domenica 18 dicembre 2011

l’Unità 18.12.11
Firenze Un corteo lungo, composto e colorato per le vie della città. Con i senegalesi tanti italiani
«Fermiamo il razzismo ora»
Sfilano a migliaia, italiani e stranieri: è il corteo per ricordare i due senegalesi uccisi. Il raduno in piazza Dalmazia, teatro del primo agguato di Casseri. In piazza anche Bersani e Vendola.
di Vladimiro Frulletti



Ha il sorriso aperto e sfrontato di una ragazzina di 13 anni. Le brillano gli occhi. Chissà quante volte avrà guardato quella foto, Samb Modou. Lui sua figlia non l’aveva mai conosciuta. Era partito dal Senegal quando la moglie era incinta di tre mesi. E non era ancora riuscito a tornare a casa. Presto però avrebbe avuto i documenti e allora sì che l’avrebbe potuta abbracciare. Invece martedì, al mercato di Piazza Dalmazia, un assassino razzista ha messo fine al suo sogno. E a quello di Diop Mor. Ieri, dietro la foto della bimba e della moglie di Modou, a Firenze c’erano tantissime persone.
CORTEO
Da piazza Dalmazia al centro di Firenze, a piazza santa Maria Novella ci sono poco più di 3 chilometri. In ventimila ieri pomeriggio li hanno percorsi a piedi, in un lungo corteo, triste e colorato. Anche bello, a patto che si possa usare questo aggettivo per una manifestazione funebre. Tutta quella gente s’era data appuntamento per ricordare Modou e Diop Mor, uccisi dal criminale razzista Gianluca Casseri.
Più di un’ora di marcia silenziosa: solo slogan contro il razzismo. E qualche insulto al sindaco di Firenze, Matteo Renzi, da parte degli antagonisti. Un silenzio che davanti alla stazione di Santa Maria Novella si è fatto canto. Il canto degli amici e dei compagni dei due cittadini del Senegal. «C’è un solo Dio» intonavano a mezza voce dietro la bandiera del loro Paese. «Nessuno è straniero» gridava lo striscione che reggevano insieme. E in effetti dire che dentro a quel lungo serpentone ci fosse qualcuno di “estraneo” è davvero difficile. I cittadini senegalesi erano tantissimi, arrivati da tutta Italia. C’erano anche l’ambasciatore itinerante per gli immigrati senegalesi e la rappresentante (Aisotou Tall) del partito Socialista del Senegal. Ma al loro fianco sfilavano anche migliaia di italiani. Famiglie con i bambini al seguito e ragazze e ragazzi con in spalla gli zaini della scuola.
IN MARCIA
E poi le bandiere listate a lutto del Pd, di Sel, di Rifondazione comunista, della Cgil, dell’Arci. I gonfaloni dei Comuni toscani (ma non quello di Firenze), della Regione Toscana e delle province di Firenze e Prato. I sindaci con la fascia tricolore. Il presidente della Toscana Enrico Rossi, il sindaco Renzi, la vicepresidente della Camera Rosi Bindi e molti parlamentari come Michele Ventura, Gianni Cuperlo, Vittoria Franco e Tea Albini del Pd e Fabio Evangelisti dell’Idv.
E i leader del centrosinistra: il segretario del Pd Pierluigi Bersani, quello di Sel Nichi Vendola e del Psi Riccardo Nencini. Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e Maurizio Landini della Fiom. Ma pure l’ex ministro Gianfranco Rotondi (già Dc) e Marco Ferrando (già ex Prc) del partito comunista dei lavoratori. E anche Adriano Sofri («sono per strada, ma non libero» dice rifiutando di fare dichiarazioni) e Sergio Staino. Tutti insieme per tirare su un argine al sentimento razzista che sta avvelenando l’Italia perché, come denuncia dal palco il presidente Rossi «non ci sono isole felici». Per chiedere alla politica e alle istituzioni «di fare la loro parte reprimendo con severità fenomeni di terrorismo razzista». Perché per il segretario del Pd non ci si può consolare dietro alla presunta follia dell’assassino.
«Bisogna avere una reazione innanzitutto sul piano civile e culturale spiega Bersani mentre sfila a fianco del segretario regionale Andrea Manciulli perché siano bloccati immediatamente rigurgiti di tipo razzista». Il problema è quando questa propaganda xenofoba, denuncia Vendola, è alimentata da una classe dirigente che «per 15 anni ha fatto del razzismo di Stato» con leggi, come la Bossi-Fini che il leader di Sel chiede siano cancellate. Tanto che Ferrero dice che il razzismo e la xenofobia sono stati sdoganati dall’alto, «da certi ministri». «Guai ad abbassare la guardia di fronte al pericolo razzista invita Bindi È un problema anche culturale, ma è un fatto che da quando ci sono le leggi leghiste tutto è peggiorato».
Adesso ci sarebbe da “invertire la rotta” come chiede un lenzuolo-quadro che portano quelli di Sel e che raffigura le traversate della speranza. Il come lo indica Rossi (che chiede al presidente della Repubblica di dare la cittadinanza italiana ai tre cittadini senegalesi feriti): punire chi fa propaganda razzista e fascista, riconoscere come italiani i figli degli immigrati e diritto di voto ai loro genitori. Perché, per i tanti immigrati che escono da Santa Maria Novella mentre il buio fa risplendere le luminarie natalizie, la speranza è che la manifestazione non sia stata, come spiega il loro rappresentante Papa Diaw, «la solidarietà di un giorno e poi si ricominci come se niente fosse stato».

