mercoledì 14 dicembre 2011

l’Unità 14.12.11
L’ossessione del diverso
di Michele Ciliberto


Sta succedendo qualcosa di assai grave nel nostro Paese: prima a Torino, poi a Firenze si è aperta una caccia al “diverso”; nel primo caso, i Rom, nel secondo i senegalesi. Sembra di assistere a un brutto film americano degli anni ’50 e ’60; ma non è un film. Né serve, di fronte a tanta violenza, esprimere generiche condanne; si tratta di capire, con freddezza, quello che è avvenuto.
Questi eventi drammatici sono il punto di arrivo di una campagna continua, sistematica, quotidiana, e senza quartiere, contro il “diverso” e tutto ciò è lontano da noi, dalla nostra cultura e dalla nostra religione. Né c’è dubbio che nel far precipitare la situazione abbia giocato un ruolo importante la Lega che ha alimentato sentimenti di tipo etnico, sfociati talvolta in posizioni razziste.
Dire che tutta la responsabilità di questa situazione sia della Lega sarebbe però un errore; né consentirebbe di comprendere da quale profondità arrivino fenomeni di questo genere. Essi hanno attecchito in un terreno predisposto, specie in un momento di crisi radicale che, con sempre maggior durezza, spinge gli individui a rinchiudersi nel cerchio ristretto della difesa, con ogni mezzo, del proprio spazio vitale, dei propri interessi. Quello che abbiamo di fronte è dunque un fenomeno “materiale” assai più largo della Lega; ne è una prova il fatto che a Firenze, e in Toscana, il partito di Bossi è tutt’oggi una forza minoritaria, priva di responsabilità di governo.
Ma, paradossalmente, è proprio questo a rendere ancora più grave quello che è accaduto a Firenze, città di salde tradizioni civili, con un tessuto associazionistico assai forte, con comunità ecclesiali cattoliche e non cattoliche impegnate nella costruzione di iniziative e momenti di apertura nei confronti ,dei “diversi”, di tutti i “diversi”.
Se fenomeni di questo tipo avvengono in Toscana vuol dire che il processo di degradazione del nostro “vivere civile” sta toccando un limite assai inquietante. Ma per capirli occorre saper guardare all’insieme della nostra società, ai “sensi comuni” diffusi, alla crisi e al depotenziamento dei valori di solidarietà, al prevalere del “bellum omnium contra omnes”, alla perdita di peso e di importanza, negli ultimi decenni, del valore sociale fondamentale che è, e resta, il lavoro. E, soprattutto, bisogna alzare gli occhi all’ “intero”, se si vuole capire il livello della crisi italiana: la morte dell’operaio a Trieste, pagato 5 euro all’ora e il gesto del folle a Firenze si situano a diversi livelli, ovviamente nello stesso contesto.
C’è però qualcosa di più profondo che si è spezzato in questi anni, in Italia e in Europa, e ora viene alla luce: è venuto meno il principio della “mediazione”, mentre si sono imposti progressivamente atteggiamenti e posizioni che tendono a risolvere direttamente i problemi, spezzando i vincoli giuridici e politici. A Londra come a Torino e a Firenze si sono rotte le logiche della mediazione e si è passati a incendiare, ferire, bruciare con le propri mani, senza alcuna delega. Quello che si manifesta in questi episodi è dunque la crisi della funzione “mediatrice” dello Stato, della rappresentanza politica, a cominciare dal Parlamento. Insomma quello che abbiamo di fronte è, al fondo, una crisi di vaste proporzioni della nostra democrazia politica e sociale. Se questo è il problema, esso può essere affrontato solo ristabilendo i principi di una democrazia politica efficiente e ricostituendo le basi “materiali” del nostro “vivere civile”, ridando, anzitutto, al lavoro il ruolo e la funzione che deve avere in una società democratica.
Ma c’è qualcosa di specifico che si impone alla nostra attenzione, di fronte a eventi così cruenti: il problema del “diverso” non si può affrontare oggi con il “principio” nobilissimo della tolleranza; in una società come la nostra, e nell’epoca della globalizzazione occorre sviluppare politiche inclusive che mettano al centro il problema, ineludibile,della comune “cittadinanza” dei “nativi” e degli immigrati. Certo, quando il Presidente della Repubblica ha sostenuto che i figli degli immigrati nati in Italia vanno considerati italiani a tutti gli effetti, è stato criticato e perfino insultato; ma questa è la strada che si deve, e si può, seguire.

il Fatto 14.12.11
I frutti dell’odio
di Furio Colombo


I testimoni raccontano di un uomo bianco di mezza età che ha sparato ai senegalesi, due distinti agguati nella piazza del Mercato Centrale a Firenze. È stata usata una pistola 357 Magnum. Lo sparatore, che si è ucciso quando si è visto braccato dalla polizia, era iscritto a Casa Pound. Subito dopo a Firenze esplode la rivolta dei senegalesi, dando vita a un corteo, dal luogo dell’omicidio alla prefettura. In tanti hanno gridato “Italia razzista”. Così scrivono le agenzie del 13 dicembre e lanciano nel mondo il nome di Firenze, quello di “un uomo bianco” che ha fatto fuoco con un’arma da guerra , i nomi dei due morti e di tre feriti gravissimi. Il sindaco di Firenze ha dichiarato il lutto cittadino. Ma tutto ciò accade due giorni dopo l’incendio di un campo nomadi a Torino, quando una spedizione notturna di uomini decisi a uccidere e bene organizzati sono andati a vendicare un falso stupro. Subito prima del rogo qualcuno ha gridato: “E se ci sono dei bambini?” e subito c’è stata la risposta, barbara e tranquilla: “Bruceranno anche loro”. E poi il rogo ha distrutto tutto, mentre uomini e donne, bambini e vecchi fuggivano nella notte. Il sindaco Fassino ha detto: “Questo è linciaggio”. Il governatore leghista Cota non ha avuto niente da dichiarare. Intanto a Roma, nel pomeriggio del 12 dicembre, in una stradina tra via del Corso e via Ripetta una banda di uomini (mandati da chi?) ha cominciato ad aggredire, insultare e inseguire i giovani venditori neridiviadelCorso.C’èstataunafugaprecipitosa, ci sono foto dei passanti, ma nessuno sa se i giovani neri siano stati raggiunti. Gli aggressori volevano assumersi il compito di una “giustizia fai da te” tipo quella delle famigerate ronde? Per capire,occorrericordarecheilgovernoguidato dalla Lega aveva ordinato ricorrenti rastrellamenti di ambulanti immigrati in molte città italiane. A Roma, proprio in via del Corso, ho visto, ai tempi di Maroni, clamorose azioni coordinate di vari corpi di polizia che facevano retate di ambulanti, mentre poco lontano delitti di malavitaavvenivanoindisturbatiquasiognigiorno . Ora la Lega se n’è andata e non conta nulla. Ma lascia il frutto marcio dell’odio coltivato a lungo nel silenzio dei partiti, dei media, di quasi tutti i vescovi, della cultura. Un messaggio spaventoso e tranquillamente tollerato che chiama a raccolta tutte le destre squilibrate. È giusto temere che sia solo l’inizio.

l’Unità 14.12.11
Rom e pogrom, le vittime sono anche i nostri figli
di Helena Janeczek


R acconta favole nere per difendere il suo amore quelle sentite da bambina, quando a metterle paura e farla obbedire c’erano gli zingari. Le viene istintivo scaricare addosso a loro la terribile disobbedienza della sua prima scelta adulta. Ha sedici anni, età in cui in altre nazioni europee è normale andare in vacanza con il ragazzo, persino uscir di casa e convivere. Qui invece essere giovani significa essere subalterni. Se sei femmina, lo sei due volte. Tre, se di famiglia povera. Peggio sono messi solo i rom e gli islamici, quelli non integrabili, perché non è nel nome di Gesù e Maria che, nel loro caso, la famiglia deve vigilare sulle figlie.
I mandati morali del rogo di Torino e della corsa amok di Firenze, sono anche responsabili del fumo con cui il razzismo divenuto passepartout politico ha saputo occultare i problemi di un paese incagliato tra arretratezza e recessione, proiettandoli sugli stranieri. I loro complici sono i media per i quali uno stupro commesso su un’italiana da un rom rumeno africano fa notizia (e le notizie calde si danno subito, senza troppe verifiche), mentre una donna straniera merita solo un trafiletto persino quando viene uccisa.
Vorrei che a tutto questo ci fosse una risposta non indignata, non retorica, non per un giorno atterrita affinché quello dopo torni tutto come prima. Vorrei che al processo per il pogrom delle Vallette si costituisse parte civile la città di Torino: come è avvenuto a Milano per Piazza Fontana o a Brescia per Piazza della Loggia. Perché la strage è stata evitata, ma non l’eversione che l’ha innescata, come dimostra la mattanza fiorentina. Perché non sono solo i rom o i senegalesi a esserne le vittime, ma anche i nostri figli: quasi altrettanto disgraziati, come scopre chi osa guardare oltre le cronache e le favole nere.

l’Unità 14.12.11
Razzismo e maschilismo, default dei diritti
di Igiaba Scego


S ono ancora scossa per l'assalto in pieno stile squadrista avvenuto al campo rom del quartiere Vallette di Torino. In realtà è tutta la storia che mi ha gettato nello sgomento. Il mio pensiero è andato anche a quella ragazza di 16 anni che ha “inventato” una violenza sessuale per paura dei genitori. Ora la ragazza incorrerà in sanzioni per questa sua affermazione.
Ma non dovrebbero, mi chiedo, pagare invece i suoi genitori? Sembra infatti che la ragazza avesse paura perché i genitori la sottoponevano a periodici controlli ginecologici. E questi come avvenivano? In modo casareccio o in un ambulatorio medico? Se in questa storia è coinvolto anche un ginecologo non ci resta davvero che piangere. Possibile che storie così avvengano ancora nel mondo? In Italia? Possibile che una ragazza non possa essere libera di vivere la sua sessualità, le sue prime esperienze? Possibile che dopo secoli le donne siano legate ancora a quella membrana di pelle che si chiama imene? Storie come quella del quartiere Vallette sono umilianti per tutte noi. Penso alla sconforto di quella ragazzina che mese dopo mese ha dovuto aprire le gambe e farsi ispezionare.
Ho letto da qualche parte che la nonna spingeva perché arrivasse «pura» all'altare. Con le dovute differenze la storia di questa ragazza mi ha ricordato la tragica vicenda di Hina, sgozzata dal padre, perché voleva vivere l'amore per un ragazzo italiano. Il padre, non pentito, ha dichiarato dopo l'omicidio «non volevo che diventasse come le ragazze di qui». Hina era stata sgozzata perché aveva rifiutato un matrimonio combinato con un cugino lontano e perché di fatto aveva lacerato già quell' imene considerato così importante.
La famiglia del quartiere Vallette è cristiana, quella di Hina mussulmana. Ma nessuna delle due famiglie ha seguito i dettami di pace e amore predicati nel vangelo e nel Corano. Quello che ha dominato nelle due storie è stato un maschilismo feroce ed idiota. Un controllo sul corpo della donna e sulla sua libertà. La sessualità femminile in Italia è ancora un tabù. Le ragazze non ricevono una buona educazione sessuale in età adolescenziale, sono lasciate sole ad occuparsi di contraccezione e di prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili. I consultori chiudono per mancanza di fondi. Le famiglie non parlano. Una sessualità femminile libera e consapevole di fatto viene ancora negata. Questo succede oggi in Italia, anno 2011.
Se ci fosse un'agenzia del rating di civiltà il nostro paese meriterebbe un downgrading con i fiocchi. Però non tutto è perduto. Certo il default è dietro l'angolo, il default dei diritti umani intendo, ma possiamo ancora salvarci. Dipende un po' da noi e un po' da chi dovrà rifinanziare i fondi per i consultori.

il Fatto 14.12.11
Quando una figlia stuprata è meglio di una non vergine
di Lidia Ravera


DUNQUE LA FATALE membrana ancora miete vittime. Ancora si investe sulla verginità delle figlie. Perché così vuole la Chiesa. Perché così vuole il futuro acquirente, il marito d’una volta, quello che ci teneva a infilarsi per primo nell’angusto orifizio femminile, a scopo di libidine o di procreazione. Un tuffo nel modernariato, di cui si potrebbe anche sorridere se non fosse diventato così frequente, fra le adolescenti, la scelta di cavarsi dai guai, accusando gli extracominutari. Dieci anni fa a Novi Ligure la sedicenne Erika caricò su due innocenti albanesi il fardello di un duplice delitto. I due rischiarono il linciaggio. Tre giorni fa a Torino l’adolescente “Sandra”, ha caricato sui Rom la sua prima esperienza sessuale. Erika voleva evitare la galera, Sandra l’ira di una madre bacchettona, repressiva, arretrata. Qual è l’unico modo accettabile di perdere la verginità? Dichiarare che te l’hanno rubata. E qual è il ladro più gradito? Lo zingaro. Accusa lo zingaro e i tuoi amichetti avranno un’occasione per scaricare il testosterone in eccesso. La comunità in cui sei cresciuta non ti espellerà. Tua madre potrà girare a testa alta: una figlia violata da uno zingaro, vale quanto una figlia illibata. Anzi di più. Mette d’accordo i precetti della Chiesa e quelli di Telepadania.

Repubblica 14.12.11
"Ho mentito sullo stupro per paura per me la verginità è un valore"
Raid anti rom, parla la sedicenne di Torino. "Ma io non sono razzista"
di Vera Schiavazzi


TORINO - C´è un paese alla periferia di Torino dove il tempo si è fermato, e dove è ancora una brutta cosa avere rapporti sessuali prima del matrimonio. Un paese dove una ragazza di 16 anni, una normalissima ragazza esile con le meche bionde e il maglione alla moda, che ha studiato fino a pochi mesi fa e ora vorrebbe un posto da barista, ha paura di dare alla mamma un dolore troppo grande se ammette di non essere più vergine e di averlo voluto lei. E per non farlo, si inventa di essere stata violentata e dice "la prima cosa che le è venuta in mente", descrivendo gli aggressori come due rom. Due giorni dopo si pente, cede alle domande dei carabinieri che hanno già capito tutto, racconta la verità: «Ero col mio ragazzo, era la prima volta». Ma è troppo tardi, perché da quel paese – che è in realtà un quartiere popolare di case tutte uguali costruite negli anni del boom – è già partita la spedizione punitiva, e le baracche dei rom vanno a fuoco. Per capire come è potuto succedere bisogna andare in quelle strade col nome dei fiori, dove ogni dieci metri qualcuno ti ferma, ti chiede chi sei e che cosa vuoi, dove le persone si chiamano dai balconi e si conoscono tutte. A casa di Sandra, che giovedì 8 dicembre si è inventata lo stupro, sabato ha confessato e domenica si è scusata: con i rom, con la madre, il padre, i quattro fratelli e l´intero quartiere. «Mi sono scusata con una lettera e su Facebook – conferma – ma non è vero che mi vergogno, potete scriverlo per favore?».
Possiamo scriverlo. Ma il fatto resta. Perché raccontare una bugia così grossa? Non hai pensato alle conseguenze?
«No, lì per lì non ci ho pensato. Non sono stata io a mandare la gente a bruciare le baracche. Ero sconvolta, ho visto mio fratello e non me la sono sentita di dirgli la verità. Poi, una volta detta la prima bugia ho dovuto andare avanti per un po´, era difficile fermarsi…».
Perché hai descritto i tuoi finti aggressori come due persone che potevano arrivare dal campo nomadi qui vicino?
«Ho sbagliato. Ma il mio non è razzismo. Chiedete a chiunque in quartiere, quasi tutti hanno avuto un furto in casa. È normale che la gente sia esasperata, anche se non si può giustificare quello che è successo alle baracche dei rom, dove c´erano donne e bambini. Quando sono uscita dal garage (il luogo dove Sandra aveva passato il pomeriggio di giovedì insieme al fidanzato, di tre anni più grande, ndr) e ho incontrato mio fratello c´erano due ragazzi del campo in lontananza che scappavano. Io li ho visti, anche lui li ha visti, una parte della mia bugia è nata così».
Perché eri sconvolta? E perché tanta paura che i tuoi sapessero la verità?
«Di solito non racconto bugie. Perfino quando ho iniziato a fumare sono andata da mio padre a dirglielo, anche se sapevo che non sarebbe stato contento. Ma quel giorno non ero preparata, non lo avevo mai fatto prima, anche il mio ragazzo era spaventato. Non c´è stata nessuna violenza, io l´ho fatto per amore, ma lo spavento sì. E io avevo promesso di non farlo prima del matrimonio, lo avevo promesso spontaneamente, mi sentivo una stupida… non è vero che avevo paura delle botte e neppure che mia madre mi obbliga a andare dal ginecologo. Ma è vero che in famiglia siamo tutti d´accordo che certe cose non vanno bene. I miei non sono contenti della storia con questo ragazzo, avrebbero voluto che lui si presentasse a casa, che dicesse le sue intenzioni. Anche per questo avevo promesso…».
Sei religiosa?
«Sì. Come i miei. Andiamo in chiesa, siamo credenti, mi piace che in casa ci siano queste immagini (indica un quadro in cucina con il volto di Gesù). Ma non sono bigotta, sono una ragazza come tutte le altre, mi piace la musica e mi piace Facebook, e uscire con le amiche e guardare le vetrine in centro. Cerco di comportarmi onestamente, soprattutto per rispetto ai miei, ho fatto uno sbaglio, e lo sto già pagando molto caro».
Che cosa ti sta capitando?
«Tutti parlano di me, siamo stati minacciati, non posso uscire di casa senza essere guardata a vista. Le mie amiche si sono arrabbiate, e le posso capire, e anche per la mia famiglia ci sono un sacco di problemi. Non era così che speravo per la mia prima volta…Mi sono già scusata, che altro devo fare? Sparire? Darmi fuoco?».
Come ti immagini il futuro?
«Ho fatto tre anni di scuola, mi sono diplomata. Mi piacerebbe poter lavorare. Mia mamma, le zie (le indica, intorno al tavolo ndr) mi hanno già perdonata, mi piacerebbe non deluderle più. Mi piacerebbe che tutti si dimenticassero di me, che del mio sbaglio non si parlasse più. Ma forse è impossibile».

il Fatto 14.12.11
L’escalation da Rosarno a Torino
Il Paese dell’accoglienza dimenticata
di Enrico Fierro


E adesso tutti a interrogarci sul perché della strage “americana” di Firenze. Americana, sì, gli ingredienti ci sono tutti: lo scrittore appassionato di esoterismo e con frequentazioni fasciste che in un “pomeriggio di un giorno da cani” impugna la sua 357 magnum e decide di vendicare sconfitte, frustrazioni, crisi personali e globali colpendo quella parte di umanità che odia. I “negri” che “infettano” la sua Firenze, quelli alti, con la pelle scura come la pece e gli occhi bianchissimi che girano la città trascinandosi sacchi di false cinture Armani e di borse Vuitton a poco prezzo, quelli che al semaforo ti sporcano il vetro con le loro scope zuppe di acqua fetente. Due morti, il caricatore quasi svuotato, e poi l’inseguimento e la fine in un garage. La canna della pistola premuta sulla gola, un colpo solo, sangue dappertutto. E noi ci chiediamo in quale terra affondano le radici dell’odio, in quale humus si nutrono e trovano le forze per espandersi. Noi, gli italiani che per anni hanno sorriso alle scellerate performance di gente come Borghezio che andava a disinfettare i vagoni dei treni dove viaggiavano le ragazze ghanesi, noi che abbiano pensato che gente come lo sceriffo Gentilini fossero solo la patetica espressione di un razzismo buono per raccattare qualche voto. Noi che non abbiamo capito che quelle manifestazioni di razzismo, di xenofobia e di chiusura nei nostri piccoli confini, erano il frutto di una formidabile macchina della paura. Costruita in modo scientifico, notizia dopo notizia, tg dopo tg, editoriale dopo editoriale.
Sempre il ladro di ville era slavo, lo stupratore romeno, lo spacciatore senegalese, la puttana nera o albanese. Su tutto ciò sono state costruite leggi sull’immigrazione tra le peggiori d’Europa che hanno aggravato le condizioni di vita dei migranti e resa sempre più difficile la loro integrazione. Con Umberto Bossi “Fora dai ball” è diventata linea di governo. Il razzismo ha alimentato le scelte della politica e ne è stato a sua volta nutrito. E non è questione di Nord e Sud. Perché se pochi giorni fa la folla che devastava un campo rom a Torino urlava slogan in accento sabaudo, tre anni fa gli stessi slogan erano ritmati in napoletano. A Torino hanno voluto dare una lezione ai rom per lo stupro inventato da una ragazzina incosciente e malcresciuta, a Napoli, al grido di “appicciamme ‘e zingari” devastarono un intero campo per un’altra notizia sbagliata, il tentato rapimento di una bambina. A Torino si sono accorti dopo che la ragazzina aveva inventato tutto per paura di genitori ossessivi. A Napoli si capì dopo il raid che il terreno dove sorgeva la baraccopoli faceva gola alla speculazione e alla camorra. Sempre dopo, solo dopo, senza che nessuno chieda scusa e poi si interroghi e infine strappi per sempre le “radici dell’odio”. Si va avanti fino al prossimo episodio. Cosa succede in questi giorni a Rosarno? Ricordate la rivolta violenta dei raccoglitori di clementine, e la risposta, altrettanto violenta, dei rosarnesi due anni fa? C’erano lavoratori stranieri trattati come schiavi che vivevano in condizioni disumane. Costretti a convivere e a farsi sfruttare da altri, dalla pelle bianca, italiani del Sud, con i loro mandarini che non valgono un centesimo sui mercati, le loro crisi. Ci furono scontri, sangue, la cacciata del negro dal paese, e tutti giurarono mai più e promisero interventi per migliorare le condizioni di vita dei braccianti di colore. Si è fatto meno di zero. A Torino pochi giorni fa e prima a Napoli è gente di periferia quella che si è scagliata contro gli zingari, gente che ha perso il lavoro, pensionati che non ce la fanno a tirare avanti, uomini e donne che sanno che la crisi peggiorerà la loro vita. E allora lo zingaro, il negro, la puttana albanese, diventano il nemico sul quale sfogare la rabbia. Eppure c’è chi ancora crede nel grande cuore di questo Paese, sono 900 rifugiati africani ospitati negli alberghi della periferia napoletana. Sono fuggiti da guerre, carestie e fame, non hanno assistenza sanitaria e legale e vivono con un ticket di 2,50 euro al giorno. Hanno scritto una lettera aperta: “Siamo spiacenti di affollare i semafori chiedendovi l’elemosina di qualche centesimo, vendendovi fazzoletti o pulendo i vetri delle vostre auto. Vi chiediamo di aiutarci a ritrovare i nostri diritti”.

