrata ieri nel porto siriano di Tartus, ma solo per rifornimenti, a quanto riferisce Mosca. Da parte sua, la Siria sta mettendo in atto da domenica scorsa una serie di esercitazioni militari per mettere a prova “la capacità e la prontezza del sistema missilistico di rispondere a ogni possibile aggressione”, come ha riferito la tv di Stato. Il ministro siriano della Difesa, Dawoud Rajha, ha ordinato alle forze che vi hanno preso parte di essere “pronte a rispondere a qualsiasi ordine”, secondo l’agenzia di stampa ufficiale. NELLE STRADE e nelle cittadine siriane la guerra vera continua, concentrata ora nella provincia di Homs, epicentro della rivolta, dove la situazione sta degenerando nelle ultime settimane verso un conflitto civile e settario, e molti crimini sono provocati dalla contrapposizione tra la maggioranza sunnita – che si sta ribellando – e la minoranza sciita al potere, così come denunciano le organizzazioni non governative, anche se gli attivisti preferiscono per il momento non parlare di “religione”, per non favorire le tesi del regime. I Comitati di coordinazione locali, che raggruppano le organizzazioni che si oppongono al governo, informano che tra lunedì e martedì sono morte 65 persone in Siria, 53 solo ad Homs. I Paesi che confinano con la Siria temono questa deriva religiosa, una vera minaccia per tutto il Medio Oriente. Libano e Iraq sono particolarmente preoccupati, perché il conflitto siriano potrebbe tradursi in una guerra tra sunniti e sciiti, le due principali sette dell’Islam. Per questo, c’è grande cautela da parte di tutti e nella pazienza delle Lega Araba, che ancora una volta offre tempo ad Assad e finge di credere alle sue promesse. L’unica nazione che alza la voce è la Turchia, anche se con moderazione, considerato che in questo momento è il Paese più coinvolto e a rischio. Circa 10 mila rifugiati siriani si trovano al confine turco, dove ha stabilito la sua base anche l’Esercito Libero Siriano, costituito dai militari disertori, fuggiti dal Paese dopo essersi rifiutati di reprimere la popolazione. Per il momento questo gruppo non ha capacità operative, anche se per la Turchia rimane un ospite problematico. Ankara ha assicurato che non permetterà che il suo territorio sia usato come base per lanciare attacchi contro altri Paesi, dopo che i media ufficiali siriani – voci del regime – avevano riferito di un tentativo di infiltrazione di 35 “terroristi armati” provenienti dal Paese vicino nella regione nord-occidentale di Idlib. LA TURCHIA concentra la sua offensiva soprattutto sulle sanzioni economiche, che andranno a colpire le esportazioni siriane e sono quelle che fanno più male a Damasco, sempre più isolato e castigato dall’Occidente. Ma per ora Ankara avrebbe scartato sia un intervento militare sia l’opzione di una buffer zone per proteggere i civili – come quella che i turchi organizzarono al confine con l’Iraq negli anni ‘90 per aiutare i curdi –, così come chiede sempre più insistentemente l’opposizione. La diplomazia torna intanto al lavoro per evitare un’ipotetica guerra: l’ambasciatore Usa Robert Ford e il suo collega francese Eric Chavellier sono stati rispediti a Damasco dopo aver abbandonato il Paese per ragioni di sicurezza. Entrambi i Paesi vogliono continuare a mostrare il loro appoggio al popolo siriano, hanno detto, e soprattutto monitorare la situazione sul terreno, che è ancora poco chiara dopo 9 mesi di violenza. MENTRE Assad dichiara di non aver mai ordinato di uccidere civili, la Casa Bianca lo definisce “scollegato dalla realtà” o “pazzo”. Così il portavoce del Dipartimento di Stato Usa Mark Toner, ha commentato l’intervista all’Abc. Per Toner Assad ha perso la sua legittimità e dovrebbe dimettersi. Da Palazzo di Vetro arriva anche la voce di Ban ki-Moon: “La popolazione sta manifestando pacificamente per ottenere le riforme necessarie per il Paese. Assad deve ascoltarli e permettere loro di protestare civilmente”.

l’Unità 8.12.11
Russia Elicotteri anti-sommossa sorvolano Mosca, centinaia di fermi. Gorbaciov: «Nuove elezioni»
La protesta corre sul web: «Manifestiamo tutti i giorni». Segno di riconoscimento un fiocco al polso
La rivolta dei nastri bianchi La piazza: «Annullate il voto»
«Le autorità dovrebbero riconoscere che ci sono stati brogli». Gorbaciov chiede nuove elezioni mentre in rete si organizza la protesta contro la frode elettorale. Ottocento fermi martedì, sabato di nuovo in piazza
di Marina Mastroluca


Un nastrino bianco annodato al polso o alla borsa, un segno di riconoscimento. Sono quelli che non ci stanno e vogliono farlo sapere. Su Facebook e Twitter il gruppo «Manifesta per elezioni oneste» ieri ha raccolto migliaia di adesioni: appuntamento sabato prossimo in piazza della Rivoluzione, a pochi passi dal Cremlino. Putin ieri ha formalizzato la sua candidatura alla presidenza, mentre i cieli di Mosca erano pattugliati dagli elicotteri del ministero degli interni: un ammonimento a non scherzare con il fuoco, nessuno provi nemmeno ad immaginare una versione russa delle primavere arabe o delle rivoluzioni colorate. Il blogger Aleksei Navalny, che ha ispirato sul web la resistenza contro Russia Unita, resta in carcere e così altri leader dell’opposizione extraparlamentare. Ma su internet parte l’invito a manifestare ogni giorno alle sette di sera «a favore di elezioni trasparenti e contro il partito al potere». Con un’avvertenza: «C’è la possibilità di essere trattenuti da polizia e forze speciali per qualche ora o per qualche giorno, state attenti». Martedì i fermi sono stati 800 tra Mosca e San Pietroburgo, ieri 170. Bisognerebbe azzerare tutto e ricominciare da capo: «annullare il risultato delle elezioni e organizzarne di nuove», meno inquinate di quanto non siano state quelle di domenica scorsa. A dirlo è Mikhail Gorbaciov, l’uomo che 20 anni fa ha parlato per primo di glasnost trasparenza in quella che era ancora l’Unione sovietica. «Sempre più persone cominciano a pensare che i risultati delle elezioni sono stati truccati dice all’agenzia di stampa Interfax -. Credo che ignorare l’opinione pubblica screditi le autorità e destabilizzi la situazione». Il voto è stato truccato, Russia Unita non ha sfiorato il 50%, ma si è fermata molto prima. The Moscow Times pubblica il racconto di un anonimo presidente di seggio di Mosca che ha dovuto falsificare i registri e tramutare il 25% incassato dal partito putiniano in un più generoso 65 per cento. Il web è pieno di denunce dello stesso tenore. Le autorità, dice Gorbaciov, «devono ammettere che ci sono state numerose falsificazioni e voti multipli e che i risultati del voto non riflettono la volontà della gente». Servono nuove elezioni, dunque. È quello che chiede anche Grigori Iavlinski, leader del partito riformatore Iabloko, rimasto al di sotto della soglia di sbarramento del 7% e convinto di essere stato tra i più penalizzati dai brogli.
I TG PARLANO D’ALTRO
La strada scelta da Putin non prevede però passi indietro. Le proteste di piazza restano confinate da uno spesso cordone di polizia oltre 51.000 agenti e 2000 militari del ministero dell’interno le tv nazionali parlano d’altro: delle manifestazioni pro-Putin, del marchio delle renne nella regione di Yamala. Solo ieri un accenno, giusto per bollare come anarchici i dimostranti. «Non ricordo negli ultimi tempi un silenzio stampa assoluto come questo», dice la critica televisiva Arina Borodina all’emittente radiofonica Kommersant. L’Unione russa dei giornalisti condanna le violenze della polizia e gli arresti, che hanno riguardato gli stessi reporter: «Un tentativo di intimidire la società».
Se non arrivano nei tg della sera, gli effetti del dopo voto si ripercuotono sulla borsa che martedì ha perso il 4%, il peggior mercato mondiale, mentre il rublo continua a perdere sul dollaro segnalando un certo nervosismo e il timore di una stagione di instabilità politica che gli agenti anti-sommossa non bastano a sgombrare. «Non sanno gestire questo tipo di situazione», si lamenta il consigliere presidenziale per i diritti umani, Michail Fedotov, riferendosi alle forze dell’ordine e ai giudici della capitale che hanno scelto d’istinto le maniere forti.
Che ci sia una certa confusione nei piani alti del Palazzo lo conferma anche l’insolita intervista rilasciata da Vladislav Surkov, l’eminenza grigia del Cremlino, l’uomo che ha inventato il tandem di potere e che oggi nega i brogli ma critica la mancanza di scelta politica che ha determinato la disaffezione dell’elettorato. Surkov suggerisce la necessità di aprire la cosiddetta «verticale del potere», il cui apice è Putin, magari con l’ingresso di un «partito liberale di massa» che rappresenti i ceti urbani, più inquieti. A conti fatti risulta che il 60% degli elettori non ha votato per sfiducia o ha messo nell’urna un voto di protesta. Basterà un nuovo partito creato a tavolino a tamponare le falle?