il Fatto 18.12.11
Due volte Africa
risponde Furio Colombo


Provo una vergogna profonda a sentirmi concittadina di chi va per le piazze di Firenze a sparare ai neri e nella periferia di Torino a incendiare i campi nomadi. Chi non si schiera contro il razzismo, adesso, in Italia, è altrettanto colpevole come chi lo diffonde e lo alimenta coltivando la paura.
Fabiola

RARAMENTE, in giorni come questi, in un Paese incattivito da esempi e comportamenti non solo vergognosi, come dice la lettrice, ma anche pericolosi, ci si ricorda che esistono due Italie non solo diverse ma totalmente sconnesse, come se gli stessi eventi avvenissero in momenti e luoghi diversi, come nelle “vite concorrenti” dei romanzi di Philip K. Dick. È vero che in una di queste Italie si lasciano digiuni i bambini immigrati nelle scuole, si dichiara reato la condizione di “clandestino” come se il crimine di “essere” potesse prendere il posto della responsabilità di fare, si nega la cittadinanza ai bambini immigrati nati in Italia e si usa, quando possibile, il lavoro schiavistico mal pagato e pericoloso come forma purtroppo comune e diffusa di sfruttamento. Ma negli stessi giorni in cui un assassino razzista si aggira sparando ai neri, guidato, nella sua follia, dal controllo remoto della cultura razzista, in quegli stessi giorni (tra il 10 e il 13 dicembre) un 39enne avvocato nero, originario del Mali e di religione musulmana, Demba Traore, viene eletto a Roma segretario di un partito. Certo, si tratta di un partito non tipico, non da “Porta a Porta”, tanto aperto e flessibile nella sua organizzazione (per andare al loro Congresso ti iscrivi e basta) quanto intransigente nei suoi principi. Sto parlando, (con consueta e non nascosta simpatia) del Partito radicale nonviolento, transnazionale e transpartitico, un gruppo politico nato italiano e diventato tibetano, africano, cinese, kurdo (oltre che europeo), che ti fa credere che una simile operazione sia possibile e facile e che non c'è ragione che la politica si preoccupi delle frontiere, delle differenze culturali del mondo e degli scontri di civiltà. E così, nel Paese che spara sui neri, bacia la mano a Gheddafi e affonda i migranti, un africano del Mali diventa il segretario di un partito che non sarà il più grande, ma certo ha una personalità forte e una vigorosa capacità di essere diverso. In questo Paese dovremo non smettere di parlare di tragedie odiose e razziste come quelle di Firenze e di Torino. Ma sarà bene cominciare a parlare di Demba Traore, africano, islamico, segretario di un partito italiano e riferimento onorevole di ciò che può accadere nel nostro non fortunato Paese.