La Stampa Torino 14.12.11
Dopo il raid le indagini
“Bruciavano tutto senza pensare alla vita dei rom”
Il gip conferma il carcere per i due arrestati Caccia agli altri vendicatori: “È odio razziale”
di Alberto Gaino


I due arrestati per incendio appiccato per «odio razziale» - aggravante contestata dalla procura - sono comparsi ieri mattina di fronte al gip Silvia Salvadori per l’interrogatorio di convalida servito loro per chiamarsi fuori dal pogrom contro il campo rom della Continassa, alle Vallette, e al magistrato per convincersi di lasciarli in carcere.
L’ordinanza di custodia cautelare è durissima: «Si deve sottolineare che gli indagati hanno dato fuoco a roulotte e baracche senza curarsi se vi fossero persone all’interno e che hanno agito nella più totale indifferenza per la loro sorte». Prefigura lo scenario dell’accettazione del rischio di provocare una strage che potrebbe portare a più gravi contestazioni nei confronti dei due arrestati e degli altri incendiari «in corso di identificazione». Un testimone riferisce di aver visto una donna con un bambino scappare da una baracca mentre prendeva fuoco. Altri di aver notato una fuga quasi generale dal campo all’arrivo del corteo.
Lo stesso difensore di Guido Di Vito, 59 anni compiuti oggi, infermiere in pensione dallo scorso febbraio, e di Luca Oliva, ventenne disoccupato, aveva visto il gip «molto deciso» e temeva il peggio. Non di meno, ricevuto il fax con la notizia della convalida dei due arresti, l’avvocato Francesco Traversi ha rilanciato «la completa estraneità dei miei assistiti ad ogni violenza. Hanno partecipato alla fiaccolata di solidarietà con la ragazza che si è saputo dopo essersi inventata lo stupro. Sono arrivati entrambi al cancello del campo e là sono restati, con le mani in mano. Un tenente dei carabinieri sostiene di aver visto Di Vito maneggiare un accendino, ma sono stati altri, 50-60 persone, in gran parte a viso coperto, a sfondare il cancello e a lanciare bombe carte e molotov».
I suoi clienti hanno dichiarato nel corso dei rispettivi interrogatori, svoltisi ieri mattina in carcere, che gli incappucciati erano «ultras bianconeri». L’avvocato: «Farò subito ricorso al tribunale del Riesame».
Il provvedimento del gip individua la svolta razziale del corteo «all’altezza di via delle Verbene, dove ai manifestanti, sino ad allora pacifici, si aggregano un centinaio di persone che manifestano un atteggiamento molto più agitato e minaccioso nei confronti dei nomadi e degli stranieri». Le accuse ai due arrestati sono riassunte dalla testimonianza di un tenente dell’Arma: «Ho notato Di Vito dare fuoco con un accendino ad un oggetto che subito lanciava contro una baracca e questa prendeva fuoco. Vicino a lui c’era Oliva che ha fatto altrettanto con la tenda di un’altra baracca, anch’essa all’ingresso del campo. Tanti altri attorno a loro facevano le stesse cose, io mi sono concentrato sui due indagati per non perderli di vista».
Mentre la sedicenne dello stupro inventato veniva sentita per la prima volta, come indagata di simulazione di reato, alla procura per i minori, il gip completava l’ordinanza con altre dure espressioni sui fatti di sabato: «L’azione si presenta come diretta a manifestare all’esterno un sentimento di odio razziale ed etnico».
Il giudice prende spunto dai cori e dagli slogan riferiti dai carabinieri («A morte questi zingari di m... Bruciamoli tutti vivi») e scrive: «Inducono a ritenere che gli indagati abbiano agito per aggredire indiscriminatamente tutti gli abitanti del campo in ragione della loro appartenenza all’etnia rom».
Sette di loro, uomini e donne, hanno dato mandato agli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore di costituirsi come parti offese. I legali: «Che ci consti è la prima volta che accade in Italia».

l’Unità 14.12.11
Gianluca Casseri, frequentatore di Casa Pound fa fuoco, poi si uccide
Ha sparato con la 357 magnum ai mercati di piazza Dalmazia e San Lorenzo
Follia a Firenze. Estremista di destra uccide due senegalesi
Sparatoria fra i banchi di due mercati popolari. Un cinquantenne già segnalato alla polizia uccide due senegalesi, venditori ambulanti, e ne ferisce altri due. Poi si uccide. Era un attivista dell’estrema destra.
di Maria Vittoria Giannotti


Il Breivik italiano aveva 51 anni e una faccia rotonda dall’espressione bonaria. Frequentatore di Casa Pound, da anni rovesciava su internet il suo odio antisemita. Ieri mattina, di punto in bianco, ha deciso di passare all’azione. Nel mirino della sua 357 Magnum, i giovani senegalesi che vendono accendini e fazzoletti nei mercati fiorentini: quello di piazza Dalmazia e quello, centralissimo, di San Lorenzo. Ha sparato senza esitazioni e senza pietà, in una caccia al nero che ha tenuto con il fiato sospeso per ore polizia e carabinieri. Ne ha uccisi due, Samb Modou, 40 anni, e Diop Mor, 54 anni, ma il bilancio potrebbe salire: altri due stanno lottando per la vita.
L’incubo, per Firenze, è cominciato a mezzogiorno. Quando è uscito di casa con una pistola nascosta in tasca, ha parcheggiato la sua auto in doppia fila e ha attraversato la folla del mercato. Ha cercato i senegalesi che vendono borse e abiti tra le bancherelle dei vestiti usati. Si è piazzato davanti a loro, poi ha tirato fuori l’arma, regolarmente detenuta, e ha sparato tre volte. Quei ragazzoni sono caduti in terra senza un lamento. A quel punto il killer si è guardato intorno, ha incrociato lo sguardo terrorizzato degli ambulanti, accucciati sotto i banchi e si è allontanato, senza fretta. Al giornalaio, che tentava di fermarlo, incitato dalla folla, ha puntato l’arma sotto il mento e ha detto: «Fossi in te ci penserei bene». Il giovane, Gabriele, non ha potuto far altro che lasciarlo andare. Lui è risalito in macchina, deciso a continuare la sua spedizione di morte.
ANCHE L’ELICOTTERO
Gli stavano tutti alle calcagna: polizia, carabinieri, in volo si è alzato anche un elicottero. Un testimone era riuscito a fotografare la targa della sua Polo e gli inquirenti, consultando la banca dati della motorizzazione, sapevano già il suo nome: Gianluca Casseri, classe ‘61, originario di un paesino pistoiese, militante di Casa Pound, associazione di destra da poco attiva in città. Ma la caccia senza quartiere non gli ha impedito di portare avanti la sua missione sanguinaria. E così mentre i senegalesi, disperati, piangevano i loro compagni morti e sfilavano con un corteo improvvisato diretto verso la prefettura, sfogando la loro rabbia contro scooter e vetrine ha attraversato la città. Due ore dopo il primo agguato, era al mercato centrale di San Lorenzo. Pronto a sparare di nuovo. Ha lasciato l’auto nel parcheggio sotterraneo. È uscito nei vicoli, in cerca di nuove prede. Pochi metri a piedi e si è imbattuto nella prima vittima,
senegalese anche lui. Ha sparato in mezzo alla folla, incurante delle grida dei passanti. Il ragazzo ha tentato di fuggire, si è nascosto tra i banchi e le macchine, terrorizzato. Ma il giustiziere ha continuato a esplodere colpi, fino a che non lo ha visto a terra: le sue condizioni, come detto, sono disperate. Poisièmessodinuovoincerca.Esiè imbattuto in un altro senegalese. Un colpo solo, per fortuna non mortale. Casseri è fuggito con la squadra mobile e i carabinieri a inseguirlo. Attimi terribili, gli agenti hanno dovuto affrontare una situazione ad altissimo rischio: il parcheggio sotterraneo dove il killer si era rifugiato era pieno di gente. Le uscite sono state bloccate, i fiorentini sono stati perquisiti e fatti uscire uno per volta. Alla fine, là sotto, sono rimasti solo Casseri e la polizia. Un agente lo ha visto estrarre la pistola e ha sparato. Ma non ce n’era bisogno: Casseri si è ucciso con un colpo al mento.
Quest’uomo che i compagni di militanza, pur prendendone le distanze, descrivono come colto e silenzioso, era conosciuto alla Digos per aver preso parte ad alcune manifestazioni di destra. Appassionato di Tolkien e del genere fantasy, non faceva mistero delle sue simpatie neonaziste. In internet non ci si imbatte solo nei titoli di suoi saggi esoterici aveva anche scritto un romanzo, La chiave del caos, definendolo “un ludo alchemico” ma anche in una rivalutazione dei Protocolli dei Savi di Sion, il tristemente noto libello antisemita e in un blog che fa del negazionismo la sua ragion d’essere. A Casa Pound era stato invitato per conferenze su personaggi dei fumetti come Tex e Tin Tin. Di sé, parlava in terza persona. «Nasce a Ciriegio (Pt) nel ‘61, mentre l’uomo va nello spazio e il cielo si eclissa per la massima eclissi del XX secolo. All’età di 12 anni, folgorato dall’incontro con H.P. Lovecraft, si aliena definitivamente dal cosmo ordinato che ci circonda». E altre stranezze, e «per distrarsi dalle cose serie pare che faccia il ragioniere». E da ieri anche l’assassino.

l’Unità 14.12.11
l corteo dei migranti: «Diteci, perché non lo hanno fermato?»
Fra loro il governatore Rossi: «Voi siete i nostri fratelli d’Italia»
La rabbia degli africani «Slogan e offese, gli estremisti ci odiano»
Il presidente della Toscana è sceso in piazza fra i senegalesi Momenti di tensione, poi l’abbraccio: «Manifestate, ma pacificamente». L’ex consigliere comunale Pape Diaw: «Perché non hanno fermato il killer?».
di O.  Sabato e T.  Galgani


A Firenze vanno in scena la rabbia e il senso di impotenza dei senegalesi, che si manifestano con un corteo che parte dal primo mercato della strage e raggiunge le vie del centro. «Spacchiamo tutto», «l’avessimo fatto noi...»: cestini divelti, qualche negozio con le serrande abbassate. Momenti di tensione davanti ai turisti: sono più di cento i senegalesi, scortati dalle forze dell’ordine (qualche carica), che arrivano sotto la sede della prefettura, nella centralissima via Cavour.
Agli africani si aggiunge qualche ragazzo dei centri sociali. E, non appena si scopre che l’assassino è un estremista di destra, partono i cori: «Vergogna», «Fuori i fascisti dalle città». Alcuni senegalesi, tra cui Pape Diaw (ex consigliere comunale di Prc), vengono fatti salire durante il vertice tra il sindaco Matteo Renzi, il prefetto Paolo Padoin, il governatore Enrico Rossi e le forze dell’ordine. Quando scende, spiega Pape Diaw: «È inconcepibile che il folle non sia stato fermato. La colpa è di questa politica che banalizza temi aspri come razzismo e immigrazione».
I senegalesi si spostano in piazza Duomo e pregano con l’imam, anche se la rabbia resta tanta. A quel punto, la sorpresa: vengono raggiunti da Rossi, che si issa sulla balaustra del Battistero e porta loro «la solidarietà di tutta la Toscana»: «Siete i nostri fratelli d’Italia. La vostra protesta è legittima: vi invito a non farla sfociare nell’illegalità e saremo tutti con voi». I senegalesi lo ringraziano e lo abbracciano. Qualcuno lo bacia. «È il momento che anche loro abbiano il diritto di voto alle amministrative», è l’ultima riflessione del governatore.
LA COMUNITÀ
Nella comunità senegalese il grand magal di Touba è una festa religiosa molto importante per tutti. Lo scorso anno in Toscana in circa tremila ricordarono l’esilio di Cheikh Amadou Bumba, padre del Mudrismo. Fra le comunità straniere, la senegalese, è probabilmente quella che si è integrata meglio a Firenze, non a caso ci sono diverse coppie miste. Il legame è forte fra i senegalesi e i fiorentini, nonostante le polemiche sulla vendita ambulante abusiva dei giovani africani in centro. Molti di questi venditori arrivano da Pontedera e dal pisano. Fra gli stranieri sono gli unici a vedersi poco in giro: finito di lavorare tornano a casa e non hanno l’abitudine di fare dei ritrovi di gruppo nelle piazze come tante altre comunità.
In quasi 500 abitano nel capoluogo toscano: e ora eccoli a fare i conti con le due sparatorie che sono costate la vita a due giovani africani (altri tre feriti gravemente). «Stiamo cercando di darci una spiegazione su quanto è successo», commenta Hassan Kebe, da anni il punto di riferimento dei senegalesi a Firenze, componente del consiglio degli stranieri di Palazzo Vecchio dal 2003 al 2009. «Ci stiamo domandando la motivazione di questo gesto». Nessuno si aspettava un episodio di questo tipo. In città non c’erano stati segnali. «Forse chi ha sparato ce l’aveva con i senegalesi, forse è un razzista», aggiunge Kebe, «ma la cosa più drammatica, che non riesco a capire: due ore dopo che ha ucciso in piazza Dalmazia è arrivato di nuovo a San Lorenzo per uccidere, ma quale sicurezza c’è qui? La sicurezza non vale solo per gli italiani». Una domanda, che merita sicuramente delle risposte verso una comunità, l’unica a Firenze, rappresentata anche nel consiglio comunale proprio con Pape Diaw. Chi ha sparato era un simpatizzante di estrema destra, «ma quelli lanciano sempre slogan pieni di odio verso gli immigrati, può darsi che ce l’avesse con i senegalesi», spiega Hassan Kebe. I senegalesi a Firenze sono frastornati, non riescono a farsene una ragione: «I ragazzi sono molto arrabbiati e amareggiati». Una ferita che non si rimarginerà tanto facilmente: «Questa città la sentiamo nostra e vogliamo convivere in pace», dice l’esponente della comunità senegalese fiorentina.

l’Unità 14.12.11
Quelle parole che fomentano la paura
di Gianni Biondillo


Non chiedetemi di entrare nella mente dell’assassino. Ci penseranno i criminologi di grido a sbizzarrirsi negli show televisivi. Parleranno di follia, di impulso criminale, analizzeranno la triste storia personale del sicario suicida. Qualcuno spruzzerà di sociologismo il tutto: la crisi, l’incertezza del futuro, la paura del diverso. Altri si dissoceranno dalle sue frequentazioni neonaziste: non basta essere simpatizzanti di Casa Pound per trasformarsi in un delirante giustiziere della notte.
Giustificazioni buone per tutte le stagioni. La televisione nazionale, che ha colonizzato il nostro immaginario di questi ultimi decenni, richiede spiegazioni semplici, facili da applicare nel mondo reale. Tipo quelle dei bravi cittadini torinesi che hanno trovato ovvio organizzare un pogrom in un campo rom alla notizia (falsa) di uno stupro ai danni di una minorenne. Le nostre donne le difendiamo noi. «Nostre», come se ci appartenessero. Che poi lo stupro fosse una menzogna della ragazzina per difendersi da due genitori oppressivi cambia poco.
Non era vero, è stato detto, ma non ne possiamo più dei nomadi. Curioso sillogismo. Cioè: non è che siamo razzisti, è loro che sono zingari! In pratica: non siamo interessati alla responsabilità personale, sono cose da democrazia matura. A noi interessa avere un capro espiatorio, là quando occorre.
Io, insomma, di Gianluca Casseri non so nulla. E nulla sanno neppure i fascisti della rete che già lo esaltano ad eroe nazionale. Prevedo un’impennata delle vendite delle 357 magnum, il revolver che ha stroncato la vita dei due ambulanti senegalesi.
Della tragedia di Firenze sono le parole usate per raccontarla che mi interessano. Le parole, in fondo, sono il mio mestiere. Le notizie lette sul web in tempo reale, parlavano di un «folle» che aveva sparato e ucciso due «vu’ cumprà». «Folle»... C’è molto poco di folle nel selezionare chi uccidere e chi no. Basta un semplice manuale di criminologia forense per saperlo: lo squilibrato spara a casaccio, nella folla, indistintamente. Qui Casseri ha scelto su base etnica le sue vittime. Sapeva esattamente cosa voleva dire al mondo.
E poi «vu cumprà», così, come si diceva, con quel malcelato razzismo, oltre vent’anni fa quando arrivarono i primi immigrati dall’Africa. Quasi non fossero passati questi anni, quasi fossimo ancora una «innocente» nazione di emigranti che andava trasformandosi in una di (colpevoli) immigrati. Scrivere di un folle che uccide due vu cumprà è già, intimamente, un modo di giustificarlo. Cosa avrebbero scritto i solerti giornalisti patri se un senegalese avesse sparato a due fiorentini? E quale fiaccolata capitanata dal solito politico indignato si sarebbe organizzata per dichiarare la propria insofferenza di fronte a questi stranieri che vengono qui ci rubano il lavoro, sporcano le nostre città e certo non siamo razzisti, ma, si sa stuprano le «nostre» donne?
Nominare le cose significa darle un senso. Quando diciamo, ad esempio, che l’Italia sta cambiando quasi che questo mutamento possa ancora trovare un’inversione di rotta ci raccontiamo la più patetica delle bugie. Perché non vogliamo ammettere che l’Italia è già cambiata. Da una generazione ormai. Il paesaggio antropologico è radicalmente mutato, ne prendano atto i fascistelli in pectore che propugnano la difesa di una razza inesistente. Ma soprattutto ne prenda atto la più retriva delle politiche che abbiamo avuto, miope e securitaria, che al posto di gestire il cambiamento ha fomentato col suo linguaggio da bar l’incertezza e la paura. Questo è ciò che ora raccogliamo, dopo aver seminato vento per un quarto di secolo. Tempesta.

l’Unità 14.12.11
E i fanatici di destra in Rete inneggiano al killer-camerata
Mentre Casapound cancella gli scritti del killer, sul sito estremista Stormfront va in scena «l’orgoglio bianco». Insulti agli «allogeni», conditi di antisemitismo. E tributi a Casseri: «Ha fatto ciò che dovremmo fare tutti»

di Mariagrazia Gerina

Mentre Casapound ripulisce il suo «ideodromo» online dagli inteventi del killer-militante e prende le distanze: «Era solo un simpatizzante, come centinaia di persone». Sul sito «Stormfront», con sapiente gioco delle parti, va in scena l’«orgoglio bianco».
«Gianluca Casseri è dei nostri», rivendica un frequentatore del forum. Lo scrive, però, dopo aver appreso dalla rete che si tratta di un militante di Casapound. L’utente che dà per primo la notizia si firma “costantino”. Ed è lo stesso che dà l’allarme: «I Negri» altri li chiamano gli «allogeni» «stanno di nuovo cercando di assediare Firenze. Stanno organizzando un corteo per sfasciare tutto. Loro hanno coscienza di razza. E noi?». «Noi», man mano che l’informazione che Gianluca Casseri sia uno di Casapound si arricchisce di conferme, e si aggiungono dettagli sulla sua produzione «intellettuale» tratti dalla «biblioteca revisionista», fanno fioccare tributi di «Rispetto e onore». Mentre altri inneggiano agli «incidenti» esplosi «in centro»: «È la guerra etnica come aveva previsto Freda».
INSULTI ANCHE ALL’UNITÀ
In un secondo momento, si fa strada tra i commenti la tesi del complotto. In due varianti: che non sia andata come scrivono i media. E che i media, soprattutto quelli di sinistra, «aspettavano proprio che qualcuno esaltasse il suo gesto». È a quel punto che qualcuno prova persino timidamente ad affiancare ai tributi che proseguono «al camera caduto», all’«intellettuale di valore morto», una condanna del suo «gesto». Ma trova poco seguito: «Onore a lui, che come pochi ha avuto il coraggio di fare ciò che dovremmo fare tutti in massa», scrive Glemselens. «È ora che qualcuno faccia pulizia di questa immondizia negra», gli fa eco “Longobard”: «Difendere la Razza Bianca è un nostro diritto».
«Lo dicono anche i negri... non era "un pazzo"... evidentemente sanno di dare fastidio», scrive “ComplottoGiudaico”, citando la cronaca del sito dell’Unità in cui i senegalesi ribadiscono che non di follia si è trattato ma di razzismo. «All’Unità non vedevano l’ora di poter uscire dalla catacombe della storia in cui sono stati cacciati», chiosa prontamente “costantino”, preoccupato della piega che potrebbe prendere la vicenda. «Ora chiederanno le case per i boveri senegalesi», pronostica, sputando un «lurido pezzo di m...» rivolto «all’assessore fiorentino» reo di aver fatto arrivare la sua solidarietà alla comunità senegalese. Mentre loro, a fronte della stampa «giudaica» e di quella di sinistra che sui siti attacca i loro commenti razzisti, rivendicano «libertà di espressione» contro la «società multirazziale».

il Fatto 14.12.11
Dagli allo straniero: sul web la solidarietà all’assassino
I “nazionalisti bianchi” si scatenano sul sitoi stormfront.org:  “Negri, allogeni, giudei”
di Stefano Caselli