Repubblica 8.12.11
La primavera di Mosca che fiorisce sui blog
La rabbia della grande rete contro il "partito dei ladri" così è nata l´ultima rivolta
di Nicola Lombardozzi


Difficile parlare di speranza e di cambiamento sul cupo boluevard Sinferopolskij, alla periferia Sud di Mosca. Ma in una cella al secondo piano del carcere "Numero 1", l´uomo più temuto dal governo russo si chiede ancora fin dove possano arrivare quelle migliaia di facce nuove apparse all´improvviso lunedì sera nella pioggia del quartiere borghese Cjstie Prudy. Tutti a urlare con lui contro i brogli, contro Putin e «il suo partito di ladri e corrotti». E a evocare una primavera come quella che ha scosso le piazze arabe, mettendo in allarme gli oligarchi più fidati del Cremlino.
Era sorpreso, quella sera, Aleksej Navalnjy, 37 anni, avvocato, consapevole di godere di una fama enorme ma ristretta al mondo di Internet. «Ma sono usciti tutti dal computer?», si chiedeva stordito mentre stringeva mani guantate di pelle di montone o comunicava in perfetto inglese con altri militanti per confondere i poliziotti che già si preparavano ad arrestarlo.
E così come i manifestanti di piazza Tahrir si ispiravano alla rivolta tunisina, quelli di Mosca fanno riferimento alle rivolte arabe, che per loro sono la dimostrazione che una collera popolare può avere ragione di una dittatura.
Non c´è bisogno di aspettare gli storici per dire che l´anno 2011 passerà agli annali come l´anno del contagio democratico, ma perché questo contagio ha toccato anche Mosca, dopo undici anni di putinismo, undici anni durante i quali nessuna forma di opposizione era riuscita ad affermarsi?
La risposta è che Vladimir Putin ha commesso due errori, uno nel 2008 e l´altro la settimana scorsa, due errori a cui non gli sarà facile porre rimedio. Tre anni fa, per cominciare, aveva dovuto fare una scelta difficile. La Costituzione gli proibiva di presentarsi per un terzo mandato consecutivo e dunque aveva bisogno di trovare qualcuno che gli scaldasse la sedia fino al 2012, ma chi? Un militare? Ci aveva pensato, ma non avrebbe fatto un bell´effetto. Un agente dei servizi segreti, come lui? Sarebbe stata la cosa più semplice, ma a parte il fatto che gli ambienti imprenditoriali non erano favorevoli perché temevano un potere ancora più arbitrario di quanto già non fosse, Vladimir Putin non voleva che un altro se stesso potesse prendere gusto al potere.
Dopo lunghe esitazioni, la sua scelta era caduta quindi su uno sconosciuto che doveva a lui la sua carriera, Dmitri Medvedev, troppo giovane e troppo sprovvisto di appoggi, pensava Putin, per potergli fare ombra. La Russia intera aveva pensato la stessa cosa. «Sarà solo una marionetta», dicevano all´epoca i russi, ma al pari di Vladimir Putin avevano dimenticato che questo nuovo presidente timido e paffuto era arrivato all´età adulta dopo la fine del regime sovietico, che era un giurista e non un poliziotto, e che la cosa che amava di più era leggere su Internet il Financial Times.
Discorso dopo discorso, Dmitri Medvedev ha cominciato a denunciare l´arretratezza politica della Russia, la corruzione e l´imperizia generale, e soprattutto a spingere per un riavvicinamento con l´Europa e con gli Stati Uniti, che appartengono, diceva, alla nostra «stessa civiltà». Era quello che pensavano e volevano sentire i ceti imprenditoriali e le nuovi classi medie. La marionetta ben presto ha finito per risvegliare il loro interesse. Dmitri Medvedev è diventato popolare, talmente popolare che ha cominciato a pensare di mandare all´aria i piani del suo mentore e presentarsi per un nuovo mandato.
L´ipotesi di una candidatura di Medvedev era diventata talmente plausibile che Vladimir Putin si era visto costretto a entrare in campo e fischiare la fine della partita. È stato lo stesso Dmitri Medvedev che ha dovuto annunciare, a settembre, che il candidato sarebbe stato Putin e che lui avrebbe preso il posto dell´ex presidente come capo del governo. Ai vertici del potere la questione era chiusa, ma questa pagliacciata ha suscitato un´indignazione tale nel Paese che la popolarità di Putin e del suo partito sono precipitate nei sondaggi; ed è qui che è intervenuto il secondo errore di quest´uomo forte che la forza acceca.
Ossessionato – perché è così – dallo spettro della primavera araba, si è detto, la settimana scorsa, che il solo modo per evitare che le elezioni legislative scatenassero troppe proteste era fare un piccolo passo indietro, accettare di limitarsi a brogli parziali, lasciare che il voto rispecchiasse l´evoluzione della pubblica opinione.
È stata la manovra di troppo. Invece di calmare le acque, quei 15 punti di arretramento emersi domenica hanno rinvigorito la contestazione contro il «partito dei truffatori e dei ladri». Organizzate su Internet, le manifestazioni sono state applaudite dalla gente sui marciapiedi, e dei passanti si sono uniti alla protesta: oggi scopriamo l´altra Russia, quei giovani, quei blogger e quei ceti medi che si nutrono di Internet, che aspirano alle libertà e a uno Stato di diritto, che non ne possono più della corruzione e sognano di ricostruire il loro Paese su basi nuove.
La Russia non è l´Egitto. Vladimir Putin non farà la fine di Mubarak, ma in primavera, quando si terranno le presidenziali, farà molta fatica a far credere alla legittimità della sua elezione futura. In Russia la situazione è cambiata. È cambiata all´improvviso e a tal punto che Mikhail Gorbaciov è arrivato a chiedere «l´annullamento» di queste elezioni di cui, parallelamente, l´Occidente denuncia l´irregolarità. Il Paese reale prevale sul Paese legale. La Russia di Internet ruba la scena alla Russia delle televisioni di Stato. La censura è aggirata e ora sono gli altri ad avere paura. Si apre una pagina nuova per questo Paese, una pagina difficile, irreversibile, lunga e incerta quanto la primavera araba.

Repubblica 8.12.11
La primavera russa
Mosca, la fantasia contro il potere
di Bernbard Guetta


Sembra di essere al Cairo all´inizio della primavera araba. E invece siamo a Mosca, con freddo polare e shabka. È la Russia, non l´Egitto, ma da quando Vladimir Putin e il suo partito, Russia unita, sono arretrati di 15 punti alle elezioni legislative di domenica scorsa, le manifestazioni che si moltiplicano intorno alla Piazza Rossa fanno entrare in scena, com´era successo con le proteste che avevano portato alla caduta di Hosni Mubarak, una nuova generazione politica educata, formata e mobilitata da Internet.
Come al Cairo, i loro eroi sono giovani blogger. Come al Cairo, riuniscono correnti diversissime e perfino opposte, nazionalisti e liberali, oppositori democratici e neofiti della politica che non sarebbero mai scesi in piazza se non fossero stati esasperati dalla miseria e dalla corruzione.
il testo non è disponibile on line, cfr l’edizione cartacea nelle edicole

La Stampa 8.12.11
Sacks, a ciascuno la sua cecità
Nell’ Occhio della mente il grande neurologo racconta la perdita della visione in 3D. Partendo da un dramma personale
di Piero Bianucci


IL CERVELLO È PLASTICO Colpito da un trauma, entro certi limiti riesce a elaborare circuiti neuronali alternativi
LA VISIONE DIFFERITA «Due uomini venivano verso di me. Chiusi gli occhi: potevo continuare a osservarli»

