venerdì 16 dicembre 2011

La Stampa 16.12.11
L’inchiesta setaccia le chat su Facebook di Casseri con gli amici (due)
L’ipotesi choc: la strage di Firenze ordinata on line
Aperto un fascicolo per istigazione a delinquere Al vaglio anche i messaggi di solidarietà neofascisti
di Grazia Longo


Si continua a indagare sull’omicidio dei due senegalesi uccisi a Firenze da Gianluca Casseri
La procura: valutiamo il possibile concorso morale da parte di chi lo ha appoggiato In tasca il killer aveva ancora 24 proiettili Se li era confezionati da solo in casa

Facebook come chiave di svolta nelle indagini sulla spietata esecuzione dei giovani ambulanti senegalesi. Gianluca Casseri il ragioniere-killer cinquantenne malato di depressione e diabete ma anche, e soprattutto, di razzismo e neonazismo aveva soltanto due amici sul suo profilo Facebook. E tutti e due sono, come lui, indottrinati di cultura xenofoba, di ideologia di estrema destra.
Si è confrontato con loro prima della strage nei due mercati in piazza Dalmazia e piazza San Lorenzo? È stato suggestionato dalle loro parole? Procura e investigatori stanno indagando proprio in questa direzione.
Non solo, sempre sulla Rete è concentrata un’altra tranche dell’inchiesta. Riguarda i sostenitori del gesto folle del ragioniere simpatizzante di Casa Pound. Il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi ha aperto un fascicolo per istigazione o agevolazione a delinquere. «Sono state avviate indagini precisa per identificare gli autori di questi messaggi. Si sta, cioè, verificando l’ipotesi della presenza di eventuali concorrenti nei due omicidi e nei tre tentati omicidi non solo sotto il profilo materiale, ma anche in forma di concorso morale sotto il profilo di eventuale istigazione o agevolazione dei reati».
Tra coloro che hanno esaltato la furia omicida di Casseri si nasconde un suo complice? La
Questura e il Comando provinciale dei carabinieri stanno raccogliendo tutti gli elementi utili per scoprirlo.
Già accertato è, invece, il legame tra il ragioniere che sognava di essere l’ispettore Callaghan e i due amici di Facebook. La negazione dell’Olocausto, la supremazia della razza ariana, l’inferiorità delle persone di colore, emergono come temi più ricorrenti. Resta da capire se si trattava di semplici elucubrazioni o se da uno di questi due contatti Facebook è partita la suggestione per non dire il suggerimento sulla sparatoria di martedì.
E il ruolo della Rete, in questa drammatica storia di ordinaria follia, non finisce qui. Sempre sul computer recuperato nella casa della madre di Gianluca Casseri, a Pistoia, sono evidenti le tracce lasciate dalle chat e dai contatti con siti di estrema destra stranieri. Il computer, in realtà, appartiene a Giancarlo Casseri, fratello dell’assassino, ferroviere in pensione. Ad usarlo, tuttavia, era prevalentemente Gianluca che raggiungeva la casa di famiglia ogni 4-5 giorni.
Per il resto, da 6 mesi, viveva a Firenze in un piccolo appartamento che gli aveva affittato l’unico vero amico, Enrico Rulli. Da questo appartamento, abbandonato lunedì mattina alle 11 come sostiene un vicino di casa Gianluca Casseri ha fatto sparire qualsiasi cosa che lo riguardava. Vi ha lasciato solo centinaia di volumi di libri alcuni anche preziosi di letteratura celtica ed esoterica, fumetti cd e dvd. «Me li ha voluti concedere come eredità» commenta l’amico Rulli.
Ma perché ha portato via tutto il resto, compreso l’hard disk del vecchio computer? E ancora: lo ha fatto da solo o è stato aiutato da un complice? Il gesto, comunque sia, per gli inquirenti lascia presupporre la premeditazione della caccia ai senegalesi. Tanto più che, sempre nel computer recuperato a Pistoia, è stata recuperata la ricerca avviata su un terzo mercato, quello di Sesto Fiorentino.
L’intenzione di Casseri a continuare ad uccidere è, inoltre, provata dal caricatore pieno della pistola Magnum 357 Smith & Wesson regolarmente posseduta grazie ad un «permesso di detenzione in casa». Dopo aver scaricato i primi 6 colpi contro i poveri senegalesi (un proiettile per ciascuno, in un solo caso due colpi), l’omicida ha infatti provveduto a riempire di nuovo il tamburo della Magnum. Braccato dalla polizia, nel garage sotto il mercato coperto di San Lorenzo, si è suicidato con un colpo alla gola. Ma in tasca aveva altri 24 proiettili. A chi erano destinati? Per perfezionare la sua mira si esercitava al poligono di Pistoia e in quello di Pescia, mentre aveva trasformato un angolo del seminterrato della casa materna in laboratorio per riempire i proiettili di polvere da sparo. E chissà che non abbia imparato a farlo dai due amici Facebook.

Repubblica 16.12.11
I pm di Firenze: rischia l´arresto chi ha inneggiato al killer sul web


FIRENZE Chi inneggia sul web a Gianluca Casseri, il killer razzista simpatizzante di CasaPound che martedì a Firenze ha ucciso due immigrati senegalesi e ne ha feriti gravemente tre, rischia di essere incriminato per apologia di reato con l´aggravante dell´odio razziale. Mentre proseguono le indagini sull´assassino e su chi potrebbe eventualmente averlo spinto ad infierire sugli immigrati senegalesi, il procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi ha aperto «d´urgenza» un fascicolo sui «numerosissimi messaggi» che hanno invaso il web e inneggiano a Casseri, incoronandolo «eroe bianco».
«Chi dice "bene ha fatto il bianco ad ammazzare il nero" sappia che per noi commette un reato», dichiara il procuratore. Intanto l´autopsia ha confermato che Casseri si è suicidato con la sua 357 Magnum, la stessa arma con la quale ha fatto fuoco contro gli immigrati.

Corriere della Sera 16.12.11
Quella licenza di armarsi mai più controllata
Rilasciata per uso sportivo. «Verifiche a campione»
di Fabrizio Caccia


FIRENZE — «Purtroppo ho la coscienza a posto», sospira Giovanni Nieddu, il capo della polizia amministrativa della Questura di Pistoia, l'uomo che materialmente concesse due anni fa il permesso di detenere un'arma per uso sportivo a Gianluca Casseri, il killer di Firenze.
Il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri, ha chiesto per oggi un'informativa urgente: dovrà rispondere a varie interpellanze parlamentari. Nieddu, così, ieri è andato a rivedersi tutti i certificati del medico di base, eppoi i test d'idoneità psico-fisica superati a suo tempo dallo sparatore di Cireglio davanti alla commissione sanitaria della Asl provinciale. Ha riesumato perfino le vecchie cartelle del servizio militare che Casseri prestò a Torino nel 1981, a 20 anni, nel reparto di artiglieria a cavallo. Eppure niente, neanche un'ombra.
E invece quante volte, s'è saputo dopo, il pazzo di Casapound si era lamentato coi suoi amici del medico che lo aveva in cura: «Io sto male e lui dice che va tutto bene, ma non mi guarda nemmeno…», ripeteva. Siamo sicuri che non si potesse disarmare in tempo? Sono 5 milioni le armi da fuoco legalmente detenute in Italia; più di 45 mila le licenze di porto d'arma per difesa personale e quasi 900 mila i permessi rilasciati per detenere un'arma sportiva o da caccia. Tutti potenziali assassini? «Non scherziamo — dice Giovanni Nieddu — io mi sento la coscienza a posto perché quello che dovevamo fare con Casseri l'abbiamo fatto. Il permesso di detenere l'arma sportiva è valido 6 anni. Se chi fa la domanda viene giudicato idoneo, noi per 6 anni siamo tranquilli. Perché gli esami comunque sono severi, un soggetto viene valutato attentamente, la procedura va avanti per più di un mese e mezzo…».
E gli esami su Casseri furono severi? «Nel 2009, quando presentò la domanda, risultò idoneo e incensurato. Gli venne questa passione, ma la coltivò poco. Alla fine dell'anno ottenne la licenza, comprò la 357 Magnum presso l'armeria Country Sport, 50 cartucce, un chilo di polvere da sparo e nei primi mesi del 2010 frequentò il Poligono di Pistoia, in via dei Mercati, non più di 4-5 volte in tutto. Poi non si presentò più». S'inabissò nel suo mondo di spettri e libri pericolosi: sempre però con la Smith&Wesson cromata da 900 euro ferma sul comodino, pronta ad armare il suo superomismo. Ma la Questura di Pistoia fa quadrato: «Dicono che gli avremmo rilasciato il permesso perché la sua famiglia è proprietaria dell'immobile che ospita la nostra sede — protesta il capo di gabinetto Paolo Cutolo — Sapeste invece quante richieste di blocco dei pagamenti del canone, quante lettere in Prefettura, per segnalare gli inadempimenti di quella società. Noi chiedevamo di aggiustare il tetto, il solaio, i pavimenti. Nisba». Contro le voci interviene anche Nieddu: «Fino al 2009 Casseri non chiese altri permessi. Né a Firenze né a Pistoia né a Modena, dove si dice che gli avrebbero dato già nel '90 la licenza per un fucile. Non è vero». Ma chi ha una pistola per uso sportivo non può mica andarci in giro liberamente. Chi controlla? «Facciamo controlli a campione. Però ripeto: ci dobbiamo fidare…». Casseri nel 2010 fu denunciato due volte: «Furono episodi senza attinenza diretta all'uso delle armi. Per capirci, litigò con un vigile urbano ma non gli disse: domani ti sparo…».
Sì ma il suo antisemitismo su Internet? «Anche Ahmadinejad nega l'Olocausto — obietta Nieddu — È la libertà d'espressione. Se Casseri avesse scritto: domani esco e sparo ai senegalesi, era un'altra cosa». Ma lui si fabbricava i proiettili in casa? «Non è mica un reato. I cacciatori del pistoiese lo fanno tutti. La macchinetta si compra in armeria. Però non ho detto che va tutto bene. La nuova legge sulle armi è entrata in vigore il primo luglio, bisogna armonizzare».

La Stampa 16.12.11
Il 68% degli italiani pronto ad accogliere gli immigrati
di Flavia Amabile


Il 20% della popolazione è razzista secondo la stima di Piero Gastaldo, segretario generale della Compagnia di San Paolo
Il 60% Vuole un’autorità europea
L’80% pensa che sugli immigrati serva una responsabilità condivisa a livello Ue
il 74% pensa che siano solo clandestini
Percentuale italiana alta rispetto a quella tedesca che si ferma al 13 per cento

ROMA Lo studio Il confronto tra Usa e Ue nel Transatlantic Trends: Immigration 2011 mostra un’Italia diversa da quella che ci si aspetterebbe sul tema immigrati
Tutto vero, in quest’ultima settimana gli italiani hanno mostrato il loro peggior razzismo, tra campi rom al rogo e senegalesi uccisi senza un solo motivo diverso dal colore della loro pelle. Ma non siamo così orribili come sembriamo. Anzi. In Europa siamo i più generosi nei confronti degli stranieri.
Il 68% è disposto ad accogliere chi lascia il proprio Paese per sfuggire alla povertà (68%), alle persecuzioni (71%), ai conflitti armati (79%) e ai disastri naturali (79%).
È quanto emerge dalla quarta edizione dell’indagine «Transatlantic Trends: Immigration 2011», presentata ieri a Roma. Lo studio ha sondato l’opinione pubblica americana ed europea (in cinque Paesi dell’Unione: Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna), su vari aspetti del dibattito in tema di immigrazione e integrazione. I razzisti italiani? «Circa il 20% della popolazione, una percentuale modesta», risponde Piero Gastaldo, segretario generale della Compagnia San Paolo.
In tutti i Paesi europei la netta maggioranza degli intervistati si dichiara favorevole a una divisione del carico della gestione dei flussi migratori provenienti dal Nord Africa. L’80% è d’accordo sul fatto che la responsabilità vada condivisa tra tutti Paesi dell’Unione Europea e non affrontata individualmente dal Paese di arrivo degli immigrati come è avvenuto durante questa primavera durante gli sbarchi di profughi in arrivo dai Paesi delle rivolte nordafricane in corso. Il Regno Unito è il Paese che dimostra meno entusiasmo (68% favorevoli) e lo si può anche capire visto che non è direttamente interessato. L’Italia è il Paese più entusiasta, l’88% sono favorevoli. E anche questo è comprensibile.
Gli italiani sono anche i più favorevoli ad un’autorità europea che fissi le quote di ingresso degli immigrati (60%, dato in crescita rispetto al 47% del 2010), a dispetto di quello che si poteva immaginare dal dibattito nato la scorsa primavera intorno ai continui sbarchi a Lampedusa.
Anche se generosi, gli italiani restano diffidenti. In Europa sono i più preoccupati. L’80% teme l’immigrazione irregolare e il 74% è convinto che gli immigrati presenti in Italia siano per lo più clandestini: un dato quasi opposto a quello tedesco dove solo il 13% pensa agli immigrati come a degli irregolari.
Gli italiani però appaiono altrettanto preoccupati nei confronti del governo e delle politiche adottate in materia di immigrazione. «L’indagine è stata condotta durante il governo Berlusconi ma era riferita ai governi in generale», precisa Gastaldo. L’83%, infatti, giudica l’operato del governo in materia poco o molto poco soddisfacente, con un incremento degli insoddisfatti del 70% rispetto all’anno scorso. È il dato più alto fra i Paesi considerati dello studio.
In generale, il sondaggio lascia capire che, tutto sommato, rispetto all’indagine precedente condotta un anno fa, l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dell’immigrazione non è mutato. Anche andando indietro nel tempo, fino al 2008, anno della prima edizione dell’indagine, non emergono variazioni significative nella percezione dell’immigrazione come un problema o come un’opportunità: nel 2011 il 52% degli europei intervistati e il 53% degli americani ritengono l’immigrazione un problema piuttosto che un’opportunità, e il maggiore pessimismo si registra nel Regno Unito (68%).
Come già negli anni passati, americani ed europei continuano a sopravvalutare di gran lunga il numero di immigrati presenti nei rispettivi Paesi: in media i britannici affermano che gli immigrati rappresentano il 31,8% del totale contro un dato effettivo pari all’11,3%, e gli americani il 37,8% del totale, rispetto al 12,5 effettivo.

La Stampa 16.12.11
Militia, la rivoluzione nera doveva partire dagli stadi
Voleva creare un proprio partito legato al fascismo
Corteggiavano gli ultras della Lazio per avere nuovi adepti tra i ranghi
di Francesco Grignetti


ROMA Erano rimasti una realtà marginalissima, quelli di «Militia», nonostante l’impegno ad imbrattare la città con le loro scritte. Ma pensavano in grande: nel maggio 2010 progettavano un’Adunanza nazionale da tenersi nella loro palestra per contarsi e preparare un partitino vero in grado di confrontarsi con i cugini di «Casa Pound» oppure «Forza Nuova». Di più. Sognavano a occhi aperti. Da un’intercettazione: «Non è ancora venuto il momento di uscire allo scoperto per la battaglia decisiva. Non possiamo rischiare di farci eliminare prima che i giochi siano cominciati». «Tentiamo di modellare un movimento fascista». «Questa è una rivoluzione, non un gioco».
Per crescere in numero di adepti, i capi di «Militia» guardavano alle curve degli stadi. Avevano in animo di federarsi con un altro gruppo ancora in nuce, «Avanguardia Lazio», nata sugli spalti dell’Olimpico tra gli ultras laziali. A questo scopo corteggiavano Paolo Arcivieri, il capotifoso. Indubbiamente Arcivieri aveva un pedigree di estrema destra: era candidato con la Mussolini nelle liste di Alternativa sociale alle Regionali del Lazio. Ma poi il medesimo Arcivieri li avrebbe delusi: nel 2008, sebbene agli arresti domiciliari per vicende collegate alla scalata di Giorgio Chinaglia sulla Lazio, si era lasciato corteggiare dal Pd ed era pronto a candidarsi con il centrosinistra nel IV Municipio della Capitale. Candidatura abortita per eccesso di polemiche.
Fatto sta che Boccacci e i suoi nel 2010 guardavano con invidia al seguito che Arcivieri poteva contare in Curva Nord. Era Stefano Schiavulli (uno dei cinque arrestati dell’altro giorno) a tenere i contatti. L’8 febbraio 2010 chiedeva a Boccacci di fare una scappata al tribunale di Roma per incontrarsi con Arcivieri a margine di un’udienza penale. «Vorrebbe creare diceva Schiavulli in romanesco una cosa che poi ti spiegherà quanno se vediamo... sta creando ‘sto gruppo ultras della Lazio che sarebbe Avanguardia Lazio... che non è solo un gruppo ultras. Fuori da là (dallo stadio, ndr) farà politica con Militia. Ci starà ‘sto coordinamento tra noi».
L’idea piaceva moltissimo a Boccacci: «Deve essere tutta una cosa organica. Poi si crea un nucleo dirigenziale e dei responsabili. Poi ognuno se prenda ‘a situazione che più se confà». Epperò Boccacci storceva il naso alla prospettiva di una cooperazione alla pari. E quindi meglio sarebbe stato se il gruppo ultras si fosse chiamato «Militia Laziale».
Il guaio per Boccacci era la pressione della magistratura. Dopo un’ondata di perquisizioni s’era scatenato il fuggi-fuggi. E quindi secondo Schiavulli non rimaneva che insistere con Arcivieri: «Dice che nello stadio ci stanno tanti contesti rivoluzionari».

il Riformista 16.12.11
Inchiesta
Ecco i cattivi maestri della destra estrema travestiti da intellettuali
Il mondo di Casseri e Boccacci si rifà a un pensiero negazionista di cui si trova traccia anche in riviste autoreveli e nelle università
di Sonia Oranges


Gianluca Casseri era «un povero pazzo» (almeno secondo Casapound che pure lo annoverava tra i suoi simpatizzanti) e infatti la scorsa settimana ha sparato ad alzo zero contro qualsiasi senegalese gli si parasse davanti, prima di suicidarsi; Maurizio Boccacci è considerato figura di spicco della destra extraparlamentare italiana, transitato per il Fuan, il Msi, Avanguardia nazionale, i gruppi naziskin, il Movimento politico occidentale, Militia e ora le patrie galere: era compagno di scuola di Valerio Fioravanti, ha organizzato manifestazioni in solidarietà con Priebke, e dichiarato: «Ammiro quello che Hitler ha fatto. Gli ebrei erano dei nemici che si opponevano ai suoi disegni». Casseri e Boccacci sono personaggi dalla grana e dallo spessore assai diversi, ma gravitano nella stessa galassia fortemente ideologizzata, i cui cattivi maestri sono lontani dalle adunate clandestine dei «camerati» come dai raid contro centri sociali e immigrati. Anche perché spesso l’estremismo di destra, sui temi come quello dell’antisemitismo, si salda con quello di sinistra. E si annida in un universo intellettuale che, in virtù della pur legittima libertà di pensiero ed espressione, trova spazio in case editrici e riviste di alto profilo.
È il caso di Eurasia, rivista di studi geopolitici, che vede nel suo comitato scientifico firme autorevoli come Alfredo Canavero (docente di storia contemporanea della Statale di Milano), Fabio Mini (generale già a capo dello stato maggiore dell’Afsouth e comandante della Kfor) e lo storico ed ex diplomatico Sergio Romano. Eppure, a pubblicare la rivista sono le Edizioni all’Insegna del Veltro, fondate da Claudio Mutti, di formazione maoista prima e stretto collaboratore di Franco Freda poi, ha insegnato a lungo in uno dei licei più prestigiosi di Parma, si è convertito all’islam e per primo ha tradotto e ripubblicato in Italia i (falsi) Protocolli dei Savi di Sion (che non erano stati più stampati dagli anni Quaranta del secolo scorso). E ai quali si rifaceva lo stesso Casseri, pubblicando un anno un lungo articolo postato su un sito dal titolo agghiacciante: Olodogma, biblioteca revisionista su Olocash e truffa Sterminazionista.
Prolifico saggista, Mutti si firma anche con lo pseudonimo di Omar Amin, che era il nome islamico di Johannes Von Leers, braccio destro di Joseph Goebbels e ispiratore delle campagne antisemite dell’Egitto nasseriano. E sfogliando i contributors della sua rivista brillano nomi ideologicamente in linea con questa vague. Come Claudio Moffa, negli anni Settanta divulgatore di scritti palestinesi, nei Novanta segnalatosi per aver dedicato un numero della rivista La lente di Marx, che gli costò l’allontanamento da Rifondazione comunista. A maggio del 2007 ha invitato il negazionista francese Robert Faurissen a tenere una lezione all’interno del suo master universitario all’università di Teramo, dove si svolgono anche le lezioni del master Enrico Mattei, promossi in collaborazione con la stessa Eurasia. Nell’edizione del 2010, Moffa ha tenuto banco su un argomento che poi fu contestato: «Il tema-tabù del mondo accademico, la questione della Shoah, della difesa del suo dogma da parte della Inquisizione del III millennio». Roba da far venire i capelli bianchi, non fosse che l’esimio docente è convinto che financo Monica Lewinsky sia parte di un complotto ebraico.
La pensa come lui, Dagoberto Bellucci che su Eurasia ha trovato spazio soltanto una volta: amico di Eva Henger prima di convertirsi (pure lui) all’islam. Collaboratore storica alla rivista Avanguardia, ispirata all’ideologia nazifascista e al fondamentalismo islamico, diretta da Leonardo Forte, processato nel 2008 dal tribunale di Trapani con l’accusa di «discriminazione razziale nei confonti della stirpe ebraica e dello stato di Israele», e condannato due anni dopo a nove mesi di carcere (i suoi collaboratori ne beccarono soltanto tre). Tramontata Avanguardia, Bellucci pubblica sul sito di Italia sociale, e dal Libano (dove vive e dirige un’agenzia di stampa in ottimi rapporti con Hezbollah) cura un blog dove periodicamente ospita delle black list di personalità ebraiche: dai giornalisti alle aziende. Tutti, naturalmente, da boicottare.
Sempre su Eurasia è anche Luigi Copertino, pure lui docente del master Mattei, cattolico integralista e preconciliare, firma fissa anche di Effedieffe, il quotidiano online dell’omonima casa editrice (fondata nel 1991 e diretta da fabio De Fina, ex dirigente di Forza Nuova, che pubblica un ampio catalogo del pensiero antisemita), diretto dal giornalista Maurizio Blondet che ospita spesso e volentieri articoli di ispirazione antiebraica, e si fregia di essere stato il primo ad accusare gli ebrei sionisti di essere i principali artefici del traffico di organi a livello planetario. Oltre la macchina del fango, insomma.
D’altra parte, sempre Eurasia ha ospitato contributi di Aleksandr Dugin, teorico del pensiero eurasiatico, consigliere di Putin e, soprattutto, principale traduttore dei testi di Evola in russo.Come quelli di Israel Shamir, russo di origine ebraica, noto per essere stato ospite nel parlamento britannico dove si è fatto notare, paradossalmente, per le sue convinzioni ferocemente antisemite. Le Edizioni all’Insegna del Veltro, d’altra parte, lo hanno ampiamente pubblicato. E la prefazione dei suoi lavori era affidata a Serge Thion. Francese e negazionista.

