domenica 11 dicembre 2011

il Riformista 9.12.11Pompei di sabbia nel Nord Africa da Mille e una notte
Viaggio. Città di fango in Mali, "in sale" in Egitto, la moschea di Haji Piyada in Afghanistan. Forme "perdute" dell'abitare, rintracciate dall'arch. Tonietti, domenica a "Più libri più liberi".
di Andrea Consoli

L'arte di abitare la terra (L'Asino d'oro edizioni, 250 pagine, 27,00 euro) di Ugo Tonietti, architetto e professore di Scienza delle costruzioni presso l'Università di Firenze, è un prezioso Baedeker per avvicinarsi allo studio delle architetture antiche (spesso preistoriche), non poche volte indecifrabili agli stessi occhi degli studiosi. La storia dell'abitare - dell'abitare, cioè, il mondo - è affrontato da Tonietti osservando e indagando le costruzioni fantastiche e prodigiose che sono sopravvissute alle corrosioni del tempo, e che spesso sono nate nel cuore di civiltà povere, nomadi, pastorali, abituate a ogni tipo di ostilità della natura, ma nelle quali era ancora forte il legame - che valeva per tutti - tra il pensare e l'agire architettonico.
Il viaggio inizia alla medina di Chefchouen, nel Rif, zona montuosa del nord del Marocco, dove antichi e sapienti "maalem" (maestri muratori) hanno costruito un affascinante groviglio abitativo di "dar" (cellule abitative) e di "derb" (isolati), e che oggi è gravato da innesti "moderni" che ne minacciano la sopravvivenza. Il viaggio prosegue a Djenné, nel Mali, presso le misteriose architetture primitive saadiane in terra cruda, e giunge a Shali, presso il lago salato dell'Oasi di Siwa, nell'Egitto occidentale (al confine con la Libia), dove Tonietti spiega e racconta le difficili architetture di sale, realizzate mediante la complessa lavorazione dei "karshif", ovvero zolle di sale. Sempre in terra africana, Tonietti non poteva non visitare Lalibela, in Etiopia, famosa in ogni dove (e patrimonio mondiale dell'Unesco) per le misteriose basiliche ciclopiche ipogee costruite scavando nella roccia e che, come tutte le architetture antiche - spesso in terra cruda o in terra pressata e mischiata con la paglia - sono in grave pericolo conservativo.
L'arte di abitare la terra, poi, lascia l'Africa per due tappe "orientali": la prima è ad Aleppo, nella Siria del Nord, dove strane costruzioni in terra continuano ad intrigare per le strane cupole della abitazioni (il viaggio poi prosegue a Palmira, la Regina del deserto, la cui decadenza si lega alla ribellione della regina Zenobia nei confronti dei Romani); la seconda è nel lontano Afghanistan, precisamente nella città di Balkh (luogo natio del filosofo Avicenna, e centro del culto mistico zoroastriano), dove Tonietti ci fa conoscere la moschea di Haji Piyada, anch'essa in terra, e che gli storici e gli archeologi hanno difficoltà a datare. L'arte di abitare la terra, non è soltanto un libro di architettura - o, più precisamente, di tecnica antica delle architetture - ma un vero e proprio taccuino antropologico, un libro di viaggi, finanche un libro poetico, perché forte è la suggestione nello sguardo dello studioso di miti e leggende antiche (per intenderci, tra la Bibbia e le Mille e una notte).
Attraversando deserti e tornanti di montagna - avvincenti quelli di un Afghanistan ancora infestato di mine e ricoperto di carcasse di carri armati russi -, facendosi accompagnare da autisti irresponsabili (come in Mali) e osservando le donne con il burqa (sempre in Afghanistan), Tonietti - che pubblicò in parte questi viaggi sulla rivista Left - s'immerge pienamente nel mondo preistorico di alcune delle più antiche civiltà (notevoli le analisi "matissiane" delle incisioni rupestri), e indaga il rapporto dell'uomo antico con la terra, con l'abitare, con la tecnica costruttiva, la cui analisi mai si disgiunge da una lettura socio-antropologica che prevede finanche il mistero, il fascino evocativo, e al cui centro, molto spesso, c'è la presenza femminile, ora generatrice e gioiosa, ora ridotta a schiavitù da oscure leggi castranti (come a Shali, o a Balkh).
L'arte di abitare la terra verrà presentato domenica a Roma alla fiera della piccola editoria "Più libri più liberi" (Palazzo dei Congressi all'Eur, Sala Diamante, ore 16) e, insieme con l'autore, ne parleranno Simona Maggiorelli e Lavinia Ripepi.



il Fatto 11.12.11
I nuovi dittatori dell’Occidente
di Robert Fisk


Dal momento che vivo nella regione del mondo – il Medio Oriente – che produce più luoghi comuni per metro quadrato di qualunque altra parte del globo, forse dovrei pensarci un attimo prima di dire che non avevo mai sentito così tante sciocchezze e idiozie come sulla crisi finanziaria mondiale. Il modo in cui viene raccontato il collasso del capitalismo è la prova della nostra supina obbedienza alle istituzioni e agli “esperti” di Harvard che hanno contribuito a questo disastro criminale. Facciamola finita con la “primavera araba” – grottesco artificio linguistico che non rende giustizia al risveglio degli arabi in Medio Oriente – e con le ridicole analogie con le proteste sociali nelle capitali occidentali. CI HANNO PRESO in giro raccontandoci che i poveri e gli emarginati dell’Occidente fanno parte della stessa famiglia dei giovani della “primavera araba” e che gli indignati americani, canadesi, britannici, spagnoli e greci si sarebbero “ispirati” alle dimostrazioni di massa che hanno rovesciato i regimi in Egitto, Tunisia e Libia. Sono solo sciocchezze. L’analogia, inutile dirlo, è stata partorita dai giornalisti occidentali ansiosi di nascondere la vera natura delle proteste contro i governi “democratici” occidentali e di insinuare che si trattava di un semplice tentativo di imitare l’ultima moda del mondo arabo. La realtà è un po’ diversa. Milioni di arabi sono scesi in piazza nelle capitali mediorientali spinti dal desiderio di dignità e dal rifiuto di dittature di tipo familiare. I Mubarak, i Ben Ali, i Gheddafi, i re e gli emiri del Golfo (e della Giordania), gli Assad vivevano nella convinzione di “possedere” i loro Paesi. I martiri arabi sono morti per dimostrare che il loro Paese apparteneva al popolo. Quanto all’Occidente i movimenti di protesta hanno come bersaglio il Big Business e i governi. Le dimostrazioni sono servite a mettere a nudo una realtà: per decenni gli occidentali hanno vissuto in democrazie truffaldine e hanno votato partiti politici che hanno trasferito il potere del popolo alle banche, ai mercanti di derivati e alle agenzie di rating appoggiati dalla disonesta camarilla di “esperti” delle grandi università americane che continuano a perpetuare la favoletta che questa crisi è figlia inevitabile della globalizzazione e non una tragica truffa finanziaria ai danni degli elettori. BANCHE E AGENZIE di rating sono diventati i dittatori dell’Occidente non diversamente dai Mubarak e dai Ben Ali. Le elezioni si sono trasformate in una tragica farsa. Non ci vuole un genio per capire che agenzie di rating e banche americane sono intercambiabili tanto che i dirigenti fanno la spola da un’agenzia all’altra, da una banca all’altra e spesso finiscono nei ranghi del governo degli Stati Uniti. Quegli stessi truffatori che davano la tripla A ai prestiti sub-prime e ai derivati americani prima del 2008, ora stanno ripetendo lo sporco giochetto in Europa minacciando il declassamento dei governi e delle banche. Perché i giornalisti finanziari che stazionano in permanenza a Wall Street non ci illuminano? Come mai la Bbc, la Cnn e al-Jazeera trattano queste combriccole di criminali come rispettabili istituzioni? Come mai non si aprono indagini sui loro scandalosi comportamenti? Il tutto mi ricorda il modo altrettanto ambiguo in cui molta stampa tratta il Medio Oriente evitando critiche dirette a Israele e spacciando per buona la favoletta dei bravi ragazzi “moderati” e dei cattivi “terroristi”. E infatti appena i dimostranti di Occupy Wall Street cominciano a dare fastidio vengono bollati come “anarchici” e “socialmente pericolosi”. Copyright The Independent - Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 11.12.11
E se fosse un governo di destra?
di Furio Colombo


Cerchiamo di essere onesti con noi stessi. Quando abbiamo invocato il miracolo di far sparire Berlusconi, mentre eravamo umiliati, offesi, presi in giro nel mondo, non abbiamo mai detto, nella nostra invocazione, “fa che sia di sinistra chi viene dopo”. Abbiamo detto (tutti, e già l'invocazione ci sembrava enorme): “Fa che vada via Berlusconi, adesso e subito”. Gruppi diversi di noi, umiliati e offesi, si sono rivolti chi a Dio, chi alla folla di concittadini umiliati e offesi come noi, chi (pochi) alla politica. Ma dobbiamo ammettere che non abbiamo messo condizioni. Intimamente e pubblicamente (quelli di noi che avevano già perso il diritto di parlare dal dentro delle istituzioni e delle comunicazioni) ripetevano a bassa e ad alta voce “purché se ne vada”. E ne abbiamo fatto un slogan fisso persino quando ci dicevano (ogni dieci, quindici giorni) di abbassare i toni. Ora, può darsi benissimo che il nuovo oggetto comparso all'improvviso in scena, in luogo dello stralunato Bagaglino a cui siamo stati condannati per quasi due decenni sia di destra, nel senso della normale destra europea. E allora? Lo esaminiamo, lo critichiamo, lo circondiamo di obiezioni e di tutti gli strumenti della democrazia, Parlamento, sindacati, giornali, opinione pubblica. Ma tutti liberi. LA CARATTERISTICA del nuovo, rivoluzionario teatro democratico di cui siamo parte è che non ci sarà più l'incredibile scena del padrone di televisioni con scrivania propria e fogli preparati in cui deve solo ricopiare la traccia dei principali lavori pubblici che donerà al Paese. Erano i tempi del Ponte di Messina, ricordate? Era il tempo in cui si poteva mettere in scena il “contratto con gli italiani”, elogiato da tutti, nel silenzio profondo di alcuni direttori di massimi giornali italiani presenti in studio come comparse. A quel tempo il ministro di polizia sindaca-le, certo Sacconi, era riuscito a dividere i sindacati, facendone entrare due dalla porta di dietro e svergognandone uno, la famigerata Cgil, meglio nota alle questure giornalistiche come Fiom, indicata come naturale avversario da tutte le persone dabbene e – se impiegate nei media – preoccupate di proteggersi la carriera. Tutti e tre i sindacati, adesso, non sono affatto disposti a dire che va bene così e che non hanno obiezioni solo perché il governo non è più Berlusconi e non dobbiamo più sentirci spiegare la vita (con qualche schizzo di saliva sul microfono), dall'acceso statista Gasparri in tutti i telegiornali di ciascun giorno e di ciascuna sera o programma notturno. Non va affatto bene, nell'opinione di operai al lavoro, operai a zero ore e operai “messi in libertà”, e di tutti i pensionati da mille euro. E lo diranno insieme nelle piazze italiane, senza particolare delicatezza. Ma lo diranno sapendo bene, e ricordando bene, che il lungo oblio di Berlusconi, la sua costante assenza dal governare perché impegnato in vicende non sempre raccontabili fuori dai tribunali, la sua leggendaria incompetenza (imprenditore, sì, ma con certi aiutini che funzionano solo in situazioni appartate), le sue euforiche clamorose bugie, ovvero tutto il suo fanatico e celebratissimo niente, hanno reso gravissimo e quasi irreparabile ciò che si poteva (doveva) affrontare in tempo. Resta l'altra questione. Se sia scandalo un governo di destra. La risposta è ovvia. Qualcuno vede uno scandalo in Inghilterra, dove un governo conservatore, di gente che veste bene ma non porta né visione né intuizione per il futuro, non piace agli studenti, non piace a chi lavora, non piace a competenti e studiosi, ma resta legittimo e accettato governo fino alle prossime elezioni? Resta ancora un’altra domanda. È sempre e solo di destra un governo di cui non condividiamo molte idee e molte proposte? Non potrebbe essere un governo che usa subito, e nel pochissimo tempo che rimane, la sua natura tecnica per fare cose urgenti che dovevano essere fatte prima e in modo diverso, ma adesso sono brutali e impopolari perché gravate da un immenso, colpevole, rischiosissimo ritardo? QUALCUNO ricorda che il ministro delle Attività produttive Romani, passa un giorno e passa l'altro, non si è mai presentato alle Camere con uno straccio di leggina, o anche solo un appunto da condividere con i colleghi, sulla “crescita” e “lo sviluppo”, mentre gli altri leader europei aspettavano, stupiti e offesi, di là dal confine della strana, incosciente, area Italiana che continuava a restare spensierata e assente? Credo di poter dire questo. Per attaccare brutalmente e anche con insulti pesanti, che un tempo facevano parte (vedi Il Cimitero di Praga di Eco) delle classiche teorie del complotto, “il governo dei banchieri e degli speculatori”, bisogna essere stati abbandonati dalla memoria. Bisogna non sapere che prima viene Berlusconi, ovvero una accurata e minuziosa distruzione legale, istituzionale, morale del Paese, in un paesaggio già molto lontano dalla legalità. E poi c'è, per forza e con estrema urgenza, un tentativo di salvataggio che si può discutere in tutto, ma non pensando di vivere ancora nel clima di interessata malafede e di privato tornaconto in cui ci ha tenuti immersi, nel suo ventennio, l'uomo di Arcore. Non dimentichiamo che lui aveva solo due grandi riferimenti etici, Gheddafi e Putin. Qui c'è l'Europa e c'è Obama. Questa persuasione non toglie nulla alla volontà di migliorare e di cambiare, con il solo limite dell'urgenza. Ma libera dall'incubo dei passaggi oscuri e delle trame misteriose che qualcuno, a destra, ha già chiamato “giudaico massoniche”. E qualcuno, a sinistra, attribuisce a “proprietari dell'industria bellica”. Meglio proporre con urgenza ragionevoli correzioni perché ci resti un po’ di tempo per domandarci: ma come tornerà la politica in questo paesaggio “dopo Fukushima” in cui sono impantanati i partiti che dovrebbero dare vita alla ricostruzione?

La Stampa 11.12.11
Camusso: se resta così com’è per noi è insostenibile
“I carichi vanno allineati, gli autonomi pagano poco. E i giovani sono dimenticati”
“Si colpiscono solo i redditi conosciuti: un’operazione bieca”
“Le pensioni. Il contributo chiesto a quelle basse rispetto alle alte fa inorridire”
di Paolo Baroni


La leader Susanna Camusso, segretario della Cgil, stasera guida i sindacati all’incontro col premier Ma è molto scettica sulla possibilità di fare un passo indietro dallo sciopero già proclamato «Per Monti Ici e pensioni sono interventi strutturali, mentre sono proprio le due materie dove occorre spostare l’equilibrio dei costi»

Susanna Camusso, il governo ha risposto al vostro appello e stasera vi incontra. Pensa si possano aprire degli spazi di trattativa?
«Vediamo. Finora, a parte la premessa condivisibile dei saldi invariati, se l’idea è quella che la struttura della manovra debba rimanere uguale, ci troveremmo di fronte ad un vincolo che renderebbe molto difficile individuare soluzioni».
Per Monti strutturalità e ripartizione dei carichi sono altrettanto fondamentali...
«Nell’idea del presidente del Consiglio è chiaro che l’intervento sulle pensioni e sull’Ici sulla prima casa hanno valore interamente strutturale. Mentre per noi sono proprio le due materie dove occorre spostare l’equilibrio dei costi. Così come è costruita la manovra è insostenibile».
Però blocco della perequazione, aumento delle accise, dell’Iva fanno entrare subito i soldi. La lotta all’evasione no.
«E così però pagano sempre i soliti. Non si fa alcuno sforzo per individuare altre fonti: si colpiscono solo i redditi stabili e conosciuti. Diciamola tutta: da questo punto di vista è anche un’operazione un po’ bieca».
Alternative?
«Bisogna proporre cose diverse, anche dentro altri stessi sistemi. Esempio: si interviene molto drasticamente sulle pensioni delle donne e sulle anzianità ed in parallelo i contributi degli autonomi vengono aumentati appena dello 0,30 per un totale di due punti in sei anni. E’ un vero schiaffo. Se si ragiona sulla tenuta e l’equilibrio del sistema come prima cosa ci si deve preoccupare di allineare le aliquote. Si punta al contributivo per tutti? Massima attenzione ai contributi, no? ».
Il Parlamento ci sta lavorando.
«Lo scoglio della previdenza pone diversi problemi. Il primo riguarda il mercato del lavoro: attenzione ad innalzare i requisiti del sistema in un momento in cui lo strumento pensionistico permette di governare le crisi, nelle banche come in altri settori, senza creare nuova disoccupazione. Bisogna pensarci un attimo, perché viviamo in una fase in cui i problemi occupazionali sono destinati a crescere, non a diminuire, e vedo molto complicato immaginarsi la gestione dei mesi a venire».
Secondo problema?
«Mi chiedo come si può immaginare un mercato del lavoro che si rimette in moto se si allungano gli anni di lavoro per tutti. Che tipo di prospettiva si dà ai giovani? ».
Di pensioni d’oro, invece, non si parla. E su questo la gente è particolarmente arrabbiata...
«Ci sono due cose che fanno arrabbiare. Primo: il contributo che si chiede alle pensioni basse rispetto a quelle alte fa inorridire. Poi c’è il cumulo degli incarichi. Ben venga che Monti annunci che non percepirà la sua indennità o che il viceministro dell’Economia si sia ridotto la sua del 70%, ma le direzioni delle amministrazioni pubbliche sono piene di persone che cumulano incarichi e stipendi da centinaia di migliaia di euro, cosa inaccettabile in una stagione in cui si bloccano gli stipendi dei dipendenti pubblici, a cominciare dalle infermiere a 1200 euro il mese».
Questo Pd un po’ di lotta e di governo non vi aiuta. Per non dire delle polemiche che genera.
«Sono tre anni che subiamo il dibattito su “si nota di più se ci vado o non ci vado? ”. Per un verso è fastidioso, perché presuppone che non venga riconosciuta l’autonomia delle parti sociali ribaltando il tema. Dall’altro bisogna evitare che la scelta politica di appoggiare un governo “per salvare l’Italia”, fatta da un’importante forza come il Pd, si traduca nel non avere più nessuna politica».
Strana questa politica nell’era dei tecnici, vero?
«Si, è come se fosse sospesa. Cosa che un Paese non si può mai permettere. Poi, per l’economia generale si possono fare anche scelte dolorose, ma non può decidere di non avere un’opinione e non farla valere. E non si può pensare che in nome dell’emergenza sparisca la rappresentanza sociale».
Intanto lo sciopero dei poligrafici bloccherà l’uscita di martedì dei quotidiani. Scelta saggia?
«Ogni volta è una scelta difficile quella dello sciopero dei giornali. Ma da tempo rileviamo sempre più un’insofferenza da parte di tanti settori nel sentirsi diversi dagli altri: c’è la voglia di scioperare insieme, anche come reazione ad una lunga stagione di separazione».
Dopo lo sciopero generale di domani siete pronti al bis?
«Il 19 sciopererà il pubblico impiego. E poi reciprocamente ci siamo dati come impegno quello che in assenza di risposte si continua. Uniti. Anche per dare un segnale il più possibile inequivoco rispetto alla trattativa sul mercato del lavoro».

