lunedì 12 dicembre 2011

il Riformista 9.12.11
Pompei di sabbia nel Nord Africa da Mille e una notte
Viaggio. Città di fango in Mali, "in sale" in Egitto, la moschea di Haji Piyada in Afghanistan. Forme "perdute" dell'abitare, rintracciate dall'arch. Tonietti, domenica a "Più libri più liberi".
di Andrea Consoli

L'arte di abitare la terra (L'Asino d'oro edizioni, 250 pagine, 27,00 euro) di Ugo Tonietti, architetto e professore di Scienza delle costruzioni presso l'Università di Firenze, è un prezioso Baedeker per avvicinarsi allo studio delle architetture antiche (spesso preistoriche), non poche volte indecifrabili agli stessi occhi degli studiosi. La storia dell'abitare - dell'abitare, cioè, il mondo - è affrontato da Tonietti osservando e indagando le costruzioni fantastiche e prodigiose che sono sopravvissute alle corrosioni del tempo, e che spesso sono nate nel cuore di civiltà povere, nomadi, pastorali, abituate a ogni tipo di ostilità della natura, ma nelle quali era ancora forte il legame - che valeva per tutti - tra il pensare e l'agire architettonico.
Il viaggio inizia alla medina di Chefchouen, nel Rif, zona montuosa del nord del Marocco, dove antichi e sapienti "maalem" (maestri muratori) hanno costruito un affascinante groviglio abitativo di "dar" (cellule abitative) e di "derb" (isolati), e che oggi è gravato da innesti "moderni" che ne minacciano la sopravvivenza. Il viaggio prosegue a Djenné, nel Mali, presso le misteriose architetture primitive saadiane in terra cruda, e giunge a Shali, presso il lago salato dell'Oasi di Siwa, nell'Egitto occidentale (al confine con la Libia), dove Tonietti spiega e racconta le difficili architetture di sale, realizzate mediante la complessa lavorazione dei "karshif", ovvero zolle di sale. Sempre in terra africana, Tonietti non poteva non visitare Lalibela, in Etiopia, famosa in ogni dove (e patrimonio mondiale dell'Unesco) per le misteriose basiliche ciclopiche ipogee costruite scavando nella roccia e che, come tutte le architetture antiche - spesso in terra cruda o in terra pressata e mischiata con la paglia - sono in grave pericolo conservativo.
L'arte di abitare la terra, poi, lascia l'Africa per due tappe "orientali": la prima è ad Aleppo, nella Siria del Nord, dove strane costruzioni in terra continuano ad intrigare per le strane cupole della abitazioni (il viaggio poi prosegue a Palmira, la Regina del deserto, la cui decadenza si lega alla ribellione della regina Zenobia nei confronti dei Romani); la seconda è nel lontano Afghanistan, precisamente nella città di Balkh (luogo natio del filosofo Avicenna, e centro del culto mistico zoroastriano), dove Tonietti ci fa conoscere la moschea di Haji Piyada, anch'essa in terra, e che gli storici e gli archeologi hanno difficoltà a datare. L'arte di abitare la terra, non è soltanto un libro di architettura - o, più precisamente, di tecnica antica delle architetture - ma un vero e proprio taccuino antropologico, un libro di viaggi, finanche un libro poetico, perché forte è la suggestione nello sguardo dello studioso di miti e leggende antiche (per intenderci, tra la Bibbia e le Mille e una notte).
Attraversando deserti e tornanti di montagna - avvincenti quelli di un Afghanistan ancora infestato di mine e ricoperto di carcasse di carri armati russi -, facendosi accompagnare da autisti irresponsabili (come in Mali) e osservando le donne con il burqa (sempre in Afghanistan), Tonietti - che pubblicò in parte questi viaggi sulla rivista Left - s'immerge pienamente nel mondo preistorico di alcune delle più antiche civiltà (notevoli le analisi "matissiane" delle incisioni rupestri), e indaga il rapporto dell'uomo antico con la terra, con l'abitare, con la tecnica costruttiva, la cui analisi mai si disgiunge da una lettura socio-antropologica che prevede finanche il mistero, il fascino evocativo, e al cui centro, molto spesso, c'è la presenza femminile, ora generatrice e gioiosa, ora ridotta a schiavitù da oscure leggi castranti (come a Shali, o a Balkh).
L'arte di abitare la terra verrà presentato domenica a Roma alla fiera della piccola editoria "Più libri più liberi" (Palazzo dei Congressi all'Eur, Sala Diamante, ore 16)e, insieme con l'autore, ne parleranno Simona Maggiorelli e Lavinia Ripepi.


l’Unità 12.12.11
Monti non convince i sindacati
Oggi lo sciopero unitario. Camusso: la manovra resta iniqua
Ieri sera nell’ufficio del presidente del Consiglio senza esito l’incontro tra Monti e Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Distanze ampie fra esecutivo e sindacati. Confermate le tre ore di sciopero generale per oggi
di Massimo Franchi


Il «miracolo» non c’è stato. Serviva quello, come aveva anticipato Susanna Camusso, perché l’incontro di ieri sera fra Monti e i sindacati portasse alla revoca dello sciopero. E così non è stato. Oggi dunque, a sei anni di distanza dall’ultimo del novembre 2005, si terrà lo sciopero generale unitario di tre ore da parte di Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
Due ore e mezza di confronto che si è concluso, per dirla sempre con il segretario generale della Cgil, «con un impegno un po’ generico» da parte del governo a tener conto di quanto chiesto dal Parlamento e dai sindacati: «Se la soluzione si chiama indicizazione e Imu non risponde alle richieste che abbiamo fatto». Parole sottoscritte dal leader della Uil Luigi Angeletti: «Per noi il risultato non è stato per nulla soddisfacente e non ci attendiamo dal governo novità apprezzabili nei prossimi giorni». Bonanni ha sintetizzato le parole di Monti («La condizione che vive il Paese è molto grave e bisogna agire rapidamente») per sottolineare come i sindacati «ne siano convinti ma le posizioni restano distanti perché bisogna trovare soluzioni con senso di equità», ha ribadito. E sul futuro è stato ancora più chiaro: «Se sarà un percorso di guerra nei prossimi mesi, voglio capire chi dovrà provvedere alla coesione sociale nel Paese. La politica sarà in difficoltà e dovrà ricorrere al voto di fiducia. Facendo saltare concertazione, si crea un danno gravissimo al Paese». Mentre il leader dell’Ugl Centrella ha sottolineato come «non c'è stata alcuna risposta alle nostre proposte».
A differenza di quello di domenica scorsa nella sala Verde di Palazzo Chigi con una trentina di delegazioni ad ascoltare l’illustrazione della manovra, l’incontro di ieri sera è avvenuto direttamente nello studio del presidente del Consiglio. Oltre a Susanna Camus-
so, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella, Monti ha richiesto la presenza del ministro del Welfare, Elsa Fornero, del viceministro all’Economia, Vittorio Grilli e del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda. Più di due ore di incontro diretto e serrato in cui le parti non hanno risparmiato frecciate e asprezze, seppur nella cordialità del clima.
Il presidente del Consiglio ha cercato di persuadere i sindacati del fatto che «la manovra è equa e i patrimoni sono stati colpiti» e che «la riforma delle pensioni garantisce equità tra le generazioni». Ma era lui stesso poco convinto sul fatto che Cgil, Cisl, Uil e Ugl recedessero dalle decisioni prese, tanto da sottolineare come «lo sciopero è uno strumento della vita democratica». «La presentazione del governo ha preso le mosse sottolinea la nota di Palazzo Chigi dalla situazione di estrema emergenza finanziaria ed economica che ha investito il nostro paese all'interno della più vasta crisi europea. È stato ricordato che il decreto include solo i provvedimenti più urgenti, ma ad essi seguiranno altre misure per completare il processo delle riforme avviato.
I leader sindacali hanno controbattuto con fermezza: «L’equità è poca» e tutti e quattro i segretari hanno ribadito la richiesta di una «patrimoniale». La natura informale dell’incontro aveva peraltro già fatto intendere che il governo non avrebbe potuto dare comunicazioni ufficiali e precise sui cambiamenti «nel senso dell’equità» alla manovra. Il ribadire che «i saldi devono restare invariati», come aveva dichiarato nel pomeriggio il ministro Elsa Fornero, aveva già fatto pendere la bilancia verso il piatto del pessimismo.
ALLE 15 PRESIDIO ALLA CAMERA
Dopo aver incontrato ieri sera Monti, oggi pomeriggio alle 15 Camusso, Bonanni, Angeletti e Centrella si ritroveranno al presidio davanti Montecitorio. Sarà il primo appun-
tamento contro la manovra, una mobilitazione che continuerà davanti al Senato martedì, e così alternativamente fino alla fine del cammino parlamentare della manovra-decreto.
I lavoratori del settore privato (il settore pubblico si fermerà per otto ore lunedì 19 dicembre) sono chiamati da Cgil, Cisl, Uil e Ugl a scioperare per le ultime tre ore del turno. Presidi sono previsti in tutta Italia davanti alle Prefetture. La Fiom ha invece deciso di anticipare le otto ore previste per venerdì unendo la protesta contro la manovra a quella per l’estensione del modello Pomigliano a tutti gli 80mila lavoratori Fiat in Italia. Proprio oggi da Torino dovrebbe arrivare la notizia della firma sul contratto di gruppo con l’assenso di Fim, Uilm, Ugl metalmeccanici, Fismic e Unione Quadri.
L’Usb ha invece deciso lo sciopero dell'intera giornata dei metalmeccanici e scioperi articolati a livello locale in altri settori del lavoro privato. Già previsto a gennaio uno sciopero generale.

Repubblica 12.12.11
"Lavoratori e pensionati i più colpiti ma non si vuole introdurre equità"
Camusso: e sulla patrimoniale pesa il veto del precedente esecutivo
C´è un problema di quantità, ma anche di qualità: si basa tutto sui conti della Ragioneria
Monti comunque ha aperto una discussione Con Berlusconi solo incontri nei sottoscala
intervista di Roberto Mania


ROMA - Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, è appena uscita dall´incontro a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio, Mario Monti. Due ore di confronto senza alcun passo in avanti. Non c´è stata alcuna trattativa. «Solo generici impegni», dice il leader di Corso d´Italia. E oggi ci sarà lo sciopero di tre ore contro la manovra da 30 miliardi di euro. Il primo sciopero contro il governo dei tecnici.
Perché avete confermato lo sciopero?
«Perché siamo di fronte ad una sostanziale conferma dell´impianto della manovra».
Il governo non è disposto a cambiare nulla?
«Sembra così per la gravità della situazione e per i tempi strettissimi entro i quali hanno dovuto agire. Sul versante delle pensioni c´è in più una convinzione profondamente errata: la tesi è che si debba agire sul lavoro, allungando i tempi di permanenza, come se si fosse già realizzato un mutamento irreversibile. Con una battuta la ministra Fornero ci ha detto che non ci sono più le presse. Non è vero, ma soprattutto non c´è solo il lavoro alla catena di montaggio. Ci sono lavori come quello dell´infermiera che è incompatibile con un´età pensionistica a settanta anni».
Insomma: nessun cambiamento sulle pensioni?
«E´ la sensazione che abbiamo avuto anche se il presidente del Consiglio Monti ha concluso con diplomazia che, sulla base di quanto emergerà in Parlamento, faranno le loro valutazioni».
Non basta una revisione delle indicizzazioni e dell´Imu sulla prima casa?
«No. E lo abbiamo anche detto. C´è un problema di quantità della manovra, ma anche di qualità. Ci sono tratti incomprensibili di iniquità: pensi all´abolizione della norma che permetteva di andare in pensione dopo quarant´anni di lavoro».
Monti è peggio di Berlusconi?
«Non potrei dirlo perché come è noto con Berlusconi non abbiamo mai parlato. Monti comunque ha aperto una discussione. Con il governo precedente ci sono stati solo incontri nei sottoscala. E non con la Cgil. Resta il fatto che la politica dei due tempi non conviene. Ci sono troppe continuità. Una su tutte: fanno sempre premio i conti della Ragioneria»
Dopo sei anni tornate a scioperare con Cisl e Uil. Cosa è cambiato?
« Siamo di fronte a una situazione di estrema gravità sul piano sociale. Lavoratori e pensionati sono le categorie alle quali si fa pagare più duramente questa crisi. Ma questo è un errore dal punto di vista dell´equità: si colpiscono sempre gli stessi con effetti recessivi sull´economia. Cosa è cambiato andrebbe chiesto alla Cisl e alla Uil. Il nostro giudizio sulla iniquità valeva anche per le manovre precedenti. C´era una forte aspettativa su questo governo. Certo ha recuperato autorevolezza sul piano europeo, dall´altro, però, si fa pagare lo scotto della crisi sui soliti noti. E´ davvero sbagliato».
Ci sono margini di trattativa in Parlamento?
«Ci ha stupito anche questo durante l´incontro con il governo: non c´è alcuna connessione tra il confronto sociale e la discussione che, sappiamo, sta avvenendo in Parlamento. Pensavano che ci dicessero a che punto è il confronto con le forze politiche, invece nulla. Nessun racconto. Incomprensibile».
Dunque ci sono le premesse perché possiate proclamare altri scioperi?
«Per ora abbiamo confermato quello di domani (oggi per chi legge, ndr). Il 19 dicembre scioperano i lavoratori del pubblico impiego. Ci riserviamo, come il governo, ulteriori valutazioni. Vedremo».
Allora non esclude un altro sciopero generale?
«Non escludiamo nulla. Ma per ora non abbiamo deciso nuove iniziative».
Il governo non vi ha ascoltato sulle pensioni ma ha deciso di aprire un negoziato sul mercato del lavoro. Questo vi rassicura o temete interventi sull´articolo 18?
«Non mi rassicura affatto. Lavoro e pensioni vanno di pari passo. Come si può non avere adesso attenzione sulle condizioni di lavoro e rinviare a dopo un confronto positivo. Anche qui si racconta un mondo che non c´è».
Sull´introduzione della patrimoniale il governo non ha mostrato alcun ripensamento?
«Ci hanno ridetto una cosa ardita: che bisogna avere tempo per studiarla e che se l´avessero annunciata avrebbero provocato la fuga dei capitali all´estero. Beh, si poteva almeno mettere in campo un affinamento degli strumenti per evitarla. Altrimenti ci sembra solo una scusa per mascherare il fatto che non la vogliono introdurre perché c´è un veto insormontabile del precedente governo».

Corriere della Sera 12.12.11
I calcoli dell'evasione: negli ultimi trent'anni è cresciuta di 5 volte
il fisco alla guerra dei trent'anni, così l’evasione è quintuplicata
Dai 54 miliardi dell'81 ai 275 di oggi. E in mezzo tre condoni e tre scudi
di Sergio Rizzo


Nel 1981 l'ex ministro delle Finanze Franco Reviglio rivelò in una intervista al Mondo che l'evasione fiscale si poteva valutare «in circa 28 mila miliardi».
Oggi il presidente dell'Istat Enrico Giovannini spiega che siamo fra il 16,3% e il 17,5% del Prodotto interno lordo. Ossia fra 255 e 275 miliardi di euro. E siccome i 28 mila miliardi di lire del 1981 equivalgono a 54 miliardi di euro attuali, significa che trent'anni dopo l'infedeltà fiscale si è in valore assoluto moltiplicata per cinque.
Per giunta, con la crisi, la fuga dei capitali è ripresa alla grande.