il Fatto 16.12.11
Antisemiti indisturbati sul web
L’antisemitismo prende piede ma nessuno lo ferma
di Federico Mello


I corpi inerti di Samb e Diop giacevano ancora a terra tra le bancarelle del mercato di piazza Dalmazia a Firenze, nel mezzogiorno di sangue dello scorso martedì, che era già partita online una catena di sdegno e commozione. Ma non solo. Quasi subito è cominciato a tracimare anche esplicito supporto al gesto di Casseri.
Questa volta, a differenza di altre esplosioni di rabbia digitale, non si è assistito a violenza verbale estemporanea. Invece, dai fondali del web profondo, è emerso un fronte rinchiuso nella sua bolla di rancore e razzismo. In questi giorni è stato passato al setaccio dai media stor  mfront.org , un forum italiano vera e propria miniera d’odio: in home page si fregia di una croce celtica su cui è scolpita la frase “Orgoglio bianco mondiale”. Poca attenzione, invece, hanno avuto le “dichiarazioni programmatiche” dei nazisti.
Non ci sono documenti ufficiali, programmi articolati: il repertorio di immagini, citazioni, libri e film è quello classico della propaganda fascio-nazista. Ci sono però scambi di idee: “Se qualcuno di voi riuscisse in un golpe, come ri-scriverebbe la legge? ” chiede Nuovo Gladiatore. “In caso di pesanti sanzioni economiche dalla (giudaica) comunità internazionale: accelerare la produzione militare, armarsi di armi nucleari, armarsi segretamente di armi biologiche in grado di intaccare solo certe etnie” risponde Dagren che sfoggia l’icona di Hitler nell’immagine di profilo.
SUMMA del populismo nero si trova nella sezione “Le migliori discussioni di Stormfront Italia”. È un prontuario dell’odio. Per gli argomenti di “politica”: le discussioni segnalate si intitolano “Giudeo-bolscevismo”; “L’internazionale ebraica”; “Nelson Mandela e il giudeo-bolscevismo”. Con dichiarazioni anche molto contorte: “Vi rendete conto di come gli ebrei costituiscano un ‘Israele’ in qualunque paese siano insediati? Questa tendenza richiede delle leggi di emancipazione per i non-ebrei vittime di questa apartheid ebraica” è convinto Complotto giudaico. Non mancano le ipotesi millenaristiche: “Oggi la razza bianca sta sparendo a causa del multiculturalismo, dell’aborto e di altre politiche ben orchestrate dal giudaismo per eliminare la nostra razza”.
Tante le citazioni (da Goebbles a Lenin, da Churchill a Evola), sembrano rimaste al secondo conflitto mondiale con un’ossessione per i bolscevichi e l’“ebraismo” dell’Urss comunista. Non mancano gli spari nel mucchio: “Per quanto riguarda la situazione in Russia, c’è da dire che dopo il crollo dell’Urss, con Putin la situazione è migliorata: il miliardario giudeo Khodorkovsky che aveva avuto in prestito 250 mln per fare finire la Gazprom nelle mani anglo-americane della Texaco è finito in galera”. E chi se ne frega se il miliardario nemico di Putin è cristiano-ortodosso. Tra i “topics” non può mancare “Il pericolo Islam”; “Contro il filoislamismo”; “Il Progetto del Grande Califfato” ma un post a parte lo merita anche “Il pericolo giallo”. Altro nazismo si manifesta nelle discussioni “Sugli africani”, probabilmente anche Casseri avrà abbeverato la sua follia a questa fonte. Tra le discussioni calde anche “Negrolandia”, foto di donne bianche con in braccio bimbi africani, e la didascalia: “Grazie a queste troie di merda e agli stronzi ovviamente, gli europei e le europee di domani saranno queste loro scimmiette del cazzo”.
QUANTO STUPISCE di forum come questi (oltre al fatto che non siano ancora stati chiusi) è il solipsismo in cui sono rinchiusi i membri: non ci sono scambi di opinioni diverse, nessun dato o statistica che metta in discussione i loro dogmi. Non a caso che una ricerca Demos su “Il nuovo populismo digitale di estrema destra” dimostra proprio come l’appartenenza a un gruppo di affini sia la motivazione maggiore che spinge ad abbracciare le formazioni estremistiche. Una bolla di odio dove vale tutto e il contrario di tutto: “La Bibbia, una cospirazione ebrea e inganno per i gentili” o il “supporto al nazionalismo israeliano che altro non è che autodifesa contro il jihad”. Un web che fa paura, ma che non può essere ignorato.

il Fatto 16.12.11
Malinconico: “I piccoli giornali solo su Internet”
Il sottosegretario all’Editoria: “Basta con i finanziamenti a pioggia”
di Carlo Tecce


Altro che acqua gelida. C’è bisogno di milioni freschi per evitare che la carta bruci. Decine di quotidiani, consumati anni di sprechi pubblici, chi per colpe proprie chi per errori altrui, rischiano di scomparire. Carlo Malinconico, sottosegretario per l’Editoria, annuncia una riforma del sistema per il 2014 e consola i parlamentari in Commissione: “Il fondo reale è di 53,5 milioni di euro”. Al Fatto Quotidiano racconta di strade imboccate senza possibilità di ritorno. Non si torna indietro.
Sottosegretario, come spiegare l'editoria assistita?
Non va spiegato perché non esiste. Le testate che ricevono i contribuiti pubblici sono una parte consistente, non l'unica.
Perché sostenere i giornali di partito?
Noi dobbiamo difendere il pluralismo, assicurare la diversità al massimo.
Non basta la legge del mercato?
Il mercato va oltre le regole perfette. E noi interveniamo per difendere le voci che si esauriscono. Spesso il mercato è falso e spietato.
Qualcuno avrà fregato il gruppo (e i governi), adesso pagano tutti?
Ho spiegato che nel 2014 i contribuiti sono garantiti, e dunque niente drammi, ma cambia il criterio di assegnazione. Ci sono realtà che non meritano l'aiuto di Stato.
E per i giornali onesti che sfiorano il fallimento?
Il pluralismo significa tenere viva una voce, a noi il compito di trovare la forma giusta. Il 2012 sarà un anno di studio e transizione, poi cercheremo di incentivare il passaggio in Rete.
Come?
Ci sarà un limite minimo di copie vendute e distribuite: chi non lo raggiunge, deve trasferirsi su Internet per abbattere i costi senza sacrificare giornalisti e lettori.
Le cifre verranno contestate.
Noi pensiamo di informatizzare le edicole. Guardi, nessuno può protestare: la rete di edicole costa poco e permette agli editori di sapere esattamente, in tempo reale, dove si vende e quanto, dove c'è la resa di copie e quanto grossa. Si abbattono sprechi colossali come il trasporto su gomma e pacchi interi di carta, i costi di stampa, le strategie sbagliate.
Non sarà semplice trasformare un quotidiano cartaceo in edizione online.
Il nostro sarà un incentivo, non possiamo obbligare. Però di fronte al nulla, meglio sfruttare le potenzialità ancora inespresse di Internet. È finito il tempo dei soldi a pioggia per tutti.
Anche le agenzie di stampa temono tagli.
Qui il discorso è diverso. Non sono contributi diretti, ma convenzioni con lo Stato. Se le amministrazioni ritengono di non acquistare un servizio con un'agenzia, il rapporto finisce immediatamente.
Come tutelare il diritto di autore anche in Internet?
Premesso: internet deve essere un campo libero per la cronaca e i contenuti. Non mi sognerei mai di fare riforme per restringere gli spazi di movimento. Anzi, dobbiamo eliminare le barriere anche per dare garanzie a chi investe in Rete. Se metto il mio prodotto a pagamento, devo decidere io chi può replicarlo e modificarlo essendone il proprietario. Vorrei tutelare sia il prodotto che l'utente.
Perché regalare le frequenze alle televisioni e farle pagare agli operatori telefonici?
Non mi esprimo sul beauty contest. Però voglio dire qualcosa su banda larga e connessioni veloci: dobbiamo utilizzare la crisi per trovare nuove occasioni di crescita, dare ai ragazzi gli strumenti e le competenze per integrare i media disponibili. La banda larga è necessaria per restare aggrappati ai Paesi emergenti e ricchi: o ci modernizziamo, o moriamo. La tecnologia e l'informatica fanno bene anche al prodotto interno lordo, non va ignorato né dimenticato. Esempio: non capisco perché l'Iva sui libri in Internet sia più alta del cartaceo. Non ha senso.

il Fatto 16.12.11
Soru scarica l’Unità. Che ora rischia la chiusura
L’ex stella del Pd aveva promesso un rilancio. Ma a distanza di tre anni dall’acquiso non paga neanche le tredicesime
di Alessandro Ferrucci


La verità? È che per lui siamo solo un peso. Non gli interessiamo. Vuole liberarsi di noi”, spiega un giornalista de l’Unità. Tono pacato. Secco. Avvilito. In ballo c’è il suo posto di lavoro e quelli di molti altri colleghi.
Il soggetto del quale parla è Re-nato Soru. Oggi il giornale fondato da Antonio Gramsci non è in edicola, ieri la redazione ha scioperato dopo un drammatico confronto con la direzione durante il quale i vertici hanno paventato l’ipotesi di un “niente tredicesima e forse niente stipendio”. Black out sui conti, appunto. La colpa? “Ma delle banche”, ovvio, fanno sapere dall’alto. E a ruota del finanziamento pubblico riservato all’editoria, in dubbio per quest’anno, ancora peggio per quelli a seguire. “In sostanza gli istituti di credito temono la nostra insolvenza, quindi non ci anticipano soldi”, spiegano al giornale. Chi ci rimette è l’intera redazione, dai giornalisti ai poligrafici “affogati e stressati da due anni di sacrifici”, racconta un redattore. E pensare che la storia doveva essere totalmente opposta.
ANNO 2008 da tempo il giornale è in crisi, si parla di nuovi soci, di nuovi acquirenti. Ipotesi, voci. Smentite. Cordate. Fanfaroni. Assemblee di redazione, comunicati ufficiali. Fantasmi del passato, con alcuni giornalisti già scottati dai “lucchetti” (via dalle edicole dal 28 luglio 2000 al 28 marzo 2001). Macché, niente da fare. Fino a Soru. Il messia. Il salvatore. Il 20 maggio dichiara: “Non era giusto che il giornale di Gramsci e di Enrico Berlinguer, che ha rappresentato tanto nella storia del nostro Paese, fosse trattato come una merce qualsiasi”. Altri tempi. L’allora governatore della Sardegna era l’astro nascente della politica di centrosinistra: forte in casa, cercato dalle televisioni nazionali per interviste e confronti. E nonostante i suoi lunghi, lunghissimi silenzi. Silenzi, di solito, poco adatti ai tempi tv (chiedere a Daria Bignardi e alle Invasioni Barbariche). Quindi il suo appetito a livello nazionale, con una corrente pronta ad appoggiare un eventuale sbarco al Nazareno, casa Pd, magari al posto di Veltroni, D’Alema, Bersani. O a chi toccava. Qualcuno gridava: è l’antiberlusconi! Lui no. Schivo, taciturno (appunto), sempre serio, è stato subito pronto a prendere le distanze politico-imprenditoriali dal cittadino onorario di Olbia: “Il quotidiano sarà intestato a una fondazione che si occuperà della gestione”. Come dire: da me non avrete alcun conflitto di interessi, nonostante l’assegno strappato. E che assegno. Soru, in alcune situazioni, ha parlato di una cifra superiore ai 20 milioni di euro per l’acquisto del giornale, della testata, per il nuovo formato, il cambio di direzione, l’ampliamento della redazione. Più una ricapitalizzazione. L’idea iniziale era quella di una piattaforma multimediale, si parlava di tv, radio, pubblicità. Combattere testa a testa con le corazzate. Tutto finisce in pochi mesi. Le azioni Tiscali crollano (da una quotazione di 1,50 euro, passano a un incredibile 0,17), lui perde la Regione.
NIENTE PIÙ SOLDI, niente potere, fine dei sogni di gloria. A ruota, anche per l’Unità. Dopo soli cinque mesi il sogno è evaporato. Parole d’ordine: ridurre i costi. Precari tagliati, meno soldi ai collaboratori. Stato di crisi. Prepensionamenti. In due anni 20 giornalisti spediti a casa. Cambio di sede. “Vieni a vedere quanti siamo, magari la domenica... ” Quanti? “Pochi, pochissimi e con l’umore a terra”. E ora con una busta paga in bilico e un editore che pubblicamente dichiara di volersi disfare del giornale. “Evidentemente non gli serviamo più”. Evidentemente anche Gramsci e Berlinguer sono diventati una merce qualsiasi.

Corriere della Sera 16.12.11
Soru: l'Unità è in vendita. Da due anni
L'editore: dal 2009 cerco acquirenti, ma il fallimento è stato evitato
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — Dottor Renato Soru, cosa pensa dello sciopero attuato dai giornalisti de l'Unità?
«Quale sciopero, scusi?».
(Istanti di silenzio)
Sta scherzando?
«Guardi, non ho alcuna voglia di scherzare. Non so nulla di questo sciopero... stanno scioperando?».
Un giorno di sciopero, sì. Lo ha annunciato il comitato di redazione.
«Dove?».
Sul giornale, con un comunicato.
«Spero non l'abbiano messo in prima pagina...».
No, il comunicato è a pagina 17. Ma davvero lei non l'ha letto?
«No, non l'ho ancora letta l'Unità... sono appena sceso dall'aereo e...».
Sono le 15.30. Lei non legge l'Unità al mattino?
«Non la seguo giorno per giorno e...».
Lei però è l'editore de l'Unità.
«Beh, sono l'azionista di maggioranza».
È l'editore.
«Sì, va bene. E allora?».
E allora non sa che i suoi giornalisti sono in sciopero?
«No. Me lo sta dicendo lei. E comunque, senta, io non ho alcuna voglia di parlare de l'Unità. Perciò le sarei grato se potesse rivolgersi all'amministratore delegato, va bene?».
Lei non crede che...
«Forse non mi sono spiegato: la prego di rivolgersi all'amministratore delegato...».
È l'amministratore delegato Fabrizio Meli ad aver comunicato alla redazione alcune incertezze sul pagamento dello stipendio di dicembre e della tredicesima mensilità.
«Bah... Lei lo sa cosa succedeva all'Unità prima del mio arrivo? Succedeva che il giornale perdeva una montagna di soldi. Poi però ci ho messo le mani io, e la situazione economica si è, in qualche modo, regolarizzata».
Con due anni di stato di crisi, cassa integrazione, con venti giornalisti che hanno dovuto lasciare il giornale.
«Abbiamo sistemato la situazione grazie anche ai sacrifici della redazione, certo... ma le ricordo che io presi il giornale quando i suoi libri contabili stavano per finire in tribunale e... come dire? non era bello che ci finissero».
Può essere più preciso?
«Era il 2008, ed eravamo in piena campagna elettorale. Non era il caso che il giornale fondato da Antonio Gramsci finisse la sua storia tragicamente. Così mi impegnai a fondo, investendo anche molto nelle nuove tecnologie, nel digitale, nel web, dove ci siamo tolti e ci togliamo qualche soddisfazione. Naturalmente, come capita anche altrove, mentre il giornale in rete gode buona salute, quello su carta soffre abbastanza».
All'inizio della scorsa estate, l'arrivo del nuovo direttore Claudio Sardo coincise anche con l'annuncio di un serio piano di rilancio della testata cartacea.
«E infatti l'abbiamo rilanciata...».
Questo non risulta ai giornalisti.
«Le dico che abbiamo proceduto come...».
Non c'è traccia neppure del nuovo formato grafico, che avrebbe dovuto sostituire quello attuale, piccino, una miniatura de l'Unità che fu.
«Il rilancio, le ripeto, c'è stato e...».
Soru, questo mese i giornalisti rischiano di non essere pagati.
«Uff! Diciamo che adesso... beh, adesso c'è chiaramente bisogno di qualche energia economica nuova...».
Posso chiederle di essere più esplicito?
«L'Unità, per quanto mi riguarda, è in vendita».
Lei sta cercando un acquirente?
«Sono due anni che lo aspetto, e che lo cerco».
Il suo tono di voce è netto: sono costretto a chiederle se è ipotizzabile addirittura una chiusura del giornale.
«No, in questo momento non è ipotizzabile».
(Renato Soru, 54 anni, imprenditore ed ex presidente della Regione Sardegna, a lungo esponente di spicco del Pd — uomo gelido, chiuso, la timidezza confusa spesso con la supponenza, unico vezzo quello di portare il colletto della camicia bianca abbottonato ma senza cravatta, in purissimo stile sardo — nel settembre scorso indagato per «evasione fiscale», è anche e soprattutto ricordato come il geniale fondatore di Tiscali. All'aeroporto di Cagliari, la pubblicità della sua ex azienda era chiusa in tre parole: «Libertà. Velocità. Semplicità»).

La Stampa 16.12.11
Bersani: “Un voto contro il governo sarebbe un voto contro di me”
di Carlo Bertini


ROMA «Sono molto deluso per le mancate liberalizzazioni, ma il termine stupefatto contiene anche un attestato di stima per la persona del premier e mi aspetto che rimedi al più presto». Ha appena stoppato i malpancisti del suo partito, rassicurandoli che «in aula difenderò io i lavoratori precoci», quelli «entrati in fabbrica a 15 anni» che vanno in pensione dopo 42 anni di lavoro. Lanciando pure un ultimatum, «perché la battaglia politica su questo punto la incarno io e un voto contro Monti sarebbe un voto contro di me». E ora il leader del Pd esce sollevato da un’assemblea del gruppo servita a far sfogare gli umori più plumbei dei Democratici.
Dopo le dichiarazioni di guerra dei filo-Cgil Boccuzzi ed Esposito che avevano minacciato di astenersi o di votare contro la fiducia, in serata arriva la schiarita. E anche i due dissidenti, che con la loro astensione potevano provocare un effetto domino, si dicono soddisfatti.
«Ho sentito un discorso molto convincente del segretario dice Boccuzzi che mi ha tranquillizzato sul fatto che i temi da noi sollevati sulle pensioni, quelli dei lavoratori “penalizzati” e dei “precoci” non sono rimasti confinati nel recinto della Commissione Lavoro. Insomma, è una battaglia che il partito ha fatto propria e ora possiamo votare la fiducia». L’ex operaio non nasconde la sua «grande sofferenza emotiva» e racconta come «questa manovra non piace a nessuno nel Pd». Lo testimoniano gli interventi preoccupati di vari deputati che, sulla falsariga del responsabile Lavoro Damiano, all’assemblea del gruppo hanno sollevato forti critiche al decreto.
Bersani è consapevole che con un partito in crescita nei sondaggi (al 28,5%) e la voglia di andare a votare dei suoi, sarà dura tenere il timone in un mare in tempesta come quello in cui naviga il Pd costretto a votare i sacrifici per i pensionati. Per questo va dicendo che si batterà per attenuarli, mostrandosi fiducioso che almeno sulle liberalizzazioni «Monti rimedierà». E ad un certo punto sbotta: «E poi, è mai possibile che i commercianti dalla sera alla mattina si siano visti abolire licenze, orari e quant’altro dal signor Bersani e ora dicano giustamente “ma tocca solo a noi? ”. E che oggi invece una parafarmacia con un farmacista laureato non possa vendere le medicine solo perché lì accanto c’è una farmacia? Non esiste». E se sui lavoratori “penalizzati” dalla riforma delle pensioni, già si prevedono correzioni nel decreto mille-proroghe di fine anno, per intervenire sulle liberalizzazioni il leader Pd osserva che «se vogliono gli strumenti li hanno eccome. E non ci sono solo le farmacie, si deve parlare di assicurazioni, banche, petrolio, trasporti. E chiederemo che si applichi subito una legge sulla concorrenza che è già prevista ma è bloccata da tre anni».
Poco prima, al gruppo Pd, il segretario stoppa le norme sul mercato del lavoro come prossimo passo del governo, perché «altro che flessibilità, il tema non può essere l’articolo 18, ma una riforma degli ammortizzatori sociali usando i risparmi delle pensioni. La barra è possibile raddrizzarla anche dopo, ora dobbiamo riuscire a valorizzare i miglioramenti oggettivi della manovra che siamo riusciti a ottenere, senza concentrarsi su ciò che manca. Detto questo, vogliamo prenderci a cuore la sorte dei “precoci”, perché l’Italia deve premiare chi è andato a lavorare da giovane, non penalizzarlo. Ma è un compito che porteremo a termine solo se restiamo compatti».

il Riformista 16.12.11
La sinistra e la strategia per il dopo
di Emanuele Macaluso


È stato osservato che i due partiti, Pdl e Pd, alternativi, ma convergenti nel sostenere il governo, non si identificano con la manovra economica di Monti. Anzi sono critici. Uno dei quotidiani berlusconiani, Libero, ieri con un gran titolo su tutta la prima pagina gridava: «Silvio, ferma la rapina». Il linguaggio è quello sguaiato della Lega e anche di Di Pietro. L’unica forza che si identifica con la manovra è quella che si raduna nel cartello centrista di Casini, Fini e Rutelli. Questo quadro qualifica il governo per quel che effettivamente è: un esecutivo di emergenza espresso da professionisti che provengono dall’area democratico-moderata. Un governo, come ha ricordato lo stesso presidente del Consiglio, che deve ottenere la fiducia da forze che chiedono continuità con la politica dei governi di Berlusconi o rivendicano discontinuità rispetto a quella politica.
La storia delle liberalizzazioni, e dei rattoppi sulle misure economico-sociali, va ricondotta a questa difficile navigazione. Il discorso quindi torna da dove è cominciato: i caratteri devastanti della crisi economica e sociale che attraversa l‘Europa e colpisce particolarmente l’Italia anche per responsabilità di chi l’ha governata.
La cagnara vergognosa della Lega, inscenata al Senato, dice tutto su cosa è una parte rilevante del personale politico che ha governato il paese sino al disastro. Sull’altra sponda, l’avventurismo dell’ex Pm Di Pietro stupisce solo gli stupidi che, ritenendosi furbi, lo hanno accreditato come forza di sinistra. La sinistra vera, che origina da una storia antica e che ha contribuito a ricostruire la democrazia italiana, prima di ogni cosa, deve valutare la situazione in relazione agli interessi generali e permanenti del paese. Al tempo stesso deve essere in grado, in un situazione così complessa, di mantenere la propria autonomia anche per indicare una prospettiva e delineare un futuro.
La situazione di oggi, è come dicevo, complessa, ma al tempo stesso semplice. Fatto ogni sforzo per modificare in una certa direzione la manovra (alcuni significativi risultati sono evidenti) le alternative sono: o votare il decreto e sostenere il governo o negare la fiducia, aprire la crisi e iniziare la campagna elettorale. Qualcuno dice che questa alternativa si configura come un ricatto. È vero, ma a ricattare, non solo le forze politiche ma i cittadini chiamati a pagare, è la situazione in cui ci troviamo. Cosa avrebbero pagato i ceti più deboli con la destra al governo? E cosa avrebbero pagato nel caos del senza governo? Quel che c’è è il “meno peggio”? Ma il meno peggio non è meglio del peggio?
È chiaro che proprio questa situazione sta delineando con più nettezza gli schieramenti per un futuro non lontano: il 2013. In questa fase, mentre è in corso uno scontro che ha rilievo europeo, la sinistra deve attrezzarsi per elaborare un programma di governo e definire meglio la sua identità. E fra le urgenze, continuo a ricordarlo, c’è anche la legge elettorale.

il Riformista 16.12.11
Scioperi infiniti Cgil, Cisl e Uil contro il governo
di Giuseppe Cordasco


MANIFESTAZIONI. Continua anche oggi la protesta dei trasporti. Lunedì tocca al comparto pubblico: si fermerà tutto il personale statale (anche medici e comparto scuola), per l’intera giornata.