il Fatto 18.12.11
Lettera da Firenze ai fratelli senegalesi


Caro direttore, le invio questa lettera perché da martedì 13 dicembre vivo con un lutto profondo e con una rabbia che si alterna ad una profonda indignazione. Rabbia ed indignazione che vorrei condividere con molti altri. Due fratelli senegalesi (sono italiana, ma mi sento cittadina del mondo) sono stati brutalmente massacrati nella città in cui vivo, altri tre fratelli sono stati feriti, uno in maniera molto grave. Eppure le autorità ed una buona parte della stampa continuano a parlare del gesto isolato, dell'azione di un folle. Ipocriti! Viviamo in un paese dove permettiamo a Bossi, Maroni e Calderoli, solo per citare i nomi più noti, (mi scusi, ma davanti a certi nomi non riesco a scrivere la parola signore) di offendere con un linguaggio volgare e pericoloso coloro che giungono nel nostro paese per scappare dalla fame, dalla morte e dalla guerra. Permettiamo ad un ex (?) estremista di destra di nome Alemanno di rivestire importanti cariche politiche. Viviamo in un paese dove una parte dei responsabili della miseria nostra e della disperazione altrui ci ha governati e continua a farlo (come potrà essere il governo Goldman Sachs?) Vivo in una città, dove Renzi, degno successore di Dominici, si sciacqua la bocca e si lava la coscienza con la parola “integrazione”. Mi chiedo se conosca il significato di questa parola che si è tradotta in concreto con l'inasprimento dell’ordinanza contro i lavavetri, estesa a mendicanti e musicisti di strada, sgomberi e sfratti di intere famiglie.
Eh sì, caro direttore, vivo nella Firenze che ha un sindaco di “sinistra” che ci invidia tutta la destra!
Cosa altro dovrei pensare di una città che tollera Casa Pound? Non sono intollerante, ma voglio il rispetto della Costituzione. Non possiamo permettere che la storia sia negata, non possiamo permettere che il cervello di giovani ignoranti sia imbevuto da slogan e racconti avulsi da qualsiasi manuale di storia.
Viviamo in un regime che, malgrado le contestazioni, ha portato avanti una controriforma della scuola chiamata Gelmini, e che ha preteso la revisione dei libri di storia, una riforma che ha tagliato ore di Storia e di Diritto, quando in questo paese si continua ad uscire dalle scuole superiori senza avere un'idea di ciò che sia successo nel mondo dopo il 1950!.
In questo paese, caro direttore, c'è tanto bisogno di cultura e di scuola pubblica, ma si continua a tagliare fondi alla scuola pubblica preferendo foraggiare i “diplomifici” privati.
Questa mia lettera vuole essere un appello, una preghiera, un invito a unirci per i nostri figli, per i nostri studenti, per i nostri fratelli.
Francesca Naldini

il Fatto 18.12.11
Orgoglio africano
In trentamila a Firenze per ricordare Samb e Diop
“Casseri non era un folle, è la cultura razzista”
di Enrico Fierro