ROMA — «Non ho mai pagato le tasse e me ne vanto. Le tasse sono come la droga, le paghi una volta e poi entri nel tunnel». Cetto La Qualunque può stare sereno: l'Italia è da almeno tre decenni sulla strada della disintossicazione. Se nell'agosto 1981 l'ex ministro delle Finanze Franco Reviglio, che in quell'incarico aveva al proprio fianco il giovane Giulio Tremonti, rivelò in una intervista al Mondo che l'evasione fiscale si poteva valutare «in circa 28 mila miliardi, pari a sette-otto punti del reddito nazionale», oggi il presidente dell'Istat Enrico Giovannini ci solleva: trent'anni dopo siamo fra il 16,3% e il 17,5% del Prodotto interno lordo. Ossia fra 255 e 275 miliardi di euro. Più del doppio in rapporto al reddito del Paese. E siccome i 28 mila miliardi di lire del 1981 equivalgono a 54 miliardi di euro attuali, significa che trent'anni dopo la denuncia di Reviglio l'infedeltà fiscale si è in valore assoluto moltiplicata per cinque. Un risultato che farebbe esultare lo straordinario personaggio creato dal comico Antonio Albanese per mettere il dito nell'occhio a una certa politica ingorda e affaristica. Conseguito, peraltro, in seguito a ben tre condoni tombali che hanno coperto con la loro efficacia ben 25 di quei trent'anni. Senza parlare dei tre diversi scudi fiscali che hanno consentito di regolarizzare con un pezzo di pane miliardi di euro esportati illegalmente.
Redditometro e cavalli
Non servì la legge sulle «manette agli evasori», arrivata nel 1982, che fece una sola vittima illustre: Sofia Loren. Non servì l'invenzione del redditometro, una specie di questionario spedito dal fisco ai presunti contribuenti facoltosi autori però di dichiarazioni modeste, che in Parlamento subì per anni un bombardamento a tappeto. I diportisti ricorsero al Tar costringendo il governo a fare una parziale marcia indietro, la Lega pretese centri di assistenza comunale per aiutare i cittadini a compilarlo. Poi un bel giorno del 1998 si scoprì che non si trattava, come speravano i suoi ideatori, di uno strumento perfetto. Su 76.025 cartelle spedite ad altrettanti contribuenti sulla base delle incongruenze rilevate con il redditometro, in ben 32.081 casi i destinatari erano riusciti a dare spiegazioni plausibili mentre gli evasori conclamati erano «soltanto» 12.247. Quasi tutti (10.271) salvi grazie al meccanismo dell'«accertamento con adesione», una specie di accordo con il Fisco grazie al quale si paga quel che si può. E il redditometro subì un colpo, se non mortale, comunque letale. Si passò allora al «riccometro», che venne bersagliato ancor più pesantemente. Il presidente della Confcommercio Sergio Billé lo qualificò come uno «strumento da epoca staliniana». Al cattolico Pier Ferdinando Casini faceva invece venire in mente «l'Inquisizione». Mentre per l'aennino Adolfo Urso si trattava semplicemente di una cosa «barbara». Aggettivo che fu riservato anche a un'altra iniziativa: la «delazione» alla Guardia di finanza. Bastava telefonare al 117, il numero del centralino delle Fiamme Gialle. Autore: l'ex ministro Vincenzo Visco, che per questo si attirò critiche di ogni genere. Perfino dalla Chiesa. Il teologo dell'Osservatore Romano Gino Concetti tuonò: «Nessuno Stato democratico può autorizzare i propri cittadini allo spionaggio fiscale». Ma all'inizio fu un successone. Nei primi dieci giorni arrivarono 12 mila telefonate. Poi, lentamente, la «delazione» scemò. Nel 2007 la Cgia di Mestre calcolò che non arrivavano più di 25 chiamate al giorno.
Quell'anno fu la volta dell'Isee, ovvero «Indicatore di situazione economica equivalente»: serviva a verificare se chi accedeva per ragioni di basso reddito ai servizi sociali gratuiti e magari girava con una Mercedes da 100 mila euro ne avesse effettivamente diritto. Risultati, pochini. Tanto che, scoppiata la crisi, non si è deciso di ridare vita a una nuova versione del redditometro. Ovviamente fra i mugugni dei politici. «Non credo che sia opportuno inserire tra le voci per accertare il reddito le spese per le scuole private, anche se costose», ha eccepito il senatore del Pdl Stefano de Lillo. Mentre il suo collega di partito Antonio Tomassini, presidente della commissione Sanità, ha chiesto di escludere anche gli equini: «Il cavallo dev'essere riconosciuto come animale d'affezione e non come bene di lusso». Già, e chi non è affezionato alla sua Ferrari?
Ha raccontato Nunzia Penelope nel suo libro «Soldi rubati», recentemente pubblicato da Ponte alle Grazie: «Nel 2010 la Guardia di finanza ha scoperto un evasore ogni ora, mentre nel 2009 erano solo uno ogni 71 minuti. In cifre, stiamo parlando di 8.850 imprenditori che hanno operato esclusivamente nel sommerso, responsabili di oltre 20 miliardi di ricavi non dichiarati, di 19 mila lavoratori in nero e di un'evasione contributiva per 600 milioni».
Yacht per nullatenenti
Ma se nello sport dell'evasione fiscale l'Italia è seconda soltanto alla Grecia e se da trent'anni a questa parte il fenomeno non ha fatto che crescere, nonostante ogni governo, di destra e di sinistra, si sia impegnato a combatterla, ci devono essere ragioni profonde. Forse le stesse che hanno spinto l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a diramare, un giorno di febbraio del 2005 a Radio Anch'Io, questa specie di tanaliberatutti: «L'evasione di chi paga il 50% dei tributi non l'ho inventata io. È una verità che esiste. Un diritto naturale che è nel cuore degli uomini». E che si traduce, purtroppo per i nostri conti pubblici, in cifre raccapriccianti. I contribuenti italiani che dichiarano al Fisco oltre 200 mila euro sono 77.273, pari allo 0,18%. Come questo dato si possa conciliare con quello delle 206 mila auto di lusso (costo medio, 103 mila euro) vendute ogni anno nel nostro Paese, è francamente incredibile. Il bello è che il Fisco lo sa da decenni. Come sa, ha scritto nell'agosto del 2010 l'Ansa, che «il 64% degli yacht che circolano in Italia sono intestati a nullatenenti o ad arzilli prestanomi ultraottantenni o a società di comodo italiane o estere per evadere le tasse». Oppure che lungo gli 8 mila chilometri delle nostre coste sono disseminate 42 mila imbarcazioni di un certo valore i cui proprietari dichiarano, se va bene, 20 mila euro l'anno. Ecco perché i risultati ottenuti recentemente dall'Agenzia delle entrate di Attilio Befera, con un recupero di 10 miliardi di imposte evase nel 2010, per quanto importanti, non sono che una goccia nel mare. Tanto più perché è il sistema a essere profondamente marcio. Esclusivamente, va detto, per tornaconti elettorali e responsabilità di una classe politica miope e incapace.
Ispezioni (e scorte)
Prendete gli studi di settore. Sono un'invenzione di metà anni Novanta per evitare la minimum tax che voleva Giuliano Amato. Di fatto, è un patto scellerato fra l'amministrazione fiscale e i lavoratori autonomi, elettori considerati evidentemente molto preziosi. Ai quali il Fisco dice: puoi evadere fino a quel punto. Se lo superi, ti veniamo a controllare. Una scelta in qualche modo obbligata, visto anche la scarsità di mezzi per eseguire i controlli. Basta dire che la Guardia di finanza, forte di 65 mila effettivi, deve assicurare anche una quota dell'ordine pubblico (avete visto i finanzieri con i blindati alle manifestazioni) e delle scorte ai politici e agli alti burocrati statali. Carabinieri e poliziotti da soli non ce la fanno: nella sola città di Roma, ha raccontato il Messaggero, ci sono 2 mila persone sotto tutela. E per ognuna delle cinquanta volanti addette alla sicurezza dei cittadini, circolano nella capitale 400 (quattrocento) auto blu di scorta.
Va da sé che in un sistema del genere si annidano anche illegalità di ogni genere. Come quelle dei 100 mila lavoratori autonomi, ha rivelato Roberto Ippolito nel suo libro «Evasori» pubblicato tre anni fa da Bompiani, che scontano l'acquisto di beni strumentali senza però averli fisicamente. Si parla di 3.329 ristoranti senza cucina o tavoli, 480 farmacie senza scaffali, 555 lavanderie senza lavatrici e perfino 137 tassisti senza il taxi. Insomma, in un mondo perfetto gli studi di settore non dovrebbero esistere. Anche perché in qualche caso riescono a essere perfino vessatori. Il fatto è che il nostro è un mondo altamente imperfetto: diversamente non ci troveremmo in questa situazione.
Nel regno dell'ingiustizia fiscale ha poi un posto di rilievo una burocrazia assurda, che alimenta anche la corruzione. Basta pensare ai 68 adempimenti e 19 uffici in media da contattare per aprire un'attività in Italia: dove, dice la Confartigianato, sono appena 112 su 8.101 i Comuni in grado di consentire a un imprenditore lo svolgimento di tutte le pratiche online, senza doversi fisicamente recare allo sportello.
Per non dire dell'impunità. Nel Paese europeo a più elevato tasso di evasione non c'è neanche un detenuto in carcere con quell'accusa. Invece negli Stati Uniti, dove non pagare le tasse è considerato un reato molto serio, fra il 2000 e il 2007 hanno varcato la soglia di una galera federale 11.691 persone. Detenzione media: 30 mesi.
L'oro del Canton Ticino
Come stupirsi allora che oltre al record dell'evasione l'Italia detenga pure quello, altrettanto poco invidiabile, dell'esportazione illecita dei capitali? Ma se è vero, come sempre ripete la Corte dei conti, che i condoni sono il più grande incentivo per l'evasione, gli scudi fiscali non sono forse il miglior viatico per la fuga dei capitali? Dopo il primo «scudo» del 2001-2003 l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti annunciò su questo giornale tolleranza zero verso gli spalloni. Prefigurando perfino l'installazione di telecamere alla frontiera con la Svizzera. Sei anni dopo, ecco invece un nuovo scudo fiscale, che ha consentito di regolarizzare una somma addirittura superiore a quella del 2001-2003, cioè 104 miliardi di euro contro una settantina. Denari di proprietà per il 66% di cittadini residenti in Lombardia e per il 58% depositati nei caveau delle banche svizzere. Delle due l'una: o quei soldi non erano rientrati con il primo «scudo», oppure le minacce non hanno affatto dissuaso gli esportatori. Né tanti quattrini, ripuliti quasi gratis, hanno alleviato le difficoltà dell'Italia. A dispetto di quello che aveva dichiarato Tremonti il 16 dicembre 2009: «È una colossale manovra di potenziamento della nostra economia, mai verificatosi per un Paese, dato dal fatto che capitali che erano fuori tornano in Italia e servono per tenere aperte le imprese, non licenziare, gestire i rapporti fra creditori e debitori». Per giunta, con la crisi la fuga dei capitali è ripresa alla grande. Se è vero, come dicono voci attendibili, che le cassette di sicurezza delle banche elvetiche hanno fatto il pieno di beni e valori provenienti dal Bel Paese. Nel solo mese di settembre hanno preso la strada del Ticino 13 tonnellate d'oro provenienti dall'Italia. Paolo Stefanato ha scritto sul Fatto Quotidiano che l'Associazione banche ticinesi «stima in 130 miliardi di euro i fondi neri depositati da soggetti italiani in Svizzera». Ma c'è pure chi parla di somme molto superiori: 300 miliardi, forse più. Che sono fuori dalle nostre frontiere e lì resteranno, a meno di qualche miracolo. Per esempio, un nuovo elenco di depositi made in Italy sul modello di quei 5.439 contenuti nella lista sottratta alla filiale ginevrina della Hsbc dall'ex dipendente Hervé Falciani. La Guardia di finanza ha accertato un'evasione di 180 milioni soltanto per 774 di quei patriottici correntisti: oltre metà lombardi. E poi dicono che gli italiani sono sempre più poveri…

l’Unità 12.12.11
I neoliberisti ci portano alla catastrofe
di Stefano Fassina


Perché, in Europa e negli Usa, non usciamo dal tunnel della recessione e, in Italia, andiamo verso la depressione? Perché si continua ad applicare, nonostante i disastri prodotti, la ricetta neo-liberista dominante nell'ultimo quarto di secolo: austerità senza se e senza ma e svalutazione reale del lavoro per recuperare in esportazioni la caduta della domanda interna depressa dall'aumento delle diseguaglianze. In sintesi, siamo vittime del «trionfo delle idee fallite», come ripete Paul Krugman. Non a caso, per la presidenza degli Stati Uniti ritorna, come uno zombie, Newt Gingrich. Non a caso, da noi continuano ad imperversare gli Alesina e i Giavazzi, nonostante il Fmi qualche mese fa abbia radicalmente confutato le loro tesi. Il Fondo, in un'analisi di decine e decine di casi di aggiustamenti di bilancio pubblico, trova un risultato banale, ma negato nell’ultimo ventennio: le politiche restrittive sono recessive, non rileva se fatte dal lato delle entrate o dal lato delle spese. Ma gli Alesina e i Giavazzi, amplificati da interessi corporativi miopi, insistono. Per coprirsi le spalle rilanciano contro l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Stesso schema dell’editoriale di Orioli su Il Sole 24ore di giovedì scorso. Ovviamente, la giustificazione è l'equità verso i giovani, principio trendy, strumentalizzato senza imbarazzo da un classismo pesante e autolesionista.
Purtroppo ideologia fallita e interessi miopi dominano anche la discussione a Bruxelles. La crisi dell'euro non ha nulla a che vedere con la finanza pubblica (si legga Martin Wolf sul Financial Times di mercoledì scorso per l'ennesima, eccellente e divulgativa spiegazione). È dovuta alle differenze di competitività presenti nell'area della moneta unica. È dovuta alla caduta della domanda aggregata conseguente alla aumento della disuguaglianza a sua volta alimentata dalla regressione del lavoro. Non importa. L'ossessione dei conservatori tedeschi verso il deficit pubblico segna la rotta. Il vertice europeo di giovedì e venerdì scorso è l'ultimo esempio. Si progetta un trattato intergovernativo al solo fine di rendere più cogente una linea di austerità suicida, in larga misura già recepita nel "six pact" (il pacchetto pro-austerity approvato nei mesi scorsi dal Parlamento europeo), senza aprire alcuno spazio agli interventi per lo sviluppo sostenibile. Così, data la linea voluta dalla signora Merkel, l'unica speranza per attenuare i sempre più gravi danni sociali ed economici e democratici è affidata agli acquisti surrettizi della Bce dei titoli di debito pubblico dei Paesi in difficoltà.
Al punto in cui siamo, dovrebbe essere chiara la posta in gioco. Se le forze maggiori dell’impresa e della finanza continuano ad affermare i loro legittimi interessi di parte attraverso il paradigma della destra tecnocratica degli Alesina e dei Giavazzi arriviamo ad una lunga e drammatica depressione economica, ad insostenibili disuguaglianze, alla fine della civiltà del lavoro e allo svuotamento populista delle democrazie delle classi medie. Insomma, alla fine del modello sociale europeo, alla rottura dell’euro e della Ue e alla inevitabile irrilevanza degli Stati nazionali del vecchio continente nel secolo asiatico.
La linea da seguire è opposta. La ripetono oramai da tempo sia i liberal statunitensi (Krugman, Stiglitz, Summers, Rodrik,...) sia i liberali pragmatici dalle colonne del Financial Times (oltre a Wolf, Munchau, Key ed altri). La sostengono i sindacati europei. La propongono i progressisti europei, Pd, Pse, Verdi, come indicato dagli emendamenti e dal voto contrario al "six pact".
La linea alternativa passa per la correzione degli squilibri macroeconomici all'interno dell'area euro e per il riavvio della domanda aggregata. Quindi, allentamento dell’austerità utolesionista. Sostegno agli investimenti, da alimentare attraverso euro-project bonds e Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Bce autorizzata a fare da prestatore di ultima istanza. Regolatori dei mercati finanziari meno ottusi. Agenzia europea per il debito. Coordinamento delle politiche retributive, in primis innalzamento delle retribuzioni tedesche in linea con la produttività.
Armonizzazione delle politiche di tassazione. E, soprattutto, costruzione di sedi democraticamente legittimate di sovranità condivisa nell'area euro. Soltanto un paradigma culturale autonomo può dare senso storico ai progressisti europei. Seguire i conservatori ed i tecnocrati rivolti all’indietro rende i progressisti inutili e corresponsabili del disastro annunciato di fronte a noi.
Un disastro per la democrazia, prima che per l'economia.

l’Unità 12.12.11
Corsa contro il tempo per la sopravvivenza dei giornali di partito, delle cooperative, di idee
Oggi si vota l’art. 29. Il ministro Giarda annuncia future riforme. Ma rischiano di arrivare tardi
Editoria, il governo: «Non ci sono risorse» Condannate 100 testate
Il governo dice no alle modifiche all’articolo 29 che uccide l’editoria non profit. Giarda «Non ci sono le risorse». Gli emendamenti Pd. Natale (Fnsi): disattese le parole di Napolitano. Oggi voto in commissione
di Roberto Monteforte


Non ci sono le risorse. Non lascia varchi il ministro per i rapporti con il Parlamento, Pietro Giarda, che in queste ore ha fatto da guardiano alla manovra «salva Italia» di Mario Monti. Non sarà modificato il comma 3 dell’articolo 29 che stabilisce la chiusura del Fondo per l’editoria per l’esercizio del 2013 e un suo dimezzamento per il 2012.
Così la stretta all’editoria non profit, di idee, cooperative e politica rischia di essere mortale. L’esecutivo ipotizza «riforme». La manovra, infatti, prevede la «revisione del regolamento di semplificazione e il riordino dell'erogazione dei contributi all'editoria» con effetti a decorrere dal primo gennaio 2012. Le finalità sono «il risanamento della contribuzione pubblica» con una «più rigorosa selezione dell'accesso alle risorse». Lo ha confermato il sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico dopo un lungo incontro avuto alla Camera con il ministro Giarda. «C'è un problema di risorse ha affermato non penso che il Governo modificherà l'articolo della manovra sull' editoria». «So che ci sono giornali ha riconosciuto che avranno seri problemi a partire dal 2012. Ci sono più di cento testate che ricevono contributi. Dovremo avviare una riclassificazione, tenendo conto che ci sono sicuramente testate che esprimono istanze politiche e culturali, garantendo il pluralismo. Non così per altre». Troppo tardi, se questo vuole dire che il tetto delle risorse resta quello indicato dall’articolo 29 e se le risorse necessarie ai giornali «veri» saranno recuperati dalla «bonifica»: dall’esclusione dall’accesso ai contributi diretti di chi resterà escluso dai nuovi criteri.
Nessuna riforma avrà senso con «una situazione cimiteriale» ha commentato il Pd. Tanto più che l’emergenza come hanno denunciato i direttori dei giornali interessati, la Fnsi, Mediacoop e Fedecultura, la federazione dei giornali diocesani è già drammaticamente presente per l’esercizio in corso, per il 2011. È una gara contro il tempo. Oggi la commissione Bilancio voterà anche gli emendamenti all’articolo 29 della manovra. Vi sono quelli del Pd, del Pdl ed anche della Lega Nord. Alle richieste di aumento del Fondo per l’editoria sono aggiunte anche indicazioni precise su dove reperire le risorse necessarie per la copertura. Viene rispettato quel vincolo al saldo dei conti richiamato dal governo. Sono meno di cento milioni di euro.
Come hanno sottolineato nella loro lettera al premier Monti i direttori dei giornali politici e di idee, allo Stato costerà molto di più affrontare la chiusura dell testate e sostenere gli oltre quattromila lavoratori che rischiano il posto di lavoro.
«Il ministro Giarda non ha letto le parole del presidente Napolitano che chiedeva sì una bonifica, ma anche sostegno del pluralismo» commenta preoccupato il presidente della Fnsi, Roberto Natale. «Qui c’è solo rigore senza equità e senza sviluppo. Non ci rassegnamo conclude a lasciar morire 100 testate».
Dopo la lettera dei direttori era parso aprirsi qualche spiraglio. Sembrava fosse cresciuta la consapevolezza di quanto, in un quadro di forte rigore, fosse importante sostenere questo settore dell’editoria. Di quanto il pluralismo delle voci autonome e legate ai territori più che un costo rappresentasse una ricchezza per la democrazia. Ora siamo ben oltre le «leggi bavaglio» del governo Berlusconi. Siamo alla chiusura dei giornali che non hanno alle spalle i poteri forti.