Per cambiare la manovra “salva-Italia” ognuno sta utilizzando gli strumenti che ritiene più efficaci. Ci sono i farmacisti che hanno dimostrato di avere un efficiente lobby in Parlamento; ci sono i taxisti che invece hanno potuto contare su appoggi prettamente “municipali”. E ci sono poi lavoratori e pensionati, che da sempre ricorrono all’unico mezzo di pressione a loro disposizione: lo sciopero.
La protesta sindacale rappresenta una delle armi di dissuasione più pesanti, ma allo stesso tempo però ha l’innegabile pregio di essere il più possibile esplicito e trasparente. Nessun emendamento approvato furbescamente nottetempo facendo forza su fumosi regolamenti parlamentari dunque, ma una leale sfida lanciata da attori che ci mettono innanzitutto la propria faccia, scendendo spesso in piazza, e ci ri-mettono poi anche dei soldi, visto che le ore di sciopero per chi lavora vengono naturalmente decurtate dallo stipendio. E non sembri poco tutto ciò, visto che siamo in un periodo di crisi e molti bilanci familiari risultano già pesantemente in bilico. Eppure, la voglia di protestare, almeno per il momento, non si smorza, tale e tan-
ta è la convinzione di aver subito da parte del governo Monti un torto evitabile. E allora non c’è da meravigliarsi se proprio in questi giorni stiamo assistendo a quella che potrebbe essere definita un’ondata di scioperi, seppur ancora controllata e ben modulata nel tempo.
Ma vediamolo nel dettaglio questo “calendario” di agitazioni decretate tutte, nell’ottica sindacale, con lo scopo appunto di rendere la manovra più equa e più giusta. Il primo appuntamento c’è già stato e si è consumato lunedì scorso, con lo sciopero generale di tre ore decretato in tutto il settore privato. Tra ieri e oggi invece a incrociare le braccia sono i lavoratori dei trasporti. Una protesta che interesserà il trasporto pubblico locale e ferroviario e che è stata proclamata anche questa unitariamente per rivendicare, fanno sapere fonti sindacali, «il ripristino dei finanziamenti al servizio pubblico locale ed al servizio ferroviario universale e per il nuovo contratto della mobilità». Lo sciopero interesserà anche il personale di bus, metro e tram dei servizi urbani con modalità diverse da città a città. Ma non finisce qui perché in molti oggi dovranno rinunciare pure ad andare in banca visto che ad astenersi dal lavoro saranno anche i lavoratori del settore del credito. Anche qui unitariamente perché le modifiche alla manovra introducono solo «un embrione di equità», ma secondo i bancari confermano in pieno le ragioni della loro protesta.
È già stato fissato per lunedì 19 dicembre invece lo sciopero dei lavoratori del pubblico impiego e della scuola. Per i primi l’astensione dal lavoro durerà l’intera giornata mentre per il settore della conoscenza le modalità saranno diverse. Per la scuola sarà di un’ora mentre per i lavoratori dell’università, della ricerca e Afam per l’intera giornata. Sempre la settimana prossima e sempre lunedì inoltre è in programma lo sciopero unitario dei lavoratori delle Poste italiane per le ultime tre ore di turno. Una protesta a cui si uniranno con la stessa modalità e lo stesso giorno anche i lavoratori del settore energetico. Nelle ultime ore poi è stata annunciata anche l’agitazione da parte delle edicole che resteranno chiuse da martedì 27 a giovedì 29 dicembre per protesta della categoria degli edicolanti contro misure di liberalizzazione che coinvolgeranno anche la rete di vendita dei giornali.
C’è da ricordare infine che parallelamente a tutte queste iniziative proseguiranno i presidi di Cgil, Cisl e Uil davanti al Parlamento. Gli appuntamenti sono già stati fissati per oggi pomeriggio e anche per sabato mattina sempre in piazza Montecitorio. Si ripartirà poi lunedì della prossima settimana, tutti i giorni, per arrivare fino alla vigilia di Natale. Le tre confederazioni si sono infatti date appuntamento davanti alla Camera la mattina di sabato 24 dicembre a partire dalle 10. Ad intervenire saranno i leader di Cgil, Cisl e Uil, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, che sottolineeranno come per questo Natale per gran parte degli italiani ci sia ben poco da festeggiare.

La Stampa 16.12.11
La lobby che manca
di Massimo Gramellini


La battuta dell’anno l’ho sentita per strada ieri: «Povero Monti, da commissario europeo fermò Bill Gates e qui non riesce neanche a liberalizzare le farmacie». Dov’è la battuta? Che a farla era un tassista. Ebbene sì, in questo Paese dove tutti, dai farmacisti ai tassisti (per tacere dei papaveri ministeriali a difesa del doppio stipendio), hanno un nume tutelare in Parlamento, l’unica categoria rimasta fuori dai pacchi natalizi sono gli ospiti degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ai tempi del fascismo si chiamavano manicomi criminali e da allora non è cambiato nulla, solo la targhetta sugli edifici. Napolitano li ha definiti «luoghi indegni di un Paese appena appena civile». E in quel doppio «appena» affiora la pena di chiunque abbia visto il filmato della commissione d’inchiesta: uomini trattati peggio di bestie rognose, legati ai letti con un buco nel mezzo per far scendere l’urina. Seicento di loro non sono pericolosi: uno è finito dentro nel 1992 per aver fatto irruzione in banca con una mano in tasca gridando «questa è una rapina». Fu giudicato incapace di intendere e di volere e mandato in uno di quei centri immondi. E’ ancora lì e chissà quanto ci resterà, perché fino a ieri sera la proposta della commissione Marino di creare veri centri di cura era stata dimenticata in un cassetto dagli estensori del decreto sulle carceri.
Mi rendo conto che i problemi che ci attanagliano sono ben altri: uno per ogni lobby rappresentata in Parlamento. Ma oggi lasciatemi fare il lobbista solitario di quella povera gente che non porta voti a nessuno, soltanto l’eco di una vergogna che ci riguarda tutti.

La Stampa 16.12.11
In arrivo misure svuota-celle
Utilizzo più esteso delle camere di sicurezza e depenalizzazione dei reati minori
Carceri affollate: pronto il nuovo piano
Pacchetto Severino: oltre ai domiciliari più facili, il ricorso alla “messa in prova”
di Francesco Grignetti


In nove regioni italiane tutte le carceri superano il limite di capienza
Ogni anno 21 mila detenuti entrano in galera e sono liberi dopo appena 72 ore 68 mila detenuti La popolazione carceraria: dati della Polizia Penitenziaria 45 mila posti La capienza delle carceri italiane: 23 mila detenuti di troppo in galera 170 morti in un anno Negli ultimi 12 mesi: di questi ben 60 si sono tolti la vita 38 mila poliziotti L’organico della Polizia Penitenziaria: 7000 in meno del necessario

L’emergenza del sovraffollamento nelle carceri non permette altro tempo. È di ieri la notizia di un’ennesima violenta rissa marocchini contro albanesi nel cortile di un carcere, a Genova. E quindi al consiglio dei ministri di oggi il ministro della Giustizia, Paola Severino, porterà il suo pacchetto per alleggerire la pressione nelle celle. «Misure alternative le ha definite il ministro per alleviare una situazione carceraria che mi sta molto a cuore». Non ci sarà il bracnuti lasceranno gli istituti di cialetto elettronico, come si pena e andranno ai domiciliaera ipotizzato in partenza, ri. La seconda misura in arrima un’altra misura deflaziovo è meno discussa pubblicanistica ampiamente dibattumente, ma il ministro la consita: allungare da 12 a 18 mesi dera altrettanto indispensabiil residuo di pena che si pole: utilizzare più estesamente trà scontare a casa. In quele camere di sicurezza di polisto modo almeno 3300 detezia e carabinieri per gli arresti in flagrante. stiano in camera di sicurezza
Attualmente gli arrestati anche tre giorni, fintanto che possono trascorrere una notnon siano condotti davanti al te e non di più nella camera di giudice per il processo in «disicurezza di un commissariarettissima». In questa manieto. Grazie ad un accordo anra si potrebbe evitare il sistecora in discussione con il mima detto della «porta girevonistero dell’Interno, potreble» per cui ben ventunomila be accadere che gli arrestati detenuti ogni anno varcano le porte di un istituto penitenziario e ne escono dopo appena 72 ore. Condannati e subito scarcerati grazie alla condizionale. Accanto alle misure previste da un decreto immediatamente esecutivo e che dovrebbe funzionare da istantanea valvola di sfogo ci saranno altre misure più strutturali su cui il ministro investe molte speranze. Ci sarà un ddl sulla depenalizzazione per i reati minori, il cui elenco è rinviato alla legge-delega che seguirà. Sarà allargata la possibilità della reclusione domiciliare, ovvero la possibilità di scontare la pena definitiva ai domiciliari (oggi consentita agli ultrasettantacinquenni).
Un’altra misura su cui la Severino si spende molto, infine, è la cosiddetta «messa in prova» che è stata sperimentata per i minorenni e ha funzionato molto bene. Fermo il principio che non potrà essere utilizzata per tutti i reati, e che ci saranno quindi alcune esclusioni oggettive, la «messa in prova» prevede che il processo sia sospeso per affidare la persona ai servizi sociali degli enti locali e seguire un percorso di rieducazione.
Gli avvocati penalisti dell’Unione camere penali, che da tempo si battono per le carceri, la spronano a misure coraggiose, «prevedendo misure alternative svincolate da lacci e lacciuoli».

Repubblica 16.12.11
Hollande: "Il rigore non basta cambiamo il patto Merkel-Sarkozy E l´Italia torni tra i protagonisti"
Il candidato del Ps all´Eliseo: "Voglio la giustizia fiscale"
intervista di Anais Ginori


Il piano francese sulle pensioni non è giusto Bisogna consentire lo stop a 60 anni a chi ha cominciato a 18 anni e ha i contributi necessari
Io voglio imporre alcune priorità: giovani e istruzione, produzione e competitività, equità nelle tasse e nel sociale
Il motore franco-tedesco è essenziale per l´Europa quando è in grado di trascinare, di convincere, non di imporre
Le sinistre francesi, italiane e tedesche devono poter elaborare una risposta comune e alternativa all´attuale crisi
L´attuale presidente dice che non ha colpe per la disoccupazione e il debito esplosi sotto il suo mandato. Ma la verità è un´altra

«L´Italia deve tornare a essere protagonista in Europa. È assurdo rinchiuderci in un tête à tête tra Francia e Germania». François Hollande ha già preso un piglio presidenziale, per come parla ispirato, con frasi nette, assumendo spesso un tono grave che si differenzia molto da quello, più bonario, che tutti conoscevano fino a qualche mese fa. Il candidato della gauche si appresta a sfidare Nicolas Sarkozy con la speranza di entrare all´Eliseo, diventando il secondo presidente socialista della Quinta Repubblica dopo Mitterrand. «Le sinistre francesi, italiane e tedesche devono poter elaborare una risposta comune e alternativa alla crisi» racconta Hollande che stamattina arriva a Roma, su invito del partito democratico. Nel corso del colloquio con Repubblica, le sue parole più frequenti sono "giustizia", "equità", "speranza". E sul suo rivale dice: «Sarkozy ha fallito e vuol far credere a tutti di non avere nessuna responsabilità».
L´Europa ha faticosamente raggiunto un nuovo accordo per la riforma dei Trattati. Se lei sarà eletto, lo sottoscriverà?
«L´accordo approvato a Bruxelles il 9 dicembre non risolve la situazione. È vago. Nessuno ancora ne conosce la traduzione giuridica. In questa emergenza, una revisione dei trattati dall´esito incerto è una perdita di tempo. Generalizzare le politiche di austerità non ci permetterà di superare questa crisi. La crescita è stata dimenticata dall´accordo, come anche gli eurobond. Se sarò eletto dai francesi, chiederò che venga rinegoziato per favorire anche la crescita e la solidarietà».
Angela Merkel dispone e Sarkozy esegue?
«Il metodo è sbagliato. Riconosco che il motore franco-tedesco è essenziale per l´Europa quando è in grado di trascinare, convincere, non di imporre. Rinchiudersi in un faccia a faccia porta solo a privarci di sostegni importanti, come ad esempio quello del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. Il lavoro con gli altri partner europei è fondamentale, in particolare quello con l´Italia, grande paese fondatore dell´Europa. È ciò che vengo a dire agli amici del partito democratico, come ho già fatto con la Spd in Germania».
Oggi incontrerà anche il Presidente Napolitano e il premier Monti. Cosa pensa del nuovo governo tecnico?
«Vorrei intanto rendere omaggio a Giorgio Napolitano e alla sua azione per l´Italia e l´Europa. Mario Monti ha ricevuto la fiducia dal parlamento, che ha scelto di rispettare la scadenza elettorale già fissata. Nei prossimi mesi avremo in Francia, Germania, poi anche in Italia, importanti appuntamenti elettorali. E´ la grande forza delle democrazie in questi tempi di crisi».
Il rigore finanziario è l´unica via possibile?
«Niente potrà essere fatto senza una riduzione dei deficit e del debito. Quello che propongo ai francesi è un ritorno programmato all´equilibrio di bilancio nel 2017 seguendo un criterio di giustizia sociale. Non basta. Dobbiamo creare le condizioni per rilanciare la crescita e sviluppare gli strumenti per una regolamentazione che permetta alle nostre democrazie di prendere il sopravvento sul ricatto imposto dai mercati finanziari».
L´Italia sta approvando una nuova riforma delle pensioni. Lei vuole rinegoziare quella approvata dall´attuale governo francese, che ha abolito l´età pensionabile a 60 anni?
«Il piano di Sarkozy non è né giusto né sostenibile finanziariamente. Correggere quella riforma è soprattutto una questione di giustizia. Bisogna ristabilire la possibilità di andare in pensione a 60 anni per quelli che hanno incominciato a lavorare a 18 anni, o prima, e che hanno i contributi necessari. Ne discuterò anche con i sindacati. Contrariamente a Sarkozy, non voglio usare la comunicazione come alibi né dare soluzioni dogmatiche».
La crisi può accelerare il cambio di maggioranza in Francia com´è già successo in altri paesi europei?
«La crisi è ovviamente un dato essenziale dell´elezione di maggio 2012. Spetterà ai francesi fare una scelta di cambiamento dopo un quinquennio nel quale il Presidente uscente ha fallito».
Lei è sempre favorito nei sondaggi ma Sarkozy ha recuperato qualche punto. Teme un´inversione di tendenza?
«Francamente, preferisco essere in questa situazione anche se cerco di non occuparmi troppo dei sondaggi. Sarkozy vuole far credere di non avere non avere nessuna colpa, di non essere responsabile dei deficit pubblici esplosi sotto al suo mandato, del debito, della disoccupazione. La verità è invece che ha una pesante responsabilità nei problemi che la Francia oggi attraversa. Il mio dovere è mostrare che un´altra via è possibile. Voglio creare un nuovo slancio, aprire la speranza, imponendo alcune priorità: i giovani e l´istruzione, la produzione e la competitività, la giustizia fiscale e sociale».
Cercherà un accordo con François Bayrou, candidato centrista sempre più popolare?
«Bayrou è un politico che rispetto ma non appartiene alla sinistra. Le sue posizioni sono spesso conservatrici. Su molti punti siamo in disaccordo. Il cambiamento in Francia non passa da lui. Quando ci sarà il secondo turno delle elezioni, Bayrou dovrà scegliere tra il Presidente uscente, che ha spesso combattuto, e il candidato del cambiamento e della giustizia, quale io voglio essere».
Se sarà eletto, quale sarà il suo primo atto da Presidente?
«La destra ci lascerà la Francia in uno stato economico e sociale tale che avrò molte emergenze da affrontare. Dovrò dunque andare subito all´essenziale. È per questo che la prima legge che proporrò ai parlamentari è quella di una grande riforma fiscale, affinché i prelievi siano più progressivi ed equi. Nessuno sforzo sarà accettato dai francesi se non vedranno che è equamente distribuito. Questa riforma fiscale sarà la base sulla quale potrò sviluppare le mie priorità. In un contesto così difficile, voglio dare una speranza credibile al mio paese».

Repubblica 16.12.11
Germaniafobia se i tedeschi hanno paura di fare paura
di Andrea Tarquini