l’Unità 11.12.11
L’Ici e la Chiesa
Cardinale Bagnasco, non c’è proprio niente da trattare
di Maurizio Turco


È opportuno premettere che la denuncia che ho presentato con il fiscalista e segretario dell’Associazione radicale anticlericale.net Carlo Pontesilli e l’Avvocato Alessandro Nucara alla Commissione europea è datata 2006.
Una denuncia che concerne non solo l’esenzione dell’Ici per gli immobili destinati ad attività non esclusivamente commerciali ma anche la riduzione al 50% dell’IRES, cioè l’imposta sui redditi delle società e la norma che stabilisce che una volta acquisito il diritto quale ente ecclesiastico questo diritto non può più essere messo in discussione.
Ho lasciato per ultimo la questione principale.
Noi abbiamo denunciato alla Commissione europea leggi e norme della Repubblica Italiana che riteniamo contrarie alle direttive comunitarie.
Se lo siano o meno non tocca a noi dirlo, dovrebbe però indurre a prudenza chi ritiene che la nostra sia una agitazione politica il fatto che la Commissione europea non abbia mai voluto chiudere l’inchiesta, costringendoci a ricorrere al Tribunale europeo di primo grado che ha imposto alla Commissione di fare un esame approfondito e decidere.
Oggi la Commissione europea può dare seguito a quanto non possono non sostenere gli uffici della Commissione stessa e denunciare l’Italia per violazione delle direttive sulla concorrenza e chiederle di recuperare i soldi non versati nel corso degli anni.
Oppure può prendere una decisione politica e quindi chiudere la procedura dichiarando la compatibilità della legislazione italiana con le norme comunitarie.
In questo caso abbiamo il diritto di ricorrere alla Corte europea di Giustizia e lo faremo.
Vorrei che fosse chiara una questione molto semplice: siamo di fronte a norme della Repubblica Italiana che concedono esenzioni e riduzioni fiscali che sono a nostro avviso in violazione delle direttive comunitarie e quindi riteniamo che quelle esenzioni e riduzioni siano dei privilegi, privilegi di cui godono anche enti ecclesiastici.
Ci siamo limitati a denunciare tutto ciò e trovo che le reazioni di coloro che godono di queste esenzioni siano spropositate.
Noi attendiamo il responso della Commissione europea ed eventualmente della Corte europea di Giustizia e invitiamo il Governo a prevenire queste decisioni. Il Presidente del Consiglio e il Ministro Moavero, ex giudice della Corte europea nonché altissimo dirigente della Commissione europea, sanno fin troppo bene di cosa stiamo parlando.
Di fronte a tutto questo il Cardinale Bagnasco è disposto a trattare! Ma non c’è nulla che possa essere oggetto di una trattativa ... la Chiesa e lo Stato sono nei propri ordinamenti sovrani, recita il Concordato del 1984.
Avevamo messo in guardia la Chiesa dal resistere a una questione giuridica con la retorica della tassazione delle chiese, oratori, canoniche, cappelle, campetti e chi ne ha più ne metta.
Purtroppo non ci hanno ascoltati e il loro vittimismo rischia di far insorgere rigurgiti antireligiosi contro i quali continueremo a batterci a difesa della libertà religiosa e della religiosità.

l’Unità 11.12.11
La legge c’è già
È esente solo chi fa il bene comune
di Umberto Folena


La Chiesa paga l’Ici sugli immobili dei suoi enti commerciali, ossia sugli immobili che danno reddito? Certo che la paga. E fin dall’inizio, ossia dal 1992. Per questo è buffo che alcuni chiedano con forza che la Chiesa finalmente paghi e venga privata di un privilegio che non ha e nessuna legge le concede. Chi invece non paga, e del tutto legittimamente? La legge 504 del 30 dicembre 1992 prevede che siano esenti tutti gli enti «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive», oltre alle attività di religione e di culto.
L’esenzione riguarda la Chiesa cattolica nelle sue molte ramificazioni? Certamente. Ma gli immobili riconducibili alla Chiesa, interessati all’esenzione, sono appena il 4 per cento del totale. Godono del “privilegio” altre confessioni religiose, organizzazioni di volontariato, fondazioni, onlus, ong, pro loco, patronati, enti pubblici territoriali, aziende sanitarie, istituti previdenziali, associazioni sportive dilettantistiche, centri culturali e ricreativi e tanti altri.
Questi sono i fatti. Alcuni esempi concreti. Una chiesa (dal Duomo di Milano al minuscolo santuario rupestre)? Non paga, è luogo di culto. L’appartamento dato in affitto, di proprietà della parrocchia? Paga, l’affitto di immobili non rientra tra le attività esenti. La scuola materna parrocchiale? Non paga, fa attività didattica. L’albergo gestito dai religiosi, anche con cappella annessa? Paga, gli alberghi non sono esenti.
E se qualcuno che dovrebbe pagare invece non paga? Qualche caso è inevitabile, ma da almeno quattro anni, da quando cioè la polemica è scoppiata, ripetiamo alla noia quello che venerdì il cardinale Bagnasco ha ribadito: «Se vi sono casi concreti in cui un tributo dovuto non è stato pagato, è giusto che l’abuso sia accertato e abbia fine». I Comuni hanno già tutti gli strumenti per verificare e far pagare; anzi, probabilmente questa potrebbe essere la strada giusta, affidarsi ai singoli Comuni, e alla loro conoscenza del territorio, volta per volta, per dirimere i casi dubbi.
La legge dunque c’è già e parla chiaro. La polemica sembra imbastita sul vuoto. Lo stesso Bagnasco, dando la sua «disponibilità» ad approfondire la questione, sembra dire: il non profit è una ricchezza del Paese, fatemi capire che cosa si chiede, e parliamone con franchezza. Ferme restando le ragioni che giustificano le esenzioni: a non essere tassate sono attività volte al bene comune, a vantaggio dell’intera società. È una fetta enorme di welfare, che solo un masochista colpirebbe.
E allora, tanto rumore per nulla? Sandro Magister, nel suo blog sul sito dell’Espresso-Repubblica, non è tenero nei confronti di certi giornali e giornalisti: «Saranno anche grandi testate e grandi firme, ma se in una materia così elementare non si mostrano capaci di una minima verifica dei fatti, non fanno onore alla loro professione». Per tutto il resto, valga questa considerazione di Gilbert K. Chesterton: «Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell'umanità, finiscono per combattere anche la libertà e l'umanità pur di combattere la Chiesa».

Corriere della Sera 11.12.11
Contribuente, Stato e religioni adesso sull'Ici serve un nuovo patto
di Marco Ventura


Quanto rumore su Chiesa e Ici. E che confusione. Quanta rozzezza nell'attacco al «Vaticano» perché troppo ricco. Che superficialità nel chiedere alla Chiesa cattolica di pagare per i debiti degli italiani. Non c'è da essere invidiosi delle entrate della Chiesa. Sono soldi quasi sempre spesi bene da gente sobria; di cui beneficiano molti, spesso tutti. È invece sensato che un'Italia desiderosa di serietà e trasparenza chiami la Chiesa a dissociarsi da opacità normative e furbizie fiscali; tutti devono fare la loro parte in uno sforzo nazionale di verità e rigore. Chiedono questo alla Chiesa, gli italiani, proprio perché ne riconoscono la credibilità e l'autorità.
Due sono le strade da percorrere. La prima è già stata imboccata dal cardinale Bagnasco. Clausole come quella che esentava dall'Ici gli immobili cattolici «non esclusivamente commerciali» simboleggiano l'Italia dei furbi. La Conferenza episcopale e la Santa Sede, ognuna nella propria competenza, possono utilizzare i meccanismi bilaterali predisposti dall'Accordo di Villa Madama per aiutare il governo a riscrivere norme chiare e pulite. La seconda strada, più ardua, è quella del recupero dello spirito che presiedette alla riforma del 1984. L'otto per mille, le offerte deducibili, la parificazione tra finanziamento pubblico della Chiesa cattolica e delle altre confessioni, tradussero la volontà di spostare dal governo ai cittadini la decisione sui soldi alle chiese.
I pasticci e i sotterfugi dell'otto per mille, il fallimento delle offerte deducibili e il muro eretto per impedire alle nuove religioni di concorrere al finanziamento pubblico ad armi pari con la Chiesa di Roma hanno ridotto lo spazio di decisione degli italiani. Di qui le esenzioni Ici: ovvero il ritorno a un finanziamento dall'alto, deciso dal governo e non dai cittadini; denaro pubblico alla religione a uso del gioco di lusinghe e ricatti tra vescovi e politici. Governo e Chiesa devono dunque pensare a norme fiscali meno ambigue. Ma soprattutto, è necessario un nuovo patto democratico tra contribuente, Stato e religioni.

Repubblica 11.12.11
Per istituti di credito, alberghi, porti incremento del 20%. Fermo al 2006 quello di convitti, collegi e seminari
Rivalutazione degli estimi a sorpresa per banche e Chiesa c´è lo "sconto"
L’inasprimento per le abitazioni è del 60%, molto più basso quello di altri immobili
di Lucio Cillis


ROMA - C´è chi paga la rivalutazione degli estimi catastali a prezzo pieno e chi, invece, riceve uno sconto.
Nelle pieghe del decreto Salva Italia, si nasconde una diseguaglianza che diversi parlamentari hanno già messo nel mirino: se per le abitazioni, e quindi per la categoria catastale "A", il ritocco della rivalutazione delle rendite è stato del 60 per cento, istituti di credito e assicurazioni (oltre ad un plotone di altre tipologie di immobili), beneficeranno di una rivalutazione delle rendite limitata al 20 per cento, una scelta che potrebbe favorire i soliti noti e gli amici degli amici.
Secondo il testo varato nei giorni scorsi, infatti, se per le abitazioni il nuovo valore è passato d´emblée da 100 a 160 (categoria A, ad esclusione della A10), per i negozi (categoria catastale C1) da 34 a 55 e per gli uffici (A10) da 50 a 80, lo stesso incremento non è stato applicato agli immobili posseduti da istituti di credito e assicurazioni. Insomma, tira aria di sconto per banche e dintorni. E non solo.
A guardare le strutture ospitate nella categoria catastale "D", infatti, il moltiplicatore per calcolare la rendita degli istituti di credito e delle assicurazioni passa da 50 a 60, e lo stesso avviene nel caso di alberghi e pensioni, teatri, cinema, sale per concerti, case di cura e ospedali, fabbricati e locali per esercizi sportivi con fini di lucro, scuole private, posti barca nei porti, residence. L´incremento, in tutti questi casi, resta dunque limitato al 20 per cento.
Ma c´è un´altra partita tutta da giocare nelle prossime ore. È quella relativa al congelamento a quota 140, dei moltiplicatori di cappelle e oratori "non destinati all´esercizio del culto", come recita la normativa, ovvero compresi nella categoria "B". Un calderone questo popolato di immobili di vario genere, molti dei quali sono anche di proprietà dello Stato o degli Enti locali. Nella lunga lista sono presenti collegi, case di cura, convitti, conventi, seminari, opifici, biblioteche, caserme, prigioni e riformatori, uffici pubblici, scuole, pinacoteche, musei, gallerie e accademie.
E ad un primo calcolo, limitato alle tipologie di immobili di proprietà della Chiesa, alcune stime parlano di un mancato introito compreso tra i 100 e i 400 milioni di euro. Una somma di tutto rispetto che potrebbe far comodo al momento di allentare la stretta sulle pensioni.
Va però detto che l´ultimo ritocco a questa categoria è avvenuto di recente e non è stato dei più morbidi: più di cinque annui fa, era il 2006, il moltiplicatore passò repentinamente da 100 a 140, con un incremento del 40%.

Repubblica 11.12.11
Norma Rangeri, direttore del Manifesto
"Due giorni per evitare la fine di molti giornali"


ROMA - Norma Rangeri, direttore del Manifesto, avete rivolto un appello al premier per evitare la chiusura di decine di testate.
«Sì, vogliamo scongiurare l´azzeramento del fondo per l´editoria. Sappiamo che se ne sta occupando il ministro Passera. È giusto fare pulizia e togliere i soldi ai giornali finti, ma non si fa cancellando tutti con un tratto di penna»
Il tempo stringe...
«Entro 48 ore va trovata la soluzione. Anche per evitare il paradosso di uno Stato che, per risparmiare pochi milioni, ne dovrà pagare di più per gli ammortizzatori sociali».

l’Unità 11.12.11
Fine degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari
risponde Luigi Cancrini


Cesare Bondioli, responsabile di carceri e OPG per Psichiatria Democratica e Alessandro Margara, garante dei detenuti per Regione Toscana discuteranno con Paolo Tranchina giovedì 15 a Firenze il gravissimo problema degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Verrà proiettato il filmato integrale girato negli O.P.G. italiani dalla Commissione Marino.
di Paolo Tranchina
RISPOSTA Il lavoro paziente e appassionato della Commssione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino ha creato le condizioni, oggi, per il superamento definitivo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Quello di cui tutti insieme dobbiamo renderci conto, però, è che risposte adeguate debbono comunque essere date alle 1000 persone circa che in essi ancora risiedono: sul territorio, laddove il ritorno sia possibile e utile, nelle Comunità Terapeutiche disponibili ad ospitarli e nei reparti, adeguatamente ristrutturati e ben provvisti di operatori all’altezza, delle carceri “normali”. Con due problemi ulteriori da risolvere. Le modifiche da apportare al codice di procedura penale sulle misure di sicurezza per il reo ritenuto incapace di intendere e di volere e/o socialmente pericoloso e i finanziamenti che servono alle Regioni e alle ASL per assicurare ad utenti così a lungo oggetto di una indicibile trascuratezza (o di un vero e proprio sadismo istituzionale) le cure, socio e psicoterapeutiche, di cui hanno un così disperato bisogno e un così sacrosanto diritto.

La Stampa 11.12.11
“Rischio rivolte” Il Pentagono valuta l’ipotesi eurocrac
L’America ha 80 mila militari e 20 mila civili nel Vecchio Continente
Gli Usa studiano i pericoli dello scenario peggiore
di Maurizio Molinari


Disordini di piazza, rischi diretti per truppe e civili americani ma anche cancellazione di importanti commesse militari: sono questi i timori che il Pentagono nutre guardando ad un’Europa afflitta dalla crisi del debito fino al punto da poter precipitare in una «situazione di frattura». Ad alzare il velo sulle analisi redatte dai pianificatori della Difesa è il generale Martin Dempsey che da settembre ricopre l’incarico di capo degli Stati Maggiori Congiunti - il più alto delle forze armate degli Stati Uniti - e in tale veste è il più importante consigliere militare del presidente Barack Obama. Invitato a parlare a Washington davanti alla platea del centro studi dell’«Atlantic Council», viene incalzato dalle domande dell’editorialista del «Washington Post» David Ignatius. Dempsey svela così di essersi incontrato la scorsa settimana con Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, per «discutere di questioni economiche sulle quali ammetto di non essere molto preparato». L’incontro «durato due ore» si è reso necessario per approfondire una situazione di potenziale emergenza strategica che Dempsey riassume con questa espressione: «L’Eurozona è in una situazione di grande rischio». Il motivo è la sovrapposizione fra crisi del debito sovrano, violente proteste di piazza come quelle avvenute ad Atene o Roma, e problemi di bilancio in nazioni alleate con le quali che gli Stati Uniti condividono il mantenimento della struttura militare della Nato. L’accordo raggiunto al Consiglio europeo di Bruxelles rassicura Dempsey fino a un certo punto: «So che hanno adottato delle misure e i 17 partner dell’Eurozona tenteranno di allineare meglio le politiche monetarie e fiscali ma non è chiaro, almeno non lo è a me, se questo accordo si rivelerà sufficiente per tenerli assieme» evitando il collasso della moneta unica. Ciò significa che la valutazione del patto di Bruxelles è positiva ma resta in bilico perché lo spettro di una spaccatura dell’Eurozona non è del tutto allontanato. E’ in tale cornice che Dempsey parla degli aspetti prettamente militari conseguenti all’eurocrisi: «Parte della mia preoccupazione è che il personale militare americano in Europa possa trovarsi esposto a rischi potenziali dovuti a disordini civili ed alla rottura dell’Unione». In ogni situazione di crisi il Pentagono redige piani tesi a fronteggiare possibili rischi e nel caso dell’Eurozona, secondo gli esperti militari, questi concernono tre aspetti in paticolare: rivolte di piazza, fallimento delle banche dove i militari hanno i depositi e sospensione delle forniture di servizi alle basi, dall’elettricità fino all’acqua. Sebbene si tratti solo di scenari potenziali, il Pentagono non può ignorarli schierando in Europa un totale di 80 mila truppe e circa 20 mila dipendenti civili, spesso accompagnati da famigliari. Ma non è tutto perché l’ultimo elemento di preoccupazione citato da Dempsey è in realtà il più concreto: la sorte del programma F-35 ovvero il Joint Strike Fighter progettato per diventare l’aereo del XXI secolo per l’Alleanza atlantica. Si tratta del programma più costoso intrapreso dal Pentagono, la cui realizzazione è in corso in più località di Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia nell’impianto piemontese di Cameri. Dempsey teme che se le difficoltà economiche dell’Eurozona aumenteranno «gli alleati potrebbero essere spinti a ricollocare altrove le risorse destinate al F-35». Come dire, l’Italia potrebbe dover rinunciare agli investimenti per la costruzione così come altre nazioni europee potrebbero trovarsi a rivedere l’impegno preso ad acquistare esemplari dell’avveniristico velivolo «se inflazione, svalutazione o altre previsioni negative relative ad un possibile collasso dovessero avverarsi» conclude Dempsey, trasmettendo una sensazione di incertezza.

l’Unità 11.12.11
La protesta Da Vladivostok a Kaliningrad, cortei in tutto il Paese per chiedere nuove elezioni
Il potere spiazzato: le forze di sicurezza non intervengono. Slogan ironici: «Urrà alla polizia!»
Il risveglio della Russia
Centomila a Mosca «Putin, devi andartene»
Cose mai viste, nell’era di Putin. A Mosca erano almeno centomila (il doppio, secondo gli organizzatori) a gridare slogan contro il premier. Ben oltre ogni aspettativa. «Chiamatela rivoluzione della neve».
di Roberto Brunelli