Oliver Sacks, nato a Londra 78 anni fa, vive e lavora negli Stati Uniti. Nei suoi libri racconta casi clinici nei quali un trauma o un difetto genetico svelano qualche funzione cerebrale. È autore tra gli altri di Risvegli, da cui è stato tratto il film con Robin Williams e Robert De Niro, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Vedere voci, viaggio nel mondo dei sordi, Zio Tungsteno: tutti tradotti da Adelphi, come pure L’occhio della mente, appena uscito
Chiudete un occhio e allargate le braccia all’altezza delle spalle. Ora muovete le braccia davanti a voi e provate a far incontrare la punta dell’indice sinistro con la punta dell’indice destro. Quasi certamente mancherete il contatto. Benché conosciate bene le vostre braccia, senza la visione in tre dimensioni è difficile muoverle con precisione, e la visione stereo richiede due punti di vista, cioè due occhi. Però non basta. Se guardiamo prima con un occhio e poi con l’altro vediamo due immagini alquanto diverse, specie per gli oggetti vicini. Eppure usando entrambi gli occhi le immagini si fondono in una sola: un’immagine più ricca di informazione, che ci permette di stimare la distanza e le posizioni relative delle cose. L’elaborazione per arrivare a questo risultato è complessa e non avviene negli occhi ma nel cervello, come del resto succede per tutto ciò che riguarda i nostri sensi. Lo si scopre quando nel cervello qualcosa non funziona.
Alla visione in 3D Oliver Sacks, neurologo inglese che vive negli Stati Uniti e celebre narratore di casi clinici, dedica gran parte del suo ultimo libro, L’occhio della mente (Adelphi, 270 pagine, 19 euro). Un capitolo riguarda Sue Barry, moglie di un astronauta, lei stessa neurologa.
Sue era nata strabica ma tre interventi chirurgici ai muscoli oculari le avevano riallineato gli occhi. Peccato che fosse tardi. Ormai aveva 7 anni, ed è nei primi due anni di vita che il cervello costruisce i più importanti circuiti neuronali della vista. La visione in 3D di Sue rimase quindi imperfetta, ma lei non se ne accorgeva perché riusciva a fare una vita del tutto normale. Fu a cinquant’anni che intervenne un grave peggioramento. Il suo mondo era diventato piatto.
Sotto la guida di una optometrista, Sue iniziò una lunga serie di esercizi per fondere in una sola le immagini fornite dai suoi occhi. Così, con pazienza e testardaggine, ha recuperato la visione stereo (parola che in greco, ci ricorda Sacks, significa solido). Come è stato possibile?
La risposta viene dalle neuroscienze degli ultimi vent’anni: il cervello è plastico. Colpito da un trauma o sottoposto a esercizi costanti, entro certi limiti riesce a elaborare circuiti neuronali alternativi. Oggi Sue prova un incredibile piacere nel percepire il mondo: «Intorno a me stava cadendo lenta la neve, in grandi fiocchi bagnati. Vedevo lo spazio tra un fiocco e l’altro, e tutti insieme producevano una meravigliosa danza tridimensionale». Il successo di mediocri film in 3D si deve a questo: con i loro effetti speciali ci rendono consapevoli della spazialità in cui siamo immersi, altrimenti data per scontata.
Tranne Zio Tungsteno, tutti i libri di Sacks, dal primo e famoso Risvegli portato sullo schermo da Robin Williams e Robert De Niro, a L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, a Vedere voci eccetera, raccontano casi clinici nei quali un trauma o un difetto genetico svelano qualche funzione cerebrale. È una esplorazione nella quale la scoperta scientifica germoglia dalla malattia. Il tutto in una concezione olistica e umanistica del rapporto medicopaziente che sfocia in buona letteratura. Ma il secondo caso di perdita della visione in 3D che Sacks riporta nell’ Occhio della mente è speciale perché è la storia del melanoma, un tumore maligno, che gli ha portato via l’occhio destro.
Qui il dramma personale prevale sul distacco scientifico, il caso clinico è così poco metabolizzato che Sacks è riuscito a raccontarlo solo in forma di diario, una presa diretta che fa percepire tutte le sue paure e le sue angosce. Nonostante ciò, Sacks conserva una serenità sufficiente per riferire un’esperienza rivelatrice: «Vidi due uomini che venivano verso di noi, entrambi con una camicia bianca. Mi fermai, chiusi gli occhi e mi accorsi che potevo continuare a osservarli. Quando riaprii gli occhi, rimasi sorpreso nello scoprire che gli uomini in camicia bianca non c’erano più. Ci avevano superati incrociandoci». Insomma, colpita dal tumore, la percezione visiva gli dava una visione differita, gli consentiva di vedere nel passato prossimo. «Questa persistenza della visione mi divertiva», conclude Sacks. Era la prova provata su se stesso che è la mente a vedere, qualunque cosa sia la mente intesa come funzione astratta che emerge dal cervello anatomico.
In effetti L’occhio della mente è un campionario di cecità diverse: la pianista che non riesce più a leggere uno spartito, la pittrice che dopo un ictus perde e recupera la parola, l’autore di romanzi polizieschi che continua a scrivere ma non può rileggersi perché colpito da alessia, lo stesso Sacks che - come il 5 per cento della popolazione - stenta a ricordare il volto delle persone, anche le più amiche, il cieco che continua a vedere creandosi immagini mentali. Come dire: a ognuno la sua cecità. Il che è anche un apologo.

Repubblica 8.12.11
Perché ci colpisce il mito della divinità dai due sessi
Ermafrodito il simbolo dell´unione
Storia, mitologia, religione si sono occupate di questa figura Seguendo Jung si potrebbe affermare che è l´emblema del nostro inconscio
di Umberto Galimberti


Nessuno di noi è relegato in un sesso. Maschile e femminile ci abitano, contrassegnando l´uno la nostra dimensione cosciente, l´altro la nostra dimensione inconscia. Questa ambivalenza sessuale è decisiva a livello psichico. E il rimuoverla, perché non c´è cultura e civiltà che non lo richiedano per un loro bisogno d´ordine, è un grave danno psichico. Per questo la figura dell´ermafrodita merita la nostra attenzione. E la scultura che torna a Roma dal Louvre è l´immagine di un simbolo potente che abita il nostro immaginario.
Ne parla la mitologia di tutti i popoli antichi, tra cui quella greca, la più vicina a noi, a proposito di Ermes (Mercurio) dalla "duplice natura", ne parla Platone nel Simposio col mito dell´androgino, da cui nacquero maschio e femmina dopo il taglio inferto al suo corpo per volere di Zeus, ne parla la Gnosi che così spiega la partenogenesi di Gesù generato dal femminile e maschile di Maria, ne parla Clemente Alessandrino, maestro di Origene, che allude all´androginia di Cristo, e più recentemente la mistica cattolica con Gerog Koepgen, la cui opera, La gnosi del cristianesimo (1939), ebbe prima l´imprimatur e poi fu messa all´indice, ne parla infine a più riprese l´alchimia con i simboli della coniunctio oppositorum, e da ultimo Jung che vede nell´ermafrodita un archetipo decisivo nella dinamica psichica di ciascuno di noi.
Se tanta storia, mitologia, religione, arte, psicologia si sono intrattenute su questa figura, possiamo, sulla traccia di Jung, riflettere se l´ermafrodita non è il simbolo del nostro inconscio dove tutto è indifferenziato, e da cui l´umanità si è emancipata attraverso le differenze instaurate dalla ragione, che distingue il maschile dal femminile, il giorno dalla notte, la causa dall´effetto, e in generale una cosa dall´altra. Di questo indifferenziato abbiamo esperienza nei sogni dove l´assenza di coscienza "con-fonde" tutte le cose, per cui io sono ad un tempo, maschio e femmina, adulto e bambino, dove naufraga la successione temporale, la sequenza spaziale, dove non vige il principio di non contraddizione e tantomeno il principio di causalità. Di questa "con-fusione" dei codici, l´ermafrodita è il simbolo, nell´accezione greca di syn-ballein che significa "mettere assieme".
Tutto ciò che è inconscio si proietta, per cui la parte femminile dell´uomo si riflette nella donna che si sceglie perché lo rispecchia, così come la parte maschile della donna si riflette nell´uomo che la ritrae. Scissa dalle proprie radici inconsce, la coscienza si inaridisce, diventa unilaterale, diventa "diabolica", dal greco dia-ballein che significa divisione, separazione, massima distanza da sé. E questo perché la nostra totalità psichica ospita la coscienza come "un cerchio minore in un cerchio maggiore" dice Jung, e trascurare tutto ciò che coscienza non è non consente alcuna creazione artistica, poetica e neppure religiosa.
Fuoriuscendo dall´inconscio per costruire la nostra identità di genere, e all´inconscio ritornando per prender contatto con la nostra controparte sessuale, diventiamo uomini e donne "interi" come dice Platone, e come in qualche modo allude anche San Paolo quando dice che "erano due in una sola carne". Il pensiero antico era profondo. Viene da chiedersi se tanta infelicità dell´uomo d´oggi non dipenda da un eccesso di razionalità conscia che più non ha rapporti con il proprio inconscio, se tanta violenza maschile non dipenda dall´aver rimosso la propria dimensione femminile, e se tanta acquiescenza femminile non sia dovuta alla rimozione del proprio maschile. Se questo è vero, l´ermafrodita è un simbolo che chiede la nostra riflessione.

Corriere della Sera 8.12.11
Guerre e massacri. I conti della storia
di Matteo Collura


M atthew White è un bibliotecario americano con la passione per le statistiche. Mostra una rassicurante pinguedine, una comunissima calvizie e una altrettanto anonima barbetta imbiancata. Un guardiano di scartoffie come tanti altri. Sennonché il signor White si è messo in testa di compilare un elenco ragionato — e raccontato — dei cento più rimarchevoli orrori della storia umana. E c'è riuscito nel migliore dei modi, perché non soltanto in un volumone che Ponte alle Grazie pubblica in questi giorni, egli fa parlare le cifre, ma perché riesce a dare a esse quel contenuto umano che rende appassionante la storia, anche nei suoi aspetti più assurdi e feroci (Matthew White, Il libro nero dell'umanità. La cronaca e i numeri delle cento peggiori atrocità della storia, pp. 867, 23,50)
Chiuso il singolare libro, rimane lo sgomento per la quantità di morti ammazzati da quando semplici testimoni, cronisti e storici hanno cominciato a lasciarne traccia. Il totale, secondo i calcoli del bibliotecario americano, fa 455 milioni di vittime. Il che equivale (sbizzarriamoci pure con i conteggi) a oltre mezzo milione di esseri umani uccisi per ogni pagina del suo libro. Si parte con la seconda guerra persiana (480-479 a. C.: 300 mila morti) e si arriva alla seconda guerra del Congo (1998-2002: 3,8 milioni di morti).
Non c'è lo spazio, qui, per elencare i cento massacri più sanguinosi della storia. Ne riportiamo qualcuno. Al primo posto nella classifica c'è la Seconda guerra mondiale con 66 milioni di morti (Olocausto incluso); all'undicesimo la Prima guerra mondiale con 15 milioni di morti. Saltiamo alle Crociate (1095-1291), al trentesimo posto con 3 milioni di vittime; al sessantacinquesimo, la Guerra civile americana (1861-1865) con 695 mila morti; al novantunesimo, la Guerra civile spagnola (1936-1939) con 365 mila morti. Naturalmente nel conteggio non ci sono soltanto le guerre, ma anche la tratta degli schiavi, i sacrifici umani, i combattimenti tra gladiatori (ben tre milioni e mezzo di morti dal 264 a. C. al 435 d. C.), le carestie provocate, e così via.
Ciascuna delle atrocità poste in classifica è inquadrata in uno specifico capitolo in cui vengono raccontati, a volte con troppo ostentata disinvoltura (forse questo è l'unico difetto del libro) i fatti con i relativi antefatti e le tante casualità, crudeltà e stupidità di cui, soprattutto le guerre, sono portatrici. E nelle guerre la maggior parte delle vittime sono civili. Lo dicono i numeri: del quasi mezzo miliardo di esseri umani uccisi nei cento massacri più rilevanti, 315 milioni dipendono dalle guerre, che assommano 49 milioni di soldati uccisi contro i 266 milioni di civili. La media dei civili morti durante le guerre è dell'85 per cento.
Non giudica, Matthew White, e non fa filosofia: racconta. Sarebbe interessante sapere, scrive infatti, «perché uccidere in battaglia tremila coscritti adolescenti sia moralmente accettabile, mentre fucilare una mezza dozzina di agitatori politici in carcere non lo è, oppure perché sparare su alcune decine di prigionieri di guerra sia illecito, mentre bombardare diecimila civili, no». In questi casi i numeri non danno risposte, trasmettono soltanto desolazione. E poi vale quanto avrebbe detto Iosif Stalin: «La morte di un uomo è una tragedia, un milione di morti è statistica».
Nel dare forma aritmetica a quello che nel libro è definito «emoclisma» (dal greco, «inondazione di sangue»), l'autore mostra le molte pagine della storia rimaste bianche o inattendibili. È il caso della guerra di Troia, la quale secondo il superstite Darete fece in totale un milione e mezzo di morti tra greci e troiani, mentre dalle ricerche archeologiche non è stato mai accertato che in quel luogo sia stata combattuta una così terribile guerra. Millenni dopo, un discorso quasi analogo si può fare per la guerra in Iraq. C'è chi sostiene che essa ha provocato la morte di oltre 600 mila iracheni, mentre l'Organizzazione mondiale della sanità stima che le vittime siano state circa 150 mila. Pericoloso, questo libro, perché spinge ad appassionarsi a simili conteggi.