Accuse ai "diktat" della Merkel vignette irriverenti, paragoni con "l´occupazione nazista" La Germania si riscopre potenza minacciosa e arrogante nei giudizi della Ue. Uno shock che risveglia il peggiore incubo dei tedeschi: essere odiati
Addio all´immagine della "cool Germany", della festa globale dei Mondiali 2006
Le severe ricette per risanare l´economia hanno cambiato gli umori verso il Paese
"Miopi se esitiamo guerrafondai se acceleriamo. Ma come si fa a piacervi?"
«Achtung, it´s Angela!». La copertina di Newsweek è stata l´ultimo pugno nello stomaco. Dopo vignette online d´oltre Reno con Merkel meretrice sadica che frusta il cliente masochista Sarkozy e lo piega a dire no agli eurobond. Dopo socialisti francesi in campo contro «i Diktat che pongono di nuovo la questione nazionale tedesca», o politici greci disinvolti a paragonare le severe ricette salvaeuro di Berlino «al terrore dell´occupazione nazista». La Germania è sotto shock: si riscopre vista come potenza minacciosa e cattiva dal resto d´Europa. L´antico incubo collettivo globale del "tedesco cattivo" torna a prevalere: addio all´immagine della cool Germany della festa globale ai mondiali di calcio 2006, bye-bye sogno di Berlino mèta globale, metropoli giovanile e spassosa che non intimorisce, nuova Londra della movida mitteleuropea. Germanofobia, si chiama il trend: sembrava tramontato, torna a dominare emozioni e umori.
E la doccia gelata sveglia i tedeschi in uno shock gettandoli in un trauma forse pericoloso. Non è solo questione di una cancelliera mal vista all´estero, descritta come "madame Non", eterna temporeggiatrice d´Europa. Il passato non passa, torna a dominare il presente nell´immaginario collettivo degli altri, minaccia il futuro. Ricordi-fantasma dell´arroganza guglielmina più che nazista scendono in campo: "Das deutsche Wesen soll die Welt genesen", lo spirito tedesco guarirà il mondo, disse Guglielmo II, german way per tutti temuta oggi come ieri.
Sconcerto, fastidio, qualche autocritica ma anche delusione verso l´Europa. Gli umori li cogli a ogni angolo, contagiano bipartisan e trasversali politici e opinion maker governativi o comunque "merkeliani" e leader o intellettuali liberal o d´opposizione, e la gente comune, per chiunque pensi di votare. Ma insomma, cosa vuole il mondo da noi?, è il messaggio che lancia ogni interlocutore: basta con gli attacchi a qualsiasi scelta tedesca. Basta criticarci se facciamo troppo poco, se restiamo "gigante economico e nano politico", e insieme di spararci addosso se invece da leader proponiamo condizioni per salvare l´euro e l´Europa. Tentativi di leadership, cui qui nella fredda Berlino invernale la gente comincia a non credere più. «Da soli, senza il resto d´Europa, forse staremmo meglio», senti mormorare nel metrò o negli shopping centers affollati per Natale: quasi metà dei tedeschi, 46 su cento, ne sono convinti. Oppure: «Qui viviamo in 81 milioni, di cui 15 con origini straniere, e vivono ben meglio che non da dove vengono». Risveglio amaro, mitigato appena dalla Kaufkraft potere d´acquisto, un valore costitutivo del dopoguerra occidentale che resta forte, e almeno qui ingrassa ancora lo shopping. La fiducia negli altri europei se mai c´è stata svanisce, a cominciare dall´Italia. «Monti è l´opposto di Berlusconi, ma alla sua manovra gli italiani reagiscono come sono sempre stati bravi a fare, scioperando», scriveva il corrispondente del filogovernativo Die Welt l´altro ieri. Laboriosi, efficienti, primi della classe consapevoli, i tedeschi si sentono soli. Spaccati tra voglia di leadership a ogni costo e spinte allo splendido isolazionismo, come accadde a volte agli Usa in mezzo secolo di guerra fredda.
Salvare l´Europa, senza sentirsela di fidarsi di italiani, spagnoli e greci, senza nemmeno certezza che il rating francese regga? «La germanofobia è uno strumento di quei governi che vogliono essere salvati ma rifiutando le condizioni, bella soluzione a buon mercato, mai aspettarsi gratitudine da un debitore», commenta secco l´ex consigliere di Helmut Kohl sugli affari europei, Michael Stuermer, storico di grido e grande voce dell´intelligentsija conservatrice. Con tutto il suo aplomb da gentiluomo anglofono, di certi eccessi non ne può più. La vignetta sul Guardian con Angela Merkel come una lasciva Salomé con l´elmetto chiodato cui il servo Sarkozy offre la sua stessa testa, o quel commento sul Daily Mail secondo cui «con commercio e Diktat finanziari i tedeschi riusciranno oggi dove Hitler fallì con il Blitzkrieg, domineranno l´Europa», non gli vanno giù.
Dalle stanze della Cancelleria ai piani alti della Cdu, l´abitudine al contegno stenta a trattenere esplosioni d´insofferenza. E tra la gente in strada, quelle vignette semioscene e quei commenti ostili da tutto il mondo sparati in prima pagina con rabbia da Bild e dagli altri tabloid popolari di qui, sorprendono e fanno male. «Egoisti e miopi se esitiamo a guidare, guerrafondai imperialisti se tentiamo la leadership, ma insomma come si fa a piacervi?», sbotta un professore di liceo. Rabbia, delusione, tentazione di pensare solo a se stessi, li cogli tra la gente forti come non mai da decenni, certo come non mai dopo l´89 della caduta del Muro. «Per anni ci hanno rimproverato come una mega-Svizzera che rifiuta ogni ruolo da leader per l´Europa, ora che tentiamo ci sparano addosso. Via, anche l´America superpotenza scontentò tutti ma tirò avanti, dovremmo seguirne l´esempio», nota Clemens Wergin, editorialista principe di Die Welt, quotidiano liberalconservatore e vicino al governo. Continua amaro: «Questo clima ci ricorda che tra europei non sappiamo sentirci nazione. Perché non capite che ai nostri politici è difficile convincere gli elettori a pagare i debiti degli altri? Tra crediti e garanzie, il salvataggio dell´euro peserà per circa 600 miliardi su un debito tedesco già troppo oltre i tetti di Maastricht, e quando mai rivedremo quei soldi?». Eppure, dice ancora, «in questo clima è urgente che il governo Merkel resista a tentazione di alzare la voce, già si sentono a Bruxelles lamentele sull´arroganza dei tedeschi. Ma ciò detto, guidare l´Europa è un ruolo obbligato, non un compito che la coscienza collettiva della Germania post-89 ha tanta voglia di assumersi».
Soprassalto duro dei liberalconservatori merkeliani? Non solo. Certo, qui a Berlino l´opposizione interna, destra eurofrigida se non euroscettica, nel partito della Cancelliera si organizza in corrente. Minaccia seria: col manipolo di contestatori neocon nazionali, la donna più potente del mondo deve trattare. Ma anche se senti gli opinion leader liberal, le critiche al resto d´Europa fioccano pure e dure. «Qualche errore è venuto da parte tedesca, quella frase del capogruppo cdu Kauder secondo cui "l´Europa ora parla di nuovo tedesco", è imperdonabile, però i tedeschi si sentono bocciati sia se fanno troppo poco per l´Europa, sia se cercano di assumersi la responsabilità di salvarla», nota Giovanni di Lorenzo, forse la migliore "grande penna" di Germania, direttore del prestigioso settimanale liberal Die Zeit. «Certi commenti dei partner europei sottolinea sembrano dimenticare che salvare l´euro e l´Europa costerà anche ai tedeschi, e anche qui da noi per quelle centinaia di miliardi pagheranno prima di tutto i ceti più deboli».
L´umore si fa più cupo, la vittoria contro Cameron isolato al vertice europeo non è bastata. Non sveglia entusiasmi di chi vive e vota qui. Anni di salari e stipendi alti ma fermi contro inflazione e debito, tagli a welfare e pensioni, e poi pagare per il Sud Europa spendaccione? «La Germania si mostra paese civile, società tranquilla, non cede alle emozioni. Non noti ancora esplosioni di collera», afferma di Lorenzo, «non emergono populisti euroscettici, e l´unico partito che ha cavalcato a un´elezione le riserve sull´euro, i liberali, ha pagato con la disfatta a Berlino». Resta da vedere fino a quando. La diffidenza profonda degli altri europei, ieri acqua passata, torna come uno schiaffo, «la pressione morale rispunta da pagine che credevamo voltate», avverte Lorenz Maroldt, direttore del Tagesspiegel, il più influente quotidiano liberal della capitale, nella nuova, austera sede a Kreuzberg quartiere giovanile e multietnico. «Pesano sulle chances del futuro anche frasi pronunciate dalla cancelliera a cuor leggero, come quella secondo cui "i portoghesi non lavorano abbastanza". Il pericolo mette in guardia è che il nostro governo non riesca a convincere nessuno: né i suoi elettori refrattari a nuovi sacrifici, né i partner europei riluttanti al rigore made in Germany».

Repubblica 16.12.11
L’Europa cerca i nuovi cattivi per nascondere i suoi errori
di Peter Schneider


Cool Germany, la Germania attraente e simpatica, come ai mondiali di calcio 2006, cool Germany come da anni per i milioni di turisti giovani che vengono a Berlino. Agli occhi dell´Europa e del mondo eravamo o apparivamo così, fino a ieri. Adesso, leggendo le prime pagine dei media europei e internazionali, ascoltando certe dichiarazioni di politici di paesi partner e alleati dal dopoguerra, vediamo riemergere l´immagine dello ugly German, del tedesco cattivo. È un problema abbastanza serio. Ci dice che forse ci eravamo illusi, e forse quell´immagine con radici in un passato ormai lontano ma anche passato che non passa, quell´immagine non era mai scomparsa. Alla prima occasione riemerge.
Ripescare l´immagine del tedesco cattivo, diciamolo, è anche un modo molto comodo di reagire, per quelle nazioni e popoli che devono mettere ordine nei loro bilanci e conti pubblici. Un modo comodo per distogliere l´attenzione dai loro errori o dagli errori delle loro leadership, e qui parliamo sempre di leadership democraticamente elette.
Un modo, il più a buon mercato che ci sia, per dire a se stessi, alla propria opinione pubblica, all´Europa e al mondo, qualcosa come «non siamo stati noi a commettere errori, è colpa dei tedeschi cattivi».
Detto questo, ci sono problemi, o comportamenti problematici anche da parte tedesca. Quando per esempio, com´è accaduto di recente, un politico del calibro di Volker Kauder, cioè il capogruppo parlamentare del partito della Cancelliera, dice in pubblico esultando che «finalmente l´Europa intera torna a parlare tedesco», è un errore imperdonabile. Con errori imperdonabili di questo tipo non facciamo altro che provocare e stimolare quelle tendenze al riflesso automatico di ripescare l´immagine del tedesco cattivo che, non illudiamoci, non sono mai morte. La situazione è seria, per l´immagine e il ruolo della Germania nel mondo. Vediamo una profonda ambivalenza verso la Germania e i tedeschi, quello che negli Usa chiamano double bind. A lungo i tedeschi sono stati criticati come gigante economico ma nano politico. Ma non appena come al vertice di Bruxelles, finalmente assumono un ruolo di leadership politica, li si accusa di voler sottomettere l´Europa. Ricorda un po´ la quadratura del cerchio. Da un lato, i tedeschi devono capire che è impossibile che tutti i popoli d´Europa sposino i loro criteri e idee costitutive di stabilità prussiana. Non sarà mai così. Anche se Italia, Grecia, Spagna, con i loro nuovi governi, riusciranno nel loro soprassalto di rigore, non avranno mai quella che nel mondo è nota come disciplina tedesca. Le differenze tra mentalità e culture politiche sono innegabili e insopprimibili. Ma prima di ogni errore tedesco, gli anni dello spreco e delle finanze facili italiani sono imperdonabili, e costituiscono la prima causa della triste realtà che vede l´Europa interna sull´orlo dell´abisso. A ragione, d´altra parte, gli europei accusano Angela Merkel di non dire mai a tempo cosa secondo loro andava fatto. È cominciato con la crisi greca: la cancelliera ha prima detto che Atene non andava aiutata, poi che forse sì, ha lasciato la questione aperta troppo a lungo, e alla fine il costo del salvataggio è triplicato.
È stato così, con la cancelliera temporeggiante, per ogni caso successivo. La signora Merkel dice sempre troppo tardi che vuole salvare l´euro, ogni suo ritardo rincara il conto per tutti.
Su questo sfondo, noi tedeschi ci chiediamo se davvero gli eurobond potranno essere una soluzione. Parliamoci chiaro: sui 17 membri dell´eurozona, quelli con finanze sane o sotto controllo sono circa 5. Se quei 5 devono rispondere dei debiti di tutti e 17, gli interessi sugli eurobond non saranno simili a quelli sui Bund tedeschi. Non 2 o 3 per cento, ma 5 o 7 per cento. E a cosa ciò ci porterà?
Il pericolo di questa situazione in cui l´immagine del tedesco cattivo riemerge, ed è spesso strumentalizzata da leader e parti sociali nei paesi deboli, è di finire tutti in quella che gli anglosassoni chiamano una no-win situation: che Berlino paghi troppo e comprometta il suo rating per salvare tutti e parliamo di crediti e garanzie che sommati fanno al minimo 600 miliardi di euro o che invece punti i piedi con rigore estremo, non è ancora escluso che recessione e bilanci in crisi e deficit di competitività dei nostri partner facciano saltare tutto. Non è escluso che, tedeschi cattivi o no, tra qualche mese non avremo più l´euro. E in quel caso, se l´Europa si disintegra, gli ultimi vent´anni di trend verso l´unità saranno cancellati dalla memoria collettiva. Agli occhi dell´Europa e del mondo allora l´immagine del tedesco cattivo diverrà ancora più forte e pesante.
Certo, tra le cause della crisi attuale e delle profondità della germanofobia ci sono anche quei momenti dimenticati, in cui i costi della riunificazione tedesca portarono a un rincaro del costo del denaro avviato dalla Bundesbank e che contagiò tutta Europa, con gravi conseguenze: svalutazione delle altre valute, fuga dei capitali, danni al potere d´acquisto nel resto d´Europa.
È un argomento, cui bisogna anche aggiungere che oltre metà dell´export tedesco va nel resto d´Europa. Noi tedeschi abbiamo tratto vantaggi come nessun altro paese dalla moneta unica. E noi abbiamo anche accettato la Grecia nell´unione monetaria, facendo grandi affari con l´export di inutili sottomarini per Atene. Ma non è il momento per i risentimenti e rancori. La situazione può tornare ad aggravarsi in ogni momento. Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble hanno magari commesso molti errori con i partner, ma come ha detto il ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski, il loro peggior errore sarebbe non agire. È come nel calcio: verso il capolista della classifica, che giochi correttamente o meno, sorgono passioni ostili a volte incontrollabili.
(testo raccolto da Andrea Tarquini)

Repubblica 16.12.11
Cina, l´esercito assedia gli operai in rivolta stop ai viveri per piegare un villaggio
Le regioni industriali sono colpite da scioperi A Wukan il pugno duro dei soldati
di Giampaolo Visetti


PECHINO La crisi di Europa e Usa contagia anche la Cina, scossa dai venti di rivolta più forti degli ultimi vent´anni. Da settimane le regioni industriali della costa sono colpite da ondate di scioperi, milioni di operai perdono il posto di lavoro e migliaia di aziende, minate dal calo delle esportazioni, falliscono e chiudono. Per la prima volta il «modello Cina», fondato sulla produzione a basso costo destinata all´estero, mostra i suoi limiti: la crescita rallenta e il governo di Pechino teme che il virus dell´instabilità, dalla zona euro si diffonda anche in Oriente. Simbolo delle sommosse che scuotono la seconda potenza economica del mondo è il villaggio di Wukan, nella contea di Shanwei, cuore del ricchissimo Guangdong.
Da cinque giorni i ventimila abitanti del paese, divisi tra pesca, agricoltura e industria, sono sotto assedio da parte dell´esercito. Per sedare la rivolta, iniziata in settembre, le autorità hanno ordinato il blocco dei viveri e da domenica nessuno può entrare o uscire dal villaggio. Mille agenti circondano la zona e continui scontri armati con la popolazione minacciano di degenerare in un drammatico conflitto. Posti di blocco e censura impediscono di entrare a Wukan. Gli abitanti riusciti a fuggire attraverso i campi testimoniano di retate delle forze armate di Pechino, che colpiscono anche donne e bambini con idranti e lacrimogeni. Decine i feriti, mentre tredici leader della rivolta sono stati catturati e messi in prigione.
A far riesplodere la rabbia popolare è stata la morte in carcere del capo degli insorti, Xue Jinbo di 43 anni. Secondo la polizia si è trattato di un improvviso arresto cardiaco. I famigliari, a cui non è stato restituito il cadavere, descrivono invece un corpo martoriato dalle percosse e dalle ustioni. Per la prima volta, dai giorni del massacro in piazza Tienanmen, immagini rubate con il telefonino mostrano una folla inferocita che esibisce striscioni che invocano la «fine della dittatura» e la «morte dei funzionari comunisti corrotti». Giornali e tivù di Stato ignorano la rivolta di Wukan, mentre i filtri governativi non riescono a bloccare le denunce e le richieste di aiuto online degli abitanti, che temono di «essere presto tutti uccisi». Autorità, funzionari locali del partito e ricchi imprenditori sono fuggiti e nel paese regna l´anarchia. A eleggere Wukan a simbolo del pericoloso malessere che percorre la Cina, sono le ragioni della rivolta. La popolazione si è ribellata agli ultimi espropri forzati di terra, eseguiti dai dirigenti comunisti per favorire grandi immobiliaristi privati. In poche settimane, e a prezzi irrisori, oltre metà del territorio comunale è stato sottratto agli abitanti e trasformato da agricolo in edificabile. Fino ad oggi la gente di Wukan, ricca grazie alla pesca, non si sarebbe opposta alla vendita delle vecchie risaie.
Ora però inquinamento e sfruttamento di fiumi e mare non consentono più di vivere e i prodotti delle campagne tornano essenziali. Grazie alla tragedia dell´ex ricco Wukan, costretto a ribellarsi alla corruzione per non morire di fame, la Cina scopre il mix esplosivo di esaurimento delle risorse naturali, degenerazione del potere e fallimento di un modello di sviluppo che sta seminando instabilità in tutta la nazione. Per i leader di Pechino, riuniti in conclave tre giorni per varare un maxi-piano anti-crisi per il 2012, Wukan è il primo campanello d´allarme su una situazione al limite di sfuggire di mano. Da quattro mesi un piccolo villaggio della regione più industrializzata del pianeta riesce a non farsi piegare dalla repressione e centinaia di altri paesi e città stanno seguendo l´esempio della sua resistenza contro gli abusi, mentre anche i territori del Tibet storico sono in subbuglio a causa del sacrificio dei monaci che si danno fuoco per denunciare la colonizzazione cinese. Partito e governo sono impegnati nel cambio di potere da cui emergerà la classe dirigente dei prossimi dieci anni. Non possono permettersi un bagno di sangue, ma nemmeno una prova di incapacità a mantenere l´ordine. Per questo, dall´esito dell´assedio di Wukan, dipende la sorte della Cina e in parte anche quella dell´Europa.

Corriere della Sera 16.12.11
Villaggio in rivolta «Ridateci la terra»
di Marco Del Corona


PECHINO — C'è un posto dove le urla dei cittadini di Wukan non si sentono e dove la folla in piazza non si vede. È Internet. Ieri sera, dalla rete erano spariti i riferimenti al villaggio del Guangdong, insorto contro le autorità locali. Una disputa legata a terre confiscate (secondo i funzionari, invece, regolarmente cedute dall'amministrazione) era cominciata in settembre. La scorsa settimana la tensione è deflagrata con un assalto della polizia, l'arresto di alcuni negoziatori, la morte in carcere di uno di loro, l'assedio del villaggio da parte della polizia. Troppo, per non sterilizzare il web.
Il decesso di Xue Jinbo, 42 anni, supera la questione degli espropri e degli indennizzi e aggrava la crisi. Le autorità parlano di cause naturali. Niente maltrattamenti da parte degli agenti: la stampa ufficiale ieri citava il medico forense Liu Shuiping secondo il quale «non abbiamo trovato evidenti cicatrici e fratture» e «i lividi potrebbero dipendere dalle manette e dalla presa degli agenti». I concittadini di Xue invece pretendono il corpo, che la figlia sostiene essere pieno di ematomi: «Se non ce lo danno, hanno qualcosa da nascondere».
Posti di blocco e polizia. Wukan rimane assediata. Come dimostra l'«armonizzazione» di Internet, la vicenda è considerata sì locale ma seria. Le autorità hanno minacciato di stroncare la protesta, ma hanno anche offerto un'«indagine» sull'esproprio, comunicando che alcuni membri locali del Partito comunista sono stati fermati. Non sembra trattarsi, comunque, di moti antigovernativi: la gente di Wukan, anzi, invoca le autorità centrali perché puniscano i dirigenti corrotti e tutelino la comunità. Uno schema che si ritrova molto spesso durante gli scioperi: gli operai danno voce alle loro rivendicazioni e poi il sindacato ufficiale e/o il Partito intervengono come garanti di una normalizzazione soddisfacente. «Non siamo contro il governo. Vogliamo solo le nostre terre», ha dichiarato infatti uno dei manifestanti alla France Presse. Secondo Sun Liping, studioso dell'università Qinghua, sono stati 180 mila gli «incidenti di massa» avvenuti l'anno scorso. Cancellarli dal web si può. Dalla Cina no.

Corriere della Sera 16.12.11
Ma la vera Agenzia di rating è la Cina
di Federico Fubini


Se doveva segnalare che una crisi finanziaria durata mezzo decennio può diventare crisi politica, il bersaglio è centrato. La Francia di Nicolas Sarkozy ha scelto la via più breve per limitare i danni, di fronte all'opinione interna, del (temuto) adieu alla «tripla A» del rating: lasciar intendere che un evento del genere, la perdita del rang, sarebbe frutto di una congiura anglosassone. Come spiegare altrimenti che la Gran Bretagna venga risparmiata?
Il fatto che questi argomenti abbiano dalla loro la logica economica non li rende politicamente migliori. Londra e Parigi hanno livelli di debito pubblico simili, attorno al 90% del Pil; il deficit e l'inflazione di Londra sono quasi doppi rispetto ai rivali di Oltremanica. Ma Standand & Poor's almeno per ora non mette sotto osservazione la Gran Bretagna perché la Bank of England ha creato liberamente oltre duecento miliardi di sterline per finanziare il deficit, mentre la Banca centrale europea non lo fa per Parigi. Ora si chiama «flassibilità monetaria» e S&P's la ritiene un fattore di forza.
La posizione dell'agenzia non tiene a un esame di logica: il debito di Londra è soprattutto debito estero; stampare e inflazionare moneta per sostenerlo è una strategia dalle gambe corte, perché finirà per mettere in fuga gli investitori non britannici. Lo farà a maggior ragione ora che i piani di crescita e risanamento del governo si dimostrano velleitari. Probabile dunque che Parigi non meriti la «tripla A», ma lo stesso vale per Londra in termini finanziari e per S&P's per la qualità della sua analisi. La rottura del premier David Cameron a Bruxelles sette giorni fa e lo strappo di Sarkozy ieri abbassano molto sotto il livello «tripla A» anche la qualità e il senso di responsabilità dei due leader in questa fase così delicata.
Tanto vale guardare avanti e badare alla sostanza. Questa indica che probabilmente in tempi brevi tutte le grandi economie del mondo (meno il Canada) avranno perso la «tripla A». Londra inclusa. Il termine di paragone per il mercato non sarà più quella formuletta di per sé stupida del «10 e lode», ma un'analisi più complessiva di ogni Paese. Forse sarà un bene. Di certo ciò che conta, cioè i tassi d'interesse sul debito, saranno determinati da un fattore diverso: la disponibilità dei grandi creditori asiatici a finanziare i debiti dell'Occidente. La vera agenzia di rating non è S&P, ma la Cina.

il Riformista 16.12.11
Se Russia e Cina salveranno l’Europa dalla crisi dei debiti
di Paolo Iorio


Bruxelles. Dalla Russia con preoccupazione. E passando per il Fondo monetario internazionale. Il Cremlino, ha assicurato ieri Medvedev al termine del vertice Ue-Russia, metterà a disposizione ciò che sarà necessario per salvare la moneta comune dal baratro, contribuendo a stabilizzare l’eurozona. Ma lo farà solo via Fmi, non direttamente nel Meccanismo di stabilità o nel Fondo salva Stati. Nella mattinata di ieri si parlava di 20 miliardi di dollari, poi l’intervento è stato confermato da Medvedev, ma sorvolando sull’entità. Il tutto partendo da un dato di fatto: il 40 per cento delle riserve russe sono in euro o in titoli legati all’euro. La salvezza della moneta comune è quindi anche una questione di Stato, per Mosca.
E così la Russia è «pronta a investire» in un’operazione di salvataggio, assicurava ieri il Presidente russo. «Continueremo a fornirvi assistenza e siamo pronti ad investire tutti i mezzi finanziari per sostenere l’economia europea e la zona dell’euro», insisteva Medvedev, ipotizzando anche lo studio «di altre misure di intervento», ma caparbio nel non dare i numeri.
La Russia detiene poco più del 2,5 per cento dei diritti speciali di prelievo del Fmi, circa sei miliardi nella valuta del Fondo, calcolata sulla base di 4 monete a rotazione. Secondo il consigliere economico di Medvedev, Arkadi Dvorkovitch, il Cremlino potrebbe iniettare nel sistema altri 20 miliardi di dollari, di cui la metà sbloccabile in tempi assai rapidi, visto che si tratta di fondi che lo stesso Fmi dovrebbe restituire a Mosca. Gli altri 10 miliardi sarebbero legati a ciò che la Ue saprà fare per togliersi dai guai da sola, ossia alle reale messa in atto del Fondo salva Stati, che in realtà sta creando più problemi che soluzioni.
Mosca prende così il cammino già imbracciato dal Brasile, quello di un sostegno all’Europa che cerca di uscire dalla crisi, ma passando per Washington, non per Bruxelles. La manovra ha un suo valore politico, visto che apportando fondi al Fmi si acquista anche peso, potere di voto interno. E da tempo i Brics hanno lanciato la loro battaglia per la cupola della più importante istituzione finanziaria del pianeta. Mancano, come per il caso di Brasilia, le cifre sul tavolo, ma la disponibilità russa ad intervenire c’è ed è stata indicata con chiarezza.
Dall’altro lato Pechino. Anche la Cina ha promesso un sostegno, ma diretto, ossia negoziando con Bruxelles. In questa maniera può imporre le sue condizioni, su tutte quella del silenzio sui diritti umani e la democrazia, una questione su cui la Ue è già da alcuni mesi meno baldanzosa che prima. Effetti collaterali della crisi.
La questione dei diritti umani, legata alle elezioni del 4 dicembre, è emersa anche ieri nel vertice UeRussia. Mercoledì il Parlamento Ue aveva chiesto al Cremlino di ripetere il voto, considerando che quello appena passato non era proprio in linea con gli standard dettati dall’Osce (come peraltro indicato da un rapporto preliminare della stessa organizzazione). Ieri, il Presidente del Consiglio Ue Van Rompuy ha ribadito la «preoccupazione europea» per la regolarità del voto e gli arresti dei manifestanti. Medvedev ha risposto per le rime ad entrambi, direttamente ed indirettamente: «Il Parlamento europeo non c’entra nulla (...) che si occupi dei problemi dell’Europa e non si occupi Russia».
Quanto ai problemi dell’Ue, Van Rompuy ha annunciato ieri un vertice straordinario per fine gennaio o inizio febbraio. Dovrebbe essere questa l’occasione per ultimare l’accordo intergovernativo chiamato a rafforzare la disciplina della zona euro, dopo che il no del Rengo unito (peraltro soggetto a un forte pressing perché ci ripensi) ha chiuso la porta ad una riforma dei Trattati Ue.

