giovedì 15 dicembre 2011

l’Unità 15.12.11
Nel segno dell’integrazione. Più coraggio e più chiarezza: per la cittadinanza a chi nasce qui e per il voto a chi qui vive
Mor e Modou, la mia famiglia
di Renata Ingrao


L’omicidio di Mor Diopr e Modou Samb mi ha toccato profondamente, in un modo tutto speciale che vorrei provare a spiegare e a condividere con altri. Per me Mor e Modou non sono «i due senegalesi uccisi a Firenze», «gli emigranti di una comunità straniera»: Mor e Modou potrebbero essere padri, zii, fratelli maggiori degli amici con cui mia figlia si incontra alla Stazione Termini, va a ballare in discoteca, a passeggiare nel centro di Roma, a mangiare da McDonald.
Tra gli amici di mia figlia ci sono infatti anche ragazzi senegalesi, giovani che lavorano, e qualcuno proprio come Mor e Modou vende la merce nei mercati. Mia figlia ha origini africane, con lei ho adottato un pezzetto d’Africa; la sua famiglia che sta in Costa d’Avorio e quella che sta in Italia sono diventate la mia famiglia. E familiari sono diventati i ragazzi della comunità africana di Roma, con i loro nomi senegalesi, congolesi, marocchini, nigeriani, eritrei... Frequentano la mia casa, capita pure che si fidanzino con mia figlia, popolano i suoi racconti, ognuno con le sue caratteristiche.
Per questo la morte di Mor e Modou non è per me il gesto di un folle e della sua malata ideologia razzista che colpisce ferocemente la comunità dei neri e dei migranti: insomma qualcosa di veramente brutto, da rigettare ma che alla fine non mi riguarda direttamente. Quella colpita a Firenze è anche la mia comunità. Il pazzo che nel suo delirio razzista spara all’impazzata e uccide gli ambulanti senegalesi sta colpendo anche me, i miei cari, gli amici, i parenti che costituiscono il mondo e gli affetti della mia famiglia.
Ho paura e voglio reagire, perché la follia che abbiamo visto all’opera si è in questi anni alimentata di un odio politico tutt’altro che folle che ha usato il conflitto sociale provocato dalle migrazioni come arma di successi elettorali, lo ha fomentato con il peggiore armamentario ideologico, con le più orrende parole d’ordine, rimbalzate dagli scranni parlamentari e dalle platee televisive. Dunque legittimate ai massimi livelli.
Sono convinta che l’integrazione, la mescolanza, la convivenza tra genti di origini diverse anche in Italia sarà l’approdo naturale dei processi inarrestabili di globalizzazione. Lo vedo già nel mio piccolo mondo quotidiano; a fidanzarsi con il giovane straniero non è solo mia figlia, con la sua pelle nera, ma anche le sue compagne «italiane doc». Il mondo dei bambini e poi dei ragazzi e poi dei giovani è per fortuna più avanti.
Mi spaventano però e molto i prezzi che lungo questo percorso bisognerà ancora pagare, i segni e le cicatrici che questo clima e questi eventi potranno lasciare non sulla pelle ma nell’anima, nell’identità delle generazioni presenti e future. E sento tutta la responsabilità di noi adulti perché stiamo facendo troppo poco. La sento su di me ma la attribuisco anche alle forze politiche, prima di tutto del centro sinistra, ai troppi tentennamenti che ci sono stati nel recente passato, alle troppe tentazioni di «civettare» con gli umori, i malumori, le paure, i maldipancia degli «italiani veri», soprattutto al Nord. È un tema, quello del razzismo e dell’integrazione, che non consente di fare gli apprendisti stregoni, pena finire tutti quanti bruciati dal fuoco dell’intolleranza. E allora ci vorrebbe più coraggio e più chiarezza: per la cittadinanza ai nativi in Italia, per il voto, almeno alle amministrative, perché la scuola non torni ad essere (come sta drammaticamente succedendo) per pochi privilegiati, per abrogare l’odioso reato di clandestinità... E la lista delle buone azioni potrebbe continuare. Di battaglie da condurre ce ne sono davvero tante, ma tante sono anche le persone di buona volontà, che ne sono convinta sarebbero disponibili a fare la propria parte. Cominciamo a vederci sabato a Firenze per la manifestazione nazionale convocata dai senegalesi a cui spero che partecipino anche tantissimi italiani.

l’Unità 15.12.11
Picchiano le donne, ci rubano il lavoro. Chi?... Gli italiani


Mamma, posso andare al parco?». «No tesoro, meglio di no». «ma perché?». «Lo sai, in giro è pieno di gente strana». «Gente che viene da un altro paese?! Ancora con questa storia?». «Tesoro, quelli sono violenti, picchiano le donne e rubano». «Mamma, smettila di generalizzare: non hai mai visto un tuo connazionale picchiare una donna? Guarda che il tuo è razzismo! E dal razzismo nascono episodi come quello di Firenze o quello di Torino. Sai che dicevano i manifesti di Forza Nuova? C’era l’immagne di una ragazzina violentata con la scritta “Se fosse tua figlia? Chiudere i campi nomadi, espellere i Rom”. Capito?». «Che poi, qui in Italia l’80 per cento delle violenze contro le donne vengono commesse in famiglia. Mi domando come mai a qualche testa calda non sia mai venuto in mente di incendiare i condomini e cacciare i padri e i mariti». «Vabbé, io vado al parco». «No!». «Perché?!». «Quelli ci rubano il lavoro!». «Ma quelli chi?!». «Lo sai, e non dire che non è vero: quanti sono in regola con i contributi?». «Ma non puoi generalizzare! La maggior parte di loro sono onesti». «Onesti? Ma fammi il piacere! Come credi che abbia fatto questo paese a ridursi sul lastrico? Ci sono più evasori fiscali in Italia che in tutto il Corno D’Africa». «Sì, ma adesso è diverso. Ora che sono in Europa si sono integrati: hanno anche deciso di abbassare gli stipendi dei parlamentari al livello di quelli europei». «Non hanno ancora deciso. Dicono che per ridurre la spesa pubblica non serve più: è sufficiente togliere la carta di credito a Minzolini». «Vabbé, allora vado al centro commerciale». «No!! È pericoloso! Hai letto del ragazzino che ha ammazzato l’amico solo perché non voleva accendergli una sigaretta? Almeno una volta ammazzavano per un oleodotto, oggi gli basta un accendino». «Mamma... ». «Sì, lo so, non tutti gli italiani sono così». Dialogo tra una ragazzina senegalese e sua madre.

il Fatto 15.12.11
Immigrato, cittadino e prigioniero
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, ho appena imparato che per diventare cittadini italiani, coloro che nascono in Italia da genitori immigrati non solo devono avere compiuto 18 anni, ma dal giorno della nascita al diciottesimo compleanno non devono mai essere stati fuori dall'Italia, neppure per una gita scolastica. Ai giorni nostri, nella Repubblica italiana. È troppo assurdo, non ci credo.
Raffaella

PURTROPPO è vero. È la legge italiana da quando un partito separatista e secessionista detto Lega Nord ha governato l'Italia per concessione di Berlusconi e chissà chi e quando riuscirà a cancellarla. Come per molte norme introdotte dalla Lega, il vero scopo è cattiveria e persecuzione. Però si tratta di due decisioni diverse, che si sovrappongono, come per avere la certezza di essere stati abbastanza malevoli. La prima decisione è che nascere in Italia, per un bambino che studierà in Italia, imparerà come unica o prima lingua l'italiano e, crescendo, sarà completamente italiano, non conta nulla. Quel nuovo essere umano resterà di una cittadinanza per lui sconosciuta e continuerà a rischiare di essere “rimpatriato” a forza in un Paese che non conosce e di cui non sa nulla. Ma, al compimento dei 18 anni, è pronta un'altra trappola. Teoricamente dovrebbe diventare italiano attraverso una trafila burocratica lunga ma certa, con rischi sempre possibili di decisioni arbitrarie. Ma la trappola è questa: se sei uscito dal confine italiano per un solo giorno (magari per una gita scolastica o un evento sportivo) la cittadinanza è definitivamente negata. In altre parole si immagina che una persona nata, cresciuta, educata in Italia debba vivere in una sorta di arresto domiciliare del tutto incompatibile con ogni altra legge o trattato dell'Unione europea o di ogni altro Paese civile o organizzazione internazionale, È necessario notare due cose: i confini da non superare non sono quelli di Schengen, dunque di tutta Europa, ma gli antichi confini italiani. E la conseguenza è che il ragazzo o ragazza completamente italiani di cui stiamo parlando non resta in Italia legalmente come prima, sia pure da cittadino non italiano. Se ha fatto la gita scolastica deve essere espulso, forzato ad abbandonare il suo Paese (l'Italia) per un Paese che non conosce e di cui non sa la lingua. È folle tutto ciò? Certo che è folle (oltre che sadico) e che deve essere cancellato. Ma assieme alla Lega Nord che ha già fatto abbastanza danni all'Italia, nome, immagine, economia.


l’Unità 15.12.11
La rabbia di Firenze: «Chiudete Casapound»
Incontro con le istituzioni. Richiesta dei migranti: chiudete Casapound
Il governo del Senegal «Siamo indignati, fate subito chiarezza»
Firenze si ferma per lutto «Ora si faccia una nuova legge sulla cittadinanza»
La solidarietà della città: saracinesche abbassate e fiori dove i due senegalesi sono stati colpiti a morte. Riccardi e Camusso intervengono in Consiglio Comunale. Renzi: Firenze non è xenofoba.
di Osvaldo Sabato


Firenze il giorno dopo la strage razzista si sveglia frastornata, la gente non parla d’altro. I bandoni dei negozi sono rimasti abbassati, chiusi i banchi del mercato di San Lorenzo, nelle scuole di ogni ordine e grado si parla di integrazione e nel cortile della Dogana di Palazzo Vecchio si tiene un minuto di raccoglimento. «Credo di interpretare il pensiero di tutta la città afferma il sindaco Matteo Renzi dicendo che oggi come 18 anni fa non ci siamo svegliati in una città mafiosa dopo le bombe dei Georgofili, oggi dopo i morti di ieri non ci siamo svegliati una città razzista ma piuttosto come una città colpita al cuore dal razzismo. Sono sicuro però che con il lavoro di tutti la lotta alla xenofobia sarà vinta». È il giorno del lutto cittadino, voluto Renzi, e delle tante riflessioni sui motivi che hanno spinto un fanatico di estrema destra a uccidere Diop Mor e Samb Modou. Anche in piazza Dalmazia, dove tutto è iniziato, la gente porta dei fiori sul luogo dell’agguato, tanti i messaggi di solidarietà sia in italiano che in arabo. In serata quasi mille persone nella stessa piazza hanno partecipato ad un presidio di solidarietà. È qui che alcuni cittadini hanno attaccato cartelli di solidarietà alla comunità senegalese e semplici messaggi che condannano il razzismo. E mentre Firenze si ferma il «il governo del Senegal ha espresso la sua indignazione, in seguito all'omicidio dei nostri due compatrioti in Italia», come ha detto il portavoce del governo e ministro della Comunicazione, Mustapha Guirassy. «Non siamo una città xenofoba, rifiutiamo questa etichetta» ribadisce il sindaco Renzi anche il giorno dopo la strage.
CONSIGLIO STRAORDINARIO
La risposta dell’amministrazione comunale non si è fatta attendere, come dimostra il consiglio comunale straordinario, convocato urgentemente dal presidente Eugenio Giani. È nel Salone dei Cinquecento che nel pomeriggio vengono ricordati i due senegalesi morti, in un atmosfera commovente e composta. Dopo l’inno di Mameli e quello Europa Unita, che tradizionalmente danno inizio alla seduta, anche i giovani africani hanno voluto cantare il loro. Molto toccante un canto religioso senegalese. Per l’occasione è giunto a Firenze anche il ministro alla cooperazione internazionale Andrea Riccardi, nel capoluogo toscano c’è anche la leader della Cgil Susanna Camusso. Entrambi sono poi intervenuti nella seduta del consiglio comunale straordinario, dove ci sono il presidente regionale Enrico Rossi e quello provinciale Andrea Barducci, tanti i sindaci dell’hinterland fiorentino. Presenti anche l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, l’imam Izzedin Elzir e il rabbino capo Rav Yosef Levi. Chiudere Casapound è la richiesta di Pap Diaw, ex consigliere comunale di Rifondazione, uno degli esponenti di punta della comunità senegalese «bisogna dire basta ai luoghi che fomentano l’odio razziale» dice «non è tollerabile che nella civile Toscana resti aperto un luogo dove si coltiva l'odio. Da 15 giorni sul muro di casa mia c'è la sigla di Casapound. E' forse un avvertimento?». Dopo Torino, l’agguato di Firenze. «Quanto è avvenuto è potuto succedere perché è tornata a esistere un'ideologia politica razzista e fascista» dice Susanna Camusso, nel corso del suo intervento. «Penso aggiunge la segretaria della Cgil che la città di Firenze sia straordinaria, che abbia reagito. Ma forse la giornata di oggi deve servire a dire che dobbiamo fare presto delle cose. E allora dico al ministro Riccardi, seduto al tavolo della presidenza, che bisogna dare la cittadinanza a chi nasce qui. Bisogna impedire che la paura della crisi, dell'impoverimento e del lavoro motivi il fatto che ciascuno si chiuda in sè stesso e veda nell' altro un nemico. E allora regolarizziamo chi è nel nostro Paese» dice la Camusso. «Credo che la questione della cittadinanza dei bambini nati in Italia, figli di immigrati che lavorano in Italia, vada presa in esame in maniera molto seria» dice il ministro Riccardi «credo che questa decisione ha concluso debba maturare tra le forze politiche e nella società italiana. Su questo il Presidente Napolitano ha detto parole importanti».

l’Unità 15.12.11
Sotto la sede del movimento interviene la polizia. I senegalesi protestano anche nella capitale
Il leader Gianluca Iannone «Ho detto a tutti di stare calmi. Noi non predichiamo xenofobia»
Cortei e alta tensione Casapound nella bufera «Temiamo altro sangue»
A Roma la polizia ha disperso alcune persone vestite di nero che si erano staccate dal corteo dei migranti verso la sede di Casapound. Scritte sui muri a Padova. Iannone si difende: «Non predichiamo xenofobia».
di Mariagrazia Gerina