Sono passate da poco e 13, la notizia dei fatti di Firenze si diffonde anche tra gli utenti della sezione italiana di stormfront.org , la community internazionale dei “White nationalists”. Già il titolo del thread è eloquente: “Senegalesi assaltano la città di Firenze”. L’utente Costantino comunica agli amici ariani del forum che “un uomo ha sparato a due ambulanti negri. I negri assaltano negozi e sfasciano tutto. Accade a Firenze in questi minuti”. Dopo un quarto d’ora si viene a sapere che l’omicida si chiama Gianluca Casseri. Costantino, anche questa volta, avvisa i camerati: “È dei nostri. È gravissimo, speriamo ce la faccia”. Non Conforme s’incarica di annunciare la morte di Casseri: “Purtroppo si è sparato. È il prezzo che ha pagato un eroe, una situazione ormai figlia dell’esasperazione di chi ha creato questa società multietnica che è una bomba a orologeria pronta ad esplodere”. “Gli sbirri di merda – è la prima risposta – che non ci sono mai quando un allogeno delinque (per il razzista doc gli stranieri sono “allogeni”, ndr) oggi sono stati efficientissimi. Ci sono incidenti in centro, è la guerra etnica come aveva previsto Freda (presumibilmente Franco Freda, quello di Piazza Fontana, ndr) ”.
LA DISCUSSIONE si anima, gli utenti di stormfront.org   abbandonano le disquisizioni da cineteca sul film “Suss l’ebreo” del 1940 o gli annosi interrogativi tipo “gli aplogruppi J2 ed E3b sono da considerare bianchi? ” e si buttano sulla notizia del giorno. Inizialmente si fa strada l’ombra del complotto (“È un intellettuale, forse non ce la raccontano giusta – ancora Costantino – potrebbe benissimo essere stata un’operazione dei servizi: un agente uccide gli allogeni, Casseri viene chiamato a un appuntamento in una piazza, lo ammazzano e gli mettono una pistola in mano”), poi, nonostante il monito di Blutfahnel1970 (“Aspettano solo che qualcuno di noi si esalti per il suo gesto. Uccidere non è la soluzione”), ecco l’apologia: “Onore eterno al camerata caduto – scrive Glemselens – onore a lui che come pochi ha avuto il coraggio di fare ciò che dovremmo fare tutti in massa; sono più propenso alla loro espulsione anziché al loro assassinio, ma la vedo piuttosto dura come soluzione”. Longobard è meno accomodante: “Casseri eroe bianco vittima di un complotto volto a nascondere la verità, e cioè che Firenze è ormai contesa tra bande di sporchi negri e criminali. È ora che qualcuno faccia pulizia di questa immondizia negra”. Passano le ore e alcuni siti d’informazione si accorgono di stor  mfront.org : “Scatta la diffamazione della stampa ebraica – lancia l’allarme Complotto giudaico – La Repubblica dell’ebreo De Benedetti in testa: perché tutto questo odio per la libertà di espressione? ”. Glemselens, dopo un lungo intervento a base di negri, ebrei, gialli, zingari e varie categorie “razzialmente disadattate”, si incarica di delineare lo stormfront pensiero: “Mescolarsi vuol dire odiare l’umanità, vuol dire odiare il bianco, il nero e il giallo. Prendete atto e svegliatevi, se volete bene a voi stessi e alle altre culture”. “Tengo ad avvisare i lettori che Casapound – precisa RahowaIT – non è di stampo razzista ma semplicemente identitario”.
LA LANA CAPRINA brucia in fretta, tempo pochi minuti e gli interventi virano nuovamente sull’attualità: “A fine giornata i senegalesi si sono presi Firenze. Sindaco e assessori piegati a novanta, una bella preghiera al Battistero che diventa casa loro e un bel corteo con i cessi sociali a fomentare scontri etnici contro gli odiati bianchi”. “Ognuno raccoglie ciò che semina questa società multirazziale genera odio su odio, andrà sempre peggio”, sentenzia Cambiorotta. All’utente Jonnhy (sic) il commiato finale: “Onore ad un uomo buono e coraggioso vittima di questa cloaca che chiamiamo società, ora ci osserva dall’alto dei cieli”.

La Stampa 14.12.11
E Breivik in carcere riceve centinaia di lettere d’amore

Il pluriomicida norvegese Anders Behring Breivik, responsabile della stra- ge di luglio a Oslo e Utoeya costata la vita a 92 persone, ha ricevuto in questi mesi una mole impressionante di posta, tra cui 300 lettere d’amore. A scrivergli sono donne che gli offrono il proprio amore e vorrebbero sposarlo o almeno redimerlo, esaltati che vedono in lui il difensore dei valori nazionali, cittadini infuriati che lo minacciano di morte. La censura del carcere ha fatto una cernita accurata del- le missive, cestinando lodi e minacce. A Breivik sono state invece consegnate le lettere d’amore e quelle di organizzazioni e persone religiose che si offrono di occuparsi della salvezza della sua anima.

Corriere della Sera 14.12.11
Quel ragioniere dell’orrore
Il ragioniere della razza pura e il giallo dell'hard disk sparito
Militante di CasaPound, aveva scritto saggi antisemiti
di Marco Imarisio


FIRENZE — Tra il presepe dell'opera di Santa Maria del Fiore e l'imam che recita passi del Corano con la schiena attaccata al battistero del Duomo ci sono venti passi di distanza. «Allargare la distanza, separare razze e religioni, farle nemiche, solo così arriveremo al risanamento della civiltà, che è il nostro unico compito interno».
Gianluca Casseri ha lasciato dietro di sé cinque corpi sul selciato e una lunga serie di appunti privati che li annunciavano. Nell'appartamento fiorentino di via del Terzolle e nella palazzina di famiglia a Pistoia, tra cumuli di libri e biancheria sporca c'erano fogli sparsi, semplici post-it gialli riempiti da una grafia fitta che costituiscono il messaggio al mondo di un uomo che si era chiuso a esso, «alienato definitivamente dal cosmo ordinato che ci circonda». Ma la solitudine del pazzo spesso è il paravento utile a tutti per nascondere contiguità, vicinanze, consapevolezza. Sulla scrivania della casa fiorentina c'era lo schermo del computer, la sua tastiera, ma è sparito l'hard disk con la memoria, dettaglio non da poco rivelato dal Corriere Fiorentino che forse stride con la teoria della mela marcia e isolata.
C'è stato un tempo lontano in cui il bambino Gianluca si guadagnava la merenda recitando le terzine di Dante al panettiere di Cireglio, 500 anime sulle colline più alte di Pistoia, il luogo dove era nato. Sapeva la Divina Commedia a memoria e un giornale locale gli dedicò un articolo con l'ammirazione dovuta a un enfant prodige. Le promesse della gioventù non sempre si compiono, è una legge di vita e chissà quando Casseri ha cominciato la sua personale opera di alienazione che lo ha portato a pianificare un massacro in stile norvegese, nella tasca del suo K-way sporco di sangue è stata trovata una scatola con altri 24 proiettili. Aveva 14 anni quando la madre Fernanda lo sorprese a costruirsi una bomba nella sua cameretta. Ne parlò con il maresciallo della stazione locale, che le disse di tenere d'occhio quel ragazzo strano, che non parlava con nessuno ed era perso nel culto dello scrittore H. P. Lovecraft, di Tolkien e della mitologia celtica.
I muri di casa erano il perimetro del suo mondo, quando nell'estate del 2010 lasciò Cireglio per trasferirsi a Firenze non se ne accorse nessuno. Negli anni Casseri era passato dal Signore degli anelli a una elaborazione teorica che metteva insieme l'ufologia, era una presenza fissa ai congressi sugli oggetti volanti non identificati, l'esoterismo con lo studio delle rune, l'alfabeto magico dei vichinghi e soprattutto una personale cosmogonia di estrema destra. Malato grave di diabete, perennemente in lotta con la depressione, vagheggiava di se stesso come del «ribelle» di Ernst Junger, il filosofo tedesco accusato di simpatie per il nazismo. Inseguiva un vitalismo esasperato e intanto macerava la sua teoria sulla purezza della razza mescolando razzismo e antisionismo in dosi uguali. Si esibiva nella negazione dell'Olocausto, definito «una fola costruita ad arte per i poveri di spirito» e rilanciava la teoria antisemita della grande cospirazione mondiale ebraica. Nel 2008 aveva scritto insieme a Enrico Rulli La chiave del caos, un romanzo che condensava la sua passione per l'esoterismo. In calce la dedica ai maestri, «buoni o cattivi che siano», e una citazione dell'amato Junger: «Proiettili e libri hanno il loro destino».
Il solitario Casseri, che a Cireglio era ancora il «tontolone con lampi di genio», così lo ricordano nell'unico bar. «Qui nessuno lo ha mai visto con una donna, andare alla partita di calcio, fare la spesa, entrare in un bar». Eppure tutti sanno che ogni settimana andava a esercitarsi al poligono di Pescia, con la sua 357 Magnum regolarmente denunciata, la stessa con la quale ha sparato ieri. E raccontano con tono divertito del fallimento della sua unica impresa nel mondo di tutti, l'apertura di uno studio da ragioniere commercialista all'Abetone durata pochi mesi e costata molto ai parenti per chiudere la bocca ai debitori. La sua famiglia è benestante, lo zio Piero è un noto costruttore edile, l'affitto dei molti appartamenti ereditati dal padre Renzo bastava per tirare avanti, a lui e al fratello Giancarlo, ferroviere in pensione.
Ma nessuno può restare solo per sempre, attaccato a un computer e alla sua comunità virtuale, nessuno può vivere da isola, anche se adesso sono tanti quelli a cui farebbe comodo ricordare Casseri come un cane sciolto senza legami. Nella vita vera i suoi amici erano i ragazzi di CasaPound, i «fascisti del nuovo millennio», camerati per affinità elettiva che adesso cancellano i suoi scritti dal blog Ideodromo, una sorta di vetrina ideologica del gruppo, e rinnegano il suo nome, Casseri non ci risulta, non sappiamo chi è, quereliamo se lo accostate a noi. Almeno Lorenzo Berti, segretario di CasaPound Pistoia, ha l'onestà di distinguere senza rinnegare. «Non era un iscritto — dice — ma lo possiamo definire un nostro militante». Lo chiamavano spesso per fare gruppo e lui non si negava. Sabato scorso era in piazza a raccogliere firme con Equitalia, nel 2010 era diventato ufficialmente «noto alle forze di polizia» per aver occupato con gli altri di CasaPound l'edificio destinato a diventare il nuovo carcere di Pescia. Passava ore in sede ad aspettare qualcuno per parlare di filosofia, delle sue teorie tese «alla riscoperta della spiritualità dell'uomo bianco», che poi prendevano corpo in tirate razziste sulla presunta invasione islamica, «l'orda impura», alla quale erano destinati quei 24 proiettili. «A voi non vi sparo» ha detto ai poliziotti che lo avevano circondato. E sono state le sue ultime parole.
L'assassino di Firenze era un solitario ma non uno sconosciuto. Le sue idee erano note e pubblicate e la corsa a cancellarlo come fosse un refuso, una bestemmia impronunciabile, ha qualcosa di inquietante. Forse nessuno vuole condividere una sconfitta. Perché ieri in piazza del Duomo quei venti passi di distanza tra due diverse religioni non sono diventati un solco, la rabbia si è mischiata alla solidarietà. Casseri il razzista ha ucciso, ma ha perso.

Corriere della Sera 14.12.11
L'orrore di Firenze ricorda Columbine non il Ku Klux Klan
di Pietro Grossi


Occorre fare una premessa fondamentale; una premessa di cui, purtroppo, questo Paese troppo spesso si scorda: le cose vanno chiamate con il loro nome, e il momento in cui si nominano è spesso anche il momento in cui prendono a esistere. Ero da me in campagna, in mezzo ai boschi, mentre Gianluca Casseri imboccava il mercatino di piazza Dalmazia, a Firenze, e dava inizio alla sua assurda e scellerata strage (era molto tempo che non facevo tanta fatica a trovare degli aggettivi: sembrano tutti riduttivi e ridicoli). Ne sono stato informato nel tardo pomeriggio, per domandarmi se, da fiorentino, avevo qualche commento da fare. Ho quindi detto che non ne sapevo niente e sono corso davanti al computer a cercare di capire cosa fosse accaduto. In Rete ho trovato riportato il fatto come l'esecuzione razzista di un militante di estrema destra. Ecco dove nasce la mia esigenza di sottolineare che le cose vanno chiamate con il loro nome. In questo caso il nome non è razzismo, è pazzia. Lo voglio dire, e a rischio di essere impopolare lo voglio dire chiaro: l'Italia non è un Paese razzista. E tantomeno Firenze. L'Italia è diventata un Paese fin troppo intollerante, e sfoga troppo spesso in maniera riprovevole la sua esasperazione. Ma il razzismo, il razzismo vero, è un'altra cosa, e la mia metà americana lo conosce bene. È, va detto, comprensibile incasellare questa vicenda sotto il buio ombrello del razzismo, ne ha apparentemente tutte le caratteristiche. Vi sono però due qualità fondamentali del razzismo che mi permettono ancora di dire che in Italia non esiste: l'essere sempre gratuito e mai episodico. Per questo è giusto fare molta attenzione e tenere presente che molte realtà iniziano a esistere nel momento in cui le nominiamo. Ed è per questo che il gesto di Casseri è ancora da ritenersi il gesto di un pazzo, non di un invasato razzista. Dopo essermi fatto un'idea di cosa era accaduto, ho alzato il telefono e ho chiamato un paio di persone a Firenze. Una mi ha detto che per un attimo gli è sembrato di sentirsi in America, in un luogo tipo Columbine. Non nell'America del Ku Klux Klan, a Columbine. Ecco: se l'Italia è il Paese che conosco, se Firenze è la città che conosco, il gesto di Casseri va preso come quello di quei ragazzini nel liceo del Colorado. Appiccicare alla strage di Firenze il cartellino di razzismo, significa contribuire all'esistenza del razzismo stesso.

l’Unità 14.12.11
Fiat: «Svolta storica» che riporta indietro il lavoro
di Rinaldo Gianola


La regia del Lingotto ha fatto coincidere il battesimo della Nuova Panda assemblata a Pomigliano d’Arco (ma non ci sarà il presidente Napolitano) con la firma dell’accordo con i sindacati, tranne la Fiom-Cgil, per l’estensione a tutti i dipendenti Fiat del modello contrattuale sperimentato proprio nell’ex impianto campano dell’Alfa Romeo. La notizia non sorprende e fa piazza pulita delle illusioni di chi, compresi autorevoli esponenti del centro sinistra e del sindacato confederale, circa un anno fa pensava e garantiva che il modello Pomigliano sarebbe rimasto un’eccezione non replicabile altrove.
Invece Sergio Marchionne oggi a bordo della Panda parla di «svolta storica» e si gode il successo, perchè è bene dirlo senza ambiguità, di questo si tratta: è una vittoria della Fiat conquistata sul campo, grazie alla divisione sindacale, alle debolezze confindustriali, alla latitanza connivente della politica e dei governi (prima Berlusconi e oggi non casualmente Monti) incapaci di accompagnare senza strappi pericolosi e dannosi un necessario processo di riorganizzazione e, speriamo, di rilancio della più importante industria privata, in un’epoca in cui il capitalismo nazionale pare abdicare al suo ruolo storico, abbandonandosi in una deriva autodistruttiva.
Con la firma del testo proposto dal Lingotto per tutti gli 86mila dipendenti del gruppo si chiude il primo capitolo di Fabbrica Italia. Dall’aprile 2010 a oggi Marchionne ha puntato sulla normalizzazione americana degli stabilimenti italiani perchè, nella sua logica, non è ammissibile che Fiat-Chrysler abbia modelli produttivi, organizzativi, di relazione industriale diversi tra Detroit e Mirafiori. Tutto deve essere uniformato e per raggiungere questo obiettivo Marchionne rompe i patti, compresi quelli con i suoi colleghi imprenditori, impone i suoi modelli organizzativi, giuridici, le sue sanzioni disciplinari. Questa linea è stata contrastata dalla Fiom-Cgil che oggi, di fatto, non è presente nelle fabbriche Fiat perchè non ha sottoscritto le offerte di Marchionne. La Fiom è il primo sindacato della Fiat. A livello nazionale il numero degli iscritti di Fim e Uilm non raggiunge quello della sola Fiom. Si può chiedere alle tute blu della Cgil di non essere tutelate? Quale accordo, quale sindacato aziendale, quale Marchionne possono impedire che una parte importante dei dipendenti non sia rappresentata perchè in dissenso? Oggi, dopo il via libera al modello Pomigliano, si torna a parlare di un ritocco dell’articolo 19 sulla rappresentanza sindacale. Se ne discuterà, così come la Fiom continuerà la sue battaglie perchè nemmeno Valletta riuscì a buttare fuori il sindacato più forte e coerente dei metalmeccanici. E tuttavia, proprio oggi, proprio nel momento in cui la Fiom è di fronte a una dura battaglia, è necessario interrogarsi se il sindacato, la Fiom e la Cgil primi fra tutti, è attrezzato per sostenere culturalmente sfide dure, nuove, imposte dalla globalizzazione e non solo dal padrone cattivo con l’aiuto del governo venduto. Landini e i suoi hanno fatto davvero tutto il possibile per evitare questo risultato che rende oggi oggettivamente più deboli i lavoratori? I prossimi mesi saranno difficili nelle fabbriche Fiat, per la cassa integrazione, la crisi, la riorganizzazione. Da un anno e mezzo Marchionne in Italia parla solo della Fiom, chissà se ora darà qualche notizia sugli investimenti, i modelli, i lavoratori?

l’Unità 14.12.11
Il segretario Pd incontra Camusso, Bonanni, Angeletti e Centrella: più equità aiuta la crescita
Dopo lo sciopero di lunedì «il governo deve dire qualcosa». Bene gli ultimi ritocchi, ma serve altro
Bersani a Monti: «Ascolti il Parlamento e le parti sociali»
Incontro tra i dirigenti Pd e i segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Sintonia sulla necessità di modificare la manovra per garantire maggiore equità. Bersani: «Il governo ascolti il Parlamento e le parti sociali».
di Simone Collini


Necessità di concertazione, innanzitutto. E poi gradualità nella riforma delle pensioni, nessun passo indietro sulle liberalizzazioni, attenzione alla prima casa. I vertici del Pd e i segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl si incontrano nel primo pomeriggio nella sede dei Democratici e un breve giro di tavolo basta a far emergere sintonia su diversi aspetti riguardanti la manovra, ma non solo. E infatti Pier Luigi Bersani al termine dell’incontro assicura che il Pd insisterà per alcune modifiche, chiedendo al governo di ascoltare Parlamento e parti sociali.
CONCERTAZIONE NECESSARIA
Quando Bersani, Letta, Bindi e Fassina ricevono al Nazareno Camusso, Bonanni, Angeletti e Centrella, ancora le commissioni Bilancio e Finanza della Camera sono in attesa dell’emendamento del governo alla manovra. Il segretario e gli altri dirigenti del Pd ascoltano i leader sindacali lamentare la mancanza di concertazione, l’intervento sulle pensioni da parte di un governo che non ha ricevuto un mandato elettorale, il rigore senza crescita ed equità.
A preoccupare i segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl è anche la prospettiva che l’esecutivo proceda nei prossimi mesi a una riforma del mercato del lavoro muovendosi come si è mosso in queste settimane, senza un vero coinvolgimento delle parti sociali.
Bersani ascolta e annuisce, perché anche per il segretario Pd (come pure per Letta e gli altri dirigenti democrats) servono ulteriori modifiche per una maggiore equità, anche per lui un passo indietro rispetto alle liberalizzazioni significherebbe cancellare una delle poche misure utili per la crescita. Ma soprattutto, anche per il leader Pd (e per il suo vice e per la presidente Bindi e il responsabile Economia Fassina) il governo deve muoversi seguendo il metodo della concertazione.
ITALIA A RISCHIO AVVITAMENTO
A Camusso (che critica il prelievo del 15% per le pensioni oltre i 200 mila euro perché «non c’è progressività») e agli altri leader sindacali fa notare che non necessariamente un governo tecnico non deve seguirlo: il maggior tasso di concertazione c’è stato col governo Ciampi, il minor tasso con l’esecutivo Berlusconi formato dopo le ultime elezioni politiche. Ma Bersani, che pure di fronte ai leader sindacali difende il sostegno al governo Monti come unica possibilità di portare l’Italia «fuori dal baratro», non nasconde di essere preoccupato per gli effetti delle ripetute manovre economiche. «Il rischio recessione è ancora molto serio», è il ragionamento che fa il leader del Pd prefigurando uno scenario in cui il pareggio di bilancio non sia comunque raggiunto. «Dobbiamo chiedere anche all’Europa un segnale». Altrimenti, di manovra in manovra, «c’è il rischio di un effetto avvitamento».
Un rischio che può essere evitato soltanto se si evita un circolo vizioso che oggi invece è tutt’altro che scongiurato, tra tagli che approfondiscono la recessione e rendono impossibile la crescita, conseguenti nuove tasse e cifre insufficienti a diminuire il debito. «Più equità aiuta la crescita», dice Bersani facendo notare con una battuta che «chi è ricco non può mangiare dieci volte al giorno».
IL GOVERNO SENTA CAMERE E SINDACATI
Un modo per rispondere anche a chi critica la scelta del Pd di sostenere il governo e al tempo stesso comprendere la protesta dei sindacati. «Il Pd è un partito di governo che non perde il contatto con le realtà sociali», dice al termine dell’incontro con i segretari sindacali. «Essere di governo vuol dire rendersi conto che più uguaglianza significa qualche garanzia in più per la crescita». Ecco perché il Pd, assicura Bersani, insisterà per migliorare ancora la manovra. «Chiederemo che vengano corretti alcuni punti della riforma delle pensioni, non per smontare l’impianto ma per garantire maggiore equità. Vedremo quanto il governo sarà collaborativo, cercheremo di convincerlo e chiederemo che sia attento al Parlamento e alle forze sociali. Lunedì c’è stata una mobilitazione, qualcosa il governo la deve dire».
Dopo che in serata il governo presenta l’emendamento alla manovra, la valutazione in casa Pd in parte si modifica. Ma Bersani assicura che comunque il lavoro del suo partito non finisce qui. «Ci auguriamo che il governo faccia qualche passo avanti e per quello che non sarà fatto insisteremo nei prossimi mesi».

il Fatto 14.12.11
Restano solo le tasse
Niente tagli alla casta, le Province e i tassisti resistono qualche sconto ai pensionati, gli evasori restano tranquilli
di Stefano Feltri