Corriere della Sera 12.12.11
Il governo Monti divide la sinistra giornalistica
di Pierluigi Battista


Con la nascita del governo Monti, i rapporti tra le due sinistre giornalistiche, quella della Repubblica e quella del Fatto quotidiano, si sono fatti decisamente meno cordiali. Per la verità, i primi a picchiare sono stati quelli di Repubblica con Eugenio Scalfari che ha dato con brutale perentorietà dell'«imbecille» a chi osa criticare Monti, seguito non senza ammirevole zelo da Michele Serra che così ha bacchettato ex-cathedra i neo-malpancisti: «chi a sinistra si lamenta di Monti perde il suo tempo».
La solerzia e il nuovo ardore governativo, galvanizzati dall'insperata estromissione dell'usurpatore da Palazzo Chigi, fanno dire insomma ai nuovi pasdaran dell'esecutivo tecnico che chi critica «perde tempo», a prescindere. Può avere torto o ragione, argomenti a favore o argomenti contro, ma non importa, «perde tempo». Non bada alla sostanza della questione: la cacciata del nemico. Ancora un passo e siamo all'«oggettiva» connivenza, all'accusa di «fare oggettivamente il gioco di». Ma siamo ancora al passo precedente. Con un'avvertenza: il giornalismo appiattito con ortodossa inflessibilità sulle posizioni di un governo tende a diventare noioso, grigio, ripetitivo, trionfalistico dal sapore «bulgaro», come si diceva un tempo. Invece la critica e l'opposizione giovano alla vitalità di un giornale. Il Fatto diretto da Antonio Padellaro appare addirittura più vivace e persino nella legnosa scrittura da verbale giudiziario di Marco Travaglio, una volta messo da parte (ma solo per un giorno o due, eh) il tono lugubre del forcaiolo compulsivo, ora traspare di tanto in tanto un pallido barlume di ironia e di simpatia. Vero è che il Fatto per animare il suo folto e militantissimo lettorato ogni tanto deve sparare titoli allarmanti sul «Caimano» che «c'è ancora», che comanda ancora, che «è pronto a tornare». Ma sono colpi di tromba per rincuorare le moltitudini. La verità è che «parlare male di Monti» è diventato il nuovo refrain del quotidiano concorrente di Repubblica.
Resta l'abitudine mentale, inscalfibile nel passar degli anni e dei decenni, di muri crollati e di atlanti geo-politici sconvolti, di vivere con diffidenza e fastidio qualunque posizione che, nel proprio schieramento, non anteponga le ragioni dell'appartenenza a quella della libera critica. Una critica non deve necessariamente essere ostile, può essere un pungolo, un incoraggiamento. I giornali americani che avevano sostenuto Obama si sono ben guardati dal trasformarsi in bollettini della vittoria quando il presidente è entrato alla Casa Bianca. Ma l'Italia è il regno del cui prodest: a chi giova dire le cose come stanno? È il regno del bipolarismo primitivo che vuole annientare l'avversario come prima missione e liquida come fatuità da «anime belle» ogni obiezione bollata come «eretica», «inutile», «imbecille». Peccato. Peccato per i giornali e per la sinistra. E peccato anche per un governo, che ha bisogno di sostegno e non di trombettieri.

l’Unità 12.12.11
«Vogliamo il 50 per cento» ovunque si prendano decisioni, nei partiti e in Parlamento
Welfare, servizi, diritti: «Il premier ci incontri». Alla manifestazione anche Susanna Camusso
Il ritorno in piazza «Ora il governo ci deve ascoltare»
La regista di Snoq, Cristina Comencini: «Siamo state pazze il 13 febbraio a crederci, continuiamo a essere pazze. Vogliamo un Paese in cui le ragazze possano sognare e persino governare l’Italia»
di Mariagrazia Gerina


L’immagine più bella e malinconica della giornata, la dà, dietro il palco, Paola Minaccioni, di professione comica: «Questa piazza è lo specchio di un’Italia che non vede il sole: in questo momento siamo tutti tramortiti e noi siamo qui appunto per dire che dalla crisi non intendiamo farci sopraffare», dice, mentre la pioggia, che, come la crisi, è stata molto ingenerosa con le donne, concede la tregua sperata.
La “seconda volta” di Se non ora quando, in piazza del Popolo, come l’altra volta (e contemporaneamen-
te a Torino e in tante altre piazze d’Italia) può cominciare.
Berlusconi, con le sue Ruby, che lo scorso 13 febbraio aveva mosso l’onda dell’indignazione femminile, non c’è più. Non al governo, almeno. Spazzato via da una crisi, che chiede ben altre ricette che le sue per essere fronteggiata.
«E però noi non facciamo sconti a nessuno, né a questo governo né ad altri», grida dal palco Luisa Rizzitelli, a nome delle altre di Snoq. «E poi scusi lei come si sentirebbe se nel governo gli uomini fossero solo tre su venticinque?», risponde al cronista, dietro le quinte, Cristina Comencini, “regista” anche di questa seconda volta.
«Nella discontinuità che speravamo manca un cambio di passo nell’attenzione alla discriminazione contro le donne», dice, da manifestante, Susanna Camusso, che, nonostante il vertice con il governo, trova il tempo per fare capolino nella piazza. Mentre dal palco parte il cahier de doleances, furibondo e concretissimo, che le donne spediscono al governo e a cui prestano la voce a turno giovani precarie, che vedono allontanarsi all’infinito la maternità, donne sull’orlo della pensione, costrette a fare le funambole per prendersi cura dei genitori anziani, madri-lavoratrici che alla sera stramazzano sfinite.
L’ALTRO PIANO PER SALVARE L’ITALIA-
Da una parte, le loro storie, che sono già un manifesto politico. Dall’altra, le proposte altrettanto concrete, snocciolate sul palco dalle sociologhe, dalle economiste, da tutte quelle che in questi mesi hanno contribuito a tessere la rete di Snoq. Titolo, in breve: come gestire la crisi senza scaricare tutto il peso sulle “solite note”. Le 800mila che quando restano incinte devono lasciare il lavoro, le tre milioni e mezzo che non lavorano perché in assenza di servizi il welfare sono loro, quelle che pur lavorando guadagnano il 30% in meno degli uomini.
«Alzare l’età della pensione senza riequilibrare le responsabilità nel lavoro e nella cura è miope e ingiusto», scandisce, da studiosa del welfare, Chiara Saraceno: «Vogliamo più tempo, una divisione del lavoro di cura più equa, tra uomini e donne, famiglia e Stato, servizi di buona qualità per i bambini e per gli anziani».
Le economiste della rete In genere l’hanno chiamato «Pink New Deal», un piano di sviluppo dettato dalle donne che metta al centro dell’agenda politica le infrastrutture sociali. E poi: niente più dimissioni in bianco, orari flessibili, assegno di maternità universale, congedi di paternità obbligatori.
Più che un manifesto, il piano B delle donne per salvare l’Italia. E su quello ora il movimento di Snoq intende incalzare partiti e governo. «Vogliamo il 50%», in Parlamento e in tutti i luoghi dove si decide il futuro del paese, scandiscono dal palco di piazza del Popolo e dalle altre piazze d’Italia: «Vogliamo che le nostre proposte vengano ascoltate dai partiti e dal governo, che chiediamo di incontrare». Un faccia a faccia con l’esecutivo tecnico. «Se non ora quando? Se non le donne chi?», gridano dalla piazza. «Ventimila a Roma, centomila in tutta Italia». Molte meno del 13 febbraio? «Siamo state pazze allora ad averci creduto, lo siamo ancora adesso», si schermisce Cristina Comencini: «Vogliamo cambiare la vita delle donne e permettere alle ragazze di questo Paese di avere sogni e anche di governare l’Italia».

La Stampa 12.12.11
Spaventò una bambina con l’Apocalisse Il Papa: ha la mia stima
Bologna, la maestra fu sospesa dall’insegnamento Dal Vaticano un segno di “spirituale vicinanza”
di Giacomo Galeazzi


La cruenta lotta tra il bene il male, San Michele contro Lucifero, angeli malvagi incatenati da Dio, cieli fiammeggianti tra violente ribellioni e castighi biblici. Insomma, meno di quanto trasmesso in «fascia protetta» da qualunque canale Tv ma quanto basta per allontanare dalla cattedra una maestra troppo zelante. Forse sarebbe bastato un richiamo, ma la scure del preside si è abbattuta con apocalittica durezza. A far giustizia è un «colpo di scena». Una lettera della Segreteria di Stato vaticana prende le difese dell’insegnante della scuola «Bombicci» di Bologna sanzionata per una descrizione dell’Apocalisse poco «politically correct» che avrebbe turbato una bimba della prima elementare. Invece degli angeli rassicuranti da immaginetta votiva, ha raccontato a tinte realistiche e «sconvolgenti» quelli che nelle sacre scritture sfidano Dio. Per questo l’insegnante è stata sospesa e il suo caso ha fatto il giro del mondo. Benedetto XVI, pur non prendendo posizione sulla vicenda, le esprime stima per una professione «svolta con impegno e dedizione».
La maestra aveva raccontato la storia dell’Arcangelo Michele e di Lucifero facendo ricorso anche ad alcuni dipinti. I familiari di un’alunna sono andati a raccontare l’episodio (che avrebbe traumatizzato la bambina) al dirigente scolastico. Da qui la decisione, senza neanche ascoltare la versione della maestra, di sospendere l’ora di religione nella classe. A denunciare la vicenda era stato il parlamentare Pdl Fabio Garagnani, che aveva presentato un’interpellanza per il ripristino della «legalità scolastica», fissando i limiti di intervento del dirigente scolastico che ha deciso la sospensione.
Dal Vaticano arriva la solidarietà più autorevole alla maestra accusata di aver spaventato un’allieva di sei anni con una lezione «forte» sulla caduta degli angeli. «Mi auguro che la lettera del Papa - osserva Garagnani - faccia chiarezza una volta per tutte sulla perfetta ortodossia cattolica dell’insegnante ed evidenzi l’arbitrio vero e proprio perpetrato nei suoi confronti dal dirigente scolastico, che ha sino a prova contraria abusato delle sue funzioni per pure ragioni politiche intromettendosi in questioni, come l’insegnamento della religione, che competono all’autorità ecclesiastica».
Il parlamentare Pdl sta valutando gli estremi per un espostodenuncia per abuso d’ufficio nei confrontidel dirigente scolastico, suffragato da una raccolta di firme nella provincia di Bologna contro l’ideologizzazione della scuola. «A fine novembre ho scritto una lettera al Papa per raccontare le mia situazione - spiega Cristina Vai - e ringraziarlo per la sua battaglia eroica contro lo spirito nichilista di questi tempi». Adesso l’insegnante ha reso noto il testo della missiva, datata 2 dicembre, che reca l’intestazione della Segreteria di Stato e la firma di monsignor Peter Brian Wells, assessore per gli Affari generali: «Ella ha voluto indirizzare al Santo Padre espressioni di devoto ossequio, informandoLo circa la propria professione di insegnante, svolta con impegno e dedizione e chiedendo, allo stesso tempo, un segno della Sua spirituale vicinanza».
Inoltre, «Sua Santità ringrazia di cuore per il fiducioso gesto e per i sentimenti che lo hanno ispirato e, mentre auspica un sempre più generoso impegno educativo volto alla formazione umana e cristiana delle giovani generazioni, di cuore impartisce la Benedizione apostolica, pegno di ogni desiderato bene, che volentieri estende alle persone care, con particolare pensiero per i piccoli alunni». Una comunicazione ufficiale arrivata all’insegnante attraverso la Curia bolognese. «È una cosa meravigliosa, che mi mette il cuore in pace, ora sento che non può accadermi niente di male», esulta la maestra.

Repubblica 12.12.11
Il "Rapporto sulla secolarizzazione" di Critica liberale: presenza quasi esclusiva della religione cattolica sui mezzi di comunicazione
Italia sempre più laica, ma la Chiesa fa boom in tv
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - Indipendenti. Dai dettami della religione, dalle norme della Chiesa, dai dogmi di battesimi, comunioni, matrimoni. L´indice di secolarizzazione in Italia è in continua ascesa. Se fosse un grafico, salirebbe senza cedimenti. I comportamento degli italiani - certificati dall´Istat, dalla Cei, dal Miur, dal Ministero della Salute e dall´Annuario Statistico della Chiesa Cattolica, dimostrano - numericamente - che siamo sempre più "laici". Ma che allo stesso tempo, aumenta la capacità della Chiesa di organizzarsi, di incidere nella società attraverso i servizi sociali, la politica, i media, soprattutto la televisione.
Il settimo rapporto sulla secolarizzazione in Italia sarà presentato oggi dalla fondazione Critica Liberale e dall´Ufficio Nuovi diritti della Cgil. Al suo interno, c´è uno studio specifico e del tutto nuovo sulla presenza della Chiesa, delle sue gerarchie e del suo messaggio nelle trasmissioni televisive di informazione, dai tg ai talk show: una presenza incomparabilmente più grande di ogni altra confessione. Il rapporto - stilato grazie al contributo dell´otto per mille della Tavola Valdese - dimostra come in questo non ci sia molta differenza tra televisioni pubbliche e private. I tempi di parola del Pontefice sono quasi uguali per Tg1 e Tg5, altissimi anche su SkyTg24. Quando si parla di religione, è quasi sempre solo quella cattolica ad essere tenuta in considerazione. Nel 2010 il Vaticano e la Chiesa sono stati protagonisti di 10 ore, 6 minuti e 13 secondi sul Tg1, contro i 3 minuti della religione ebraica. Quasi 8 ore sul Tg5, che ha concesso 7 minuti e 43 agli ebrei e 7 minuti e 44 a tutte le altre confessioni.
Fin qui, la rappresentazione della realtà che dà la televisione. Stando ai nostri comportamenti, invece, l´indice svela che i battesimi erano 515.240 nel 1991, sono scesi a 487.935 nel Duemila e a 429.881 nel 2011. A causa, anche, dall´immigrazione, che dà un forte contributo alla natalità. Scendono le prime comunioni, quasi 500mila nel Duemila, 428mila nel 2009. Le cresime, i matrimoni cattolici, che erano l´82,53 per cento nel 1991, il 62,80 per cento nel 2009. Mentre aumentano le convivenze. E i divorzi salgono dai 23mila del 1991 ai 54.456 del 2009. Scende anche il numero dei sacerdoti e delle suore, mentre aumenta quello di diaconi e catechisti. Aumenta l´uso della pillola anticoncezionale, ma anche quello dei medici obiettori che si rifiutano di praticare aborti terapeutici. Diminuiscono invece le iscrizioni alle scuole cattoliche di primo e secondo grado, mentre restano alte quelle delle università.