Il giorno dopo la caccia ai senegalesi finita in strage, Casapound cerca in tutti i modi di allontanare da sé ogni «responsabilità, politica, ideologica o morale». Il killer xenofobo era un loro «simpatizzante», certo. «Ma non c’è proprio nulla, nell’operato e nell’ideologia di Casapound, che possa ispirare xenofobia e odio per il diverso», assicura Gianluca Iannone, che da giovane militava con Maurizio Boccacci (arrestato ieri a Roma per antisemitismo e odio razziale) nella disciolta organizzazione Movimento Politico, e ora è leader nazionale dell’associazione per cui «simpatizzava» Casseri. «Fascisti del Terzo Millennio», si definiscono loro, che considerano “di casa”, l’ex Terza Posizione Gabriele Adinolfi. E ieri hanno ricevuto la solidarietà anche da Franco Freda, uno degli imputati (poi assolti) nel processo per la strage di Piazza Fontana. Proprio mentre i vertici di Casapound cercavano di prendere le distanze dal killer di Firenze.
«Chiudete Casapound», scandiscono in tutta risposta i senegalesi di Firenze. E lo stesso slogan è rimbalzato a Roma, tra i senegalesi della capitale che ieri sera hanno dato vita a una manifestazione improvvisata. Mentre alcuni giovani a volto coperto che gridavano «camerata basco nero...» sono stati dispersi dalla polizia, per il timore che si dirigessero verso la casamadre romana, in via Napoleone III.
Casapound grida alla «caccia alle streghe». A Padova denunciano è apparsa la scritta: «Casapound assassini, pagherete caro». Da Roma, Iannone avverte: «Ho dato ordine ai militanti e agli iscritti di mantenere il sangue freddo e gli occhi aperti... temo che si farà scorrere altro sangue». Con lui c’è anche Francesco Aracri, deputato del Pdl e uno dei boss locale della vecchia An. E alla voce «caccia alle streghe» annoverano anche l’arresto di Alberto Palladino detto Zippo denunciato per il pesteggio di alcuni militanti del Pd romano. Succursali in questi anni ne sono nate in tutta Italia. Firenze compresa, dal 2010. Ma è proprio a Roma, che Casapound ha la sua casamadre. Tutto nacque otto anni fa, con l’occupazione di uno stabile in via Napoleone III. Ex proprietà demaniale. Recentemente acquisito dal Comune di Roma, che in più occasioni ha patrocinato iniziative di Casapound.
ALL’OMBRA DI ALEMANNO
«Lo andiamo denunciando da tempo», rivendicano dall’associazione ebraica Miriam Novitch, che costantemente monitora le attività dell’associazione, che conta ormai 7 rappresentanti eletti a livello locale tra Roma e il resto d’Italia: «Più che chiudere Casapound, questione che riguarda la magistratura spiegano -, da anni chiediamo di recidere quei legami con il Campidoglio e con altre istituzioni locali, che invece, soprattutto a Roma, hanno fatto crescere a dismisura questi gruppi che si rifanno all’ideologia neofascista».
Il programma di Casapound, all’ultimo punto, prevede persino di «riscrivere» la Costituzione, compilata nella «scia dei carri armati stranieri». Ma è al punto 5 invece che va dritto alla questione immigrati. E prevede, «contro i gironi infernali della società multiraziale, la rimozione delle cause dell’immigrazione». Tra gli strumenti individuati, la «cooperazione», ma anche «la cessazione dei favoritismi nelle zone attualmente investite dall’ondata migratoria».
È su quella chiave che in questi anni sono stati scritti volantini e striscioni contro quelli che secondo loro si arricchiscono aiutando gli immigrati. Contro Ascanio Celestini, colpevole di aver portato a Viterbo uno spettacolo antirazzista. Contro la Caritas a Pistoia, accusata di essere «vettore di immigrazione». Contro quella di Milano, Bergamo, Brescia. «Stop immigrazione, riempie solo le vostre tasche», recitava la campagna lanciata un anno fa. «Né extracomunitari, né profughi ma mutuo sociale», hanno scritto quelli di Casapound lo scorso aprile sulla caserma Gonzaga, a Firenze. Il mutuo sociale è la loro proposta per dare la casa a chi non ce l’ha, caldeggiata anche dal capogruppo del Pdl capitolino Luca Gramazio. La premessa non proprio prodiga nei confronti degli immigrati, recita: «Prima agli italiani».

il Fatto 15.12.11
Duce, bandiere nere e “sangue freddo”: benvenuti a CasaPound
Il leader Iannone avverte: “C’è il rischio di nuova violenza”
E in serata tentato blitz contro l’organizzazione di destra
di Silvia D’Onghia


Ho dato ordine di mantenere sangue freddo e occhi aperti. La caccia alle streghe che si è scatenata dopo la strage di Firenze porterà a far scorrere altro sangue”. Detto, fatto. Gianluca Iannone, storico leader di CasaPound, ieri mattina ha convocato i giornalisti a Roma per dissociarsi dal “pazzo” che ha ucciso due senegalesi e per dare voce alla sua “paura”: “È una campagna mediatica contro di noi, Pd e Idv soffiano sul fuoco. Siamo noi le vittime della violenza”. Una profezia che ha impiegato otto ore per avverarsi. Ieri sera un gruppo di ragazzi vestiti di nero e a volto coperto è stato disperso dalla polizia a suon di lacrimogeni mentre tentava di avvicinarsi alla sede dell’organizzazione. “Camerata basco nero il tuo posto è al cimitero”, lo slogan ripetuto.
IL CLIMA dopo Firenze è pesante, il rischio è che il mai sopito “odio tra fazioni” esca dai palazzi e si trasferisca per strada. Gianluca Casseri, assassino di senegalesi, prima di togliersi la vita era uno di CasaPound. Iannone lo conosceva di vista, “partecipava alle nostre iniziative come tanti altri, era un tipo tranquillo, parlava poco. Ma quando mi hanno chiamato per dirmi cosa era accaduto, il suo nome non mi ha ricordato nulla”. Un “pazzo”, così lo definisce. “A nessuno può essere richiesta una perizia psichiatrica prima dell’iscrizione”. Si dissocia, scrive lettere all’ambasciatore senegalese a Roma e al sindaco di Firenze Renzi per chiedere incontri chiarificatori. Anche se c’è qualcuno che si impossessa del suo simbolo, la tartaruga ottagonale, per aprire la pagina Face-book “Gianluca Casseri è morto per noi”. Ma quando domandi se sia possibile che l’humus culturale che CasaPound rappresenta alimenti figure violente, ti viene citato Berto Ricci, uno dei fondatori della Scuola di mistica fascista, e un suo scritto sull’italianità. “L’immigrazione alimenta la guerra tra poveri – spiega Iannone –. La nostra sede romana è nel quartiere multietnico di Piazza Vittorio, non siamo xenofobi, ma l’immigrazione di massa umilia sia l’ospite che l’ospitante”. “In 10 anni di attività non ho mai difeso nessun militante da accuse di xenofobia, discriminazione razziale, sessuale o religiosa”, racconta Domenico Di Tullio, l’avvocato di Casa-Pound.
Ad accogliere i giornalisti sul portone del grande palazzo di via Napoleone III, al mattino, ci sono loro, i giovanissimi. Ti scortano al sesto piano, nella grande sala con parquet e vista su Roma in cui si tengono le conferenze. Si siedono lì, molto più numerosi dei cronisti. Si salutano stringendosi l’avambraccio. E quando li guardi, rivedi le facce di tanti cortei: capelli corti, visi sbarbati, felpe col cappuccio, qualche casco nero appeso al braccio. Quasi tutti maschi, ma anche alcune ragazze. Avranno 15 o 16 anni. Applaudono quando i leader finiscono di parlare, sono orgogliosi di appartenere a un gruppo fascista che negli anni continua ad aumentare il numero degli iscritti. Quattromila nel 2011, con sedi in tutta Italia, gruppi musicali, pub, librerie, bar, ristoranti. Occupazioni e sgomberi di polizia. Azioni di “panico mediatico”, blitz, incursioni nella casa del Grande Fratello, rivendicazioni sociali. Un gruppo di protezione civile, una onlus che partecipa a missioni di solidarietà all’estero, rugbisti e motociclisti. E un capo indiscusso, Iannone appunto, testa rasata, occhi severi e pizzetto lungo, un passato da militante della sezione “Acca Larentia” del Fronte della Gioventù. Uno che due anni fa è stato condannato in primo grado (si è in attesa della sentenza d’appello) per l’aggressione a un carabiniere, nel 2004 a Predappio.
LE PARETI di questa grande sala sono addobbate di manifesti incorniciati, ricordano gli incontri che si sono succeduti qui dal 2008, da quando – in quest’edificio occupato nel 2003 –CasaPound è diventata associazione di promozione sociale. I diari di Mussolini, la destra sociale, persino Che Guevara, “Aprendemos a quererte”, impariamo ad amarti. CasaPound si autofinanzia, attraverso la rete di locali, negozi, la produzione di magliette, una piccola “economia autarchica”. Sono tra gli enti che possono ricevere l’8 per mille. Ai concerti degli ZetaZeroAlfa partecipano duemila persone. Il romanzo “Nessun dolore” dell’avvocato Di Tullio ha venduto 15 mila copie. La faccia del Duce non è mai passata di moda.

l’Unità 15.12.11
Militia, cinque arresti «Vogliono la rivoluzione e un nuovo fascismo»
Blitz del Ros dei carabinieri contro l’organizzazione di estrema destra. Fra gli arrestati anche Maurizio Boccacci, fondatore del disciolto Movimento Politico Occidentale. Progettavano attentati contro la comunità ebraica.
di Vincenzo Ricciarelli


Progettavano attentati contro la comunità ebraica della capitale, incitavano all’odio razziale e pianificavano iniziative di proselitismo per chiamare alla ribellione e alla lotta armata. Cinque militanti dell’organizzazione neonazista “Militia” sono finiti in carcere ieri in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Roma Simonetta D’Alessandro su richiesta del pubblico ministero Luca Tescaroli. Fra gli arrestati anche Maurizio Boccacci, nome ben noto dell’estremismo nero romano: ex militante dell’Fnsi e del Fuan, Boccacci (compagno di scuola di Giusva Fioravanti) a metà anni 80 fondò il disciolto Movimento Politico Occidentale. Gli altri arrestati, sedici gli indagatI fra loro anche un sedicenne, sono Stefano Schiavulli (26 anni, di Roma), Giuseppe Pieristé (54 anni, di Ascoli Piceno), Massimiliano de Simone (43 anni, di Roma) e Daniele Gambetti, (26 anni, di Albano Laziale). Altre perquisizioni sono state invece eseguite dal Ros dei carabinieri nel Napoletano, a Perugia e a Salerno. I reati contestati agli arrestati sono l’associazione per delinquere finalizzata alla diffusione di idee fondate sull’odio razziale, l’apologia di fascismo, l'incitamento alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi.
L’ADUNATA NAZIONALE
L'indagine dei Ros, culminata con l’operazione di ieri, ha rivelato il proposito dell’organizzazione di fondare un nuovo fascismo, con un'intensa attività di proselitismo e propaganda, riuscendo anche a convocare un’adunata nazionale di “camerati”. I membri dell'organizzazione, attraverso la rivista bimestrale “Insurrezione” (sequestrata a maggio 2010 nel corso di una perquisizione alla “Palestra Popolare Primo Carnera” di Roma), sia con striscioni, scritte sui muri e manifesti, disseminati nella capitale, ma anche con riunioni e volantinaggio «diffondevano si legge nell'ordinanza idee fondate sull’odio razziale ed etnico nei confronti della comunità ebraica, del presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifci, di rappresentanti di istituzioni (quali il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il presidente del Senato Renato Schifani, il presidente della Camera Gianfranco Fini, e l'ex presidente degli Stati Uniti d'America, George Bush) nonché di cittadini romeni». Secondo il gip la palestra popolare Primo Carnera, sequestrata nel 2010, veniva impiegata per «svolgere l’attività di proselitismo e di indottrinamento politico, struttura utilizzata anche quale base logistica per l’effettuazione delle attività proprie della “organizzazione politica di stampo Nazional-Rivoluzionario”, con finalità antidemocratiche proprie del disciolto partito fascista».
LA STRATEGIA DI ASSALTO
Non solo, sempre secondo le accuse, i membri di Militia agivano «con il proposito di ricorrere alla violenza e di impiegare ordigni esplosivi per colpire gli obiettivi (come Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica) e di porre le basi di una “guerra rivoluzionaria”». Un proposito perseguito anche attraverso il tentativo di conquistarsi la ribalta mediatica e di stringere alleanze con altri gruppi. Militia quindi, secondo, il quadro ricostruito dal Ros e dagli inquirenti, preparava il salto: i militanti si legge «si attivavano per la costituzione di una struttura politica più ampia»: un’attività che mirava ad «aggregare attorno al gruppo Militia ulteriori movimenti con vocazione di estrema destra». I militanti, inoltre, avevano organizzato nella Palestra Primo Carnera «un’adunata nazionale», dove avrebbero partecipato «non meno di 87 “camerati” per fissare le linee guida» del nuovo movimento. Tutto verso una nuova e più grande organizzazione nazionale che, come la cellula di origine, doveva essere spiegano gli inquirenti «proiettata parimenti a perseguire finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando la violenza quale metodo di lotta, per fini di natura xenofoba e denigrando le istituzioni». Secondo il quadro tracciato dagli inquirenti l'attività del gruppo era promossa, organizzata e diretta da quattro degli arrestati, tra i quali spicca il ruolo di Maurizio Boccacci: attorno a lui, infatti, . La struttura originaria di Militia era formata spiegano gli investigatori da militanti di “Base autonoma”, riunitisi intorno a Maurizio Boccacci, dopo che questi si era allontanato, il 4 luglio 2008, da “Fiamma tricolore”.

Repubblica 15.12.11
Il virus dell'odio etnico
di Adriano Prosperi


Non è solo a Bruxelles che l´Italia è sotto esame. Esiste un altro esame che riguarda il tasso di civiltà del paese. E chi ci esamina sono i 5 milioni di abitanti che non sono ancora giuridicamente italiani e che cominciano a desiderare di non diventarlo perché temono non sia possibile convivere con noi.
I nodi sono venuti al pettine tutti insieme: e tutti insieme vanno affrontati. Con singolare coincidenza il tentato pogrom di massa di Torino e la sparatoria del ragioniere nazista di Pistoia rivelano una diffusione del virus razzista e dell´odio etnico in un´Italia senza attenuanti, l´Italia ricca, colta e civile delle due città che furono le capitali storiche dell´Italia risorgimentale: Torino e Firenze. Anche in questo caso il Paese è costretto a prendere brutalmente coscienza di qualcosa che è accaduto quasi sotto pelle, strisciando, riempiendo goccia a goccia gli interstizi sociali della convivenza, le maniere di pensare, i comportamenti, le pratiche istituzionali. Chi ricorda ancora il decreto Maroni sull´"emergenza nomadi" del 2008? Proprio in questi giorni, appena caduto il governo Berlusconi-Bossi, il Consiglio di Stato ha dato ragione alla sentenza del Tar di Roma che aveva bocciato il decreto e ha avviato lo smantellamento delle sovrastrutture amministrative create per quella minacciata, fantomatica emergenza. Ma chi smantellerà un pregiudizio che si è intanto radicato in profondità e si esprime nello stillicidio di una violenza quotidiana fatta di discriminazione a piccole dosi, per lo più impalpabile, diffusa nell´aria che si respira? Non basta la caduta del governo che ha lungamente e pervicacemente cavalcato il populismo e l´ostilità etnica come strumento di dominio sulle menti impaurite della sua base. È col suo lascito nella coscienza collettiva che si devono fare i conti. Si pensi a tutto il parlare di identità, l´odiosa parola che ha eretto un muro di differenza e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori, che non coincide con le abitudini e coi pregiudizi dell´autosufficienza.
E quando si parla di mercatini delle città italiane come quelli di Piazza Dalmazia e di San Lorenzo, si dovrebbe provare a fare il conto delle misure vessatorie contro quei tappetini stesi sui marciapiedi, contro i borsoni dei venditori africani. Noi forse le abbiamo dimenticate. Ma loro no: è sulla pelle dei discriminati che l´odio e la sopraffazione lasciano il segno. Noi, gli italiani: loro, gli altri. Ecco la parola che fa problema: italiani. È venuto il momento di ridefinire questa parola. Il problema, come ha segnalato il presidente Napolitano, è quello della cittadinanza: che da noi ha un connotato sostanziale del razzismo, impermeabile com´è al dato di realtà del nascere, vivere e lavorare in un luogo. È una questione urgentissima. I segnali di questi giorni hanno portato allo scoperto il fondo melmoso e fetido dove si è iscritto il razzismo come vincolo sociale tipico della società dove vige l´eccezione giuridica.
Un anno fa il rapporto sul razzismo in Italia firmato da Alfredo Alietti e Dario Padovan ha denunciato la diffusione di tendenze razziste nel 51% della popolazione italiana: un numero che coincide con la percentuale di chi si ritrae dalla partecipazione politica. Non a caso. Nella società dell´eccezione giuridica la cultura del razzismo è un sentimento di rifiuto e di diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori. È qui che bisogna incidere. E non bastano i buoni propositi. Certo è di buon auspicio il fatto che il ministro Andrea Riccardi abbia rilanciato l´invito giunto dal presidente della Repubblica proprio davanti alla tomba di Jerry Maslo, il sudafricano ucciso a Villa Literno. Ma, come e più che per altre urgenze italiane, quella culturale e giuridica del diritto di cittadinanza non può più essere rinviata. Ce lo diceva lo sguardo dei senegalesi riuniti a Firenze: quei morti loro devono diventare i nostri morti.