Più equa, non certo più leggera, probabilmente altrettanto inutile, visto che sono rimaste solo le tasse. Dopo una lunga giornata di emendamenti, parlamentari e governativi, di vertici e tensioni, la manovra del governo Monti assume quella che dovrebbe essere la sua forma definitiva. E il Consiglio dei ministri di ieri pomeriggio ha deciso che, se necessario, il testo sarà blindato da un voto di fiducia.
Taxi no, farmacie sì
I mercati, che ieri hanno punito l’Italia spingendo ancora più su lo spread a quota 466, non avranno apprezzato le incertezze sulle poche misure per la crescita rimaste nella manovra. Prima un emendamento dei relatori, in commissione alla Camera, rinvia tutto al 2013. Poi in serata, su pressione del deputato di Fli Benedetto Della Vedova, il governo riporta la scadenza al 31 dicembre 2012: entro quella data devono esserci nuovi regolamenti che prevedano meno barriere di quelle attuali all’esercizio delle professioni, altrimenti cade ogni protezione. Si salvano solo i taxisti (solo per ora, promette il governo), e si infuria la lobby della NCC, il noleggio con conducente, che da anni aspetta che cadano le barriere sul lucroso settore del trasporto urbano in auto. Ma i più arrabbiati sono i farmacisti: “Le farmacie sono costrette a chiudere contro un governo capace solo di tagliare e smantellare i servizi che funzionano”, protesta Federfarma annunciando una “serrata” di protesta per lunedì. Il ministro della Salute Re-nato Balduzzi si è impuntato: i farmaci di fascia C, con obbligo di ricetta ma pagai per intero dal cliente, si potranno vendere nelle parafarmacie (tipo quelle dentro i super-mercati) nei Comuni sopra i 15 mila abitanti.
Pensionati a metà
Il Pd esulta perché anche le pensioni tra 1.000 e 1.400 euro saranno rivalutate per l’inflazione. Almeno nel 2012, per il 2013 la copertura al momento c’è solo per quelle fino a 1.000 euro. Come ci tiene a sottolineare Vieri Ceriani, sottosegretario all’Economia, c’è stato un intervento a favore dei redditi bassi anche per quanto riguarda i conti correnti: oggi tutti pagano un’imposta di bollo di 34,2 euro, nella nuova versione della manovra ne saranno esentati tutti quelli che in un anno tengono sul conto in media meno di 5 mila euro. E sono in tanti. Le imprese pagheranno 100 euro invece dei 73 attuali. E sempre il Pd ha incassato un minimo correttivo sullo “scalone” che alzava di botto l’età contributiva da 40 a 42 anni per gli assegni di anzianità (vedi pezzo qui sotto). La copertura per questi interventi a tutela dei più colpiti dalla riforma Fornero dovrebbe arrivare almeno in parte da un prelievo extra sulle pensioni più alte: all’aliquota extra del 10 per cento sugli assegni superiori ai 150 mila euro l’anno si aggiunge un ulteriore 15 per cento sulla parte che eccede i 200 mila. Le conquiste del centrosinistra si fermano qua, c’è un emendamento a cui i democratici tengono molto ma ha ancora un esito incerto: il tetto dei 290 mila euro all’anno agli stipendi dei super manager pubblici. Ci si prova da un decennio, senza risultati apprezzabili.
Cose di casta
Come prevedibile, gli interventi sulla casta passano nella versione più edulcorata. Il governo non potrà adottare un “provvedimento d’urgenza” (cioè un decreto) per imporre a deputati e senatori un taglio dei loro stipendi, ma i presidenti di Camera e Senato Gian-franco Fini e Renato Schifani assicurano che “entro gennaio studieremo un sistema di adeguamento delle indennità parlamentari”. Chissà se per allora la commissione guidata dal presidente dell’Istat Enrico Giovannini avrà finito di calcolare qual è la media europea a cui uniformarsi. O se ci sarà modo di fare un altro rinvio come quello dell’abolizione delle province: mettere una data di scadenza entro cui far decadere gli organi giudicati inutili (come la giunta e i maxi-consigli) sembra proprio impossibile, quindi ora si parla di esaurimento “naturale”. Semplicemente non saranno rieletti, poi nella fase transitoria ci sarà un commissario. Si prevedono tempi lunghi quindi, gli enti simbolo dell’ipertrofia della politica sembrano averla sfangata anche stavolta.
Tasse, ma non per tutti
Il Pdl di Silvio Berlusconi aveva di fatto ottenuto che nella manovra non fossero violati i suoi tabù. E Monti non ha certo interesse a irritare il suo azionista di maggioranza: la tassa sui capitali scudati cambia, come chiedeva la gran parte dell’opinione pubblica, ma non di molto: chi ha rimpatriato dall’estero capitali sottratti al fisco invece di una tantum dell’1,5 per cento pagherà lo 0,4 nel 2011, l’1 nel 2012 e altrettanto nel 2013. L’Imu viene alleggerita, secondo la formula richiesta dal Terzo polo di Pier Ferdinando Casini: 50 euro in meno per ogni figlio. C’è una piccola patrimoniale sui capitali detenuti all’estero, ma è giusto per pareggiare i conti con il bollo titoli in Italia altrimenti si incentivava la fuga verso la Svizzera anche dei soldi puliti, oltre che di quelli in nero (1 per mille nel 2012 e 1,5 nel 2013).
L’unica novità sostanziosa riguarda gli incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato di giovani e donne: nel testo della manovra erano 200 milioni nel 2012 e 300 all’anno dal 2013 in poi. Ora sono 200 nel 2012 e 300 per l’intero periodo 2013-2015. Una delle poche cose di cui Monti si era vantato a Porta a Porta viene parecchio ridimensionata. Nella notte sono proseguiti i lavori in commissione e oggi il decreto arriva in aula, alla Camera.

Corriere della Sera 14.12.11
Echi dalla palude
di Antonio Polito


Bentornati in Italia. Se per un attimo vi siete illusi che sarebbe bastato un manipolo di tecnici a scacciare i mercanti dal tempio di Montecitorio, ricredetevi. Non è così. La manovra, concepita come un blitz anti-spread, ha già assunto le più classiche movenze da palombaro della politica italiana, immergendosi in una trattativa talmente caotica che perfino un governo con una schiacciante maggioranza parlamentare dovrà forse ricorrere al voto di fiducia.
Sintomatica la battaglia che è infuriata sulle misure di liberalizzazione. Prima rinviate tutte di un anno, evidentemente nella convinzione che la crescita potesse attendere fino al primo gennaio del 2013. Poi, in extremis, il ripescaggio. Per i taxi, invece, nessun rinvio, ma addirittura l'esenzione totale. E sulla vendita libera dei farmaci di fascia C una vera e propria lotta di classe tra farmacisti e parafarmacisti; con i primi, molto ascoltati in Parlamento, pronti alla serrata pur di non perdere il sacro monopolio del collirio.
L'Italia delle corporazioni ha mostrato ieri i muscoli anche a uno come Monti, che pure su libero mercato e concorrenza ha costruito il suo prestigio in Europa. Come al solito, ha tentato di usare i partiti, che saranno pure in panchina ma quando si tratta di approvare le leggi giocano eccome. Si sa come funziona: tassisti e farmacisti non telefonano né a Monti né a Passera, ma ai politici protettori. I quali, a loro volta, telefonano a Monti e a Passera, che hanno bisogno dei loro voti. Eppure, a ben vedere, è proprio questa sottomissione al particulare la debolezza che ha portato la nostra politica, unica in Europa, a dover cedere lo scettro a un governo di professori. Affidata ora ai tecnici la missione del bene comune, è paradossalmente cresciuto il rischio che i partiti si trasformino sempre più in sindacati dei loro elettori o in comitati d'affari della borghesia delle professioni.
Ma anche per il governo la giornata di ieri suona la campana. Si dice che ogni manovra in Parlamento è come una lucertola, disposta a perdere un po' di coda pur di salvare la testa. Dove la testa sarebbero i saldi, conservati finora grazie all'unanimità che si registra sempre quando si tratta di aumentare la pressione fiscale inventando nuovi balzelli (notevole la tassa su immobili e attività finanziarie all'estero: non c'era il mercato unico in Europa?). Si vede che il ceto medio non ha protettori né in Parlamento né nelle piazze. Eppure la metafora della lucertola si adatta male al gabinetto Monti. Perché in questo strano animale la testa è la sua credibilità. Il sostegno di cui ancora gode nell'opinione pubblica, nonostante i sacrifici imposti, è basato sulla presunzione che i tecnici non faranno favoritismi per motivi di consenso. Ieri le forze politiche hanno festeggiato quel poco che sono riuscite a strappare ciascuna per la propria constituency. Ma se la gente si dovesse convincere che chi è protetto da un partito o da un sindacato continua a vincere anche con i tecnici al governo, allora a che servirebbero più i tecnici?

l’Unità 14.12.11
Proclamati nuovi scioperi unitari: pubblico impiego, trasporti e bancari
Dopo lo sciopero unitario di lunedì scorso, le tre confederazioni continueranno a mobilitarsi insieme contro la manovra. Già proclamati per i prossimi giorni scioperi nei trasporti, nel pubblico impiego, nel settore bancario.
di Luigina Venturelli


Dopo sei anni di iniziative separate, Cgil Cisl e Uil si sono ritrovati lunedì pomeriggio in piazza insieme per protestare contro la manovra. Tre ore di sciopero generale effettuate al termine dei turni della giornata, che, oltre al «successo pieno» di adesioni, possono vantare anche un risultato ulteriore: il rafforzamento della ritrovata unità sindacale in vista delle ulteriori mobilitazioni già in calendario o in fase di organizzazione.
LA MOBILITAZIONE UNITARIA
«Migliaia di persone e di lavoratori hanno partecipato ai presidi a Roma, davanti a Montecitorio, e in moltissime città italiane davanti alle sedi delle prefetture, quasi sempre sotto una pioggia battente» si legge nella nota congiunta diffusa dalle tre confederazioni, con l’assicurazione che «i presidi unitari continueranno per tutto il tempo della discussione parlamentare della manovra». Ma, oltre ad una costante presenza nelle piazze di tutto il Paese, i sindacati hanno già fissato nuovi scioperi di categoria, mentre a giorni i leader Susanna Camusso, Raffaele Bonnanni e Luigi Angeletti si rivedranno per decidere altre iniziative confederali. «Continueremo la nostra battaglia. Non daremo tregua fino all’ultimo giorno e anche dopo» ha affermato per tutti il segretario generale della Cisl. Lo sciopero, infatti, «è uno strumento estremo, che gestito con parsimonia diventa necessario quando l’interlocutore non ascolta e non si confronta» ha aggiunto Bonnani. «E questo governo ha rifiutato la concertazione, ha rifiutato il confronto, ha precisato che non intende discutere sul fisco, un errore. E che non intende discutere sulle pensioni, altro errore. Ha detto che può discutere con noi di licenziamenti, e abbiamo risposto che su questo punto non siamo disponibili a discutere».
GLI SCIOPERI DELLE CATEGORIE
Dunque si comincia domani con lo sciopero del trasporto ferroviario e del trasporto pubblico locale ed extraurbano, dalle 21 della sera di giovedì fino alla stessa ora del giorno successivo. Venerdì 16 sarà anche la volta dei dipendenti bancari e assicurativi (che con la manovra vedranno parzialmente annullati gli accordi sindacali stipulati entro il 31 ottobre 2011 per far accedere circa 20mila dipendenti al Fondo di Solidarietà della categoria o alla pensione), mentre per lunedì 19 è previsto lo sciopero dei dipendenti pubblici di otto ore e delle Poste italiane di tre ore.
Invece nella scuola ci sarà uno sciopero breve per tutti i docenti, i dirigenti scolastici, gli educatori ed il personale amministrativo, tecnico ed ausiliari: l’adesione potrà avvenire nell’ultima ora di lezione o di servizio in tutte le scuole di ogni ordine e grado, mentre nelle scuole in cui le attività si protraggono in orario pomeridiano, i docenti e il personale educativo potranno scioperare solo nell’ultima ora di lezione del pomeriggio.
Ed altre proteste saranno ben presto calendarizzate, visto che i margini di trattativa sulla manovra sono ristrettissimi, mentre le richieste dei sindacati restano tassative, soprattutto in tema di pensioni. «Perché si innalzi il tasso di equità della manovra, ora del tutto assente, non bastano modifiche modeste, come affermato dal ministro Fornero» ha ribadito ancora ieri Vera Lamonica, segretaria confederale della Cgil. «Le modifiche devono essere sostanziali, e devono riguardare sia l’assurdo blocco alla perequazione delle pensioni in essere a 900 euro, sia la gradualità dell’innalzamento dell’età pensionabile».

Corriere della Sera 14.12.11
L’applicazione dell’Ici in uno stato agnostico
risponde Sergio Romano


Secondo me le esenzioni Ici agli enti «non profit», di ispirazione sia religiosa che laica, sono delle risorse che ritornano triplicate allo Stato e alla società. Non sono privilegi. Le opere di beneficenza e di soccorso ai poveri, generate e gestite dalla Chiesa sono visibili a tutti, non vorrei che tassare la Chiesa significasse sottrarre risorse a loro.
Fabiano Bermudez

Il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, dichiara di essere disposto a rivedere la legge sull'applicazione dell'Ici agli immobili di proprietà ecclesiastica. Ma agli altri cittadini, persone fisiche o giuridiche, non è consentito aprire un negoziato per trattare o meno i limiti della legge. Qual è, dunque, lo stato giuridico della Cei, dal momento che è un soggetto di diritto italiano e non, come il Vaticano, di diritto internazionale?
Enrico Lehmann

Cari lettori,
Dietro molte delle altre lettere arrivate al Corriere sulla questione dell'Ici vi sono scelte di campo e schieramenti ideologici. Vi è un partito «anticlericale» per cui ogni concessione fatta alla Chiesa non può che rafforzare l'influenza di un potere invadente e reazionario. E vi è un partito «clericale» per cui ogni critica della Chiesa è iniqua e nasconde una vecchia ostilità dell'Italia atea e massonica. A me sembra che uno Stato laico e agnostico dovrebbe affrontare questi problemi diversamente.
Dovrebbe chiedersi anzitutto se le attività di una istituzione religiosa o di una qualsiasi associazione privata abbiano una rilevanza pubblica e siano utili alla comunità nazionale. Non interessano allo Stato, tanto per fare qualche esempio, l'insegnamento del catechismo negli oratori o le attività culturali di un ente che promuove incontri ecumenici fra diverse confessioni religiose. Lo Stato ha il dovere d'impedire che qualcuno cerchi di ostacolare la loro attività, ma non ha uno specifico interesse a sostenerle finanziariamente con l'elargizione di un sussidio o con esenzioni fiscali. Sono utili, invece, tutte le attività che hanno una finalità pubblica, condivisa dallo Stato, e alleggeriscono il peso dei suoi compiti. Penso all'educazione, all'assistenza sanitaria, alle opere di carità per gli indigenti, all'accoglienza e all'ospitalità di studenti che provengono da altre città.
So che un ostello della gioventù o un'opera pia, quando sono gestiti da un ordine religioso o da una congregazione, possono servire a propagare la fede. Ma uno Stato laico e agnostico non può impedire a un cittadino, se non è circuito o plagiato, di farsi indottrinare da chi più gli piace. Deve limitarsi ad accertare che l'insegnamento e l'assistenza siano «professionali». Se giunge alla conclusione che sono pubblicamente utili e professionalmente adeguati, non vedo perché lo Stato non debba diminuire il loro carico fiscale. E non sarei contrario allo sgravio neppure se l'istituzione, oltre a svolgere attività pubblicamente utili, avesse un bar, un ristorante e qualche stanza a pagamento per i pellegrini di passaggio. Se non è una società per azioni, non distribuisce i dividendi e non arricchisce i suoi gestori, devo presumere, salvo prova contraria, che si serva dei suoi ricavi per meglio svolgere la propria opera.
Questi dovrebbero essere in tempi normali e in uno Stato laico e agnostico, i criteri con cui decidere l'applicazione dell'Ici o dell'Imu. Ma questi non sono «tempi normali» ed è auspicabile che al risanamento dei conti pubblici concorrano anche coloro che potrebbero essere esentati, in altre circostanze, dall'obbligo di pagare un'imposta. Quanto alle dichiarazioni del cardinale Bagnasco, caro Lehmann, non mi sembra che il suo intervento sia stato improprio. Rappresenta i vescovi italiani, vale a dire i titolari delle diocesi che sono prevalentemente proprietarie delle istituzioni sinora esentate dall'Ici, e ha parlato, in questo caso, come il presidente di un'associazione di categoria. Perché dovremmo negargli i diritti di cui godono la Cgil e la Confindustria?

Corriere della Sera 14.12.11
In 3.300 dalle celle ai domiciliari
Pronto il piano «svuotacarceri». Risparmi per 380 mila euro al giorno
di Dino Martirano


ROMA — Venerdì, a 48 ore dalla visita del Papa Benedetto XVI a Rebibbia che domenica mattina celebrerà la messa davanti ai detenuti, arriva in consiglio dei ministri il pacchetto carceri del ministro della Giustizia Paola Severino. Il Guardasigilli sta mettendo a punto un testo a due velocità (un decreto e un ddl) per alleggerire la pressione sui 206 istituti italiani stracolmi (68.047 presenze) oltre ogni capienza regolamentare: «La situazione è esplosiva — hanno scritto al ministro i direttori delle carceri — e se deflagrasse le conseguenze sarebbero devastanti e capaci di minare la credibilità dello Stato».
Nel pacchetto Severino — contenente anche un intervento sul processo civile e sulla conciliazione obbligatoria — il decreto legge punta alle pene alternative, amplificando gli effetti del decreto «svuota carceri» varato nel dicembre del 2010 dal ministro Angelino Alfano che in un anno ha consentito a circa 4.000 detenuti di scontare il residuo pena (massimo 12 mesi) ai domiciliari. Il governo Monti riprende quella formula (si passa a 18 mesi di residuo pena da scontare a casa), stimando che ora saranno 3.300 i detenuti destinati con effetto immediato ad uscire dal carcere per passare alla «detenzione domiciliare»: il risparmio teorico sarebbe di 380 mila euro al giorno. Il nuovo «svuota carceri» rimane un provvedimento a tempo che scade il 31 dicembre del 2013 anche se il Pd, con Donatella Ferranti, insiste perché vada a regime.
Se il decreto produrrà effetti immediati — verrà forse rafforzato anche l'obbligo, non sempre rispettato dalle forze dell'ordine, di trattenere gli arrestati in camera di sicurezza fino al processo per direttissima — bisognerà aspettare tempi più lunghi per valutare l'impatto del disegno di legge che modificherà il codice penale. In particolare, i tecnici di via Arenula si stanno concentrando sulla detenzione domiciliare intesa come pena principale (al pari della reclusione e dell'ammenda) che il giudice potrà infliggere. In altre parole, il condannato in via definitiva alla detenzione domiciliare non passerà un solo giorno in carcere.
Il ministro — che lunedì ha visitato il carcere di Buoncammino dove ieri si è suicidato un detenuto algerino di 25 anni (è il secondo caso in pochi giorni a Cagliari) — è rimasta molto colpita anche dalla mini rivolta del carcere di Monteacuto (Ancona) che ha fatto accelerare i tempi. Tanto da anticipare il varo del decreto al Consiglio dei ministri di venerdì togliendo dal pacchetto, però, il «braccialetto elettronico» per il controllo a distanza dei detenuti che (11 milioni all'anno per 450 dispositivi disponibili) non convince il ministro: in realtà sono funzionanti solo 9 bracciali, 7 dei quali utilizzati dagli uffici giudiziari di Campobasso, i cui responsabili, il procuratore Armando D'Alterio e il presidente del tribunale Enzo Di Giacomo, oggi saranno ricevuti al ministero. Il problema, per il governo, è sempre quello di contemperare il rispetto della legalità in carcere e il diritto alla sicurezza riconosciuto a ogni cittadino. Lo «svuota carceri» del 2010, osservano in via Arenula, non ha prodotto evasioni e recidive perché i beneficiari sono stati selezionati secondo criteri rigidi: rimangono fissi, dunque, i paletti fissati che escludono i reati gravi e di particolare allarme sociale dalla lista. Il ministro vuole agire con prudenza e lo ha ribadito anche nel recente incontro con l'Associazione nazionale magistrati. Ma domani, in sede di approvazione della manovra alla Camera, la radicale Rita Bernardini presenterà un ordine del giorno in cui si impegna il governo «a prevedere scadenze certe entro le quali dimezzare i procedimenti penali pendenti» e a varare «un ampio provvedimento di amnistia e di indulto».

l’Unità 14.12.11
Così le primavere arabe hanno scardinato gli schemi della storia
I giovani con l’aiuto di Twitter si sono riappropriati del loro futuro Questo è stato «l’89 arabo». Che apre però a nuovi interrogativi
di Umberto De Giovannangeli