Repubblica 12.12.11
La democrazia senza i partiti
di Gustavo Zagrebelsky


Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e delle sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, come si è aperta, così si chiude ridando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo, sorto dalle macerie del vecchio?
Queste domande devono apparire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come prima, così forse credendo di meglio contrastare la tesi estremistica di coloro che, per loro irresponsabili intenti, hanno gridato allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In effetti, chi potrebbe dire che la Costituzione è stata violata?
La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presidente della Repubblica; il presidente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha nominati; il governo si è presentato alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all´approvazione del Parlamento. Non c´è che dire: tutto in regola. Dovrebbero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica.
Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali maggioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Per costoro, in caso di crisi, si dovrebbe necessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è formata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alternativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di opposizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagina quanto alle persone al governo – il che non è poco – ma non abbiamo affatto rotto la continuità politica, come del resto il presidente del Consiglio, con atti e parole, continuamente, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia politica con altra competenza e rispettabilità. Nelle presenti condizioni politiche parlamentari, del resto, non potrebbe essere altrimenti.
Per quanto riguarda la legalità costituzionale di quanto accaduto, nulla dunque da eccepire. Semplicemente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d´iniziativa e di responsabilità di forze politiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all´incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanziario, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e impellenza. Fine, su questo punto.
È invece sulla sostanza costituzionale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire e qualcos´altro incomincia).
Di fronte alla pressione della questione finanziaria e alle misure necessarie per fronteggiarla, i partiti politici hanno semplicemente alzato bandiera bianca, riconoscendo la propria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schieramento di partiti, nessun leader politico, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il programma, queste le misure e questi i costi da pagare per il risanamento o, addirittura, per la salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conseguenti. Né la maggioranza precedente, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l´opposizione, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evidentemente apparsa l´unica via d´uscita. Insomma, comunque la si rigiri, è evidente la bancarotta, anzi l´autodichiarazione di bancarotta.
Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande "classe dirigente", che cogliesse l´occasione propizia per mostrarsi capace d´iniziativa politica. Sennò: dirigente di che cosa?
Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nella storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impossibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo all´altezza della situazione. Sì e no. Sì, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgimento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopportazione in stato di necessità. Il governo, timoroso d´essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromettersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente riconosciuto che i partiti, meno si fanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un´evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emendamenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei conati: per usare il linguaggio corrente, non un "metterci la faccia", ma un cercare di "salvarsi la faccia".
In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fanno vedere, meglio è. I contatti, quando ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale voto di fiducia che, strozzando il dibattito parlamentare, imporrà l´approvazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto.
Ma c´è dell´altro. In un momento drammatico come questo, con il malessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di protezione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il rischio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d´altri tempi. In qualunque democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze sociali e trasformarle in proposte politiche, per "concorrere con metodo democratico alla politica nazionale", come dice l´articolo 49 della Costituzione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazione secondo disegni generali, ne hanno un secondo, altrettanto importante: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell´indirizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell´opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in assenza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo si trova a dover fare i conti direttamente col disfacimento particolaristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privilegiando i più forti a danno dei più deboli. La dialettica tra governo e società non trova oggi in Italia la necessaria mediazione dei partiti. Di questa, invece, la democrazia, in qualsiasi sua forma, ha necessità vitale.
Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rottura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi ineluttabili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti – del disastro che si produce quando le forze della rappresentanza politica e sociale si ritirano a favore di soluzioni tecnocratiche, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste considerazioni ci sia una piega di pessimismo, ma vale l´ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti.
E allora? Allora, il rischio è che, "quando tutto questo sarà finito" ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche facilissima trovata demagogica. Il vuoto, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fiducia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esistono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle difficoltà – è il compito che attende i partiti che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e programmi, strutture politiche rinnovate e trasparenti, uomini e donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che "scendono in campo", ma di seri lavoratori della politica, degni del rispetto dei cittadini di cui si propongono come rappresentanti.

Repubblica 12.12.11
L´informazione a reti unificate
di Ilvo Diamanti


Credibili solo se liberi. Internet fa un gran balzo in avanti tra i canali di informazione E intanto il Tg1 crolla mentre sale l´audience per le news di Mentana. La tv? Per 4 italiani su 5 non è uno spazio"indipendente"
Resta alto il livello di gradimento dei pop-talk e dei programmi di satira
Spettatori scettici: 3 su 4 non pensano che con la fine del berlusconismo il sistema migliori
Ci si fida sempre meno della televisione ma la si "consulta" ogni giorno

Domani il Cda della Rai si riunirà in seduta straordinaria. All´ordine del giorno: l´avvicendamento (anticipato) di Augusto Minzolini alla direzione del Tg1. Rinviato a giudizio per peculato, a causa delle spese sostenute con la carta di credito aziendale. Un motivo, per la verità, strumentale. La ragioni vere, infatti, sono altre. Una fra tutte: la fine della stagione governata da Berlusconi, contrassegnata dall´intreccio fra televisione, politica e affari. Che ha tradotto il duopolio Rai-Mediaset nel monopolio MediaRai (o RaiSet, secondo i punti di vista). Così il Tg1, da organo istituzionale, attento agli equilibri politici, si è trasformato nel portavoce del governo. Meglio: del suo premier. Con effetti sensibili: sul piano degli ascolti (penalizzati anche per altri motivi), ma, soprattutto, della "in-credibilità".
Una tendenza confermata dal sondaggio dall´Osservatorio di Demos-Coop pubblicato oggi. La fiducia nel Tg1, presso il pubblico, infatti, oggi si ferma al 50 per cento: 3 punti in meno di un anno fa. Ma nel 2007 (direttore Gianni Riotta) il Tg1 era considerato affidabile dal 69% degli italiani (intervistati). Lo stesso livello, più o meno, del 2002. Insomma: un crollo. Subìto in meno di tre anni. Lo affianca il Tg5, il cui grado di fiducia è intorno al 49%. Cioè: 11 punti in meno del 2007. Il declino della fiducia accomuna, dunque, gli emblemi dell´informazione a reti unificate. Sensibile agli interessi politici (e non solo) del governo. Colpisce, soprattutto, il Tg1. Pubblico, istituzionale. Tradizionalmente prudente e, comunque, non "fazioso".

Nel 2007 appariva saldamente ancorato al "centro". I suoi estimatori si dividevano equamente tra elettori di maggioranza e opposizione. In seguito è scivolato a centrodestra (oggi: 20 punti sopra il centrosinistra). Ha "tradito" la sua missione. Anche per questo il Tg1 è stato largamente superato, negli indici di fiducia, dal Tg3 (il più apprezzato) e perfino dal Tg2, i cui "pubblici" sono politicamente coerenti con l´identità dei notiziari. La performance più rilevante, però, è stata realizzata dal Tg di La7.
Enrico Mentana ne ha fatto un notiziario prevalentemente dedito alla politica, quando gli altri imboccavano la strada della cronaca, soprattutto nera. Per evitare argomenti scomodi (la crisi economica, soprattutto). Inoltre, ha fatto informazione critica. Così, ha conquistato la fiducia del 52% degli italiani: 6 punti in più dell´anno scorso, ma 17 più del 2007. Ha intercettato un pubblico soprattutto di centrosinistra, imponendosi come una sorta di Tg di "opposizione", quando l´opposizione politica appariva afona.
Un marchio condiviso dall´intera rete, con esiti vantaggiosi. "L´Infedele", di Gad Lerner, è infatti il programma di approfondimento e dibattito politico che guadagna maggiormente negli ultimi anni. Oggi si attesta al 39%: 6 punti in più dell´anno scorso, ma 13 rispetto al 2007. Anche "Otto e mezzo", condotto da Lilli Gruber, ha consolidato i consensi dell´anno scorso: 35%. Cioè 10 punti in più del 2007, quand´era diretto da Giuliano Ferrara, meno affine all´orientamento politico del pubblico. Il canale di riferimento per i programmi di dibattito politico e di inchiesta, tuttavia, resta la Terza rete. "Ballarò", condotto da Giovanni Floris, continua a primeggiare largamente (55% di fiducia). Seguito da "Report", di Milena Gabanelli (48%). Mentre "Porta a Porta", di Bruno Vespa, e "Matrix", di Alessio Vinci, collocati in seconda serata, stazionano più in basso intorno al 40%. Sostanzialmente stabili rispetto al 2010.
Lo stesso grado di fiducia attribuito a "Servizio Pubblico", il nuovo programma di Michele Santoro. Una base di credito molto ampia per un programma "senza rete" (di riferimento), dopo l´uscita (allontanamento?) da Rai 2.
Infine, resta alto il livello di gradimento e affidabilità riconosciuto ai pop-talk e ai programmi di satira. "Striscia la Notizia", "Che tempo che fa", "Le Iene". Ma anche "Italialand".
In generale, l´evoluzione del rapporto fra società e informazione, proposta dall´Osservatorio Demos-Coop, mostra alcune tendenze piuttosto chiare.
1. La perdita di spazio della radio ma soprattutto dei giornali in edizione cartacea. Compensata dal ruolo assunto da internet, di cui si serve, quotidianamente, il 39% degli italiani (4 anni fa erano il 25%). Contribuiscono, a questo orientamento, i blog specializzati, ma soprattutto le edizioni online dei quotidiani che dispongono di un pubblico, in parte, specifico rispetto alle edizioni cartacee.
2. L´informazione via internet, peraltro, è ritenuta dagli italiani la più libera e, quindi, la più credibile.
3. L´affermarsi dei canali di informazione continua. Diffusi, fino a ieri, dalle reti satellitari, oggi anche da quelle digitali. È il caso di Sky Tg24 (la più equilibrata, per orientamento politico del pubblico). Ma anche di RaiNews 24. Queste reti godono di un grado di fiducia elevato, se si tiene conto dell´ampia quota di persone che ancora non le conoscono. E dispongono, inoltre, di un pubblico competente.
4. Il principale canale di informazione resta, tuttavia, la televisione, a cui accede, ogni giorno, l´84% della popolazione. Gli italiani, dunque, si fidano poco della tv e per questo, ricorrono ad altri media e altri canali. Quasi tutti, però, continuano a "consultarla". Oltre un quarto di essi, peraltro, si informa "solo" attraverso la tv. Si tratta, per lo più, di donne, anziani, pensionati, con livello di istruzione e ceto sociale medio basso. Queste persone trascorrono davanti allo schermo oltre 4 ore della loro giornata. Oltre ai tg, seguono assiduamente i programmi pomeridiani, che ricostruiscono la "vita" e, soprattutto, la morte "in diretta". Sono politicamente incerti, distaccati. E per questo, strategici dal punto di vista elettorale.
La televisione resta, dunque, uno spazio importante per la formazione dell´opinione pubblica. Nonostante 4 persone su 5 non la ritengano uno spazio "libero e indipendente". E quasi 3 su 4 dubitino che la fine del governo Berlusconi restituisca un sistema radiotelevisivo più aperto e trasparente. Gli italiani, cioè, dubitano che il "berlusconismo" sia davvero finito. Uno scetticismo fondato. Se si pensa all´assegnazione "gratuita" (e senza gara di appalto) a Rai e Mediaset delle nuove frequenze digitali, prevista dal precedente governo. Una scelta che, se confermata, rafforzerebbe il monopolio MediaRai. E indebolirebbe ancora la fiducia nel sistema radiotelevisivo. Questo squilibrio: rende in-credibile l´informazione del servizio pubblico. Va risolto in fretta.

Repubblica 12.12.11
Quattro persone su 10 cercano le notizie online
Blog e social network l'opinione pubblica è sempre più in rete
di Luigi Ceccarini


Il modo di informarsi degli italiani continua a presentarsi articolato. Vecchi e nuovi media si intrecciano nello stile di informazione dei cittadini. E la rete si è ormai consolidata come una risorsa importante a questo fine. Non solo per comodità e velocità, ma anche perché ritenuta più libera e democratica.
Sono alcuni dei risultati che emergono dalla XXXII edizione dell´Osservatorio sul capitale sociale degli italiani Demos-Coop, che si è concentrata sul rapporto tra i cittadini e i media.
La tv resta il cardine attorno al quale ruota l´informazione: viene utilizzata quotidianamente dall´84% degli italiani. I giornali e le radio sembrano scontare una lieve flessione rispetto allo scorso anno. Ma vi ricorrono, ogni giorno, rispettivamente il 28% e il 39% dei cittadini. Poi ci sono i settimanali.
Ma quel che pare ormai consolidato, considerando le precedenti rilevazioni, è l´utilizzo della rete. Ovvero, internet come fonte di informazione. Il 39% degli intervistati dichiara di utilizzarla ogni giorno per informarsi, attraverso i suoi molteplici canali: portali, blog, streaming tv, radio, podcast, testate varie, agenzie e rassegne stampa.
Del resto non si può ignorare che internet oltre ad essere ritenuto il media più democratico è anche l´unico, tra le fonti informative considerate nella ricerca, ad incrementare la sua credibilità presso gli italiani. Rispetto al 2009 si registra infatti una calo in termini di libertà e indipendenza di media come tv, radio e quotidiani. Internet, invece, è in controtendenza: dal 35 al 40%. Tra quanti ricorrono quotidianamente alla rete per informarsi tre su quattro leggono anche i giornali online. È un segmento di cittadini interessante, con un profilo particolare, per certi aspetti prevedibile.
Non si caratterizzano per tratti sociografici quali il genere o l´età, anche se prevalgono leggermente gli uomini e le coorti di età centrale. Ma si distinguono rispetto alla media per essere più scolarizzati e per appartenere a categorie come professionisti, tecnici e impiegati. Sono spesso online. Probabilmente anche attraverso smartphone, tablet e connessioni wireless. Usano la rete non solo per i social network ma ancor di più per discutere e informarsi di politica. Si mobilitano online, attraverso la partecipazione a petizioni e a campagne di opinione. Si dicono interessati alla politica e si identificano maggiormente nelle posizioni ideologiche di sinistra e centrosinistra.
La mappa della fiducia nei notiziari appare piuttosto chiara, e coerente con un profilo innovativo: indicano SkyTG24, RaiNews24, Tg di La7, oltre a RadioRai e Radio24. Relativamente ai programmi di informazione questi cittadini esprimono maggiore fiducia verso Servizio pubblico, 8 e Mezzo, L´infedele, Ballarò, Report, Che tempo che fa, In ½ Ora, Italialand, In onda, L´intervista, Piazza Pulita. Mentre danno minor credito, rispetto agli italiani, a Porta a Porta, Matrix e Striscia la notizia.

l’Unità 12.12.11
Ossessionati in rete, connessi ma isolati
di Flore Murard-Yovanovitch


Un ambiente sociale superaffollato dove invece trionfano la solitudine e il narcisismo Forse l’online è meno democratico, egualitario e accessibile di come finora è stata dipinto
L a Rete è il primo “ambiente sociale” della storia dove, senza uscire di casa, una persona si può vestire, ordinare cibo, divertimento e fare “una specie” di sesso. Nell’affollata solitudine high-tech, siamo sempre connessi, ma monadi isolate. La blogosfera sta radicalmente modificando le nostre vite. Eppure provate, nel coro di cyberentusiasmo ad accennare una sola critica a Internet e sarete immediatamente bollati di “reazionari” poco fashion... Eppure sarebbe più che mai lecito interrogarsi su come questo nuovo contesto tecnologico influenzi la vita sociale e la cultura; su ciò che il genere umano sta diventando. Siamo all’era dell’Uomo Interneticus, come annunciava brillantemente il saggista e critico culturale del New York Times Lee Siegel, nel suo pamphlet “Against the machine”, tradotto oggi “Homo Interneticus. Restare umani nell’era dell’ossessione digitale”?
Forse la Rete è meno democratica, egualitaria e accessibile di come abbiano voluto dipingerla “tecnofili utopisti” come Malcom Gladwell o Kevin Kelly. Il frenetico flusso di notizie, mischiato alla valanga di pop up, chat e pubblicità, non è necessariamente informazione né conoscenza. La popolarità online, non altro che volontaria fama virale. Sostiene Siegel: e se la logica del mercato e una potente ideologia neoliberista, da cui la rete sembrava immune, fossero proprio il suo fondamento? Impacchettare la propria persona il “packaging” e venderla al meglio su YouTube e MySpace, come si farebbe di una merce, non risponde alla logica di qualsiasi transazione commerciale? Non a caso il “prosumer” il consumatore diventato produttore è, per Alvin Toffler, il “consumatore ideale”; persino il suo tempo libero è dedicato alla autopromozione della propria messa in scena...
Ma questa perenne e sapiente costruzione di una “privacy” pubblica, è forse lo sconvolgimento più profondo tra le sfere di privato e pubblico. Come se per relazionarsi agli altri, fosse ormai necessario diventare produttori dello Spettacolo, ma celare sempre maggiormente la propria vita. La tanto valorizzata “autoespressione”, poi, non è necessariamente creatività i geni non nascono online né l’autoproduzione è sinonimo di più immaginazione. Al contrario, come scrive Siegel, il successo di Internet dipende dalla sua capacità di assecondare un bisogno narcisistico di esaltare il proprio io. Per Cristopher Lasch, il narcisista era uno «la cui percezione di sé dipende unicamente dall’approvazione di altre persone, di cui tuttavia non gli importa nulla»... Uno spunto per noi nuovi narcisi online. Di sicuro, l’assenza di una dialettica fisica e reale fra le persone rischia di ridurre l’“altro” a fantasma astratto delle proprie proiezioni e ha un patologico potenziale di regressione autoreferenziale e anaffettiva. Ma questo è vietato anche pensarlo: la rete è progresso e non tollera, ancora, una coscienza critica. E se questo radicale scombussolamento dei rapporti umani fosse invece la vera fase suprema del capitalismo? Nonostante Lenin...