Una cosa così non l’aveva mai vista nessuno, negli anni di Putin. «L’avresti detto, tu, Nikolaj, l’avresti detto?», gridava una ragazza felice ieri a piazza Balotnaja, a due passi dal Cremlino. Una massa umana abnorme per dire di no a Putin, per ribellarsi all’esito di un voto che un russo su due considera truccate. Sfidando neve e temperature al di sotto dello zero, a decine di migliaia sono scesi per le strade di tutta la Russia per chiedere l'annullamento delle legislative del 4 dicembre e nuove elezioni libere. Dall'estremo porto orientale di Vladivostok all’occidentale Kaliningrad, la Russia sembra essersi svegliati dal lungo torpore putiniano. A Mosca il colpo d’occhio era impressionante: 200 mila persone secondo gli organizzatori, 100 mila per la polizia, con le bandiere arancioni, rosse e blu e i nastri bianchi al polso. Numeri enormi, per una realtà come quella russa, parole fino a poco tempo fa inaudite nel Paese della «democrazia guidata», del consenso plebiscitario. Un solo coro, ieri: «Russia senza Putin! Ladri! Corrotti! Putin vattene a casa!».
Tutti spiazzati, nelle stanze del potere, dalla «rivoluzione bianca» della neve, dei garofani e dei nastri bianchi simbolo del movimento di protesta.
Spiazzate le forze di sicurezza, spiazzato il governo che pur avendo dispiegato un ingente numero di forze di sicurezza, tra esercito e polizia ha scelto di non usare la mano pesante, come invece era successo negli ultimi giorni di proteste. Nessun incidente, nessun arresto, niente. Il potere è rimasto come paralizzato. «L’espressione di questo punto di vista è estremamente importante e sarà ascoltato dai media, dalla società e dallo Stato», è riuscito a balbettare Andrei Isayev, alto funzionario del partito Russia Unita.
Eppure le avevano provate tutte, per scoraggiare le proteste con la paura: a cominciare dai cingolati che giravano da giorni per le strade della capitale, agli elicotteri, dal reggimento delle teste di cuoio cecene, per finire con la contropropaganda di regime. Tra sarcasmo e provocazione, i manifestanti ringraziano la polizia, più abituata ad disperdere raduni e arrestare chi protesta che a sorridere un po’ imbambolati come succede qui. Bravi, vi siete comportati come poliziotti di uno Stato democratico», grida qualcuno. «La polizia è con il popolo», «Urrà alla polizia», «la polizia è con noi»: questi gli slogan. Una ragazza regala dei garofani bianchi ad un agente. Lui rimane di sasso.
Le bandiere ci sono tutte: dal Partito comunista Kprf al movimento Solidarnost’ di Boris Nemtzov. Tra i partecipanti, a sorpresa, anche il movimento Jabloko, e il suo leader Grigory Javlinsky, filo-occidentale ma finora tenutosi lontano dalle proteste. Ma i veri protagonisti sono loro, quelli del cosiddetto «popolo di internet»: soprattutto giovani con nastri e fiori bianchi, diventati il simbolo di una specie di rivoluzione «morbida» che potrebbe anche finire per cambiare il volto del gigante russo. Studenti, ma anche pensionati, ecologisti, persino signore in pelliccia, e pure forse non poi così sorprendentemente alcune star vicine al potere, come la «Paris Hilton russa» Ksenia Sobchak.
COSE MAI VISTE
Ilya Ponomariov, deputato di Russia Giusta ed esponente dell'opposizione, sorride dietro il palco. Mostra anche lei il nastrino bianco ma spiega: «Non paragonatela alla “rivoluzione arancione” dell’Ucraina: noi abbiamo come colore il bianco che unisce tutti i colori, compreso il rosso dei comunisti o il blu che è il colore di Russia Unita, perchè anche loro dovrebbero indignarsi per delle elezioni che devono essere oneste e libere, e invece non lo sono. Chiamatela Rivoluzione della neve».
L’entusiasmo è palpabile. L’opposizione è davvero convinta di riuscire a far annullare il voto di domenica scorsa. Ponomariov & co ripetono che scenderanno nuovamente in piazza il 24 dicembre, se non saranno accolte le richieste avanzate ieri, tra cui l'annullamento delle elezioni legislative, nuove elezioni e la liberazione di tutti i «prigionieri politici».
Un altro miracolo: Russia-24, di proprietà dello Stato, che finora aveva opposto un silenzio tombale alle manifestazioni, ha seguito la manifestazione in diretta. Anche Ntv ha dato notizia dei cortei. Cose mai viste, nel regno di Putin.

La Stampa 11.12.11
Russia, esplode la protesta
“Putin, restituiscici il voto” Migliaia in piazza a Mosca
Top manager e pensionati insieme nel primo grande corteo contro il leader
di Mark Franchetti


Almeno 40 mila manifestanti sono scesi nelle strade di Mosca ieri nella più grande manifestazione di protesta contro il Cremlino tenutasi nella capitale russa negli ultimi due decenni. Il corteo dell’opposizione ha protestato contro i presunti brogli commessi da Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, nel voto di domenica scorsa per la Duma. Scandendo «Russia senza Putin», «Putin ladro» e slogan che chiedevano nuove elezioni, i manifestanti si sono dati appuntamento in una piccola isola vicino al Cremlino, sotto gli occhi di decine di poliziotti anti-sommossa e soldati del ministero dell’Interno. Si è trattato del più massiccio raduno anti-Putin da quando Putin è salito al potere in Russia, dodici anni fa, e ha concluso una settimana di scontri, in cui la polizia con uso della violenza ha arrestato più di mille oppositori spinti in piazza dall’evidenza dei brogli.
L’evento, senza precedenti, si è svolto in un clima da amici. La gente chiedeva la testa del premier, ma indossava anche graziosi nastrini bianchi, il simbolo del movimento di protesta. La folla era un mix sorprendente ed eclettico. Nazionalisti, liberali, comunisti, celebrità, mogli di celebrità, star del cinema, barbuti intellettuali impoveriti stavano accanto a - poche - signore impellicciate con manicure curata. Pensionati che hanno vissuto la maggior parte della loro vita sotto il regime sovietico e studenti nati dopo che l’Urss era già sparita, e che domenica scorsa avevano votato per la prima volta.
Nadia Kolstova, intelligente e ben pagata dirigente di una tv, abita in un appartamento vicino al Cremlino che costa diversi milioni di euro, possiede una casa in campagna in un compound circondato da guardie private e tratta con oligarchi, politici e celebrità. Ma ieri questa 36enne madre di due figli ha rischiato di venire picchiata con i manganelli e catturata dalla polizia pur di scendere in piazza. «È la prima volta che prendo una posizione, ma il Cremlino deve sapere che quando è troppo è troppo», dice. «Sento che è mio dovere far sentire la mia voce. Il Cremlino tratta il suo popolo come una manciata di imbecilli che non contano nulla. La gente al potere non ha pudore. È offensivo. Putin ha bisogno di venire ammonito».
Cappotto marrone lungo e cappellino per proteggersi dalla neve, Egor Kryavitsky ha 75, è un elettricista in pensione. Anche lui era a protestare, anche se non crede che servirà a mandare via Putin: «Non voglio una rivoluzione, voglionuove elezioni». Non lontano, nel mare di gente, qualcuno ha notato perfino Xenia Sobchak, la più famosa bellezza russa, figlia glamour di Anatoly Sobchak, che da sindaco di Pietroburgo negli Anni 90 fu boss e mentore di Putin. Xenia ha posato per riviste maschili e fatto arrabbiare i conservatori russi con un popolare reality show. Ma, segno dei tempi, anche lei è diventata politicamente impegnata e ha preso una posizione civica.
La maggioranza dei manifestanti sono russi del ceto medio, istruiti, liberali e utenti Internet. Come in altri sistemi autoritari che cercano di restare in sella nell’era della rete, i primi segni del dissenso trovano spazio solo grazie ai social network che per ora il Cremlino non ha osato bloccare. La più grande manifestazione dal 1993, quando Boris Eltsin bombardava il Parlamento, è stata organizzata in meno di tre giorni solo grazie a Facebook e al suo omologo russo VKontakte. «Temevo che ci sarebbe stata violenza, dopo aver visto come la polizia era intervenuta contro l’opposizione nei giorni scorsi, ma sono venuto lo stesso perché dobbiamo mostrare al Cremlino che non possono continuare a ignorare l’opinione pubblica», dice Igor Vinner, 24 anni, studente di economia che domenica ha votato per la prima volta. «Non mi aspettavo che le elezioni fossero oneste, ma la spudoratezza con la quale hanno spinto Russia Unita è stata troppo. Se non ci difendiamo penseranno di poter fare qualunque cosa. Non voglio permettere loro di rubare il mio voto», dice Masha Soldatova, 35enne madre di due figli che lavora in un’agenzia pubblicitaria. «Putin deve capire che i tempi sovietici sono finiti. Non possono prenderci per idioti. Stavolta se ne accorgeranno, ci scommetto».
La maggior parte dei manifestanti sono furiosi per le elezioni truccate, ma anche per la corruzione e l’abuso di potere da parte dei funzionari. Con una rara concessione, le autorità venerdì hanno concesso il permesso a manifestare dopo che circa 40 mila persone avevano annunciato la loro presenza in piazza sui social network. La manifestazione è stata organizzata da diversi gruppi d’opposizione, convinti che a Mosca le frodi abbiano aggiunto a Russia Unita il 20% dei voti. Fino a ieri, le manifestazioni dell’opposizione non riuscivano a raccogliere più di poche centinaia di persone. «È venuto il tempo di rompere le catene», ha scritto in un messaggio dalla prigione uno dei leader dell’opposizione, il blogger anticorruzione Alexey Navalny, arrestato durante le proteste di lunedì. L’irriducibile attivista sta scontando 15 giorni diprigione. «Non siamo bestie né schiavi. Abbiamo una voce e la forza di difenderla», ha scritto nel messaggio, letto dal palco.
La manifestazione è stata sorvolata da elicotteri. Nell’ultima settimana la città è stata pattugliata da circa 50 mila poliziotti e 2 mila soldati del ministero dell’Interno. Ma ieri a Mosca non c’è stato nessun fermo, mentre nelle altre città in tutto la protesta ha coinvolto diverse centinaia di persone in almeno 40 luoghi - ci sono stati arresti. Anche se ieri tutti i tre canali tv nazionali hanno per la prima volta mostrato le manifestazioni, presentandole come prima notizia dei tg, per ora non c’è nessun segno che Putin stia pensando di fare una qualunque concessione ai manifestanti, che accusa di essere al soldo dell’Occidente. Parlare di «primavera slava» sembra una fantasia. Putin vincerà senza dubbio le elezioni di marzo e diventerà Presidente. Ma per la prima volta ha perso l’aura di invincibilità. Ancora più importante è il cambiamento dell’umore. Indipendentemente dal fatto che la manifestazione di ieri porti a qualcosa, per la prima volta in tanti anni 40 mila russi hanno lasciato a casa il loro senso di impotenza per portare in strada il loro scontento. «Non è inutile farsi sentire», dice Valery, 30 anni. «Una voce è inutile, ma decine di migliaia si fanno sentire e prima o poi perfino il Cremlino dovrà prestare ascolto».

Repubblica 11.12.11
Allarme russo
di Lucio Caracciolo


I russi non hanno paura dell´influenza. L´appello dell´ispettore medico capo Gennady Grigorievich Onishchenko li invitava a disertare le piazze perché a causa del "tempo gelido" gli assembramenti di "vasti gruppi di persone" avrebbero diffuso il morbo di stagione.
Eppure in decine di migliaia hanno protestato ieri contro le frodi elettorali di Putin. Da Kaliningrad a Vladivostok, passando per San Pietroburgo e soprattutto Mosca, i manifestanti hanno sfidato raccomandazioni mediche e moniti governativi. Le cifre come al solito ballano, ma almeno nella capitale si è trattato della più grande manifestazione dell´ultimo ventennio.
Non è ancora "primavera russa". Ma la legittimità del sistema putiniano è per la prima volta apertamente contestata da una quota influente del pubblico. Soprattutto nelle componenti giovani e urbane, decisive nei grandi momenti della storia russa. Comunisti, nazionalisti e finora sparuti liberali mettono nel mirino Russia Unita, il partito di Putin e Medvedev. Pretendono nuove elezioni, stavolta vere.
Alcuni esperti calcolano che la manipolazione abbia regalato ai putiniani il 15-20% in più dei voti, altri si fermano a un più realistico 10%. Rispetto al 49,3% ufficiale, Russia Unita avrebbe quindi in realtà mantenuto il rango di primo partito, ma non disporrebbe più della maggioranza alla Duma. Una truffa troppo smaccata anche per gli standard russi. Almeno di questi tempi, quando la crisi economica mondiale è assurta a crisi globale di credibilità della politica. A partire dai governi e dai partiti che li sostengono.
A tre mesi dalle elezioni presidenziali che nelle previsioni generali riporteranno Putin al Cremlino - e forse Medvedev a vita privata - l´allarme è scattato nei palazzi del potere russo. Lo stesso premier aveva personalmente accusato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton di eccitare le proteste e di supportare gruppi di opposizione: «Non vogliamo che la situazione in Russia si sviluppi come a suo tempo in Kirghizistan o in Ucraina». Tradotto: «Cari americani, fatevi gli affari vostri. In ogni caso, stroncheremo sul nascere qualsiasi ‘rivoluzione colorata’».
In attesa della prossima ondata di protesta, in calendario per il 24 dicembre, azzardiamo due provvisorie deduzioni. La prima riguarda la stabilità del sistema politico russo, la seconda le conseguenze geopolitiche della contestazione.
Quanto alla prima: Putin resta certo il leader più amato dal suo popolo. Anche perché gli aspiranti alla successione sono impresentabili o appaiono finora di taglia troppo ridotta. Ma il carisma dello zar si sta logorando. La decisione di ricandidarsi alla presidenza ha turbato non solo i pochi liberali russi, ma una fetta di opinione pubblica moderata, governativa per istinto e vocazione. Il pesante "ritocco" dei risultati elettorali, in omaggio al principio per cui importante non è come si vota, ma come si contano i voti, ha fatto scattare la scintilla. Evidentemente Putin aveva sottovalutato la sensibilità di molti suoi concittadini. Compresi alcuni di coloro che lo rivoteranno presidente, in assenza di alternative credibili.
Finora il sistema partitico russo era modellato sulle "democrazie popolari" dell´Est ai tempi della guerra fredda. Un partito centrale – non più i comunisti, ma Russia Unita – e vari partiti satelliti, deputati a fingersi di opposizione. A cominciare dai veterocomunisti di Zyuganov e dai nazionalisti di Zhirinovsky. Ai margini, a recitare più o meno gratuitamente il ruolo degli irriducibili, sparuti oppositori filo-occidentali. I quali erano ieri in piazza con comunisti e nazionalisti. Insieme a loro, molti giovani finora estranei all´impegno politico. Tutti a inveire contro Russia Unita, "partito di ladri e imbroglioni". Se e quando tornerà al Cremlino, Putin dovrà dunque affrontare la crisi della costellazione partitica finora vigente. Al caso, con metodi spicci.
Quanto ai riflessi geopolitici, conviene misurarli nel triangolo Washington-Pechino-Mosca. Le tre principali potenze mondiali si studiano in cagnesco. Gli americani, inclini a vedere nella Cina un pericoloso competitore se non un nemico da battere come a suo tempo l´Urss, farebbero volentieri a meno di doversi confrontare anche con Putin tornato al Cremlino, di sicuro non un amico degli Usa. Altro che "reset". Di qui il sostegno non solo retorico agli oppositori di uno zar che ha già dato filo da torcere agli occidentali. E di qui anche l´esplicito sostegno del regime di Hu Jintao a Putin. Fra cinesi e russi le relazioni restano tiepide. Su un punto di fondo Mosca e Pechino restano però sorelle: l´orrore per il "caos", per le "rivoluzioni colorate", intese come interferenze americane nei loro affari domestici, mascherate da sostegno a movimenti presuntamente democratici. I precedenti "colorati" nell´ex Unione Sovietica – Ucraina in testa – non sono comunque incoraggianti né dal punto di vista degli interessi geopolitici americani né quanto a progressi verso gli standard occidentali.
Eppure Putin appare nervoso. Le proteste l´hanno sorpreso. Certo il capo non si tirerà indietro. Ma quella che fino a ieri sembrava un´autostrada destinata a riportarlo al Cremlino fino al 2024, oggi si rivela un percorso tortuoso, pieno di trappole.
Putin passerà alla storia come lo zar che nei suoi primi otto anni da presidente ha salvato la Russia dalla disintegrazione totale. Ma saprà inventarsi un ruolo per il terzo mandato? Vedremo se il Putin 3.0 sarà quello della modernizzazione economica e di qualche prudente riforma di segno liberale, oppure se inaugurerà una nuova età dei torbidi.

Repubblica 11.12.11
Lo scrittore Boris Akunin: "È la rivolta della dignità"
"Pane e vodka non bastano più finalmente la gente si è svegliata"
di N. L.


MOSCA - Rivoluzione della dignità. La chiama così mentre scende dal palco dopo il primo discorso pubblico della sua vita. «Sono uno scrittore, non un leader politico. È stata una gran fatica. A proposito, si capiva quello che dicevo?». Si capiva, perché la folla ancora applaude e urla. Grigorij Chartishvilj, meglio conosciuto come Boris Akunin, ha venduto quasi cinque milioni di copie in tutto il mondo con la saga del suo ispettore Fandorin, ma resta un tipo schivo, che non ama le grandi platee. «Ma sentivo che dovevo fare un´eccezione. Ci sono momenti in cui bisogna partecipare, dare il proprio apporto, prendersi le proprie responsabilità».
Crede che quel momento si arrivato?
«Stavo in Francia ancora ieri sera. Ho fatto follie per arrivare in tempo. Dovevo farlo. Anche se non dovremmo entusiasmarci troppo».
Non è ottimista sul prossimo futuro?
«Dipende da noi. Se ci rendiamo conto che siamo solo all´inizio, se non lasciamo spegnere questa fiamma».
Il paragone più abusato è con le rivolte della primavera araba. Che ne pensa?
«Non c´entra niente. Questa è un´altra cosa. Qui non sono scese in piazza persone che soffrono e che vivono male. Qui è tutta gente che sta bene, ha studiato e gode di tutti i fondamentali del cosiddetto benessere. Ma sente che manca una cosa: la dignità. E la vuole».
Sembra un movimento tutto cittadino. Il resto del Paese è ugualmente indignato?
«L´indignazione è ovunque. Per quanto riguarda il ruolo guida di Mosca, mi sembra inevitabile. In una società post imperiale come quella russa la capitale è decisiva. Qui nascono le idee, i movimenti, le mediazioni... Del resto anche nel ‘17 la rivoluzione si fece a San Pietroburgo, non partì certo dalle campagne».
Paragone pesante. Davvero succederà qualcosa?
«Se questa piazza si è riempita non è per un motivo particolare. Ma è tutto il frutto di una maturazione civile della società. Il potere deve fare i conti con tutto questo, rendersi conto che la gente è cambiata. Non si accontenta di pane e vodka. Vuole pure il rispetto. E continuerà a chiederlo fino a quando non lo otterrà».
Putin può accettare di rifare le elezioni?
«Farebbe bene ma non credo ne avrà la forza. Però a marzo, per le elezioni presidenziali, sa già che dovrà fare un gioco più pulito. Trasparenza ai seggi, meno imbrogli possibili. Mosca si è svegliata e sta svegliando tutta la Russia. Il potere si ricordi sempre che noi non stiamo più a dormire». (n. l.)