I ragazzi della «rivoluzione jasmine» tunisina hanno coniato uno slogan che racconta una storia in pieno svolgimento: «Ci siamo liberati dalla paura». Una «liberazione» di chi sa che il futuro è dalla propria parte ma che per appropriarsene occorre rompere con un presente stagnante, ibernato. Il vecchio ordine è squassato: non c’è regime arabo e/o islamico, dal Maghreb al Mashreq, dal Vicino al Medio Oriente, che non si sente sfidato da folle finalmente emancipate dalla paura, come annota Lucio Caracciolo: «Le cause strutturali del sisma appaiono oggi evidenti: popolazioni giovanissime – metà dei 350 milioni di arabi hanno meno di 25 anni – insofferenti perché deprivate del loro futuro da cricche senescenti e ultracorrotte, all’incrocio fra poteri economici, militari e familiar-tribali; ingiustizie sociali che invocano vendetta, alimentate dall’uso privato delle rendite energetiche, d’intesa con le companies e i governi occidentali o asiatici (Cina in testa) di riferimento; disoccupazione endemica, mentre i prezzi dei beni essenziali galoppano; stolido arroccamento dei regimi, fino all’ultimo battezzati “moderati” da americani, israeliani ed europei solo perché smodatamente disponibili a farsi imporre checchessia dalle peraltro squattrinate potenze occidentali; voglia di libertà e di protagonismo, enfatizzata dalle nuove tecnologie di comunicazione di massa – Facebook, Twitter e l’intero universo di Internet e dei suoi derivati – e da alcune tv satellitari arabe, Al Jazira e Al Arabiya su tutte».
Ma queste cause strutturali non nascono quel 18 dicembre 2010 a Sidi Bouzid. Affondano le loro radici in un passato che si intendeva perpetuare. Lo «spiazzamento» non è accidentale. La spiegazione offerta dal direttore di Limes è convincente quanto amaramente spietata: «Burocrazie ed élite politiche sono sconfitte nella cultura della conservazione. Riflesso dell’istinto di autoconservazione. La loro visuale geopolitica è antigeopolitica: statica. Si riduce alla riproduzione in eterno dei rapporti di forza vigenti. Dai loro osservatori si vede solo la pietrificazione universale...».
Una pietrificazione spazzata via dal «Grande tsunami» arabo. Vecchie categorie concettuali al servizio di politiche di sostegno a Raìs in crisi. Una crisi irreversibile. E non solo in Tunisia e in Egitto. Rimarca in proposito Oliver Roy: «Le rivolte popolari in Nord Africa e in Medio Oriente sono state interpretate dagli europei attraverso uno schema vecchio di trent’anni: la rivoluzione islamica in Iran. Ci si aspetta che i gruppi islamisti assumano il controllo delle proteste o stiano lì a tramare nell’ombra, pronti a conquistare il potere. La discrezione e il pragmatismo dei Fratelli musulmani egiziani, però, stupisce e preoccupa: che fine hanno fatto gli islamisti? Osservando meglio i manifestanti, è evidente che abbiamo a che fare con una generazione postislamista. Per le persone coinvolte nelle proteste i grandi movimenti rivoluzionari degli anni Settanta e Ottanta appartengono a un’altra storia, quella dei loro genitori. La nuova generazione non è interessata all’ideologia: scandisce slogan pragmatici e concreti (erhal, via subito) ed evita richiami all’Islam, come succedeva invece in Algeria alla fine degli anni Ottanta. Rifiuta la dittatura e chiede a gran voce la democrazia».
Una «voce» che non ha confini nazionali. Che travalica appartenenze etniche e religiose. A ben vedere e, soprattutto, a ben ascoltare quelle voci, si coglie la valenza «epocale» degli eventi in corso. Una valenza che prescinde dall’esito stesso delle rivoluzioni in divenire. Perché per la prima volta, in modalità così possenti, il mondo globalizzato non è tale solo per le logiche, e gli interessi, del mercato. L’«89 Arabo» è anche il portato di un mondo non più sommerso o silente che s’impadronisce della scena per rivendicare un’altra globalizzazione: la Globalizzazione dei diritti.
Una rivendicazione che ridefinisce il senso stesso di appartenenza, non più fondato sull’elemento religioso o sull’individuazione del «Nemico» da abbattere, ma calibrato su valori e principi che si percepiscono, e si vivono, come universali. È la forza della «rivoluzione jasmine» tunisina come dello spirito che ha animato Piazza Tahrir, la «piazza della liberazione», divenuta il simbolo della rivoluzione egiziana. Ciò che colpisce gli analisti più attenti è anche la dimensione nazionale delle rivolte. Dalle piazze tunisine a quelle egiziane, come nello Yemen o in Siria, e in tempi di un passato non lontano nella Piazza dei Martiri a Beirut, il cuore della «Primavera» libanese, le bandiere che vengono issate non sono né verdi né rosse, ma nella quasi totalità sono bandiere nazionali. Il significato simbolico è pari a quello politico: i popoli si stanno riappropriando della loro storia in ambito nazionale. Non si tratta di dare una lettura tutta in chiaro dell’«89 Arabo»: analizzando le singole rivoluzioni emergeranno contraddizioni e parzialità che pesano sulla confusa fase di transizione avviatasi in Tunisia e in Egitto, come sullo scenario della guerra civile in Libia. E d’altro canto, le tensioni in Egitto tra esercito e i «ribelli» di Piazza Tahrir come l’eccessivo “continuismo” con il passato regime nella Tunisia del post-Ben Ali, testimoniano le difficoltà della transizione tra «vecchio» e «nuovo» nel Vicino Oriente. Tuttavia, nel guardare a quei giorni che hanno cambiato, e stanno cambiando in corso d’opera, il mondo arabo, gli elementi innovativi ci appaiono più significanti dei limiti.
Ciò vale in primo luogo nell’immagine di sé che quel mondo proietta su scala internazionale. Per la prima volta, le opinioni pubbliche occidentali, in Europa come negli Usa, hanno di quel mondo una immagine improntata alla speranza piuttosto che alimentatrice di paura. Quelle rivoluzioni post-islamiste assestano un colpo mortale alla teoria dello «Scontro di civiltà» di Samuel Huntington; quella teoria che in epoca recente è stata messa in pratica, con esiti disastrosi in Medio Oriente, dai neocon americani che tanta presa, e presenza, hanno avuto nei due mandati presidenziali di George W.Bush. Nelle piazze tunisine come in quelle egiziane, e lo stesso vale per i moti in Siria e nello Yemen, non vengono bruciate bandiere a stelle e strisce o quelle con la stella di David; il collante politico-ideologico non è dato dall’anti-americanismo o dall’anti-sionismo...
Quelle rivoluzioni non sono «anti», sono «per». Per la democrazia, per la libertà di espressione, per la giustizia sociale, per lo sradicamento della corruzione, per una idea di Islam che separi nettamente Stato e Moschea.
Sarà molto difficile che quei «per» si realizzano tutti e compiutamente. In questo occorre esercitare il pessimismo della ragione. Ma non vi è dubbio che quello delle libertà è l’orizzonte a cui tende l’«89 Arabo». Un orizzonte che assume i Diritti dell’uomo, le libertà politiche e di espressione, come valori universali ma non identifica quei diritti, quei principi con un modello, con stili di vita «occidentali». Quella tra valori e modelli non è una distinzione formale, semantica. È una distinzione sostanziale per un approccio, culturale e politico, da parte dell’Occidente, delle sue leadership come delle opinioni pubbliche, all’«89 Arabo» che non sia marchiato da un retro pensiero neocoloniale: l’«89 Arabo» come la vittoria dell’Occidente sull’Islam arabo.

il Fatto 14.12.11
Un Paese diviso
I coloni israeliani all’assalto dell’esercito
di Roberta Zunini


Entrare in una base militare israeliana, soprattutto in Cisgiordania, è pressoché impossibile per i civili. Eppure l’altra notte una cinquantina di coloni ebrei ci sono riusciti. Come lo investigherà l’alta Corte. Perché i coloni non sono entrati pacificamente: hanno fatto irruzione nella base di Epraim per danneggiare le strutture. Hanno quindi compiuto reati contro il loro stesso Stato, Israele e anche contro alcuni soldati. “È gravissimo, è la prima volta, è stata superata la linea rossa” ha detto con toni gravi il generale Avi Mizrahi, al quotidiano Yedioth Ahronoth. Non era mai successo che i coloni arrivassero a tanto. “Si tratta di terrorismo contro lo Stato israeliano”, ha tuonato il ministro della Difesa Ehud Barak. A preoccupare persino il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha subito indetto una riunione d’emergenza, non è stata tanto l’azione vandalica nella base quanto l’attacco a una squadra di soldati, avvenuto poche ore dopo in un’altra zona della Cisgiordania. Nei pressi dell’avamposto di Ramat Gilad, centinaia di coloni hanno sbarrato una delle strade principali e hanno iniziato a tirare grossi sassi contro le jeep militari che passavano. Questa seconda azione dunque non si è limitata all’incendio di gomme, al lancio di molotov e sprangate alle attrezzature militari, ma ha avuto come obiettivo i soldati stessi dell’Israeli Defence Force. Al punto che un gruppo di coloni è riuscito a bloccare un mezzo militare e, dopo aver aperto la portiera, a ferire con un sasso un soldato. Per una volta lo scopo delle quotidiane violenze dei coloni non è stato il ferimento dei palestinesi bensì dei membri dell’esercito che li difende. “Siamo arrabbiati perché il governo ha deciso di distruggere gli avamposti (colonie allo stadio iniziale, quando ancora le abitazioni sono costituite da container, ndr), privandoci della terra che ci appartiene e che non siamo e non saremo disposti a lasciare”, dice al Fatto Yisrael Danzinger, il direttore dell’associazione di coloni oltranzisti “Mishmeret Yesha”.
QUANDO L’AVEVAMO incontrato la settimana scorsa presso la società di self-defence Caliber3, nei pressi di Hebron – dove tanti turisti ebrei mentre si trovano a far visita ai loro parenti nelle colonie, ne approfittano per iscriversi al training base di tiro con mitragliatori d’assalto – ci aveva spiegato che il governo Netanyahu sta tradendo il suo elettorato e non difende le colonie come aveva promesso all’inizio del suo mandato. “Se i nostri soldati verranno a distruggere le nostre case noi reagiremo, ci difenderemo”. In realtà quelli di ieri sono stati attacchi preventivi.
Quando i nostri soldati, due mesi fa, fecero irruzione nel cuore della notte nel nostro avamposto (Migron, a circa 10 chilometri da Ramallah, ndr), ci dissero che se non ce ne fossimo andati, sarebbero tornati entro marzo a completare il lavoro”, dice Ariela, una giovane colona che un anno fa si è trasferita dagli Usa con i suoi 6 figli e il marito in questa specie di accampamento di prefabbricati, recintato con filo spinato, cancellate e bandiere con la stella di David, sorvegliato 24 ore al giorno da guardie private, pagate dai coloni. “Noi non ce ne andremo mai perché questa è la terra che Dio ci ha promesso attraverso la Bibbia”. Ma anche il generale Mizrahi dice che loro non se ne andranno: “Se il governo ordinerà di smantellare gli avamposti, i miei soldati lo faranno. Punto. Non ci sono discussioni”. Coloni ebrei contro i soldati ebrei che finora li hanno difesi. È successo quello che molti intellettuali, tra cui David Grossman, hanno sempre temuto. E non è che l’inizio.

Repubblica 14.12.11
Nella città fabbrica del Natale low cost
di Giampaolo Visetti


YIWU (CINA) Esiste un luogo dove agli europei stendono ancora il tappeto rosso. Si chiama Yiwu, sorge nello Zhejiang e ha una specialità: Natale. Qui venerano gli occidentali per due ragioni: perché sono in crisi e perché hanno inventato Babbo Natale. C´è un terzo motivo che ci rende i più amati dai due milioni di abitanti-operai dell´ex villaggio contadino diventato in dieci anni la seconda città più ricca della Cina: più siamo in crisi e più loro guadagnano. «Potete rinunciare a tutto - dice Lou Aiju, diventato miliardario in quattro anni esportando in tutto il mondo corna di renna in plastica - ma non alle festività di fine anno. E meno soldi avete da spendere, più venite a cercare noi, i campioni del Natale low cost».
Lo avevano intuito durante la crisi del 2008 e ci hanno puntato tutto: creare la più grande industria natalizia del pianeta, trasformarsi in una metropoli-fabbrica fondata sul Natale e assicurarsi l´esclusiva globale delle feste "made in China", da Santa Lucia alla Befana passando ovviamente attraverso quell´affare colossale noto come San Silvestro. Il risultato è impressionante. Yiwu conta 600 aziende che producono 16mila articoli diversi legati alle atmosfere natalizie, può consegnare qualsiasi merce, ovunque ed entro una settimana, garantisce prezzi più bassi dei concorrenti da 50 a 200 volte e ha appena inaugurato un centro espositivo permanente da 5 milioni di metri quadri. Per convincere Santa Claus a lasciare la Lapponia e a emigrare sul delta dello Yangtze, il governo ha investito dieci miliardi di euro. Un´idea d´oro: da Yiwu quest´anno sono partiti il 92% dei regali che il pianeta sta per scambiarsi, il 97% di ciò che si appende per addobbare un abete, il 98% degli alberi sintetici e il 93% delle decorazioni da vetrina che contribuiscono a far bruciare la tredicesima nello shopping.
Una volta, quando in Occidente si era dei signori, la bottega unica del Natale era a Canton: roba di lusso, presepi in vero legno, palle colorate di cristallo e Babbi Natale capaci di cantare fino a venti classici. «Tre anni fa - dice Pan Yonggen, magnate dei festoni in finta neve - abbiamo visto che il mondo non aveva più abbastanza soldi per pagare il Natale che pretende. Ci siamo trasferiti qui e abbiamo iniziato a riprodurre tutto ciò che Europa e Usa acquistano tra novembre e gennaio a costi fino a mille volte inferiori». Parlano le cifre della dogana: le esportazioni, rispetto all´anno scorso, sono aumentate del 68% in volume e dell´82% in valore». Giro d´affari ufficiale? Cinquanta miliardi di euro all´anno. A Canton oggi si riforniscono cinesi, indiani e arabi, che nel frattempo sono diventati gli zii d´America della contemporaneità. Europa e Usa hanno ripiegato sul Natale made in Yiwu e nessuno fa il difficile se imprenditori e grossisti ricevono in pigiama, dentro capannoni gelidi e squallidi, continuando a succhiare tagliolini disidratati mentre reinvestono alla Borsa di Shanghai l´anticipo non ancora incassato. Sputano e non smettono di sgridare i figli che si rincorrono tra gli scatoloni, ma come creatori della sezione consumo del rito natalizio, sono i migliori.
Yiwu è l´unico epicentro industriale del mondo dove oggi manca manodopera, gli operai sono pagati il doppio che nel Guangdong e quest´anno gli affari sono andati talmente alla grande che godono di privilegi da malore: due mesi di ferie, Capodanno cinese a casa e rientro ai primi di febbraio, in tempo per dare il via alla produzione del Natale 2012. «Sarà un trionfo - dice Chen Jinlin, segretario generale dall´associazione degli industriali di prodotti natalizi - : gli europei saranno ancora più poveri e i cinesi ancora più ricchi e noi saremo i fornitori unici delle festività di entrambi». Offrire candele alla cannella da due centesimi, ovviamente non basta. Il segreto a Yiwu è innovare, creare il bisogno di una coreografia natalizia sempre nuova e stravolgere l´offerta dei Mercatini dell´Avvento senza che nessuno se ne accorga. Pantofole, tisane, agrifogli, guanti, giocattoli, addobbi, campanelle e pacchi-regalo finti: tutto sempre più hi-tech e sempre più simil-tradizionale, in uno stile adatto sia a Berlino che a Hong Kong. Babbo Natale vestito da mercante Ming, angioletti con gli occhi a mandorla e abete decorabile sia con i regali che con le gabbie per uccelli: consumi universali da ricchi a prezzi da poveri, scontando a uno ciò che prima di Monti costava cento, per venderne così mille volte di più. Nell´ultimo luogo del mondo dove agli occidentali stendono ancora il tappeto rosso si annuncia il Natale migliore della storia: la nave affonda, ma il brindisi non si nega a nessuno e non è detto che anche quello, decorosamente low cost, sia made in China.

il Fatto 14.12.11
“Il diritto di morire non esiste”
intervista a Gustavo Zagrebelsky di Silvia Truzzi


Con questa intervista al costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e l’intervento di Maurizio Mori (al quale risponderà domani Marco Travaglio) proseguiamo il dibattito iniziato il 2 dicembre dopo la morte di Lucio Magri

Il diritto può essere “una corruzione del comune sentire o uno strumento attraverso cui scrutare un orizzonte più profondo”. Comincia così la conversazione con Gustavo Zagrebelsky, autore di un libro che non a caso s’intitola “Il diritto mi-te” (Einaudi, 1992). Parliamo della decisione di Lucio Magri (scomparso in una clinica svizzera dove l’hanno aiutato a togliersi la vita) e in generale della scelta di morire.
Con una premessa: “Quello che sto per dire è in una prospettiva laica. Vorrei usare argomenti non dico condivisibili, ma almeno comprensibili per chiunque. Se si parte da una prospettiva religiosa, si escludono a priori tutti coloro che non l’accettano”.
Il discorso sul darsi la morte è molto sdrucciolevole, non trova?
Su queste questioni ultime, si è sempre penultimi. Sono discorsi ‘allo stato’ delle proprie attuali riflessioni. Guai alla sicumera. Nelle questioni di questo genere, la problematicità è un dovere.
Cos’è il suicidio?
La tragedia più grande. Stiamo toccando, dal punto di vista morale e cognitivo, un tema sconvolgente. Ma è un tema composito. È difficile trattarne in generale, tanto più volendo stabilire una norma che valga sempre e per tutti.
Ci sono molti suicidi?
Sì. Il suicidio può dipendere da molte ragioni. Non si può non tenerne conto.
Esempi?
Il suicidio per solitudine, delusione, angoscia, vergogna, rimorso. Tutte queste sono ragioni morali che possono crescere al punto d’essere decisive, anche se all’origine sono minime, come il classico ‘brutto voto’. Le si può riassumere in una frase dell’etica kantiana: ‘Se sulla terra non c’è speranza di giustizia, non c’è posto per gli uomini’. Quando una persona, nutrita d’ideali, vede che tutto è inutile, perde la speranza. Nella nostra società, ci si toglie la vita per aver perso il lavoro. Nelle carceri ci si suicida per disperazione; nei campi di sterminio, ci si appendeva alle reti ad alta tensione; nelle carceri degli aguzzini, ci si impiccava per timore di non resistere alle torture e di tradire i compagni; nelle foreste del Mato Grosso, i nativi si uccidevano gettandosi nelle cascate, davanti all’invasione portoghese. Il suicidio può essere un atto dimostrativo, di accusa. Ricorda Jan Palach? C’è anche il suicidio filosofico, quello degli stoici, quando ci si trova in una situazione eticamente senza sbocco.
Ce lo spiega meglio?
Ho in mente il gioco immensamente crudele degli aguzzini nei campi nazisti. Si aprivano i vagoni e usciva una mamma con due bambini per mano: ‘Scegline uno’. Qual è la via d’uscita? Non certo la scelta. C’è solo il suicidio.
Ne “I Demoni” di Dostoesvkij, Kirillov si suicida per dimostrare che Dio non esiste.
Compie un atto di estrema libertà. Chi è Dio? Colui che dà e toglie la vita. Kirillov dice: mi tolgo la vita e prendo il posto di Dio. Ma ci sono anche suicidi inspiegabili, come quello di Primo Levi e tanti altri scampati ai lager, che si sono uccisi a distanza di tanti anni. Perché? Una delle spiegazioni è l’avere visto l’orrore dell’essere umano che ti toglie ogni speranza nell’umanità. Ma è inutile cercar di spiegare tutto. Il suicidio appartiene spesso alla sfera dell’insondabile.
Come si comporta il nostro diritto penale di fronte alla volontà di morire?
In modo apparentemente ambiguo. Non punisce il suicidio. Lo considera un mero fatto. Se fosse un delitto, si punirebbe il tentativo. Cosa che non è.
Ci manca che uno prova a uccidersi, non ci riesce e pure lo mettono in galera.
Vero. Ma quello che importa è che non c’è sanzione se tu cerchi di ucciderti da solo. In questi confini estremi dell’esistenza individuale il diritto non può far nulla, ed è bene che taccia. Lasciando che ciascuno gestisca i suoi drammi ultimi da solo.
Però ci sono gli articoli 579 e 580 che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio.
Questi, infatti, sono delitti.
Non c’è contraddizione? In un caso, il diritto tace, in altri punisce. Eppure sempre con suicidi si ha a che fare. Come si spiega?
In un modo molto semplice. Se tu ti uccidi da solo questo è considerato un fatto, un mero fatto – che resta entro la tua personale sfera giuridica. Ma se entra in gioco qualcun altro, diventa un fatto sociale. Anche solo se sono due: chi chiede di morire e chi l’aiuta. E ancor più se c’è un’organizzazione, pubblica o privata che sia, come in Svizzera o in Olanda. La distinzione ha una ragione morale.
Quale?
Se la gran parte dei casi di suicidio deriva da ingiustizie, depressione o solitudine il suicidio come fatto sociale ci pone una domanda. Può la società dire: va bene, togliti di mezzo, e io pure ti aiuto a farlo? Non è troppo facile? Il suo dovere non è il contrario: dare speranza a tutti? Il primo diritto di ogni persona è di poter vivere una vita sensata, e a ciò corrisponde il dovere della società di crearne le condizioni.
Vale anche per chi soffre sapendo di dover morire?
Certamente. Una cosa è il suicidio come fatto individuale; un’altra, il suicidio socialmente organizzato. La società, con le sue strutture, ha il dovere di curare, se è possibile; di alleviare almeno, se non è possibile. In ogni caso, non confondiamo il nostro tema con quello del rifiuto di trattamenti medicali, anche se ciò può portare alla morte. Posso voler non essere curato, o curato in un certo modo, anche se ciò comporta la morte: ma questo non è voler morire. Il rifiuto delle cure è un diritto e, come tale, deve essere rispettato. Ma ripeto, è un problema diverso.
Non c’è un “diritto di morire”?
C’è la morte che ci si dà, come dato di fatto. Ma l’espressione che ha usato contiene una contraddizione. Parliamo di diritti o libertà come espansione delle possibilità. Si può parlare di diritto al nulla, o di libertà di nulla? A me pare una mostruosità.
O il massimo della libertà.
D’accordo: come per Kirillov. Ma andiamo a leggere I Demoni e comprendiamo, oltre la genialità di Dostoevskij, il gelo di quel personaggio.