Corriere della Sera 8.12.11
Così Efesto sorprese la moglie Afrodite con Ares
di Eva Cantarella


Come negarlo? Gli dei greci erano veramente deipersonaggi singolari. Molto, molto diversi da come ce li hanno raccontati a scuola e lontanissimi dall'idea che possiamo farci di loro ammirando le splendide statue che li raffigurano, ieraticamente bianchissime (dopo che il tempo ne ha cancellati i colori), austere e solenni nella fredda immobilità del marmo.
Gli dei che i greci veneravano avevano ben poco a vedere con la nostra idea della divinità: per essere benevoli, diciamo che non erano perfetti. Come avrebbero potuto esserlo, del resto? Nel mondo pagano, non erano gli esseri umani a essere creati a immagine del dio; erano gli dei a essere creati a immagine dei mortali, dei quali avevano i pregi, ma anche tutti i difetti: si ingannavano a vicenda, litigavano, si innamoravano, si tradivano, si abbandonavano a crudelissime vendette.
Per onestà, a questo punto, bisogna dire che ad alcuni greci la cosa non piaceva. Quantomeno, certamente, non piaceva a Senofane, interessante e anticonformista pensatore nato a Colofone, in Asia minore, e vissuto a cavallo tra il VI e il V secolo a. C. Secondo Senofane, non era affatto vero che gli dei assomigliassero ai mortali: erano stati Omero ed Esiodo, sbagliando, a descriverli in quei termini. Ma la grande maggioranza dei greci li amava, quegli dei imperfetti, e li venerava, incurante dei loro difetti (o forse, proprio per quelli). E si appassionava alle loro vicende: come, del resto, continuiamo a fare anche noi, a distanza di millenni. Non senza ottime ragioni.
Le storie degli dei greci sono più appassionanti di qualunque soap opera e di qualunque racconto fantascientifico. Le loro avventure erano rocambolesche, i loro accoppiamenti assolutamente incredibili, i loro amori movimentatissimi.
Limitiamoci a un paio di esempi: Afrodite, dea della bellezza e dell'amore, sposata a Efesto, il fabbro divino brutto e sciancato, aveva una relazione con l'aitante Ares, dio della guerra. Lo sapevano tutti sull'Olimpo, tranne, ovviamente, il marito tradito. Sino al momento in cui il Sole non pensò bene di avvertirlo, ed Efesto, folle di rabbia, decise di vendicarsi. Costruita una rete invisibile ma robustissima, la stese attorno al letto nuziale, in modo che chiunque vi entrasse rimanesse imprigionato. E poi disse alla moglie che si sarebbe allontanato per qualche giorno. Quasi superfluo a dirsi, gli amanti pensarono bene di profittare dell'occasione, ma non appena si stesero sul letto si resero conto della trappola. Ahimè, troppo tardi: chiamati a raccolta da Efesto, gli dei arrivarono, e di fronte allo spettacolo scoppiarono, si può ben dirlo, in omeriche risate. Il dio della guerra, nudo, impigliato in una rete, era uno spettacolo troppo divertente…
Come finì la vicenda? Lasciamo il piacere di scoprirlo ai lettori di Olympos. Vizi, amori e avventure degli antichi dei, un libro di Giorgio Ieranò (Sonzogno, pp. 253, 16) che raccoglie storie divine di ogni genere, a volte boccaccesche, come la precedente, a volte tragiche e tristissime, come, ad esempio, quella di Mirra: follemente innamorata di suo padre, Mirra, grazie a uno stratagemma, riuscì per varie notti a unirsi con lui. L'ira del padre, quando la riconobbe, fu terribile e Mirra fuggì, disperata, fino a quando gli dei, mossi a pietà, la trasformarono in un albero di mirto, dal cui tronco colavano gocce, che altro non erano (e sono) che le sue eterne lacrime.
Alla conoscenza dell'antico si può contribuire, senza banalizzarlo (come purtroppo non di rado accade), se si riesce a raccontarlo con intelligenza, competenza e leggerezza. Come fa questo libro.

Repubblica 8.12.11
"Ted", le lezioni in rete dove s´impara dai Nobel
Il boom dei video educativi caricati su Internet In cattedra anche Bill Gates, Bono e Gladwell
Cominciò tutto nel 2006 con un discorso sul sugo per la pasta messo su YouTube
È diventato ritrovo delle menti migliori del pianeta e nel team c´è anche l´italiano Giussani
di Riccardo Luna


Se siete depressi, fatevi un TED. Non è uno psicofarmaco. È una conferenza. Una conferenza fatta di discorsi da 18 minuti. Prendetene pure uno a caso, sono in rete. Il ragazzino del Malawi che ha costruito un mulino a vento con i rifiuti. La giovane yemenita che si batte per il diritto delle donne a fare la rivoluzione. Il famoso Nobel per la Pace che racconta la sua scomoda verità. O lo scienziato superstar che ha mappato il genoma. Uno qualsiasi. Il TED ha sempre lo stesso effetto. È una scarica di ottimismo. La dimostrazione fisica, evidente e a volte commovente, che il mondo si può cambiare in meglio. Loro, quelli dei discorsi, ce l´hanno fatta. Ed è così che, un discorso dopo l´altro, superando quota mille, il TED è diventato un mito: una community globale di innovatori sociali.
Eppure tutto è iniziato con un apologo sugli "spaghetti´s sauce", il sugo per la pastasciutta. Era il settembre 2006. E il discorso era solo apparentemente banale: era bellissimo. Lo aveva fatto due anni e mezzo prima lo scrittore americano Malcom Gladwell, un tipo molto brillante, con l´aria disneyana da Pippo e una impareggiabile capacità di raccontare storie dal nulla o quasi. Come appunto la "ricerca del sugo perfetto" (che si conclude con la morale che non esiste il sugo perfetto, ce n´è uno per ciascuno di noi: come la formula della felicità. Applausi). Insomma, nel settembre del 2006 gli organizzatori del TED fanno una cosa che avrebbe cambiato per sempre il senso della loro conferenza, e anche quelle di tutte le altre come vedremo. Mettono quel video in rete. Oggi può sembrare un gesto normale ma allora, era appena nato YouTube, farlo aveva un sapore rivoluzionario, anche perché quelli che al TED ci vanno davvero e ci passano una settimana, pagano seimila dollari per ascoltare "talks" come quello di Gladwell che adesso finivano in rete gratis per tutti. Come avrebbero reagito? Avrebbero chiesto indietro i soldi? Invece è bastato un attimo per capire che quella era la strada giusta: quel video venne condiviso da migliaia di persone a una velocità incredibile (oggi è arrivato a un milione e mezzo di views). Erano nate le "ideas worth spreading", le idee degne di essere diffuse: il TED aveva una nuova missione.
Fino a quel giorno era stata solo una conferenza. Una bella conferenza, ma nulla più. L´aveva creata nel 1984 Richard Saul Wurman, detto Ricky, ex presidente dell´Istituto americano di architettura. Fu lui a pensare di mettere assieme la Tecnologia della Silicon Valley, l´Entertainment di Hollywood e il Design della controcultura californiana, inteso quindi più come capacità di progettare cose geniali che come stile. E fu Wurman a inventare il celebre format fatto di tre regole. Primo, niente eventi in simultanea, ma un unico flusso "perché le persone sennò hanno sempre la sensazione di essere andati all´evento sbagliato". Secondo, nessuna intervista sul palco, "perché su venti domande, diciannove sono noiose o sono dei discorsi". Terzo, interventi, detti "talks", da 18 minuti esatti, "perché 15 sembrano pochi, 20 sembrano troppi, 19 sembra una cattiveria, 17 è un numero primo...". 18, appunto.
Infine una condizione: nessuno speaker andava pagato. Sarebbero dovuti venire per il piacere di condividere le loro idee in un ambiente abbastanza eccezionale. Fu così che al primo TED andarono a parlare geni come Nicholas Negroponte, Stewart Brand e George Lucas ma non fu un successo. Anzi. Wurman perse un sacco di soldi pare. Ci vollero sei anni per tornare in pista. Sede a Monterrey, a metà strada fra San Francisco e Los Angeles; data, febbraio. Stavolta funzionò: anche perché la rivoluzione digitale intanto era esplosa portando alla ribalta talenti sconosciuti con grandi storie da raccontare.
Il TED diventa subito il ritrovo delle menti migliori del mondo, quando il mondo per gli americani della west coast si fermava a New York. Una bella cosa, piccola e molto esclusiva. Non saremmo qui a parlarne se fosse rimasta così. Ma nel 2001 si cambia. Wurman passa il testimone al più giovane Chris Anderson (omonimo del direttore del magazine Wired). Anderson aveva alle spalle due piccoli successi editoriali legati alle tecnologia che non avevano appagato la sua formazione da filantropo (figlio di un medico missionario, è cresciuto tra India Pakistan e Afghanistan). L´aria del TED è quello che cercava. I veri cambiamenti arrivano nel 2005 quando nel team entra un giornalista italiano trapiantato in Svizzera appassionato di innovazione: Bruno Giussani. È allora, lo abbiamo visto che i "talks" iniziano a finire in rete e che il TED diventa davvero "global", con una edizione annuale europea (prima a Oxford e ora a Edimburgo) e grandi eventi in Africa e in India. Grazie a Internet, il successo è travolgente: fanno notizia i discorsi di Bill Gates o di Bono Vox, ma poi si scopre che in rete i talks più visti – con oltre sette milioni di views – sono di geni sconosciuti con storie mozzafiato o visionari di talento vissuti lontani dallo star system.
«Siamo una piattaforma aperta per l´innovazione» sostiene Giussani per il quale la conferenza è solo un momento di una cosa più complessa che serve a condividere idee, «noi mettiamo la cornice, il resto lo fanno le persone». Il riferimento è alla community di volontari che traduce e sottotitola i video in quasi tutte le lingue del mondo. E ai TedX, i TED organizzati autonomamente, ovunque, da chiunque: se ne fanno tre al giorno, più di mille l´anno, anche in luoghi molti simbolici come la Grande Muraglia. In Italia ce n´è appena stato uno a Firenze dove Jovanotti ha parlato dell´ottimismo "quale forma di lotta", mentre a quello di Bologna il regista Paolo Sorrentino ha spiegato "come funziono".
Tutto questo parlare e condividere, secondo Anderson determina un fenomeno che lui chiama Crowd Accelerated Innovation, una innovazione accelerata dalla folla: «Migliori sono i video, più aumenta il pubblico che li vede; più aumenta il pubblico, migliori sono i discorsi e quindi i video». All´infinito. Intanto la gente impara. Per questo il destino del TED è l´istruzione. «È la nuova Harvard» l´ha definita il magazine Fast Company. No, è meglio. Sono in arrivo i TedED, pillole da tre minuti per rispondere alle grandi domande che ci facciamo. Servono a rendere il mondo un po´ migliore. E a combattere la depressione.