La Stampa 11.12.11
URSS Ricordi, figli e dittatori
Svetlana Stalin e l’amore per Sergo Beria
di Marco Dolcetta


Ho incontrato Lana Peters, nata Svetlana Alliluyeva Stalina nel 1926, per discutere di un’intervista televisiva nel 2007. Questa pensionata, morta il 22 novembre negli Stati Uniti, viveva modestamente in una casa di riposo del Wisconsin. La vita di Svetlana, naturalmente, non ha nulla di ordinario. Da piccola era amata follemente e violentemente dal “piccolo padre dei popoli”, ovvero Giuseppe Stalin. Il padre non manca però, via via che lei si emancipa, di scatenare attorno a lei una paranoia assassina. Siamo appena nel 1932 e sua madre, Nadejda Alliluyeva, viene trovata suicida, in maniera misteriosa, quando la piccola ha 6 anni, fatto che la segnò per tutta la vita. La madre era stata una delle collaboratrici più fidate e vicine a Lenin. Il padre da uomo autoritario le ha sempre impedito di scrivere, come lei invece avrebbe voluto. Successivamente Stalin mette fine, in maniera brutale, anche al suo idillio col cineasta di origine ebraica, Alexei Kapler, che finisce misteriosamente spedito in un gulag. Nel 1967 Svetlana rinuncia al suo nome e ai suoi privilegi, e decide di abbandonare il suo paese, la sua famiglia e anche i suoi figli. La fuga da Mosca comporta una pagina particolarmente cara alla memoria di Svetlana che ricorda: “La notte tra il 6 e il 7 marzo 1967 con un volo a destinazione Roma via Teheran, finalmente arrivo in Occidente. Mi sentivo di vivere un sogno. Sotto la regia del secondo segretario dell’ambasciata americana di Nuova Delhi, Robert Rayle, siamo arrivati di nascosto a Fiumicino e con un nome falso, Allilolev, sono entrata in Italia, con il benestare del governo italiano a stare un paio di giorni nascosta in un posto segreto prima che gli americani mi concedessero asilo politico negli Stati Uniti. Nella calma della casa romana, dove ho mangiato delle cose molto buone, ho avuto per la prima volta fra le mani il libro di Boris Pasternak, ‘Il dottor Zivago’, che non era stato mai pubblicato in Urss. Fu in quel momento che capii che la cosa migliore che avessi fatto nella mia vita era stata lasciare l’Unione Sovietica”. Svetlana continua dicendomi: “Non mi chieda troppe cose su mio padre, se vuole, chieda di me… Mia madre era una donna molto ingenua che viveva fuori dalla realtà, una vittima del femminismo russo, forte a parole ma non nei fatti. Prima avevo pietà per questa donna, oggi se penso a lei sono ancora arrabbiata perché ha lasciato i suoi figli nelle mani di un uomo tirannico. Questo tiranno oltre ad aver annullato il mio idillio con Kapler, mi ha impedito sempre di scrivere le mie poesie. Ma la cosa che meno perdono a mio padre è il fatto che lui abbia fatto imprigionare e uccidere alcuni membri della nostra famiglia. Mi addolora che la mia lontana nipote Anna Politkovskaja, nipote di Kira, che era nipote di mio padre, sia stata uccisa per il suo desiderio di scrivere liberamente. La Russia non è cambiata”. SVETLANA è una buona madre, ce lo conferma sua figlia Olga che oggi si fa chiamare Chrese Evans e che ha cercato più volte di conoscere i suoi fratellastri Joseph e Katerina Morozof. Olga si è sposata negli Usa dove è nata. Gli altri due figli vivono a Mosca, abbandonati dalla fuga del 1967 dalla loro madre. Quale era la sua migliore amica nel-l’infanzia? “Era Marfa Pechkova, nipote dello scrittore Gorki e moglie di Sergo Beria, figlio di Lavrentij Beria, il braccio destro di mio padre. Sergo era uno dei pochi amici che avevo a Mosca”. Sergo venne a Parigi da Kiev dove viveva nel 1999, poco prima di morire, per una conferenza sulla perestrojka, alla Sorbona. Nella mia qualità di conferenziere ebbi occasione di incontrarlo e, dopo una cena alla brasserie Lipp, anche di intervistarlo. Rivedendo l’intervista mi ha colpito la sequenza di vivi ricordi che aveva di Svetlana, quando dice con ironia: “I primi ricordi che ho di lei riguardavano la prima infanzia. Guardavamo ‘i tre porcellini’ di Walt Disney, e anche altri cartoni animati che i nostri genitori ci costringevano a rivedere più volte insieme. Poi partimmo per la Dacia di Stalin e lei avendo notato il mio mantellino striminzito mi accolse nella sua pelliccia di orso e così viaggiammo. Quella notte, con Svetlana ci divertimmo a spiare di nascosto i grandi che bevevano, mangiavano, cantavano, ballavano fino all’alba e parlavano in georgiano, anche se non capivamo niente di quel che dicevano”. I ricordi si dipanano negli anni. “Lei era legatissima a mia madre, forse perché le mancava la figura materna. Sua madre, che ricordo bellissima, era scomparsa in maniera misteriosa anni prima”. MailricordodiSergopiùsignificativo del rapporto tra Svetlana e il padre, risale all’età di 15 anni, quando la obbligava a danzare per lui e i suoi amici, tirandole addirittura i capelli se lei si fosse rifiutata. “Verso i 18 anni si confidava spesso con mia madre, dicendole che era innamorata di me e che mi voleva assolutamente sposare”.

l’Unità 11.12.11
Socialismo, ripensarne l’eredità
di Bruno Bongiovanni


Si affermava la settimana scorsa che dobbiamo imparare a difendere il socialismo da se stesso. Quando compare? Nel 1753, in uno scritto teologico pubblicato in latino dal monaco bavarese Anselm Desing. Il bersaglio sono appunto i socialisti (socialistae) ed ecco nato il termine! -, vale a dire i sostenitori di quel diritto di natura che introduce il contratto politico. Si vive in società per costoro non perché ispirati dalla christiana religio e dal conseguente diritto divino, ma perché si è fabbri del proprio destino. Nel 1764, un altro monaco, Ferdinando Facchinei, usa la parola in italiano per denunciare un testo anonimo e destinato ad avere eco, oltre che a rendere in seguito noto il suo autore: Dei delitti e delle pene.
Il termine sorge così con un significato negativo. Le cose cambiano a partire dal 1822, in Inghilterra, dove socialist, collegato agli effetti della rivoluzione industriale, viene usato dai seguaci di Robert Owen per definire, con significato positivo, il militante della questione sociale. Nel 1831, per merito lessicale di Alexandre Vinet, teologo e sansimoniano di Losanna, è la volta, in francese, del sostantivo socialisme. Quel che segue è noto. E non mancano le degenerazioni. Appare un fascismo nazionalsocialista. Si pretende poi, nell’Urss, che il socialismo di Stalin sia stato realizzato.
Ora è il momento che la sinistra riprenda a pensarsi senza sfuggire all’eredità che proviene, e poco importa se sono diversi tra loro, da Owen, da Marx, da Luxemburg, da Matteotti, da Otto Bauer, da Brandt, da Allende. Soprattutto in un periodo di crisi come questo. Se evita di collegarsi ai tragitti dei socialisti la sinistra è del resto solo un asmatico meccanismo. E i comunisti? Anche loro sono il nostro passato. Ne discorreremo un’altra volta.

Repubblica 11.12.11
Critica della ragione emotiva
In alcuni saggi quel che comincia a emergere è che esiste un elemento di ambivalenza e di opacità nel fare ricorso al "cuore"
di Roberto Esposito


Lo stesso Obama che ha costruito la sua campagna elettorale su parole chiave di questo tipo sta assumendo toni più realistici
In questi anni abbiamo assistito a una rivalutazione delle passioni e del loro ruolo. Non solo dal punto di vista della sensibilità ma anche da quello politico e intellettivo. Ora però c´è chi ne mette in discussione il reale potere di emancipazione

Life. Motions, Motives, Emotions è il titolo, accattivante, di un convegno che c´è stato a novembre nell´Università di Los Angeles. Dedicato in larga parte al pensiero italiano – da sempre radicato nella falda vitale delle passioni –, esso ha messo in risalto il ruolo crescente assunto dalle emozioni nelle dinamiche contemporanee. Lungi dal circoscriversi alla sfera individuale, o agli ambiti dell´arte e della psicologia, il linguaggio delle emozioni irrompe sempre più negli scenari sociali, invadendo i territori della politica e dell´economia. Mentre le piazze di tutto il mondo, dal Nord Africa all´Europa, agli Stati Uniti, ribollono di passioni calde – ira, entusiasmo, speranza –, le borse oscillano secondo le ansie e gli sbalzi di umore degli operatori. Tutt´altro che soggetta all´algida legge dei numeri, o conformata alla razionalità di procedure tecniche, insomma, la vita collettiva appare esposta ad ondate emotive dall´andamento imprevedibile.
Ciò è tanto più rilevante perché appare in controtendenza con il movimento di razionalizzazione della civiltà moderna. Come è noto, la secolarizzazione ha avuto un effetto di raffreddamento nei confronti dei conflitti, e anche della passionalità sfrenata, che caratterizzavano l´epoca precedente. Rispetto ad essi la modernità, nel suo complesso, ha attivato un generale dispositivo immunitario, teso a raffrenare istinti e forze emotive che, se abbandonate alla loro spinta naturale, avrebbero potuto avere effetti potenzialmente dissolutivi. Naturalmente i filosofi moderni – da Cartesio a Kant – trattano delle passioni, ma dal punto di vista di una razionalità destinata ad imbrigliarle e governarle. È vero che, già a partire da Rousseau e per tutta la fase romantica, le mozioni del cuore sembrano di nuovo prevalere su quelle della ragione – ma più nell´orizzonte individuale che in quello degli orientamenti collettivi.
Perfino l´homo democraticus – come è profilato da Tocqueville – è caratterizzato da un´atrofia passionale, dominato da un conformismo che lo rende simile a tutti gli altri, senza però unirlo ad essi in un progetto comune. Apatia ed indifferenza sono il sintomo di questa perdita di emotività che può arrivare fino alla sottomissione al dispotismo. Anche il progressivo rattrappimento del desiderio, sostituito dalla ricerca del godimento immediato, che connota le nostre società, può essere interpretato come un esito non voluto dell´individualismo moderno. L´onda di riflusso che ha seguito, atrofizzandone la spinta energetica, i movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta, sembra riconsegnare il mondo occidentale ad una carenza emotiva sempre più marcata, fino a determinare un generale ripiegamento nella sfera privata.
Poi, con una di quelle svolte di cui non è facile rintracciare la radice, il pendolo tra le passioni e gli interessi – per riprendere la classica endiadi di Hirschman – è tornato a battere nella direzione contraria. Il motore delle emozioni collettive ha ripreso a girare, ridando fiato a passioni che sembravano estinte. All´origine di questo passaggio si può, forse, situare la caduta del muro di Berlino, con l´accelerazione che ne è seguita nel processo di globalizzazione. Nel momento in cui si sono sbriciolate barriere, ambientali e psicologiche, prima ermeticamente chiuse, anche attraverso la contemporanea diffusione della rete, un sentimento di empatia sembra di nuovo subentrare a quello di apatia. Da allora il contagio delle passioni – ma anche delle ansie e delle paure – sembra divenire inarrestabile. Basti pensare alla risonanza mondiale dell´attentato alle Torri Gemelle. L´immagine dello schianto, ripetuta infinite volte sui teleschermi di un pubblico ormai globale, ha determinato una comunanza di sensazioni più forte di qualsiasi differenza culturale, etnica, generazionale. Da quel momento è bastato che una scintilla scoccasse in una metropoli perché lo stesso fuoco si accendesse in quella vicina e, da lì, in tutta l´area circostante. Come già la rivolta nordafricana, anche i fenomeni, non lontani tra loro, dei movimenti no global, degli indignados e di OccupyWallStreet si sono diffusi in un lampo da un paese all´altro su un´onda di emozioni inimmaginabile appena qualche decennio addietro.
E allora, tutto bene? Possiamo abbandonarci senza esitazione al flusso di questa emotività collettiva, riconoscendo in essa la soglia di una nuova sensibilità democratica o addirittura antropologica? Possiamo dare alla semiotica delle passioni – come l´ha felicemente definita Paolo Fabbri – una rilevanza politica di carattere emancipativo? Credo che, prima di dare una risposta compiutamente affermativa a tali domande, occorra un attimo di riflessione e di discernimento. Perfino Martha Nussbaum – in un libro come L´intelligenza delle emozioni (il Mulino 2009), che pure ne valorizza il significato etico e politico – invita a selezionarle in ordine a consapevoli progetti di vita. Per non dire di Judith Siegel, impegnata nell´elaborazione di una vera e propria strategia di controllo capace di metterci a riparo da un surplus emotivo di esito incerto (Stop Overreacting: Effective Strategies for Calming Yours Emotions, New Harbinger 2010). È una cautela più che motivata. Intanto perché, come si è appena visto, il pendolo tra passioni calde e passioni fredde è certamente soggetto ad ulteriori spostamenti, anche in rapporto al continuo mutamento degli scenari politici. Non è un caso se, come ha rilevato più volte la columnist del New York Times Maureen Dowd, lo stesso Obama, eletto anche sulla scia delle emozioni positive che è stato capace di suscitare, abbia dovuto ripiegare su un registro più realistico, ispirato al riconoscimento dei limiti del proprio potere.
Ciò che comincia a trapelare è la consapevolezza di un elemento di opacità interno alla sensibilità passionale. Si pensi all´effetto ambivalente dei media, in particolare televisivi. Da qualche tempo la differenza, sul piano delle immagini e del lessico, tra la fiction, le trasmissioni di inchiesta e perfino alcuni telegiornali si va assottigliando. A prevalere sono sempre più contenuti, colori, toni, destinati a potenziare le sensazioni forti, a sollecitare una partecipazione diretta dello spettatore alla vicende dei protagonisti. Allo stesso modo, nei programmi strappalacrime, il pianto di mariti abbandonati dalle mogli o di figli in lite con i padri tende a riprodursi senza soluzione di continuità negli occhi degli spettatori. Il risultato è insieme un eccesso, ma anche una sorta di trasferimento della nostra emotività, "delegata" a coloro che artificialmente la stimolano, con un risultato di smarrimento di ogni distanza critica rispetto all´evento rappresentato.
Trascinati su questo piano del contagio emotivo, così come qualsiasi delitto in famiglia ci pare alla fine uguale a tutti gli altri, anche ogni piazza – da quella di giovani democratici che chiedono libertà a quella di integralisti islamici che inneggiano alla guerra santa – finisce per equivalersi, senza darci la possibilità di comprendere ciò che realmente sta accadendo. Non solo, ma può generarsi anche un effetto inflattivo. Come ha ben spiegato Odo Marquard (in Estetica e anestetica, il Mulino 1994) una proliferazione di elementi estetici può produrre un risultato anestetico – un blocco emotivo per eccesso di emozioni. Se ci immergiamo nel mare delle emozioni senza il salvagente della ragione critica, rischieremo, prima o poi, di annegare.