il Fatto 14.12.11
Le ragioni della volontà
di Maurizio Mori*


Marco Travaglio ha commentato (Il Fatto, 2 dicembre) il suicidio assistito di Lucio Magri a partire dai “soli punti di vista che ci accomunano tutti” (logico, giuridico, deontologico e pratico) per concludere che saremmo “tutti matti” (cioè fuori dalla realtà) se accettassimo tale pratica. Posso capire il suo personale sconcerto emotivo, ma perché la conclusione valga per tutti il ragionamento proposto deve essere corretto. Per Travaglio “dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al ‘suicidio assistito’ afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita... ma proprio per questo chi vuole sopprimere la ‘sua’ vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé” e non chiedere aiuto. Ma Travaglio direbbe anche che chi è padrone dei suoi soldi dovrebbe tenerli sempre con sé, perché se li mette in banca non sono più suoi? O che il cittadino non deve mai cedere la sovranità politica, perché se delega un rappresentante la perde? La dilagante corruzione politica e finanziaria può anche supportare la tesi di Travaglio, ma dal punto di vista logico l’inferenza non vale. Non considero il richiamo all’art. 575 c. p. perché, dal punto di vista giuridico, il problema non è la presenza del divieto, ma sapere se esso sia giusto.
Ed è banale dire che lo è perché se si ammette “una qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce”. Dal punto di vista deontologico a Travaglio basta il giuramento d’Ippocrate che, però, è più una sorta di vecchio totem cui molti ancora si inchinano per noblesse oblige, che un punto davvero unificante. Lo stesso Travaglio dà una precisa indicazione per rifiutarlo quando osserva che “non si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente” perché il Giuramento impone il “dovere professionale di salvarla sempre e dovunque”. Se così fosse, allora andrebbero radiati dalla professione medici come Mario Riccio e Amato De Monte o infermieri come Cinzia Gori che non hanno salvato “sempre e dovunque”. Se Travaglio conviene che quelli citati (e altri come loro) sono invece bravi operatori sanitari, allora in certe circostanze è lecito (o anche doveroso) spegnere la macchina o sospendere la terapia e lasciare morire. Ma se è lecito lasciar morire per evitare che il paziente soffra, perché, per lo stesso scopo e a parità di condizioni, non dovrebbe essere lecito anche l’intervento che aiuta a morire? Per Travaglio, dal punto di vista pratico, ci sarebbero “infiniti impedimenti” contro il suicidio assistito. Ma questi sono gli stessi che già ora si presentano per la sospensione delle terapie: anche per queste si può dire che un parente avido potrebbe richiederle per ereditare prima; o che non vanno mai sospese perché “quasi nessuna patologia, grazie ai progressi... è di per sé irreversibile”. Eppure, come siamo riusciti a regolare l’assistenza alla sospensione delle terapie, così si può pensare di regolare anche l’assistenza al suicidio. La vera ragione che porta Travaglio a essere contro la morte volontaria è che per lui “il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della ‘libertà’ di un Paese”. Ma questa tesi valutativa vale sempre e per tutti? Non può darsi che per alcuni si dia un’infelicità strutturale e ineliminabile a prescindere da malattia, solitudine, difficoltà economiche o di altro tipo? Bisogna lasciare che costoro pongano fine da soli alla propria infelicità intrinseca? La moralità non ci chiede di ascoltare anche la loro richiesta e di prestare loro aiuto?
Se l’infelicità che muove al suicidio dipendesse solo e sempre da difficoltà contingenti, non sarebbe più facilmente rimovibile prevedendo assistenza? Per esempio, nel 2008 in Italia sono stati (ufficialmente) accertati 3459 suicidi: è proprio sicuro Travaglio che sia giusto lasciare che facciano tutto da soli? Che si buttino dalle torri o sotto i treni choccando o anche mettendo in pericolo altri? Sono tutti sempre e solo dei “matti” o dei “depressi”? L’infelicità psicologica non è altrettanto seria di quella organica e meritevole di altrettanto rispetto? Non è forse solo un tabù religioso quello che ci porta a precludere l’aiuto a morire? Non posso rispondere qui a queste domande, ma sono pronto a farlo. Una parola ancora vorrei dire sulla morte volontaria di Lucio Magri, che non ho conosciuto: non diciamo che la sua scelta è dipesa dal fallimento politico unita alla depressione. Sarebbe killeraggio vero e proprio, togliendogli la possibilità di un ultimo messaggio. Diciamo invece che, forse, è stato uomo all’avanguardia e che, almeno in questo, ci ha indicato la via.
   *Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, professore di Bioetica, Università di Torino

La Stampa 14.12.11
Viviamo di più, ma siamo più tristi
La relazione sulla salute degli italiani: in aumento ansia, malattie croniche e ricoveri inutili
di Paolo Russo


Viviamo di più, ma viviamo peggio. Perché sono tanti gli anni di «disabilità» che ci attendono: 16 per gli uomini e 22 per le donne. Un dato su cui riflettere quando si parla di aumento dell’età pensionabile. Crescono le persone che vivono con patologie croniche. Mutamenti che richiederebbero meno ospedale e più assistenza domiciliare, che invece ancora latita.
È un Paese che invecchia ma è tutto sommato in buona salute quello fotografato dalla Relazione sullo stato sanitario del Paese 2009-2011 presentata ieri dal ministro della salute, Renato Balduzzi. Siamo il terzo Paese più longevo d’Europa e dal 1980 abbiamo ridotto del 60% la mortalità per malattie cardiocircolatorie mentre il cancro fa meno paura, con decessi in calo del 20% dagli anni ‘90. Però siamo ancora troppo pigri e amanti delle sigarette che mietono tra le 70 e le 83 mila vittime l’anno. E poi c’è quel malessere dell’animo, segnalato dal boom del consumo di antidepressivi, raddoppiato in dieci anni secondo il Osmed dell’Agenzia italiana del farmaco.
I record di longevità (76 anni per gli uomini, 84 per le donne) fanno dell’Italia un Paese sempre più vecchio, con un quinto della popolazione «over 65». E nel nostro Paese il suicidio è una delle più frequenti cause di morte, la quarta, tra i ragazzi tra i 15 e i 24 anni.
Secondo l’associazione dei medici internisti (Fadoi), sono 12 milioni gli italiani che convivono con più di una malattia cronica. «Ciò significa dover mettere in pratica una medicina cucita sul paziente, tenendo conto - spiega il presidente Carlo Nizzoli - di una varietà di aspetti, come i problemi abitativi, la solitudine e l’assistenza al paziente quando torna a casa». Bisogni complessi, ai quali dovrebbe dare risposta l’assistenza domiciliare integrata. Ossia portare in casa del paziente medico e infermiere, ma anche l’assistente che si occupi della spesa: cose che in Italia conosce solo il 4,1% degli anziani.
Ogni anno, dice il rapporto, sono ben 51 mila le «morti evitabili» dovute soprattutto alla scarsa prevenzione primaria, che è anche la causa principale dei 940 mila ricoveri prevenibili. Un fenomeno alimentato soprattutto dagli infortuni sul lavoro che abbondano anche tra le mura domestiche: tre milioni gli incidenti rilevati, vittime nel 70% dei casi le donne. Che in casa devono guardarsi anche dalla violenza fisica o sessuale di mariti e compagni subita da quasi sette milioni di loro. Fatto che purtroppo non risparmia nemmeno i minori.

Corriere della Sera 14.12.11
Raddoppiato in dieci anni il consumo di antidepressivi
di Margherita De Bac


ROMA — Siamo tra i Paesi più longevi (vita media 79 anni per gli uomini, 84 per le donne) e popolati da persone anziane. Ma ci caratterizziamo anche per un'altra realtà. Grandi consumatori di antidepressivi e utilizzatori dei servizi per la salute mentale. La relazione sullo stato di salute dell'Italia commentato ieri dal ministro Renato Balduzzi fotografa una situazione di sofferenza psichica. Vengono riportati i dati dell'Osservatorio nazionale Osmed: il consumo di psicofarmaci dal 2000 ad oggi, ha avuto un incremento medio annuo del 15,6% (l'ultima indagine presentata all'Istituto Superiore di Sanità indicherebbe una lieve flessione) con progressivo aumento di dosi giornaliere ogni 1.000 abitanti. Dalle 16 del 2001 siamo arrivati a oltre 34 nel 2009.
Secondo uno dei maggiori studiosi della mente, Giovanbattista Cassano, il fenomeno va guardato anche in chiave positiva: «Le tecniche di diagnosi sono migliorate, oggi si colgono sul nascere patologie sfumate che un tempo sfuggivano. Non solo. Questi farmaci ora hanno indicazioni più allargate che includono bulimia, disturbo ossessivo compulsivo, panico. E i medici prescrittori non sono soltanto gli specialisti». Sul fronte dei disturbi psichici in generale un dato allarmante riguarda il tasso di ricoveri ripetuti, cioè di pazienti che una volta dimessi tornano, non guariti. Questo triste pendolarismo interessa circa 41 mila italiani e denota un fenomeno più sensibile che in altri paesi europei. Alla Salute mentale il ministro pare voler dedicare attenzione. In audizione in Parlamento ha annunciato di voler intervenire col ministro della Giustizia Severino per un progetto di «dimissione degli internati negli ospedali giudiziari. Puntiamo al superamento parziale dell'attuale sistema grazie a un accordo con le Regioni». Una sfida, questa, particolarmente cara al senatore Pd Ignazio Marino che nei giorni scorsi ha mostrato a Severino e Balduzzi delle riprese agghiaccianti.
Altri spunti della relazione. La popolazione italiana ha sfondato la soglia dei 60 milioni. Due italiani su dieci sono sopra i 65 anni e questa tendenza sarà sempre più marcata. Il problema è la disabilità. La percentuale degli anziani che sopravvivono con la disabilità non eguaglia la media europea.

Corriere della Sera 14.12.11
Calvino bruciò l’eretico che negava la Trinità
Michele Serveto, odiato da cattolici e protestanti
di Paolo Mieli


L' Inquisizione è da molti anni al centro dell'interesse degli storici. Tra i lavori di un certo rilievo a essa dedicati troviamo la Storia dell'Inquisizione di Carlo Havas (Odoya) e La logica dei roghi di Nathan Wachtel (Utet). Ma, all'interno del grande tema dell'Inquisizione, una vicenda che merita un'attenzione a sé è quella di Michele Serveto, l'uomo mandato a morte da una strana alleanza tra la Chiesa di Roma e quella della Riforma. Serveto nasce nel 1511 a Villanueva in Spagna, un piccolo villaggio a novanta chilometri da Saragozza, da una famiglia di nobiltà minore del Nord dell'Aragona. Figlio di un notaio e fratello di un sacerdote, a 14 anni Serveto è al servizio di Juan de Quintana, un francescano minorita, dottore all'Università di Parigi (Quintana è anche un eminente membro alle Cortes di Aragona, interessato alla figura di Erasmo da Rotterdam e, almeno in un primo momento, non ostile a Martin Lutero). Serveto compie i suoi studi all'Università di Tolosa. Viaggia al seguito di Quintana e nel 1530 assiste a Bologna all'incoronazione di Carlo V (di cui Quintana era divenuto, da poco, confessore) da parte del papa Clemente VII. Incoronazione che siglò la pace tra Impero e Chiesa, mettendo fine alle guerre d'Italia.
Nel 1531 Serveto dà alle stampe De Trinitatis Erroribus, nel quale contesta la dottrina della Trinità formulata 12 secoli prima per debellare l'eresia di Ario, al Concilio di Nicea (325). L'anno successivo, nel 1532, l'Inquisizione di Saragozza istituisce un primo processo contro Serveto e a Tolosa verrà emesso un decreto per il suo arresto. Ma lui riuscirà a sottrarsi; nel 1537 studierà medicina all'Università di Parigi applicandosi con profitto al tema della circolazione del sangue (alla fine del XIX secolo, Robert Willis, medico scozzese, scrisse che gli studi di Serveto in questo campo erano da considerarsi «eccellenti»). «Non per niente», ha osservato Adriano Prosperi, autore di un libro indispensabile per comprendere a fondo questa vicenda, Tribunali della coscienza (Einaudi), e curatore dell'altrettanto indispensabile opera in quattro volumi Dizionario storico dell'Inquisizione (Edizioni della Normale Superiore di Pisa), «Serveto fu attirato dallo studio della circolazione sanguigna; il sangue nella Spagna del suo tempo era concepito come il veicolo dell'impurità dei marrani e il sigillo della nobiltà dei cristiani in quanto nutriti del corpo stesso di Cristo… Non c'è separazione in lui tra ricerche mediche e discussioni teologiche: parlando del sangue e del processo di respirazione e inspirazione, Serveto parlava nello stesso tempo il linguaggio della fisiologia e quello della religione». Ma la condanna Serveto l'aveva ricevuta per la rilevazione degli «errori della Trinità». Criticare la dottrina della Trinità, osserva ancora Prosperi, «significava mettere al centro del dibattito teologico della Riforma quell'eresia di Ario che era stata all'origine della più antica e grave lacerazione interna della Chiesa cristiana; significava soprattutto riaccendere il dissidio che da secoli opponeva ebrei e musulmani da un lato e cristiani dall'altro». C'era stata fino ad allora una sola proposta altrettanto radicale, «quella di chi, prendendo alla lettera la tesi luterana della giustificazione per la sola fede, aveva negato valore al battesimo degli infanti: li chiamarono "anabattisti" o "catabattisti" e li punirono con la morte».
Pratica, Serveto, dal 1542, la professione di medico a Vienne. Qui a Vienne, nel 1553 è arrestato, processato e condannato. Riesce a fuggire, ma viene arrestato nuovamente a Ginevra, la città di Calvino. Dove viene processato ancora una volta, condannato a morte e, nel giro di pochissimo tempo, mandato al rogo. Proprio così: un martire della libertà di pensiero bruciato vivo non già da cattolici oscurantisti obbedienti alla Chiesa di Roma, ma dal principe dei riformatori, Giovanni Calvino.
Lo scontro tra Serveto e Calvino fu particolarmente aspro. Serveto fu accusato di essersi espresso in modo scurrile. Rispose che espressioni violente erano state usate anche nei suoi confronti e aggiunse: «È piuttosto comune ai giorni nostri, durante una disputa, che ognuno difenda la propria posizione considerando che la parte avversa sia già sulla strada della dannazione». Calvino gli rinfacciò «l'abitudine di citare sfacciatamente autorità alle quali non aveva mai guardato con attenzione». «Quel genio di Serveto», scrisse il grande riformatore, «così orgoglioso delle sue competenze linguistiche, sapeva leggere il greco quanto un ragazzino che ha appena imparato l'alfabeto». Il che, per inciso, non era affatto vero. Nel processo si discusse di tutto, compresa un'ernia per la quale Serveto era stato operato all'età di cinque anni con qualche conseguenza sulla sua successiva vita sessuale. E quando Serveto aveva sostenuto la tesi che i bambini non potevano compiere peccato mortale, Calvino si era augurato «che i pulcini, così teneri e innocenti come li dipinge, gli estirpassero gli occhi centomila volte».
Nella disputa parve che Serveto avesse la meglio, tant'è che il Consiglio decise di sospendere il processo e di inviare la documentazione alle altre città svizzere perché dicessero la loro. A questo punto così Serveto si rivolse ai giudici ginevrini: «Vi supplico umilmente che poniate fine a queste lungaggini e mi liberiate dall'accusa. Voi vedete bene che Calvino è alle strette, non sapendo cosa dire, e per il suo solo piacere desidera che io marcisca in prigione. I pidocchi mi mangiano vivo. I miei abiti sono laceri e non ho di che cambiarmi, non una giubba o una camicia». La risposta fu che il Consiglio deliberò solo di fornire all'imputato alcuni abiti. A sue spese, per giunta. Passarono alcuni giorni e l'accusato tornò alla carica: «Onorati signori, oggi sono tre settimane da quando ho chiesto udienza e non sono riuscito a ottenerla. Vi supplico per amore di Gesù Cristo di non rifiutarmi quello che non rifiutereste a un turco che cercasse giustizia nelle vostre mani… Per quanto riguarda l'ordine che avete impartito per provvedere alla mia pulizia, niente è stato fatto e io sto anche peggio di prima; il freddo mi affligge molto, a causa delle coliche e dell'ernia, procurandomi altri malanni che mi vergogno persino a descrivere». Il responso delle città svizzere fu negativo per Serveto, ma non omogeneo. Tant'è che la sentenza finale lo colpì solo per due capi di imputazione: il rifiuto della Trinità e quello del battesimo ai bambini. Ma fu ugualmente la condanna al supplizio, quel supplizio toccato in sorte a tanti eretici messi a morte dall'Inquisizione.
Calvino racconta come Serveto ricevette la notizia. «Sulle prime rimase ammutolito poi emise dei sospiri tali che si sentiva per tutta la stanza; quindi si mise a gemere come un pazzo e non ebbe più padronanza di sé. Alla fine le sue grida aumentarono mentre si batteva continuamente il petto e urlava in spagnolo "Misericordia, misericordia!"». Quando tornò in sé chiese, come prima cosa, di vedere Calvino. Il quale così riferisce l'incontro. «Quando gli chiesi cosa avesse da dirmi rispose che desiderava chiedermi perdono. Allora io protestai, ed è la verità, che non avevo mai provato alcun rancore personale nei suoi confronti … Avevo usato tutta l'umanità possibile, fino a quando, amareggiato dai miei buoni consigli, non scagliò contro di me tutta la sua rabbia e aggressività. Gli dissi che sarei passato sopra a tutto quello che riguardava la mia persona. Avrebbe fatto meglio a chiedere perdono a Dio che egli aveva così vilmente bestemmiato nel tentativo di cancellare le tre persone nell'unica essenza, dicendo che quelli che riconoscono Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come realmente distinti, hanno creato un infernale cane a tre teste… Quando però vidi che tutto questo non dava alcun risultato, non volli essere più saggio di quanto consentisse il mio Maestro. Allora, seguendo l'esempio di San Paolo, mi ritirai dall'eretico che si era autocondannato». In quel momento Serveto capì che il suo destino era definitivamente segnato. Chiese di essere ucciso «con la spada», perché aveva paura di cedere alla sofferenza e di ritrattare tutto. Neanche questo gli fu concesso. Il 27 ottobre del 1553 fu condotto su «una catasta di legno ancora verde», sulla testa gli fu messa una corona di paglia e foglie cosparsa di zolfo e gli fu dato fuoco. Ci volle del tempo prima che morisse. E molti tra i ginevrini presenti aggiunsero legna alla pira.
La storia è stata approfondita e raccontata cinquecento anni dopo da Roland H. Bainton nel libro Vita e morte di Michele Serveto, pubblicato nel 1953 e adesso — per la prima volta — in Italia, dall'editore Fazi.
Bainton, un pastore protestante pacifista nato in Inghilterra e poi emigrato in America, si batté per l'obiezione di coscienza già ai tempi della Prima guerra mondiale e proseguì sulla stessa strada fino ai tempi della guerra del Vietnam (tanto che la Cia lo accusò di essere un comunista). Non aveva, Bainton, una particolare simpatia nei confronti di Calvino, anzi scrisse a un amico di provare «orrore» nei suoi confronti. E, in un altro suo libro, sostenne che se Calvino aveva mai scritto qualcosa in favore della libertà religiosa, doveva essersi trattato di «un errore di stampa». «Non riuscivo a capire», disse, «come potesse considerarsi cristiano un regime che liquidava i suoi oppositori».
Nonostante ciò, nella sua biografia di Serveto si sforzò di comprendere le ragioni di Calvino e di spiegare come Serveto stesso non fosse del tutto incolpevole. In questa vicenda, scrisse, «Calvino si rivela più chiaramente che altrove come una delle ultime grandi figure del Medioevo. Per lui era perfettamente chiaro che qui erano in gioco la maestà di Dio, la salvezza delle anime e la stabilità del cristianesimo». Ma la condanna a morte di Michele Serveto «ha posto la questione della libertà religiosa per le Chiese evangeliche in un modo che non aveva precedenti». Calvino scrisse un libro per spiegare il suo comportamento nel caso Serveto. Ma subito dopo a Basilea fu pubblicato un altro libro anonimo (attribuibile a Sebastiano Castellione) che contestava le tesi di Calvino. Nel Novecento, agli inizi degli anni Cinquanta poco tempo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Bainton ne traeva la seguente morale: «La storia di Calvino e Serveto vuole farci comprendere che i nostri slogan per la libertà vanno continuamente ripensati daccapo. La severità di Calvino, e persino la preoccupazione per la vittima, era figlia dello zelo per la verità. La morte non gli sembrava una pena troppo dura per chi avesse travisato la verità di Dio. Oggi ognuno di noi sarebbe il primo a scagliare una pietra contro l'intolleranza di Calvino, ma dovremmo fermarci a riflettere perché, proprio noi che siamo esterrefatti di fronte a un uomo che brucia a causa della religione, siamo quelli che non esitano a ridurre in cenere intere città per preservare la nostra civiltà». E il riferimento andava a Berlino, Hiroshima e Dresda, rase al suolo dagli inglesi e dagli americani nella fase finale della guerra.
In questo libro, scrive adesso — nella prefazione — Adriano Prosperi, «i due nomi del biografo (Bainton) e del biografato (Serveto) formano un tutto inscindibile; l'eretico e ribelle spagnolo mandato al rogo nel Cinquecento e l'appassionato storico e combattente per la libertà di coscienza del XX secolo formano una di quelle coppie che nascono in certi casi quando lo storico incontra un altro essere umano al di sopra dei secoli e sa restituirgli vita e giustizia». Da sempre la figura dell'eretico mandato al rogo da Calvino è stata al centro di dibattiti. Dai toni aspri, talvolta. Serveto, scrisse Charles Donald O'Malley, aveva un «talento per le avventatezze» e «molti guai se li andava a cercare». Ma altri due studiosi, Alexander Gordon e Henri Tollin, dimostrarono che la sua teologia e il suo uso del latino erano stati di grande valore. Infine, relativamente ai toni particolarmente aspri della controversia tra Serveto e Calvino, Peter Hughes (in un saggio riportato nel libro edito da Fazi) ha scritto: «La presunta insolenza di Serveto va giudicata secondo lo stile politico del tempo; se la denigrazione a mezzo stampa fosse stata un crimine, Calvino avrebbe potuto essere condannato innumerevoli volte».
Un altro studioso che si appassionò al libro di Bainton è stato Angel Alcala, al quale si deve la versione spagnola (1973) del testo. Anche Alcala fu colpito dal fatto che il libro di Bainton in fin dei conti esortava a «imparare, dall'intolleranza di Giovanni Calvino, la lezione sulla libertà di coscienza». Siamo qui sul terreno che per certi versi vedeva assieme il nuovo Papa, Calvino, e i tradizionali pontefici dell'Inquisizione. Con l'uccisione di Serveto, osserva Prosperi, «il conflitto ufficiale tra le Chiese svelava la realtà sotterranea di una tacita alleanza nel combattere l'eresia come minaccia di dissoluzione di ogni potere ecclesiastico». Le polizie cattolica e calvinista «collaborarono nel caso di Serveto obbedendo all'istinto di conservazione dei poteri ecclesiastici uniti davanti agli eretici radicali che ne demolivano le stesse basi». Cosa che era già accaduta qualche anno prima con un ex monaco benedettino e profeta al quale lo stesso Prosperi ha dedicato un rilevante saggio: L'eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta (Feltrinelli).
Nell'affaire di Giorgio Siculo era stata la denunzia dell'esule Pier Paolo Vergerio a mettere l'eretico nelle mani dell'Inquisizione. Ma il processo a Serveto fu molto più clamoroso, «suscitò una reazione vasta e diffusa perché, nella città che era il rifugio degli esuli per ragioni di fede, fece riapparire il volto della Roma papale, con la sua pretesa di imporre l'obbedienza a una verità proclamata dall'alto». A conferma di ciò, a Ginevra giunsero da Roma «imbarazzanti riconoscimenti» come quello di Roberto Bellarmino, che addirittura elogiò il comportamento di Calvino. Da allora in poi, prosegue Prosperi, «l'ombra di Serveto visitò a lungo gli incubi delle Chiese riformate europee».
Ed è qui che le vite di Bainton e di Serveto si intrecciano ancora una volta. Bainton «era pur sempre il ministro di una Chiesa nata dalla Riforma e per lui si pose in modo speciale il problema di capire tutti i protagonisti del dramma che si consumò allora a Ginevra». E a questo proposito il prefatore esorta a tenere ben presente una circostanza che ai lettori italiani potrebbe sfuggire: «Nell'Europa riformata la polemica che si accese subito contro la sentenza capitale non si è mai placata, nemmeno dopo che col Novecento a Ginevra fu deciso di erigere un monumento alla vittima di quel rogo». Bainton, come si è detto, scavalca la questione guardando a Calvino non già come Max Weber, cioè il fondatore dell'età moderna, bensì come «una delle ultime grandi figure del Medioevo».
Secondo Bainton «la morte di Serveto ebbe un effetto positivo: quello di porre la questione della libertà religiosa all'intero mondo della Riforma prima che a ogni altro, come dire che dagli errori si può imparare». Bainton «si sentiva libero dai risentimenti e dalla violenza delle controversie tra le Chiese». Il problema della libertà religiosa «gli appariva come un aspetto fondamentale della storia e della realtà del mondo contemporaneo alle prese coi regimi totalitari e in particolare col comunismo sovietico, come sottolineò nella premessa al libro (La lotta per la libertà religiosa, edito in Italia dal Mulino) che dedicò all'argomento e dove riassunse i risultati delle sue ricerche». Quello di Bainton, scrive Prosperi, «era uno sguardo da lontano, attento a non alterare nulla delle vicende concrete e delle idee degli uomini del Cinquecento… le parole conclusive del libro di Bainton invitano il lettore a riflettere e a sfuggire alla facile scelta di stare oggi per allora dalla parte giusta».
Scrive Prosperi che l'eredità intellettuale di Serveto fu raccolta, difesa e approfondita specialmente qui da noi. Anche «il Serveto martire trovò tra gli italiani uomini capaci di dar vita a una battaglia di scritture per denunziare l'abuso della forza in questioni di coscienza». Esuli che «dovettero fare i conti con la violenza di Chiese in conflitto tra di loro ma solidali nel reprimere coi roghi le dottrine di Serveto… uomini come Bernardino Ochino, Camillo Renato, Giorgio Biandrata, Valentino Gentile, Gian Paolo Alciati reagirono non solo in difesa di Serveto ma per rivendicare il diritto alla libertà religiosa». Con loro Matteo Gribaldi, professore di diritto a Padova, e il senese Mino Celsi. «La causa della libertà, il diritto di professare le proprie idee, la convinzione, allora espressa dall'umanista savoiardo Sebastiano Castellione, che uccidere un uomo non era affermare un'idea», scrive ancora Prosperi, «furono le convinzioni sostenute e portate avanti con grave rischio personale da italiani esuli, perseguitati, cancellati dalla memoria del nostro Paese ma eredi di una cultura che pur sempre in Italia aveva avuto la sua culla». Era «una piccola pattuglia di sopravvissuti alla fase della prima diffusione dell'eresia radicale in Italia, quando le sue tesi venivano discusse animatamente nelle piazze e nelle botteghe delle città italiane». Qui «le dottrine antitrinitarie e anabattiste avevano attecchito rapidamente rivelando una carica eversiva tale da preoccupare autorità ecclesiastiche e poteri politici».
Si tenne addirittura una sorta di concilio segreto, a Venezia, nel 1550, mentre il Concilio di Trento stentava a riprendere. Concilio segreto che si concluse fissando come dottrine comuni la negazione della Trinità e della natura divina del Cristo, il rifiuto del battesimo dei bambini e quello di accettare uffici e magistrature dal potere politico. Erano anni (fino al 1559 quando l'Indice ne decise la distruzione) in cui i libri di Serveto venivano tradotti e passavano di lettore in lettore. Al punto da farne un modello di riferimento.
Un'attenzione particolare, in questo saggio introduttivo, Adriano Prosperi la dedica al rapporto tra Bainton e Delio Cantimori, lo studioso che alla fine degli anni Trenta scrisse quello che ancora oggi è considerato un capolavoro storiografico in questo campo: Eretici italiani del Cinquecento (Einaudi). Bainton lo incontrò una prima volta nel 1932. Tra i due, osserva Prosperi, «c'era una divisione non solo di stile ma anche di metodo e di personalità: se Bainton era portato al racconto delle vite, Cantimori era attento alle dottrine, ai percorsi delle idee». Ma Cantimori ebbe un ruolo decisivo nell'approccio di Bainton ai temi di cui si stava occupando: fu Cantimori a spiegargli che per gli italiani «la parola "religione" equivale non a "cristianesimo" ma a "frequenza alle cerimonie cattoliche"».
Delio Cantimori fu uno storico diversissimo dal collega statunitense, ma quest'ultimo si sentì in dovere di lodare e condividerne l'atteggiamento di simpatia e di distanza con cui l'italiano aveva affrontato la vicenda degli eretici. Tra i due era nato un rapporto di amicizia e di confidenza. «Un dialogo», scrive Prosperi, «da "cavalieri antiqui", cittadini di Paesi nemici e di fede tanto diversa quanto il cittadino della democrazia americana poteva esserlo dal suddito fascista e poi comunista di una dittatura europea».
Lo storico americano, ricorda il prefatore del libro, fu tra i primi a conoscere la conversione di Cantimori dal fascismo al comunismo. Accadde all'incirca nel 1938. Bainton fu sconcertato da quella decisione e ne chiese conto allo storico italiano, che, comprensibilmente, non volle spiegargliela per lettera. Rinviò ogni chiarimento al giorno che si fossero incontrati di persona. Dovevano passare molti anni, quasi venti, si rividero a Londra nel 1957. Cantimori, riferisce Prosperi sulla base dei ricordi di Bainton, gli disse che per lui «il Partito comunista era il solo che poteva realizzare in Italia una rivoluzione simile a quelle puritana, americana e francese… e questo perché il Pci era — secondo lui — l'unica forza politica italiana che non sarebbe scesa a patti con la Chiesa». Parole che dimostrano quale sproporzione ci fosse in Cantimori — e in quasi tutti gli storici — tra la capacità di analizzare la realtà a cui si applicava per ragioni di studio e quella di comprendere a fondo il mondo negli anni in cui si trovò a vivere.