Repubblica 15.12.11
il dossier. La mappa dell'estrema destra
Dall’assalto ai rom alla furia omicida l´Italia scopre la polveriera nera
La diaspora neo-nazista si è fatta "cultura egemone", senso comune delle grandi cinture metropolitane
E in difesa dei militanti accusati di violenze si riaffacciano "vecchi maestri" come Franco Freda
di Carlo Bonini


Le mazze dei giustizieri nel campo Rom di Torino, il sangue senegalese innocente di Firenze, il culto osceno di "Militia" e il suo nazional-socialismo antisemita che dovrebbe farsi "avanguardia rivoluzionaria". In quattro giorni, il vulcano di risentimento e odio sociale su cui è seduto il Paese torna a dare segni di sé. E interpella innanzitutto una "diaspora" neofascista e neo-nazista che, negli ultimi dieci anni, è stata "cultura egemone", perché diventata "senso comune" nelle cinture urbane delle grandi aree metropolitane. «Purtroppo, temo che si sia arrivati oltre la soglia - dice Ugo Maria Tassinari, uno dei più acuti osservatori da sinistra della storia della destra in Italia dal dopo-guerra ad oggi - Perché nella radicalità della nostra crisi sociale ed economica, i codici di impazzimento dei singoli, come delle piccole comunità, si moltiplicano. Si rischia di non riuscire più a ricacciare il genio dalla lampada da cui è uscito». Un´urgenza di cui ora diventa in qualche modo indizio anche una voce a lungo silente come quella del neofascista Franco "Giorgio" Freda, imputato assolto in via definitiva per la strage di piazza Fontana. Ieri, con una lunga e-mail indirizzata anche a "Repubblica", ha difeso "CasaPound", da quello che definisce «un affronto grave», figlio della «menzogna antifascista». «In questa Napoli assoluta (intendo per l´immondizia a cielo aperto) che è il nostro Sistema - scrive - non è follia tentare ancora di nascondere il marcio che inquina l´aria, abbarbicarsi ancora sul fronte della Resistenza che fu?». Torino, Firenze, Roma riaprono un «album di famiglia» che, oggi, è rilegato in nero. Le "tribù" neofasciste d´Italia, la «fascisteria del Terzo Millennio» raccontano un pezzo del nostro presente, ma sono figlie legittime del nostro passato, da cui non hanno mai reciso le radici. Eccole.

CasaPound. Librerie, radio, web così l´ideologia diventa fabbrica
l tempo è stato generoso con CasaPound e il suo architetto, Gianluca Iannone (l´ottavo anniversario dell´occupazione dello stabile di via Napoleone III a Roma, prima sede dell´organizzazione, cade il 26 dicembre). Il contesto, la collateralità della giunta Alemanno (in estate, un Comune che piange miseria si è impegnato ad acquisire l´immobile occupato da CasaPound per 11,8 milioni di euro) hanno fatto il resto. I «fascisti del terzo millennio», la «fascisteria trendy» e trasversale del nostro presente sono loro. Di se stessi scrivono: «Costruiremo il mondo che vogliamo! La vita, così come ci è stata confezionata, la gettiamo volentieri nel cesso. L´uomo deve essere liberato. Il mercato uccide l´anima». Il «pragmatismo militante» delle "tartarughe" (il simbolo dell´organizzazione) si è fatto holding. 2 mila tesserati in tutta Italia, con sedi nel Lazio, Toscana, Umbria, Campania, Sicilia, Trentino, 15 librerie, 20 pub, 8 associazioni sportive, una web radio ("Bandiera Nera") con 25 redazioni, un mensile ("L´Occidentale") e un trimestrale ("Fare Quadrato"). Il «presidio del territorio», le occupazioni di immobili, le campagne e i "flash mob" contro "l´usura di Stato", un´ambiguità furba sui temi dell´immigrazione, dell´antisemitismo, sono diventate fabbrica di linguaggio, musica, in un Pantheon che è una maionese impazzita di suggestioni del ‘900. Non tutte necessariamente figlie del "fascismo sociale", certo tutte decontestualizzate per poter essere declinate nel presente. Arnesi da prendere a piacimento da uno scaffale. La presa su un´intera generazione (i nati dopo il ´94) è stata formidabile. Si è fatta, anche in questo caso, organizzazione ("Blocco Studentesco" ha superato le 11 mila preferenze nelle ultime elezioni studentesche provinciali a Roma e Manfredi Alemanno, figlio del sindaco, ne è uno dei leader) e presenza nelle curve degli stadi.

Forza Nuova. Xenofobi e antisemiti i crociati di Fiore custodi dell´ortodossia
 Custode di un´ortodossia nazionalsocialista clericale, razziale, xenofoba e antisemita, «Forza Nuova» è il suo padrone, Roberto Fiore. È l´esito del passaggio di secolo dell´esperienza di "Terza Posizione" (di cui Fiore fu tra i fondatori). Di un "ritorno" e di uno sdoganamento. Che porta la data del 25 marzo 1999, quando, dall´Inghilterra, dopo vent´anni di latitanza da "rifugiato politico", Massimo Morsello (ex Nar) rientra in Italia (Fiore lo seguirà il mese successivo), accolto in aeroporto dagli allora deputati di Forza Italia e Alleanza Nazionale Francesco Storace, Enzo Fragalà, Carlo Taormina, Teodoro Bontempo. L´idea di allargare a destra di An un consenso che peschi a piene mani nel pozzo nero della "destra" italiana antiabortista, antisemita, revisionista, xenofoba, nazionalista, omofoba, trova Fiore disponibile. L´impensabile, diventa un pezzo del paesaggio politico italiano degli anni 2000. Nel 2001, "Forza Nuova" si presenta alle elezioni politiche (13 mila voti alla Camera, 39 mila al Senato). Tra il 2003 e il 2006 è nel cartello di "Alternativa Sociale" di Alessandra Mussolini e le nuove elezioni politiche misurano il suo radicamento (255 mila voti alla Camera, 214 mila al Senato). Che si dimezzerà, almeno numericamente, nelle politiche del 2008 e alle europee del 2009. Presente con sedi in tutta Italia, "Forza Nuova" si muove spesso in rotta di collisione con "CasaPound", di cui insegue tuttavia l´agenda. Fiore lavora su uno stesso risentimento sociale, ma ha l´ambizione di trasformarlo in ideologia. In conflitto per la «purezza», per la «rigenerazione» che deve risvegliare il fantasma dell´uomo bianco. L´immigrato - è una delle ultime campagne di Forza Nuova - prima ancora che «concorrente» nel mercato della precarietà, è «portatore di rischio biologico». Quando "sputa" per strada o quando mette al mondo un figlio ammalato di tubercolosi.

Militia. I monaci dell´odio che coltivano l´eredità hitleriana
"MILITIA" è la storia di un´ossessione che si fa «progetto» di odio e «avanguardia rivoluzionaria». Un´ossessione figlia di chi "Militia" l´ha creata - Maurizio Boccacci - e del dna di una delle famiglie del neofascismo del dopoguerra. Quello di "Avanguardia Nazionale" e di uno dei suoi padri, Stefano Delle Chiaie. Boccacci la custodisce come un sacro Graal (tra le metà degli anni ‘80 e il 1993, prova a darle forma con il "Movimento Politico Occidentale"). Convinto che l´eredità nazionalsocialista, l´esperienza hitleriana, possano transitare nel XXI secolo e farsi «cuneo» tra i modelli sociali proposti dai regimi post-comunisti e dalle democrazie liberali di mercato. "Militia" ricorda una setta, prima che un´organizzazione. Per i numeri (i rapporti dell´Antiterrorismo la stimano inferiore ai 100 militanti attivi) e per il suo radicamento nel territorio (ha testa e gambe nella zona di Grottaferrata, in un fazzoletto di cintura extraurbana alle pendici dei Castelli romani), per i modi del suo leader, un monaco nero cui non interessa fare proselitismo, ma creare le condizioni per far detonare la rivolta. "Militia", esattamente come nella tradizione di "Avanguardia Nazionale", lavora sulla provocazione violenta, nelle parole, nei simboli, negli obiettivi dichiarati (la Comunità ebraica su tutti, ma anche i camerati che hanno "tradito" inginocchiandosi ad Auschwitz, come il sindaco Alemanno), perché quello è lo strumento «necessario» a gonfiare l´esasperazione e allargare le basi del conflitto. È un lavoro tetro di chi si percepisce "élite" su teste fragili, che ha buon gioco nell´assenza di memoria (o comunque nella sua interruzione), osceno nel richiamo alle teorie negazioniste, alla purezza della razza, all´antisemitismo, che "Militia" ripropone, aggiornando alla globalizzazione dei mercati del XXI secolo «il complotto demo-pluto-giudaico». Riproponendone gli stilemi e gli epiteti.

Corriere della Sera 15.12.11
Callaghan e l'«ordinaria follia» Così l'assassino si è preparato
«La battuta detta all'edicolante ispirata a Michael Douglas»
di Marco Imarisio


FIRENZE — Anche il pianto di un bimbo può diventare un rimorso. «Sa come sono le cose della vita, da quando è nato mio figlio avevo un po' abbandonato Gianluca». Enrico Rulli aveva in comune un romanzo scritto a quattro mani e un'amicizia lunga trent'anni con l'uomo che ha ucciso due venditori ambulanti in strada. «Era solo. Viveva in casa con il fratello e non gli parlava da anni, la madre stava male. Voleva scappare, per questo gli avevo dato l'appartamento di via del Terzolle. A me non serviva più, adesso ho una famiglia».
Gianluca Casseri è uscito da quella casa sapendo che non ci sarebbe più tornato. Per il suo ultimo giorno di vita ha pulito tutto, anche la vita che stava abbandonando. Ha portato via le lenzuola, svuotato gli armadi, fatto sparire le medicine, il rasoio, lo spazzolino da denti. Cancellare le tracce di una esistenza malata, lasciare solo qualche indizio come spiegazione. Al centro della scrivania sgombra ha lasciato un portapenne con dentro un proiettile usato della sua 357 Magnum. Dagli scaffali, ordinati, pieni di libri e dvd, erano state lasciate in evidenza le copie di alcuni film. Il primo è Ispettore Callaghan, il caso Skorpio è tuo, esordio di Clint Eastwood nella serie dedicata al poliziotto dai metodi brutali, molto brutali, che uccide i cattivi con la stessa pistola usata da Casseri per uccidere gli inermi. Gli altri sono Un giorno di ordinaria follia, con Michael Douglas cittadino modello che non ne può più dei soprusi di ogni giorno e dà di matto, e Dobermann, non proprio un capolavoro della cinematografia francese, monumento all'ultraviolenza ricordato solo per aver fatto conoscere Vincent Cassel e Monica Bellucci.
«Me li ha lasciati in eredità, perché è da lì che bisogna partire, dalle armi», Rulli ne è convinto, lo ha detto anche ai carabinieri che hanno bussato alla sua porta per trovare un filo conduttore nel vuoto che il suo amico ha lasciato dietro di sé. «Gianluca sognava la potenza, e sono convinto che martedì mattina abbia voluto interpretare quei film che lo ossessionavano. Quante volte mi ha parlato della scena dove Callaghan fa fuori un rapinatore di colore. E la frase che avrebbe detto all'edicolante che si è messo in mezzo, "Pensa bene a cosa ti conviene fare", secondo me l'ha presa da Michael Douglas in quel film».
Rulli è diverso dal suo amico, ha una famiglia tutta sua, un figlio di tre anni, un lavoro alla direzione fiorentina delle Ferrovie dello Stato. Rivendica una militanza giovanile nell'estrema sinistra, anche se con gli anni dice di essersi calmato, un tranquillo elettore democratico. «Ma Gianluca non li ha mai chiamati rapinatori di colore, no. Per lui erano "negri". Si definiva un razzista evoliano, ma solo da quando ha cominciato a stare davvero male, un anno e mezzo fa, ha cominciato a delirare per il ventennio fascista. Lo considerava l'unico degno governo avuto dall'Italia, e non sa quanto ne abbiamo discusso, davanti a una birra o a un liquore. Era diabetico, ma gli piaceva bere. L'ho visto per l'ultima volta lunedì. Era furioso con il medico che gli trattava la depressione. Io sto male, mi sento male, diceva, e quello mi dà una pacca sulla spalla».
Il piccolo mondo che si era lasciato alle spalle è in cima alle colline pistoiesi. Cireglio è il paese dei Casseri, quasi un centinaio dei 560 abitanti porta questo cognome. Due bar, un alimentari, un parrucchiere, e tutti che consegnano il ricordo del figlio strano di una famiglia strana, lui e suo fratello che non escono mai, camminano a testa bassa, una commissione alla posta e via a casa, al riparo dal mondo fuori. «L'avrò visto tre volte in vent'anni. Ma cosa vuole, non siamo mai stati una famiglia unita». Mario Casseri è il figlio di Bindo, uno dei quattro fratelli che costruivano case, e poi palazzi, compresa la Questura e la caserma della Guardia di finanza di Pistoia. «Poi litigarono, e l'azienda saltò per aria. Abbiamo venduto, e campiamo con gli affitti. Senza parlarci, nove cugini che vivono attaccati uno all'altro e non si rivolgono la parola da anni».
Mario allarga le braccia. Parla davanti alla sua villa, prato all'inglese, torrette e Mercedes sulla rampa del garage, a dieci metri in linea d'aria dall'abitazione del cugino, una palazzina a due piani, più modesta, sorvegliata da un auto dei carabinieri. La casa accanto è di un altro cugino, Marcello. Gente in casa, ma imposte abbassate. Sopra al citofono una targa in ceramica: «Fatti i cavoli tuoi».
Quassù non c'è nulla che racconti della vita di Gianluca Casseri, se non tanta solitudine. Bisogna tornare a valle, ai quaranta metri quadrati a due passi dal mercato di piazza Dalmazia. All'amico Rulli, a un mondo di ferrovieri tolkeniani, di nostalgici fascisti, a un immaginario riempito dalla pistola di Clint Eastwood. Dice il coautore di La chiave del caos che non era facile capire, immaginare. «Una volta eravamo in auto. Un lavavetri si avvicinò al semaforo, lui fece segno che non voleva e quello gli pulì lo stesso il parabrezza. Scese dall'auto e gli rovesciò addosso il secchio. Trecento metri dopo ne trovammo un altro. Al suo "no" l'extracomunitario fece un passo indietro. Gianluca gli diede la mano, e gli regalò dieci euro».
L'eredità dell'amico è tutta in quei film che gli ha lasciato, accompagnati da un bigliettino che adesso fa parte del mosaico di segni e indizi, che non bastano a trovare un perché. «Gli è scattata una molla nella testa, forse aveva avuto da ridire». Alla fine si torna all'inizio, alla prima versione, la logica da opporre alla follia. «Forse scriverò un libro sul mio amico, ma sinceramente non riesco a capire come sia potuto accadere». Enrico Rulli ha un'altra storia da raccontare, ma gli manca qualcosa che spieghi il capitolo finale.

l’Unità 15.12.11
Il leader democratico non ha gradito il blitz notturno: «Non tutto quel che è uscito ci piace»
Offensiva sull’asta tv e sull’Ici, allarme sulle manovre di Berlusconi. L’Idv non voterà la fiducia
Liberalizzazioni, il Pd attacca. Bersani: «Siamo stupiti dalla debolezza del governo sulle liberalizzazioni»
Il Pd annuncia battaglia su frequenze tv e Ici per la Chiesa: «Serve chiarezza». A Di Pietro: «Basta con gli insulti»
di M. Ze.