Repubblica 11.12.11
Questo tipo di sentimento è importante ma non sufficiente Il progresso morale si ottiene emettendo dei giudizi
Così l’empatia è stata trasformata in una scorciatoia
di David Brooks


Siamo circondati da persone che cercano di fare del mondo un posto migliore: militanti pacifisti che spingono i nemici a dialogare perché possano conoscersi a vicenda e compenetrarsi nella sofferenza del loro interlocutore; dirigenti scolastici che cercano di creare gruppi di studenti variegati, perché ognuno possa capire come ci si sente nei panni di un altro; gruppi religiosi e comunitari che cercano di coltivare l´empatia.
Come scrive Steven Pinker nel suo nuovo e sconvolgente libro intitolato The Better Angels of Our Nature, viviamo in mezzo a una "smania di empatia". Gli scaffali delle librerie abbondano di saggi sull´argomento: L´età dell´empatia, Il divario di empatia, La civiltà empatica, Insegnare l´empatia. C´è perfino una teoria neurologica che sostiene che nel nostro cervello ci sono dei neuroni-specchio che ci consentono di percepire quello che c´è nella testa delle altre persone, e che questi neuroni sono all´origine dei sentimenti di empatia verso il prossimo e dell´azione morale.
C´è molto di vero in tutto questo. Questi neuroni-specchio ci sono veramente. Le persone empatiche sono più sensibili al punto di vista e alle sofferenze degli altri e sono più inclini a esprimere giudizi morali compassionevoli. Il problema insorge quando cerchiamo di trasformare i sentimenti in azione. L´empatia rende maggiormente consapevoli delle sofferenze altrui, ma non è chiaro se spinga effettivamente ad agire in modo morale o se trattenga effettivamente dall´agire in modo immorale. Nei primi giorni dell´Olocausto, i carcerieri nazisti a volte scoppiavano in lacrime mentre falciavano donne e bambini ebrei, ma continuavano a farlo comunque.
L´empatia spinge ad agire in modo morale, ma non sembra influire molto quando quell´agire comporta un costo personale. Magari avvertite una stretta al cuore quando vedete un mendicante sul marciapiede opposto, ma probabilmente non attraversate la strada per andare a dargli un dollaro. Ci sono pile intere di saggi che indagano sul legame tra empatia e azione morale. Studiosi differenti sono giunti a conclusioni differenti, ma in un recente studio Jesse Prinz, un filosofo della City University di New York, ha riassunto così le ricerche sull´argomento: «Questi studi suggeriscono che l´empatia non rappresenta un fattore importante per quanto concerne la motivazione morale». Altri studiosi hanno definito l´empatia un "fragile fiore", facilmente schiacciato dall´interesse personale.
Nessuno è contro l´empatia, ma sta di fatto che non è sufficiente. Di questi tempi l´empatia è diventata una scorciatoia. È diventata un modo per provare l´illusione di un progresso morale senza dover fare il lavoro sporco di emettere giudizi morali. In una cultura che non riesce a formulare categorie morali e che cerca in tutti i modi di non offendere, insegnare l´empatia è un modo sicuro per sembrare virtuosi senza rischiare polemiche e senza urtare i sentimenti di qualcuno.
Le persone che effettivamente si danno da fare nel sociale non provano solo un sentimento di empatia per coloro che soffrono, si sentono spinte ad agire da un senso del dovere. La loro vita è strutturata da codici sacri. Pensate a qualcuno che ammirate. Probabilmente questo individuo ha una certa inclinazione alla solidarietà, ma più di questa inclinazione conta il senso del dovere nei confronti di qualche codice di comportamento religioso, militare, sociale o filosofico. Proverebbe un senso di colpa o di vergogna se non si attenesse alle regole prescritte dal codice. Il codice gli dice quando merita l´ammirazione degli altri o il disonore. Il codice lo aiuta a valutare i sentimenti degli altri, non semplicemente a condividerli. Il codice gli dice che un adultero o uno spacciatore di droga possono provare un piacere immenso, ma che il loro comportamento è comunque da disprezzare.
Il codice non è solo un insieme di regole. È una fonte di identità. È qualcosa che viene perseguito con gioia. È qualcosa che suscita le emozioni e i legami più forti. L´empatia è un evento secondario. Se volete rendere il mondo un posto migliore, aiutate le persone a discutere, comprendere, riformare, onorare e mettere in pratica i loro codici. Accettate che i codici siano in conflitto tra loro.
(Traduzione di Fabio Galimberti)  © 2011 New York Times News Service

Repubblica 11.12.11
Al Regio di Torino il "Fidelio" del grande tedesco messo in scena da Mario Martone. Lettura musicale con nerbo di Gianandrea Noseda. Cast all´altezza
Spezzare le catene così insegna Beethoven
di Angelo Folletto


Il cumulo di catene a centro scena, là dove prima c´era la fossa scavata per Florestan, è l´immagine-simbolo del Fidelio che ha inaugurato la stagione del Teatro Regio di Torino. Le donne del coro, amanti, figlie e mogli dei carcerati, le sfilano agli uomini replicando con mosse lente, pacate se non solenni, il gesto di Leonore; e le gettano con compiaciuto disprezzo sul mucchio. I prigionieri indossano abiti borghesi (costumi di Urzula Patzak). Non stracci, non divise da galeotti: a sottolineare lo stato di cittadini normali, arrestati e incarcerati per ragioni ideologiche o "per aver detto la verità". Il regista Mario Martone invita il pubblico a concentrarsi su quell´ammasso di ferri, di cavigliere, di anelli metallici pesanti mentre la musica di Beethoven pare voler svellere le inferriate di tutte le prigioni inique della terra e della storia.
Nell´impetuoso quadro finale il buio della prigione sotterranea squarciato dai bagliori di luce che rendono trasparenti le alte pareti (scene di Sergio Tramonti), è incalzato dall´ossessiva reiterazione della parola "Retterin" (Salvatrice) e dal tumulto barbarico delle voci che l´orgogliosa scrittura d´autore spinge a disputa con l´orchestra, preannunciando il precipitante finale della Nona Sinfonia. La parentela emozionale e "teatrale" dei due finali non poteva sfuggire al pubblico e al nerbo un po´ ossuto, talvolta ansimante ma fiero, dell´orchestra che Gianandrea Noseda ha diretto anche nella recente integrale delle Sinfonie. La produzione beethoveniana, simbolica e ottimista conclusione delle celebrazioni musicali del 150enario unitario nazionale avviato risorgimentalmente coi Vespri siciliani, si rimetteva all´anomala narratività scenica d´autore e alle sue logiche sinfonico-orchestrali.
La struttura fissa e sommariamente carceraria di palcoscenico, tagliata a mezza altezza da una passerella, ingloba l´orchestra: la rende parte della scenografia e dell´azione teatrale. Sulla parete di sinistra, tra platea e proscenio c´è l´ingresso della cella di Florestan che canta la sua grande aria di catene da dietro le sbarre: l´inferriata è il motivo dominante della seconda parte, così come nella prima lo era la portineria-casetta di Rocco sul lato opposto. Sul contrasto tra antefatto borghese e cuore libertario del dramma, ha puntato la regia che nei quadri d´assieme lasciava respirare il palcoscenico, isolando in una sorta di continuo controluce emotivo i gesti dei personaggi: arretrati, per così dire, rispetto all´autosufficienza espressiva elegiaca ora epica della musica. Le cui serrate ragioni Noseda ha esibito con intensità, inducendo l´orchestra (e il coro di Claudio Fenoglio) a una bella prova. Rinunciando con un gesto di meritoria intelligenza musicale agli applausi garantiti dell´ouverture Leonore III, e puntando a creare un flusso di energia sonora instancabile, un po´ furiosa nel finale, da cui sono emersi la sicura Ricarda Merbeth e il prudente ma corretto Ian Storey e la preparazione del diligente cast.

Corriere della Sera Salute 11.12.11
In Italia già 30 mila anni fa si cucinavano cereali
Lo scopo era poter conservare
di Alice Vigna


Siamo in un giorno imprecisato di circa 30mila anni fa, a Bilancino, fra le colline di quello che oggi chiamiamo Mugello, in Toscana. Un Homo sapiens sapiens, simile a noi come aspetto, sta riducendo in polvere le radici di una pianta di palude che cresce rigogliosa nei dintorni, la «Tifa»: la farina che otterrà potrà essere facilmente conservata e trasportata e servirà per preparare l'impasto di una «galletta» preistorica o una zuppa molto nutriente, ricca di carboidrati complessi. Le due piccole pietre di arenaria che quell'uomo del Paleolitico superiore ha usato per macinare le radici sono rimaste sepolte fino a poco tempo fa, quando sono state rinvenute da un gruppo di archeologi dell'Istituto italiano di Preistoria e protostoria. A prima vista sembravano due pietre qualsiasi ma Anna Revedin e Biancamaria Aranguren, le due ricercatrici responsabili dello scavo, si sono accorte che non era così osservandone la forma e gli avvallamenti, che indicavano tracce d'uso: si trattava infatti di una primitiva macina e di un macinello, e l'analisi degli amidi trovati sulle pietre ha svelato che la pianta usata per dare la farina era appunto la Tifa palustre. Prima di questa scoperta nessuno sospettava che l'uomo primitivo fosse in grado, già 30 mila anni fa, di trasformare i vegetali selvatici in prodotti «raffinati», si credeva che i carboidrati complessi fossero stati introdotti nella dieta umana circa 20 mila anni dopo, nel neolitico, con l'arrivo dell'agricoltura e dell'allevamento.
Il ritrovamento ha perciò «ridisegnato» l'evoluzione dell'alimentazione umana, che ha sempre avuto un'enorme influenza sull'evoluzione delle capacità e della vita sociale dell'uomo. Inizialmente l'uomo si nutriva della carne delle carogne, raccoglieva tuberi, radici, bacche, frutta, uova e catturava soltanto piccoli animali, come tartarughe o molluschi. Poi, circa un milione di anni fa, imparò a costruirsi armi più efficaci e poté cacciare animali più grandi, diventando più robusto e forte. «Un passaggio importantissimo fu l'uso del fuoco per cuocere la carne, attorno ai 500 mila anni fa: la cottura rende la carne più digeribile e riduce l'energia necessaria ad assimilare i nutrienti, questo ha costituito un vantaggio evolutivo enorme», spiega Anna Revedin, ricercatrice all'IIPP. Lo conferma uno studio apparso di recente sulla rivista PNAS, secondo cui il passaggio dalla carne cruda a quella cotta ha consentito all'uomo preistorico di ottenere più facilmente energia dalla dieta, aprendo la strada a un rafforzamento del fisico e al miglioramento delle capacità cerebrali. Di certo, come scrive l'antropologo Richard Wrangham, che ha condotto la ricerca, «Se vogliamo capire le caratteristiche anatomiche, fisiologiche e comportamentali di una qualsiasi specie animale, uomo compreso, dobbiamo guardare alla sua dieta». Imparare a macinare piante selvatiche e ricavarne farine significò, ad esempio, avere un prodotto ricco di carboidrati complessi, nutriente e facile da trasportare: una svolta per l'uomo preistorico, che poteva così affrancarsi per lunghi periodi dalla necessità della caccia, sopravvivendo meglio anche a mutamenti climatici e ambientali sfavorevoli. «La scoperta, oltre a svelare che le attività di raccolta e trasformazione di cibi vegetali avevano un ruolo importante quanto la caccia, dimostra che in Europa c'erano le competenze e le tecnologie per sfruttare l'agricoltura ben prima del suo avvento — spiega Revedin —. Quando l'uomo ha iniziato a coltivare i campi e allevare gli animali tutto è cambiato: da una struttura corporea robusta, necessaria per affrontare la caccia dei grossi animali, si è passati a un fisico più impoverito. L'uomo del neolitico mangiava meno carne, era in balia delle carestie; inoltre, vivendo in gruppi stanziali più numerosi per coltivare le terre, era più soggetto alla diffusione di malattie. La possibilità di fare scorte di cibo maggiori e conservare prodotti raffinati come le farine, unita alla maggiore sedentarietà, ha però contribuito all'incremento demografico». Secondo molti ricercatori l'uomo tuttavia non si è ancora completamente adattato all'agricoltura, e la prova sarebbe nell'attuale diffusione di intolleranze ad alimenti sconosciuti prima del neolitico: l'intolleranza al glutine dei cereali, ad esempio, o quella al lattosio del latte di animali da allevamento.
Sull'argomento c'è grande dibattito. «Certo è che lo studio delle abitudini alimentari degli uomini preistorici non è fine a se stesso ma può avere implicazioni importanti per l'uomo moderno, che dovrebbe capire meglio come è fatto e a che cosa è "più adatto" — osserva l'archeologa —. Probabilmente l'evoluzione culturale è stata più veloce di quella genetica e non siamo riusciti, o almeno non del tutto, ad adattare la nostra fisiologia alla nuova dieta ricca di cereali e carni e latte di animali d'allevamento: la carne della selvaggina cacciata dai nostri antenati più lontani, ad esempio, è ben diversa da quella ottenuta da mucche, capre o pecore allevate nei pascoli con metodi industriali. Non è perciò un caso se da qualche tempo ha preso piede la «paleodieta» che suggerisce di tornare, nei limiti del possibile, a un'alimentazione più simile a quella dell'uomo preistorico per la quale saremmo geneticamente più adattati». Si tratterebbe, in sostanza, di mangiare carni magre (meglio ancora la selvaggina) e tutto ciò che Madre Natura offriva prima che cominciassimo a coltivare i cereali: bacche, frutta fresca e secca, verdura soprattutto cruda, niente zuccheri, farine, cereali raffinati o a maggior ragione cibi industriali. Non facile da seguire, va detto. Revedin, che ha provato su se stessa una dieta più vicina a quelle «del cavernicolo», afferma: «Non si può certo vivere come 40 mila anni fa, ma si può "temperare" la nostra dieta con suggerimenti presi da allora: nel mio caso ridurre drasticamente i carboidrati, mangiare carni magre provenienti da allevamenti meno intensivi e muoversi di più ha avuto un effetto indubbio di miglioramento del benessere. Non dico di eliminare i cereali, ma forse può essere opportuno limitarne l'uso o magari cercare fonti di carboidrati alternative che non siano gli attuali grani ricchi di glutine». Le gallette di Tifa pare siano buonissime: le ricercatrici hanno seccato le radici, le hanno macinate e poi con la farina hanno preparato gallette su focolari simili a quelli che usava l'uomo preistorico. Il risultato, dicono, è gradevole. «Dalla dieta dei nostri antenati possiamo prendere spunti per non dimenticare le nostre origini e ritrovare un rapporto più equilibrato con il nostro corpo e con l'ambiente», conclude Revedin.

sabato 10 dicembre 2011

il Riformista 9.12.11
Pompei di sabbia nel Nord Africa da Mille e una notte
Viaggio. Città di fango in Mali, "in sale" in Egitto, la moschea di Haji Piyada in Afghanistan. Forme "perdute" dell'abitare, rintracciate dall'arch. Tonietti, domenica a "Più libri più liberi".
di Andrea Consoli

L'arte di abitare la terra (L'Asino d'oro edizioni, 250 pagine, 27,00 euro) di Ugo Tonietti, architetto e professore di Scienza delle costruzioni presso l'Università di Firenze, è un prezioso Baedeker per avvicinarsi allo studio delle architetture antiche (spesso preistoriche), non poche volte indecifrabili agli stessi occhi degli studiosi. La storia dell'abitare - dell'abitare, cioè, il mondo - è affrontato da Tonietti osservando e indagando le costruzioni fantastiche e prodigiose che sono sopravvissute alle corrosioni del tempo, e che spesso sono nate nel cuore di civiltà povere, nomadi, pastorali, abituate a ogni tipo di ostilità della natura, ma nelle quali era ancora forte il legame - che valeva per tutti - tra il pensare e l'agire architettonico.
Il viaggio inizia alla medina di Chefchouen, nel Rif, zona montuosa del nord del Marocco, dove antichi e sapienti "maalem" (maestri muratori) hanno costruito un affascinante groviglio abitativo di "dar" (cellule abitative) e di "derb" (isolati), e che oggi è gravato da innesti "moderni" che ne minacciano la sopravvivenza. Il viaggio prosegue a Djenné, nel Mali, presso le misteriose architetture primitive saadiane in terra cruda, e giunge a Shali, presso il lago salato dell'Oasi di Siwa, nell'Egitto occidentale (al confine con la Libia), dove Tonietti spiega e racconta le difficili architetture di sale, realizzate mediante la complessa lavorazione dei "karshif", ovvero zolle di sale. Sempre in terra africana, Tonietti non poteva non visitare Lalibela, in Etiopia, famosa in ogni dove (e patrimonio mondiale dell'Unesco) per le misteriose basiliche ciclopiche ipogee costruite scavando nella roccia e che, come tutte le architetture antiche - spesso in terra cruda o in terra pressata e mischiata con la paglia - sono in grave pericolo conservativo.
L'arte di abitare la terra, poi, lascia l'Africa per due tappe "orientali": la prima è ad Aleppo, nella Siria del Nord, dove strane costruzioni in terra continuano ad intrigare per le strane cupole della abitazioni (il viaggio poi prosegue a Palmira, la Regina del deserto, la cui decadenza si lega alla ribellione della regina Zenobia nei confronti dei Romani); la seconda è nel lontano Afghanistan, precisamente nella città di Balkh (luogo natio del filosofo Avicenna, e centro del culto mistico zoroastriano), dove Tonietti ci fa conoscere la moschea di Haji Piyada, anch'essa in terra, e che gli storici e gli archeologi hanno difficoltà a datare. L'arte di abitare la terra, non è soltanto un libro di architettura - o, più precisamente, di tecnica antica delle architetture - ma un vero e proprio taccuino antropologico, un libro di viaggi, finanche un libro poetico, perché forte è la suggestione nello sguardo dello studioso di miti e leggende antiche (per intenderci, tra la Bibbia e le Mille e una notte).
Attraversando deserti e tornanti di montagna - avvincenti quelli di un Afghanistan ancora infestato di mine e ricoperto di carcasse di carri armati russi -, facendosi accompagnare da autisti irresponsabili (come in Mali) e osservando le donne con il burqa (sempre in Afghanistan), Tonietti - che pubblicò in parte questi viaggi sulla rivista Left - s'immerge pienamente nel mondo preistorico di alcune delle più antiche civiltà (notevoli le analisi "matissiane" delle incisioni rupestri), e indaga il rapporto dell'uomo antico con la terra, con l'abitare, con la tecnica costruttiva, la cui analisi mai si disgiunge da una lettura socio-antropologica che prevede finanche il mistero, il fascino evocativo, e al cui centro, molto spesso, c'è la presenza femminile, ora generatrice e gioiosa, ora ridotta a schiavitù da oscure leggi castranti (come a Shali, o a Balkh).
L'arte di abitare la terra verrà presentato domenica a Roma alla fiera della piccola editoria "Più libri più liberi" (Palazzo dei Congressi all'Eur, Sala Diamante, ore 16)e, insieme con l'autore, ne parleranno Simona Maggiorelli e Lavinia Ripepi.

il Fatto 10.12.11
Santissimo immobile
La Chiesa esclusa anche dalle rivalutazioni catastali Bagnasco si limita a puntualizzare sull’Ici
di Caterina Perniconi


Un problema tra Ici e Chiesa c’è. La conferma arriva dalle parole del presidente dei Vescovi, Angelo Bagnasco, che si è detto pronto a discutere della questione.
Ma attenzione a non considerare la dichiarazione come un’apertura. É piuttosto la disponibilità a chiarire una posizione costituita: “Il primo atto da fare nei momenti in cui c’è un po’ di confusione e agitazione degli animi mi pare che sia quello di fare chiarezza e documentare le cose”, ha detto Bagnasco, lasciando poco spazio all’illusione di una volontà di cambiamento. “Come è noto – ha poi puntualizzato – la legge prevede un particolare riconoscimento e considerazione del valore sociale dell’attività degli enti no profit, tra cui la Chiesa cattolica e quindi anche di quegli ambienti che vengono utilizzati per specifiche attività di carattere sociale, culturale ed educativo. Bisogna aggiungere che laddove si verificasse qualche inadempienza si auspica un accertamento e la conseguente sanzione, come è giusto per tutti”.
DI INADEMPIENZE,
come hanno dimostrato i Radicali con i loro “video-denuncia”, ce ne sono molte, serve solo la volontà di far rispettare la legge. “Al cardinal Bagnasco – ha dichiarato Mario Staderini, segretario del partito di Pannella – vorrei ricordare che c’è poco da discutere o puntualizzare: una legge italiana non deve essere certo contrattata con la Cei. Il Parlamento deve semplicemente eliminare l’esenzione per chiunque svolga attività commerciali”. Ma il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha ribadito ieri di non essersi ancora occupato della questione. “Sono anche a conoscenza di una procedura europea sugli aiuti di Stato” ha aggiunto il premier. Facendo riferimento all’indagine formale per incompatibilità con le norme sulla concorrenza scattata già due volte nei confronti dell’esenzione dell’Ici.
Eppure la manovra del nuovo esecutivo rischia di replicare nella concessione dei privilegi i precedenti governi. Fu alla fine del 2005, poco prima delle elezioni, che Silvio Berlusconi approvò una norma che stabiliva l’esenzione dal pagamento dell’Ici per tutti gli immobili della Chiesa. L’anno successivo, dopo una lunga polemica, il governo di Prodi, per mano dell’attuale segretario democratico Pier Luigi Bersani, cambiò la normativa, prevedendo che l’esenzione si potesse applicare solo agli immobili “con finalità non esclusivamente commerciali”. E proprio l’avverbio “esclusivamente” ha permesso alla Chiesa di usufruire dell’esenzione anche per strutture turistiche, alberghi o ospedali, purché all’interno avessero uno spazio dedicato al culto. Nel 2008, poi, col decreto che ha cancellato l’Ici per la prima casa, i privilegi sono stati confermati.
MA A QUANTO pare non è tutto. Come rivelato ieri da Il Sole24ore, la manovra non conterrebbe a sorpresa alcuna rivalutazione delle rendite catastali per gli immobili del clero. Ovvero gli unici stabili su cui viene pagata l’Ici dal Vaticano, non cambieranno stima. Questo significa che mentre per le abitazioni il moltiplicatore è passato di colpo da 100 a 160, per i negozi e le botteghe da 34 a 55 e per gli uffici da 50 a 80, sugli immobili di classe B (dai collegi alle scuole, dai seminari ai convitti) l’asticella è rimasta a 140. Quanti soldi andranno persi con quest’operazione non è stato ancora possibile calcolarlo. Mentre l’Anci, associazione dei Comuni italiani, ha stimato che l’esenzione vale 400 milioni.
Davanti alla necessità di fare cassa, anche i supercattolici sono diventati improvvisamente laici. Sono infatti del Pdl i due emendamenti che chiedono alla Chiesa di pagare l’Ici anche sulle parrocchie, gli oratori, gli edifici di culto o, in subordine, di riscuoterla almeno da coloro che affittano campi di calcio o sale per le feste di compleanno. I proponenti sono Maurizio Bianconi, Viviana Beccalossi, Monica Faenzi e Francesco Biava. L’emendamento, spiegano, “renderebbe la manovra più equa”. Dubbio che non hanno mai avuto quando erano al governo.