Repubblica 8.12.11
Il libro di Bianchi e Cacciari dedicato al comandamento "Ama il prossimo tuo"
Ci serve compassione senza commozione
La cura verso "il simile" è presente in tutti e tre i monoteismi. Ma solo nel cristianesimo avviene lo scandalo supremo: il cuore s´apre anche a chi mi è addirittura nemico
di Barbara Spinelli


La parabola del Samaritano buono è la più sconcertante del Nuovo Testamento, accanto a quella dell´adultera. Appare solo in Luca (10,25-37) e come tutte le parabole dà a un pensiero etico - ama il tuo prossimo come te stesso - la forma di un racconto. È come se la morale, dai cieli di astratte bellezze, scendesse per strada, e indicasse il punto preciso in cui i sentieri si biforcano e la via giusta s´annebbia. Al dottore della Legge che chiede chi sia il Prossimo, Gesù risponde narrando la storia di un uomo (un uomo qualunque, homo quidam), che viene percosso dai briganti e lasciato mezzo morto sul ciglio della strada. È qui che accade l´ignominia. Passano lungo quel ciglio un sacerdote, poi persino un levita (il levita, custode del tabernacolo nel Tempio, appartiene a Dio in modo speciale) ma pur vedendo vanno oltre. Passa infine un Samaritano, che nella comunità è un fuori-casta in odore di paganesimo, e scorgendo il mezzo morto gli succede qualcosa di inaudito: «N´ebbe compassione.Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui». Inauditi sono i prodromi della compassione: nell´originale greco, vedendo il percosso al Samaritano si squarciano le viscere, il cuore si spacca. Lutero traduce: grida di dolore.
Questo trauma - sei trafitto, nel mondo si apre una fessura - è al centro della riflessione che Enzo Bianchi e Massimo Cacciari fanno nel bel libro Ama il prossimo tuo (il Mulino). Cacciari lo chiama «la ferita originale», senza la quale non c´è amore del prossimo. Sempre nel testo greco, il Samaritano è «un uomo in viaggio», un errante: come gli ebrei quando fecero esodo nel deserto e non erano ancora sedentarizzati. Le sue viscere si squarciano senza che del semi-morto sappia alcunché: è un consanguineo? un amico? un simile? No: è un uomo ferito. È la ferita che accomuna, che crea il simile.
Lo scuotimento di cui parla la parabola è radicalmente diverso dalla commozione, che è breve, che resta nei recinti dell´Io, e non implica i molti gesti del Samaritano: prima l´accostarsi al morto-vivo, poi l´olio e il vino versato sulle ferite (come farà Nicodemo versando sul corpo di Gesù mirra e aloe) poi il trasporto nella locanda, poi le due monete date all´albergatore perché prosegua le cure, e infine il pensiero decisivo che abita la compassione: cosa accadrà domani, quando sarò di nuovo lontano? La compassione non è esplosione effimera di sentimenti ma ha una testa che pensa il lungo periodo e che fa dire al Samaritano, congedandosi dall´albergatore: «Abbi cura di lui, e ciò che spenderai in più lo pagherò al mio ritorno». Chi con-patisce considera proprio il patire: non perché glielo dica la Legge, la Torah. Il suo essere viene soverchiato dall´essere dell´altro.
L´amore del prossimo è una pro-vocazione, scrive Bianchi: ti chiama-fuori da te stesso, ti trascina verso l´Aperto. Non è un sentire statico ma un agire, un muoversi. Gesù convince il dottore della Legge, ma non si contenta e aggiunge: «Và, e anche tu fa´ lo stesso». C´è una pagina cruciale nel testo di Bianchi, che spiega come mai Gesù scelga proprio un paria come modello. L´amore del prossimo intreccia Legge ebraica e Vangelo, ma nessun legame religioso lega il Samaritano all´uomo ferito. Questo significa che «è possibile amare il prossimo senza amare Dio». È il contrario che non è possibile: «Non è certo possibile amare Dio se non si amano i fratelli, perché chi dice di amare Dio che non vede, il cui volto è sconosciuto, e poi non ama il volto dei fratelli, degli uomini che vede, allora è un bugiardo».
Patire assieme all´altro, agire nella durata lunga, andare verso il derelitto e dietro a lui: questa è la sequela della compassione. Chi si commuove è turbato, senza andare oltre. Vuole aiutare, ma da lontano: offre magari monete con un sms. Sia Bianchi che Cacciari scrivono: nell´amore del prossimo conta non tanto l´altro, ma il nostro accostarci a lui. Sequela è quella di Gesù dietro al Battista, e quella dei discepoli dietro a Gesù. Anche il Samaritano va dietro l´uomo incappato nei briganti. Il sacerdote e il levita vedono e vanno oltre: il loro oltre magari è il Tempio. Il Samaritano non va oltre perché non c´è un oltre, al di là del sofferente. L´Oltre è quel mezzo morto.
L´amore del prossimo è presente in tutti e tre i monoteismi. Ma solo nel cristianesimo avviene lo scandalo supremo: il cuore si fende e s´apre anche a chi non condivide nulla con me, non mi è simile, mi è addirittura nemico. La domanda essenziale, secondo Bianchi, non è «Chi è il mio prossimo?» ma: «A chi mi faccio prossimo, vicino?». L´avvicinarsi-accudire è senza reciprocità, senza patti. Karl Popper diceva: la conversazione veramente feconda non presuppone una «comune cornice», perché il nuovo nasce solo dal conflitto di esperienze, idee. Bianchi scrive che il nemico - nostro medico, nostro maestro - «ci rivela la qualità profonda del nostro cuore» abitato da egoismi.
Cacciari scrive pagine illuminanti sull´apertura al nemico: non solo paradossale ma tragica, perché il nemico non diverrà amico, e l´amore di sé è d´inciampo. La sequela del Samaritano è impensabile, se non impariamo a fare esodo: quell´»esodo da sé che è perfetta condivisione della sofferenza di colui al quale si rivolge». L´amore del prossimo non finisce, coi primi aiuti. L´emozione ha bisogno di delimitarlo, perché il mondo non esca dai cardini. «Ho già dato», è la frase tremenda che diciamo quando i sofferenti aumentano. Rimettere il mondo nei cardini è impossibile, forse. Ma dove sta scritto che l´aspirazione più profonda dell´uomo sia il possibile, e non la perfezione?