La Stampa 16.12.11
La Palestina e l’ignoranza di Gingrich
di Abraham B. Yehoshua


Se il candidato repubblicano nega la creazione di uno Stato palestinese, cosa ne pensa dei milioni di palestinesi che vivono in Giudea e Samaria? Mi hanno detto che Newt Gingrich, candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, è uno storico di formazione più ampia rispetto alla media dei membri del Congresso e del Senato statunitense. Se questo è vero allora le sue affermazioni durante un’intervista a un canale televisivo ebraico americano sul fatto che il popolo palestinese sia «inventato» e che i confini del ‘67 non sarebbero difendibili lo rendono sospetto di ignoranza storica e di superficialità politica.
Gingrich dice che non è mai esistito uno stato palestinese e che la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano fino all’occupazione britannica. Anche gli Stati Uniti d’America non erano una nazione prima del 1779 bensì una colonia dell’impero britannico nel Nord America. Questo implica forse che i residenti di quei territori non avessero diritto di fondare un loro stato indipendente? Lo stesso si può dire di decine di stati fondati durante l’ultimo secolo da popoli che erano parte di vasti imperi quali quello britannico, quello francese o persino quello austro-ungarico. Ed era diritto degli abitanti della ex Cecoslovacchia di dividersi in due stati la Repubblica Ceca e la Slovacchia in base a una ripartizione territoriale. È infatti il territorio a stabilire la realtà dei suoi abitanti, sia che essi si definiscano un popolo a sé, o parte di una popolazione più ampia.
Palestina è un nome antico che risale all’epoca romana ed è chiaro che i residenti di questa regione siano autorizzati a definirsi «palestinesi» e, in quanto tali, possano decidere se far parte di un Paese arabo o avere uno stato indipendente che mantenga legami e affinità culturali e religiosi con la grande nazione araba.
Come può il signor Gingrich sostenere che i palestinesi e lo stato palestinese siano «inventati»? Il 29 novembre 1947 il rappresentante degli Stati Uniti, insieme con la maggior parte del mondo libero e dei paesi appartenenti al blocco sovietico, votò a favore della spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. Lo stato ebraico si chiama oggi Israele e quello arabo che sorgerà si chiamerà Palestina. Con che diritto il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti afferma che questa decisione non è valida o è un’invenzione?
La superficialità del signor Gingrich si fa evidente quando afferma che i confini del ‘67 non sono difendibili. Se avesse studiato bene la mappa di Israele, o della Palestina, avrebbe visto che l’ampiezza del futuro stato palestinese, la cosiddetta Cisgiordania, o Giudea e Samaria, è di circa 60 chilometri in base ai confini del ‘67. Se Israele spingesse i suoi confini dieci chilometri più a Est riuscirebbe a proteggersi meglio dal lancio di missili o da tiri di artiglieria? La difesa di Israele dipende forse dall’annessione di qualche chilometro quadrato di territorio palestinese in cui ora Israele stipa coloni ebrei? O dipende in primo luogo dai rapporti di pace e di fiducia che riuscirà a stabilire con i palestinesi e dalla demilitarizzazione di ogni arma offensiva nel loro territorio sotto stretto controllo internazionale?
E anche se il signor Gingrich nega la creazione di uno stato palestinese cosa ne pensa dei milioni di palestinesi che vivono in Giudea e Samaria? Può una persona cresciuta in base ai valori democratici del suo Paese permettere che milioni di altre persone siano private dei diritti civili e del diritto di voto nella propria madrepatria come lo sono oggi?
Quando uno dei principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti rilascia dichiarazioni talmente irresponsabili per attrarre i voti della comunità ebraica (in gran parte sostenitrice dei democratici) si può capire perché è difficile sperare che gli Usa possano davvero guidare il processo di pace in Medio Oriente e, alla luce di questo, reputare che il ruolo dell’Europa come guida di questo processo diventi sempre più vitale e necessario.

Corriere della Sera 16.12.11
Israele: Stato ebraico oppure Stato degli ebrei?
Sergio Romano risponde a Fabio Della Pergola


Nella sua risposta a un lettore lei evidenzia con molta precisione i dati dei flussi migratori ebraici in Palestina. Dall'analisi di questi flussi si può dedurre che il sionismo come movimento politico non aveva avuto un gran successo (l'America era la vera terra promessa anche per gli ebrei), ma che poi fu fondamentale per assicurare una patria-rifugio a quelle centinaia di migliaia di persone in fuga dall'Europa nazificata o sopravvissute allo sterminio. In altri termini, Israele non è nata dal «colonialismo europeo» di fine Ottocento, come spesso si sente dire da alcune parti politiche, ma proprio dal popolo perseguitato, colpito e terrorizzato dalla più vasta, gelida, metodica, puntigliosa opera di «sparizione» di esseri umani che la cultura europea sia mai riuscita a concepire. Questo, insieme con il lavoro e la resistenza dei suoi «nuovi» abitanti, conferisce a Israele il suo diritto a esistere e — so che lei su questo non è d'accordo — a esistere proprio come Stato «ebraico», cioè di coloro che hanno condiviso la drammatica esperienza, diretta o indiretta, della persecuzione. È la genesi reale di questo Stato che ne fa una storia particolare; pretendere che Israele rinunci al suo carattere «ebraico» (cosa che forse accadrà un giorno lontano) ha un vago e incomprensibile sentore di negazione di questa specifica, terribile storia. Senza nulla togliere, sia chiaro, al diritto palestinese a uno Stato libero e autonomo, accanto a quello ebraico.
Fabio Della Pergola

Caro Della Pergola,
Lo «Stato ebraico» è quello in cui soltanto un ebreo può essere compiutamente cittadino. Credo nel diritto di Israele alla sua esistenza, ma rimango convinto che uno Stato etnico-religioso sia in stridente controtendenza rispetto a quello Stato costituzionale dei cittadini che è il traguardo ideale delle maggiori democrazie occidentali. Israele è uno Stato moderno, retto da principi democratici, caratterizzato da una brillante economia che lavora con il mondo e per il mondo. Come è possibile che un tale Stato possa isolarsi e riservare alcuni diritti fondamentali soltanto a coloro che possono dimostrare di appartenere a una stessa stirpe? Che cosa accadrà degli arabi musulmani e cristiani che sono già suoi cittadini? Che cosa accadrà dei lavoratori stranieri che sono arrivati in Israele grazie allo sviluppo della sua economia? Che cosa accadrà di quei rifugiati provenienti dall'Africa (circa 2.000 al mese nel corso dell'estate) a cui verrà concesso il diritto d'asilo?
Aggiungo, caro Della Pergola, che il concetto di Stato ebraico mi sembra essere in contraddizione con la filosofia politica del fondatore del movimento sionista. Il libro che Theodor Herzl pubblicò a Vienna nel 1895 s'intitola «Der Judenstaat» non «Der Jüdischer Staat»: lo Stato degli ebrei (o per gli ebrei), non lo Stato ebraico. Nove anni dopo, nel 1904, Herzl pubblicò a Lipsia un romanzo fantapolitico e utopistico («Altneuland», vecchia terra nuova) in cui si narra la storia di un ebreo viennese che approda in Palestina, dopo un lungo viaggio in Asia, e scopre con grande piacere una società moderna e vibrante in cui ebrei e arabi lavorano insieme alla creazione di un mondo migliore.
Osservo infine, caro Della Pergola, che l'instaurazione d'uno Stato ebraico, di cui oggi il governo Netanyahu chiede il riconoscimento ai suoi vicini arabi, avrà l'effetto di aumentare il potere dei gruppi ortodossi nella società israeliana. Abbiamo parlato molto della condizione della donna nel mondo musulmano; ed è giusto che si continui a parlarne. Abbiamo parlato meno delle pretese di quegli ortodossi ebrei per cui le donne non dovrebbero cantare in pubblico (la loro voce potrebbe suscitare pensieri impuri), dovrebbero camminare su marciapiedi diversi da quelli degli uomini e viaggiare su mezzi di trasporto in cui i due sessi occupino posti distinti. Nelle scorse settimane il Financial Times ha pubblicato corrispondenze da Gerusalemme di Tobias Buck da cui risulta che persino l'esercito, in occasione di una cerimonia, si è piegato alla richiesta di separare i soldati dalle soldatesse. So che esiste un forte ebraismo liberale deciso a difendere la laicità dello Stato. Ma se Israele fosse «Stato ebraico», la loro battaglia sarebbe più difficile.

il Riformista 16.12.11
Se i coloni estremisti diventano «terroristi»
La guerra intestina inquieta Israele
di Luigi Spinola


L’ultimo attacco è di ieri, nei pressi di Burqa, non lontano da Ramallah. Lo scenario è il solito. La moschea viene profanata. Alcuni graffiti in ebraico insultano il profeta Maometto. E con un po’ di benzina si tenta di dare il fuoco al tutto, bruciando i tappeti da preghiera. Ancora una volta si presume che ad agire sia stata l’ala più violenta del movimento colonico. La stessa che solo ventiquattro ore prima aveva tentato di appiccare il fuoco a una moschea di Gerusalemme.
L’Autorità Palestinese considera l’ultimo attacco alla stregua di «una dichiarazione di guerra», ma la netta escalation degli ultimi giorni ha dato il via anche a una resa dei conti interna alla società israeliana. Nella mattinata di martedì una cinquantina di coloni e attivisti ha fatto irruzione nel Quartier Generale della Brigata Ephraim in Cisgiordania, prendendo a sassate gli ufficiali di Tsahal. E l’aggressione all’esercito è un “salto di qualità” destinato a cambiare le regole d’ingaggio.
L’ex ministro della Difesa Ben Eliezer l’indomani ha deto che l’esercito avrebbe dovuto rispondere all’attacco sparando sugli assalitori perché «quel che è accadduto è terrore puro e semplice. Non ha senso fare una differenza tra arabi ed ebrei quando qualcuno prova ad ammazzarti». La parola chiave “terroristi” è stata usata anche dal ministro della Difesa Ehud Barak, per chiedere appunto che vengano applicate le stesse misure usate per difendere Israele dal terrore palestinese.
L’equiparazione è ancora tabù per Bibi Netanyahu, ma il premier ha autorizzato nei confronti degli estremisti israeliani la vituperata “detenzione amministrativa”, usata solitamente per incarcerare a tempo indeterminato i palestinesi. E il suo portavoce Mark Regev ha tenuto a sottolineare che in questo modo «le trasgressioni di arabi e israeliani residenti in Cisgiordania verranno giudicate dallo stesso sistema legale».
Il passo avanti difficilmente varrà a Netanyahu il plauso di oppositori, pacifisti e garantisti. Potrebbe però portare a una decisiva rottura tra lo Stato ebraico e l’ala più oltranzista dei coloni che non intende cedere agli arabi una sola zolla di terra della biblica “Giudea e Samaria”.
Il conflitto si svolge su due fronti, uno politico-culturale, l’altro territoriale. Un’ampia parte dell’establishment israeliano, inclusi i moderati, denuncia l’a-
scesa di un nuovo oscurantismo, tollerato se non promosso dal governo di destra. Il leader di Kadima Tzipi Livni parla di un legame diretto tra «le aggressioni agli ufficiali, gli incendi alle moschee e l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica» con riferimento a un caso di segregazione sessuale, imposta durante una cerimonia dall’ultra-ortodosso vice ministro della sanità Ya’akov Litzman. «C’è un’ondata ideologica che vuole imporre alla maggioranza laica una visione del mondo che non ha nulla a che vedere con la tradizione ebraica» denuncia la Livni, secondo la quale «la lotta per ridefinire l’identità nazionale è sponsorizzata dal silenzio di Netanyahu».
Incontrandosi con i leader del movimento dei coloni, il presidente Shimon Peres ha tentato ieri di unire il Paese contro la violenza degli estremisti definita «un disastro (...)una pazzia che va fermata». E richiamandosi ai classici condivisi da tutti, il capo di Stato ha ricordato che «siamo un popolo morale, io mi faccio guidare dai dieci comandamenti anche in politica».
Ma la natura territoriale del conflitto in corso è destinata ad allargare la frattura. L’assalto alla base militare è scattato martedì dopo che si era diffusa la voce di un’imminente operazione di sgombero di un insediamento illegale, in linea con la storica sentenza della Corte Suprema che lo scorso due agosto per la prima volta ha ordinato la distruzione di una “colonia selvaggia”. E l’ultimo attacco a una moschea è avvenuto ieri poche ore dopo lo smantellamento di due edifici illegali nell’insediamento di Mitzpeh Yitzhar.
Il presidente del Consiglio degli insediamenti in Giudea e Samaria Danny Dayan, pur condannando il «pugno di estremisti» responsabile delle aggressioni, denuncia l’uso strumentale che viene fatto delle violenze per «alimentare l’ostilità contro i coloni di Giudea e Samaria». E su Arutz Sheva,il potente network mediatico del movimento, il rabbino Eliezer attacca frontalmente l’esercito, accusato di manipolare le notizie per «preparare l’opinione pubblica alla distruzione delle comunità ebraiche di Giudea e Samaria. Dietro la «mano dura» contro il «terrore ebraico» assicura c’è «un piano per la distruzione selvaggia delle case negli insediamenti». E quando si accusa l’esercito di usare la forza contro il popolo che dovrebbe difendere, il rischio di un lacerante conflitto interno diventa più concreto.

Repubblica 16.12.11
Le cinque idee scomparse nel 2011
di Moisès Naìm


Siamo alla fine del 2011. Non farò un riepilogo delle notizie principali: mi limiterò a individuare cinque idee che non hanno vissuto un anno molto felice.
Prima idea: la tolleranza verso la disuguaglianza. La disuguaglianza economica e l´ingiustizia sociale sono sempre esistite e non scompariranno, ma in questi ultimi dodici mesi il concetto che siano qualcosa di inevitabile e che va tollerato ha subito seri rovesci. La crisi economica in Europa e negli Stati Uniti ha messo in risalto un dato che già esisteva, ma che non aveva acquisito tanta forza politica come quest´anno: pochissimi possiedono troppo e troppi possiedono poco. Niente di nuovo, ma ora le cifre sulla disparità di reddito sono nella mente di tutti. E come ci ha ricordato Mohamed Bouazizi, il giovane venditore ambulante di frutta e verdura che si immolò in un piccolo centro della Tunisia, la nuova intolleranza non è rivolta solo nei confronti della disparità economica, ma anche nei confronti delle ingiustizie e dei trattamenti indegni. Milioni di persone, nel mondo arabo, sono scese in piazza – e hanno rovesciato dittatori – quando hanno ucciso l´idea che il loro futuro era destinato a essere come il loro passato. La disuguaglianza e l´ingiustizia non scompariranno. Ma nel 2011 difenderle è diventato molto più difficile.
Seconda idea: il 2011 è stato un anno negativo per la reputazione di politici, economisti e ricchi. Abbiamo scoperto che molti governanti non hanno il potere – o la capacità – di prendere decisioni fondamentali e che i ricchi (sia le imprese che gli individui) che hanno contribuito alla crisi non si prendono nessuna responsabilità per le conseguenze delle loro azioni. Nel 2011 la legittimità di governanti, esperti e capitani di industria è uscita pesantemente intaccata.
Terza idea: la globalizzazione dell´intransigenza politica. L´incapacità di Repubblicani e Democratici, negli Stati Uniti, di mettersi d´accordo su temi fondamentali è probabilmente l´esempio più tristemente noto. Ma la crisi europea si è acutizzata anche per la cecità di partiti e leader politici del vecchio continente. Il paralizzante scontro fra Governo e opposizione in Italia, Spagna o Belgio non ha nulla da invidiare al muro contro muro che affligge la superpotenza mondiale. Ed è un fenomeno globale. Dalla Thailandia al Giappone, dal Portogallo all´India e dal Sudafrica al Messico, la polarizzazione politica si è trasformata in paralisi. L´idea che gli interessi nazionali debbano prevalere sulle ambizioni elettorali è da parecchio tempo che non gode di buona salute.
Quarta idea: l´ambiente è in emergenza. L´idea che bisogna agire subito e con decisione per evitare che il pianeta continui a riscaldarsi fino a diventare invivibile è sparita dall´agenda politica. Ma anche se non è più fra le priorità, la salute del pianeta continua a deteriorarsi in modo catastrofico: i dati più recenti, precisi e incontrovertibili dimostrano che la temperatura media sulla superficie terrestre è aumentata di un grado centigrado solo negli ultimi cinquant´anni, un aumento più veloce e più grave di quello che gli scienziati supponevano fino a questo momento. Eppure l´idea che bisogna fare qualcosa per risolvere il problema quest´anno ha perso di popolarità.
Quinta idea: è meglio non avere la bomba atomica. Nel 2011 i tiranni del pianeta hanno preso nota della fine che ha fatto Muhammar Gheddafi e della sopravvivenza del suo equivalente asiatico, il nordcoreano Kim Jong-il. Il primo rinunciò all´idea di dotarsi di un arsenale nucleare e il secondo non abbandona le sue bombe atomiche, nonostante la sua popolazione stia morendo di fame. Se prima avevano qualche dubbio, le disavventure di Gheddafi hanno confermato ai dittatori che le loro speranze di restare al potere dipendono dal fatto di poter contare su armi atomiche che li proteggano dall´intervento internazionale e su un esercito di mercenari che li protegga dal loro stesso popolo.
È un elenco molto personale e ovviamente incompleto. Chiudono male il 2011 anche l´idea che il modo per lottare contro il consumo di droga passi attraverso la proibizione totale e le proposte del Tea Party negli Stati Uniti. E ci sono molte altre cose che potrebbero essere aggiunte alla lista. Vi invito a proporle e discuterle su Twitter moisesnaim.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

il Fatto 16.12.11
Legalità all’italiana
di Andrea Camilleri


Pubblichiamo la prefazione di Andrea Camilleri all’ultimo libro di Gian Carlo Caselli, “Assalto alla giustizia”. Nel libro, uscito da alcuni giorni, il Procuratore Capo di Torino riflette sul rapporto tra la società italiana e la legalità. Al centro c’è il ventennio di Berlusconi, con le sue cento norme ad personam e gli insulti alla magistratura. Ma per Caselli il problema di questo difficile rapporto non è nato con il Cavaliere. E non si esaurirà con la sua uscita di scena.