l’Unità 12.12.11
Intervista a Nicolai Lilin. L’aria nuova di Mosca
«Ma io ho paura del terrorismo di Stato»
Lo scrittore russo teme i contraccolpi del regime. «La gente non crede più alle favole di Putin. Il movimento si può salvare se diventa alternativa politica»
I nastri bianchi. «Non è una rivoluzione colorata, non è pilotata dagli Stati Uniti. La gente non ha più paura perché è disperata»
di Marina Mastroluca


E adesso? Centomila persone nelle strade di Mosca, i nastri bianchi scambiati come una bandiera, tra le mani il ritratto di un Putin invecchiato e la scritta: «2050, mai». Per Nicolai Lilin, lo scrittore russo di Educazione siberiana e di Il respiro del buio, appena pubblicato da Einaudi, le immagini che in questi giorni arrivano dalla Russia sono come i cristalli di un caleidoscopio: basta muovere appena il cilindro per vedere un disegno diverso, «analisi contraddittorie». «Il solo fatto che Putin abbia perso le elezioni e dico perso tra virgolette, perché ha sempre intorno al 50% mi riempie di gioia. Perché la Russia è un Paese basato sulla corruzione e sul controllo dei servizi segreti, dove i cittadini sono trattati come schiavi. E ora qualcosa si sta muovendo». Un cambiamento che fa anche paura. Perché il sistema di potere che ruota intorno all’attuale premier e prossimo presidente della Russia ha nella sua storia il suo dna. «Temo una nuova ondata di attacchi terroristici», dice Lilin.
Russia Unita, il partito di Putin, esce ridimensionato dal voto e si parla di brogli consistenti. Come legge gli avvenimenti di questi giorni?
«Il risultato del voto è solo un segnale. In Russia la gente ha creduto per anni alle favole che sentiva raccontare. Ha creduto al pericolo del terrorismo, ha creduto che i ceceni fossero criminali e che questo piccolo uomo fosse in grado da solo di garantire sicurezza, salvare le città, mantenere l’ordine. Putin in realtà non è che il risultato di un compromesso tra servizi segreti e oligarchi, per evitare una guerra civile e spartirsi quello che c’era da spartire. È un piccolo uomo, uno che ha sempre bisogno di dimostrare il contrario e per questo si fa fotografare con le tigri, o a torso nudo o con un fucile da cecchino. Non è nemmeno il meglio che possano esprimere i servizi segreti, è semmai un loro fallimento. Il voto è il segno che la gente comincia a capire, ma c’è una cosa più importante».
Che cosa?
«Le manifestazioni. Perché vogliono dire che il popolo russo ha ripreso coscienza, le persone non hanno più paura perché sono disperate. Attenzione però a dire che Putin è l’obiettivo, perché non è così. È il sistema di potere nel suo insieme: i russi hanno capito che vivono in un Paese corrotto e vogliono seguire invece una via democratica. Io sto seguendo da vicino quello che succede, sono in contatto anche con persone che sono nei servizi di sicurezza. E tutti mi dicono che forse c’è davvero un aria di cambiamento».
Perché ora? Putin è in sella dal 2000...
«È il momento storico. In piazza ci sono molti giovani, è una nuova generazione. È cresciuta la generazione giusta, quella che oggi ha 20-25 anni o poco più. E che sa muoversi su internet».
Crede che il web sia il fattore chiave delle proteste di questi giorni?
«Il web può essere buono o cattivo, dipende da chi lo usa e come. In Russia ha consentito l’accesso a fonti di informazione alternative a quelle dei canali televisivi governativi. Non so se vi sia mai capitato di guardarli. Trasmettono solo bugie, falsificazioni, una realtà mistificata».
È possibile che un ex colonnello dei servizi segreti come Putin, un uomo che ha fatto dell’intelligence il suo mestiere non abbia capito la portata delle nuove tecnologie nel diffondere informazione una volta si sarebbe detto contro-informazione? C’è un problema generazionale?
«Hanno capito benissimo. Ma che cosa possono fare per imbavagliare il web? Negli ultimi anni Putin ha fatto di tutto per reprimere qualsiasi movimento per l’alternativa. Ci sono stati giornalisti e attivisti malmenati e uccisi, c’è stata una contiguità tra governo e servizi segreti e gruppi neonazisti mandati a fare i lavori sporchi. Il web è uno strumento che riesce a rompere la censura. Solo da internet abbiamo saputo per esempio della rivolta armata contro il pagamento del pizzo per il taglio delle foreste, quelli che ho chiamato i “Robin Hood della Siberia”».
Che scenario ipotizza per il futuro?
«Dopo l’ubriacatura della manifestazione di sabato, non contrastata dalla polizia, bisogna fare molta attenzione. Quello che temo è un ritorno del terrorismo. Putin ha in mano la parte peggiore dei servizi segreti, la più corrotta, l’Fsb, che è stato il vero braccio armato degli oligarchi. Ci ricordiamo tutti come Putin è arrivato al potere, con le bombe nei condomini delle città russe. Sono loro i veri terroristi. Temo quindi nuovi attentati. Poi si darà la colpa ad altri, forse si farà una nuova guerra. Non in Cecenia, stavolta magari in Inguscezia o Daghestan».
I nastri bianchi scelti dai manifestanti sembrano evocare le rivoluzioni colorate come quella in Ucraina.
«No, è diverso. Questo non è un movimento pilotato dagli Usa. Il nastro è solo un modo per riconoscersi, come facevo anch’io con i miei compagni durante le operazioni di combattimento in guerra, per evitare il fuoco amico. Quello che spero è che la protesta diventi presto un movimento politico capace di rappresentare un’alternativa».
Ci sono però anime molto diverse...
«È vero, ma si può cercare una figura unificante, capace di mettere insieme un gruppo di intellettuali. Anche l’ex premier Kasyanov, uno in grado di mediare tra la piazza e Putin».

l’Unità 12.12.11
«Da tanto tempo aspettavamo di poter protestare»
La «rivoluzione della neve» vista da chi sabato è stato in piazza Lo scrittore Zakhar Prilepin e Ket, 29 anni: «Questa è la rinascita della società civile. Quello che chiediamo sono elezioni eque»
di Giuseppe Fucile


Testimonianze dai giorni di proteste in Russia. Voci dalla piazza, voci da quella che viene chiamata la «rivoluzione della neve». Il primo a parlare Zakhar Prilepin. Scrittore, giornalista ed esponente di punta del partito L’Altra Russia, uno dei protagonisti della rinascita di questi giorni. «È risorta la società civile russa? Sì, e penso che ciò sia molto positivo per diversi motivi: l’opposizione è finalmente riuscita in questa occasione a superare i contrasti interni e ad organizzare un qualcosa di collettivo. Il risultato più soddisfacente è che così siamo riusciti a portare in piazza molte persone: ci sono tanti nostri sostenitori, certo, ma anche molti di coloro che non sostengono nessun movimento in particolare. Questo è molto significativo. La situazione in cui ci troviamo oggi è nuova rispetto al passato perché la gente ormai è stanca della situazione politica che c’è in Russia da 15 anni a questa parte e finalmente comincia a protestare».
Finora non ci sono stati episodi particolarmente violenti. Prilepin ritiene che Putin cercherà «di evitare la violenza, perché non vuole situazioni di guerriglia urbana. I proclami aggiunge lo scrittore servono solo a mostrare i muscoli: sa benissimo che gli episodi di violenza lo danneggerebbero. Per quelo che ci riguarda, meglio fare manifestazioni giorno per giorno, il più pacifiche possibile per fare in modo che la gente non si spaventi e vi partecipi serena, in numero, si spera, sempre maggiore».
Ket è una ragazza di 29 anni che il 6 dicembre è stata fermata dalle forze dell’ordine insieme ad alcuni suoi amici e rilasciata il giorno dopo. Lei non è iscritta a L’Altra Russia né a Solidarnost’, i due movimenti politici in prima linea nell’organizzazione delle manifestazioni di questi giorni. Non rimane che da chiederle perché era in piazza: «E quando ricapita un’occasione come questa?», risponde Ket. «È da tanto che aspettavamo di poter protestare contro gli abusi e la repressione di quelli che stanno al potere. Spesso la gente non sa neanche chi siano gli organizzatori, e in realtà non è che importi più di tanto: si sta protestando contro un fatto concreto, il modo in cui sono state falsificate le elezioni. È una protesta della società civile, più che politica. L’altro giorno mi hanno fermata? Perché con alcuni miei amici avevamo formato una catena umana di 5-6 persone. Alcuni poliziotti ci hanno visto e ci hanno catturato: è vietato formare gruppi di più di tre persone. Siamo stati portati all’interno di una camionetta. Secondo la legge, la polizia non può tenerti in stato di fermo per più di tre ore senza aver formalizzato un’accusa. Il conteggio delle tre ore, però, scatta dal momento in cui ti fanno entrare nel dipartimento. Siamo rimasti chiusi nella camionetta per 3-4 ore, finché finalmente siamo entrati e ci hanno contestato l’accusa di “resistenza a pubblico ufficiale”, accusa ovviamente pretestuosa, dopodiché abbiamo passato la notte in cella».
A cosa vorresti che si arrivasse dopo questo periodo di proteste? «Sarebbe bello se le elezioni venissero rifatte, senza brogli e facendo partecipare chi era stato escluso. In fondo non è tanto quello che chiediamo: solo elezioni eque».

Repubblica 12.12.11
Così nella mia Russia è nata la società civile
Così la Generazione Internet ha risvegliato il popolo russo
In Occidente pochi capiscono che nella sua storia il Paese ha vissuto in un clima di schiavitù Ma adesso grazie alla Rete la gente non si fa più imbrogliare
di Nicolai Lilin


Negli undici anni del potere totalitario esercitato da Vladimir Putin le recenti notizie che arrivano dalla Russia sono forse le più importanti e positive sia per la vita interna socio-politica del paese, sia per la sua immagine nel quadro internazionale. La reazione immediata del popolo ai brogli elettorali esercitati dal potere corrotto del Cremlino.
UNA protesta che non deve essere considerata dagli occidentali solo come una reazione contro Putin. L´accaduto a Mosca segna un nuovo percorso etico e morale della società post sovietica: finalmente i cittadini si sono indignati e hanno avuto il coraggio e la capacità di organizzarsi e rivendicare il proprio diritto al voto.
In Occidente pochi capiscono fino in fondo che la Russia nel corso di tutta la sua storia ha vissuto in un clima di schiavitù e terrore: prima quello della monarchia, poi quello comunista, poi il recente pseudo-democratico, il risultato è stato sempre lo stesso: generazioni di schiavi, prigionieri, militari contro la propria volontà, tantissimi esuli ed emigranti. Gente costretta a combattere le guerre, trasformata dalla propria classe dirigente in una massa di ladri e bugiardi, e se qualcuno mostrava di essere all´altezza di un ragionamento intellettuale, veniva soppresso, come gli intellettuali anti monarchici impiccati nel 1825 a seguito della Rivolta di Dicembre. E come moltissimi altri intellettuali divenuti prigionieri del Gulag ai tempi di Stalin e perseguitati fino all´ultimo anno di Urss. Persone coraggiose e oneste come Anna Politkovskaya, uccise dai boia del regime putiniano negli anni della loro tirannia.
A Vladimir Putin mancavano tre mesi prima delle elezioni presidenziali e sembra che il suo primo passo verso un regno che potrebbe durare sedici anni sia andato storto. Il popolo russo ha dimostrato che non ha più bisogno delle promesse buttate dal podio presidenziale come le ossa ai cani. La società ha bisogno di solide basi democratiche e di una politica trasparente e onesta. Un elemento importante che emerge dalle dinamiche delle ultime proteste è la consapevolezza che il movimento popolare è troppo grande per reprimerlo con la forza. In un recente passato, i rappresentanti del sistema putiniano non si fermavano davanti a niente: basti ricordare il campione di scacchi, intellettuale e politico Gari Kasparov, massacrato dalla polizia insieme con gli attivisti del partito da lui ideato, perché aveva manifestato contro la politica del Cremlino.
L´importanza di questo periodo storico è troppo evidente e sulla scena sono apparsi i rappresentanti di una classe di cittadini che prima sembravano invisibili: trentenni che hanno avuto la possibilità di "temprare" le proprie convinzioni politiche negli scenari apocalittici del crollo dell´Urss, paese in cui sono nati e cresciuti, allevati dall´ideologia sovietica che ai loro tempi ormai sembrava rappresentare l´ombra di un impero cadavere. Hanno passato l´adolescenza costretti ad inserirsi in una società corrotta, criminalizzata alla maniera hollywoodiana, hanno conosciuto le guerre civili post sovietiche, e ora hanno raggiunto l´età in cui si tirano le prime somme del proprio vissuto, in cui gli uomini si prendono la responsabilità per qualcosa che supera il limite etico di un singolo individuo. Scoprendo sulla propria pelle l´importanza di un cambiamento, questi nuovi cittadini russi usano una nuova forma d´informazione, sono popolo del web, sono in collegamento tra loro mediante la rete, non si fanno imbrogliare dalla propaganda governativa, usano i canali alternativi per informarsi e non ci mettono molto ad organizzarsi. Loro senza dubbio costituiscono il blocco più forte e importante della massa che ha manifestato la denuncia al sistema governativo, alla corruzione politica, alle ingiustizie e prepotenze dello Stato.
Nonostante la positività dei primi movimenti bisogna vedere come si evolverà la situazione: dopo il primo atto di protesta è necessario che il movimento assuma le responsabilità politiche, crei un´alternativa capace di concrete proposte a livello amministrativo. Da parte del regime di Putin ci si può aspettare una reazione "sotterranea", fatta di complicazioni artificiose della sicurezza nazionale mediante l´impiego di alcune parti corrotte dei servizi segreti. Nel peggiore dei casi può ricomparire la minaccia del terrorismo caucasico in Russia: non scordiamoci le ultime esplosioni nell´aeroporto Domodedovo, avvenute proprio all´inizio della spaccatura tra Medvedev e Putin, nel momento in cui il potere di quest´ultimo è stato compromesso.
In sintesi l´analisi della situazione attuale in Russia continua ad essere molto instabile: dopo una forte risposta delle masse non abbiamo ancora avuto la possibilità di osservare la reazione di chi è al potere, ma già si percepisce un grande gelo tra le fila dei potenti e le loro vecchie tregue ora pregiudicate. E come se non bastasse, si è aggiunto l´osceno risultato dei voti che arriva dalla Cecenia, quel novantanove percento pro putiniani che puzza di terrore, che si può provare soltanto stando in un campo di concentramento grande come uno Stato.