Corriere della Sera 14.12.11
Il seme fecondo del dubbio
Quando Norberto Bobbio mandò in crisi i dogmi di un marxismo sordo alle esigenze della libertà
di Arturo Colombo


Fra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta il nostro Paese ha vissuto uno dei periodi più drammatici della storia contemporanea. Ma quel «Sessantotto troppo lungo» (l'immagine è di Spadolini) non s'identifica solo con i tremendi «anni di piombo». Perché accanto alle forme più degenerate di lotta politica — compresa la sequela di rapimenti e assassinii — c'è stato anche un vivace dibattito ideologico, che ha coinvolto intellettuali autorevoli, impegnati a discutere, e soprattutto a prospettare, un diverso, meno tormentato, futuro.
Un posto di spicco lo occupa sicuramente Norberto Bobbio, torinese classe 1909, una delle personalità più eminenti, che — soprattutto dagli anni dell'immediato dopoguerra — non è mai rimasto chiuso, quasi isolato, nel ristretto mondo dei propri studi giuridici e filosofici. Al contrario, Bobbio ha fatto sentire la sua voce, anche a costo di dibattere, e scontrarsi, con più di un leader, pur di riaffermare quello che considerava un dovere primario dell'uomo di cultura, «non appartarsi» ma impegnarsi ogni volta «contro gli inganni della propaganda», contro «le pretese del dogmatismo»: insomma, sempre «per lo sviluppo della ragione contro l'impero della cieca fede».
Lo sosteneva fin dal 1951, quando lo stalinismo era incombente e imperante; e lo avrebbe ribadito qualche anno più tardi, pubblicando un libro dal titolo Politica e cultura (Einaudi, 1955), che non resta soltanto fondamentale nella biografia di Bobbio, ma costituisce ancor oggi uno dei testi chiave per chiunque voglia capire quanto siano stati complessi — anzi, complicati — i rapporti fra intellettuali e politica in Italia: in un Paese che «è un corpo malato in preda a continue convulsioni» notava, con amarezza, ancora Bobbio nel 1954.
Ma la sua coerente battaglia per smascherare le ambiguità, gli equivoci e i sottintesi che, purtroppo, avrebbero continuato a inquinare ogni corretta dialettica democratica, Bobbio la proseguirà anche in seguito, sempre più convinto che non bisognava insistere a rimanere prigionieri, chiusi entro i propri rigidi steccati, ma occorreva trovare nuove, e più valide ragioni di dialogo, presupposto per ogni civile convivenza. Ne danno un'illuminante conferma i saggi, che Bobbio ha scritto in seguito — specie fra il 1975 e il '76 — e che il nostro «Corriere della Sera» opportunamente ripropone con il volume Quale socialismo?, inserito in quella serie «Laicicattolici. I maestri del pensiero democratico», capace di mettere a disposizione «idee per un'Italia migliore».
Il tema di fondo, su cui Bobbio ha insistito — soprattutto quando, in un mondo ancora visibilmente «spaccato in due», certe pregiudiziali ideologiche sembravano rendere impossibile ogni confronto — chiama in causa, lo riconosce lui stesso, «il dibattito su democrazia e socialismo». Un dibattito, tanto più complicato, quasi insormontabile, perché esistono troppe, e contrastanti, ipotesi di «socialismo», che hanno messo capo, da una parte, a esperienze cosiddette «socialdemocratiche», in perfetta antitesi, dall'altra, con esperimenti di «socialismo reale», che si sono identificati o nel «comunismo» di stampo sovietico o nelle sedicenti «democrazie popolari» (o proletarie) dei Paesi dell'Est europeo.
A chi credeva, o si illudeva, o addirittura pretendeva che si potesse fare a meno dello Stato, Bobbio (senza il minimo timore di polemizzare duramente anche con Palmiro Togliatti o Pietro Ingrao) replica non solo dimostrando che non è mai esistita «una dottrina marxistica dello Stato», ma denunciando come mai e perché là dove sono riusciti a conquistare il potere, i veri (o presunti) eredi di Marx non hanno fatto altro che accrescere i vincoli oppressivi: con la conseguenza che gli spazi di libertà dei cittadini hanno subìto massicce limitazioni o addirittura violente confische.
Straordinaria è la chiarezza con cui Bobbio affronta l'analisi degli squilibri e delle contraddizioni, così evidenti nella seconda metà del XX secolo. Infatti, da una parte insiste a spiegarci perché la democrazia è indispensabile come il solo criterio valido per scegliere, senza esclusivismi né discriminazioni, quanti dovranno esercitare (ossia gestire) il potere politico; ma, dall'altra parte, è pronto a ricordarci che, se vogliamo davvero cambiare in meglio il sistema economico-sociale, dobbiamo domandarci quale socialismo è in grado di realizzare concretamente un simile obiettivo: beninteso, senza affidarsi a un partito «totalizzante», con la pretesa di costruire chissà quale, vera o presunta, «società senza classi».
C'è almeno un passo esemplare di Bobbio — apparso su «Mondoperaio» del 1973 e riproposto in Quale socialismo? —, là dove ci ricorda «quanto sia questione di vita o di morte per il futuro del socialismo il recupero dell'istanza democratica, nell'unico senso in cui si può ragionevolmente parlare di democrazia senza ingannarci a vicenda, cioè di un sistema in cui vigano e siano rispettate alcune regole che permettano al maggior numero di cittadini di partecipare direttamente o indirettamente alle deliberazioni che a diversi livelli (locale, regionale, nazionale) e nelle più diverse sedi (della scuola, del lavoro, ecc.), interessano la collettività».
Invece, il quadro che Bobbio ci mette davanti è tutt'altro che confortante, e lui stesso — abituato a guardare con ciglio asciutto la realtà contemporanea: non solo quella italiana — non esita a sostenere che finora nessun autentico sistema democratico è mai «approdato» al socialismo, così come nessun sistema socialista è riuscito a essere «governato» davvero democraticamente. Da qui — ci insegna Bobbio — la continua esigenza di riflettere su quanto accade, dentro e fuori di casa nostra.
Conclusioni? Le pagine di Bobbio — quelle dedicate a Quale socialismo?, così come le altre su Il futuro della democrazia (apparse più tardi, nel 1984) — offrono una quantità di spunti per chi non rinuncia a credere nel dovere di costruire una concreta, migliore alternativa all'ambiguo mondo in cui viviamo.

Corriere della Sera 14.12.11
Un socialista in lotta per l'autonomia della cultura


Sono raccolti nel volume Quale socialismo?, che il «Corriere della Sera» manda in edicola domani, alcuni saggi in cui Norberto Bobbio, negli anni Settanta, discuteva del rapporto tra socialismo e democrazia, sottolineando la mancanza di una valida teoria marxista dello Stato. Si tratta della settima uscita della collana «Laicicattolici. I maestri del pensiero democratico», in vendita ogni giovedì con il «Corriere della Sera» al prezzo di 1,50 più il costo del quotidiano. Nel corso della sua lunga esistenza, Bobbio (1909-2004) fu una coscienza critica della sinistra italiana. Studioso di filosofia del diritto, militante del Partito d'azione durante la lotta partigiana e nel primo dopoguerra, s'impegnò a partire dagli anni Cinquanta in un dialogo serrato con i comunisti, nella convinzione che solo uno sbocco di tipo socialdemocratico avrebbe permesso alla sinistra di candidarsi al governo dell'Italia. Negli anni Settanta propiziò sul piano culturale, dalle colonne della rivista «Mondoperaio», la svolta riformista del Psi di Bettino Craxi, ma poi si trovò spesso in contrasto con il segretario socialista, del quale non approvava un certo piglio aggressivo e le posizioni presidenzialiste. La prossima uscita della serie «Laicicattolici» è una breve antologia con tre discorsi di Giuseppe Dossetti, intitolata Amore di Dio, coscienza della storia, in edicola dal 22 dicembre con prefazione di Alberto Melloni. Seguirà il 29 dicembre l'Intervista sul non governo di Ugo La Malfa, con prefazione di Paolo Mieli.

l’Unità 14.12.11
Malcom X, meno supereroe più umano
L’anticipazione Pubblichiamo l’introduzione alla biografia del «principe nero» di Manning Marable, docente di studi afroamericani alla Columbia morto pochi giorni prima della pubblicazione negli Usa della sua opera
di Alessandro Portelli


Malcolm X di Manning Marable è un libro decisivo per capire il significato dei movimenti di liberazione afroamericani, attraverso la ricostruzione critica della vita e dell’azione di un protagonista di primissimo piano, e un esempio straordinario di ricerca storiografica a tutto campo.
Ho incontrato Manning Marable diverse volte alla Columbia University, dove insegnava nel dipartimento di Studi afroamericani e nel dipartimento di Storia. Veniva ai seminari di storia orale a raccontare il progetto a cui aveva dedicato tutta l’ultima parte della sua vita: una biografia di Malcolm X che avrebbe restituito a questa icona rivoluzionaria tutto il suo spessore politico e tutta la sua complessità umana. Più ancora che il rigore del militante politico e dello studioso, restava impressa l’intensità del coinvolgimento personale che animava il suo lavoro, nelle infinite indagini negli archivi anche meno accessibili come nella molteplicità di incontri non sempre facili con i protagonisti di quel tempo, a partire dalla stessa famiglia di Malcolm.
L’AZIONE DI UNA GENERAZIONE
Per Manning Marable, il significato della vita e dell’azione di Malcolm X non era solo una questione politica, storica: era anche il significato della vita e dell’azione di tutta una generazione di intellettuali afroamericani che in un dialogo implicito con Malcolm X hanno fondato la propria identità. Anche per questo è particolarmente doloroso pensare che Manning Marable non è arrivato a vedere pubblicato il risultato di questa lunga passione, il libro che abbiamo in mano e che è uscito negli Stati Uniti solo pochissimi giorni dopo la sua morte. Ed è anche un peccato che Manning Marable non sia qui adesso a intervenire nelle polemiche accese e spesso faziose che hanno accolto la sua fatica. Malcolm X è un’icona troppo preziosa per troppe persone, e la sua Autobiografia composta con Alex Haley è stata un testo di formazione per tantissimi di noi (me compreso). Rispetto a quella Autobiografia, Marable fornisce ora una ricostruzione che rivede alcuni aspetti fondamentali e che porta il racconto ben oltre i suoi confini.
Questo nuovo approdo della ricerca non poteva non disturbare (il livore di figure pure rispettabili, come per esempio Amiri Baraka, è andato al di là di ogni abituale confine della critica). Se Malcolm era, come lo definì Ossie Davis nel suo celebre discorso funebre, «our black shining prince», «our manhood» («il nostro luminoso principe nero», «la nostra umanità»; ma forse, «la nostra virilità»: e proprio in questo sta gran parte dello «scandalo» del libro di Marable), presentarlo come una persona la cui grandezza sta anche nella continua battaglia con i propri limiti, le proprie debolezze, le proprie contraddizioni significava dissacrarlo e offenderlo.
E invece proprio in questa ricostruzione dell’umanità di Malcolm sta il più generoso omaggio alla sua grandezza. Il Malcolm che esce da queste pagine non è meno radicale, meno rivoluzionario – anzi, dedicando pagine innovative alla visione politica dei suoi ultimi giorni, Marable lo rende ancora più politicamente consapevole e irriducibile.
L’«AUTOBIOGRAFIA»
Smette però di essere quel modello di ruolo, quel virile principe nero senza macchia e senza paura che l’Autobiografia aveva costruito. Quel testo, come tutte le grandi autobiografie, aveva dato una forma narrativa e in parte immaginata agli eventi vissuti, creando una vicenda simbolica di caduta e rinascita e una figura rappresentativa funzionale alla costruzione di un’identità afroamericana condivisa. E questa immagine si era congelata e contratta. Ancora di più si era irrigidita nella versione cinematografica di Spike Lee e nell’immaginario un po’ sloganistico di tutta una generazione di rapper (che peraltro si era identificata soprattutto con il Malcolm hustler del ghetto, prima della sua svolta rivoluzionaria).
Manning Marable non demolisce affatto questo Malcolm X simbolico di cui abbiamo avuto bisogno; piuttosto, lo arricchisce nel confronto con il Malcolm X quotidiano, anche prosaico se necessario. Ci sono momenti in questo libro in cui la minuziosità della ricerca e della documentazione sembra darci un diario giorno per giorno, in certi momenti ora per ora, della sua vita e delle sue trasformazioni. Per di più, questo Malcolm in carne e ossa emerge come una figura non meno politica, anzi come portatore di un progetto assai più radicale e di una consapevolezza politica assai più articolata di quello che Alex Haley aveva lasciato emergere dai capitoli finali dell’Autobiografia, quelli che Malcolm non aveva fatto in tempo a rivedere. Ma emerge anche un percorso di vita meno nitidamente strutturato di quanto non si cogliesse nella narrazione di caduta e resurrezione costruita dall’Autobiografia.
Un processo di trasformazione continuo, molecolare e osmotico, non senza ritorni indietro e vicoli ciechi, ma sempre con la piena assunzione dei rischi. In questo senso, Marable rende assai meno praticabili quelle appropriazioni a posteriori di Malcolm X che, basandosi sul suo processo di evoluzione politica e personale, ne prefiguravano approdi di vario genere, dal trotskismo alla nonviolenza: sono tutte dimensioni con cui si è confrontato, ma fino all’ultimo Malcolm X è rimasto irriducibile e indipendente. La sua ricerca e i momenti di confusione che l’hanno accompagnata sono stati sempre e solo i suoi.
L’UCCISIONE
Un aspetto ulteriore dell’importanza di questo libro è la ricostruzione dell’uccisione di Malcolm X e l’attribuzione di responsabilità e di colpe. In quelle pagine, la relazione fra lo storico e il detective (esplorata in certi romanzi di Agatha Christie come in certi saggi di Carlo Ginzburg) si fa strettissima, motivata in entrambi i ruoli dalla ricerca della verità e dalla convinzione che un passato irrisolto getti ombre pesantissime sul presente.
Troppo spesso il movimento afroamericano è stato narrato (e in parte si è narrato) attraverso la costruzione di narrazioni mitologiche su protagonisti umani: da Rosa Parks a Martin Luther King, il simbolo e il movimento hanno a volte offuscato l’intelligenza politica e la capacità organizzativa (Rosa Parks era ben consapevole del suo gesto, quando rifiutò di cedere il posto su quell’autobus di Montgomery, Alabama; e Martin Luther King era soprattutto uno straordinario mediatore e sintetizzatore delle molteplici voci di un movimento vasto e complesso). Facendo di questi protagonisti delle figure in qualche modo prodigiose e astratte, ci è stata sottratta la visione della fatica, della sofferenza, delle difficoltà interiori che hanno dovuto superare per fare quello che hanno fatto – e quindi, anche, della qualità speciale di coraggio che c’è voluto. Il Malcolm X che esce da queste pagine, tanto diverso da loro, è tuttavia lo stesso tipo di eroe: non un essere superiore, ma una persona capace di superarsi. E forse sono questi gli «eroi» di cui c’è davvero bisogno.