Per quanto mi ci metta d’impegno, non riesco nemmeno lontanamente a immaginare la faccia che farebbero i grandi filosofi che nel corso dei secoli hanno discettato, discusso, litigato, sul grande tema della Giustizia, su cosa sia e su come si applichi, nel confrontare le loro convinte, sofferte affermazioni con quelle proclamate oggi, in Italia, dai banchi del Governo e del Parlamento, col pronto supporto di ben stipendiati pennivendoli e volenterosi azzeccagarbugli. Scriveva per esempio Aristotele: “Poiché il trasgressore della legge è ingiusto mentre chi si conforma alla legge è giusto, è evidente che tutto ciò che è conforme alla legge è in qualche modo giusto, infatti le cose stabilite dal potere legislativo sono conformi alla legge e diciamo che ciascuna di esse è giusta”. Non poteva neanche lontanamente sospettare, mentre scriveva quelle parole, che sarebbe ahimé venuto un giorno nel quale sarebbe stato concesso a un abituale, sistematico, trasgressore della legge il potere di far emanare leggi del tutto ingiuste e perciò conformi non a un’idea assoluta di Legge ma a una riduzione, a un declassamento della legge ad uso e consumo personale.
E CHE DIRE DI HUME per il quale il fine e l’utilità della Giustizia consistevano soprattutto nel “procurare la felicità e la sicurezza di tutti conservando l’ordine sociale? ”. Non avrebbe creduto ai suoi occhi vedendo che da noi, nel nostro Parlamento, nel nostro Senato, si cerca quotidianamente di stravolgere la Giustizia per procurare felicità e sicurezza a un uomo solo senza preoccuparsi di mettere a repentaglio se non l’intero ordine sociale per lo meno il normale svolgimento della Giustizia per tutti gli altri cittadini. In ogni nazione progredita è del tutto pacifica l’affermazione che la Giustizia sia “il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. In Italia, dall’avvento al potere di Berlusconi, si è tentato in tutti i modi di limitarne le funzioni o addirittura di disconoscerne il valore di primo requisito. Mai, nei 150 anni della nostra Storia, c’era stata una così violenta, distruttiva, totalizzante, vera e propria guerra alla Giustizia mossa su molteplici fronti e adoperando tutti i mezzi leciti e soprattutto illeciti, dalle frecciate quotidiane della calunnia, del dileggio, dello scherno, alle mine antiuomo delle dissennate proposte di leggi tendenti sostanzialmente all’assoggettamento della Giustizia alla politica, o meglio, all’interesse politico di una sola persona. Aver permesso a Berlusconi, imprenditore e concessionario dello Stato, di far politica quando non avrebbe per legge potuto ha creato la gigantesca anomalia del mai risolto conflitto d’interesse. Il che gli ha permesso di tornare ad arricchirsi, a riprendersi dallo stato estremamente critico in cui la sua azienda si era venuta a trovare prima della sua “discesa in campo”, avvenuta, son parole sue, per allontanare dal-l’Italia il pericolo comunista.
Essendo tra l’altro, al momento attuale, anche plurimputato in diversi procedimenti che spaziano dalla corruzione in atti pubblici alla corruzione di minorenne, ha tentato, in parte riuscendoci, di far decadere alcuni processi con leggi ad personam votate da un Parlamento del quale fanno parte, oltre a ex impiegati e funzionari delle sue aziende, anche gli innumerevoli suoi avvocati difensori che quelle leggi ispirano. Si è venuta così a creare una seconda nuova, gigantesca anomalia tutta italiana: che un plurimputato si proponga di fare una riforma della Giustizia! Il tutto mentre i suoi processi sono in corso. Così da poterli vanificare con una qualche leggina retroattiva. Sarebbe come se ai vecchi tempi il gangster Al Capone, divenuto inaspettatamente presidente degli Usa, saputo che correva il rischio di andare a finire in galera per tasse evase, si fosse ripromesso di fare la riforma del sistema fiscale statunitense. Di questo doloroso, e pericolosissimo, e infame scempio della Giustizia parla con rigore e passione, con lucidità e intelligenza, Gian Carlo Caselli in questo suo importante volume che efficacemente s’intitola Assalto alla giustizia. Il volume si compone di nove capitoli che spaziano dalla continua ricerca d’impunità da parte del potere, ai tentativi di una cosiddetta riforma della Giustizia (processo breve, processo lungo, tempi di prescrizione, ecc.), dalle strategie di delegittimazione della Magistratura a quelle volte a minarne l’indipendenza e via via fino alle posizioni, certamente non così ferme come avrebbero dovuto essere, assunte dai partiti che compongono lo schieramento di centrosinistra. Indipendente e limpido come magistrato, Caselli lo è anche come autore, non ha occhio di riguardo per nessuno, non fa sconti, la posta in gioco è troppo alta per concedere spazio a esitazioni e cedimenti. Uno dei meriti, tra i tanti, di questo libro è la sua lampante chiarezza. Caselli scrive per farsi capire dal lettore comune, le sue argomentazioni, i suoi rilievi, i suoi propositi, sono sempre espressi in modo diretto, lineare, sicché le sue parole possono essere comprese appieno anche da chi non è del mestiere.
INFATTI QUESTI scritti non sono dovuti a un giornalista, ma a un uomo di Legge che si è sempre trovato in primissima linea a combattere terrorismo e mafia, e si è in ogni occasione dimostrato un ottimo e coraggioso capitano di lungo corso, facendo sempre approdare le sue indagini dove si erano proposte d’arrivare, senza che si disperdessero in mare, andassero sugli scogli, o, peggio, gettassero l’ancora nel porto delle nebbie. Dalle pagine di questo libro emerge in tutta evidenza un impegno così vibrante e appassionato che quasi trascende l’oggetto stesso del contendere per assurgere a una sorta di manuale di comportamento civile. Sarò ancora più chiaro. Questo libro è sì una difesa della Magistratura e della Giustizia, ma non scade mai, in nessun momento, nel pro domo mea. Caselli soprattutto reagisce in nome della sua dignità d’uomo e di magistrato, e di tutti quelli che come lui, pur non avendolo mai né voluto né desiderato, si trovano oggi a dover difendere la traballante diligenza della Giustizia dall’assalto dei fuori legge.

il Fatto 16.12.11
Il compleanno di Miemeyer
104 anni di comunismo architettonico
di Giuseppe Bizzarri


Rio de Janeiro. Qual è il segreto di Oscar Niemeyer per vivere una vita così lunga, intensa e feconda? Sono stati in molti a chiederselo ieri sera a Rio de Janeiro, dove l’immortale architetto carioca ha festeggiato 104 anni con familiari, amici ed esponenti della cultura brasiliana, uniti nel celebrare il compleanno del mito dell’architettura brasiliana e mondiale. Lucido come lo sono pochi alla sua età, l’instancabile “Oscar” non smette di progettare nella vita. Proprio ieri il governatore del “Distrito Federal” Agnelo Queiroz, ha voluto regalargli l’inaugurazione della sua ultima opera costruita a Brasilia, la “Torre Digital”, lo spettacolare torrione alto 185 metri che sarà la prossima attrazione turistica. Ma Niemeyer non ha voluto politici nel magnifico studio di Copacabana, dove si trovano appesi sui muri gli schizzi e le planimetrie dei suoi ultimi progetti, come quello di una grande moschea in Algeria e il museo dedicato al “Rei do Futebol brasileiro”, Pelé. Ogni giorno, nel mondo, migliaia di persone entrano ed escono nei sinuosi e sensuali edifici da lui progettati. Niemeyer ama la linea curva e la utilizza in maniera inconfondibile: per questo viene considerato come uno scultore monumentale più che un architetto. Il sociologo Domenico de Masi ha detto che Niemeyer pensa al mondo non come se fosse una linea retta ma “curva”, proprio come Einstein. De Masi si riferisce all’odio che nutre l’architetto per l’angolo retto e la sua grande passione per l’astrofisica, la cosmologia e le linee curve della natura e delle “mulheres”, le donne, che ne hanno influenzato l’estetica e la vita.
Religiosamente ateo, Oscar è stato un pioniere nell’uso del cemento armato come elemento espressivo architettonico. Con Lucio Costa, amico e professore di facoltà, Niemeyer ha coronato il sogno di molti architetti, quello di progettare una città: Brasilia. Ma per Oscar il lavoro non è importante: “La vita è sempre al di sopra di tutto, è lei che cambia l’architettura”, ha detto. È probabilmente proprio questo il segreto a rendere il maestro dell’architettura così longevo e, forse, felice; questo suo amore per la vita, la sua passione a celebrarla; la proverbiale semplicità che l’ha portato a rispettare e costruire per la gente comune, il popolo. Affiliatosi al Partito comunista nel 1945, e auto esiliatosi in Francia durante la dittatura militare in Brasile, l’architetto ha sempre difeso i diritti della classe lavoratrice. “Niemeyer ed io siamo gli ultimi comunisti di questo pianeta”, disse Fidel Castro, quando andò a trovarlo nel suo studio. In giovinezza lo scapestrato Oscar è stato un grande bohemien, grande frequentatore del Café Lamas, il Club Fluminense e il “bairro” di Lapa. “Devi fare quello che ami, altrimenti finirai per lavorare”. Il detto è di Roberto Rossellini e calza perfettamente alla vita dell’ultracentenario brasiliano, il quale ha invitato anche gli amici sambisti Paulinho da Viola e Jorge Aragão, con il quale ha discusso dell’arrangiamento musicale del “Samba do arquiteto” che fu composto dall’architetto nel 1962. Nonostante i ricoveri ospedalieri, ancora oggi l’architetto – che ha disegnato anche sculture e bellissimi mobili – ama bere vino e fumare cigarrinhos; e lo fa spesso al Terzetto, il ristorante italiano a Ipanema, dove va una volta a settimana a cenare con la sua ex segretaria, Vera Lúcia Cabreira, con cui si è sposato per la seconda volta, a 98 anni.

La Stampa 16.12.11
Intervista a Oscar Niemeyer
Le mie architetture sono le donne di Rio
«Le curve sensuali come i fianchi e le schiene delle ragazze che si bagnano nel mare»
“Le archistar di oggi mi fanno inorridire”
Il grande “vecchio” ha compiuto ieri 104 anni
di Luca Bergamini


RIO DE JANEIRO Oscar Niemeyer, è nato nel 1907. Ieri ha celebrato i suoi 104 anni presentando anche un numero speciale della sua rivista Nosso Caminhò (La nostra stradà), dedicata a Vinicius de Moraes. Ma proprio ieri in Spagna il nuovo governo ha chiuso il Centro Niemeyer situato nel piccolo municipio di Aviles, l’unica sua opera architettonica nel Paese, inaugurata il 25 marzo scorso con un concerto di jazz di Woody Allen. Sopra e a destra due disegni di Oscar Niemeyer, l’architetto brasiliano ora si dedica anche alla pittura. In lato il Planalto Palace di Brasilia che è uno dei suoi capolavori
Sotto Palazzo Ypiranga, le ragazze in bikini si accovacciano dentro le bolle circolari disegnate sul marciapiede dell' Avenida Atlantica. Non sanno che l'attico di questo palazzo, l’unico in stile art nouveau, sulla promenade più famosa di Rio de Janeiro, è la casa del «grande vecchio», il «comunista» dell’architettura Oscar Niemeyer. Che proprio ieri ha compiuto 104 anni. Non sembra affatto lo studio dell'architetto che ha fatto nascere dal nulla e dalle erbacce in quattro anni la capitale Brasilia ma la sede di una factory di creativi trentenni. I nipoti e pronipoti, che sono tantissimi e si riuniscono qui dove fanno capolino spesso anche l'ex presidente del Brasile Lula Inácio Da Silva e la stella del calcio Pelé, ridono alla battuta del loro zio, un mito vivente, che non si muove quasi più, ma che intellettualmente è ancora vivacissimo.
Mi hanno detto che da poco ha cominciato a dipingere, è vero?
«Sì, è una passione che ho scoperto da poco tempo, anche se per me il bianco è il colore della purezza, che dà luce all’anima, ultimamente mi piace dipingere con tinte più accese. Da quando non posso più muovermi come una volta, passeggiare, il disegno è un modo per viaggiare dentro i giardini, le foreste, rivedere le piantagioni, il mio Brasile».
Da quassù, però, si vedono il Pan di zucchero, le montagne di Rio e la spiaggia di Copacabana...
«Un panorama che mi ha sempre ispirato. Il calore è fonte di bellezza e strumento di unione. La rigidità e spigolosità degli angoli invece respingono ogni afflato. La mia cifra espressiva sono le curve, sensuali come i fianchi e le schiene delle ragazze che vede laggiù bagnarsi tra le onde. Spuma dell'Oceano, e corpi di donna: le mie opere sono le femmine di Rio de Janeiro».
Come si vive a 104 anni?
«Vengo allo studio, ascolto il pianoforte che gli amici suonano per me, parliamo di arte, di calcio, uno sport che praticavo da ragazzo, ero un attaccante veloce e sgusciante. Quando progettai la sede della Mondadori a Milano, io e Giorgio Mondadori con suo figlio giocavamo partite a pallone nel giardino della sua casa, era un uomo così arguto... Mi tremano un po' le mani, quindi non posso più tratteggiare bene le linee delle mie opere nei progetti, ma mi sento ancora un architetto in grado di lavorare. E resto fedele ai miei principi di sempre: massima libertà plastica delle forme, fluide e concave, pur nell'ovvio rispetto delle regole costruttive basiche».
Rio De Janeiro ospiterà i Mondiali di Calcio tra due anni, nel 2016 le Olimpiadi e sta cambiando volto. Lei come vede questa trasformazione?
«Mi fa venire in mente quando da ragazzo e con mia moglie andavamo a ballare nel quartiere di Lapa e Botafogo, prima dell' esilio a Parigi e a Mosca. Non penso che il progresso porterà alla chiusura dei sambodromi, quello per il Carnevale di Rio l'ho progettato personalmente... L'architettura contemporanea la trovo noiosa, ripetitiva, tutti quegli edifici in vetro, così poco espressivi e privi di bellezza, le forme sono come strozzate dalla ricerca di elementi a sorpresa, puntano soprattutto a stupire ma sono algidi. La beltà invece è data dalla semplicità. Credo che la tecnologia contemporanea vada messa al servizio proprio della bellezza».
Il suo Museo di arte contemporanea a Niteroi ha la forma di una astronave planata su una delle baie più scenografiche del mondo...
«I palazzi devono cingere in un abbraccio chi li guarda, devono suscitare emozioni e trasmettere desiderio di abitarvi e viverli a chi ne fruisce indipendentemente dal suo ceto sociale e preparazione culturale. Mi piacciono le case " mosse" che ricordano le onde del mare, le pareti divisorie interne devono essere poche, il vetro per far entrare la luce e consentire una vista all'esterno. L'architettura è sorpresa, fantasia, bisogna osare sempre, far sognare, toccare nel profondo il cuore delle persone, non è fatta per arricchirsi».
Ecco l'Oscar Niemeyer comunista?
«Il denaro serve per aiutare i poveri e io quando penso alle archistar di oggi mi sento inorridire. Non discuto la loro qualità professionale ma personalmente credo che l'eccessiva ricchezza sia stonata in questa società. I ricchi devono aiutare i più bisognosi. Il mio motto è navigar o preciso (navigare è necessario ndr), ovvero seguire le onde, ammirarle, ma cercando anche di stare a galla e questo vuol dire avere la coscienza pulita quando vai a dormire la notte».
La notte pensa mai alla morte?
«La morte non mi fa paura, se è questo che vuole sapere. So che è vicina, imminente, mi sento in viaggio nel più ignoto dei misteri, che presto sarò chiamato ad affrontare. Mi capita di pensare al passato, e qualche lacrima scende sulle guance, la tristezza degli amici che non ci sono più, perché in fondo io appartengo al secolo scorso, sono uno dei pochi sopravvissuti, anche se non mi sento un fossile o un uomo miracolato dalla natura. Spero di essere un esempio per i giovani come uomo e come architetto e questo pensiero, insieme all'amore della mia famiglia, mi dà la carica per continuare a vivere».
In Italia, a parte Palazzo Mondadori a Segrate e gli uffici della F. a.t. a. a Torino, non ha mai avuto molta fortuna: l'Auditorium di Ravello non è stato ancora aperto al pubblico e il progetto ha subito molte modifiche. Come lo spiega?
«Mi perdoni ma io della burocrazia italiana non voglio parlare, mi ha fatto perdere già troppe energie. Preferisco i ricordi personali del vostro Paese, come quando persi un treno alla stazione di Milano negli Anni 50 tanto era colmo di persone. Col mio amico Marcos Jaymovitch noleggiammo un’Alfa Romeo, avremmo dovuto riconsegnarla la sera stessa, ma la tenemmo un mese guidando sino a Tangeri. L'agenzia l'aveva già data per rubata... ».
La sua vita assomiglia a un romanzo...
«A dieci anni vendevo i giornali del Partito comunista brasiliano, sono fuggito a Parigi contro la dittatura, volevano che diventassi segretario del movimento che stava preparando la rivoluzione nel mio Paese. Odio l'aeroplano, sapesse quante volte sulla strada verso l'aeroporto sono tornato indietro e amo le donne e il sesso, un desiderio che fa parte della nostra natura che non andrebbe mai represso. Sono un fiero amico di Fidel Castro che avrà tanti difetti ma è stato capace di garantire assistenza sanitaria e istruzione a tutto il suo popolo. Sono Oscar Niemeyer, un architetto che in tutta la sua vita ha lottato per cancellare con la bellezza la diseguaglianza sociale».
Pensa di esserci riuscito?
«Se chi guarda i miei palazzi sente un brivido di calore e una sensazione paragonabile all'amore fisico, penso di sì».

il Fatto Saturno 16.12.11
Hannah e il carnefice
di Marco Filoni


CHISSÀ COSA avesse in mente Hannah Arendt quando, in una delle sue ultime lettere, scriveva al suo maestro e amante di gioventù Martin Heidegger un accenno sul “carattere d’attacco della filosofia”. Lei di attacchi ne subì parecchi. Non solo in vita: tutt’oggi è considerata da molti un personaggio controverso. E c’è da giurare che le polemiche sul suo conto sono destinate a rinvigorirsi nei prossimi mesi. L’occasione è del tutto “virtuale”, ovvero il ritorno di Hannah Arendt a Gerusalemme cinquant’anni dopo il processo Eichmann. La regista tedesca Margarethe von Trotta ha iniziato le riprese di un film, intitolato Hannah Arendt, su quel processo. Era il 1961: decine di cronisti di tutto il mondo si trovavano nella sala stampa del Beit Ha’am di Gerusalemme, per seguire il processo al nazista Adolf Eichmann. Fra questi anche la Arendt, inviata per il New Yorker. I reportages, poi raccolti nel suo libro più famoso apparso con il titolo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, furono molto criticati. La filosofa, grossolanamente, sosteneva che l’antisemitismo non era sufficiente a spiegare la Shoah, che piuttosto poteva esser inscritta in un fenomeno di comportamenti complessi fatti di azioni banali, perpetrate in maniera non consapevole e trascinate dalla massa. Non solo: criticò anche il tribunale, perché influenzato dall’idea sionista allo scopo di rafforzare il militarismo israeliano e a scapito di un giusto processo. Considerazioni che la portarono a esser invisa in Israele – basti dire che la traduzione ebraica del libro ha visto la luce soltanto nel 2000, quasi quarant’anni dopo dall’originale. Non solo: anche negli ultimi anni una violenta controversia l’ha vista protagonista nel mondo anglosassone. La miccia, due anni fa, un lungo articolo dello storico Bernard Wasserstein, docente in quella Chicago che è stata la palestra americana delle menti filosofiche dove la stessa Arendt insegnò. Esperto di storia ebraica e israeliana, Wasserstein ha affidato al Times Literary Suplement un atto d’accusa senza pari, sin dal titolo: Incolpare le vittime. Hannah Arendt fra i nazisti: la storica e le sue fonti. Qui lo storico dice: la Arendt non merita l’adulazione postuma di cui è oggetto; la sua opera non resiste alla prova del tempo; il suo complesso rapporto con il popolo ebraico trasparirebbe da un dubbio uso delle fonti antisemite e naziste. In breve, fustiga quella che chiama la “perversità” della sua visione del mondo, cioè l’insistenza con la quale parlava della “corresponsabilità” degli ebrei nell’antisemitismo, e la interpreta come una sovraesposizione alla letteratura nazionalsocialista. Ben altro rispetto a quanto gli rimproverava Gershom Scholem, che lamentava – l’espressione è diventata celebre – la mancanza di ahavat Yisrael, “amore del popolo ebraico”. Certo, la Arendt non era stata tenera nei giudizi: scrisse che i “consigli ebraici” (Judenräte) creati dai nazisti nel’Europa occupata erano popolati da “pusillanimi della politica genocidaria”. La sua invettiva non era da meno sulle persone: il filosofo Adorno, “l’essere umano più ripugnante che conosca”, Moses Mendelssohn un “filosofo opportunista senza alcuna importanza nel giudaismo”, Alfred Dreyfus “un parvenu parecchio idiota” e Gideon Hausner, il procuratore generale del processo Eichmann, “un tipico ebreo galiziano, molto antipatico”. Insomma, il film assicura la polemica. Ma resta una questione storica. Hannah Arendt riconosceva di non scrivere sine ira ac studio, poiché l’oggettività non poteva esser usata trattando un tema quale la morte. Ma la sua combinazione personale di ira e studio ha dato risultati migliori?

il Fatto Saturno 16.12.11
Sovversivi celebri. Cavalieri dell’anarchia
Gaetano Bresci e compagni: più che terroristi, gli antenati dei black bloc erano attentatori che miravano ai tiranni
di Raffaele Liucci