il Fatto 10.12.11
Non pagano in troppi, dalle fondazioni alle ambasciate
I luoghi di culto beneficiano di un accordo con lo Stato, tranne i musulmani per le moschee
di Sara Nicoli


I sindacati. Ma anche i partiti politici. E le ambasciate, i consolati. E poi i cinema, i teatri, le camere di commercio. Le altre “chiese”, quella Valdese, quella Evangelica, la Luterana, l’Ebraica e persino l’Assemblea di Dio. La moschea invece no. Quella paga. Perché i musulmani non hanno firmato alcuna convenzione con lo Stato e, dunque, mettono mano al portafoglio.
Scorrendo l’ultimo decreto legislativo che nel 2008 rivide l’elenco delle esenzioni dall’Ici, si scopre, con un certo raccapriccio, che la Chiesa rappresenta solo una parte (non piccola) del mare magnum di “renitenti all’Ici”. Ora, non si sa ancora come l’Imu uscirà modificato dalla commissione Bilancio della Camera e se davvero ci sarà – come s’immagina – una revisione della casta degli esenti. Ma di sicuro, vista l’aria che tira, non sarà più così semplice giustificare davanti all’opinione pubblica, la permanenza di privilegi che in tempo di crisi nera non possono più sussistere con tale, magnanime, serenità .
A tutt’oggi, l’Imposta comunale sugli immobili – una delle tasse più odiate dai cittadini, che Berlusconi ha abbonato solo alle prime case mettendo in grande difficoltà le casse dei Comuni – non viene applicata per molte categorie di immobili pubblici e privati. Sono infatti esonerati i terreni agricoli che ricadono in aree montane e collinari se utilizzati per interventi volti al riordino agrario e fondiario. E subito dopo gli enti “non commerciali o che svolgano attività non esclusivamente di carattere commerciale”. E si scopre così che esenti Ici sono, ad esempio, tutti quegli edifici di proprietà di Stati esteri e di organizzazioni internazionali (le ambasciate, i consolati, la Fao) ; le Fondazioni culturali e liriche, le Camere di commercio, e anche ospedali, università, scuole. La norma è piuttosto chiara, anche se si presta a interpretazioni diverse a seconda degli ambiti di applicazione. I musei, per esempio, non sono tenuti al pagamento dell’Ici a patto però che non vi si svolgano attività di natura commerciale come book shop, vendita di oggettistica, caffetterie o ristorazione. Oppure i cinema, ma non le classiche multi-sale. Piuttosto le sale cinematografiche della comunità ecclesiale o religiosa, i cinema d’essai e simili. E per i teatri l’esenzione viene riservata a chi si avvale di compagnie non professionali. Ma, soprattutto, i sindacati. Cgil, Cisl e Uil, solo per citare la “triplice” maggioritaria, sono proprietari di centinaia di immobili (ciascuno) in giro per l’Italia che non sempre sono in uso alle sezioni, ma come per la Chiesa cattolica, sono affittati a esercizi commerciali, banche, imprese private. E siccome i sindacati sono “enti non riconosciuti senza fini di lucro” (quindi non hanno l’obbligo di presentare neppure un bilancio) è praticamente impossibile per il catasto censire le reali proprietà da sottoporre a tassazione. Insomma, per niente facile anche cambiare registro.
C’è poi un altro aspetto della norma, quello che rende esenti dall’Ici tutti quegli edifici pubblici destinati a compiti istituzionali posseduti dallo Stato, da enti territoriali come Regioni, Comuni, consorzi tra enti pubblici, comunità montane, unità sanitarie locali. E ancora le Università e gli enti di ricerca, le aziende pubbliche di servizi alla persona (ex Ipab). E siamo in una sfera pubblica. Ma c’è anche quella privata. E qui scattano le fondazioni, comitati dediti ad attività socialmente utili; organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni di promozione sociale, sportive dilettantistiche e le fondazioni risultanti dalla trasformazione di enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate. Ultima perla della normativa: a non pagare l’Ici sono anche i separati e i divorziati che abitano nella ex casa coniugale e che, ovviamente, non risultano assegnatari dell’abitazione. Insomma, gira che ti rigira, si fa prima a dire chi lo paga che chi ha il privilegio dell’esenzione. Ma stavolta, con la crisi che morde, il governo dovrà prendersi la responsabilità di cambiare registro. Almeno su questo.

Repubblica 10.12.11
Parrocchie e sale biliardini tutti quelli che non pagano
di Ettore Livini


CHIESA ma non solo. L'ombrello della norma Taglia-Ici non ripara solo gli immobili (quelli ad uso «non esclusivamente commerciale») del Vaticano. Certo il mattone di Dio - 115mila case, 9mila scuole, 4mila tra ospedali e centri sanitari - fa la parte del leone. Ma la platea dei beneficiari dell'esenzione dall'imposta è molto più ampia. Non pagano tutte le altre confessioni religiose. Zero tasse per le associazioni non profit, le ong, le ambasciate, le Fondazioni liriche, i palazzi intestati a Stati esteri. Niente Ici nemmeno per edicole, cappelle nei cimiteri, musei e per le proprietà di Comuni, Province e Regioni utilizzate a fini istituzionali. LA LEGGE prevede l'esenzione per gli immobili di enti senza fine di lucro «destinati allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Come succede per il patrimonio della Santa Sede, però, anche qui esiste una ampia area grigia dove l'uso «non commerciale» dei beni è difficile da certificare. Ci sono ospedali controllati da pseudo-Onlus (e accreditati con il servizio sanitario nazionale) che fatturano centinaia di milioni. Fondazioni che affittano case e palazzi di lusso incassando fior di quattrini ogni anno senza dover pagare un centesimo di imposta. Circoli sportivi e dopo-lavoro trasformati in piccoli - e ricchissimi - villaggi Valtur del tutto esentasse. Ecco l'elenco degli "utilizzatori finali" più importanti della norma Taglia-Ici. E quello delle realtà sociali più vicine al mondo dell'assistenza sociale che in realtà - malgrado di solito si pensi il contrario - sono costretti a pagarla. Onlus Molte cause in tribunale per gli immobili affittati TUTTE le Onlus e le Ong sono esentate dal pagamento dell'Ici, almeno per gli edifici che usano come sedi proprie e non a fine di lucro. Non paga Emergency, non paga Medici senza frontiere, non paga l'Associazione per la ricerca sul cancro e la Lega per il filo d'oro. Chi invece dispone di un patrimonio di immobili messi a reddito (cioè affittati) è costretto - almeno in teoria - a onorare con il fisco il pagamento dell'imposta, anche se la materia è ancor oggi oggetto di confronto giuridico. Scuole Niente tassa agli istituti legati agli enti no profit UN ALTRO tema delicato è quello delle strutture sanitarie e scolastiche. Le cliniche private (convenzionate o meno con sistema sanitario nazionale) devono pagare l'Ici. Gli enti non commerciali convenzionati con la sanità pubblica - tra cui diverse istituzioni religiose o Onlus - invece no, almeno sui reparti ospedalieri mentre sul patrimonio immobiliare a reddito si paga tutto. Zero Ici anche per le scuole private che fanno capo a enti non a fine di lucro indipendentemente dal livello delle loro rette. Partiti Pagano tutta l'imposta sulle abitazioni ereditate I PARTITI politici non beneficiano di alcuna esenzione Ici. «Noi per la sede di Torre Argentina sborsiamo 2-3mila euro l'anno» mette i puntini sulle "i" Mario Staderini, segretario dei Radicali. Paga il Pd, pagano le fondazioni degli ex-Ds cui è stato dirottato il patrimonio di case (5.800 immobili) girato dai militanti. Fanno la loro parte- perché obbligati dalla legge - pure gli eredi della vecchia Democrazia Cristiana. Anche se durante i burrascosi anni di Tangentopoli e della diaspora della Balena bianca è svanita nel nulla una dote di qualche centinaio di edifici di pregio. Sindacati Patrimonio milionario non ricevono sconti I SINDACATI (come Confindustria) pagano l'Ici. Sia per le loro sedi istituzionali che per gli altri immobili destinati a reddito. Si tratta di un patrimonio importante. Solo la Cgil ha oltre 3mila tra uffici e delegazioni lungo tutta la Penisola. La Cisl ne ha addirittura 5mila. Il mattone nel portafoglio della Uil ha un valore stimato di circa 35 milioni. Un "tesoretto" accumulato grazie a lasciti, donazioni e investimenti nel corso degli annie cresciuto sullo zoccolo duro dei beni ereditati (esentasse) per legge dalle vecchie rappresentanze sindacali dell'era fascista.


l’Unità 10.12.11
I sindacati: basta falsità noi paghiamo l’Ici

«Gli Enti non commerciali , tra i quali rientrano anche le associazioni sindacali, sono chiamati a corrispondere l'imposta Ici». Lo precisa il segretario confederale della Cisl, Piero Ragazzini. «Una bugia detta una volta, non può trasformarsi in mille bugie. Il sindacato ha sempre pagato regolarmente l'Ici. Nelle esenzioni non rientrano le associazioni sindacali trovando conferma in molteplici sentenze della Cassazione».

l’Unità 10.12.11
Bersani, simpatia per lo sciopero
«Migliorare le misure»
Il Pd: la nostra battaglia in Parlamento per cambiare il testo Si riapre il dibattito sulle alleanze. Maran, dell’area Modem chiede il congresso anticipato: «Con Monti è tutto cambiato»
di Maria Zegarelli


Un atteggiamento di simpatia verso l’iniziativa dei sindacati di lunedì prossimo». Questa la posizione del segretario Pd Pier Luigi Bersani anche alla luce delle polemiche che stanno attraversando il partito rispetto all’atteggiamento da avere nei confronti dello sciopero generale unitario di Cgil, Cisl e Uil. Se Enrico Letta, Beppe Fioroni, Francesco Boccia ma anche Franco Marini e Massimo D’Alema ritengono che in questo momento il Pd si debba concentrare per migliorare la manovra in Parlamento. Per molti sarebbe come tenere il piede in due scarpe: votare la manovra e protestare con i sindacati in piazza. Bersani cerca la sintesi: «Di fronte all’unità dei sindacati è il suo ragionamento e alla piattaforma dello sciopero che va più o meno nella direzione auspicata anche dal Pd su pensioni, ici e indicizzazione, il nostro non può che essere un atteggiamento di simpatia, anche perché qui nessuno chiede di stravolgere la manovra ma di migliorarla».
Posizione che, è di facile previsione, troverà più di qualcuno in disaccordo, soprattutto tra chi in questi ultimi giorni è tornato a prendere le distanze da quei dirigenti come Stefano Fassina e Cesare Damiano che hanno annunciato di andare al presidio del sindacati. «Non possiamo essere il partito di lotta e di governo», le argomentazioni di quanti, come Letta, vorrebbero lasciarsi «alle spalle, e definitivamente, il ricordo dei ministri e dei sottosegretari militanti che partecipavano alle manifestazioni organizzate contro quel governo Prodi di cui essi stessi facevano parte».
Ma non è solo lo sciopero ad agitare il partito. Sono ben altri i movimenti che in questi giorni si registrano tra i democrat.
Alessandro Maran, vicecapogruppo alla Camera, area Modem ma già iscritto al partito dei «montiani», parla apertamente di eventuale scissione se non si arriva ad una definizione della linea politica e chiede un congresso anticipato. Il governo ha cambiato la geografia politica, argomenta, «e non prenderne atto, per i vertici del Pd, sarebbe un errore molto grave». Come? «Con un congresso anticipato», altrimenti, «potrebbe accadere qualcosa. Persino una scissione».
Enrico Morando parla «di due modi diversi di relazionarsi» dentro il Pd rispetto al governo Monti: chi non vuole allontanarsi dalla linea uscita dal congresso e chi vorrebbe cogliere l’occasione «per diventare quel genere di partito riformista che noi tutti abbiamo sempre sognato». Beppe Fioroni lancia, invece, una doppia provocazione. La prima alla sua stessa corrente, «I modem diceormai sono diventati una categoria filosofica», poi al partito stesso: ma non è che si sta andando verso una grande coalizione alle prossime elezioni con il tripartito che oggi appoggia Monti? «Quando anche Franceschini apre al proporzionale per la nuova legge elettorale è evidente che si pensa ad altro.
«In quel caso sarebbe bene dirlo», aggiunge, spiegando che secondo lui il Pd dovrebbe archiviare Vasto e lavorare ad una coalizione con il terzo Polo. Ma a parlare apertamente di grande coalizione e del progetto a cui si lavora per costruire un grande partito di centro con pezzi di Pd e Pdl è Rocco Buttiglione: «Solo se ci fosse ancora Monti in campo si potrebbe pensare di andarealvotoconilPdl,ilPdeilTerzo Polo insieme. Casini, invece, potrebbe essere il leader di una coalizione che nasca dopo il voto». E aggiunge: «Non c’è nessun progetto di grande partito cattolico: esiste l’idea di costituire un partito laico di ispirazione cristiana formato da parte del Pd, noi e una parte o di tutto del Pdl».

Corriere della Sera 10.12.11
«Cento giornali a rischio» Lettera di otto direttori


MILANO — «Signor presidente, come Lei certamente sa la manovra che il Suo governo ha predisposto rischia di assestare un colpo mortale a un centinaio di giornali che attualmente usufruiscono dei contributi diretti all'editoria». Inizia così la lettera collettiva a Mario Monti dei direttori di Liberazione, l'Unità, Europa, Avvenire, il manifesto, Secolo d'Italia, Il Riformista e del presidente della Fisc, i settimanali diocesani, che campeggia sulle prime pagine di quei giornali impegnati in una corsa contro il tempo perché venga scongiurata la crisi occupazionale che una eventuale conferma dei tagli innescherebbe, con un aggravio dei conti pubblici superiore ai presunti risparmi ottenuti con quella voce della manovra. Gli otto direttori e il presidente della stampa settimanale cattolica (oltre un milione di lettori e un radicamento importante sui territori) chiedono da tempo la riforma strutturale del settore che anche il nuovo governo ha annunciato ma, avvertono, «se i tempi di questo auspicabile intervento di riordino dovessero risultare lunghi, e si procedesse nel frattempo con i tagli di risorse previsti, la riforma arriverebbe a situazione ormai compromessa, quando i giornali in questione avranno gioco forza cessato di esistere».

l’Unità 10.12.11
Pressing sul governo: editoria, cambiare l’art.29
Si mobilitano Fnsi e direttori dei giornali di idee, di partito e di cooperative: «Senza immediati correttivi oltre 100 testate chiuderanno sicuramente»
Il sottosegretario Malinconico: saremo attenti a salvaguardare il pluralismo
di Roberto Monteforte


È una certezza la chiusura immediata di oltre cento testate della stampa di partito, cooperativa e di idee con «riflessi gravissimi sul pluralismo dell’informazione e sulla stessa democrazia». Questo sarà l’effetto, senza immediati correttivi, della «manovra» del governo Monti che taglia ulteriormente i già scarsi e incerti «finanziamenti diretti» destinati all’editoria no profit. Lo denunciano con drammatica chiarezza i direttori delle testate coinvolte: Claudio Sardo de l’Unità, Stefano Menichini di Europa, Marco Tarquinio di Avvenire, quello della Padania, Leonardo Boriani, di Liberazione Dino Greco, quindi Norma Rangeri de il Manifesto, Marcello De Angelis del Secolo d’Italia, Emanuele Macaluso direttore de Il Riformista e il presidente della Fisc ( la federazione dei settimanali diocesani), Francesco Zanotti. Si muove lo schieramento trasversale che nei mesi scorsi nella battaglia per la difesa del pluralismo delle voci politiche e culturali nel rigore, nella «bonifica» del settore dalle false testate a favore dei giornali «veri», ha ottenuto l’autorevole appoggio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Questa volta scrivono al presidente del Consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani e ai segretari dei partiti presenti in Parlamento Alfano (Pdl), Pier Luigi Bersani (Pd) Lorenzo Cesa (Udc) Italo Bocchino (vicepresidente Fli), Antonio Di Pietro (Idv) e Umberto Bossi,(Lega Nord). I tempi sono strettissimi. Alla Camera si lavora agli ementamenti alla «manovra Salva Italia». I direttori dei giornali chiedono verà equità e sviluppo. Per questo auspicano una vera «bonifica» del settore, ma al tempo stesso che siano stanziate risorse adeguate a quel Fondo per l’Editoria che il comma 3 dell’articolo 29 della «manovra» vorrebbe, invece, cancellare a partire dal 2013. E che siano stanziate subito, perché questo settore, già in crisi,non può attendere oltre.
Al presidente Monti fanno presente una ragione in più, economica, oltre a quella della tutela del pluralismo, per correggere la manovra. I costi sociali che peserebbero sullo Stato per le «molte centinaia di posti di lavoro» tra giornalisti e poligrafici che andrebbero persi. Sarebbe «un volume di spesa persino superiore a quello che sarebbe necessario per reintegrare il Fondo per l’editoria». Chiedono un incontro urgente. Lo chiedono anche ai presidenti delle due Camere, ricordando loro l’appello rivolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano al precedente governo affinché venisse «scongiurato il rischio imminente della cessazione di attività per centinaia di testate, messe a repentaglio dal drastico abbattimento del Fondo per lì’editoria». Un appello ancora drammaticamente attualissimo.
Si confida in un rapido cambio di passo. Alla commissione Bilancio della Camera sono stati presentati emendamenti «trasversali». I deputati del Pd e della Lega Nord chiedono che sia mantenuto il Fondo. Che sia adeguatamente finanziato. Si avanzano proposte precise: l’utilizzo dei ricavi da una vera asta sulle frequenze del digitale terrestre. Che sul Fondo per l’editoria non pesino più quei 50 milioni di euro che lo Stato deve all’Ente Poste. Di aumentare dello 0,50 sul fatturato il costo delle concessioni per le emittenti nazionali. Le risorse possono essere trovate.
Che per il governo il Fondo debba essere mantenuto lo ha chiarito ad una delagazione della Fnsi il neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per l’Editoria, Carlo Malinconico. Al segretario di Federstampa Franco Siddi, al presidente Roberto Natale e al direttore generale Giancarlo Tartaglia, il sottosegretario ha assicurato che l’azione dell’esecutivo «sarà attenta alle preoccupazioni sulla salvaguardia del pluralismo» espresse dal capo dello Stato. Che presterà la massima attenzione alla tutela dell’occupazione in questo comparto dell’editoria. Malinconico è tornato a chiarire che con il comma 3 dell’articolo 29 della manovra non si intende abolire dal 2014 il Fondo per l’editoria, ma modificarne le logiche.
Quell’articolo, però, al momento resta, come pure le preoccupazioni per gli effetti devastanti per il settore. Contro questa parte della «manovra» e per l’equità lunedì 12 dicembre sciopereranno e in modo unitario i poligrafici aderenti a Cgil, Cisl e Uil. La Fnsi ieri ha espresso «grande vicinanza» ai lavoratori poligrafici. Ha invitato i giornalisti ad essere loro concretamente solidali al loro sciopero, quindi «ad attenersi scrupolosamente alle regole contrattuali» evitando «commistione di funzioni e rifiutando qualsiasi prestazione che non abbia esclusivo carattere giornalistico».