l’Unità 14.12.11
La soluzione del «giallo» si avrà probabilmente nel corso del 2012
La nuova impresa dopo la misurazione dei neutrini più veloci della luce
Svolta sull’esistenza della «particella di Dio» Prossimi alla scoperta
Due italiani, responsabili degli esperimenti al Cern di Ginevra, annunciano di aver individuato il possibile «nascondiglio» del bosone di Higgs, la cui presenza per ora è stata solo ipotizzata dal fisico scozzese.
di Cristiana Pulcinelli


Se si trattasse di un delitto, potremmo dire che la polizia non ha trovato la pistola fumante, ma ha in mano importanti indizi per dire che il colpevole c’è e si nasconde in una certa zona della città. Però non siamo in un film giallo, siamo nel campo della fisica. Il «ricercato» non è un omicida, ma una particella elementare, ovvero uno dei costituenti invisibili della materia: il bosone di Higgs. Da anni tutti lo cercano, nessuno finora l’ha trovato. Eppure, ieri nel corso del seminario che si è svolto al Cern di Ginevra si è capito che gli investigatori sentono di averlo in pugno: il cerchio si sta stringendo intorno all’elusiva particella e potrebbe mancare molto poco all’annuncio della scoperta della prova definitiva della sua esistenza.
A dare conto del progredire delle indagini sono stati due italiani: Guido Tonelli e Fabiola Gianotti, responsabili rispettivamente di Cms e Atlas, gli esperimenti che si trovano al Cern di Ginevra e che da un paio d’anni, ossia da quando funziona l’acceleratore di particelle Lhc, stanno cercando proprio il bosone di Higgs. I due esperimenti hanno visto dei segnali che indicherebbero che il bosone si trova in una regione di massa compresa tra i 124 e i 126 miliardi di elettronvolt (GeV) con una probabilità del 99%. L’elettronvolt è un’unità di misura dell’energia, ma in fisica delle particelle si utilizza per misurare la massa delle particelle elementari. Dunque, se il bosone di Higgs esiste, ha una massa circa 120 volte più grande di quella di un protone.
Già perché, siccome non è mai stato visto, non si sa neppure con certezza se esista, il bosone di Higgs. La teoria però lo prevede, anzi lo richiede, per spiegare perché le cose hanno una massa. Noi sappiamo che anche le particelle elementari (l’elettrone, il muone, il neutrino, i quark...) hanno una massa, anzi che hanno masse differenti tra loro, ma fino a qualche decennio fa non si capiva come spiegare questo fenomeno. Fu Peter Higgs, un fisico scozzese, ad ipotizzare nel 1964 l’esistenza di un campo di energia, la cui particella messaggero fu chiamata appunto bosone di Higgs, in grado di risolvere il problema. Secondo Higgs, questo campo di energia permea tutto l’universo e le particelle acquisiscono la loro massa interagendo con esso: quelle che interagiscono in modo forte sono pesanti, quelle che interagiscono in modo debole sono più leggere. Il bosone di Higgs sarebbe quindi una particella particolare, tanto potente da meritarsi l’appellativo di «particella di Dio» (che peraltro Higgs sembra non abbia mai gradito). Anche sulla base dell’ipotesi della sua esistenza, venne elaborato il «Modello Standard delle alte energie», una teoria scientifica molto potente che ha previsto l’esistenza di altre particelle che poi sono state effettivamente scoperte. Ma se il bosone di Higgs non esistesse, la teoria sarebbe ancora valida?
I DUBBI E L’ACCELERATORE
L’acceleratore di particelle più grande del mondo, l’Lhc del Cern a Ginevra, è stato costruito anche per fugare questo dubbio. Dentro Lhc, infatti i protoni, divisi in due fasci che procedono in direzioni opposte, sono accelerati al 99,9998% della velocità della luce. Scontrandosi a tale velocità, generano un’energia molto intensa che permette di creare particelle elementari, come il bosone di Higgs. Queste particelle così possono tornare in vita, anche se solo per una piccolissima frazione di secondo. Poi decadono, trasformandosi in una miriade di particelle conosciute e, infatti, la loro scoperta consiste nell’osservazione delle particelle in cui decadono piuttosto che nella loro rilevazione diretta. Sia Atlas che Cms hanno analizzato diversi canali (modi) di decadimento, e hanno potuto osservare piccoli eccessi di eventi, ovvero più decadimenti del previsto. Un caso? Una fluttuazione statistica? Oppure il segno della presenza del bosone? Per ora si può solo dire, con Tonelli, che «questo eccesso è fortemente compatibile con un Higgs del Modello Sandard con una massa intorno ai 124 GeV», ma si prevede che il nodo si scioglierà presto: «Date le eccezionali prestazioni di Lhc quest'anno, non sarà necessario aspettare a lungo per avere una quantità di dati sufficiente e questo ci consente di prevedere che il puzzle sarà risolto nel corso del 2012», ha detto Gianotti.
Intanto, godiamoci i successi della fisica italiana. Dopo la misurazione dei neutrini più veloci della luce, opera di un team guidato da un italiano, oggi una nuova impresa: «Questo risultato, significativo anche se non definitivo – ha dichiarato Fernando Ferroni, presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) è stato conseguito da esperimenti guidati da italiani che, al pari di quelli che dirigono tutti gli altri esperimenti di Lhc, vengono dalla grande fucina dell’Infn, dalla scuola italiana di fisica».

l’Unità 14.12.11
«Abbiamo diretto i progetti
È la conferma che noi italiani siamo bravi»
di Luca Landò


Prima i neutrini più veloci della luce, adesso forse il bosone di Higgs: nel giro di pochi mesi due grandi scoperte e tutte due coordinate da ricercatori italiani. È un caso? Lo chiediamo a Fabiola Gianotti, a capo dell’esperimento Atlas che, insieme a quello denominato Cms e guidato da Guido Tonelli, avrebbero trovato le «impronte» della famosa particella di Dio.
«Dei sei esperimenti in corso al Cern in questo momento, cinque sono guidati da italiani. Non so se sia un caso, ma posso assicurarle che nel campo della fisica delle particelle la scuola italiana è una delle più avanzate al mondo. E il lavoro di Ereditato sui neutrini ne è la conferma. Siamo piuttosto bravi, sa?».
Perché avete chiesto di incontrare i giornalisti se non avete ancora la certezza che si tratti del bosone di Higgs?
«Nella comunità dei fisici ormai non si parla d’altro. Ci sembrava giusto raccontare anche al pubblico come stanno realmente le cose».
Però vi sentite molto vicini.
«I rilevatori stanno funzionando a meraviglia, molto meglio di quanto pensassimo. E stiamo raccogliendo una mole di dati».
Qualcuno dice che avete già la certezza.
«Siamo ricercatori e dobbiamo affidarci ai dati statistici, non alle sensazioni».
Ce la farete in un anno?
«Sicuramente».
Domanda personale: da dove viene?
«Sono romana, laureata a Milano e sono venuta a Ginevra con una borsa di studio per giovani laureati».
Tornerà in Italia?
«Prima o poi sì, ma in questo momento non mi allontano nemmeno dietro tortura. È troppo affascinante quello che sto facendo».

La Stampa TuttoScienze 14.12.11
L’ombra della particella di Dio
Emozione al Cern: ecco i segnali dell’inafferrabile bosone di Higgs
di Barbara Gallavotti


«I risultati di oggi hanno ridotto i possibili nascondigli della tigre da un’intera giungla a un piccolo cespuglio in cui abbiamo intravisto degli ondeggiamenti. Nel 2012 sapremo se il felino esiste e dove si trova», dice Sergio Bertolucci, direttore della ricerca del Cern.
«Una conferma per il Modello Standard ma solo nel 2012 si avrà la prova definitiva»

È come una tigre acquattata fra i cespugli, il bosone di Higgs. Dopo decenni di caccia, forse questa volta i battitori l’hanno scovata, eppure i fisici temono ancora che il bosone se ne stia da tutt’altra parte e che i segnali della sua presenza siano in realtà solo una malefica combinazione di giochi di luce e brezza fra le foglie.
Nonostante l’incertezza, però, l’emozione della scoperta era palpabile ieri al Cern, mentre in un auditorium gremito di ricercatori decisamente di ottimo umore venivano presentati i dati di Cms e Atlas: i due principali esperimenti connessi all’acceleratore Lhc. I fisici hanno rilevato segnali di un «qualcosa» che avrebbe una massa compresa fra 115 e 130 gigaelettronvolt, con un valore più probabile attorno a 125 gigaelettronvolt. E naturalmente quel «qualcosa» tutti sperano sia l’inafferrabile tigre. Ma rimane il dubbio: «Se è solo un rumore di fondo, saranno necessari molto tempo e molti nuovi dati per cancellarlo», ha detto nel suo intervento Fabiola Gianotti, coordinatrice di Atlas.
Il bosone di Higgs è la chiave di volta su cui si regge l’intera costruzione teorica che i fisici hanno costruito per descrivere e spiegare il nostro Universo. Non a caso, il Nobel Leon Lederman ha coniato per esso il fortunatissimo soprannome di «particella di Dio».
Stando a questa costruzione teorica, chiamata Modello Standard, a conferire una massa alle particelle sarebbe il campo di Higgs. Possiamo immaginarlo come una sorta di «mare» invisibile che pervade l’Universo. La massa delle diverse particelle deriva proprio dalla differente resistenza che incontrano nell’attraversare questo mare. Così particelle con grande massa, come i muoni, attraversano il mare con più difficoltà degli elettroni, dotati di massa piccola, mentre il «mare» ha pochissimo effetto sui leggerissimi neutrini e proprio nessuno sui fotoni, totalmente privi di massa. Il campo di Higgs, insomma, permea il cosmo un po’ come un tempo si pensava che facesse l’etere, anche se i ricercatori ci tengono a sottolineare che la somiglianza è solo apparente.
L’ipotesi dell’esistenza del campo di Higgs è stata formulata da Peter Higgs e da altri colleghi nel 1964 ed è stata accolta con particolare favore, perché poteva essere facilmente inglobata nel quadro teorico del Modello Standard. Restava, tuttavia, da osservarlo. E come si può verificare l’esistenza di un «mare» invisibile e impalpabile? Disturbandone l’immobilità con una perturbazione, cioè creando «un’onda». Proprio questa «onda» è il bosone di Higgs. Riuscire a produrla si è rivelato, però, molto difficile.
La strategia seguita dai fisici è stata quella abituale: far scontrare dentro un acceleratore particelle che viaggiano quasi alla velocità della luce, così da generare altre particelle, fra le quali quella agognata. Per un po’ i ricercatori hanno sperato di riuscire a farcela con il Lep, l’acceleratore in funzione al Cern di Ginevra fino al 2000. Proprio al volgere del millennio grazie ad esso i ricercatori avevano potuto escludere che il bosone avesse masse fino a circa 115 gigaelettronvolt, cioè le più basse possibili
(sempre notevoli, comunque, dato che quella di un protone è appena un gigaelettronvolt). All’epoca qualcuno sperò che la particella fosse dietro l’angolo, ma l’allora direttore generale del Cern, Luciano Maiani, decise coraggiosamente di scommettere su numeri più alti e, anziché forzare la macchina per esplorare masse leggermente superiori, la chiuse, procedendo con la costruzione di Lhc. I lavori sono durati un decennio, durante il quale tutte le speranze di trovare l’Higgs sono state affidate ai laboratori Fermilab, di Chicago. Ma anche oltreoceano sono solo riusciti a restringere ulteriormente gli intervalli di massa.
La gamma di valori indicata oggi da Atlas e Cms, compresa fra 115 e 130 gigaelettronvolt, è ancora piuttosto ampia, ma riduce notevolmente lo spettro di quelli possibili. Nella caccia al bosone il valore della sua massa ha una importanza centrale. «In base alla massa dell’Higgs possiamo capire se e come il Modello Standard abbia bisogno di estensioni», spiega Gino Isidori, fisico teorico dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, attualmente al Cern. Proprio i teorici sono i più elettrizzati dall’annuncio dei due esperimenti: se i dati fossero confermati, il Modello Standard apparirebbe chiaro, come un enorme puzzle al quale finalmente è stato sistemato il pezzo centrale.
«Un valore inferiore a 126 gigaelettronvolt ha delle implicazioni molto interessanti. Ad esempio lascia aperta una minuscola possibilità che il campo di Higgs cambi stato, un po’ come un mare che inizi a bollire - spiega Isidori -. In queste drammatiche condizioni le particelle acquisterebbero all’improvviso una massa enorme e ciò renderebbe impossibile non solo l’esistenza degli atomi, ma anche di singoli protoni o neutroni e naturalmente di stelle o pianeti. Ma per fortuna ciò accadrà solo in un lasso di tempo molto maggiore di quello trascorso dal Big Bang ad oggi». Ma non è tutto, perché dalla cattura del bosone di Higgs dipende anche la possibilità di comprendere grandi misteri, come l’esistenza di materia ed energia oscure.
L’immaginazione degli scienziati è pronta a volare, ma i ricercatori hanno bisogno di tempo. «I risultati di oggi hanno ridotto i possibili nascondigli della tigre da un’intera giungla a un piccolo cespuglio in cui abbiamo intravisto degli ondeggiamenti. Nel 2012 sapremo se il felino esiste e dove si trova», dice Sergio Bertolucci, direttore della ricerca del Cern.

La Stampa TuttoScienze 14.12.11
Dai nostri progenitori a un’icona della modernità come Homer Simpson: c’è un verso che ci accomuna
La prima parola? Solo un “Duh”
di Gabriele Beccaria


Bart de Boer si è messo in testa di scoprire che suoni emettessero i nostri progenitori, quando noi Sapiens ancora non c’eravamo, e l’Africa era la terra di un’altra specie di successo, quella degli australopitechi. Oltre 3 milioni di anni fa.
Alla fine il professore dell’Università di Amsterdam la scoperta l’ha fatta, ma con un effetto collaterale imprevisto che l’ha reso una celebrità controversa. Se una delle prime parole a risuonare nella savana è stato un «Duh» (lo si deduce da una laboriosa ricerca), il verso non è altro che il clone del tormentone di Homer Simpson. Oltre 3 milioni di anni di evoluzione impetuosa e si torna al punto di partenza: sempre la stessa imprecazione, che ora ha trovato un motivo irresistibile per riprodursi su Internet. Rabbiosa e perplessa. Divertente e ottusa.
Onore all’intuito di Matt Groening, padre della scombinata famiglia Simpson, e alla sagacia dei cartoni dell’ultimo mezzo secolo, in cui cavernicoli maschi e femmine si urlano addosso sequenze gutturali dal «Duh» fino all’«Ugg». E «Ugg» - guarda caso - è proprio l’altro suono che, secondo de Boer, dev’essere stato al top delle sofferte comunicazioni tra ominini. Sofferte, perché non avevano sviluppato il sofisticato apparato vocale che caratterizza noi simpsoniani: sebbene il versaccio sembri quasi identico, una differenza - e sostanziale - esiste.
Gli australopitechi condividevano con i primati la «sacca d’aria» che permette alle scimmie di lanciare urla poderose. E il prezzo da pagare era alto. Quest’organo funziona come un tamburo che amplifica le basse frequenze e «ammucchia» le vocali, costringendole a confondersi. La famosa Lucy (l’antenato portato alla luce da Donald Johanson negli Anni 70) doveva quindi possedere - e qui si impone il serioso sapere di de Boer - un vocabolario ridotto. Se anche si fosse ingegnata a inventare sempre nuove parole, il suo organismo non l’avrebbe aiutata a pronunciarle. Anche perché la cassa armonica di cui era impossibile sbarazzarsi non era d’aiuto nemmeno con le consonanti, che restavano difficili da pronunciare.
Solo molto tempo dopo, all’epoca dell’Homo heidelbergensis, 600 mila anni fa, la «sacca» sparì dalla gola e l’innovazione fu così fortunata da trasmettersi da una specie all’altra, fino ai Sapiens, e oggi appartiene alla categoria degli organi «vestigiali», come tonsille, appendice e coccige. Sostiene de Boer che le prove sono nelle metamorfosi dello ioide, l’ossicino a ferro di cavallo che nell’uomo moderno ha la fondamentale funzione di sostenere la laringe e l’attacco del «pavimento» della bocca e della lingua. E a conferma delle sue ricerche ha riprodotto i suoni primordiali con un apparato artigianale, composto di tubi e sacchetti di plastica, e li ha sottoposti a una platea di volenterosi ascoltatori. Un test pionieristico con risultati così cristallini che anche Homer coglierebbe al volo.

Repubblica 14.12.11
Una vita distrutta dalle calunnie
Il testo della polemica orazione funebre per la scrittrice pronunciata ieri da Günter Grass "Contro di lei una campagna di stampa ispirata da indignazione ipocrita e spirito opportunista"
di Günter Grass


Christa Wolf apparteneva, come me, ad una generazione segnata dal nazionalsocialismo e da una tardiva, troppo tardiva, presa di coscienza di tutti i crimini commessi dai tedeschi nell´arco di soli dodici anni. Per scrivere, da allora, bisogna saper leggere le impronte, come lei fa in uno dei suoi libri, Trama d´infanzia. Gli anni della sua gioventù furono caratterizzati da una drammatica alternanza ideologica, dalla dittatura nazista alle dottrine staliniste. Strade sbagliate imboccate con fede, il sorgere del dubbio e la resistenza alle imposizioni, e ancora, la consapevolezza di far parte di un sistema che liquida l´utopia socialista, sono aspetti del valore dimostrato in cinquant´anni di attività letteraria: da Il cielo diviso fino all´ultimo viaggio che ci conduce nella Città degli angeli, libro dopo libro. Libri che sono rimasti.
Ne scelgo uno: Che cosa resta, un racconto pubblicato nel giugno 1990 dalla "Aufbau Verlag" e dalla "Luchterhandverlag". Ancor prima che fosse presentato ai lettori, sia a Est che a Ovest, alcuni giornalisti tedeschi dell´Ovest, forti del loro ruolo storico di vincitori, diedero avvio ad una campagna denigratoria. Christa Wolf, prima osannata come oppositrice del regime, la vincitrice del premio Büchner 1980, la stessa autrice che era stata attorniata dagli studenti a Francoforte, la cui voce aveva ascolto tanto ad est come ad ovest, ora, a pochissima distanza dalla caduta del muro, era vittima di critiche senza fine. Fu una sorta di linciaggio pubblico. A dare il via furono, il primo e il due giugno, Die Zeit e la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ulrich Greiner e Frank Schirrmacher impostarono il tono, ripreso poi da un branco di giornalisti che lo amplificarono a ululato selvaggio. Le poche voci levatesi in contrasto non ebbero invece seguito.
A scatenare tanta infamia, un tale desiderio di distruzione, fu un testo scritto nell´estate del 1979, che aveva come tema il dubbio, la crisi suscitata nei coniugi Wolf dalla scoperta di essere spiati e sorvegliati dai servizi di sicurezza della Ddr. Dal loro porto sicuro i giornalisti occidentali, ubriachi del coraggio facile, che a quanto pare cresce particolarmente bene in vaso nelle redazioni, rimproveravano all´autrice di non aver avuto il fegato di pubblicare il racconto prima della caduta del muro. A detta di Ulrich Greiner, se lo avesse fatto Christa Wolf avrebbe perso il privilegio di autrice di stato e probabilmente sarebbe stata costretta ad emigrare. «Avrebbe potuto trovare facilmente asilo in Occidente», commentava generoso. E Frank Schirrmacher accusava l´autrice: «tutti lo sanno: sono tesi dell´anno 1989, non del 1979». Non venne tenuto conto che il racconto successivo Recita estiva, fu pubblicato solo dieci anni dopo essere stato scritto.
Quanta indignazione ipocrita dalle penne di giornalisti che, pur non subendo alcuna censura statale, comunque erano servi dello spirito del tempo, con spirito opportunista e desiderio di compiacere.
La campagna contro la Wolf venne portata avanti sotto la guida di potenti organi di stampa e non ha mai perso vigore, anzi, ha trovato eco persino recentemente in alcuni necrologi. In particolare il concetto di estetica ideologica applicato all´opera letteraria della Wolf e di molti autori del periodo postbellico fino ad oggi ha ispirato le menti ristrette di coloro che desiderano rinchiudere la letteratura e chi la produce in una torre d´avorio. In seguito ha preso piede l´aggettivo "Gutmensch", idealista ingenuo, attribuito ad Heinrich Böll come espressione del cinismo corrente. Inutile attendersi pubbliche scuse da parte dei detrattori della Wolf, anche ora, dopo la sua morte. Basterebbe che riconoscessero l´effetto distruttivo delle loro accuse infamanti. Ma evidentemente non hanno il coraggio di mettersi in discussione, cosa che Christa Wolf ha fatto per tutta la vita, fino all´esagerazione.
Torno al 1990, data di pubblicazione di Che cosa resta perché in quell´anno ebbe inizio la nostra amicizia. Ci vedevamo spesso, ci scrivevamo lettere. Christa si sforzava di non darlo a vedere, ma era palese quanto soffrisse per le recenti ferite. Le sofferenze che le erano state inflitte dallo stato del suo paese, comunque molto amato, ora le erano imposte, in maniera analoga, in entrambe le Germanie, sotto l´egida della cosiddetta "libertà di opinione": calunnie, affermazioni distorte, continui tentativi di diffamazione. Anche questo resterà, come ignominia. Quanta miseria nell´anno dell´unità tedesca.
Ma soprattutto ci resta la moltitudine dei suoi libri. Va a lei il merito di aver scritto opere in grado di superare i confini in un momento in cui Est e Ovest si fronteggiavano bellicosi, armati di incallite ideologie, libri che durano, grandi romanzi allegorici, la testimonianza personificata della malattia e del dolore. È stata lei, Christa Wolf, a scrivere, dopo il disastro nucleare di Chernobyl, Guasto, un libro che presagisce la tragedia di Fukushima e ci vede tutti avviati su una china catastrofica in fondo alla quale l´interrogativo Che cosa resta, ora animato dalla speranza, non ammetterà più ipotesi, anzi, sarà inutile.
Traduzione di Emilia Benghi