Repubblica 12.12.11
"Ascoltiamo la voce di chi contesta" la rivoluzione "bianca" spaventa Putin
Cresce la protesta dopo la grande manifestazione di Mosca
Ma è scontro ai vertici tra falchi e colombe L´opposizione: "Andiamo avanti"
di Nicola Lombardozzi


Mosca - Il richiamo alla realtà, dopo il giorno dell´esaltazione e dei centomila in piazza, arriva su Facebook. Lo firma personalmente, dalla sua dacia, il Presidente Dmitri Medvedev che preferisce Internet ai discorsi ufficiali ma che diffida dalle conseguenze del mondo libero del web. «Non condivido niente di quello che è stato detto ieri in piazza Bolotnaja», scrive sulla pagina più clickata di tutta la Russia. E precisa gelido parlando di sé in terza persona: «Del resto, il Presidente ha già ordinato un´inchiesta sull´eventualità di alcune irregolarità nelle operazioni di voto. Molte persone ieri hanno manifestato il loro parere. E´ legittimo ma finisce qui».
Un no secco a tutte le richieste urlate ieri dalla più grande folla che abbia mai manifestato a Mosca negli ultimi vent´anni: no all´annullamento delle elezioni politiche del 4 dicembre; no alle dimissioni del presidente della commissione elettorale; ma soprattutto no all´allargamento delle maglie burocratiche che restringono gli spazi per i partiti e i politici dell´opposizione. Reazione prevista, data quasi per scontata, dagli organizzatori e dai militanti che adesso annunciano nuove dimostrazioni di forza. Almeno una ogni sabato fino a un grande raduno nella capitale per la vigilia di Natale.
L´entusiasmo dei centomila di piazza Bolotnaja dilaga intanto contagioso per tutto il Paese. Cortei e sit-in si sono svolti ieri a San Pietroburgo, nell´Estremo Oriente russo e a Perm, negli Urali. E mentre i social network vengono inondati da incoraggiamenti per le prossime contestazioni, uno dei più politici tra gli organizzatori, l´ex vicepremier eltsiniano Boris Nemtsov, sceglie i microfoni russi di Radio Liberty, la radio finanziata dagli Stati Uniti che si rivolgeva ai cittadini dell´Est Europa durante la Guerra Fredda: «Andremo avanti. La società civile si è svegliata».
È evidente che i centomila hanno comunque scosso molte sicurezze nel governo. Mentre i manifestanti sgombravano allegramente sotto la neve, nell´ufficio da premier di Vladimir Putin, la discussione è stata lunga e tesa. Annullare il voto viene considerato fuori discussione ma il dibattito interno tra le due anime dello staff di Putin è semmai sulla linea da seguire nei confronti della contestazione. I "falchi" che vorrebbero retate e divieti sono per il momento tenuti a bada dalle "colombe" che rinfacciano loro il disastro della campagna elettorale. Frutto dell´insistenza delle colombe è il messaggio del premier letto dal suo portavoce a ventiquattro ore esatte dalla manifestazione di ieri: «Stiamo ascoltando le voci di tutti, anche di chi ci contesta».
Troppo poco. Putin vorrebbe dare un tocco di apertura democratica almeno alle prossime elezioni presidenziali del 4 marzo. Ma non si comincia bene. Ieri, lo scrittore Eduard Limonov leader del movimento neo bolscevico, era stato autorizzato a usare un grande albergo di periferia per iniziare la sua raccolta di firme che legittimino la sua candidatura. Limonov ne ha approfittato per riprendere gli slogan di piazza Bolotnaja. È stato inviato a lasciare l´albergo e a continuare la raccolta di firme dal sedile posteriore della sua auto.
E il malessere nello staff si può raccontare con un episodio rivelato dal direttore di Radio Eco di Mosca Aleksej Venediktov. Sabato mattina è stato convocato a Mosca un governatore del´Est. Un rimprovero di gruppo, di Putin e dei suoi, per i risultati disastrosi raccolti dal partito nella sua regione. Per niente intimidito, il governatore ha ascoltato la sfuriata e ha risposto: «Io però ho consentito un voto onesto».

Corriere della Sera 12.12.11
Non si può riabilitare Stalin
di Antonio Carioti

Nato nel 1937, il sociologo e storico russo Victor Zaslavsky, scomparso a Roma due anni fa, si era dedicato allo studio del sistema sovietico. E uno dei libri che più lo avevano colpito era Prigioniera di Stalin e Hitler della comunista tedesca Margarete Buber-Neumann (sua la prefazione all'edizione italiana, uscita dal Mulino nel 1994), in cui le analogie tra i regimi dei due tiranni emergevano con nitidezza.
Giusta quindi la scelta di ricordare Zaslavksy con il volume a più voci Società totalitarie e transizione alla democrazia (Il Mulino, pp. 537, € 37), curato da Tommaso Piffer e Vladislav Zubok, nel quale vari autori intervengono su temi riguardanti i sistemi a partito unico. La maggior parte dei saggi concerne la realtà sovietica e postsovietica, ma troviamo anche altro: per esempio un intervento di Emilio Gentile, polemico anche verso il mostro sacro Eric Hobsbawm, che riafferma il valore del concetto di totalitarismo e la sua piena applicabilità al fascismo italiano.
Di grande interesse sono i contributi su Stalin, che fanno piazza pulita dei tentativi di riabilitare il despota georgiano. I suoi apologeti dovrebbero spiegare come mai, nonostante il trionfo in guerra, venne sconfessato dagli ex seguaci a pochi anni dalla morte. Né lo si può presentare come un vero modernizzatore. Non è esatto, nota Oleg Chlevnjuk, che prese la Russia con l'aratro e la lasciò con la bomba atomica. Semmai «Stalin lasciò la Russia sia con la bomba atomica che con l'aratro», perché al progresso negli armamenti, come sottolineava Zaslavsky, corrispondeva una grave arretratezza in altri settori.
D'altronde l'impronta staliniana si sta rivelando duratura. Il regime di Vladimir Putin, sostiene Lev Gudkov nel suo saggio sulla transizione postsovetica, è «la prosecuzione di una delle possibili linee di sviluppo del vecchio sistema» e sta portando a «un crescente degrado sociale e culturale del Paese».

Corriere della Sera 12.12.11
Le mamme perdute del Sinai «Il nostro inferno tra i predoni»
Stupri e torture: i racconti delle africane vittime dei trafficanti
di Alessandra Coppola


TEL AVIV — È pomeriggio, ha smesso di piovere, ma questa donna nella camera in fondo è ancora a letto, nell'odore acre di chiuso e abbandono, dentro il fumo irrespirabile di un fornello a gas acceso nella prima stanza, vicino al materasso. «Devi far prendere aria al piccolo», dice Michal, l'assistente sociale, a una ragazza che siede accanto a un fagotto di pochi mesi. Lei non capisce. Due bambine che corrono tra le pozzanghere in sandali più grandi dei loro piedi vengono chiamate per tradurre. La ragazza annuisce, ma non si muove. Michal sospira: «È una situazione così difficile…».
Venticinque letti ricavati dall'Ong Ardc in una struttura bassa nel quartiere più povero di Tel Aviv per altrettante donne. Ognuna con uno o più bambini, tante con una pancia di mesi, l'ultimo parto tre settimane fa, una femmina. La gran parte vittima di stupri, ripetuti e feroci, da parte dei beduini che le hanno tenute segregate nel Sinai, lungo il percorso per Israele. La tappa finale di un viaggio che inizia in Eritrea, passa per il Sudan, arriva in Egitto; e che da anni lascia migliaia di migranti in balìa di ex contrabbandieri ora trafficanti di esseri umani.
Dalle donne è cominciato tutto. «Le rapivano per violentarle, poi hanno capito che potevano chiedere soldi». Davanti al computer, nella sede dell'associazione Hotline for migrant workers, Sigal Rozen parla, beve caffè, non perde di vista il telefono. «Anche stamattina mi hanno chiamato: “Manda la polizia, ti prego!”». Le si incrina la voce. «"Dove siete?", ho chiesto. "In un container sottoterra", ha risposto l'uomo. Sono così vicini…». Ma è l'altro lato del confine, in Egitto, che può fare? Ong israeliane, associazioni internazionali, l'Alto commissariato Onu per i rifugiati, hanno tutti raccolto cifre, prove, testimonianze. L'ultimo rapporto dice che oggi, in questo momento, 350 persone, donne e bambini compresi, sono in attesa di riscatto o di aiuto.
Dal 2006, 46 mila profughi africani, il 90 per cento eritrei e sudanesi, sono entrati nello Stato ebraico attraverso il Sinai. Al principio, piccoli gruppi; dopo i respingimenti italiani e la guerra in Libia, un'onda crescente. Solo nel 2010 sono stati 14.735; nel 2011 fino al 6 novembre Hotline ne ha contati 12.407. Almeno la metà ha una storia atroce di torture, abusi, reclusioni in condizioni disumane che finiscono solo con il pagamento di cifre spaventose per chi è scappato dalla fame, oltre che da violenze e dittature.
«Mai pensato di venire in Israele — dice Temesghen, 33 anni, alla clinica di Physicians for human rights (Phr) a Jaffa —. Se avessi saputo che cosa mi aspettava, non l'avrei fatto». Eritreo, ha subito le prigioni libiche, ha tentato quattro volte di partire per Lampedusa, non c'è riuscito. Quindi, s'è avviato verso Est ed è caduto nell'inferno del Sinai: «Ci picchiavano ogni giorno con tubi e bastoni, ci minacciavano: se non pagate vi prendiamo gli organi». Tutti riferiscono di un particolare accanimento dei carcerieri musulmani sugli eritrei cristiani, e allo stesso tempo di un uso incontrollato e poco islamico di alcol e droghe.
Sigal, come altri attivisti, conosce i nomi delle tribù che dirigono i traffici, e persino dei loro capi: Samieh detto Abu Musa, tra gli altri. Ma indicare un punto preciso nella terra di nessuno oltre il Negev è affare da militari e competenza degli egiziani. «Loro lo sanno — dice —. Un uomo che hanno cosparso di benzina, bruciato e poi bagnato perché non morisse è stato liberato, ma non riusciva a camminare: ha raggiunto il confine strisciando per mezzo chilometro. Vuol dire che sono qui — allunga il braccio — a 500 metri di distanza da Israele!». Ma nessuno va a prenderli.
Pure Zemen ha passato la frontiera reggendosi sulle ginocchia. L'hanno torturato per ottenere numeri di telefono di qualcuno che pagasse per lui 20 mila dollari. «Mi dicevano: se muori meglio, i tuoi reni valgono di più. Sono stato sei mesi legato, quando hanno tagliato le catene non riuscivo a muovermi». Adesso è convalescente a Newe Shalom, ospite di una famiglia israeliana, padre, madre e tre figlie. Parlano a segni e sorrisi, funziona. Quando Suor Azezet Kidane, comboniana eritrea, gli fa visita, lo trova incredibilmente migliorato. Il padrone di casa conferma: «Ha un buon appetito...».
Suor Azezet è indispensabile. È grazie a lei che le associazioni per i diritti umani sono riuscite a mettere insieme un dossier inappellabile. Due volte alla settimana si reca nella clinica di Jaffa per fare da interprete con i malati, ma soprattutto per aiutare nella raccolta dei dati. Ogni nuovo arrivato, un questionario. Quanti mesi sei stato prigioniero? Quanto hai pagato? Ti hanno sparato? Una bellissima ragazza di ventun'anni che sembra sul punto di partorire annuisce: ha attraversato il confine da poche settimane, superata la rete è svenuta, per stanchezza e paura. La polizia di frontiera egiziana mira ad altezza d'uomo.
I medici della clinica di Phr sono stati i primi a capire che qualcosa di orribile accade nel Sinai. «Arrivavano sempre più frequentemente persone con problemi ortopedici, soprattutto registravamo un preoccupante aumento di disturbi ginecologici e richieste d'aborto — spiega il direttore dell'Ong, Ran Cohen —. All'inizio erano casi individuali, adesso è chiaro che è un sistema: almeno un profugo su due riferisce di abusi».
Ed è pure «una questione economica», aggiunge il responsabile dell'Unhcr a Tel Aviv, William Tall. Un enorme giro d'affari. Le tribù nomadi che dal Sudan fino al Sinai truffano, rapiscono, vendono e comprano esseri umani a migliaia. Poliziotti e militari corrotti. E all'arrivo in Israele un bacino di manodopera in nero, con l'ansia di tirare almeno 12 ore di lavoro al giorno per ripagare i debiti del viaggio. Se ai primi migranti estorcevano 2-3 mila dollari, i prezzi del rilascio hanno raggiunto i 20 mila. Senza nessuna garanzia di sopravvivenza. E con una prospettiva di fatica e povertà.
Nella foschia della sera Lewinsky Park, a sud di Tel Aviv, si popola di fantasmi. «Tanti vengono a dormire qui, all'aperto», indica le sagome scure Sara Robinson, di Amnesty International. Israele ha firmato e non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati: ne rispetta la spirito, ma è a disagio con un'immigrazione non ebraica che minaccia il delicato equilibrio demografico. Ieri il consiglio dei ministri ha varato uno stanziamento di 160 milioni di dollari per completare la barriera al confine e allargare il centro di detenzione per i clandestini. Sara spiega un meccanismo complicato per cui gli eritrei non hanno status di rifugiati, ma una sorta di «libertà condizionata» da rinnovare periodicamente. Una protezione che però non dà accesso ai diritti.
Un uomo alterato dall'alcol in un bar frequentato da eritrei si lamenta e dice: «Non ci accettano, né ci mandano via».

l’Unità 12.12.11
Frantz Fanon, eroe dell’anticolonialismo
nel nome della libertà
Nel 1961 uscì «I dannati della terra»: fu un libro culto. A 50 anni dalla morte Martinica, Algeria e Francia ricordano lo scrittore
Le accuse. Il volume fu sequestrato: una minaccia per lo Stato
di Anna Tito


Fu un libro culto fin dalla sua apparizione, sul finire del 1961, per i tipi di Maspéro, I dannati della terra, lucidissima analisi del sistema coloniale e delle lotte di liberazione del Terzo Mondo, in Italia tradotto da Einaudi. La polizia ne ordinò il sequestro in quanto «minaccia alla sicurezza dello Stato», anche perché ne firmava la prefazione il «maître-à-penser» dell’epoca Jean-Paul Sartre, all’apice della gloria e della popolarità. In un ventennio vendette 160mila copie e lo tradussero in 19 lingue, e al suo autore Frantz Fanon, trentaseienne neuropsichiatra di origine martinicana, si dedicarono ben sei biografie. Ma lui non poté assaporare il successo, né celebrare, pochi mesi dopo, l’indipendenza dell’Algeria, causa per la quale aveva tanto combattuto e scritto: ammalato di leucemia, si spense il 6 dicembre del 1961, dopo essere riuscito a malapena a correggere le bozze del volume, portategli personalmente dall’editore nell’ospedale di Washington in cui si trovava ricoverato.
TERZOMONDISMO
I dannati della terra in un baleno s’impose come il manifesto del «terzomondismo», causando polemiche a non finire, scandalizzando la destra e alimentando la cattiva coscienza della sinistra, che manteneva posizioni ambigue sulla questione dell’indipendenza algerina. Fanon sembrò incarnare lo «spirito profetico della rivoluzione del terzo mondo» e alla sua figura si appellarono in tanti, negli anni ’60 e ’70, dagli afroamericani agli avversari della guerra in Vietnam e ai partigiani del Che Guevara. I suoi detrattori, invece, lo bollarono come «angelo sterminatore», e lo accusarono di aver teorizzato la «necessità della violenza» da parte delle popolazioni colonizzate. Per un paio di decenni successivi I dannati della terra fu bollato come «un libro fuori tempo», «superato», anche per via del fatto che sono venuti alla luce altri aspetti degli ideali dell’epoca, quali il fanatismo, l’intolleranza e la corruzione. Per Bernard Henri Lévy l’opera di Fa-
non alimentò le tesi sostenute da «movimenti oscurantisti», da «generazioni di assassini logici» per giustificare i loro crimini. Dopo circa tre decenni di oblio, le sue tre patrie Martinica, Algeria e Francia oggi, a 50 dalla scomparsa, riscoprono Frantz Fanon. E lo si ricordano alla grande: France Culture gli rende omaggio con una serie di trasmissioni dedicate allo «scrittore e pensatore impegnato, eroe dell’anticolonialismo» e La Découverte riedita la sua opera omnia, a partire dal primo saggio, Peau noire, masques blancs (1952, tradotto da Comunità nel 2000), indagine psicanalitica d’avanguardia sul complesso d’inferiorità che spinge il nero ad assimilarsi al bianco. In Martinica, sua terra d’origine, a lungo lo si è ignorato: se a Fort-de-France un viale porta il suo nome, in questa colonia che ha scelto la via dell’«assimilazione» per diventare un dipartimento francese, la figura di Fanon, combattente per la liberazione nazionale e militante, in terra algerina, per l’indipendenza, creava non poco imbarazzo; una prima, timida apertura si intravede con la pubblicazione, a Fort-de-France, di Frantz Fanon et les Antilles.
Anche l’Algeria sembra finalmente ricordarsi del suo impegno: appare Frantz Fanon et l’Algérie, numero speciale della rivista «Algérie/Littérature/Action». A rigor di logica, l’Algeria avrebbe dovuto venerare come un eroe lo psichiatra impegnato nel Fln che nel 1959, in L’An V de la Révolution algérienne denunciò l’ostinazione dei coloni nel proibire alle donne algerine di portare il velo. Tutt’altro: un nero, straniero e agnostico inevitabilmente risulta sgradito ai nazionalisti arabo-islamici. Insomma, Fanon, «uomo nel mondo», a chi appartiene? Nota Le Monde: «non sarà anche lui un dannato?».