«CRISPI È PARSO a me che fosse l’uomo più felice della terra, mentre io sono il più infelice, e perciò attentai alla sua vita»: così si giustificò Emilio Caporali, il giovane disoccupato pugliese che il 13 settembre 1889, a Napoli, ferì il presidente del consiglio Francesco Crispi. Un attentato dalla dinamica a noi vagamente familiare. Dal ciglio della strada, un uomo s’avvicina d’improvviso al calesse su cui viaggia Crispi, sale sul predellino (!) e colpisce il volto del premier con una pietra affilata di oltre mezzo chilo. Sangue, per fortuna senza ferite mortali. Ma anche in quell’occasione fiorì un vivace dibattito sulla natura dell’attentatore – congiurato o mattoide? – e sui possibili mandanti. Alla fine il giovanotto verrà prosciolto per incapacità mentale e internato in un manicomio. Il suo era stato un gesto isolato, forse però influenzato dal clima dell’epoca (Crispi era un leader cesarista e carismatico) e dalla propaganda di repubblicani, socialisti e anarchici (i «nemici interni»). È questa soltanto una delle numerose storie raccontate da Erika Diemoz in un libro dedicato alla stagione aurea dell’anarchia, a cavallo fra Otto e Novecento, quando in Italia, in Francia, in Spagna, in Svizzera e persino negli USA i capi di Stato e di governo cadevano come birilli sotto i colpi sferrati da attentatori ben più motivati di Caporali, quasi sempre italiani (il più celebre resterà Gaetano Bresci, l’anarchico di Prato emigrato nel New Jersey e ritornato in patria per uccidere nel luglio 1900 a Monza, con tre pistolettate, Umberto I). Un libro originale e puntiglioso, che dice molto sul movimento anarchico (da Errico Malatesta a Camillo Berneri sino agli esponenti meno noti, di cui vengono ricostruite le avventurose biografie attingendo anche ad archivi esteri) ; ma ancor più dice sulle classi dirigenti, che cavalcano la «politica della paura», approfittandone per varare provvedimenti restrittivi e leggi-bavaglio contro la stampa. In verità, l’anarchismo ottocentesco è una costellazione di microcosmi isolati, e gli attentati sono spesso il frutto d’iniziative individuali. Ma ai governanti fa comodo evocare una fantomatica congiura planetaria (un po’ come oggi con la «minaccia islamica»).
Lo spontaneismo anarchico, va da sé, è anche figlio d’una società chiusa e arretrata. «L’Italia ha gli anarchici che si merita», sentenziava l’Economist, che rintracciava le cause del sovversivismo nell’«ingiustizia sociale» e nel «sistema vizioso di spese pubbliche». E infatti quando, all’alba del ’900, il riformatore Giovanni Giolitti cercherà d’integrare le masse nello Stato, il pugnale e la rivoltella lasceranno il posto a forme di lotta più legalitarie. Salvo poi registrare un ritorno di fiamma sotto Mussolini, anche se tutti gli attentati progettati contro il duce (da Gino Lucetti a Michele Schirru) falliranno miseramente.
Ma erano veri terroristi gli anarchici? In un articolo del ’47, Gaetano Salvemini distinguerà fra il terrorismo bombarolo, «compiuto contro ignoti, senza discriminare fra innocenti e colpevoli», e l’attentato individuale, che «prende di mira una persona determinata», scansando tumulti e devastazioni. Gli anarchici, in realtà, colpivano quasi esclusivamente le incarnazioni supreme del potere – re, presidenti e primi ministri – in una sorta di cavalleresca resa dei conti, da «uomo a uomo» (Giovanni Ansaldo). Anche se coronato da successo, il loro era un atto comunque disperato, con un solo sbocco: o il linciaggio o la pena di morte. Per questo l’epos anarchico ammaliò fior di conservatori, da Longanesi a Montanelli, conquista-ti dall’«idealismo» sacrificale di questi personaggi picareschi sconfitti dalla Storia.
E tuttavia, al di là della leggenda, non bisognerebbe mai dimenticare che anche la violenza più “progressista” non soltanto resta degradante, ma ha pure un effetto reazionario: puntella quel potere autoritario che sogna d’abbattere ed eleva al rango di martiri figure spesso modeste ed incapaci (com’era in fondo lo stesso Umberto I). Sic semper tyrannis?
Erika Diemoz, A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini, Einaudi, pagg. XXII-378, • 32,00

il Fatto Saturno 16.12.11
Immigrazione
Scusi ho il mal d’Italia
Una nuova patologia, finora sconosciuta, colpisce le lavoratrici dell’Est che assistono gli anziani nel nostro paese, fra depressione e spaesamento
di Alessandro Leogrande


UNA NUOVA forma di depressione si aggira per l’Europa: si chiama “Sindrome italiana”. Non riguarda la schizofrenia della finanza o il pericolo di una nuova recessione. La sindrome che prende il nome dal Belpaese colpisce i lavoratori, o meglio le lavoratrici, più invisibili: le badanti provenienti dall’Est. I primi ad accorgersene sono stati due psichiatri di Ivano-Frankivs’k, città di duecentomila abitanti nell’Ucraina occidentale, profondamente segnata dalle tragedie del Novecento. Nel 2005, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych intuiscono che due donne in cura nel loro reparto presentano un quadro clinico diverso dagli altri. Sintomi che hanno imparato a riconoscere in anni di attività (cattivo umore, tristezza persistente, perdita di peso, inappetenza, insonnia, stanchezza, e fantasie suicide) si innestano su una frattura del tutto nuova, che mescola l’affievolirsi del senso di maternità con una profonda solitudine e una radicale scissione identitaria. Quelle giovani madri non sanno più a quale famiglia, a quale parte dell’Europa appartengano, come se un’antica armonia si fosse all’improvviso spezzata. Kiselyov e Faifrych capiscono che il “male oscuro” ha chiare origini sociali. Le due pazienti sono state badanti all’estero, hanno lavorato a lungo come donne di compagnia, infermiere, assistenti tuttofare nelle case italiane. Lo hanno fatto per anni, 24 ore al giorno, salvo che per una breve pausa nella domenica pomeriggio. Sono state lontane dalla loro casa, hanno lasciato soli i loro figli per accudire anziani altrettanto soli dall’altra parte del continente. Hanno retto sulle proprie fragili spalle due delicate trasformazioni: da una parte, l’invecchiamento dell’Italia e lo sgretolamento delle sue famiglie; dall’altra – attraverso le loro rimesse, spesso unica fonte di reddito per le loro famiglie lasciate lì – la tumultuosa transizione dei paesi orientali. Sono rimaste a lungo sole, molto sole, senza che nessuno potesse percepire il loro stress crescente. E alla fine non ce l’hanno fatta più, sono crollate.
I due psichiatri comprendono subito che le due pazienti non sono un caso isolato. Tante altre donne versano nelle stesse condizioni. E allora coniano il termine “Sindrome italiana”, dal nome del paese più “badantizzato” dell’Europa occidentale e forse del mondo. Le date in questa storia sono importanti. Kiselyov e Faifrych diagnosticano i primi casi nel 2005, appena tre anni dopo la grande sanatoria del 2002 che permette di regolarizzare decine di migliaia di lavoratrici domestiche. Non ci vuole molto a capire che la “Sindrome italiana” non riguarda solo le donne ucraine. Colpisce anche moldave, rumene, russe, polacche... cioè buona parte delle lavoratrici che hanno finito per costituire l’ossatura centrale della “gestione” nostrana degli anziani non-autosufficienti. In Romania alcuni psichiatri iniziano a studiare l’altra faccia della medaglia, i figli lasciati nei paesi di partenza. Ed estendono la nuova locuzione “Sindrome italiana” anche a loro. Nel 2010 Mihaela Ghircoias, psichiatra presso l’ospedale pediatrico Santa Maria di Iasi, in Romania, si accorge che su circa mille bambini curati nel suo reparto, la metà ha un genitore (in particolare la madre) emigrata all’estero (in particolare in Italia) per lavorare (in particolare come badante). Alcuni hanno tentato il suicidio. Ecco il caso tipo: un ragazzino di 11 anni vive solo con il padre che non lavora, mentre la madre assiste un’anziana in Italia. Va bene a scuola, ha ottimi voti, ma è sempre silenzioso, la tristezza per la lontananza della madre gli scava dentro. Non ne parla con nessuno, apparentemente tutto procede per il meglio, ma in realtà il male oscuro lo logora. E – a soli 11 anni – tenta il suicidio. Come si cura questo male europeo, che sembra quasi seguire i sommovimenti economici (e geopolitici) del nuovo mercato globale del lavoro? Spesso basta ricomporre il nucleo famigliare, e di colpo tutto il malessere svanisce. Ma altre volte le situazioni sono più complicate. Quando ritornano nel paese di origine, molte donne si ritrovano in un nuovo limbo. Si ritrovano in un paese che non considerano più come proprio; e, nel frattempo, i figli hanno definitivamente voltato loro le spalle. Maurizio Vescovi, medico a Parma, è uno dei primi ad aver riscontrato in Italia questa nuova forma di depressione. Almeno il 25% delle donne dell’Est incontrate nel suo studio ne soffre, tanto che ha segnalato il caso all’interno dell’Italian Study on Depression, una ricerca condotta dall’Istituto Mario Negri Sud di prossima pubblicazione. «Due costanti», sostiene Vescovi, «sembrano ritornare. Spesso queste donne lasciano un lavoro qualificato come insegnante, medico, ingegnere, per venire a svolgere mansioni dequalificate, per le quali non sono state formate. Inoltre, col tempo, si percepiscono come donne-bancomat: il solo rapporto con la famiglia consiste nell’inviar loro dei soldi. Diventano l’unica fonte di reddito».
Svitlana Kovalska, presidente dell’Associazione Donne Ucraine Lavoratrici in Italia, ha le idee chiare a riguardo: «Questo stress, in forme più o meno gravi, l’abbiamo provato tutte». Queste donne hanno solo bisogno di rompere una gabbia di solitudine. Non è normale lavorare 24 ore al giorno, assorbendo su di sé i problemi di una nuova famiglia, dimenticando la propria. La “Sindrome italiana” si cura con il calore, con il lavoro di comunità, elaborando nuove forme di auto-aiuto: «Ricordo una donna che stava molto male. Le chiesi di raccontarmi della sua vita. Iniziò a farlo, ma dopo pochi minuti scoppiò in un lunghissimo pianto. Quando si calmò, mi disse che erano dieci anni che non piangeva, in Italia non l’aveva mai fatto... Fece un lungo respiro, solo allora si sentì meglio». L’ansia a volte scompare così. Ne è convinta anche Tatiana Nogailic, presidente di AssoMoldave a Roma. L’emigrazione di massa non si fermerà, dice, perché le badanti servono come il pane. È irrealistico pensare che il ritorno in patria sia l’unica soluzione, serve una vita migliore qui. «Le badanti devono essere considerate donne, non macchine. Anche qui, anche in Italia. Sono loro i soggetti da privilegiare quando si progettano interventi per l’integrazione. Sono loro le figure chiave per la mediazione tra mondi e culture».

il Fatto Saturno 16.12.11
Dall’Ucraina
Badanti di Von Rezzori
di Antonio Armano


A CERNIVCI volevo andare con l’autobus delle badanti che parte da Milano e arriva in due giorni di viaggio. Ma poi scopro che la Malev ha un volo per Iasi (Romania, 225 km da Cernivci), e la faccenda si presenta meno impegnativa. Scopo del viaggio è vedere la città da dove vengono molte badanti comprese quelle che si sono succedute nell’assistenza di mia nonna entrate come turiste, rimaste come clandestine per un paio d’anni e regolarizzate con le sanatorie, l’ultima in articulo mortis ma anche la città di cui parla Gregor von Rezzori in vari libri, in particolare Un ermellino a Cernopol (Guanda).
Von Rezzori e mia nonna hanno una sola cosa in comune: la data di nascita, il ‘14. Per il resto non credo che il dandy che seduceva le compagne di rifugio sotto le bombe a Berlino abbia avuto badanti di Cernivci: quand’è morto nel ‘98 l’emigrazione era solo agli inizi, ma sarebbe stato un bello scherzo del destino. Come racconta in Tracce sulla neve, mise piede a Cernivci l’ultima volta nell’89, quando faceva parte dell’Urss e si chiamava Cernovci in russo. Tra le due guerre prese il nome di Cernauti e fu annessa alla Romania. E prima ancora Czernowitz, capitale della Bukovina, fantasiosa propaggine asburgica donata a Vienna dagli ottomani per l’impegno nella guerra russo-turca. Un casino storico che gli fornì materia per scrivere e farsi largo nella società letteraria tedesca prima di ritirarsi in una torre in Toscana con la baronessa Beatrice Monti che ora anima un premio letterario dedicato al marito. Oltre a lui l’emigrazione d’antan da Cernivci annovera Paul Celan, morto suicida a Parigi nel ‘70 e autore di poesie come Fuga di morte, uno dei pochi che ha saputo fare versi sulla Shoà e ha vissuto la contraddizione d’essere ebreo, perdere la madre nel lager, scrivere in tedesco e pubblicare in Germania con successo. E pure Roman Vlad, 93enne compositore rumeno, emigrato in Italia nel ‘38, che ha da poco dato allo stampe il racconto autobiografico Vivere la musica (Einaudi).
Da Iasi a Cernivci non esiste collegamento diretto. Devo prendere un furgone trasformato in autobus e cambiare a Suceava attraversando una campagna dalla terra nera tra carretti trainati da cavalli. Mezzo di trasporto tornato in voga. La biada costa meno della benzina. A Suceava prendo un vecchio torpedone Ikarus: scritte in russo, tende di velluto, sedili stinti, vetri sporchi: una macchina del tempo che riporta al periodo comunista. Entrando in Ucraina spuntano ville in stile Disneyland, costruite, mi dicono, con le rimesse degli emigrati. Non le badanti ma quelli che hanno fatto fortuna negli Usa. Von Rezzori forse l’avrebbe capito: è stato lui a individuare nel kitsch l’essenza americana, si veda Uno straniero nella terra di Lolita.
A Cernivci dovrei dormire da Ljuba Zinevich, conosciuta su couchsurfing.com , sito di scambio ospitalità che non trascura nessuna parte del mondo. Abita nel quartiere Graviton ma quando trovo il palazzo suono inutilmente. Me ne torno in centro seguito da un tizio con fiato alcolico che mi racconta la storia della città, mostrandomi una via di casette del periodo rumeno, una piazza dove stanno ristrutturando l’hammam col contributo della Turchia e spiega che il quartiere Graviton si chiama così perché Mosca aveva costruito qui una fabbrica aerospaziale. Il centro ha una grazia asburgica, dalla farmacie ai tombini con scritto Czernowitz passando per l’Opera, ma ci sono influenze d’ogni tipo come testimonia la cattedrale armena, la chiesa greco-cattolica e l’imponente e delirante palazzo del Metropolita, oggi sede dell'università e progettato dal boemo Josef Hlavka. È stata distrutta la sinagoga. La
comunità ebrea contava 28mila persone nel 1910, un terzo della popolazione. Tra nazismo e comunismo il minestrone multietnico si è semplificato nella predominanza del tipo ucraino che prima, scrive Von Rezzori, rappresentava il solo 30 per cento. In una via di abitazioni abbandonate dagli ebrei c’è un Internet point. Entro e finisco in mezzo a un compleanno. Si socializza col cognac della Crimea e finisco a cena dai proprietari, due fratelli, uno dei quali è il festeggiato. L’appartamento è nel quartiere Graviton, manco a dirlo. Il padre mi racconta che lavorava nell’esercito, ha vissuto in Germania Est e spiato l’Ovest. Nessuno di loro ha sentito nominare Von Rezzori ma ci sono diverse badanti in Italia nella parentela. Verso le due, dopo essersi trangugiati una bevanda tipo Red Bull davanti alla statua del poeta rumeno Eminescu, prima di entrare all’Hard Rock Cafe i due fratelli mi lasciano all’hotel Bukovina, enorme falansterio comunista. In molte famiglie le madri sono lontane e la notte si fa bisboccia. Ricordo tristi telefonate delle badanti ai figli; per anni (fino all’ottenimento del permesso di soggiorno) non potevano tornare e vederli. La loro durezza di donne postsovietiche si stemperava.
Quando riparto per Iasi, il torpedone viene fermato a lungo alla frontiera con la Romania, dove comincia l’Ue e una volta finiva l’Urss. I passeggeri ucraini sono anziani e tentano di fare contrabbando di detersivo e altri generi. Un vecchietto mi affida una stecca di sigarette dandomi qualche moneta per il servizio. Se lo respingeranno, dice, devo consegnare la stecca a qualcuno degli altri passeggeri rimasti a bordo e farmi una birra alla sua salute. Pochi scampano ai controlli. Restiamo a bordo quasi solo io e l’autista. Si chiama Karlampi, nome d’origine greca: vuol dire luce gioiosa. La moglie fa la badante a Milano.

Corriere della Sera 16.12.11
Caravaggio e i suoi «fratelli»
Sedotti dall'artista lombardo i pittori di tutta Europa arrivavano nella Roma del '600 e si sfidavano con i classicisti. Finché non trionfò il Barocco
di Lauretta Colonnelli


«Ancora Caravaggio», penseranno i lettori. E invece la mostra «Roma al tempo di Caravaggio», in corso a Palazzo Venezia fino al 5 febbraio prossimo, si rivela una delle più interessanti della stagione. Anche se del maestro lombardo viene presentato un solo dipinto, la celebre «Madonna di Loreto», o dei Pellegrini, che per l'occasione ha lasciato l'altare della chiesa romana di Sant'Agostino. Ma la qualità delle centoquaranta opere esposte è altissima. E l'allestimento di Pier Luigi Pizzi esalta le numerose pale d'altare ottenute in prestito dagli istituti religiosi e restaurate per l'occasione. Pizzi è riuscito a creare una messa in scena che non soffoca i dipinti, come spesso avviene quando sono scenografi di grido a occuparsi delle mostre. I grandi quadri provenienti dalle cappelle sono stati infatti ricollocati nella posizione per la quale erano stati commissionati: sopra gli altari ricostruiti da Pizzi in gesso e compensato trattati a finto marmo. Un colpo d'occhio che stupisce fin dall'ingresso.
Un solo Caravaggio, dunque. Ma sistemato a fianco della «Madonna di Loreto» di Annibale Carracci e della sua scuola, proveniente dalla chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo. Dal contrasto tra le due tele si dipana il filo rosso che congiunge tutte le altre opere dell'esposizione. Infatti, nelle intenzioni della soprintendente Rossella Vodret che l'ha ideata e curata, la rassegna vuole ricostruire il panorama dei compagni di strada di Michelangelo Merisi nella Roma del Seicento. E lo fa nello stesso periodo che vede a Palazzo Sciarra la grande mostra sul Rinascimento nella Città Eterna, realizzata dalla Fondazione Roma. In modo tale che il percorso seicentesco a Palazzo Venezia diventa il proseguimento ideale di quello cinquecentesco a Palazzo Sciarra.
«Ho voluto ricostruire il tessuto culturale della città in cui visse e operò il grande genio lombardo», dice Vodret. «In quegli anni vivaci ed esaltanti, in cui il papato celebrava con l'anno santo 1600 la riconquista del suo predominio dopo la grande paura luterana, Roma diventava con le sue ricche committenze la capitale culturale d'Europa, popolandosi di migliaia di artisti provenienti da ogni parte d'Italia e da Spagna, Francia, Germania, Fiandre e Paesi Bassi. Chi erano questi artisti? Come lavoravano? La mostra cerca di rispondere a queste domande».
Lo fa partendo da Caravaggio e da Annibale Carracci insieme, mettendo a confronto le due Madonne, dipinte nel 1604 dal primo e nel 1605 dal secondo. Stesse date, identico soggetto. Ma con differenze nel modo di dipingere quasi abissali, leggibili grazie al fatto che per la prima volta le due opere si possono vedere l'una accanto all'altra. In quella del Merisi si osserva uno stile naturalistico talmente spinto da diventare rivoluzionario, in quella di Annibale la rielaborazione di una pittura classicista di matrice raffaellesca, basata sulla rappresentazione di una realtà idealizzata. È importante questo confronto, perché è dai due giganti della pittura (morti poi a un anno esatto di distanza, nel luglio 1609 Annibale a quarantanove anni e nel luglio 1610 il Merisi a trentotto), che discendono tutti gli artisti operanti a Roma nei decenni successivi. Scambiandosi stimoli ed esperienze, spazzano via in pochi anni gli stereotipi tardo-manieristi e portano innovazioni tecniche e stilistiche che saranno percepite in tutta Europa, fino a quando si scioglieranno nel Barocco sponsorizzato da Urbano VIII per celebrare il trionfo della Chiesa cattolica.
Vodret ha tentato una ricognizione di questi pittori, radunando gli allievi bolognesi di Annibale (da Guido Reni a Domenichino) e i cosiddetti riformati toscani (da Passignano a Fontebuoni), i grandi favoriti delle committenze papali (Baglione e Cavalier D'Arpino) e la grande ondata dei caravaggeschi (da Artemisia e Orazio Gentileschi a Carlo Saraceni). Fino alla monumentale «Allegoria dell'Italia», dipinta tra il 1627 e il 1628 da Valentin de Boulogne e considerata una delle opere più pregevoli del caravaggismo. Nella tela, che chiude la mostra, il Naturalismo ha ormai lasciato il posto allo spettacolo Barocco.