Il Pd non ha gradito affatto «il colpo di mano» in notturna in commissione Bilancio e Finanze che ha stoppato le liberalizzazioni della vendita dei farmaci. A Pier Luigi Bersani poi, non è piaciuta l’impostazione generale del governo sul tema e ieri durante una conferenza stampa per presentare la rivista on line «Tamtam democratico», diretta da Stefano Di Traglia, non ha risparmiato le critiche. «Siamo stupiti, se non stupefatti, dalla debolezza del governo sul tema della liberalizzazioni. Su questo la questione è ancora aperta» e la battaglia continuerà per le misure che non sono entrate nella manovra. Come la delicata per il centrodestra e per Silvio Berlusconi ancora di più partita dell’asta per le frequenze tv che avrebbe fatto fare cassa allo Stato e contribuito ad alleggerire le misure lacrime e sangue che, seppur ammorbidite, colpiranno gli italiani. «Non tutto quel che è uscito ci piace», ammette il segretario Pd, anche se alcune misure «vanno nella direzione che avevamo auspicato e che credo rechino il segno del nostro lavoro e del nostro impegno». Dall’Ici modulata in base al nucleo familiare, all’innalzamento del prelievo sugli scudati, all’indicizzazione per le pensioni fino a 1400 euro, il Pd ha incassato dei risultati, ma «il mondo non finisce qui e nei prossimi mesi continueremo a far valere le nostre idee. Non pretendiamo dice il numero uno del Nazareno che sia realizzato il 100 per cento, ma intendiamo che le nostre idee pesino».
Ed è su questi fronti che il Pd intende far pesare le proprie idee, ben sapendo che il Pdl farà la battaglia esattamente opposta. Ici per i beni immobili della Chiesa, asta per le frequenze, tobin tax... Sui beni della Chiesa «c’è bisogno di fare chiarezza dice Bersani -. Le norme sulle funzioni esclusivamente commerciali degli immobili hanno avuto un’applicazione ambigua e lo stesso cardinale Bagnasco lo ha riconosciuto». Quindi, aggiunge, «o si aggiusta la norma o se ne fa una nuova per uscire dall’ambiguità», così come sull’asta per le frequenze «dal governo ci aspettiamo una nuova valutazione. Bisogna prendere una decisione coerente con la situazione economica, non è tempo per concorsi di bellezza» e lo si faccia «o dentro questa manovra o fuori».
LA STRADA IN SALITA DI MONTI
E se Mario Monti alla fine riuscirà ad avere il voto di fiducia sulla manovra è evidente che dopo il percorso non sarà affatto in discesa. Berlusconi è pronto a giocarsi la partita delle elezioni anticipate a medicina amara fatta ingoiare agli italiani per mano del professore e non sua ed è chiaro sin da ora che se dovesse diventare reale il pericolo di dover pagare le frequenze non si farà troppi scrupoli a mettere in discussione l’appoggio di tutto il Pdl al governo.
Il Pd, dal canto suo, punta a portare a casa le liberalizzazioni e proprio la riapertura dell’asta, oltre ad una riforma della legge elettorale prima di tornare alle urne.
Ma sia i democrat che gli azzurri hanno anche un’altra spinosa questione da risolvere. Il Pdl con la Lega che alza i toni, vota contro la manovra e accusa Berlusconi di «farsela con i comunisti» il Pd con l’Idv che ha votato la fiducia a Monti ma è tornata di lotta e di piazza, non vota la manovra e accusa di «inciucio» quelli che si apprestano a farlo.
«Non so niente di inciuci torna a ribadire il segretario Pd -. Siccome vedo che questa parola viene rivolta anche a noi, non si permettano. Quel che facciamo è in assoluta trasparenza verso gli italiani e i nostri elettori». Nel Pd sono in parecchi, ormai, a vedere come fumo negli occhi un’alleanza futura con l’ex pm «che da quando c’è il governo Monti sembra attento soltanto ai sondaggi e non al bene del Paese», come osserva Antonello Giacomelli. Bersani nei giorni scorsi è stato chiaro, chi «va per funghi adesso», non è che poi torna in vista delle elezioni.

l’Unità 15.12.11
Troppi passi indietro a danno dei cittadini
di Enrico Cinotti


S e l’intenzione era quella di spalancare le finestre per rendere più concorrenziale il sistema italiano, il governo Monti, con gli emendamenti alla manovra, ha prodotto il risultato contrario: ha spalancato le porte a vecchie e nuove corporazioni, facendo marcia indietro sulle liberalizzazioni e dando l’impressione di riportare indietro le lancette dell’orologio.
Pericolosamente indietro, quasi al punto in cui le aveva lasciate il precedente governo Berlusconi, durante il quale nulla è stata fatto per aprire il mercato alla concorrenza e per difendere il potere d’acquisto dei consumatori. Sulla liberalizzazioni dei taxi, così come sulla vendita dei farmaci di fascia C nelle parafarmacie, o sulla nuova Autorità dei trasporti dai cui «monitor» scompaiono le autostrade, e prima ancora sulla distribuzione dei carburanti, è stato l’esecutivo, e non il Parlamento, a ingranare la retromarcia cedendo ai ricatti delle
singole corporazioni, sempre ben protette dai partiti di centrodestra. Il colpo di mano del governo sui farmaci di fascia C è emblematico. La resa su questo provvedimento è stata lenta ma progressiva. Alla fine il governo, nonostante la resistenza del ministro della Salute Renato Balduzzi, ha ceduto completamente alla minaccia di serrata dei farmacisti e all’invito a «ripensare» completamente il provvedimento firmato da 73 parlamentari di Pdl e Terzo Polo capeggiati dal senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri, farmacista e presidente dell’ordine dei farmacisti di Bari.
L’intero articolo 32 della manovra è stato stravolto da un emendamento del governo: torna esclusivamente alle farmacie la competenza della vendita dei farmaci C con ricetta medica ripetibile e non. Le parafarmacie e la grande distribuzione (nei Comuni con non meno di 12.500 abitanti), potranno dispensare una piccola lista di farmaci in più. Un risultato deludente. Qui non si tratta di difendere i parafarmacisti contro i farmacisti, ovvero proteggere una nuova lobby. In gioco c’è la difesa del potere d’acquisto dei consumatori (la liberalizzazione dei soli farmaci da banco dal 2006 ad oggi ha prodotto 400 milioni di risparmio all’anno), la creazione di nuova occupazione (sono 3.824 le parafarmacie in Italia che danno lavoro a 8mila persone) condizioni attraverso le quali si può davvero tornare a crescere.
Tutto questo è stato archiviato dal governo Monti. Prendiamo i taxi. Dall’avvio di una serie di misure di liberalizzazione alle attività economiche, come «il divieto di esercizio di una attività economica al di fuori di una certa area geografica e l’abilitazione ad esercitarla solo all’interno di una determinata area», che partiranno dal primo gennaio 2012, sono stati «graziati» i tassisti. Di fronte a queste retromarce, viene da chiedersi dove sia finito Super Mario che, da commissario europeo alla Concorrenza, è stato in grado di sconfiggere un colosso come la Microsoft mentre in poche ore non è stato in grado di resistere agli assalti corporativi nostrani.
Ma il governo ha deciso anche di tenere al riparo della vigilanza sulla concorrenza le concessionarie autostradali. Nei lavori delle commissioni di Montecitorio le competenze della nuova Autorità di vigilanza sui trasporti venivano estese, oltre che alle ferrovie, agli aerei e ai porti, anche alle «infrastrutture e reti stradali e autostradali». Poi la battuta d’arresto: il monopolio autostradale resta inviolabile. Per non parlare poi dei carburanti. Il governo ha deciso un aumento immediato delle accise mentre, su pressione dei petrolieri, ha rinunciato fin da subito alla liberalizzazione del settore della distribuzione.
È un deficit molto serio quello manifestato dal governo. Che dovrà pure sopportare la zavorra di una coalizione composita, e in questo caso di un centrodestra ostile alle liberalizzazioni, ma che rischia così di assumere imbarazzanti caratteri di continuità politica. Ciò che non è stato fatto nella manovra, può essere fatto dopo. Ma deve essere fatto al più presto. Così come deve essere subito indetta l’asta per l’assegnazione delle frequenze della tv digitale. Di certo non è vero, come sostiene qualcuno in malafede, che siamo di fronte ad un governo “tecnico” liberale frenato da una politica interamente dipendente dalle corporazioni. È vero il contrario: che alcune forze politiche, il centrosinistra innanzitutto, spingono per liberalizzare e il governo invece frena per non inimicarsi i rappresentanti delle lobby più forti.

La Stampa 15.12.11
Carceri. L’inevitabile clemenza
di Carlo Federico Grosso


Paola Severino ha annunciato che cercherà di fare approvare, già al Consiglio dei Ministri di domani, un decreto-legge destinato a ridurre il sovraffollamento carcerario: dovrebbe trattarsi dell’allungamento a 18 mesi del periodo residuo di pena che, con alcune limitazioni, un detenuto può scontare agli arresti domiciliari anziché in carcere. Tale provvedimento, secondo i calcoli, dovrebbe determinare la scarcerazione immediata di 3000-3500 detenuti.
A tale decreto dovrebbe seguire un disegno di legge che, sempre nell’ottica di una riduzione del numero dei detenuti, dovrebbe allargare l’ambito delle pene alternative, estendere l’utilizzo dell’affidamento in prova, procedere alla depenalizzazione di alcuni reati.
Tra le misure immediate non vi sarà tuttavia il «braccialetto elettronico», poiché, ha soggiunto il ministro, non è stata ancora acquisita la certezza del suo funzionamento e la ragionevolezza dei suoi costi.
In linea di principio questo programma è condivisibile. Appare giusto utilizzare, quando non vi siano controindicazioni, gli arresti domiciliari quale alternativa al carcere nel periodo finale dell’esecuzione penale; è condivisibile pensare ad uno sfoltimento dei reati con la depenalizzazione degli illeciti di minore allarme sociale; è sacrosanto ipotizzare una vasta gamma di pene alternative (gli stessi arresti domiciliari utilizzati quale pena irrogabile in luogo della reclusione, il lavoro a favore della collettività, le interdizioni da un’attività o da una professione, un complesso articolato di pene pecuniarie proporzionate alla capacità economica del reo).
Appare, d’altronde, altrettanto ragionevole una pausa di riflessione nei confronti del cosiddetto «braccialetto». Esso, introdotto da tempo fra gli strumenti ai quali affidare l’esecuzione della pena, non ha, fino ad ora, dato i frutti sperati. Il suo impiego è risultato costoso e soprattutto poco affidabile (diversi milioni pagati per circa 400/450 braccialetti di tecnologia obsoleta e quindi poco efficienti). Di qui, pertanto, l’opportunità di valutare se e come proseguire nell’esperienza, tanto più che la convenzione stipulata a suo tempo fra ministero dell’Interno e Telecom per la gestione di tale partita è in scadenza, e si presenta, di conseguenza, una rilevante opportunità per risparmiare.
In linea di principio, pertanto, nulla da obbiettare al ministro: la linea imboccata va, sicuramente, nella direzione giusta. Ho, soltanto, un dubbio. La popolazione carceraria assomma, oggi, a 67.000 detenuti a fronte di 45.000 posti/carcere regolamentari. L’affollamento è, di conseguenza, assolutamente inaccettabile. Non a caso nelle carceri si è verificato, negli ultimi anni, un numero impressionante di suicidi e di tentativi di suicidio; di recente vi sono state violenze e sommosse destinate verosimilmente ad aumentare. Un intervento forte, in grado di rimediare ad una situazione non più sostenibile, sembrerebbe quindi indispensabile e urgente.
Ed allora mi domando: che effetto avrà assicurare, con il previsto decreto-legge, la scarcerazione di 3000/3500 detenuti? Sarà un bene per i poco più di tremila fortunati che lasceranno il carcere. Ma per i restanti 63.000/64.000 che resteranno reclusi cambierà qualcosa? Mi domando, ancora: quale incidenza potranno avere, sulla sopra menzionata situazione d’insostenibile affollamento, gli ulteriori provvedimenti che il ministro pensa d’inserire nel successivo disegno di legge programmato?
Come ho già detto, sul terreno della politica-criminale in materia di pena e di esecuzione penale le misure complessivamente ipotizzate vanno sicuramente nella direzione giusta. Con il tempo l’insieme di tali misure, unitamente alla costruzione di nuovi istituti carcerari predisposta dai precedenti Guardasigilli, potrà determinare una situazione caratterizzata da un rapporto più ragionevole fra numero di detenuti e numero di posti/carcere disponibili. Ma l’urgenza, oggi, è un’altra. Per ristabilire un minimo di umanità e di decenza nelle prigioni occorrerebbe ridurre entro pochi mesi, forse poche settimane, di quantomeno ulteriori 15.000 unità la popolazione carceraria.
Ho letto che il ministro, nel tracciare il quadro delle cose fattibili in materia di giustizia da un governo tecnico destinato a durare poco più di un anno ed a convivere con una situazione politica difficile, ha dichiarato che avrebbe fatto soltanto proposte in grado di unire, mentre avrebbe scartato ogni iniziativa destinata a dividere.
In questa prospettiva, facendo specifico riferimento al contesto carcerario, ha escluso che per risolvere la situazione avrebbe fatto, mai, ricorso ad istituti quali l’amnistia e l’indulto, attorno ai quali si sarebbe, a suo dire, inevitabilmente scatenata una bagarre.
E se, per caso, la situazione nelle carceri dovesse diventare ingestibile? E se l’unico modo per ristabilire in qualche modo ordine e vivibilità fosse, proprio, il ricorso agli istituti di clemenza? Continuerebbe, il ministro, a chiudere ogni prospettiva a tale, a quel punto forse inevitabile, tipo di intervento?

l’Unità 15.12.11
Il manifestante che scuote il mondo
di Massimo Adinolfi


La persona dell'anno, secondo il settimanale Time, sono in tanti. Sono i manifestanti di piazza Tahrir e quelli di Occupy Wall Street; sono gli indignados di Puerta del Sol, e quelli di casa nostra; sono le masse arabe ma anche i giovani occidentali: tutti con la stessa, angosciosa paura di non avere un futuro, o con la stessa, rabbiosa speranza di poterselo nuovamente conquistare. Sono anche quanti protestano oggi contro Putin o contro Assad, a Mosca e a Damasco. Fra poco non ci sarà capitale che non avrà la sua manifestazione (il manifestante è, di regola, un animale di città, nervoso e moderno come lo spazio urbano). Sono, insomma, tutte le figure che assume la protesta oggi: contro i regimi autoritari apertamente antidemocratici, certamente, ma anche contro i regimi fiaccamente democratici, che rischiano di coltivare semi di autoritarismo strisciante.
Sono le voci di una nuova, sacrosanta partecipazione. La persona dell'anno sono, insomma, le moltitudini. Se la si mette così, però, si vede subito che un problema c'è. Per la politica e per le istituzioni. Cioè per quelle forze che nella grande tradizione europea hanno ricevuto il compito di mettere in forma le istanze prepotenti e disordinate dei molti: non per ignorarle o reprimerle, ma per comporle in un quadro compatibile con le ragioni di tutti. Poiché però, negli ultimi tempi, ci siamo baloccati con la gente che ci guarda da casa o con la società civile che lavora e non ha tempo da perdere, con il sì o con il no di sondaggi fatti scrupolosamente al telefono o con utenti, spettatori, onsumatori e altre, ordinarie figure dell'interesse privato, non fa meraviglia che questa improvvisa rivitalizzazione della scena pubblica faccia l'effetto di un'esplosione inattesa, scomoda e persino un po' preoccupante.
Al tempo delle prime ondate di protesta giovanile, studentesca e operaia, negli anni Sessanta e Settanta, la funzione ordinatrice della politica veniva messa in discussione in quanto pedagogica, paternalistica e anzi, per dirla tutta, repressiva. Non si sapeva allora che era quasi un complimento. Oggi quella stessa funzione, e i partiti chiamati a esercitarla, rischiano di essere rifiutati per nessuna di quelle ragioni ma, più prosaicamente, perché noiosi, asfittici: privi di senso. O, più frequentemente, perché inutili e autoreferenziali: in buona sostanza, perché privi di potere. La critica più severa che alla politica viene dalle manifestazioni sta infatti in ciò, che in tutto il mondo le proteste si svolgono dinanzi ai palazzi del potere politico solo quando non c'è il Parlamento. Quando il Parlamento invece c'è si manifesta lo stesso, però da un'altra parte: davanti a vecchi taccuini e nuove digital camera, o di fronte alle banche e ai templi della finanza. La copertina del Time premia così il nuovo che cerca di erompere di sotto alla scorza di un mondo destinato, forse, a perire: sicuramente a cambiare profondamente. Ma il nuovo significa anche, molto impoliticamente, quello che è alla moda. C'è in effetti una inconfessabile solidarietà fra i manifestanti che invadono le strade tutti colorati e le esigenze spettacolari dei media, così come c'è fra i «tempi» degli uni e degli altri. Che sono brevi, improvvisi, intermittenti. Buoni per l'interdizione, un po' meno per la costruzione.
Ma è sempre la stessa storia. Può darsi che suoni ripetitiva come tutte le morali delle favole, e figuriamoci se si può far la morale a un manifestante. Ma al fondo non si tratta che di quello: di inventarsi sì nuove forme di partecipazione, ma poi anche di dare ad esse prospettiva e durata. La buona notizia, comunque, resta che il bisogno di politica non scompare dalla vita degli uomini, neanche dopo trent'anni di declino. E neanche col più impeccabile dei governi tecnici.

il Fatto 15.12.11
Israele. Ultra destra all’attacco delle moschee


Gerusalemme ha vissuto ieri un’altra giornata di tensione, iniziata con un gesto distensivo da parte del governo israeliano, che ha riaperto al pubblico la controversa rampa di accesso “dei Mugrabi” alla Spianata delle Moschee, ma proseguita poi con nuove violenze. In pieno centro della città estremisti di destra hanno cercato di appiccare il fuoco a una moschea in abbandono, dove hanno anche tracciato scritte offensive nei confronti dell’Islam. In seguito, in un rione religioso della città, la polizia si è scontrata con i seminaristi di un collegio rabbinico che cercavano di impedire l’arresto di sei attivisti di estrema destra sospettati di essere coinvolti nelle turbolenze verificatesi in Cisgiordania. Fra queste, un attacco di coloni ultrà a una base militare israeliana. Nelle stesse ore gli animi c’è stato un nuovo attacco a una moschea (in stato di abbandono in una via di Gerusalemme ovest), la seconda profanazione del genere condotta da ebrei estremisti in una settimana. Il rischio, ha avvertito l’ex ministro della difesa Benyamin Ben Eliezer (laburista), è che essi passino alle armi da fuoco, dopo aver minacciato di morte i dirigenti di Peace Now.