l’Unità 10.12.11
Russia. Il governo schiera cingolati e un reggimento speciale ceceno
I cortei. Oggi in 40mila nella capitale. Manifestazioni in altre 80 città
Carri armati a Mosca Ma la piazza si prepara alla sfida decisiva
Cresce la tensione nella capitale russa: ci saranno più di 40 mila persone oggi in piazza contro Putin. Le autorità rispondono facendo la faccia dura: per le strade cingolati e reparti speciali.
di Emidio Russo


Sarà un sabato di fuoco, qui a Mosca. Da una parte i carri armati ed un battaglione di soldati direttamente dalla Cecenia. Dall’altra la più grande manifestazione di piazza mai vista nella capitale russa in almeno dieci anni a questa parte. Secondo le previsioni degli organizzatori e in base al numero indicato sull’autorizzazione municipale saranno in 30 mila, forse 40 mila, su piazza Bolotnaya (della Palude) per protestare contro lo «zar» Putin e l’esito delle elezioni, che anche secondo l’Osce sono state caratterizzate da brogli e violazioni. Non solo Mosca e San Pietroburgo: in 80 città scenderanno in piazza politici di professione e nuovi «dissidenti»: attivisti civili, blogger, intellettuali, artisti, studenti e classe media.
MEZZI BLINDATI
Quindi nella capitale si preannuncia un tranquillo week-end di paura. «I mezzi blindati che si sono visti fanno parte di una forza militare interna» dice Ilya Ponomarev, deputato di Russia Giusta, che ieri ha tenuto una conferenza stampa assieme ad altri esponenti dell’opposizione. «Sono da lunedì a Mosca e sì, vi rimarranno fino alla decisione definitiva sul risultato delle elezioni legislative di domenica scorsa». Si parla anche dell’arrivo del noto “reggimento ceceno” e il leader dell’opposizione conferma: «Sì, è già qui. Non è esercito, ma è una polizia speciale usata in particolare in Cecenia. Agenti più duri e spicci». Un corpo che nella repubblica caucasica «risponde direttamente al presidente ceceno Ramzan Kadirov».
Ma anche nell’opposizione, che si autoconvocata per oggi a Mosca con il tam-tam in rete e sui social network, c’è il rischio di una spaccatura: il «dove scendere in piazza» è stato il tema del contendere tra la fronda più oltranzista capeggiata da Eduard Limonov che non vuole rinunciare al primo luogo scelto, Piazza della Rivoluzione, sotto le mura del Cremlino e la fazione che unisce Ponomarev e Sergey Udaltzov, esponente di Altra Russia, più possibilista e disponibile a un compromesso. E ancora Boris Nemtsov, ex vice premier con Boris Eltsin, tra i fondatori del movimento Solidarnost’, che ha mercanteggiato con le autorità un maggior numero di manifestanti in cambio di un posto decisamente meno felice. Ossia proprio Bolotnaya ploshad, che ai tempi degli zar era il luogo dove venivano eseguite le impiccagioni. Anche a San Pietroburgo il permesso è stato accordato con un cambio di sito. Non più Piazza Vosstanja, ma la meno centrale Piazza dei Pionieri.
Nel frattempo, il potere non se ne sta con le mani in mano, tra provocazioni e aspetti anche surreali. La Novaya Gazeta lancia l’allarme su gruppi organizzati di provocatori pronti a disturbare la protesta: 200 rubli l’ora a chi griderà il nome di Putin in faccia agli oppositori, provocando risse e ingorghi. «La polizia bloccherà ogni tentativo di organizzare eventi non autorizzati», ammonisce il ministro dell’interno Rashid Nurgaliev, mentre il capo dei servizi sanitari russi invita a «non andare alla manifestazione, si rischia un’epidemia di influenza» sulla base delle previsioni meteo. Nei licei della capitale, un improvviso «esame di russo obbligatorio» è stato annunciato per oggi pomeriggio, giusto all’ora della protesta, il cui simbolo è un nastro bianco.
Quello con cui il Cremlino deve fare i conti è la rinascita di una società civile che non ha più nessuna intenzione di tacere. Dopo che la Commissione centrale elettorale ha ufficializzato la vittoria del partito di governo Russia Unita, la rabbia di molti è palpabile. È spuntata persino una vignetta con Putin travestito da Gheddafi che si guarda allo specchio: «Speriamo che con questa parrucca non mi riconosca nessuno», dice l’ex uomo del Kgb, determinato a tornare al Cremlino con le presidenziali 2012. Il solito Ponomarev oppone al premier addirittura un ultimatum: «Noi gli offriamo due settimane per darci ascolto e adempiere alle nostre richieste», ha detto il deputato di Russia Giusta. Ponomarev, classe 1975, è uno dei più giovani rappresentanti dell’opposizione, ma con un passato politico significativo, visto il suo recente abbandono del Partito comunista, che lui accusa di essere totalmente controllato dal Cremlino. «Se entro il 24 dicembre non avremo risposte, andremo avanti» dice il deputato, accusato da Putin di essere “al soldo” degli Usa.
Nonostante i proclami, le invettive di marca sovietica contro Washington e le prove muscolari, sono ore difficile per il potere russo. Ieri lo schiaffo al Cremlino è arrivato nientemeno che da due consigliere del presidente Dmitri Medvedev sui diritti umani: in polemica contro le frodi nel voto e la repressione delle manifestazioni di protesta, Svetlana Sorokina e Irina Iasina hanno lasciato il Consiglio della Presidenza russa sulle istituzioni della società civile e i diritti umani.

il fatto 10.12.11
La primavera (blindata) di Mosca
Truppe speciali e carri armati per la manifestazione dell’opposizione
di Francesca Mereu


Mosca Centinaia di agenti delle forze speciali Omon in assetto antisommossa e di poliziotti pattugliano le strade della capitale aiutati dai giovani di Nasha Armya, il braccio armato del gruppo giovanile del Cremlino Nashi. Nella periferia della città sono stazionati decine di mezzi militari pieni di soldati, mentre si confermano le voci che almeno sei carri armati sono arrivati alle porte di Mosca (uno di loro è stato persino coinvolto in un incidente stradale). Sul tetto del tetro edificio della Lubyanka, la sede dell’Fsb (l’erede del Kgb sovietico) sono stati avvistati invece diversi elicotteri.
COSÌ IL REGIME del premier Vladimir Putin si prepara ad accogliere la manifestazione di protesta di oggi, la quarta in meno di una settimana e quella che si prospetta essere la più grande degli ultimi dieci anni. In piazza sono attese più di 60mila persone che chiedono al Cremlino di annullare il voto fraudolento del 4 dicembre che ha visto il partito di Putin Russia Unita vincere con quasi il 50% del voto nonostante il forte calo di consensi.
“Vogliamo nuove elezioni, vogliamo che quelli che hanno organizzato i brogli siano puniti e il rilascio immediato delle persone arrestate nelle manifestazioni precendenti”, spiega a Radio Kommersant Yevgeniya Chirikova, uno degli organizzatori della protesta, la leader di un movimento ecologista che lotta per salvare il bosco di un sobborgo di Mosca.
Circa mille persone sono ancora in carcere dopo le manifestazioni degli scorsi giorni, tra questi i leader delle prime proteste il noto blogger Aleksei Navalny, che ha coniato la famosissima frase “partito dei ladri e dei farabutti”, diventata sinonimo di Russia Unita, e Ilya Yashin uno dei leader del movimento Solidarnost.
La manifestazione di oggi avrebbe dovuto svolgersi in Piazza Rivoluzione a due passi dal Cremlino, dove le autorità avevano dato però l’autorizzazione per un massimo di 300 persone. Alcuni degli organizzatori sono riusciti a raggiungere un compromesso e la manifestazione - che inizierà alle 14 ora di Mosca - è stata spostata in Piazza Bolotnaya, luogo più adatto, secondo le autorità cittadine, a contenere la folla di oggi.
A CONCORDARE il trasferimento è stato l’ex vice premier Boris Nemtsov, uno dei fondatori del movimento Solidarnost e l’ex deputato indipendente Vladimir Ryzhkov. Iniziativa ha però infastidito molti degli organizzatori che non volevano scendere a patti con il potere e dicevano che bisognava manifestare a tutti i costi in Piazza Rivoluzione. Verso sera ieri sono riusciti a raggiungere un accordo e oggi manifesteranno tutti in Piazza Bolotnaya. Per quelli ignari del cambiamento geografico in Piazza Rivoluzione ad attenderli ci saranno degli organizzatori che li guideranno poi nella piazza giusta.
Si prevedono numerose provocazioni da parte delle autorità. Secondo Radio Kommersant FM molti giovani sarebbero stati ingaggiati per spingere i manifestanti verso gli Omon e per provocare liti.
Il Cremlino cerca intanto di oscurare qualsiasi notizia sulle proteste. Su Twitter sono nati migliaia di account falsi che hanno postato informazioni fasulle. Mentre l’Fsb ha chiesto a VKontakte, la versione russa di Facebook, di bloccare tutte le discussioni tra gli attivisti.
LA REDAZIONE del giornale d’opposizione Novaya Gazeta e la sede del partito socialdemocratico Yabloko hanno subito invece attacchi telefonici. Una voce femminile registrata li ha chiamati per ore giovedì per dirgli: “Putin è buono. Putin ti ama. Putin rende felice la tua vita. ecc. ecc. ” Restii a partecipare alle manifestazioni rimangono i partiti della cosiddetta sistemnaya oppositsia, o l’opposizione di sistema, quella vicina al regime che non alza mai troppo la voce. Alcuni membri del partito Altra Russia hanno annunciato che vi parteciperanno come privati cittadini, ma ancora non è chiara la posizione del Partito Comunista e del nazionalista Partito liberaldemocratico.
Dimostrazioni contro il potere si terranno in più di 75 città russe e in decine di capitali occidentali.
Se le autorità moscovite hanno cercato di ostacolare la manifestazione di oggi, i nazionalisti hanno ottenuto facilmente il permesso di sfilare domani a due passi dal Cremlino per ricordare l’anniversario della morte di uno di loro.

il Fatto 10.12.11
Cina. Le proteste degli operai
Un miliardo di indignati
di Simone Pieranni


Pechino Chi ancora pensa ai cinesi come una popolazione di oltre un miliardo di sudditi probabilmente si sbaglia. Sotto la coltre ufficiale imposta dalla severità del Partito si agitano molti fenomeni sociali. E mentre tutti aspettano una reazione dalla classe media, stretta tra inflazione e prezzi delle case alle stelle, ecco spuntare gli operai. Ogni giorno un nuovo sciopero, una mobilitazione: vecchie e nuove generazioni di lavoratori cinesi che si incontrano sul terreno di spontanee rivendicazioni, salariali e di sicurezza sociale.
Il centro delle proteste è il Guangdong, polmone economico della Cina, che da solo costituisce un quarto delle esportazioni del paese e che da sempre costituisce il modello economico liberale, in contrasto con quello più statale di Chongqing. Non a caso i leader del Partito nelle due zone sono dati come prossimi membri del Politburo e come duellanti sul futuro modello di sviluppo cinese.
LA CINA, PERÒ, rallenta anche a causa della crisi economica europea e statunitense e a farne le spese sono gli operai. Nonostante gli aumenti previsti ad inizio d'anno per quanto riguarda i salari minimi, le condizioni sono ancora proibitive. Con l'inflazione che avanza, 200 euro di stipendio medio al mese non bastano più. Perché sono stati alzati i salari minimi, ma ai primi sintomi di crisi le aziende hanno chiuso i rubinetti degli straordinari, vera e proprie fonte di quel surplus vitale per la classe operaia cinese. In mezzo infatti, ci sono le aziende, in crisi di credito per la stretta ai prestiti bancari attuata dal governo per placare l'inflazione e la paventata possibilità di nuove tasse governative. Alcuni falliscono, altri provano a spostarsi per cercare manodopera a prezzi ancora più bassi. In alcuni casi, come la recente protesta presso uno stabilimento che produce per Hitachi, a Shenzhen, gli operai hanno denunciato una riduzione dei salari mensili da 4mila a 3mila rmb (poco più di 300 euro). Trasporti, elettronica, sanità sono tanti i settori all'interno dei quali si sono sviluppate lotte e scioperi. Per lo più sui media cinesi si accenna agli scioperi nelle aziende straniere: Pepsi, Hitachi, Hi-P, la singaporeana che produce per Apple e Motorola, ma secondo un attivista del lavoro in Cina, raggiunto telefonicamente e appartenente ad una ong di Hong Kong, “la maggior parte delle manifestazioni sono avvenute all'interno di aziende straniere, ma sappiamo per certo di proteste anche in fabbriche cinesi private e dello stato che riguardano principalmente i settori dei trasporti e della sanità”.
INTERESSANTE anche la composizione sociale di chi protesta: “I più giovani sono in prima linea nella protesta, ma ci sono anche anziani coinvolti, concentrati su temi di sicurezza sociale e compensazioni”. Due generazioni a confronto, con i più giovani che ormai utilizzano gli strumenti dei social network on line, per creare forme spontanee di lotta, focalizzata su rivendicazioni per lo più di carattere salariale: “Per lo più – spiega l'attivista - vengono chiesti aumenti salariali, ma ci sono anche dispute sugli straordinari, i pagamenti dei contributi, bonus e richieste di migliori condizioni di lavoro. Oltre a richieste di trattamenti migliori da parte dei manager delle aziende. Il fatto principale riguarda in ogni caso i salari che in molti casi sono stati ridotti a causa della riduzione del pagamento degli straordinari”.
Alla Hitachi ad esempio, i lavoratori, per lo più donne, avevano interrotto le trattative con la dirigenza al grido di “dovete darci il denaro” e cercando forme autonome di organizzazione: i sindacati ufficiali, infatti, sono completamente assenti nelle dinamiche di lotta: “Le azioni di sciopero non sono state organizzate dai sindacati ufficiali, ma sono nati per lo più in modo spontaneo, con un largo utilizzo anche di strumenti on line. I sindacati ufficiali non supporteranno mai gli scioperi, presi come sono per cercare una mediazione costante con le proprietà”.