Repubblica 8.12.11
L’anno nero dei piccoli editori dominano bestseller e ricette
di Alessandra Rota


Si acquista meno letteratura, soffrono gli indipendenti. Ma aumentano i libri per ragazzi
Presentati alla Fiera di Roma i dati Aie sull´andamento del mercato del libro nel 2011
"C´è un problema di rese: i testi dei gruppi meno forti restano poco nelle librerie"
"Dobbiamo fare un cartello tra noi più deboli e organizzarci sul territorio"

La letteratura, senza i bestseller, perde fascino ed è una delle cause della crisi del mercato editoriale. Crisi che colpisce soprattutto i piccoli e medi editori, che dopo anni di crescita, sfiorano il meno 5 per cento (meno 4 per cento, se Fazi e Newton Compton vengono considerati grandi). Si vende bene solo se ci sono i best seller e quest´anno non hanno brillato per presenza in classifica, tranne alcune eccezioni come Un regalo da Tiffany della Newton Compton; la narrativa, se nella stagione mancano i titoli superstar, non funziona e perde quasi il 3 per cento. Dominano invece le signore delle cucine televisive, Clerici e Parodi, che hanno ridato fiato ad un genere: la non fiction pratica (manualistica, bricolage). E poi c´è il fenomeno ragazzini: più 6 per cento, un piccolo "miracolo" in mezzo a tanto grigiore.
Il quadro che è emerso ieri dai dati NielsenBookScan presentati alla Fiera nazionale della piccola e media editoria "Più libri, più liberi", ospitata dal palazzo dei Congressi di Roma (fino a domenica), non è rassicurante: flessione delle vendite, rese inarrestabili, scarsa liquidità per cui i librai selezionano i testi da tenere, scarificando quelli dei piccoli editori meno vantaggiosi economicamente, librerie che chiudono, altre che scelgono il franchising e dunque smettono di essere "indipendenti". Perfino la Grande Distribuzione perde rispetto al 2010 (era al 17,2 per cento, è al 16, 6). Non brilla per aumenti nemmeno Internet, solo lo 0,1 per cento in più per gli acquisti on line (nel dato però ci sono anche le librerie).
Ma a penare più di ogni altro settore è la fiction. «Per tradizione noi la consideriamo la fanteria dell´editoria» dice Enrico Iacometti, presidente del Gruppo dei Piccoli Editori dell´Associazione Italiana Editori, «ma certo il calo del romanzo, che per noi piccoli tocca il meno 9,2 per cento. E´ diventato un problema». Le ragioni sono tante; per esempio i titoli stranieri costano cari, tra passaggi dei diritti, compensi e quant´altro si acquistano a peso d´oro e quindi i titoli sono diminuiti. Poi c´è la televisione: le "storie" anche a puntate del piccolo schermo hanno sostituito le avventure cartacee. «Senza contare la "distrazione" che offre il web», continua Diego Guida, editore e in passato libraio, «l´attenzione si è spostata dagli intrecci dei personaggi di fantasia, alle "trame" personali che si leggono e raccontano su facebook, twitter, le chat, le community». Insomma un disastro anche perché il 2011 non è stato l´anno dei mega best seller.
Tutti rimpiangono i bei tempi andati, quelli della J. K. Rowling e del suo infinito Harry Potter, o degli intrighi in Vaticano di Dan Brown, la trilogia Millennium di Stieg Larsson. L´unico che ancora "regge" è il terzo Diario di una schiappa edito da il Castoro. Perfino i vampiri affascinanti di Stephenie Meyer, Twilight (Fazi) che hanno avuto un grandissimo appeal e un conseguente effetto traino per i volumi di nicchia, non sono più sotto i riflettori. Come i licantropi, gli zombies e perfino gli angeli. Tiene il fantasy con Paolini. «Il bestseller è uno strano oggetto», sottolinea Marco Polillo, presidente dell´Aie, «una volta la forbice tra un libro, diciamo normale e uno di grande successo, era che il primo vendeva 2 mila copie e il secondo 150 mila. Adesso siamo arrivati al punto che "the best" supera il milione di copie e l´altro stenta a superare il migliaio». Questo vuol dire che senza bestseller si fa molta fatica. E lo sanno anche gli editori di audiolibri come Emons che ammettono di stentare molto a trovare qualcosa di "presentabile" nel panorama odierno e infatti continuano a proporre i classici.
Il nuovo filone da vetrina, l´affare, però si chiama "non fiction pratica": manuali, guide... solo di cucina e, soprattutto, solo se le testimonial sono volti noti del piccolo schermo. Da Antonella Clerici a Benedetta Parodi, in termini di copie si ragiona su molti, moltissimi zeri; la gastronomia casalinga sarà un must natalizio che, comunque, garantirà posizioni in crescita ai grandi editori (loro hanno già recuperato lo 0,8 per cento del mercato complessivo). L´affezione del pubblico per un personaggio, la visibilità, il battage pubblicitario, sono fattori imprenscindibili per l´ascesa di un libro: «Un noto politico citò in televisione La vera storia del pirata Long John Silver di Björn Larsson e abbiamo avuto 20 ristampe», confermano da Iperborea. E come dimenticare il racconto di Paul Harding, Tinkers (in Italia è diventato L´ultimo inverno, Neri Pozza) che il presidente degli Stati Uniti si portò in vacanza, insieme a Freedom di Jonathan Franzen? Rifiutato da tutti e accettato da un minuscola casa editrice specializzata in testi medici, ha sbancato i botteghini e ha perfino vinto il Pulitzer.
C´è da dire che insieme ai ricettari gli italiani comprano testi per bambini e ragazzi: un comparto questo che non smette di aumentare e anche per la piccola e media editoria, con il suo 5,7 per cento (oltre un milione di euro in più), rappresenta un´oasi felice. Il percorso trionfale della Schiappa de il Castoro ne è la dimostrazione, anche se la fascia d´età che "legge" e soprattutto accetta le proposte di genitori e parenti, non supera i 16 anni. Poi l´interesse sparisce quasi del tutto nel periodo della scuola superiore, salvo riprendersi un po´ dopo l´eventuale laurea. E la legge Levi, quella sulla calmierazione degli sconti, quanto ha inciso sulle percentuali in flessione? «Nel mese di agosto, considerando che le nuove regole sono entrate in vigore a settembre, tutti si sono buttati sui "saldi". Risultato? Abbiamo perso l´8 per cento», commenta Iacometti.
Tra tanto pessimismo, c´è uno spiraglio, anzi una proposta: realizzare un "cartello" tra piccola editoria e librai: «E´ l´unico modo per difendersi dai colossi che non solo controllano la produzione ma anche i canali di vendita», confermano da Fandango. Si comincia dopo Natale, sperando che l´ago della bilancia si sia rialzato, con la mobilitazione delle rappresentanze regionali dei piccoli editori: «Le vogliamo rilanciare», conclude Enrico Iacometti «e costituire una "rete", insieme ai librai. Solo con una organizzazione condivisa e capillare eviteremo il baratro».

Repubblica 8.12.11
Le Tre Grazie tornano a casa
Dal Louvre alla Galleria Borghese le sculture volute da Napoleone
di Claudio Strinati


Rientrano a Roma, per un allestimento eccezionale, 60 marmi che il principe Camillo cedette al cognato Bonaparte nel 1807 Una compravendita definita allora una "vergogna" da Canova
La gigantesca collezione fu accumulata nel Seicento dal cardinale Scipione
L´imperatore francese recupera il senso ideologico dell´antico e se ne impossessa