Repubblica 15.12.11
L’anatema di Peres sulla destra "Israele, provo vergogna"
Dopo la stretta sulle Ong pro-palestinesi e i canti dei muezzin
Gelo tra il presidente e il premier Netanyahu "Questo è uno sfregio ai valori democratici del nostro Paese"
di Fabio Scuto


GERUSALEMME - È molto allarmato il presidente israeliano Shimon Peres. L´ondata di provvedimenti che la "nuova destra" sta presentando in Parlamento, la fobia maccartista che è cavalcata da diversi schieramenti politici, le misure restrittive nel culto per i musulmani, hanno fatto indignare il premio Nobel per la Pace; l´ultimo "grande vecchio" d´Israele può permettersi di dire ciò che vuole, anche criticare apertamente il pensiero che va per la maggioranza fra il "Likud" del premier Benjamin Netanyahu e "Israel Beitenu", guidato dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. I rapporti con il premier Netanyahu non sono mai stati idilliaci, ma nell´ultimo anno – specie dopo i no del premier alla trattativa di pace con l´Anp - si sono deteriorati al punto che i due non si rivolgono la parola da mesi.
Non ha dubbi il "grande vecchio" d´Israele a definire di «vergogna» i sentimenti che prova davanti a tutta una serie di leggi dal sapore liberticida: quella che impone limiti ferrei ai finanziamenti stranieri alle Ong attive per la pace e i diritti umani, quella che minaccia di strangolare i media non allineati con risarcimenti stellari per i presunti casi di diffamazione dei potenti; passando per quella contro il "rumore molesto" dei muezzin che chiamano alla preghiera i fedeli musulmani. La proposta di legge di Anastasia Michaeli, l´ex miss San Pietroburgo diventata dopo l´ingresso in politica star di "Israel Beitenu", doveva essere votata lunedì in Commissione, ma Netanyahu ha spuntato un rinvio di 2 settimane, consapevole che una simile decisione provocherebbe solo la rabbia dei musulmani e con la popolazione araba la situazione è già abbastanza tesa. La proposta della Michaeli indigna il Capo dello Stato: «Mi vergogno personalmente che si cerchi di far approvare leggi come questa».
Peres, nel colloquio col giornale Yediot Ahronot, non ha usato questa volta i toni morbidi del diplomatico di razza e ha denunciato quella che a suo parere rischia d´essere «una marcia verso la follia» e uno sfregio ai valori democratici di Israele. Fissare tetti draconiani alle donazioni di Stati stranieri alle associazioni umanitarie israeliane, dice il presidente, significa metterle in ginocchio e lasciare il controllo sui diritti umani in Israele solo a gruppi con base all´estero. Una decisione «insensata», ha aggiunto polemico, tanto più se si tiene conto che un uomo d´affari straniero - un magnate ebreo Usa che sostiene organizzazioni non governative d´estrema destra legate al movimento dei coloni - può al contrario «costruire un edificio a Sheikh Jarrah - rione arabo di Gerusalemme est - senza nemmeno essere tassato».
I dubbi del presidente riguardano anche il crescere degli atti di violenza dei coloni legati alle organizzazioni dell´ultra-destra. Ieri notte a Gerusalemme è stata vandalizzata una moschea e atti di intolleranza sono stati compiuti a Nablus e a Ramallah. E´ la vendetta di questi gruppi di estremisti – gran parte dei quali sono venuti dagli Usa – per lo sgombero di alcuni "avamposti" illegali in Cisgiordania ordinati da Netanyahu.

Repubblica 15.12.11
I nazionalisti al governo hanno cambiato i vertici del celebre Uj Szinhàz Gli intellettuali scendono in piazza, le star mondiali cancellano le esibizioni
Budapest, sipario sulla cultura l´ultradestra si prende il teatro
di Andrea Tarquini


Il direttore sarà un attore di piccolo calibro, estremista e con posizioni antisemite
Lettera aperta degli scrittori ungheresi: non vi faremo rappresentare le nostre opere

Ora sono nel mirino i grandi teatri. Sotto la destra nazionalista (Fidesz) del premier Viktor Orban, la normalizzazione neocon continua, quasi remake da destra di Praga dopo l´invasione russa. Pubblico e intellettuali non ci stanno: scendono in piazza, minacciano boicottaggi. Star mondiali cancellano concerti. In una lettera aperta, i più prestigiosi registi e direttori di teatro europei protestano, solidali con i colleghi magiari. A Budapest infuria la guerra del teatro. Il vertice del prestigioso Uj Szinhàz (Nuovo teatro, uno dei più importanti nella vivace, splendida capitale) sta cadendo in mano all´ultradestra. Il futuro direttore è un noto estremista, apertamente antisemita.
«È la lotta decisiva contro la globalocrazia liberale, teatro e cultura torneranno autenticamente nazionali», dice Istvan Csurka, 77 anni, il più noto e influente intellettuale dell´ultradestra antisemita nella "nuova Europa". Appoggiato da petizioni, vuole diventare sovrintendente dello Uj Szinhàz. Il nuovo direttore sarà Gyorgy Doerner, 58 anni. Attore di piccolo calibro, doppiatore di Mel Gibson. Schierato con Jobbik, il partito fascistoide e antisemita che alle politiche 2010 ha conquistato il 17 per cento dei consensi, combatte da destra il governo Orban e ispira la Magyar garda, milizia razzista ufficialmente vietata ma tranquillamente attiva.
Il concetto di cultura nazionale deve imporsi, dice Sandor Poerzse, stratega di Jobbik. Proteste in piazza di attori e pubblico però pesano sul potere di destra. Come pesa la lettera aperta degli scrittori ungheresi (minacciano di vietare la rappresentazione di loro opere al teatro), e il gesto clamoroso del grande direttore d´orchestra Christoph von Dohnàny: ha cancellato un concerto a Budapest dopo l´ennesima sparata antisemita di Csurka contro «lo strapotere ebraico» in economia e cultura.
Tenta una parziale marcia indietro Istvan Tarlos, uomo di Orban e sindaco di Budapest. Nel collegio di esperti che doveva esprimersi sul nuovo vertice del teatro, i suoi rappresentanti si sono battuti con successo per gli ultrà. Ma ieri Tarlos, imbarazzato dall´ultimo sfogo razzista di Csurka, ha chiesto a Doerner, quando entrerà in carica come direttore, di non fargli un contratto da sovrintendente, magari di limitarsi a rappresentare le sue opere.
Lo Uj Szinhaz, ha promesso Doerner, cambierà nome: diverrà Teatro del fronte nazionale. Offrirà un cartellone da cui opere non omogenee all´autentico pensiero nazionale sarà esclusa. «Noi rappresentiamo la cultura nazionale, non il consenso liberale», ha scritto il suo mentore Csurka. Fu a un passo dal definire l´11 settembre «atto di liberazione dal soffocante potere israeliano«. Nel suo settimanale Magyar Forum spara a zero a ogni numero contro lo ‘idegen vér´, sangue straniero nemico della patria. La protesta degli intellettuali europei ha fatto frenare il partito di governo almeno sulla nomina di Csurka, ma non su quella di Doerner. In molte città del paese i direttori teatrali sono già cambiati. Il prossimo bersaglio è il grande Nemzeti Szinhàz, il teatro nazionale diretto dall´intellettuale liberal di fama europea (e gay dichiarato) Ròbert Alfoeldi. Spariscono persino le statue: il monumento ad Attila Jòzsef, grande poeta antifascista e amico di Thomas Mann, lascerà piazza del Parlamento. E in tutto ciò l´Unione europea tace.
(ha collaborato Agi Berta)

il Fatto 15.12.11
Nella Russia sovietica c’è chi sogna piazze arabe
Sta davvero nascendo un movimento L’impero di Putin per la prima volta ha paura
di Carlo Antonio Biscotto


Il primo indizio il 20 novembre al termine di un incontro di wrestling: mentre salutava il vincitore russo definendolo nastoyashii Russki bogatyr – vero eroe russo – lo zar Vladimir Putin fu fatto oggetto di una plateale contestazione. Un fatto senza precedenti che a David Remnick, come scrive sul New Yorker, fece venire in mente un evento altrettanto straordinario accaduto ventuno anni prima sulla piazza Rossa di Mosca durante la sfilata del 1° maggio. In quella circostanza all’improvviso migliaia di persone smisero di marciare e voltandosi verso Gorbaciov e gli altri dirigenti sovietici urlarono la loro rabbia: “Dimettetevi”, “Vergogna! ” e srotolarono uno striscione dal contenuto esplicito: “Basta con il fascismo rosso! ”. Con una non irrilevante differenza: 21 anni fa la televisione di Stato trasmise l’incidente, mentre a novembre le immagini della contestazione a Putin sono state censurate. Alexei Navalny, il blogger più noto tra gli esponenti del dissenso, parlò, con un po’ di esagerazione, di “fine di un’epoca”. Appena due giorni dopo Putin, pur essendo atteso, non si fece vedere ad un concerto contro la droga a San Pietroburgo, facendosi sostituire dal vice primo ministro Dmitri Kozak, cui toccò in sorte una bella salva di fischi. Il portavoce di Putin, Dimitri Peskov, si limitò a dichiarare: “La presenza del primo ministro non era prevista”.
MEMORIAL è una organizzazione per la tutela dei diritti umani, fondata a Mosca nel 1987. Tra i suoi iniziali obiettivi figurava il riconoscimento delle vittime dello stalinismo e della repressione comunista. Memorial fu tollerata, ma mai riconosciuta dal partito. Nel 1989 al funerale di Andrei Sacharov, Gorbaciov chiese alla vedova, Elena Bonner, se poteva fare qualcosa per lei. Secca la risposta: “Riconosca Memorial”. Comunque Memorial esiste ancora, l’Urss no. Oggi Memorial è un centro di ricerca e una miniera di informazioni sugli ultimi venti anni di storia russa e, in modo particolare, sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia e non solo. Tra i fondatori di Memorial c’è lo storico Arseny Roginsky il cui padre è morto nelle prigioni di Stalin. “Sta nascendo in Russia – dice Roginsky – una vera società civile. E questo è il dato di gran lunga più significativo”. Gli archivi di Memorial sono stati una preziosa fonte di informazioni per moltissimi giornalisti russi tra cui Anna Politkovskaya, fatta assassinare a Mosca nel 2006 dal presidente ceceno Ramzan Kadyrov. Vicina a Memorial era anche Natalya Estemirova, intrepida giornalista cecena. Nel luglio 2009 fu sequestrata a Grozny e il suo corpo fu rinvenuto tempo dopo in Inguscezia.
Oggi quei giorni di terrore li ricorda Oleg Orlov, responsabile della sezione diritti umani di Memorial, che racconta come nel 2007 fu sequestrato a Nazran, Inguscezia, insieme a tre giornalisti televisivi. L’anno passato è stato denunciato per diffamazione da Kadyrov che, parlando alla televisione cecena, lo accusò di “essere profumatamente pagato dall’Occidente” e di essere “un nemico del popolo”. Classico esempio di linguaggio stalinista. Se in Cecenia si rischia la vita, in Dagestan forse non si corre questo pericolo, ma ci vuol del coraggio per informare liberamente i lettori. Nadira Ysayeva, redattrice di Chernovik, è stata rinviata a giudizio per “incitamento alla violenza ” e per aver diffamato i servizi segreti russi. “In Dagestan non ti uccidono”, dice. “Usano un altro metodo: ti calunniano mettendo informazioni false in rete e cercano di distruggere la tua credibilità”.
Ma le cose stanno cambiando, sostiene l’ambientalista Yevgenia Chirikova, avvicinatasi da poco alla politica per difendere il patrimonio boschivo dalla speculazione: “Putin e Medvedev sono nervosi; sentono che il vento sta cambiando e sanno perfettamente di essere dei ladri. Per questo hanno il terrore di qualunque forma di protesta”.
La gente è scesa in piazza cantando “Putin è un ladro” e chiedendo di annullare le elezioni. Non si è trattato di una “piazza Tahrir” russa, ma per la prima volta si respira l’aria del cambiamento.

La Stampa 15.12.11
L’Europarlamento chiede di rifare le elezioni in Russia
Il Comune di Mosca autorizza nuove manifestazioni d’opposizione
di Anna Zafesova


La piazza russa conquista un alleato a Strasburgo: il Parlamento europeo ieri ha chiesto di tenere in Russia «nuove e giuste elezioni» alla Duma. Poche ore prima del vertice UeRussia i deputati hanno dichiarato in una risoluzione che lo svolgimento delle elezioni del 4 dicembre scorso dimostra che Mosca «non rispetta gli standard elettorali» europei. Le segnalazioni di frodi, brogli, irregolarità durante il voto e lo spoglio, e di accesso non equo alle elezioni prima, hanno spinto l’Europarlamento a chiedere al Cremlino una nuova consultazione, che permetta a tutti i partiti d’opposizione di partecipare liberamente.
Solo poche ore prima fonti del Cremlino avevano espresso la speranza che la spinosa questione delle elezioni sarebbe stata «esclusa» dall’agenda dei colloqui. Ma il presidente dell’Ue Herman van Rompuy ha promesso di sollevare il problema con Dmitry Medvedev. Che peraltro non ha ancora consegnato il suo mandato alla Duma (il presidente è eletto per Russia Unita di cui era capolista), e a Mosca gira voce che potrebbe dimettersi anticipatamente per andare a guidare la Camera bassa e insediare così il premier Vladimir Putin al Cremlino, come presidente ad interim, in attesa delle elezioni di marzo. Nel Parlamento comunque qualcosa cambierà; Boris Gryzlov, speaker per otto anni, leader di Russia Unita e autore della storica frase «il Parlamento non è luogo di dibattito», ha annunciato che non prenderà il mandato. E nei giorni scorsi Medvedev aveva promesso all’opposizione eletta quasi la metà dei comitati della Duma, rompendo il monopolio di Russia Unita.
L’opposizione rimasta fuori dal Parlamento, invece, ieri ha ottenuto dal Comune di Mosca l’autorizzazione per la sua prossima manifestazione, il 24 dicembre, dopo che per qualche ora sembrava che il permesso dovesse venire negato con il pretesto che tutti gli spazi erano già stati «prenotati» dai nazionalisti. Sabato torneranno in piazza i liberali di Yabloko. Ieri poi una mini manifestazione di protesta si è tenuta fuori dal carcere dove sono detenuti per 15 giorni i manifestanti arrestati nei giorni scorsi.
Intanto continuano a farsi avanti nuovi candidati alla presidenza: ieri è stato il turno del governatore di Irkutsk, Dmitry Mezenzev, putiniano di ferro. Secondo alcuni analisti, la sua missione potrebbe essere quella di dare legittimità al voto nel caso gli oppositori decidessero di sabotarlo ritirandosi. E l’altro candidato, l’oligarca Mikhail Prokhorov, ieri si è offerto di comprare l’editrice Kommersant, dopo che il proprietario, il magnate dei metalli Alisher Usmanov, ha licenziato alcuni giornalisti colpevoli di «volgarità» nella denuncia dei brogli elettorali. Usmanov si è rifiutato.


l’Unità 15.12.11
Quale libertà se c’è il rogo per i miei libri?
Anticipiamo dalla rivista «Satisfiction» uno stralcio del saggio dello scrittore americano sul Primo emendamento
Scrive una lettera al direttore di una scuola dove è stato vietato il suo volume «Mattatoio n. 5»
di Kurt Vonnegut


Chi è. L’autore americano fra fantascienza e satira
Kurt Vonnegut Jr. (Indianapolis 1922 – New York 2007) si è caratterizzato per la mescolanza di elementi fantastici, satira, humor nero.