Corriere della Sera 16.12.11
Compromesso o intransigenza. La sfida tra Carracci e il Merisi
Il primo cedette alla Controriforma, «il guappo» si ribellò
di Francesca Bonazzoli


A ll'inizio del Seicento, a Roma, c'erano molte centinaia di pittori che lottavano per guadagnarsi da vivere: tedeschi, fiamminghi, spagnoli, francesi «che vanno e vengono e non li si può dar regola». Due soli, però, erano i campioni cui tutti guardavano: Annibale Carracci e Michelangelo Merisi, chiamato il Caravaggio. Non lavoravano né per il Papa, l'avido Clemente VIII che chiedeva la rigida applicazione della censura controriformista delle immagini, né per la Chiesa ma per un'élite di ricchissimi collezionisti.
Ebbene, a uno di questi, Tiberio Cerasi, (ma dietro dovevano maliziosamente esserci tutti gli altri e in particolare l'uomo più ricco di Roma, Vincenzo Giustiniani) venne in mente di mettere in competizione i due giganti facendoli lavorare nello stesso spazio, la cappella Cerasi, in Santa Maria del Popolo.
Era il 1601. Annibale aveva undici anni più di Caravaggio ed era arrivato a Roma già famoso per affrescare la galleria di Palazzo Farnese. Aveva un carattere schivo, taciturno e malinconico; si faceva vedere poco in giro e da dieci anni stava chiuso a lavorare nel palazzo.
Michelangelo, che al contrario aveva costruito il suo personaggio pubblico di guappo attaccabrighe, aveva conquistato la fama da appena un anno con i due laterali per la cappella Contarelli, ottenuti grazie ai buoni offici del cardinal Del Monte, uno dei ricchi eccentrici protettori dell'avanguardia artistica romana.
In quello stesso 1601 Annibale terminò sia il suo capolavoro nel Palazzo Farnese, una provocazione di erotismo neopagano che venne tenuta nascosta al Papa, sia la pala d'altare con l'Assunta per la cappella Cerasi. Un lavoro che rivela tutto il dramma che portò alla morte Annibale: proprio lui che, quando Caravaggio non era che un fanciullo, aveva già dipinto nella sua Bologna quadri come il Mangiafagioli o la Vecchia cieca, di un realismo ben più sconcertante di quelli che mai dipingerà Caravaggio, adesso, a Roma, si assoggettava ai dettami della pittura controriformista con tutto il repertorio di panneggi fluttuanti, occhi roteanti, teste alate di cherubini, languidezze e deliqui. Aveva tradito il ritorno alla natura e allo studio dal vero che lui per primo in Italia aveva insegnato.
Dal canto suo, Caravaggio, che si sentiva lo sfidato, presentò due quadri altrettanto sconcertanti: una Conversione di San Paolo con le terga del cavallo da cui era caduto il santo che davano verso l'Assunta di Carracci così come, nel pannello di fronte, il sedere del carnefice di Pietro sbatteva in faccia al visitatore della cappella.
Una provocazione. Ma anche a Caravaggio fu ben presto chiesto di piegarsi e ogni quadro che non rispondeva ai criteri di decoro gli veniva tolto dagli altari. Da quel fatidico 1601, Annibale e Michelangelo vissero un dramma simile eppure opposto: mentre Annibale si costrinse ad adeguarsi alle richieste dei committenti, Michelangelo li costringeva invece a seguirlo ostinatamente (non importa quante pale d'altare gli rispedissero indietro) in un percorso sempre più intransigente, all'inseguimento della rottura delle regole. La loro pittura appariva agli opposti, eppure i loro destini erano entrambi segnati dalla tragedia: per Annibale il tradimento della freschezza iniziale si consumò nel silenzio di una depressione che lo portò al tracollo psicofisico. Dopo dieci anni di lavoro, Odoardo Farnese aveva ricompensato Annibale con solo cinquecento scudi d'oro, nemmeno il prezzo di un anno di lavoro. Per l'autostima di Annibale fu un gesto di spregio devastante. Non si riprese più e negli ultimi cinque anni di vita non dipinse quasi più nulla.
Per Caravaggio, quello stesso tradimento della verità che gli veniva chiesto per poter piazzare sugli altari le sue pale, si attorcigliava in una ricerca esasperata del conflitto che lo portò a vivere gli ultimi sei anni in una continua fuga.
Sul breve periodo Caravaggio sembrò vincerla su Annibale: tutti i pittori facevano i caravaggeschi, compreso Guido Reni e Rubens. Sul lungo termine, però, la pittura vincente fu quella di Carracci, mentre il caravaggismo andò a morire entro un trentennio. Ma entrambi persero la partita ultima della vita che alla fine punì sia l'acquiescenza di Annibale che la ribellione di Caravaggio e fece trionfare i conformisti, i leccapiedi, le nullità come Giuseppe Cesari, che il Papa nominò persino Cavaliere d'Arpino.

Corriere della Sera 16.12.11
Lo studioso Alessandro Zuccan riflette sul successo di massa del «brand Caravaggio»
«Troppe leggende e luoghi comuni Era un artista colto e religioso»
Dopo la sua riscoperta è stato trasformato in «star maledetta»
di Marcello Parilli


Caravaggio, in termini pubblicitari, è un marchio che vende. Un brand di successo che con la sua complessità continua ad affascinare gli appassionati d'arte, ma il cui nome, sinonimo di azione e mistero, costituisce un richiamo ancora più irresistibile per un pubblico generico che ama farsi sedurre dalla sua immagine a tinte forti. Immagine che affonda le radici nella vita oggettivamente movimentata del pittore lombardo, ma che in una certa misura è stata romanzata e caricata di valenze negative (raccolte poi da molti critici) da biografi poco precisi o addirittura in cattiva fede. È il caso del Baglione, un pittore che dal Caravaggio venne accusato di plagio e deriso in un libello satirico, e che pensò bene di vendicarsi di lui trascinandolo in giudizio (il Merisi si fece anche un mese di galera) e descrivendolo ai posteri come un artista maledetto e un pessimo soggetto al di là delle evidenze storiche. Una fama che è rimasta appiccicata al Caravaggio per quasi 450 anni durante i quali fu peraltro pressoché dimenticato dagli studiosi, fino a quando fu riscoperto dal Venturi e dal Longhi.
A partire dalla celeberrima mostra del 1951 a Milano, il Caravaggio è finito sempre più sotto i riflettori diventando quasi una rockstar dell'arte: il pubblico se n'è innamorato, gli eventi a suo nome sono andati moltiplicandosi e l'interesse degli studiosi è definitivamente decollato, regalando numerose sorprese. «È indubbio che tutto questo interesse abbia giovato alla ricerca storica — dice Alessandro Zuccari, grande studioso del Caravaggio e membro del comitato scientifico della mostra di Palazzo Venezia — perché studi come quelli di Mina Gregori, Rossella Vodret e Maurizio Calvesi, per citarne solo alcuni, hanno permesso di contrastare la caravaggiomania dilagante e foriera di errori, sfatando alcuni luoghi comuni e depurando il Caravaggio da molti dei suoi aspetti leggendari».
Tanto per cominciare, quell'immagine di un Caravaggio «straccione», poco inserito nella società romana e quasi eretico rispetto al sentire religioso del suo tempo. «Sono semplificazioni che non corrispondono alla realtà — dice Zuccari —. Caravaggio aveva una sua visione religiosa, che però era lontana da quella ufficiale e "perbenista". La sua rappresentazione di poveri, anziani e malati, quel panorama umano inedito che nei suoi dipinti emergeva dal buio corrisponde invece a una sensibilità particolare, che è quella dei circoli religiosi più avveduti e avanzati del tempo come quello di San Filippo Neri, a cui del resto era vicino il suo protettore, il cardinal Del Monte. Ed è una sensibilità che con gli anni rappresenta la realtà in modo da mostrarne sempre più tutta l'evidenza drammatica, di pari passo con il complicarsi della sua vita».
Anche l'immagine del Caravaggio come pittore trasgressivo va rivista: si è detto che il Merisi dipingesse direttamente sulla tela senza disegnare, mentre le nuove tecnologie hanno fatto emergere sotto la pittura disegni precisi e di ottima mano; si è detto che non si ispirasse ai pittori del passato né studiasse le statue greche, mentre è provata una forte influenza di Michelangelo e di tutta la pittura rinascimentale sull'artista milanese. Sì, milanese (come il fratello minore Giovanni Battista, del resto) perché a Milano è stato trovato nel 2007 dal manager in pensione Vittorio Pirami il suo certificato di battesimo nella parrocchia di S. Stefano in Brolo, confortando una tesi del Calvesi di almeno due decenni prima che faceva risalire la data di nascita al 29 settembre del 1571 e non del 1573. A Caravaggio, in provincia di Bergamo, si erano solo sposati i genitori.
Insomma, quello che gli studiosi vanno scoprendo è un artista complesso che nelle sue opere presenta sempre un doppio livello di lettura: quello più immediato, comprensibile a tutti, e quello più colto. «Su quest'ultimo bisogna essere molto cauti — conclude Zuccari —, perché se non si conosce bene il contesto storico e artistico del tempo e si interpretano simboli e allegorie d'impulso e senza documentarli, allora si rischia di deformare quello che il Caravaggio stesso diceva. E non c'è modo migliore per perpetuare ancora una volta errori e luoghi comuni che ormai hanno fatto il loro tempo».

Corriere della Sera 16.12.11
Perché non si smette di cercare chi si ama
Quel che unisce prima e dopo le grandi separazioni
Claudio Magris incontra Dacia Maraini


T utto si tiene. Avevo appena scritto una pagina di omaggio a Fosco Maraini, in cui ricordavo come mi fossi innamorato, a quattordici anni — e lo sono ancora — del suo Segreto Tibet e come, incontrandolo molti molti anni dopo, gli avessi chiesto, prima ancora che ci fossimo formalmente presentati, se era ancora viva Pemà Chöki, l'incantevole tibetana di cui nel libro si parla con asciutta emozione e la cui immagine mi è rimasta in cuore, libera e ariosa come le montagne dell'Himalaya ritratte, sempre in quel libro, in un'indimenticabile fotografia intitolata «Liberazione». Un paio di giorni dopo mi è arrivata La Grande festa di Dacia Maraini, in cui c'è anche lui — «il mio giovane padre settantaseienne» — e ci sono altre figure struggenti e schiette di persone a lei care, persone vere e realmente esistite e non certo meno fantasiose, avventurose e imprevedibili di quelle che si inventano nei romanzi.
Questo libro, che va diritto al cuore con dolorosa poesia, dimostra come Dacia Maraini abbia il dono istintivo, la grazia della gentilezza, nel senso antico del termine. È un libro di commiato da persone amate, che fa sentire tuttavia la presenza di queste persone amate; un libro di dialogo con loro. La «grande festa», come scrive Philippe Ariès molto presente in queste pagine, è il senso di una comunione che — nonostante la lacerazione, il dolore e lo scandalo della morte — unisce e continua ad unire chi è di qua e chi è di là di quella soglia.
Si avverte, in generale, sempre più fortemente la ribellione contro l'impudica rimozione della morte. Non è un caso che in queste settimane sia uscito pure un altro libro bello e forte che ci aiuta ad abbracciare chi è passato dall'altra parte, a guardare in faccia l'indicibile, a ritrovare la presenza e l'amore nel dirsi addio, Così è la vita di Concita De Gregorio. Sento fortemente che nessuna storia finisce mai; le persone che fanno parte della nostra vita, che sono la nostra vita, continuano ad esserlo: continuiamo ad amarle, ad arrabbiarci con loro, ad esser loro ora più vicini ora più lontani, a pensarle e a sentirle al presente: esse sono, così come Omero non «era» un poeta, ma lo è, per sempre. «Come è bello e felice che i fratelli gioiscano insieme, nell'unità», dice la Scrittura.
La grande festa non è una discesa all'Ade; è un colloquio, doloroso ma sereno, con i morti — sorelle, amici, compagni di vita e d'amore, un figlio morto prima di affacciarsi al mondo grande e terribile. Ma tutti presenti, nella vita dell'autrice come nella storia del mondo; ognuno è la cicatrice di un distacco ma anche la tenerezza di una carezza rimasta sul viso. Resta, certo, lo sgomento per lo «spazio vuoto, indicibile», come ha scritto Veronica Raimo, che avvolge quelle figure.
C'è forse una profonda femminilità — chiedo a Dacia Maraini — in questa riservata e insieme franca capacità di abbracciare senza paura chi è dall'altra parte? La generosità è dalla parte di Alcesti, non di Admeto, lo sposo al posto del quale lei accetta di morire, tema che ho ripreso più volte e mi tocca profondamente. Forse per questo Giovanni Paolo I ha parlato di un «Dio madre», perché un Padreterno quale autorità maschile, come tu scrivi, non è sufficiente all'amore…
Maraini: «Non so se l'accudimento dei bambini, così come quella degli anziani e dei malati, appartenga alle donne per natura o per storia. So che per millenni è stato affidato loro questo compito e le donne hanno introiettato l'esperienza che è diventata una vera e propria competenza femminile. La capacità di allungare la mano su una guancia bruciante per la febbre o gelata per il rigor mortis, appartiene all'esperienza femminile, per consuetudine, per prassi. Niente toglie però che, una volta liberati dalle divisioni coatte dei compiti, la mano maschile possa chinarsi con altrettanta affettuosità a carezzare una guancia che si fa di ghiaccio.
Mi viene in mente un esempio di amore paterno che si trova nella cripta dei cappuccini di Palermo. Una bambina è morta fra le braccia del padre medico. Per lenire il suo dolore, l'uomo ha inventato un unguento per imbalsamare sua figlia. Ma dopo di lei ha distrutto il segreto, non l'ha voluto diffondere. In mezzo ai tanti corpi morti di nobili palermitani, resi orribili da una approssimativa imbalsamazione fatta col salnitro che rende la pelle dura come la pietra e marrone come la corteccia della castagna, la bambina imbalsamata mantiene miracolosamente una faccia tonda e rosea, le ciglia perfettamente conservate, le labbra carnose, un ciuffo di capelli castani fermato da un fiocco rosa. La si osserva con meraviglia. Eppure penso che il padre abbia fatto bene a non diffondere il segreto. L'imbalsamazione non è una risposta alla paura della morte. L'eternità non è un teatro delle apparizioni, ma una misteriosa conciliazione chimica».
Magris: «Alcune di queste figure a te care sono anche grandi personaggi famosi — Moravia, Pasolini — che appartengono alla storia della letteratura. È inevitabile, nei loro confronti, qualche particolare riserbo, un senso di responsabilità che seleziona, quasi frena nella scrittura i ricordi che si hanno di loro. Nel tuo libro, tua sorella Yuki è più viva, completa di Moravia. Forse è la letteratura a recare in sé questi limiti dell'umano, a stilizzare l'uomo o la donna nell'immagine dello scrittore, a renderli in certo modo personaggi pubblici verso i quali ci si sente meno liberi, più riguardosi, anche se la morte non ha riguardi per nessuno…».
Maraini: «Non è la morte ad avere riguardi, ma il nostro pensiero che agisce molto più efficacemente di una imbalsamazione, perché nel pensiero una persona cresce, si trasforma, insomma si comporta come un corpo vivo e non si offre come una carne pietrificata. Mia sorella è morta troppo presto in seguito a lunghe sofferenze di cui sono stata testimone e che mi hanno fatto soffrire a mia volta. La sofferenza, se non è dannazione, può diventare un segreto per conservare amorevolmente un affetto, con le sole forze segrete e tenaci della memoria».
Magris: «Tu scrivi, a proposito di Paradiso e Inferno, che, "l'immaginaria divisione cattolica medievale tra buoni e cattivi mi risulta noiosa e prevedibile". Ma Primo Levi diceva che l'idea di un Paradiso per tutti, di un'assoluzione finale in cui tutti, anche i carnefici di Auschwitz, fossero redenti, gli faceva orrore…».
Maraini: «Nessun Dio, per quanto generoso, credo che manderebbe gli aguzzini di Auschwitz in Paradiso. Se c'è un Inferno, sono laggiù. Sarebbe veramente straordinario se ci fosse una serena ed equa giustizia celeste che rimedia alla totale mancanza di giustizia di questo mondo, soprattutto del nostro paese così anarchico, così innamorato del potere individuale e così sordo ai valori sociali. A me piacerebbe poterci credere: un Dio gentile, che giudica, soppesa, analizza, penetra nel cuore umano sapendo dove si annida l'innocenza e dove si nascondono le ombre scure dell'egoismo, sarebbe consolante. Ma dubito che esista un tale meraviglioso tribunale».
Magris: «In una splendida pagina del tuo libro, ricordando il grande amore fra i tuoi genitori, fondato sulla libertà reciproca, anche sentimentale, e sul leale impegno a raccontarsi tutto, pure altre passioni, tu dici che, pur avendo aderito con slancio alle libertà della stagione sessantottesca, non hai mai creduto che questa libertà e questa franchezza possano essere indolori: "C'è sempre uno che ama di più — scrivi — che soffre più dell'altro. E il risultato è un atto di crudeltà contro il più debole e il più esposto". Condivido profondamente questa consapevolezza e la dolorosa nostalgia che la pervade. Vorremmo che nell'amore non vigesse il principio di contraddizione, capita di amare più di una persona, anche se c'è sempre una che si ama di più; vorremmo anche poterlo dire, raccontare, perché ogni esperienza significativa chiede di essere condivisa con chi ci è caro. La "grande festa" potrebbe essere forse anche questo? Tanti canzonieri d'amore hanno arricchito tante persone, ma hanno fatto pure soffrire qualcuno e non è lecito far soffrire nessuno, neanche un cane, ha detto Ernesto Sábato…».
Maraini: «Sono d'accordo con Sábato. Anche gli animali soffrono e vanno rispettati nel loro dolore. In quanto all'amore: per fare coppia ci vuole fiducia. Non si può pretendere di mantenersi liberi sessualmente e sentimentalmente e nello stesso tempo vivere fino in fondo un grande amore. Ogni legame pretende anche delle rinunce. Che non saranno sacrifici ma felice concentrazione e approfondimento di un rapporto a due. Amare più persone si può certamente, ma in tempi diversi. Altrimenti facciamo come Don Giovanni che contava: "in Ispagna son già mille e tre!". Perfetto per scandalizzare i nobili bigotti del suo tempo, ma tristissimo per chi aveva voglia di amare con allegria e stringere un corpo senza sentire il respiro gelido di un ragioniere del sesso».

Repubblica 16.12.11
"Io so che tanti italiani mi considerano un pazzo ma l'umanesimo è alla fine"
Un'intervista inedita allo scrittore fatta in Svezia poco prima della morte e che oggi esce integralmente su L'Espresso
"Non ci sono più i cattolici e i marxisti nel mio Paese. Ha vinto la rivoluzione consumistica"


Anticipiamo parte di un´intervista inedita a Pasolini, registrata a Stoccolma, il 30 ottobre 1975. Il testo integrale è pubblicato sul nuovo numero dell´Espresso.

Lei è stato scrittore, lo è ancora. Come ha deciso di fare cinema? «La cosa ha radici lontane. Quando ero ragazzo, avevo 18-19 anni, per un momento ho pensato di fare il regista. Poi è venuta la guerra e questo ha tagliato per lunghi anni ogni possibilità e ogni speranza. E poi ci sono state delle circostanze: dopo che ho pubblicato il mio primo romanzo, Ragazzi di vita, che ha avuto successo in Italia, sono stato chiamato per fare delle sceneggiature. Quando ho girato Accattone era la prima volta che toccavo una macchina da presa. Non aveva fatto mai neanche una fotografia e neanche adesso so fare una fotografia».
Lei preferisce attori non professionisti. Come lavora? Cerca un ambiente e quando trova quello poi sceglie le persone?
«Non è esattamente così. Se io faccio un film di ambiente popolare, prendo gente del popolo, cioè non professionisti, perché credo sia impossibile per un attore borghese fingere di essere un operaio o un contadino. Suonerebbe falso in modo intollerabile. Se invece faccio un film d´ambiente borghese, poiché non posso chiedere a un ingegnere, un medico o un avvocato di venire a fare l´attore per me, prendo attori professionisti. Naturalmente parlo dell´Italia e dell´Italia di dieci anni fa. Se fossi in Svezia probabilmente prenderei sempre degli attori perché non c´è più differenza tra un borghese e un operaio in Svezia. Parlo di un fatto fisico. In Italia c´è una differenza come tra un bianco e un nero».
Nei suoi ultimi film non ci sono elementi religiosi, giusto?
«Non sono tanto sicuro che non ci fossero elementi religiosi nei miei ultimi film. Nelle Mille e una notte c´era anche una specie di afflato religioso in tutto il film. Non c´era religiosità confessionale, temi religiosi diretti ma una situazione di mistero e di irrazionalità c´era. Tutto l´episodio di Ninetto, che è la parte centrale delle Mille e una notte…».
Ha partecipato al dialogo fra cattolici e marxisti in Italia?
«Non ci sono più i marxisti e i cattolici in Italia, non ci sono più cattolici in Italia».
Ci spieghi allora come è la situazione.
«In Italia è avvenuta una rivoluzione ed è la prima nella storia italiana perché i grandi Paesi capitalistici hanno avuto almeno quattro o cinque rivoluzioni che hanno avuto la funzione di unificare il Paese. Penso all´unificazione monarchica, alla rivoluzione luterana riformistica, alla rivoluzione francese borghese e alla prima rivoluzione industriale. L´Italia invece ha avuto per la prima volta la rivoluzione della seconda industrializzazione, cioè del consumismo, e questo ha cambiato radicalmente la cultura italiana in senso antropologico. Prima la differenza tra operaio e borghese era come tra due razze, adesso questa differenza non c´è già quasi più. E la cultura che più è stata distrutta è stata la cultura contadina, che allora era cattolica. Quindi il Vaticano non ha più alle spalle questa enorme massa di contadini cattolici. Le chiese sono vuote, i seminari sono vuoti, se lei viene a Roma non vede più file di seminaristi che camminano per la città e nelle ultime due elezioni c´è stato un trionfo del voto laico. E anche i marxisti sono stati cambiati antropologicamente dalla rivoluzione consumistica perché vivono in altro modo, in un´altra qualità di vita, in altri modelli culturali e sono stati cambiati anche ideologicamente».
Sono marxisti e consumisti al contempo?
«C´è questa contraddizione, tutti coloro che sono sia dichiaratamente marxisti, sia che votano per marxisti sono al tempo stesso consumisti. Non soltanto, ma il Partito comunista italiano ha accettato questo sviluppo».
Ma quando parla di marxisti parla del Partito comunista o di altre fazioni?
«Ma sì, dei comunisti, socialisti, degli estremisti. Per esempio gli estremisti italiani gettano delle bombe e poi la sera guardano la televisione, Canzonissima, Mike Bongiorno».
Le società di classe c´è ancora?
«Le classi ci sono ma – è questo il punto originale dell´Italia – la lotta di classe è sul piano economico, non più sul piano culturale. Adesso la differenza è economica tra un borghese e un operaio, ma non c´è più differenza culturale fra i due».
E il nuovo movimento fascista?
«Il fascismo è finito perché si appoggiava su Dio, famiglia, patria, esercito, tutte cose che adesso non hanno più senso. Non ci sono più italiani che di fronte alla bandiera italiana si commuovono».
C´è un disfacimento comunque della società italiana di oggi, vero?
«Considero il consumismo un fascismo peggiore di quello classico, perché il clerico-fascismo in realtà non ha trasformato gli italiani, non è entrato dentro di loro. È stato totalitario ma non totalizzante. Solo un esempio vi posso dare: il fascismo ha tentato per tutti i vent´anni che è stato al potere di distruggere i dialetti. Non c´è riuscito. Invece il potere consumistico, che dice di voler conservare i dialetti, li sta distruggendo».
Faccia una profezia, sia Tiresia. C´è speranza nel futuro?
«Dovrei fare Cassandra più che Tiresia. Ho chiesto oggi a dei ragazzi svedesi con cui ho parlato, ho fatto loro questa domanda: voi vi sentite ancora più vicini alla civiltà umanistica o vi sentite già dentro la civiltà tecnologica? E mi pare che loro abbiano risposto, piuttosto tristemente, che si sentono la prima generazione di una trentina di generazioni diverse da quello che è stato fino adesso. E per concludere. Tutto quello che ho detto, l´ho detto a titolo personale. Se voi parlerete con altri italiani vi diranno: "Quel pazzo di Pasolini"».