Nel piccolo spazio e nella lunga storia della Galleria Borghese a Roma è possibile rintracciare momenti che hanno lasciato segni indelebili e momenti che quasi non sono più rintracciabili dalla coscienza attuale. La mostra I Borghese e l´Antico ci restituisce proprio l´aspetto più dimenticato di quella storia gloriosa per comprendere quanto si è perso nel corso del tempo. L´esposizione (organizzata dalla Soprintendenza per il Polo Museale Romano con la Direzione della Galleria Borghese in una collaborazione eccezionale con il Louvre sostenuta da Arcus, Enel, BNP Paribas, Ferrero e Air France sponsor tecnico), ha riportato "a casa" oltre 60 meraviglie che Napoleone aveva comprato per il Louvre: tra queste capolavori come l´Ermafrodito, Le Tre Grazie, il Centauro cavalcato da Amore.
Nella palazzina Borghese c´era infatti una gigantesca raccolta di statue, bassorilievi e ritratti antichi accumulata nel Seicento dalla passione collezionistica del fondatore, il cardinale Scipione Borghese. Nel catalogo (Skira) invero magistrale, la direttrice della Galleria Borghese Anna Coliva ne ripercorre la personalità di uomo totalmente dedito alle Belle Arti, amico degli artisti suoi contemporanei e ricercatore infaticabile della scultura antica. Poi le generazioni successive arricchirono quel patrimonio fino a che, a fine Settecento, il principe Marcantonio Borghese, degno continuatore delle eccezionali attitudini culturali del cardinale, fece ristrutturare la palazzina riorganizzando la collezione di antichità secondo criteri "moderni" che sembravano destinati a durare nei secoli. E invece, dopo pochi anni, il principe Camillo Borghese marito di Paolina Bonaparte, la splendida Paolina immortalata dal Canova nella scultura che oggi tutti ammirano nel museo, si fa convincere a vendere una cospicua parte della collezione antica a Napoleone che voleva glorificare il suo impero trasportando a Parigi le bellezze del passato.
Viene affidato il compito della scelta e valutazione all´imperatore degli archeologi e antiquari, Ennio Quirino Visconti, che – dopo essersi consultato con il direttore del Museo del Louvre Vivant Denon, un altro super esperto – sceglierà 695 opere antiche su una raccolta di 2200 stabilendo il prezzo in 3.907.300 franchi. Vi sono incluse statue memorabili e sublimi, importanti bassorilievi, ritratti insigni. Ma il prezzo è destinato a levitare parecchio e alla fine quando Napoleone firma il decreto di acquisto viene indicata la cifra stratosferica di 13 milioni di franchi. Ma anche se la somma pagata è enorme (alla fine furono versati 8 milioni), per Roma è uno choc privarsi di tanta bellezza. Antonio Canova, che sulle sculture della Villa ha condotto il suo appassionato studio dell´antico, nel 1810 davanti a Napoleone definisce la vendita "una incancellabile vergogna" per la famiglia che possedeva "la villa più bella del mondo".
Il paradosso è che quando le casse contenenti le opere arrivano al Louvre, tra il 1808 e il 1811 l´imperatore comincia a preoccuparsi: dove mettiamo tutte queste statue, si chiede e ben a ragione dato che il museo era strapieno di cose antiche e non solo, prelevate già in abbondanza in precedenti campagne di spoliazione sistematica del territorio conquistato. E comincia l´amaro destino di questi capolavori, di cui il catalogo ci informa ampiamente con dati sovente inediti e curiosi. In un primo momento le opere principali vengono collocate in poche ma belle sale e l´occasione, nel 1811, del battesimo del Re di Roma, l´infelice erede dell´imperatore, dà modo di organizzare una grande e solenne inaugurazione di quei beni preziosi in cui pare identificarsi il destino dell´epoca nuova. Ma poi le opere Borghese sembrano seguire proprio la vicenda del figlio del Bonaparte, deportato in Austria, mortificato e annichilito quasi da una separazione che non sarà mai più ricomposta. Le povere statue vengono continuamente spostate, messe in deposito, mandate a arredare altre sedi. Sempre veneratissime e sempre maltrattate. Guai però a chiederle in prestito per poterle degnamente esporre di nuovo a Roma. Sembrava impossibile ma oggi un autorevole comitato che annovera due funzionari del Louvre, Jean-Luc Martinez e Marie-Lou Fabrega Dubert con Anna Coliva e Marina Minozzi per la Borghese, ha compiuto il miracolo. Tornano a Roma e ritrovano posto nella Galleria ben 60 opere. E si rivedono pezzi mitici come l´Ermafrodito (180.000 franchi per il Visconti) il Sileno e Bacco bambino (200.000) il meraviglioso Vaso Borghese (200.000) del primo secolo a.C. che da solo giustificherebbe una mostra, il Centauro cavalcato da Amore che, a onta della fama strameritata dell´Ermafrodito, è forse il capolavoro dei capolavori.
Si ricrea una situazione che riporta al gusto e alla mentalità sei e settecentesca. Ma quale era? La Coliva spiega come il gusto di Scipione Borghese per l´Antico fosse stato ben diverso da quello, certo analogo, di chi lo aveva preceduto, specie quello riferibile alla casata Farnese. Quando i Farnese nel Cinquecento avevano raccolto una collezione immane di opere antiche vi avevano impresso una sorta di sigillo ideologico potente, quale legittimazione di una continuità storica e politica calata nel loro dominio. Ma con Scipione l´arte antica è apoteosi del puro gusto della bellezza e del conseguente diletto che ne promana , un "edonismo reaganiano" ante litteram contrapposto a una specie di "pragmatismo kennediano" dei Farnese. Nel Settecento questo nobile abbellimento dell´esistenza tocca un suo culmine di alta consapevolezza ma poi Napoleone recupera il senso ideologico del patrimonio antico impossessandosi proprio di parte della raccolta borghesiana. La ruota della storia gira implacabile e oggi ci fa intravedere, sia pur affievolito, quel grandioso momento di conflittuale pacificazione.

l’Unità 8.12.11
Questo Don Giovanni ha letto Camus
Spettacolo bellissimo
Trionfano il regista Robert Carsen e il maestro Barenboim Un gruppo di cantanti quasi tutti eccellenti anche come attori. Raffinato il continuo gioco di teatro nel teatro...
di Paolo Petazzi


Sulle prime note dell’ouverture Don Giovanni balza dalla platea al proscenio e strappa il sipario, alla fine riappare e con un gesto fa precipitare all’inferno i personaggi che hanno cantato la improbabile «morale» della vicenda: non soltanto in questi colpi di scena egli appare quasi il regista delle vite di coloro che ruotano intorno a lui come satelliti attingendo alla sua dirompente energia vitale. Senza di lui non possono vivere, o non sono gli stessi, come dimostra il non lieto fine: anche questo fa capire nel suo bellissimo spettacolo il regista Robert Carsen, che vede Don Giovanni come un personaggio inafferrabile e indefinibile, un libertario che vive solo nel presente e si spinge oltre ogni limite mosso da una amara consapevolezza, da una visione esistenzialistica della assurdità della vita: un Don Giovanni che ha letto Camus. La coerenza e l’efficacia teatrale dello spettacolo di Carsen e dei suoi consueti eccellenti collaboratori (scene di Michael Levine, costumi di Brigitte Reiffenstuel) hanno un carattere per qualche aspetto intellettuale e riflessivo, e ciò rende particolarmente congeniale e interessante l’incontro con l’interpretazione di Daniel Barenboim, che ha nel Don Giovanni sempre prediletto tempi piuttosto lenti, usandoli con molta raffinatezza. Barenboim e Carsen hanno inoltre collaborato con un gruppo di cantanti quasi tutti eccellenti anche come attori.
Nel continuo gioco del teatro nel teatro ideato da Carsen, più esplicito che mai nel II atto (quando Don Giovanni assiste da spettatore alle vicende di Leporello travestito con i suoi abiti), le scene sono tutte riferite alla Scala, con una riproduzione del sipario o con elementi mobili che lo riprendono solo parzialmente, o con vertiginose prospettive illusionistiche, oppure con gli effetti creati da un gigantesco specchio. Per esempio davanti al sipario riprodotto sta il letto su cui Don Giovanni e Donn’Anna si stringono in amplesso all’inizio e su cui muore il Commendatore (ucciso involontariamente). Nella scena del cimitero i palchi scaligeri riflessi dallo specchio fungono da loculi, da tombe: così il palco centrale (che ieri sera ha ospitato le più alte autorità) diventa, nello specchio, la tomba del Commendatore che vi appare quando accetta il fatale invito a cena di Don Giovanni. I costumi sono atemporali: per esempio si comincia in abiti moderni, ma nel Finale del I atto tutti sono mascherati e vestono abiti di velluto rosso (come le poltrone della Scala) di foggia settecentesca. Il protagonista si diverte a cambiare continuamente d’abito. Gli invitati alle nozze di Masetto e Zerlina vestono da cafoni anni 50; ma sono muniti di telefonino (allusione ad un certo pubblico scaligero).
Barenboim dirige un’orchestra di dimensioni cameristiche (come era quella di Mozart) e stacca tempi che gli consentono di indugiare con grande finezza su infiniti dettagli della mirabile partitura, con esiti di intensità meditativa che sembrano creare una armonia prestabilita con alcuni aspetti dello spettacolo. Peter Mattei è un protagonista magnifico per l’autorevolezza vocale e per l’identificazione con il personaggio creato da Carsen. Anna Netrebko è una Donn’Anna di tormentatissima intensità e rara bellezza vocale, Barbara Frittoli una Donna Elvira teneramente disperata, Bryn Terfel un Leporello di straordinaria vitalità teatrale (che fa dimenticare i limiti vocali), Anna Prohaska una valida Zerlina (che Carsen mostra sicura e aggressiva), Giuseppe Filianoti un nobile Ottavio.
Impeccabile Kwanchul Young (Commendatore), mentre S. Kocan era un modesto Masetto.

La Stampa 8.12.11
Mozart, la seduzione è un gioco di specchi
L’allestimento di Carsen riflette la sala e vi porta l’azione. Lenta, raccolta, emozionante la direzione di Barenboim
di Giorgio Pestelli