Repubblica 12.12.11
Tra logica del pogrom e mito della verginità
di Michela Murgia


La notizia dello stupro di una sedicenne italiana ad opera di due rom sabato sera è bastata per trasformare il quartiere torinese delle Vallette nel set infuocato di "Mississippi Burning".
Solo dopo la ragazzina, terrorizzata dalla portata della reazione del quartiere, ha ammesso che non c´era nessun rom e nessuno stupro. Le cronache riferiscono che era stata invece con un ragazzo italiano, che era la sua prima volta e che era atterrita dalla possibile reazione dei familiari alla perdita della verginità.
La notizia grossa è quella del pogrom verso la comunità rom, ennesimo frutto di una cultura dove si cresce imparando a temere il diverso e lo straniero a prescindere dal fatto che sia colpevole di qualcosa. Immagino che si troverà senza difficoltà qualcuno pronto a dire che, se non era vero stavolta, lo sarebbe stato comunque la prossima. Il fatto che questa cultura negli ultimi vent´anni abbia trovato sponda politica e sia riuscita a generare sindaci, assessori, presidenti di provincia e di regione, europarlamentari e persino ministri ha aiutato molto a farla passare dal bancone del bar al sentire comune.
È anche grazie a questo se oggi in Italia c´è chi ha smesso di vergognarsi di essere razzista. La notizia che invece appare come secondaria è che una ragazzina di sedici anni ha creduto che fosse meno pericoloso e grave per lei dire che era stata violentata da due "stranieri" piuttosto che ammettere di aver fatto l´amore volontariamente con un ragazzo del posto. Non voglio pensare che una ragazza dica una calunnia simile per gioco. È assai più credibile che lo abbia fatto perché avvertiva che se avesse detto la verità, cioè se avesse dichiarato di aver fatto l´amore perché voleva farlo, sarebbe stata percepita e trattata come "colpevole" di qualcosa e sarebbe andata incontro a qualche tipo di sanzione, sociale o familiare, morale o fisica.
Qualche articolo ieri riportava l´abitudine della famiglia a farla periodicamente controllare da un ginecologo per verificarne l´illibatezza, un uso tribale che, se confermato, direbbe molte cose sul clima in cui la ragazzina deve aver concepito la sua irresponsabile e protettiva bugia. Ma è marginale. Resta comunque l´immagine di una ragazzina che nell´Italia del 2011 fatica di più ad ammettere di essere stata consenziente che a farsi passare per vittima di stupro indicando il primo colpevole credibile, magari quello la cui etnia è già in sé una sentenza: rom.
Quella ragazza non poteva prevedere che molti nel quartiere avrebbero strumentalizzato la sua falsa condizione di vittima come innesco della loro rabbia e dell´antica voglia razzista di dar fuoco ai campi rom di ogni latitudine. L´incendio dell´accampamento non è in nessun modo colpa sua. Ma è accaduto e i vigili del fuoco si sono trovati davanti non solo le fiamme, ma anche una folla decisa a impedire che l´incendio venisse spento prima di aver bruciato tutto.
Qualcuno, solidale con chi ha appiccato il fuoco a prescindere dalle responsabilità nello stupro, mi ha scritto su Facebook che era ora, che gli abitanti del quartiere sono spaventati e che se anche adesso non gli è passata la paura di uscire di casa in mezzo a tutti quegli zingari, almeno la rabbia si è sfogata.
Davanti alla cenere e alle bugie ora si parlerà di razzismo, ed è sacrosanto che avvenga. Ci si chiederà pure cosa sta succedendo nella civile e solidale Torino, ed è giusto che ce lo si chieda. Ma spero che qualcuno si faccia domande anche su quale tipo di italianissima cultura è quella che induce una giovane donna a credere che la condizione di stuprata sia per lei socialmente più vivibile di quella di chi fa l´amore perché lo ha scelto.

l’Unità 12.12.11
La particella di Dio esiste ma...
L’annuncio dovrebbe arrivare domani dal Cern di Ginevra. I positivi esperimenti però non danno ancora la certezza. Studi diretti da due italiani
di Pietro Greco


Il direttore del Cern, Rolf Heuer, invita domani a seguire il seminario sugli esperimenti Atlas e Cms (diretti rispettivamente dagli italiani Fabiola Gianotti e Guido Tonelli) in cui saranno illustrati i risultati di due anni di caccia al «bosone di Higgs» da parte della più grande cacciatrice di particelle mai costruita dall’uomo, Lhc. Se il bosone è stato trovato sarebbe una delle più importanti scoperte in fisica degli ultimi decenni. Ma Rolf Heuer mette le mani avanti: non ci sono dati definitivi che provano l’esistenza o la non esistenza del bosone. Tuttavia le voci di corridoio dicono che siamo abbastanza vicini all’annuncio clamoroso, per quanto atteso. I due esperimenti hanno tra le mani forti indizi che il bosone di Higgs esista, nella finestra di energia attesa: tra 114 e 141 GeV. C’è la possibilità che la grassa particella esista e abbia una massa pari a circa 122 volte quella di un protone.
La più grande macchina mai costruita dall’uomo, dunque, avrebbe dimostrato la potenza della teoria. Cerchiamo di capire perché. All’inizio degli anni ’60 Murray Gell-Mann e uno stuolo di altri fisici teorici mettono a punto la teoria della cromodinamica quantistica (Qcd), una teoria di campo capace di descrivere l’interazione che tiene uniti i protoni nei nuclei atomici malgrado la forza di repulsione elettromagnetica. In precedenza Feynman aveva messo a punto la Qed: la teoria dell’elettrodinamica quantistica. E, dunque, i fisici erano in grado di proporre una visione abbastanza completa e unitaria della fisica delle particelle. Mancava un piccolo dettaglio, tutti gli sviluppi teorici prevedevano particelle prive di massa. Ma nella realtà noi vediamo particelle dotate di massa. Il problema fu risolto da un fisico scozzese Peter Higgs, che ipotizzò l’esistenza di un campo di energia, il campo di Higgs, la cui particella messaggero fu chiamata «bosone di Higgs». Una particella che è stata definita anche «particella di Dio», perché in grado di dare una massa a molte delle sue sorelle.
IL MODELLO STANDARD
Sulla base dell’ipotesi di Higgs, due fisici l’americano Steven Weinberg e il pachistano Abdus Salam elaborarono il Modello Standard delle alte energie, in grado di spiegare il comportamento di tre delle quattro interazioni fondamentali della natura: la debole, la forte e l’elettromagnetica. La teoria di Weinberg-Salam prevedeva che, a certi livelli di energia, l’interazione debole ed elettromagnetica si unificassero. E prevedeva l’esistenza di alcune particelle messaggero, i bosoni intermedi, la cui esistenza fu provata negli anni 80 da Carlo Rubbia proprio al Cern. Il Modello Standard è una teoria scientifica molto potente, tanto che ha previsto l’esistenza di particelle poi effettivamente scoperte. Tuttavia ha un difetto: il «bosone di Higgs» non è mai stato rilevato sperimentalmente. Se la sua esistenza viene provata, allora il Modello può essere considerato completo e i fisici possono passare con tranquillità a una nuova fase di unificazione. Se la sua esistenza non viene provata, allora bisogna rimettere mano alla teoria. E rivedere almeno mezzo secolo di successi. Ecco perché tutti attendono il responso di Lhc.
Le voci dicono che domani i responsabili di Atlas e Cms porteranno i risultati di due anni di caccia. E che questi risultati confermano che ci sono «candidati bosoni di Higgs» in un range di energia compatibile col Modello Standard. Tuttavia non si tratta di risultati definitivi perché la probabilità che quei candidati, ovvero i segnali che emergono dal rumore di fondo, siano effettivamente il «bosone di Higgs» è alta ma non certa. Domani avremo un significativo assaggio delle capacità predittive del Modello Standard. Ma per sapere se Higgs aveva effettivamente ragione occorre attendere che Lhc accumuli altri dati.

La Stampa 12.12.12
L’evoluzione delle lingue
Erano 500 mila Ne resterà una soltanto
di Anbdrea Malaguti


6.909 idiomi. Secondo gli studiosi, tante sono le lingue parlate oggi nel mondo
«In Nuova Guinea non ci si capisce a 1 km di distanza»
«Nei Paesi più caldi si parla a voce alta e con più vocali»

Nella millenaria lotta per sopravvivere alla fine ne rimarrà una soltanto. «Un unico mondo con un’unica lingua». Dunque il giorno della Torre di Babele, dopo una corsa che dura da ormai 200 mila anni, si avvicina, mentre l’infinito fiume degli incroci sonori tende a restringersi di giorno in giorno per arrivare a un unico codice condiviso. Un metalinguaggio super-resistente uscito vincitore dalla selezione naturale. L’inglese per tutti? «Possibile».
Il professor Mark Pagel, biologo dell’evoluzione all’Università di Reading, è un uomo abituato ad applicare modelli statistici alle teorie evolutive e ha appena pubblicato un nuovo testo in cui ripercorre il complicato cammino delle lingue attraverso la storia. Nel corso dei secoli ne sono esistite almeno 500 mila, ma solo seimilanovecentonove sono state più forti del tempo. Venti sono quelle parlate in più del 95% del pianeta, le altre vengono utilizzate da tribù di poche migliaia di persone.
Il caso più sorprendente è quello della Nuova Guinea, dove si usano oltre 800 codici differenti. Uno ogni due chilometri. «Una volta mi è capitato di chiedere a un abitante se fosse davvero possibile. Lui mi ha risposto convinto: no, non è possibile, per quello che ne so io ci sono dialetti differenti anche a meno di un chilometro di distanza uno dall’altro». Pagel e il suo gruppo di studio hanno verificato. L’indigeno non mentiva.
Secondo gli scienziati del linguaggio esistono diversi elementi che determinano la resitenza di un codice vocale o la sua morte. Il primo è il senso identitario di chi lo utilizza. «La lingua, paradossalmente, viene usata come strumento non per comunicare, ma per escludere. È stato così a lungo
e in certe zone del pianeta le cose non sono cambiate. I gruppi che erano in grado di procurarsi cibo da soli tendevano a stare tra di loro. La lingua stabiliva un confine chiaro e in qualche modo impediva lo sviluppo. Ovvio che la globalizzazione ha fatto saltare i parametri e precipitare il numero dei linguaggi».
Un altro fattore importante è il clima. Chi vive al caldo sviluppa la tendenza a parlare a voce più alta e a utilizzare un maggior numero di vocali. Gli italiani, per esempio. «Un atteggiamento che è figlio della necessità di comunicare in mezzo alla strada, oppure da una porta all’altra. E le vocali hanno una capacità di penetrazione maggiore. Nei Paesi freddi si tende a stare al chiuso e questo condiziona anche la lingua», scrive Robert Munroe, antropologo del Pitzer College, in California, sulla rivista «New Scientist».
Non esiste un meccanismo di comunicazione migliore di un altro. «Tutte le lingue hanno la stessa dignità. E se sono vive o morte dipende da motivi che non hanno niente a che vedere con la loro qualità». Il colonialismo, le contaminazioni, il commercio. Secondo Pagel fino ad oggi non è esistito nessun linguaggio più fortunato dell’inglese. «È solo il quarto come penetrazione, dopo il mandarino, l’hindi e lo spagnolo, eppure è stato adottato un po’ovunque».
L’ipotesi di un suo utilizzo universale è probabile. Sarà un bel giorno quello? Dipende. Nell’isola di Vanuatu, nel Pacifico, gli indigeni hanno un’espressione che suona vagamente britannica. Dice: «Nambawan bigfala emi blong Misis Kwin». Significa: «È il grande amico numero uno. E appartiene alla Regina». Pagel quasi si commuove. «C’è un modo migliore per descrivere il Principe Filippo? ». Forse no. Ma presto non esisterà più.

La Stampa 12.12.11
Il conte Dracula è nato a Bisanzio
Mentre i vampiri tornano a invadere il grande schermo un archeologo scava nelle loro radici più remote
di Massimiliano Panarari


I viaggiatori del ’600 e ’700 tornavano da Costantinopoli riferendo storie di revenants
LA PRIMA MENZIONE In un trattato del XIV secolo di un monaco bizantino scettico, ma attento studioso
AGLI ALBORI. Non un longilineo aristocratico ma una sorta di orco che a volte uccideva a colpi di alito
IL MORTO VIVENTE. In greco vrykolakas: la sua abitudine di succhiare il sangue in origine era tipica della strega"

I vampiri tornano in queste settimane a invadere in grande stile le sale cinematografiche, in versioni diverse: da quella, adolescenzial-belloccia, dei protagonisti di Twilight (arrivato al terzo film della saga) al prossimo Dracula in 3D di Dario Argento. Per chiarirci le idee sulle loro origini storiche arriva in libreria Prima di Dracula (il Mulino, pp. 270, 18) dell’antropologo dell’Università di Siena Tommaso Braccini, che delinea l’archeologia di queste creature delle tenebre. E di archeologia in senso proprio si tratta, poiché Braccini va alla ricerca delle testimonianze storiche che ne attestano la «comparsa» in Europa, sfatando tutta una serie di leggende (visto il tema, è proprio il caso di dirlo...), a cominciare dal luogo di origine dei presunti succhiasangue - che non è la Transilvania, come generalmente si pensa - per arrivare fino al connotato numero uno dei suddetti non morti che, al loro debutto, nulla aveva a che fare con il prelievo forzoso dei globuli rossi di qualche malcapitato.
Ben prima che l’inquietante castello del conte Dracula di Bram Stoker occupasse, manu militari, l’immaginario degli europei civilizzati, tra Sei e Settecento si erano infittite le testimonianze di viaggiatori occidentali (scienziati e religiosi), diretti verso Costantinopoli, che parlavano di episodi di morti rianimati impegnati a terrorizzare le popolazioni delle varie isole dell’Egeo. Posti arretratissimi, da Mykonos a Santorini, che all’epoca conoscevano come unica movida quella di supposti revenants di ritorno dall’aldilà, chiamati col nome di vrykolakes, che imperversavano tra i vivi seminando il panico. Nel libro, basato su un impressionante materiale documentario (e che - termine abusato, ma nondimeno, in questo caso, veritiero - si legge proprio come un romanzo), Braccini sostiene così la tesi che la genesi delle credenze vampiriche vada collocata nel Medioevo bizantino, da cui sarebbero dilagate nell’area balcanica in seguito unificata dalla dominazione ottomana.
A menzionare per la prima volta il vrykolakas, difatti, è un rarissimo trattato composto tra il XIV e il XV secolo (la datazione rimane incerta) dal monaco Marco di Serre, un «vampirologo» (diciamo così) bizantino, assai scettico nei confronti di tali credenze, in conformità con la linea ufficiale della Chiesa ortodossa che ne negava l’attendibilità, ma le studiava attentamente. Il monaco riferiva degli strani fenomeni che tormentavano gli abitanti di vari villaggi, i quali, dissotterrando i cadaveri al termine di qualche pestilenza (in omaggio a un’usanza greca che prevedeva la riesumazione del corpo dopo la morte per conservarne i resti in un ossario), ne ritrovavano alcuni inspiegabilmente scomposti rispetto al momento della sepoltura, gonfi di sangue e con tanto di unghie e capelli allungati. Una vera galleria dell’orrore che alimentava l’isteria collettiva e propagava l’idea che si trattasse, giustappunto, di vampiri, rianimati dal demonio. E ad aggravare ulteriormente la situazione ci si era messo pure il diritto canonico dell’epoca, il quale stabiliva nel dettaglio le caratteristiche anatomiche del corpo di un defunto. Solo che quegli aspetti tanto «anomali» da far sorgere l’idea vampiresca si sono rivelati, come la scienza ha accertato col tempo, tra le possibili «normalissime» conseguenze della fisiologia della decomposizione dei cadaveri (e l’autore lo spiega doviziosamente in un’appendice finale che suggeriamo soltanto ai lettori con stomaci forti, o propensioni splatter).
Il vampiro degli albori tardobizantini, quindi, è sì una creatura diabolica e con denti giganteschi, ma non un longilineo aristocratico che si attacca alla giugulare della vittima, quanto piuttosto una sorta di orco deforme (e di umili origini) che, talvolta, ammazza lo sfortunato di turno a colpi di alito (davvero mortale, in questo caso...). Si aggiunga poi che, in quel calderone in perenne fibrillazione politica e religiosa che era Bisanzio, la Chiesa ortodossa risultava impegnata in una strenua lotta contro un’eresia molto in voga nei decenni successivi all’anno Mille, quella dei bogomili, convinti che i demoni potessero infestare i cadaveri dei peccatori anche da morti e, quindi, ferventi promotori delle esumazioni e dei roghi dei cadaveri; una pratica che si imparentava molto con i fatti all’origine della credenza nel vampirismo.
Siamo, così, decisamente, dalle parti degli archetipi della paura che agitavano i sonni degli uomini dell’Europa orientale del Medioevo, in una sorta di melting pot folklorico che vede gli incubi (e i termini che le designano) passare da una lingua all’altra, segnalando la matrice comune degli esseri mostruosi più noti. Braccini mostra che l’etimologia originaria della parola greca vrykolakas viene dallo slavo, dove significa sostanzialmente «lupo mannaro». E, infatti, se nell’Elide greca si riteneva che si tramutasse in vrykolakas colui che aveva mangiato carne di pecora sbranata da un lupo, in Ucraina si considerava il vampiro come il parto demoniaco della fornicazione tra una strega e un lupo mannaro e, più in generale, nel mondo slavo si credeva che chi era stato un lupo mannaro in vita diventasse dopo la morte un vampiro. Per chiudere il cerchio, nella Grecia del XVI secolo a succhiare il sangue è la strega, la cui ematofagia, al pari del rimedio per combatterla (consistente, guarda un po’, nell’aglio), finiranno così per trasferirsi a quel vrykolakas che stava irresistibilmente scalando la hit parade delle superstizioni horror.
Insomma, nei Balcani indiscutibile koiné dei mostri, a proposito di streghe, vampiri, licantropi e revenants (premoderni antenati degli zombi postmoderni) si può davvero dire «stessa faccia, stessa razza» (dannata). E tutto questo mentre, in Occidente, si diffondevano le luci dell’Umanesimo e del Rinascimento, antenate di altri, successivi, Lumi che, nel romanzo di Stoker, si troveranno a fronteggiare il conte transilvano dai canini molto pronunciati.