Repubblica 10.12.11
Un filo spinato tra Egitto e Israele ecco il Muro che ferisce il Sinai
Dopo la caduta di Mubarak lo Stato ebraico blinda il deserto
di Fabio Scuto


EILAT - Percorre il deserto come una cicatrice mal rimarginata seguendone l'andatura di dossie dune, le parti in acciaio riverberano la luce del sole del Sinai che in alcuni momenti si fa accecante. Questa lunga striscia di cemento e metallo è il nuovo Muro che si sta costruendo lungo tutta la frontiera con l'Egitto. Perché questi duecentoquaranta chilometri di deserto - da Gaza sul Mediterraneo fino a Eilat sul Mar Rosso - sono l'incubo strategico per Israele. Una frontiera di sabbia vasta e ampia, quasi impossibile da controllare, percorsa da bande di beduini dediti a ogni tipo di contrabbando, da trafficanti d'armi e di uomini, da terroristi arabi. Il premier Benjamin Netanyahu approvò due anni fa il progetto del Muro nel tentativo di contenere l'immigrazione clandestina di sudanesi ed eritrei che attraverso l'Egitto entrano in Israele, ma la caduta del regime di Hosni Mubarak e la conseguente perdita di controllo del Sinai hanno fatto scattare l'allarme. L'attacco di diversi gruppi di terroristi lo scorso 18 agosto - con otto israeliani uccisi lungo la Highway 12 che corre lungo il confine - è stato poi l'atto decisivo per dare al Muro del Sinai una urgenza «di carattere nazionale e strategico». Per questo la costruzione viaggia a ritmi sostenuti, decine di ruspe e caterpillar sono al lavoro in 50 cantieri che corrono lungo il confine.
La parte in cemento del Muro è alta più di sei-sette metri e alla sua sommità altre barriere d'acciaio e reticolati. Solo quest'anno è stato consumato in questi lavori il 15% di tutto l'acciaio usato in Israele. I primi 100 chilometri saranno pronti in gennaioe l'intera struttura verrà completata entro il 2012.
L'ondata di immigrati clandestini provenienti dall'Africa, soltanto nel 2010 sono passati attraverso queste dune oltre 13.500 immigrati clandestini, è una vera emergenza per Israele perché nonostante la rigida politica di espulsioni il flusso è inarrestabile. Ma le priorità strategiche cambiano.
Questo confine un tempo era considerato il più sicuro, garantito dal trattato di pace di Camp David che regge da più di trent'anni, ma adesso i pericoli maggiori momento vengono da qui. Dopo il crollo del raìs lo scorso febbraio, le bande beduine - già molto attive prima - hanno guadagnato spazio mentre l'esercito egiziano ha via via perso il controllo della Penisola. Solo il gasdotto egiziano che rifornisce Israele ha subito nove attentati in dieci mesi, diversii tentativi di infiltrazione di gruppi terroristi. Il maresciallo Mohammed Tantawi che guida ora la giunta militare egiziana ha altri seri problemi interni da affrontare. L'attacco in grande stile di questa estate, poi, ha dimostrato che se questo confine non viene "sigillato", Israele dovrà prepararsi ad affrontare nuovi attacchi contro Eilat - la località balneare più frequentata in Israele - perché il Sinai è la base per infiltrare terroristi palestinesi. Il cuore del problema nel difendere il confine israeliano con l'Egitto è la vastità della regione desertica, che non può essere coperfoto="REP/NZ/images/NZ21foto0. jpg" xy="" croprect="" ta con un fitto dispiegamento dell'esercito. Il Muro, con i suoi radar, i suoi sensori farà questa parte. Ma il Sinai è un lungo fronte caldo. Un deserto estremo, ostile, dove solo i beduini riescono a sopravvivere muovendosi fra piccole oasi su piste millenarie fra la sabbia. Sono loro il nuovo nemico. Quattordici fra clan e tribù beduine si muovono tra queste dune sulle rotte carovaniere che ora percorrono sulle jeep e sui camion. Portano droga, clandestini, terroristi e armi, sono i signori del contrabbando di ogni merce. Il Sinai egiziano è terra di nessuno. Difficile anche per l'intelligence israeliana cercare di contrastare il fenomeno per capire da dove arriverà il prossimo colpo. I beduini non si muovono più in piccoli gruppi ma in bande ben organizzate, alcune hanno ricevuto aiuto e sostegno da Gaza - con cui hanno intensi rapporti per il contrabbando con i tunnel sotto il confine della Striscia - altre hanno legami diretti con gruppi della Jihad globale. L'alto livello dell'attacco dello scorso agosto ha rivelato capacità operative di questi gruppi. Il Muro nel tratto dove c'è stata la battaglia in agosto, è già stato completato ma mancano ancora 160 chilometri da portare a termine, "l'opera" però avanza rapidamente, quasi 800 metri al giorno.
Intanto palloni aerostatici armati di telecamere e sensori sono stati sparsi lungo tutto il confine, a loro per il momento il compito di segnalare arrivi pericolosi dall'altra parte e lanciare l'allarme ai comandi operativi israeliani lungo questa frontiera. La Barriera non include Eilat, la città israeliana sul Mar Rosso incuneata fra il confine egiziano e quello giordano, meta di turisti e vacanzieri ma anche teatro di attentati e attacchi terroristici negli anni passati. Un'altra speciale "cortina d'acciaio e di cemento" lunga tredici chilometri isolerà come una fortezza la città, con i suoi grandi alberghi, il piccolo aeroporto, i suoi centri commerciali, le spiagge. Sarà come andare in vacanza a Fort Apache.

Corriere della Sera 10.12.11
Vesta, la dea nemica del familismo
Vergine madre di Roma, custode del focolare domestico e della cosa pubblica
di Andrea Carandini


Il legame segreto tra noi e gli antichi
Pubblichiamo l'intervento che l'archeologo Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, terrà lunedì alle 21 al Palazzo Ducale di Genova, nell'ambito del ciclo di incontri pubblici «Noi e gli antichi», a cura della Fondazione Edoardo Garrone, del Comune di Genova e della casa editrice Laterza. Questi i prossimi relatori degli incontri: Eva Cantarella il 19 dicembre; Andrea Giardina il 9 gennaio; Giovanni Filoramo il 16 gennaio; Massimo Montanari il 23 gennaio; Maurizio Bettini il 30 gennaio; Giuseppe Cambiano il 6 febbraio; Luciano Canfora il 13 febbraio.

L'arcano dell'impero di Roma è nell'invenzione della «cosa pubblica», tanto forte da aver durato per 1.150 anni e aver improntato di sé la civiltà in Occidente. L'essenza di questa res publica fu una casta diva: Vesta, forgiata intorno al 750 a.C., su misura della città-Stato appena nata. Vesta era il fuoco pubblico di Roma, né ebbe immagine antropomorfa prima del I secolo a.C. Pensiamo che civitates e poleis si siano formate nel corso di secoli, mentre invece sono state «fondate» in un certo giorno. Sono state, in primo luogo, invenzioni teologiche e cerimoniali. Vi è somiglianza tra i fondatori di città e i fondatori di religioni: sovente eroi, figli di vergini fecondate da un dio, come Romolo e Cristo.
Per capire Vesta bisogna conoscerne il passato latino, anteriore alla città. Ma risalire così in alto è difficile, perché i Romani hanno cancellato i miti della dea, perché apparisse vergine senza trascorsi. Ma Vesta un passato lo aveva avuto, e sorprendente. Lo rivela il mito di Rhea Silvia, principessa di Alba Longa devota di Vesta — sua immagine riflessa — fecondata da Marte e genitrice di Remo e Romolo. La dea era dunque una «vergine madre», come Silvia e Maria. Anche le sacerdotesse di Vesta, le vestali, conservavano tracce della natura ambigua della dea. Somigliavano a vergini figlie, eppure anche a spose, di cui indossavano la veste, salvo il bianco velo e il diadema che segnalavano lo stato sacerdotale. I Romani hanno voluto adattare la Vesta pre-civica al loro progetto di città e mentre la plasmavano hanno concepito un'idea del pubblico che a noi pare più essenziale e radicale delle invenzioni cittadine dei Greci.
Infatti Vesta romana fu esclusivamente pubblica — sottratta ai fuochi privati — e le vestali erano costrette alla purezza per una generazione. Esclusivamente statale mai era stata la dea greca del focolare Hestia, né alcuna sacerdotessa greca ha conosciuto alla condizione simbolicamente vertiginosa delle vestali.
In origine Vesta presiedeva ai fuochi di famiglie, gentes, regie casate e anche di villaggi e rioni. Le fiamme ardevano allora nelle capanne accanto alla fossa-dispensa (penus) delle granaglie, che su quelle braci venivano cotte. Ma a Roma Vesta fu distolta da quei fuochi particolari e locali, come rapita dalla città, monopolizzata dallo Stato e relegata nel sua capanna (aedes), dove nessuno abitava o cucinava, e nel cui penus era non farro ma un talismano: il fascinus, cioè un fallo, segno di altri tempi. Le vestali abitavano in una loro capanna, davanti all'aedes, dove cucinavano e tenevano nel penus le provviste. Erano figure stravaganti, immagini viventi della dea. Dovevano preservarsi immacolate, impenetrate come le mura sante della città, e dovevano tenere il fuoco acceso durante l'anno nell'aedes, riaccendendolo ritualmente a capodanno. Se il fuoco si spegneva era una calamità grave. Rivelava che una vestale era stata violata: mostruosità da annientare, seppellendola viva.
Vesta era stata rapita ai fuochi particolari, come le vestali erano state bambine sottratte dal re alle famiglie, per divenire essenza divina esclusiva dello Stato, segno apicale della cosa pubblica. Essendo di nessuno, le vestali erano di tutti. Mai come a Roma lo Stato fu altro da un aggregato di famiglie: una entità centrale e gerarchizzata, sovraordinata rispetto rioni e parentele.
Quando i Greci fondavano una colonia, un «piroforo» recava in un vaso le braci della madrepatria con cui veniva acceso il fuoco nella città figlia, che da quel seme bruciante traeva vita. A Roma le cerimonie di fondazione furono due. Prima Romolo fondò l'epicentro dell'abitato sul Palatino, seguendo riti latini ed etruschi: era un 21 aprile, primitivo capodanno pastorale. Poi, durante il regno con Tito Tazio, egli fondò il centro sacrale e politico nel Foro-Arce: era un primo marzo, capodanno dei primi Romani. Il Foro era stato progettato tra due culti del fuoco. Accanto al fuoco domestico di Vesta risiedevano re e sacerdoti, in un fulcro di sovranità sacrale: al lucus Vestae. Accanto al fuoco bellico di Vulcano il re agiva con consiglieri e cittadini in assemblea, nel fulcro della politica, al Volcanal-Comitium. Fu allora che Vesta assunse il carattere pubblico della greca Hestia. Questa idea straordinaria era giunta forse da Cuma, per cui la fondazione della città era consistita in riti latini, etruschi e greci. Roma interiorizzò il cosmo, fin da principio.
Vesta nel Foro era sola, separata ormai da Vulcano e Marte e lontana dalle ragazze in ritiro prematrimoniale a lei devote, che con quegli dei si erano unite — pronuba la dea — per generare fondatori di città, come Ceculo, Romolo, Servio Tullio. Ora la casta diva era servita da sacerdotesse che, se violate, venivano sacrificate per preservare la salute della città. Quale differenza con la multiforme versatilità della dea originaria, con le sacre unioni che generavano eroi. Eppure qualcosa permaneva di quell'ardore originario, fatto di sovranità, purezza, fecondità, capacità difensiva ed energia nutritiva tesaurizzata.
Vigeva allora in Roma un'austerità puritana, che dell'imbarazzante passato pre-civico conservò traccia incongrua nel fascinus. La trasformazione servì a generare, nel coacervo di fazioni in lotta, il dispositivo della cosa pubblica. Mai era stato inventato un più perfetto correttivo pacificatore. Stava nella sublimazione del particolare nel generale, in un'essenza di virtù civica che rimane immortale: lezione anche per gli italiani che ristagnano ancora nel familismo amorale. Vesta e le vestali non erano di famiglia alcuna, tutt'uno col popolo romano. Vesta è dunque un'invenzione teologica artificiale, razionale. Il suo santuario e il Foro erano in un distretto esterno all'abitato e neutrale, per poter essere riconosciuto da tutti, come il Columbia District, in cui è Washington. I re di Roma furono stranieri per essere accettati dai contendenti locali — oggi diremmo tecnici super partes — e Vesta fu resa straniera a se stessa, per essere la vergine delle vergini, la sposa delle spose e perfino lo sposo degli sposi... Infatti le vestali furono le uniche donne di Roma ad avere i diritti civici dei maschi, compreso quello di sacrificare. Insomma, Vesta era onnipotente, come la Giunone di Lanuvio. Sembra contraddittoria, perché era ad un tempo polifunzionale e olistica. Nella sua sacrale eccezione si conciliava quant'era inconciliabile tra gli uomini. Vesta è il sistema antifamilistico e morale di Roma, simbolico capolavoro nella sua essenza estrema.
Gli antichi erano incerti se attribuire il culto pubblico di Vesta al tempo di Romolo, intorno al 750 a.C., o a quello di Numa Pompilio, intorno al 700. Scavando nel Santuario abbiamo scoperto che i primi edifici risalgono al 750 a.C.: la casa delle vestali davanti all'aedes Vestae e la domus dei re, che avevano lasciato il Palatino per abitare nel Foro. La discontinuità con il precedente abitato proto-urbano è assoluta. Per trasformare una palude nel Foro servirono numerosi interri accumulati dal 750 a.C. circa. Il primo pavimento in ciottoli si data intorno al 700 a.C.

Repubblica 10.12.11
L'Inghilterra discute su come si deve far studiare il passato
 Se la storia vcambia sempre padrone
di D. D. Guttenplan


«Chi controlla il passato», osservò George Orwell, «controlla il futuro». Non sorprende, quindi, che proprio la patria di Orwell sia diventata teatro del più recente dibattito sul significato della storia - e sul modo in cui questa dovrebbe essere insegnata. In occasione di due conferenze, tenutesi qui nelle ultime settimane, ai toni tradizionalmente pacati del dibattito accademico si sono sostituite accuse di razzismo, di semplificazione e di ignoranza bella e propria. Il tutto mentre alcuni degli storici più autorevoli del Paese esortano il ministro dell'Istruzione, Michael Gove, ad abbandonare il suo tentativo di riformare l'insegnamento della materia nelle scuole.
Durante una conferenza di storici tenutasi a Londra, David Starkey, autore di diversi volumi su Enrico VIII e le sue mogli, nonché ospite abituale di alcuni programmi televisivi, ha affermato che la scuola dovrebbe concentrarsi di più sulla cultura propria della Gran Bretagna. E al commento di un collega che gli ricordava come la Gran Bretagna dei nostri giorni sia "pittosto multietnica", Starkey ha replicato: «No, nonè vero. Quella della Gran Bretagna è perlopiù una monocultura», aggiungendo che vaste zone del Paese sono "indiscutibilmente bianche".
La scorsa estate Starkey era già salito agli onori della cronaca per aver affermato, a proposito di alcuni disordini che si protraevano da giorni, che la popolazione povera e bianca della Gran Bretagna era "diventata nera", e che tra questa si era diffusa «una cultura violenta, distruttiva, nichilista e malavitosa».
La scorsa settimana David Cannadine, professore di storia a Princeton, ha spiegato al ministro Gove che le affermazioni di coloro che lamentano una crisi nel modo in cui la storia viene insegnata ai giovani si basano sul "mito" di un "periodo d'oro", in cui ragazzi e ragazze erano in grado di recitare i nomi di tutti i re e le regine d'Inghilterra. In occasione di una conferenza presso la University of London, alla quale ha partecipato per lanciare il suo ultimo libro, Il giusto tipo di storia (in cui prende in esame il modo in cui la materia è stata insegnata nell'ultimo secolo), Cannadine ha affermato: «Le rimostranze per l'inadeguatezza dell'insegnamento della storia nelle scuole inglesi esistono da quando le scuole inglesi hanno iniziato a insegnare storia». Attualmente, in Gran Bretagna, ha fatto notare Cannadine, a differenza di quanto accade nella maggior parte dei Paesi europei, gli studenti possono decidere di smettere di studiare storia a quattordici anni. Ma se il governo desidera migliorare la comprensione della storia, ha aggiunto, dovrebbe imporre l'insegnamento della materia sino all'età di sedici anni. La storia, che racconta le vicende di un Paese, è spesso considerata una materia controversa. Lo scorso anno, in Texas, la commissione statale per l'Istruzione ha votato affinché i libri di testo adottati nelle scuole di tutto lo Stato iniziassero a presentare i conservatori in una luce più favorevole, ed enfatizzassero il ruolo svolto dal Cristianesimo nella storia americana.
Negli anni Ottanta, in Germania, scoppiò la Historikerstreit, o "lite tra gli storici"; tutto iniziò quando Ernst Nolte, professore presso la Libera Università di Berlino, pubblicò un articolo nel quale di fatto descriveva l'Olocausto una «reazione sorta dalla paura» della rivoluzione russa.
Nolte era dell'opinione che i tedeschi dovessero smettere di scusarsi per il proprio passato, e che le imprese di Hitler fossero state «comprensibili, e, sino a un certo punto, addirittura giustificabili». Le sue idee scatenarono una polemica che si è protratta per diversi anni. Richard Evans, che all'epoca era un giovane storico presso l'Università di East Anglia, in Inghilterra, prese parte alla controversia, evidenziando le affinità tra le opinioni di Nolte e quelle a lungo impugnate dagli antisemiti, tanto in Europa che negli Stati Uniti.
L'attuale dibattito è invece sorto in Gran Bretagna nella primavera del 2010, quando Niall Ferguson, il professore ad Harvard, intervenne al Festival Letterario di Hay per lamentare il fatto che «in questo Paese, la maggior parte degli ragazzi non studia altro che Enrico VIII, Adolf Hitler e Martin Luther King». Ferguson aggiunse che ai suoi stessi figli non era mai stato insegnato Martin Lutero. Gove, che sedeva tra il pubblico, a quel punto alzò la mano: «Professor Ferguson», chiese, «crede che Harvard le permetterebbe di trattenersi qualche tempo in Gran Bretagna per aiutarci a impostare un programma di storia più entusiasmante e avvincente? ». In seguito, anche Cannadine e Simon Schama, uno storico britannico che insegna alla Columbia University di New York, furono reclutati per contribuire a rinnovare il programma nazionale di storia. Poi, a marzo, dalle pagine della London Review of Books, Evans - oggi Regio professore di storia a Cambridge - si è scagliato contro l'intera iniziativa, accusando il governo di voler imporre una lettura "celebrativa" della storia, che sorvoli sulle vicende più buie del passato della nazione e trascuri il contributo delle persone di colore al retaggio del Paese. Il rischio, ha ammonito, è quello di operare un «tipo di semplificazion e a s s o l u t a m e n t e ignorante». Ferguson, dal canto suo, nega di avere simili intenzioni. «Non so perché (Evans) senta la necessità di ritrarmi come una sorta di mostro reazionario. Un personaggio da dare in pasto alla febbrile immaginazione dei liberal, per farlo odiare», ha affermato in un'intervista.
«Chiunque legge ciò che scrivo sa che non propongo certo l'imposizione di una meta-narrativa pro-Tory». In seguito, Ferguson ha trovato un improbabile difensore in Eric Hobsbawm il quale lo ha descritto come «un uomo estremamente intelligente, nonché ottimo storico». «Per quanto io non sopporti l'idea di prendere le parti dei Tory, ritengo che in questo caso essi abbiano più ragioni di quanto noi accademici siamo pronti ad ammettere».
«La storia dovrebbe insegnare un senso di prospettiva e proporzioni», ha affermato Cannadine, lamentando il fatto che il dibattito si sia «polarizzato attorno a delle posizioni inamovibili: quella di coloro che privilegiano l'importanza della conoscenza dei fatti rispetto alle competenze storiche; di chi desidera una narrativa nazionale dai toni grandiosi, a scapito di una versione del passato che comprenda anche i momenti meno nobili, e coloro che vogliono concentrarsi sul Paese in cui viviamo anziché sui nostri rapporti con il resto del mondo».
Durante una recente conferenza il ministro Gove ha in parte disarmato i suoi detrattori. Pur tornando a lamentare il fatto che la storia britannica sia posta in secondo piano rispetto «a Hitler e agli Enrichi» o a una parte del vecchio West, che lui ha definito "indiani e cowboys", Gove ha definito "pericolosa" la volontà dei politici «di imporre sul programma scolastico nazionale tanti dei loro pregiudizi». Il ministro ha infine aggiunto di tenere la «mente totalmente aperta» circa l'opportunità di prolungare o meno l'insegnamento della storia sino all'età di sedici anni, e si è rifiutato di abbandonare il proposito di rivedere il programma, affermando che «dovremmo insegnare molta più storia», ed essere «molto più esigenti». «È in parte tornato sui propri passi», ha commentato Cannadine, aggiungendo che Gove «è chiaramente una persona con cui possiamo, e dobbiamo, lavorare».
(Traduzione di Marzia Porta) © The New York Times-La Repubblica

Repubblica 10.12.11
Bellocchio a gennaio sul set per il nuovo film
 Ispirato al caso Englaro

Partiranno a gennaio le riprese del nuovo film di Marco Bellocchio "Bella addormentata" liberamente ispirato al caso Englaro. In questi giorni si stanno decidendo i protagonisti.