Potrebbe darsi che la cosa più straordinaria dei membri della mia generazione letteraria, in retrospettiva, sia che ci è stato permesso di dire assolutamente qualunque cosa senza paura di castigo. I nostri eredi potranno trovare incredibile, come molti stranieri fanno già ora, che una nazione volesse adottare come legge qualcosa che suona più come un sogno, che dice quanto segue: «Il Congresso non promulgherà leggi che favoriscano qualsiasi religione, o che ne proibiscano la libera professione, o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea, e di fare petizioni al governo per riparazione di torti».
Come poteva una nazione con una tale legge crescere i suoi bambini in un’atmosfera di decoro? Non poteva – non può. Così la legge sarà sicuramente presto abrogata per amore dei bambini.
E già adesso i miei libri, assieme ai libri di Bernard Malamud e James Dickey e Joseph Heller e molti altri patrioti di prima classe, sono regolarmente gettati via dalle biblioteche delle scuole da membri dei consigli scolastici, che dichiarano usualmente di non aver in realtà letto i libri, ma che sanno da fonti sicure che quei libri sono dannosi per i bambini.
***
Il mio romanzo Mattatoio n.5 fu bruciato davvero in una caldaia dal bidello di una scuola a Drake, North Dakota, su disposizione della commissione scolastica del posto, e il consiglio di istituto fece delle dichiarazioni pubbliche sulla immoralità del libro. Anche per gli standard della Regina Vittoria, l’unica frase ingiuriosa dell’intero romanzo è questa: «Via dalla strada, stupido bastardo!». Questo viene detto da un artigliere controcarro americano a un assistente cappellano disarmato durante la battaglia delle Ardenne in Europa nel dicembre 1944, la più grande singola sconfitta delle armi americane (Stati Confederati esclusi) nella storia. L’assistente cappellano aveva attirato il fuoco nemico. Così il 16 novembre 1973, scrissi come segue a Charles McCarthy di Drake, North Dakota: Caro Sig. McCarthy, Le sto scrivendo data la sua qualifica di presidente del consiglio della Drake School. Sono fra quegli scrittori americani i cui libri sono stati distrutti nella ormai famigerata caldaia della sua scuola. Alcuni membri della sua comunità hanno suggerito che la mia opera sia malvagia. Questo è per me straordinariamente offensivo. Le notizie da Drake mostrano secondo me che i libri e gli scrittori sono molto irreali per voi. Vi sto scrivendo questa lettera per farvi sapere quanto io sia reale. Voglio farle sapere, inoltre, che il mio editore e io non abbiamo fatto assolutamente nulla per sfruttare le disgustose notizie provenienti da Drake. Non ci stiamo dando vicendevolmente pacche sulle spalle, esultando per tutti i libri che venderemo a causa delle notizie. Abbiamo rifiutato di andare in televisione, non abbiamo scritto alcuna vibrante lettera ai giornali, non abbiamo concesso prolisse interviste. Siamo rabbiosi e disgustati e rattristati. E nessuna copia di questa lettera è stata inviata a qualcun altro. Lei tiene la sola copia nelle sue mani. È una lettera strettamente privata da me alla gente di Drake, che ha fatto così tanto per danneggiare la mia reputazione agli occhi dei propri figli e quindi agli occhi del mondo. Ha il coraggio e il comune pudore di mostrare questa lettera alla gente, o sarà, anch’essa, consegnata alle fiamme della sua caldaia? Apprendo da quello che leggo sui giornali e sento alla televisione che lei immagina me, e anche qualche altro scrittore, come fossimo una sorta di figure simili a topi che godono nel far soldi avvelenando le menti dei giovani. Io sono in realtà una persona robusta e forte, cinquantunenne, che fece un sacco di lavoro nei campi da ragazzino, che è bravo con gli attrezzi da lavoro. Ho cresciuto sei figli, tre miei e tre adottati. Tutti sono cresciuti bene. Due di essi sono agricoltori. Io sono un veterano di fanteria combattente, e sono insignito della Purple Heart (distintivo concesso per ferite in azione). Ho guadagnato ogni cosa che possiedo con duro lavoro. Non sono mai stato arrestato o querelato per alcunché. Si ha così tanta fiducia in me con i giovani e dai giovani che ho prestato servizio nelle università dell’Iowa, Harvard, e del City College di New York. Ogni anno ricevo almeno una dozzina di inviti ad essere l’oratore che tiene il discorso di inizio anno in college e licei. I miei libri sono probabilmente i più diffusi nelle scuole rispetto a quelli di qualunque altro romanziere americano vivente. Se lei provasse a leggere i miei libri, a comportarsi come fanno le persone istruite, lei imparerebbe che i miei libri non sono pruriginosi, e non argomentano a favore di alcun tipo di sregolatezza. Essi chiedono che la gente sia più gentile e più responsabile di come spesso è. È vero che alcuni dei personaggi parlano volgarmente. Ciò è perché la gente parla volgarmente nella vita reale. Specialmente i soldati e i lavoratori manuali parlano volgarmente, e anche i nostri figli più protetti lo sanno. E sappiamo tutti, anche, che quelle parole non fanno davvero molto male ai bambini. Non ci fecero male quando eravamo giovani. Furono cattive azioni e menzogne a ferirci. Dopo che ho detto tutto questo, in realtà sono sicuro che lei sarà ancora pronto a rispondere «Sì, sì – ma resta pur sempre nostro diritto e nostra responsabilità decidere quali libri i nostri figli leggeranno nella nostra comunità».
È sicuramente così. Ma è anche vero che se lei esercita questo diritto adempiendo questa responsabilità in maniera ignorante, insensibile, non-americana, allora la gente è autorizzata a chiamarvi cattivi cittadini e stupidi. Anche i vostri stessi figli sono autorizzati a chiamarvi così.
Leggo sul giornale che la vostra comunità è sorpresa dallo scalpore di tutta la nazione per quello che avete fatto. Bene, avete scoperto che Drake è parte della civiltà americana e che i vostri compatrioti americani non possono tollerare che vi siate comportati in una maniera così incivile. Forse imparerete da ciò che i libri sono sacri per gli uomini liberi per ragioni molto valide, e che sono state combattute guerre contro nazioni che odiavano i libri e li bruciavano. Se lei è un americano, deve permettere a tutte le idee di circolare liberamente nella vostra comunità, non le vostre soltanto. Se lei e il suo consiglio siete ora determinati a mostrare che veramente avete saggezza e maturità quando esercitate i vostri poteri sull’educazione dei vostri giovani, allora dovrete riconoscere che è una lezione miserevole quella che avete insegnato a dei giovani in una società libera quando condannate e poi bruciate libri?– libri che non avete neanche letto. Dovete anche decidervi a mettere a contatto i vostri figli a ogni sorta di opinioni e informazioni, in modo che siano meglio attrezzati a prendere delle decisioni e a sopravvivere. Nuovamente: voi mi avete insultato, e io sono un bravo cittadino, e sono molto reale.
Da Il primo emendamento di K. Vonnegut, dalla raccolta di racconti e saggi Palm Sunday,
1981 Traduzione di Andrea Lombardi e Raffaello Bisso

l’Unità 15.12.11
Rodotà, l’apologia del moralismo nell’era antipolitica
Una raccolta di scritti del giurista dedicati al ruolo dell’etica civile, con la Costituzione come punto di riferimento
di Bruno Gravagnuolo


Il titolo è di quelli che fa rizzare i capelli in testa agli immoralisti, ai cinici. E ai teorici della politica come sfera del tutto svincolata dalla morale. Ma a leggerlo bene, L’elogio del moralismo di Stefano Rodotà (Laterza, pp. 93, Euro 9), non è un’apologia del moralismo convenzionale. E nemmeno ha a che fare con l’antipolitica. Perché la silloge di scritti dal 1992 al 2011 che lo compone accentrati attorno al nesso legalità, illegalità e costume civico è un elogio non della morale, ma dell’etica pubblica. E dell’«intransigenza» necessaria a preservarla, soprattutto in Italia. In che senso? Presto detto. Come comportamento diffuso tra i cittadini. Come risorsa e «limite» della politica. E infine come custodia dei valori della nostra Costituzione repubblicana. Ma c’è un altro punto: il «moralismo» di Rodotà è anti-ideologico, e non è pedagogico. Né potrebbe esserlo, in un giurista laico così avverso a ogni intrusione nella autonomia dei soggetti (dal piano bioetico ai temi della privacy). Insomma quello di Rodotà è un «moralismo» che demistifica. E che fa leva sui contrasti tra il dire e il fare, tra conservatorismo etico conclamato, e plateale edonismo esibizionista del berlusconismo. Problema che resta rilevante in generale, sul piano dello stile pubblico di una classe di governo e del suo leader. Di là degli aspetti penali. E che vale per tutti i gruppi dirigenti che aspirino al governo. Vincolati, come da Costituzione appunto, a «disciplina e onore».
TANGENTOPOLI E GIUDICI
Quanto all’antipolitica, Rodotà svolge il ragionamento che segue. Essa è (ri)nata a suo avviso da un insieme di fattori, precipitati poi in Tangentopoli e riprecipitati ancora in illegalismo, niente affatto sradicato (anzi!). E a monte c’è stata una politica che prima ha lasciato ogni controllo di legalità ai giudici. Sottraendovisi per anni e anni. E poi ha subito la straordinarietà dell’intervento giudiziario. Tentando di continuo (da destra) di comprimere e sradicare il contrappeso dei giudici. All’oggi però ciò che più preoccupa l’autore è proprio la fuga in una forma «altra» rispetto alla Carta: fuga nel plebiscitarismo che svuota parlamento e corpi intermedi. Con la scusa dell’efficienza e dell’operatività (la famosa governabilità craxiana). Addirittura per Rodotà «la perversa legge elettorale maggioritaria e la deriva verso il bipolarismo hanno separato i designati dai cittadini, hanno fatto perdere al parlamento la sua centralità».
Bene, tutto ciò ci pare attuale e degno di essere discusso a fondo, anche dopo la fine di Berlusconi (che a volte ritorna..) e malgrado il governo tecnico. Che nasconde possibili insidie di commissariamento della politica. Ciò che invece manca nell’analisi di Rodotà, è qualcosa che pure si potrebbe agevolmente dedurre dalle sue stesse premesse: manca una critica più forte ai partiti personali. E soprattutto alla damnatio che v’è stata in Italia dei partiti di massa. Che significa? Significa che la distruzione dei partiti ha comportato la nascita di partiti notabilari. Di organismi personalistici e alimentati da logiche localistiche. E che all’ombra dei partiti personali e di opinione, discrezionalità e corruzione sono più in agguato di prima. Ma c’è dell’altro: il deficit di democrazia, a beneficio del decisionismo e del «mercato politico». Già, perché senza partiti veri che esprimano leadership selezionate da conflitto regolato non c’è rappresentanza di interessi. Non c’è trasformazione degli interessi in valori generali. E infine non ci sono né partecipazione democratica, né classe politica di governo degna di questo nome. Ecco il punto: i partiti e il loro ruolo. Di essi (anche) andrebbe fatto l’elogio. E con foga almeno pari a quella che Rodotà riserva al «moralismo» e all’ etica civile. Che senza partiti rischiano di restare pure grida manzoniane. Con rischio di antipolitica.

l’Unità 15.12.11
Tamtam democratico on line dedica un numero ai cattolici


«Il nostro è un partito di credenti e non credenti. È un’ovvietà, è così per tutti i partiti, ma per noi non vuole essere un’ovvietà perché consideriamo il rapporto tra credenti e non credenti come un potenziale bacino di risorse per l'identità del nostro partito». Così Pier Luigi Bersani, ieri, alla presentazione del nuovo numero, dedicato ai cattolici, della rivista on line Tamtamdemocratico.it, diretta da Stefano Di Traglia. Il Pd, ha spiegato il segretario del partito parlando del nuovo impegno dei cattolici, «ha un solo compito davanti a questa scossa elettrica positiva: ospitare il fermento che c'è nel mondo cattolico e dialogare quando riesce ad ospitarlo» anche se a volte, ammette, c'è «un qualche settarismo da parte dei cattolici mentre anche se ci possono essere posizioni differenti non è possibile il non ascolto». Presente anche Rosy Bindi, che ha sottolineato però il rischio che il ritrovato dinamismo dei cattolici in politica escluda il Pd, ora che il clima è cambiato. «Non potremmo accettare che la presenza dei cattolici diventi più forte perché si è liberato un po’ di campo e possono tornare a occuparlo», ha spiegato la presidente dell'assemblea nazionale del Pd. «Uno spazio c'è già ed è nel Pd, dove da anni i cattolici stanno lavorando per una sintesi tra culture diverse».

il Fatto 15.12.11
I cattolici bocciano una nuova Dc
di Marco Politi


Grandi manovre in campo cattolico. La carovana di Todi sta preparando una campagna di raccolta firme per tornare alle preferenze nella legge elettorale, mentre a Roma si è svolta una riunione un po’ carbonara di Bonanni, Casini, Cesa, Fioroni con la partecipazione del ministro Riccardi (Sant’Egidio) e rappresentanti dell’associazionismo bianco, che pianifica un’iniziativa a Napoli per “rilanciare la partecipazione e dialogare con la cultura laica”. Se si chiede a Natale Forlani, portavoce degli organizzatori del convegno di Todi, se l’evento di Napoli sia un seguito del convegno umbro, risponde abbastanza seccato: “Non confondeteci. L’iniziativa di Napoli non c’entra con noi che stiamo scrivendo un manifesto sociale-politico da pubblicare all’inizio dell’anno prossimo”. Ringalluzzite dalla significativa presenza di esponenti cattolici nel governo Monti, alcune personalità dell’area bianca ritengono sia venuto il momento di mobilitarsi. Però resta poco chiaro l’obiettivo di queste iniziative.
CASINI non sa ancora se riuscirà a creare un nuovo partito (non confessionale) di centro-destra con la maggioranza del Pdl, ispirandosi al Partito popolare europeo, o se sarà costretto a correre da solo come Terzo polo alle prossime elezioni. Certo, finché Berlusconi manterrà la sua presa sul Pdl, le prospettive sono molto scarse per il leader dell’Udc. Fioroni, dal canto suo, deve decidere cosa farà da grande. La sua idea di “partito riformista” è un soggetto para-Udc totalmente in contrasto con il sentire della parte progressista del Paese e la lezione che scaturisce dalle vittorie elettorali del centrosinistra a Milano e Napoli. Sì, perché una freschissima indagine Ipsos “I cattolici nell’attuale scenario politico italiano” – realizzata sotto la guida di Nando Pagnoncelli – rivela che il trend dell’Italia e dei cattolici in prima linea volge all’area di centrosinistra. E la prospettiva di una nuova Democrazia cristiana viene sonoramente bocciata dall’elettorato bianco.
I dati sono incontrovertibili. La netta maggioranza dei cattolici ha una visione laica della politica e, pur rispettando le indicazioni della Chiesa, ritiene che le decisioni ultime vadano prese “secondo la propria coscienza”. Domanda Ipsos: “Le indicazioni della Chiesa rispetto alla morale devono essere sempre seguite? ”. Risponde di sì solo il 17 per cento. Il 61 per cento ritiene, invece, che vadano ascoltate con attenzione, ma poi ciascuno si regola seguendo la sua coscienza. Se aggiungiamo coloro (13 per cento) che ritengono “impropri o negativi” gli interventi ecclesiastici, si raggiunge la cifra imponente del 74 per cento. Sul piano legislativo significa che tre quarti degli italiani (in cui i cattolici praticanti, saltuari o per tradizione sono la stragrande maggioranza) ritengono che le leggi cosiddette eticamente sensibili debbano rispondere all’opinione pubblica e non alle indicazioni dell’autorità ecclesiastica. È il rifiuto delle posizioni “non negoziabili” di marca ratzingeriana. D’altronde il 47 per cento chiede una “politica laica” sintesi fra le diverse culture e il 34 considera le posizioni della Chiesa “troppo presenti” in politica. Quando ne trarrà le conclusioni il Parlamento? Schiacciante è il rifiuto di un partito cattolico. Lo vuole solo il 9 per cento. Un altro 27 chiede un movimento per fare sentire la propria voce al mondo dell’economia e della politica (l’ipotesi avanzata dal cardinale Bagnasco all’ultimo Consiglio permanente della Cei), ma il 62 per cento delle risposte sancisce lapidario: “Un’organizzazione dei cattolici è sbagliata, non bisogna confondere religione e politica”. Contemporaneamente è diffusa la consapevolezza che i movimenti cattolici siano troppo diversi tra di loro per essere convogliati su una posizione comune. È la fotografia realistica di un’area cattolica che non vuole essere intruppata, ma rivendica la diversità e il pluralismo delle scelte.
SU NESSUN argomento (famiglia, sicurezza, lavoro giovanile, immigrazione, economia) gli interrogati raggiungono la maggioranza nel ritenere che i cittadini cattolici abbiano posizioni uguali o almeno abbastanza simili. Vale per tutte la risposta al quesito se ci sia un partito che “più degli altri” rappresenti i valori dei cattolici italiani. Solo il 31 per cento ne è convinto. È la prova che politicamente i cattolici italiani si sono europeizzati, cioè si giocano individualmente nelle urne la mediazione tra appartenenza religiosa e scelta politica. E infatti neanche la metà di questo 31 per cento ritiene l’Udc rappresentativa dei valori cattolici: circa un 13 per cento in cifra assoluta. Nel giudizio di “positività” oggi è nettamente in testa il Pd: 41 per cento, casini è al 36, Vendola al 35, Di Pietro è al 34, il Pdl è crollato al 30. In termini generali il centro-sinistra totalizza il 45,5 per cento, il Terzo polo il 12,9 mentre il centro-destra è al 34,3. Restano però alti gli astenuti: 40 per cento. E questo può cambiare molto nelle urne.