Corriere della Sera 12.12.11
Ulisse, fondatore della politica
Itaca è un modello di comunità retta da regole condivise
di Eva Cantarella


Centocinquanta incontri in nove istituti italiani
Anticipiamo il testo della lezione che Eva Cantarella terrà mercoledì, alle 18, al liceo Carducci di Milano nell'ambito del progetto Agorà. «Agorà scuola aperta» è una iniziativa degli Editori Laterza «per fare della scuola un luogo pubblico».
A partire da gennaio in nove scuole italiane tra Milano, Roma, Bologna, Bari, Altamura e Corato (in provincia di Bari) si terranno più di 150 incontri con scrittori, giornalisti, studiosi, musicisti, attori (da Andrea Carandini a Elio Germano, da Paolo Mieli a Paolo Fresu, da Edoardo Boncinelli a Massimo Mucchetti). Le lezioni propedeutiche al ciclo di incontri si terranno oggi con don Virgilio Colmegna al liceo Virgilio di Milano, domani con Riccardo Iacona al Morgagni di Roma, mercoledì con Eva Cantarella e giovedì con Gianrico Carofiglio al Tasso di Roma. Info: www.agorascuolalaterza.it.

È il viaggio per antonomasia, quello di Ulisse verso Itaca, l'isola solitamente identificata, nella metafora, con il traguardo di un difficile percorso spirituale che consente di prendere consapevolezza dei limiti della condizione umana, affermando al tempo stesso l'autonomia della propria coscienza. Ma per i greci che leggevano l'Odissea — dal momento in cui venne messa per iscritto, nell'VIII secolo a.C. — quel viaggio non era una metafora. Per loro, Itaca era una città reale, con le sue case, il suo porto, le sue abitudini di vita. Una delle tante comunità in cui, nei secoli successivi al crollo dei Palazzi micenei, si era consolidata una nuova forma di vita associativa, in cui non esistevano dei sudditi (come nei regni micenei), bensì dei cittadini. In altre parole, la polis, all'importanza (e alla celebrazione) della cui diversità il viaggio di Ulisse accompagnava i greci.
Nella polis, l'uomo greco doveva ispirare le sue azioni a un'etica sociale nuova, che non poneva più in primo piano l'interesse dei singoli individui o delle singole famiglie, ma quello della collettività; e doveva rispettare le deliberazioni che la comunità prendeva nel luogo a ciò deputato, l'agorà (in Omero agore), l'assemblea la cui presenza segnava il discrimine tra la civiltà e l'inciviltà. Come il racconto del viaggio di Ulisse insegnava. Ma a questo punto, prima di spiegare come, è necessaria una breve parentesi.
I poemi omerici — è cosa ben nota — non furono scritti ex novo da uno o due poeti (vi è chi pensa a un solo autore, chi ad autori diversi per i due poemi). In essi — al di là del fondamentale contributo poetico di chi li mise per iscritto — confluirono le storie che i poeti orali chiamati aedi e rapsodi avevano cantato per secoli nelle strade della Grecia. Lunghi secoli, durante i quali la poesia aveva svolto la fondamentale funzione che le spetta nelle società orali: quella di trasmettere di generazione in generazione la cultura, e con essa l'identità del gruppo nel quale i poeti agivano. I suoi valori, dunque, le sue pratiche religiose, le regole da seguire e quelle da evitare, illustrate attraverso i comportamenti di personaggi proposti, a seconda dei casi, come modelli positivi o negativi (Achille e Tersite, per intenderci; Penelope e Clitennestra, in campo femminile). E l'introduzione della scrittura alfabetica non cancellò questa funzione, come sta a dimostrare un celebre passo di Platone che, nell'attaccare il sistema educativo greco, parla di coloro che lodavano Omero, sostenendo che aveva educato l'Ellade. Anche se a Platone la cosa non piaceva affatto, Omero era «la scuola dell'Ellade».
E ciò premesso torniamo al viaggio di Ulisse, e a un esempio della sua funzione pedagogica tratto da uno degli episodi che, per il loro aspetto favolistico, possono sembrare, a prima vista, i meno adatti a svolgere una simile funzione: l'incontro con il Ciclope. «Ingiusti e violenti», scrive Omero, i Ciclopi «non hanno assemblee, non leggi (themistes), ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime, / in grotte profonde; fa legge (themisteuei) ciascuno / ai figli e alle donne, e l'uno dell'altro non cura» (Odissea, IX, 112-115).
Pochi versi, che contengono insegnamenti fondamentali: quel che segnala l'inciviltà dei Ciclopi, quello che li confina inesorabilmente nel mondo della barbarie è la loro socialità prepolitica. I Ciclopi non sono eremiti. Vivono in gruppo, hanno famiglia, ma non esiste un'autorità sovraordinata a quella dei capifamiglia («ciascuno fa leggi ai figli e alla donne»). La vita del gruppo familiare è regolata dai poteri del suo capo, ma i rapporti fra capifamiglia, in assenza di istituzioni pubbliche, sono affidati alla regola della forza, alla vendetta senza limiti e senza controllo. L'opposizione alla polis, e in particolare a Itaca, è più che evidente: a Itaca esiste un'assemblea che, pur non avendo ancora poteri istituzionalmente previsti, si svolge secondo regole formali consolidate e condivise. Come dimostra l'assemblea convocata a Itaca da Telemaco (Odissea, II): la convocazione viene fatta dagli araldi «dalla voce sonora», la riunione inizia all'alba, in un'apposita sede, ove la popolazione prende posto su sedili di pietra, secondo un ordine predeterminato; tutti, nessuno escluso, hanno il diritto di partecipare e prendere la parola e al termine di ciascun intervento un'acclamazione indica il gradimento dell'intervento, che si conclude quando più nessuno «parla contro».
A Itaca, polis in via di formazione, il principio di maggioranza non esisteva ancora. Ma poiché in essa esistono già, sia pur in embrione, le istituzioni della polis, è il modello della vita associata (ovviamente, quando non ci sono i proci a spadroneggiare). Se lo spazio lo consentisse, non mancherebbero altri esempi: il viaggio di Ulisse è (anche) il viaggio che accompagna i greci verso questo modello.

Repubblica 12.12.11
Domani all´Accademia della Crusca un convegno sullo scienziato
La lingua di Galileo è rivoluzionaria
Il vocabolario è tecnico ma anche letterario: usa “l’occhio della mente"
di Enzo Golino


Grande innovatore linguistico tra il Cinquecento e il Seicento, scienziato e letterato, legato da stima e amicizia a Leopoldo de´ Medici, celebrato di recente per il quarto centenario dell´ "invenzione" del cannocchiale (1610), a Galileo Galilei (Pisa 1564 - Arcetri 1642) in chiusura delle manifestazioni è dedicato un convegno domani all´Accademia della Crusca (Firenze, via di Castello 46), presidente Nicoletta Maraschio che inaugura i lavori. L´argomento riguarda appunto la lingua di Galileo, una prosa che ancora oggi - a parte alcuni termini irrimediabilmente desueti - mostra intatti lo spessore culturale filtrato dalla leggerezza, la vivacità, l´ironia, il gusto epigrammatico, e il sarcasmo diretto soprattutto contro gli avversari.
Nella sua scrittura Galileo aspira alla semplicità, una esigenza di chiarezza - afferma nella relazione d´apertura Maria Luisa Altieri Biagi, Università di Bologna - non disgiunta dall´eleganza dello stile. E se gli sembra di andare troppo sopra le righe quando definisce la "nebulosa" (ammasso di stelle che forma una nuvola più o meno luminosa) "un drappello di stelle", continua invece a servirsi del termine "nebulosa".
Le parole rivelano una straordinaria passione conoscitiva, l´amore per la ricerca, una voracità insaziabile di pensiero e di azione, la fame di sapere. Insomma, un autoritratto. Non a caso nelle opere e nelle lettere, quasi a specchio di queste esigenze, ricorrono termini (sempre in circolazione) come "satollare", "avidità", e "famelico" di cui Altieri Biagi cita la ricorrente presenza sottolineando però che il Grande Dizionario della Lingua Italiana, il cosiddetto Battaglia, ne ignora l´uso galileiano.
Proiettato ai giorni d´oggi l´aggettivo "famelico" si adatta - direi - ai tanti percettori di tangenti che inquinano il mondo produttivo, la società, la politica del Sistema Italia. E vorrei ricordare che la corporeità mentale e linguistica del genio pisano autore del Sidereus nuncius, fu rappresentata benissimo dall´imponente Tino Buazzelli - famelico anche nella mole - nella Vita di Galileo di Bertolt Brecht, spettacolo memorabile in scena al Piccolo Teatro di Milano (aprile 1963) con una regia di fervida e analitica intelligenza dovuta a Giorgio Strehler.
Tra i mezzi persuasivi di cui Galileo si serviva brilla la tecnica parodistica della caricatura. Attribuiva ai suoi nemici affermazioni che ne accentuavano "le incapacità logiche fino a renderle assurde e grottesche", in tal modo ridicolizzandoli. È il tema della relazione di Andrea Battistini (Università di Bologna) dedicata appunto al registro linguistico del sarcasmo e della vis polemica. Atteggiamenti che nascevano anche dalla vocazione a convertire la gente alle proprie idee. E in un passo di una delle sue opere più celebri, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Galileo afferma che sarebbe necessario "rifare i cervelli degli uomini".
Nella sequenza dei modi di dire che s´irradiano al di là del sarcasmo, Battistini segnala "pannicelli caldi", "molestare il mastino che dorme", "informazione fatta a quattr´occhi" (sembra oggi una definizione dell´intervista giornalistica), "stimare assai meno della lana caprina", "restare a bocca rotta" (rompersi i denti o le corna, finir male). Infine - ma la lista sarebbe lunga - "guardare con l´occhio della mente": occorre sapere, interpretare, integrare ciò che è visto dall´ "occhio della fronte" (consiglio validissimo in ogni epoca per tutti gli esseri pensanti).
In altre relazioni si trovano ulteriori immagini prodighe di espansioni verbali: per esempio le descrizioni lunari di Galileo analizzate da Raffaella Setti (Università di Firenze) che moltiplicano il "candore" dell´astro in un ventaglio di parole e di significati. Così, in ambito astronomico, con lui "rivoluzione" diventa un termine tecnico tuttora in uso di questa disciplina, e si estende nel corso dei secoli a eventi non solo politici.
Insieme a "rivoluzione", dice Setti, "forza", "lavoro", "resistenza", "risultante" in base ai principi di Galileo restano "alla base della fisica moderna italiana". Anche grazie alla sua "prosa briosa e colloquiale" che ascolta le voci del volgare toscano parlato nelle strade e nelle botteghe artigiane. Innegabile il suo influsso sul Vocabolario della Crusca, istituzione di cui fu accademico prestigioso dal 1605. Voltaire aveva scritto - ricorda Altieri Biagi - che se Galileo non fosse stato condannato dalla Chiesa cattolica "la scienza europea del Settecento e poi quella dell´intero pianeta avrebbero probabilmente parlato italiano".

Repubblica 12.12.11
Eurocasanova
Moda e pensieri, così ha sedotto un continente

di Benedetta Craveri

La Francia dedica una mostra all´autore della "Storia della mia vita"
Tra tessuti, passioni e stampe viene rivelata tutta la cultura cosmopolita della sua epoca
Viveva secondo l´economia dell´avventuriero: grazie al gioco, allo stile e al piacere

PARIGI. È davvero bellissima la mostra che la Bibliothèque Nationale de France ha dedicato a Giacomo Casanova (15 novembre-19 febbraio) nella sua sede di Tolbiac. Si tratta di una delle molte, importanti iniziative volte a promuovere la conoscenza del manoscritto originale dell´Histoire de ma vie di cui la Bibliothèque nationale si è da poco assicurata il possesso - grazie a un mecenate rimasto anonimo - per la cifra record di sette milioni di euro. Mentre i lettori di tutto il mondo possono già prendere visione del manoscritto nella sua integralità sul sito Gallica e Gallimard si appresta a pubblicare l´edizione critica definitiva dell´opera nella "Bibliothèque de la Pléiade", la mostra Casanova, la passione della libertà e il suo splendido catalogo (Bibliothèque Nationale de France/Seuil, pagg. 239, euro 49) evocano con estrema vivezza la personalità dello scrittore alla luce degli usi e costumi della sua epoca.
Sono i grandi fogli di carta ingiallita del manoscritto - con disegnati in filigrana dei cuori! - su cui si staglia l´inchiostro nero della calligrafia, ora chiara e scorrevole, ora nervosa e piene di cancellature e correzioni, di Casanova, a costituire il filo conduttore dell´esposizione che prende inizio con l´incontro fatale tra l´avventuriero veneziano e il Principe di Ligne, perfetta incarnazione di quell´arte del vivere di conio aristocratico che egli ha voluto disperatamente far sua. Siamo nell´estate del 1794, Giacomo è sulla soglia dei settant´anni e da quasi dieci svolge le malinconiche mansioni di bibliotecario del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Per combattere la depressione della vecchiaia e dell´isolamento, a partire dal 1789, egli si è immerso, come scrive Chantal Thomas, "nella vita della scrittura", redigendo una prima stesura delle sue memorie. È tuttavia proprio la richiesta di averle in lettura fattagli dal Principe di Ligne, che a sua volta sta scrivendo le proprie, a indurre Casanova a riprendere il manoscritto in mano e a dargli forma definitiva. Solo la morte, sopraggiunta nel 1798, interromperà questo lavoro di revisione che gli ha conferito la piena consapevolezza di scrivere non solo per sé ma per i lettori futuri.
Indicate le circostanze che hanno reso possibile la genesi di una impresa memorialistica senza precedenti, sia pure in un´epoca ricca di memorie, come lo è stato il Settecento, i curatori della mostra hanno giustamente deciso di privilegiare non tanto i molteplici amori di Casanova quanto le strategie di vita che gli consentirono di passare di avventura in avventura e di paese in paese, inventando e reinventando continuamente se stesso in accordo ai tempi, ai luoghi e alle situazioni.
Perché, ricordiamolo, nell´evocare nei minimi dettagli ciò che ha vissuto in prima persona o di cui è stato testimone, questo grande narciso ci racconta, con una verve narrativa straordinaria e uno spirito di osservazione acutissimo, anche l´Europa del suo tempo che egli ha attraversato in lungo e in largo (è stato calcolato che tra il 1734 e il 1797 abbia percorso 65.000 chilometri!). L´Europa d´Antico Regime, con la sua grande varietà di usi e costumi, di istituzioni e di governi, di mentalità, di abitudini, di condizioni sociali sotto il segno dell´autorità e della tradizione. Ma anche l´Europa dei Lumi, dei philosophes, delle società segrete, delle logge massoniche che in nome della morale naturale e della ragione, della libertà di pensiero e del rifiuto dell´autorità, preparano il terreno ai tempi nuovi. Ed è proprio per essere letto un giorno da questa Europa cosmopolita che - come precisa egli stesso - Casanova aveva deciso di scrivere il suo capolavoro nella lingua parlata da tutti, il francese, anziché in italiano.
Affidata a una ricca scelta, oltre che di lettere e documenti, di ritratti, di paesaggi e di pitture di genere, come di mobili, vestiti, oggetti, gioielli, carte da gioco, la mostra vuole in primo luogo illustrare quelle che Daniel Roche definisce "le tre caratteristiche dell´economia dell´avventuriero", con cui Casanova non cessa di fare i conti: l´importanza del gioco, sua principale fonte di sussistenza, con tutti gli imprevisti che questo comporta, la dipendenza dall´accoglienza e dall´ospitalità ricevute, e l´imitazione dello stile di vita dell´aristocrazia che gli consente di penetrare nei luoghi di ritrovo della buona società. Figlio di attori, lui stesso commediante consumato, Casanova adora darsi in spettacolo, improvvisare, sbalordire, forzare la fortuna e, in caso di mala parata, abbandonare precipitosamente la scena. Dai bellissimi campionari di tessuti che attestano la sua passione per la moda e i travestimenti agli accessori di lusso, dalla passione per i libri alle illustrazioni erotiche, alle scene di danza e di musica, il Casanova messo in mostra alla Bibliothèque Nationale non potrebbero illustrare meglio la sfida vincente di un grande scrittore irregolare che considerava la vita il solo bene di cui l´uomo potesse disporre ed era fiero di avere consacrato la sua a coltivare, in assoluta libertà di pensiero, il piacere dei sensi.