Peter Mattei perfetto Don Giovanni come «fisico del ruolo» per eleganza e agilità Bryn Terfel non avrà più la voce di una volta, ma è un Leporello irresistibile per simpatia splendida la Donna Anna di Anna Netrebko, orgogliosa e piena di ansia misteriosa Teatro nel teatro: la regia di Robert Carsen gioca con gli specchi e proietta sullo sfondo i palchi della Scala
UnDon Giovanni di prepotente evidenza scenica ha aperto la nuova stagione scaligera, accolto da un vivissimo successo. La bacchetta di Daniel Barenboim aveva appena calato il primo fortissimo che dalla platea salta su Peter Mattei e ruba letteralmente la scena, lacerando un fondale dietro cui appare la Scala riflessa a se stessa da uno specchio: è qui infatti che il regista Robert Carsen e il suo scenografo Michel Levine collocano l'azione dell'opera, quasi citando i Contes d'Hoffmann di Offenbach: teatro nel teatro, con sale di prova, costumi e attrezzi in vista, e naturalmene Don Giovanni supremo primo attore e capocomico. L'idea non sarà nuova, d'accordo, però la bravura del regista nel manovrare personaggi e muovere la scena ottiene allo spettacolo un ritmo serrato e incalzante; e più ancora si appunta su un protagonista affascinante, il Mattei appunto, perfetto come «fisico del ruolo» per eleganza e agilità, capace di modulare la sua voce in tutte le sfumature dalla seduzione alla sfrontatezza, onnipresente inventore di intrighi che sa godersi anche come spettatore. La dinamica dell'azione esce dal palco e invade la sala, con personaggi che spuntano fra il pubblico e si dileguano o riemergono dai palchi di proscenio; e il Commendatore che redarguisce Don Giovanni dal palco reale, dove sedeva il presidente Napolitano con le autorità.
A questa esuberanza visiva è curioso come si sposi la direzione musicale di Barenboim che è tutta compostezza e raccoglimento; lo sfrecciare della regìa è come messo in rilievo dalla calma, dai tempi lenti scanditi dal direttore. L'orchestra è ridotta alle proporzioni della più schietta sonorità mozartiana: suono splendido, tessuto sempre trasparente e squisitezze di fraseggio, con i legni della Scala, oboe, clarinetto, flauto e fagotto che fanno meraviglie; quanto ai respiri, agli accenti parlanti degli archi nei grandi recitativi accompagnati, Barenboim li fraseggia con la più emozionante intensità. Dell'opera c'è tutto, anche i pezzi scritti in un secondo tempo per la versione viennese, con arie, in sè bellissime, che ritardano l'azione: ma mentre il direttore le fa risplendere nella loro bellezza, il regista evita il rallentamento isolandole dal contesto: Donna Elvira canta Mi tradì quel'alma ingrata su una vertigine di prospettive astratte, mentre Non mi dir bell'idol mio di Donn'Anna si ascolta a sipario chiuso, come in un concerto. Di tutte le facce della complessa figura di Don Giovanni, Carsen privilegia ad evidenza l'erotismo: un erotismo trionfante e appagato, fin dall'inizio con l'abbraccio consenziante di Donn'Anna nel suo letto, e poi via via con le altre donne che mostrano una propensione naturale a spogliarsi non appena vedono Don Giovanni (ad onta dei bei costumi di Brigitte Reiffenstuel, sono quasi sempre in sottoveste e una servetta muta introdotta da Carsen non ha nemmeno quella). Eppure, il fondo amaro, l'irrequietezza permanente di questo erotismo a ruota libera si percepisce lo stesso, resta attaccato all'audace libertino come ai suoi ammiratori.
La compagnia vocale si amalgama bene alla figura dominante del protagonista e alla coerenza dello spettacolo. Bryn Terfel non avrà più la voce di una volta, ma è un Leporello irresistibile per vivacità e simpatia, al quale inoltre il «parlando» conviene certe volte piùdel canto vero e proprio; splendida la Donna Anna di Anna Netrebko, orgogliosa nell' intrepidezza di Or sai chi l'onore e piena di ansia misteriosa nel racconto della seduzione («Era già alquanto avanzata la notte») ; sempre ammirevole Barbara Frittoli che regge la parte durissima di Donna Elvira; qualche stanchezza nella voce scompare davanti a una interpretazione che non flette di un attimo l'appassionata tensione. Il Don Ottavio di Giuseppe Filianoti canta con senso dello stile mozartiano, anche se non sempre irreprensibile nell'intonazione delle note acute; un po' piccola la voce di Anna Prohaska ma di garbo graziosissimo e con qualche difficoltà di pronuncia il vigoroso Masetto di Stefan Kocan: ma bisogna anche dire che Carsen qualche volta li fa cantare troppo in fondo al palco; convenientemente autorevole il Commendatore di Kwangchul Youn. La trovata finale, con Don Giovanni che riappare fumando una sigaretta, mentre i suoi compagni di avventura precipitano all'inferno, sanziona il mito indistruttibile del personaggio, per altro già chiaro, ma complica un poco la linea della regìa.

Repubblica 8.12.11
Se alla Scala debutta la sobrietà bipartisan
In assenza di autorità leghista la platea è svettata in piedi sulle note dell´Inno di Mameli
Il protagonista dell´opera di Mozart sembra l´American Gigolò di Richard Gere
di Natalia Aspesi


Mai si era visto alla Scala un trionfo istituzionale così bipartisan, un evento davvero inusitato, un rassicurante messaggio politico di coraggio e concordia, in tempi cupamente difficili come questi. ‘Viva il Presidente!´ è stato il grido salito dalla platea in piedi e tutta osannante verso il palco presidenziale.
Dove i presidenti erano addirittura quattro, ma era chiaro che la passione dei melomani e dei mondani, dei più diversi orientamenti politici, era soprattutto riservata a quello della Repubblica, Giorgio Napolitano accompagnato dalla signora Clio, in pizzo da gran sera. Più abile nello sfuggire veloce, pur sorridendo magnanimo, alla pressione della folla profumata e di qualsiasi telecamera gli si ponesse davanti, il presidente del Consiglio Mario Monti, con signora Elsa, in broccato haute couture: mentre quello della Regione Lombardia, un Formigoni impeccabile simile a un esemplare Don Giovanni dedito soprattutto a sedurre la politica, non risparmiava commenti benedicenti. Tutti assiepati nel palco centrale, oltre ad alcuni ministri nuovi di zecca, c´era pure un quarto presidente, quello della provincia di Milano, Guido Podestà con signora in arancione. Seminascosto da questa rara abbondanza di presidenti, svettava il sindaco Giuliano Pisapia con sua moglie Cinzia, in Armani nero par condicio, avendo lo stilista vestito gli anni scorsi l´allora sindaca Moratti. Presente, in platea, a rappresentare contemporaneamente l´ex primo ministro Berlusconi e il Milan, c´era anche, carina e contenta, Barbara con il bel Pato. Incorniciata da rose e tuberose, la piccola folla nel palco istituzionale, mancando un´autorità leghista, è scattata in piedi tutta insieme appassionatamente, quando Daniel Barenboim si è gettato sull´Inno di Mameli con foga sublime, prima di attaccare il sublime Mozart. Intrappolato da giorni dal molesto ordine, "Sobrietà", il pubblico quasi tutto pagante (quest´anno causa nera crisi, inviti col contagocce, quindi molti brontolii della moltitudine questa volta esclusa dal biglietto gratuito) dopo numerose consultazioni anche tra signore delle istituzioni, aveva poi deciso eroicamente che era più patriottico, più consono ai sacrifici (forse) di tutti, e alla mannaia sui pensionati non necessariamente scaligeri, sfoggiare il massimo lusso al solo scopo di dar subito una spinta all´eventuale futura ripresa economica, e anche per far capire agli ospiti stranieri, di che forza d´animo sono capaci gli italiani (doviziosi) anche in situazioni di estremo disastro economico: quindi gioielli, pellicce, abiti lunghi con strascico, broccati, leopardamenti, piume, persino fiori nei capelli, e una moltitudine di poppe giganti esposte in stile Valeria Marini (come sempre presente). In un clima così festoso, tutto baci e complimenti, una pausa su un altro pianeta, il Don Giovanni non poteva che entusiasmare molti e imbufalire i soliti. Anche se pochi minuti prima della fine dell´opera, quando si sono accesi fragorosi applausi per tutti, c´era stato un attimo di educato sconcerto per una imprevista bizzarria: infatti, essendosi il regista canadese Robert Carsen innamorato del mitico sciupatore di donne, ecco che il dissoluto in giacca da risposo di velluto rosso, anziché perire tra le fiamme dell´inferno, osservava ironico le sue donne e i meschini uomini loro rimasti, e faceva un lento segno di pollice verso. Così mentre il vendicativo gruppetto cantava festoso, "Questo è il fin di chi fa mal!", erano proprio loro ad essere puniti, sprofondando sottoterra, mentre l´infaticabile seduttore che pare Rocco Siffredi (ed è l´agile, elegante, biondo baritono svedese Peter Mattei), gettato sui loro corpi il mozzicone di sigaretta, se ne andava, solo e misterioso, certamente a fare altri guai. A dare l´esempio di necessario ottimismo, anche gli uomini delle istituzioni erano in smoking, più abituati Napolitano e Monti, mentre Pisapia aveva passato qualche notte insonne causa vecchi patemi d´animo di sinistra, rimuginando se era il caso, anche solo per onorare la sua prima apparizione alla Scala come sindaco e come presidente della fondazione del teatro, di indossare un simbolo della borghesia immemore, per tradizione immaginata come quella grassa e crudele disegnata da Grosz. Poi lo ha illuminato la lettura di un vecchio articolo di Paolo Grassi, che elogiando lo smoking, riteneva sbagliato che per essere socialisti si dovesse sembrare dei pezzenti. «In più lo indossava l´altra sera da Fiorello anche Begnini…». Per quanto avvertiti, c´era stato tra gli occupanti del palco presidenziale un attimo di smarrimento quando tra di loro si era improvvisamente materializzato un´austero sudcoreano in frac e barba grigia, con lo sparato tutto sporco di sangue: risultato poi essere il famoso Commendatore assassinato (il sudcoreano Kwangchui Youn) che in piedi, affacciato al parapetto, attraversava con la sua sepolcrale voce da basso tutto il teatro per riflettersi sul fondale a specchio del palcoscenico, minacciando l´indomabile Don Giovanni: "Di rider finirai pria dell´aurora!". Invece no, nè pria né dopo, perché il Don Giovanni scaligero di Carsen non è, come l´hanno interpretato nei secoli scrittori, musicisti, filosofi e una folla eccessiva di psicanalisti, un dissoluto, un infame, uno sporcaccione, uno stupratore, un traditore, un assassino, forse anche un gay, ma "un libero pensatore, un esistenzialista, un anarchico, un eroe": così affascinante che le giovani e belle signore mozartiane, che lo amano e lo odiano, sono, se mai lui volesse, già pronte alla bisogna, in sottoveste di pizzo nero (l´appiccicosa Donna Elvira, che è il soprano italiano Barbara Frittoli) o in camicia da notte di raso bianco (l´ipocrita Donna Anna, la russo-austriaca Anna Netrebko, soprano) o in abito da sposa (l´arrampicatrice Zerlina, Anna Prohaska, pure lei soprano). Trattandosi alla fine di vere scocciatrici, che senza Don Giovanni pensano al convento, rimandano un noioso matrimonio, si accontentano di quel che c´è, è chiaro che il regista ha voluto dare una interpretazione massimamente maschilista del mito dongiovannesco, attualizzandolo con la vanità e l´esibizionismo, visto il modo in cui lui mostra compiaciuto il suo pallido torace sotto vestaglie di seta o si porta appresso un intero guardaroba come fosse l´American Gigolò di Richard Gere.