La Stampa 15.12.11
La Sibilla del Reno dottore della Chiesa
Ildegarda Bingen, mistica medievale famosa per le sue profezie riceverà il titolo nell’ottobre del 2012 per volere di Papa Ratzinger
di Andrea Tornielli


La figura di Ildegarda Bingen, teologa, mistica ed eclettica intellettuale (fu anche botanica e musicista) è stata additata da Benedetto XVi come esempio da seguire. Per questo la nominerà Dottore della Chiesa. un titolo prevalemente maschile: finora infatti dei 33 dottori solo tre sono donne: Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresina da Lisieux Von Trotta: «Rivoluzionaria come la Luxemburg» La vita e la cultura di Ildegarda Bingen hanno affascinato anche le femministe tedesche: la regista Margarethe Von Trotta nel 2009 le ha dedicato Vision, un film con Barbara Sukowa nei panni della monaca mistica e visionaria, che fu presentato al festival di Roma. «Certo, se fosse nata molti secoli dopo avrebbe potuto essere una rivoluzionaria come Rosa Luxemburg» ha detto di Ildegarda la regista.
Ha paragonato le sue visioni a quelle dei profeti dell’Antico Testamento, la cita spesso e le ha dedicato due catechesi all’udienza del mercoledì. L’ha additata come esempio di donna teologa, ne ha lodato i componimenti musicali tutt’oggi eseguiti, come pure il coraggio che le faceva tener testa a Federico Barbarossa al quale comunicava ammonimenti divini. Benedetto XVI è molto legato alla figura di santa Ildegarda di Bingen e intende proclamarla, nell’ottobre 2012, «dottore della Chiesa»: un titolo raro e solenne, attribuito a santi che grazie alla loro vita e ai loro scritti sono stati illuminanti per la dottrina cattolica.
La Chiesa ha riconosciuto fino ad oggi 33 «dottori», trenta dei quali uomini. Le donne nell’elenco sono soltanto tre: Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresina di Lisieux, le prime due proclamate da Paolo VI nel 1970, l’ultima da Giovanni Paolo II nel 1997. Ora Ratzinger vuole aggiungerne una quarta all’elenco, invitando così le donne a seguire l’esempio della mistica renana e a contribuire alla riflessione teologica.
Ildegarda, ultima di dieci fratelli della nobile famiglia dei Vermessheim, nacque nel 1098 a Bermersheim, in Renania, e morì ottantunenne nel 1179. L’etimologia del suo nome significa «colei che è audace in battaglia», una prima profezia che si sarebbe pienamente realizzata. Votata dai suoi genitori alla vita religiosa fin da quando aveva otto anni, si fece benedettina nel monastero di san Disibodo, quindi divenne priora (magistra) della comunità femminile e, visto il numero sempre crescente di aspiranti che bussavano al suo convento, decise di separarsi dal complesso monastico maschile trasferendo la sua comunità a Bingen, dove trascorse il resto della sua vita. Fin da giovane aveva ricevuto visioni mistiche, che faceva mettere per iscritto da una consorella. Temendo che fossero soltanto illusioni, chiese consiglio a san Bernardo di Chiaravalle, che la rassicurò. E nel 1147 ottenne l’approvazione di Papa Eugenio III, che mentre presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo di Ildegarda. Il Pontefice la autorizzò a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. La sua fama si diffuse presto: i suoi contemporanei le attribuirono il titolo di «profetessa teutonica» e «Sibilla del Reno».
La mistica, santa per il popolo ma mai ufficialmente canonizzata, alla cui figura è dedicato il film Vision di Margarethe von Trotta, nella sua opera più nota, Scivias («Conosci le vie»), riassume in trentacinque visioni gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione del mondo fino alla fine dei tempi. «Con i tratti caratteristici della sensibilità femminile – ha detto di lei Benedetto XVI – Ildegarda sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità realizzato nell’incarnazione. Sull’albero della croce si compiono le nozze del Figlio di Dio con la Chiesa, sua sposa, resa capace di donare a Dio nuovi figli». Per Papa Ratzinger, che nel ricordarla un anno fa aveva incoraggiato le teologhe, è evidente proprio da esempi come quello di Ildegarda che la teologia può «ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità».
Non mancano nelle sue visioni profezie a breve termine, come quella sull’affermazione dell’eresia catara, ma anche squarci apocalittici, come quella sull’Anticristo che seminerà morte tra le genti «quando sul trono di Pietro siederà un Papa che avrà preso i nomi di due apostoli». O quella in cui fa balenare la possibilità che un musulmano convertito al cristianesimo, divenuto cardinale, uccida il Papa legittimo perché vuole il suo trono e non riuscendo a ottenerlo, si proclami antipapa.
La storia di Ildegarda attesta la vivacità culturale dei monasteri femminili dell’epoca e contribuisce a sfatare certi pregiudizi sul Medioevo. Era una monaca, teologa, cosmologa, botanica, musicista: è considerata la prima donna compositrice della storia cristiana. Sapeva governare, condannava le immoralità dei sacerdoti che con i loro peccati facevano «restare aperte le ferite di Cristo», teneva testa agli stessi vescovi tedeschi. Come pure a Federico Barbarossa, al quale fece arrivare un messaggio da parte di Dio, dopo che l’imperatore aveva nominato per la seconda volta un antipapa: «Io posso abbattere la malizia degli uomini che mi offendono. O re, se ti preme vivere, ascoltami o la mia spada ti trafiggerà».
La monaca tedesca è anche patrona dei cultori dell’esperanto, in quanto autrice di una delle prime lingue artificiali, la Lingua ignota, un idioma segreto che utilizzava per scopi mistici e si componeva di 23 lettere. È lei stessa a descriverla in un codice che contiene anche un glossario di 1011 parole in «lingua ignota».
La Congregazione per le cause dei santi, guidata dal cardinale Angelo Amato, sta concludendo lo studio dei documenti su Ildegarda. Anche se i Papi avevano permesso il suo culto in Germania – l’ultimo a esprimersi in questo senso era stato Pio XII – la mistica renana non è mai stata veramente canonizzata, perché il processo apertosi mezzo secolo dopo la sua morte venne interrotto. Si prevede perciò che Papa Ratzinger, che l’ha già più volte definita «santa» nei suoi discorsi, la canonizzi ufficialmente prima di inscriverla nell’esclusivo albo dei dottori la cui vita e le cui opere sono state illuminanti per la dottrina cattolica.

Corriere della Sera 15.12.11
Capitalismo e religione. La fede nei Paesi a rischio
risponde Sergio Romano


Mi permetto di riformulare la domanda di un lettore sui Paesi che sono maggiormente a rischio di default. Perché appartengono tutti all'area cattolico-ortodossa? Scrivo così per comprendere nell'elenco la Grecia, che è ortodossa, ed escludere la Francia che invece è scrupolosamente laica. Augusto Guerriero aveva una risposta precisa in merito; ma lui era in pectore un calvinista.
Pier Paolo Romanelli

Al lettore che le chiedeva perché i Paesi a rischio default sono tutti al sud lei non ha risposto e ha solo aggiunto che non bisogna dimenticare l'Irlanda. È vero, ma rimane il fatto che i Paesi più in crisi sono nell'Europa meridionale. Perché?
Jolanda Masini

Cari lettori,
Intravvedo nelle vostre domande, e in particolare in quella di Pier Paolo Romanelli, la tesi secondo cui il cattolicesimo e l'ortodossia avrebbero frenato lo sviluppo del capitalismo, mentre il protestantesimo avrebbe risvegliato gli spiriti animali dell'uomo moderno. È una tesi che piace agli ammiratori di Max Weber (il sociologo tedesco autore di un famoso saggio sullo spirito del capitalismo) e che spiegherebbe il ritardo con cui la Spagna, l'Italia e la Russia hanno imboccato la strada della rivoluzione industriale.
La tesi contiene una punta di verità e ha il merito di mettere in evidenza il ruolo frenante delle gerarchie ecclesiastiche nei Paesi in cui hanno dominato le coscienze. Ma non spiega né la grande rivoluzione mercantile italiana del Duecento, né lo sviluppo industriale delle regioni occidentali tedesche, prevalentemente cattoliche, né il lungo sonno economico, sino alla fine dell'Ottocento, di aree protestanti come quelle della Scozia, della Svezia e della Prussia orientale. Aggiungo che fra i Paesi più duramente colpiti dalla crisi del credito e del debito sovrano non vi sono soltanto Paesi mediterranei, cattolici o ortodossi.
La crisi nasce negli Stati Uniti, dove l'eccesso di fantasia capitalista ha trasformato Wall Street in una specie di laboratorio del dottor Frankenstein, e ha avuto effetti devastanti sulla economia e la finanza britanniche. I disavanzi di questi Paesi, se vengono calcolati anche i debiti delle famiglie, sono superiori a quelli dell'Italia e il tasso di disoccupazione della Gran Bretagna supera quello della media europea. Verrebbe persino la voglia di rovesciare la sua analisi, caro Romanelli, e di sostenere polemicamente che la tesi sul primato dell'economia protestante non ha alcun fondamento reale, ma ha avuto una forte influenza sui giudizi e sui pregiudizi dei mercati. Forse vi sono Paesi che sono considerati poco affidabili perché sono cattolici e Paesi che hanno diritto a tre A perché non lo sono. Esagero naturalmente, ma soltanto per suggerire che le spiegazioni religiose dei fenomeni politici e sociali sono sempre accattivanti, raramente del tutto convincenti.

Repubblica 15.12.11
Sedici anni, sesso e segreti quel dialogo impossibile
I ragazzi tra sesso, segreti e tabù quando in famiglia manca il dialogo
Gli ultimi casi di cronaca, da Trento a Torino, rimettono al centro dell´attenzione il rapporto dei genitori con i figli nell´adolescenza. Le nuove libertà e i pregiudizi antichi
di Concita De Gregorio


Come ne esco. La questione è tutta qui, nel vicolo cieco delle domande che non trovano risposta, una strada chiusa da cui – arrivati in fondo – si resta con le spalle al muro e non si sa come uscire. E ora come ne esco?, si chiede la giovane donna di sedici anni, dopo aver fatto l´amore con il suo ragazzo.
Se non trova le parole per dirlo ai genitori, severi custodi della sua verginità e incapaci certo di comprendere la figlia ma persino di centrare l´obiettivo minore, quello di farle da gendarmi. «Ho visto due rom che correvano e ho detto la prima cosa che mi è venuta in mente: che erano stati loro». La prima cosa che viene in mente a una sedicenne è la più semplice. Quella che senz´altro tutti crederanno al volo perché – lei lo sa, lo sente dai discorsi in casa e alla tv, lo respira nell´aria – non ci sarà chi dubiti neppure un momento che i pericolosi rom del campo nomadi sono i responsabili di ogni male, che è di loro e non della luce che abbiamo spento dentro di noi che bisogna aver paura. È tanto più facile pensare che il pericolo sia fuori casa e non dentro, è così comodo. Non è colpa di una sedicenne se le cose stanno così, no davvero. Lei non fa che rivelare quanto nudo sia il re.
Come ne usciamo, hanno pensato i genitori dell´adolescente incinta di uno straniero. "Ombroso e violento", scrivono le cronache – naturalmente – dello straniero. Con l´aborto, ecco come. Se la ragazza non vuole pazienza. Si va dal giudice, è minorenne, glielo si impone, è per il suo bene. Come ne escono un padre e una madre che per parlare di amore e di sesso e di cosa sia il bene per lei e per tutti devono ricorrere al giudice? Quante parole sono corse, prima di allora, attorno al tavolo di cucina? Quante domande e quante risposte si sono scambiati su cosa sia la vita davvero, la vita com´è? E di chi è la responsabilità, da ultimo, quando l´unica risposta è la violenza?
E poi come si esce dalla violenza, se per una sigaretta do un pugno ad un amico fuori dal centro commerciale e lo ammazzo? Se porto la fidanzatina in un campo e lascio che la violentino gli amici, poi confesso e chiedo ai carabinieri «ora posso andare?». Che la violenza sia la forma ultima di debolezza – sconfitta del pensiero, della capacità di dialogo, del confronto fra esseri umani – è cosa di sempre. Cosa di oggi è che non si riesca più a distinguere tra violenza virtuale assimilata e violenza reale esercitata.
Adolescenti, sì. Sedici anni, diciotto. E di sempre, anche, è l´incapacità dei genitori di parlare con loro. Ma di oggi è un fatto nuovo, anzi due. L´adolescenza comincia certe volte a undici anni (preadolescenti, ti dicono a scuola le insegnanti esauste per spiegare comportamenti fino a ieri sconosciuti nelle scuole medie) e finisce a 25 se va bene. Postadolescenti, in questo caso. Comincia quando in prima media i bambini rifiutano di consegnare il cellulare alla prof che propone di custodirlo nel cassetto perché – argomentano i piccoli uomini – è «violazione della privacy e sequestro di proprietà privata», i genitori spesso li istruiscono, evidentemente, poi li assecondano. Il cellulare, d´altra parte, è il più formidabile alibi a custodia dell´assenza e della distanza tra padri e figli. Comincia quando in prima ora non si riesce a far lezione perché le bambine devono truccarsi, hanno portato da casa rimmel e kajal, e le madri convocate dal direttore didattico che prova a spiegare che la scuola non è una discoteca rispondono che la scuola comincia troppo presto, le figlie non fanno in tempo a truccarsi a casa alle sette e mezza, d´altra parte non si può mica impedir loro di mettere un po´ di rimmel, che sarà mai. Comincia quando a lezione di coro i tredicenni non vogliono stare accanto alle tredicenni «perché stare troppo attaccati alle femmine è da gay» e finisce a ventitré anni quando tuo figlio – che ha l´età di tua madre quando ti ha partorita – ti chiede i soldi per portare la ragazza al cinema e poi in pizzeria, che è da sfigati non avere venti euro in tasca, che figura ci faccio, e poi invece con quei soldi ci compra un aggiornamento del videogame e ci si chiude in camera.
Quindici anni di vita stretti fra la precocità che deriva da una massa incontenibile di esempi di vita adulta ormai accessibili ai bambini e la maturità tardiva che nasce dall´asfissia economica, la frustrazione di aspirazioni, la paura del nulla. Quindici anni sono tanti, non è più "una fase": è, anche per i genitori, un quarto della vita consapevole. Tanti, troppi per essere affrontati con i vecchi strumenti. L´adolescenza è un lutto, è l´infanzia che muore: è la perdita dell´incantamento della vita di bambino, tanto dolorosa per chi la vive quanto per chi la accompagna. Della perdita dei figli bambini soffrono anche i genitori, che reagiscono come sanno e come possono.
La reazione alla perdita è il secondo tema dell´oggi. Non siamo più capaci, quasi più, di maneggiare con dimestichezza la materia prima della vita vera: la nascita e la morte, l´invecchiamento e la sofferenza, i turbamenti, le contraddizioni, la complessità del bene nel male e dell´ombra nella luce. Siamo vittime, tutti più o meno lo siamo, della semplificazione del pensiero e dell´azione alimentata dall´esempio degli schermi. Siamo tutti diventati spettatori attivi, non più solo passivi, del grande show. È della vita virtuale che facciamo parte. Recuperare quella reale è un lavoro durissimo. Per spiegare a un sedicenne, a una sedicenne la vita vera com´è – attraversare i tabù, dare un nome alle cose, accogliere senza ipocrisia né pregiudizio quel che accade nella mente e nel cuore – bisogna prima saperlo fare noi nella nostra vita adulta. Riprendere quel bandolo smarrito, spegnere le luci fuori, gli schermi in casa, e riaccendere la luce dentro. Dei ricordi, della parola, dei tempi lenti delle stagioni che sul tempo reale del download now vincono ancora, vinceranno sempre. Poi, dopo, si potrà ricominciare a provare. A cercare, insieme ai nostri figli adolescenti, la strada per uscirne. O per entrarci, almeno, insieme a loro. Sarebbe già molto.

Repubblica 15.12.11
La confusione dei giovani e dei padri
Il dovere di crescere
di Massimo Ammaniti


Esclusione. Inizia una fase di esplorazione del mondo esterno di affermazione della propria individualità di costruzione di una rete nuova di rapporti sociali che deve per forza escludere l’universo degli adulti

Che cosa succede nelle famiglie quando i figli entrano nell´adolescenza? Lo scenario familiare cambia completamente, mentre prima vi era un ritmo comune che univa i genitori ed i figli ora questi ultimi devono prendere le distanze dai genitori ed iniziare il proprio percorso di individuazione, spesso in opposizione agli adulti. E i genitori si sentono disorientati, non sono più il punto di riferimento dei figli e la loro autorità viene messa continuamente in discussione. I temi di scontro sono molti, la libertà che viene data al figlio o alla figlia, a che ora tornare a casa nelle uscite serali, quali amici e compagni frequentare, potersi chiudere a chiave nella propria stanza, dove i genitori non possono entrare. Ma soprattutto le prime esperienze sessuali, un terreno minato perché l´adolescente vorrebbe affrontarle senza l´interferenza dei genitori, che vorrebbero proteggerli da esperienze troppo precoci ed affrettate. E poi il fumo e gli alcolici che rappresentano per gli adolescenti una grande occasione per sentirsi più grandi e allo stesso tempo provocarsi forti sensazioni, che aumentano nel cervello la dopamina ossia il neuro-ormone che suscita benessere.
La confusione dei genitori è grande, non riconoscono più il figlio che si comporta ai loro occhi in modo incomprensibile. In passato i genitori sarebbero ricorsi alle punizioni e ai divieti, ma oggi la famiglia è cambiata profondamente. I genitori cercano di capire i propri figli, di avere con loro un rapporto più amichevole, spesso addirittura sono i loro confidenti e non hanno l´autorità necessaria per stabilire quei limiti e quei divieti, che aiuterebbero l´adolescente a confrontarsi con gli adulti e con le loro aspettative, anche per contestarle e rifiutarle. Ma in questo periodo si condensano troppe esigenze spesso incompatibili: i genitori si sentono ancora relativamente giovani e non vogliono rinunciare alla propria realizzazione e allo stesso tempo vorrebbero ottenere una conferma al loro ruolo di genitori da parte dei figli. Per quanto riguarda gli adolescenti iniziano in questa fase una sperimentazione complessa che riguarda il proprio modo di pensare, si costruiscono mondi immaginari abitati da loro stessi e dagli amici in cui gli adulti non possono entrare oppure stabiliscono una fitta e continua rete di comunicazioni utilizzando il proprio telefonino o facebook immersi in un´audience reale o immaginaria, una sorta di nicchia che li avvolge.
E poi il corpo con i cambiamenti fisici e sessuali rappresenta una costante fonte di attenzione e di interesse, ma anche intriso di preoccupazioni e paure. Il mio naso è diventato troppo grande, sono troppo grassa, il seno non mi è cresciuto abbastanza, non mi piace il mio corpo. Per questo motivo il corpo deve essere assimilato e fatto proprio attraverso rituali che assumono un significato nel gruppo dei coetanei, come i tatuaggi, i piercing, il taglio dei capelli che servono a riaffermare il proprio dominio sul corpo che sta cambiando troppo rapidamente.
Questi comportamenti degli adolescenti, che potrebbero sembrare contraddittori agli occhi dei genitori e degli adulti, hanno invece una propria funzione, aiutano gli adolescenti a distaccarsi dai genitori, anche se spesso questa separazione può essere inquietante perché non è chiara la direzione da prendere. E a questo proposito è quanto mai vero quello che scrisse lo psicoanalista inglese Donald Winnicott secondo cui l´adolescenza è una malattia normale ma il problema riguarda piuttosto gli adulti e la società se sono abbastanza sani per poter sopportare questa malattia.

Repubblica 15.12.11
Come viene raccontata questa età della vita
L’immaginario e la realtà
di Melania Mazzucco


Età cruciale. Nelle favole è quello il numero fatidico: hanno 16 anni Biancaneve, la Sirenetta e la Bella addormentata E nei Vangeli apocrifi è l´età di Maria, quando l´angelo le annuncia che dovrà partorire il figlio di Dio

Uno dei quadri più famosi del pittore norvegese Edvard Munch si intitola Pubertà. Raffigura una ragazza nuda, dai seni acerbi, seduta sull´orlo di un letto, in una stanza squallida. Imbarazzata, la ragazza tiene le mani davanti a sé, per difendere il sesso dallo sguardo dell´osservatore (ma anche dal proprio). Il gesto finisce per focalizzare l´attenzione proprio su ciò che nasconde. Sulla parete, intanto, la sua ombra nera si arrampica sul muro. È una presenza sinistra e inquietante. Quell´ombra è proiettata dal suo corpo, ma anche dalla sua psiche. La ragazza è sull´orlo del letto - della vita - in un momento di cambiamento e fragilità. Le sue pulsioni, e quelle di chi la guarda, la espongono al pericolo.
L´immagine espressionista di Munch esprime un timore ancestrale: la maledizione del sesso delle ragazze. Che l´immaginario popolare ha trasmesso alle fiabe e le fiabe, per secoli, alle lettrici. Nelle fiabe il numero maledetto è "sedici". A sedici anni Biancaneve addenta la mela. A sedici anni la Sirenetta emerge sulla terra per inseguire il principe e si condanna al mutismo e alla morte. «Prima che il sole tramonti sul tuo sedicesimo compleanno morirai», profetizza la strega alla principessa Aurora: e infatti la bella si punge col fuso e cade addormentata nel bosco. Per tutte le ragazze delle fiabe, il percorso iniziatico si compie quando il loro corpo - che sanguina - è maturo per la generazione: il rischio della sessualità è talmente enorme che lo pagano con una morte rituale.
Anche nel mondo reale, l´età del passaggio è quella. Le statistiche dicono che un quarto delle ragazze vi lascia la verginità. Ma per i ragazzi - nell´immaginario e nella realtà - non era e non è mai stato così. In letteratura, i sedici anni costituiscono piuttosto l´inizio di un´avventura esaltante. A sedici anni Arthur Rimbaud fugge di casa per recarsi a Parigi e, benché sia arrestato sul treno da un controllore zelante e spedito prima in prigione e poi dalla madre, nessuno potrà fermare la sua folle corsa verso la poesia e la vita. A sedici anni il giovane Edmund White legge la storia di Rimbaud in un collegio maschile di Detroit: identificandosi nello scrittore suo coetaneo si libera al sesso e alla letteratura - diventerà anche lui uno scrittore. A sedici anni Karl Rossmann, protagonista di Amerika di Kafka, mette incinta una serva e viene spedito dai genitori al di là dell´Oceano, dove lo aspetta un percorso di crescita e conoscenza vissuto in sbalordita allegria. A sedici anni il narratore del Diavolo in corpo di Radiguet si infila nel letto di Marthe, e mentre il marito di lei combatte in trincea sotto le bombe consuma l´adulterio e il primo amore in spensierata innocenza: soltanto la giovane donna sarà punita.
Alla stessa età invece le ragazze ci consegnano libri di inquietudine senza gioia, come Caterina Saviane nel romanzo-diario del 1978 dal titolo rivelatorio Vivere a sedici anni. Ore perse; o di sesso selvaggio e degradante, fino alle più umilianti forme di prostituzione, come Christiane F., che a sedici anni, già sotto processo per detenzione di droga, raccontò ai giornalisti il suo inferno allo Zoo di Berlino. A una sola ragazza la tradizione occidentale concede un´alternativa felice. È la vergine Maria. A sedici anni, secondo i Vangeli apocrifi (ma altri codici dicono a quattordici), l´angelo le annuncia che concepirà il figlio di Dio. Il resto è noto.

Repubblica 15.12.11
Il mio pensiero libero
Da Croce a Bobbio, la filosofia che ha fatto l’Italia
di Nello Ajello


Il libro di Massimo Salvadori sulla corrente intellettuale del liberalismo
Cavour prese come riferimento le idee inglesi: "Il faro del progresso moderato"
Tra i protagonisti anche Luigi Einaudi che riuscì ad elaborare una politica sociale
C´è un lungo elogio dello studioso torinese per come seppe difendere il dubbio

È difficile incontrare, non solo in campo politico ma in ogni angolo della vita di relazione, qualcuno che non si dichiari "liberale", quasi fosse una benemerita professione di fede, di rado accoppiata all´obbligo di chiarirne i contenuti, la natura e gli intenti. È un precedente che va registrato sfogliando l´ultimo libro di Massimo L. Salvadori, intitolato Liberalismo italiano, e apparso in edizione Donzelli (pagg. 176, euro 28). L´opera mi pare idonea a dissipare le nebbie che, per pigrizia o desuetudine concettuale, circonda la materia.
La selezione che l´autore ha compiuto all´interno di coloro che si sono distinti in quanto liberali o promotori del liberalismo è, benché ristretta, molto rappresentativa: partendo da Cavour, allinea Croce, Einaudi, Bobbio, Abbagnano e Matteucci. Il sottotitolo, "I dilemmi della libertà", sottrae in partenza al lavoro di Salvadori qualsiasi sospetto di centone celebrativo. Il lettore vi troverà, al contrario, una trattazione vivace e controversiale, adeguata alla severità dei tempi molto "mossi" in cui quel concetto o istituto – il liberalismo – ha svolto la sua carriera.
Fra le suggestioni, provenienti dai massimi paesi europei, che influirono sul concetto italiano di libertà, campeggia l´esempio della Gran Bretagna, che per Cavour rappresentò il massimo modello cui ispirarsi: «fu l´Inghilterra», scrive Salvadori con un´efficace immagine simbolica, «il faro del progresso moderato e la sua Gerusalemme». Da lì provenivano i più efficaci moniti e suggerimenti per «salvare la società dalle opposte minacce dell´anarchia e del dispotismo». In questo quadro, l´espressione "giusto mezzo", dal Cavour adoperata e passata in proverbio per sintetizzarne l´ideologia, è tutt´altro che una scorciatoia o un luogo comune. È l´unica direttiva adatta a sventare l´entrata in azione di forze contrarie all´esercizio delle libertà, in primo luogo di quella "commerciale e di impresa", della quale lo stesso Cavour va considerato (e non è affatto una "diminutio") l´autentico apostolo.
L´espressione con la quale il leader piemontese sintetizzò l´impressione che gli aveva destato il Quarantotto francese – «nuova invasione dei barbari» – può far comprendere la veemenza dei suoi convincimenti. Né sembri dettata da tranquillità d´animo la frequenza con cui ricorre, nei suoi scritti e discorsi, l´aggettivo "onesto", sinonimo volta a volta di razionale o di moderato: «le genti oneste», «gli onesti intendimenti», «un ministero onesto». La non lunga presenza di Cavour al vertice delle istituzioni piemontesi sul punto di trasformarsi in "italiane", non ebbe, a volerci riflettere, nulla di pacifico: fu una missione e una sfida. E si potrebbe continuare, rintracciando da una pagina all´altra di Salvadori, i sentimenti – o meglio, spesso, i risentimenti – espressi dal Conte nei riguardi di Mazzini o della gerarchia ecclesiale, della «marea reazionaria» e dello «spettro del comunismo», del «cattivo socialismo» e della «maledetta repubblica». E non è un deliberato catastrofismo il notare che molti degli ideali cui il primo premier dell´Italia unita dedicò il suo magistero – a partire dalla «libera Chiesa in libero Stato» – rimangano al centro di diuturne contese.
Da Cavour a Croce, il clima sembra rasserenarsi. Troppo, si direbbe, secondo tanti suoi critici. Il filosofo napoletano – la cui mirabile operosità varcò frangenti drammatici della vicenda italiana – dettò del liberalismo e della sua prevalenza nella società un´interpretazione che appare eccessivamente relegata nell´empireo delle idee. Non ci sembra di deformare il giudizio che Salvadori offre della contesa fra Croce ed Einaudi in materia di Liberalismo e Liberismo, se avanziamo, per quel che vale, una sommessa ipotesi in merito alla sua "preferenza" per il secondo rispetto al primo. Finita in parità, fra loro, la vicenda dell´iniziale favore, più o meno veemente, concesso al regime di Mussolini – circostanza sulla quale l´autore non infierisce, contestualizzandola nel tempo – resta viva l´impressione che Einaudi risulti il più cavouriano all´interno della coppia di «dioscuri del liberalismo conservatore del Novecento». A sedurre l´autore concorre, mi sembra, la stessa collocazione qualitativa del futuro Capo dello Stato come quella di un economista che elabora una sua filosofia sociale: il che basterebbe, di per se solo, a chiarire il terreno sul quale si svolse il suo confronto con il direttore della Critica.
E d´altronde l´idea "metapolitica" (cioè, per intenderci, collocata "al di là", "dopo", "oltre" gli eventi della vita pubblica) del liberalismo, arditamente rivendicata per decenni da Croce, è forse il tema più dibattuto nell´intero libro, oltre a rappresentare – lo accennavo poco più su – la riserva "anticrociana" custodita da tanti fra coloro che pur vennero da lui incoraggiati alla libertà anche in frangenti crudamente negativi, come l´avventura fascista.
Valga per tutti l´esempio di Norberto Bobbio, quarto tra i protagonisti di queste pagine (dove la presenza di Nicola Abbagnano e Nicola Matteucci sembra limitata a quella di originali e a tratti personalissimi suggeritori di idee). Il ruolo del pensatore torinese viene ricondotto – ma forse sarebbe più opportuno dire "esaltato" – al livello di "filosofo militante", forse il maggiore che si sia distinto nei decenni del dopoguerra e della Repubblica. Il fatto che egli abbia accompagnato un cinquantennio di storia italiana, dalla sconfitta delle forze della Resistenza – in cima alle quali il partito d´Azione, forse la falange d´uomini e pensieri più denigrata della storia recente – allo sforzo diuturno di trasformare il comunismo in socialdemocrazia, dal suo impegno a mitigare, a sinistra, «il disprezzo delle cosiddette libertà borghesi» alla sua difesa metodologica del dubbio e del dialogo, ne fanno un vero campione di Liberalismo. La sua constatazione che «le società libere non sono mai state attuate» e che «la loro attuazione è più lontana che mai» vale, per chi ha conosciuto l´uomo, assai più come stimolo che come maledizione.

Repubblica 15.12.11
Sul Nouvel Observateur
Magri, Il ricordo della Rossanda "Disperazione lucida e razionale"


PARIGI - Lucio le magnifique è il ritratto che Rossana Rossanda ha voluto dedicare ieri sulle colonne del Nouvel Observateur all´amico scomparso. «Lucio Magri ha vissuto il naufragio del comunismo non come uno scacco personale ma come la fine di un´epoca. Niente gli era più estraneo del minimalismo attuale, dell´acquiescenza esibita, della riduzione di tutte le sciagure a una depressione nervosa». E niente gli era meno corrispondente dell´immagine del "seduttore" e del "beau gosse", costruita ad arte da chi non lo sopportava. «La perdita crudele di una moglie molto amata», scrive l´amica che l´ha accompagnato nell´ultimo viaggio, «ha accresciuto la sua disperazione, una disperazione fredda e razionale». E, terminato il suo ultimo libro Il sarto di Ulm, «Lucio ha deciso di porre termine alla sua vita, un gesto di coerenza e di libertà».