Se volete capire perché ieri a Firenze c’è stata “la più grande manifestazione di immigrati mai svolta in Italia” – come dice con le lacrime agli occhi Alessio Gramolati, il segretario della Cgil della Toscana – dovete fissare lo sguardo su una foto. Ritrae una donna bellissima, fiera come le regine africane cantate da Leopold Sedar Senghor, il grande poeta della negritude e presidente del Senagal moderno. È avvolta nell’abito della festa ed è contenta di mandare al suo uomo il ritratto suo e della figlia tredicenne, sono ben vestite e nascondono la tristezza della lontananza con un sorriso, grazie al lavoro del marito che si spacca la schiena in Italia hanno raggiunto un pizzico di benessere. Una donna, una “vedova bianca” (così si chiamavano le mogli dei “pane e cioccolata” italiani lasciate da sole nei loro paesi mentre i mariti lavoravano da schiavi nelle miniere del Belgio o nelle fabbriche della Germania), la moglie di Modon Samb, una delle due vittime uccise martedì scorso nel mercato di Piazza Dalmazia.
“LUI NON LA VEDEVA da dodici anni – racconta un suo amico – l’aveva lasciata quando era incinta. Lavorava tanto perché il suo sogno era di poter ritornare in Senegal e abbracciare finalmente sua figlia. Adesso Modon tornerà nella sua terra, ma da morto. Per lui non ci saranno abbracci, ma solo lacrime”. È l’orgoglio del Senegal, del Marocco, del Sudamerica, quello che sfila dalle tre del pomeriggio fino a sera per le vie di Firenze. Si aspettavano diecimila persone, ne arrivano trentamila. La pelle è nera, olivastra, ma anche bianca. Toscani e fiorentini, tutti insieme venuti nella città di Dante a dare una grande lezione di democrazia, di responsabilità e di civiltà all’Italia intera. È una massa in movimento che ha ormai preso coscienza dei propri diritti. Lavorano nelle imprese della concia nella Toscana dell’industria del lusso, nelle fonderie, nelle fabbriche del vetro, le loro donne assistono anziani soli. Sanno di essere parte del sistema produttivo del Paese, sanno che le tasse che pagano, i contributi che versano all’Inps, gli affitti che onorano, sono parte importante del Pil di questo Paese, e reclamano giustizia e diritti. Non c’è una parola, una sola, di odio nel corteo.
“Ci sentiamo offesi quando, dopo la strage di martedì, ancora sentiamo parlare del gesto di un folle, no, questo è il prodotto di una cultura razzista, xenofoba, fascista”. L’avvocato Aissapou Taull Sall è stata ministro del governo senegalese, oggi è portavoce del Partito socialista, ma è a Firenze soprattutto come legale. “Abbiamo costituito un pool di avvocati per fare una controinchiesta. Chi c’è dietro quel killer, chi lo ha istigato, quali autorità gli hanno concesso un porto d’armi? È un atto di razzismo, per questo chiediamo anche alle autorità europee e mondiali di avviare una inchiesta internazionale”. “Forse – ci racconta Papa, del Senegal pure lui – quelle voci che avevamo sentito nei giorni prima della strage non erano infondate. Un italiano aveva detto ad alcuni nostri fratelli che presto ci avrebbero cacciato con la forza dal mercato”.
CARTELLO IMPOSTO a tutte le telecamere da una ragazza di colore: “La pace non è solo una parola, ma un comportamento civico. Grazie”. Cartello portato da un lavoratore marocchino: “Che c’entra l’Africa con la crisi? ”. Non solo braccia sfilano fino alla piazza di Santa Maria Novella, ma teste, cervelli che ragionano di politica e di diritti, uomini e donne coscienti delle regole e delle leggi del nostro Paese. “Mio figlio è nato qui, io lavoro e pago le tasse qui, ma non possiamo scegliere chi ci rappresenta, siamo italiani senza diritti”, ci dice Sahid, che è venuto da Udine con gli altri fratelli senegalesi. Fratelli e sorelle, si chiamano così tra di loro. E così li chiama Enrico Rossi, il presidente della Toscana. Hanno voluto lui sul palco dopo qualche dissapore, nella fase preparatoria della manifestazione, col sindaco Matteo Renzi. Il primo cittadino, ci dicono, era molto preoccupato per le conseguenze che il corteo avrebbe avuto sul traffico se si fosse spinto troppo verso il centro. I senegalesi non hanno gradito e hanno preferito evitare la sua presenza in piazza. Parla Rossi e lancia un appello al Presidente Napolitano. “Signor Presidente, riconosca ai feriti il diritto di ottenere la cittadinanza italiana e subito. Questo è un atto concreto di riconciliazione con una comunità così duramente colpita”. Poi ringrazia. “Grazie per averci invitato, grazie per averci aiutato a ritrovare la nostra anima democratica”. È il messaggio che i senegalesi aspettavano, il riconoscimento di essere parte di una comunità. Molto resta ancora da fare e lo dicono gli altri politici presenti (Bersani, Rosi Bindi, Vendola, Landini, Rotondi, Ferrero) su cittadinanza e diritto di voto, cancellazione della vergogna dei Cie e chiusura dei siti web che inneggiano al razzismo. La lotta continua e il corteo si scioglie. La foto della moglie e della figlia di Modon Samb viene riposta. Ritrae due donne bellissime e sole. Ora qualcuno dovrà trovare le parole giuste per dire alla più giovane che quel suo papà visto solo in fotografia è stato ucciso nella civilissima Italia perché nero. Negro senza diritti. Da abbattere perché clandestino.

il Fatto 18.12.11
Ma che razza di parole
di Silvia Truzzi


Brutta settimana, brutti segnali, brutto paese quello che si scopre attraversato da latrati razzisti. A Torino il rogo di un campo rom (innescato dalla bugia di una ragazzina forse più fragile che stupida, indubbiamente pericolosa) semplicemente ci spiega qual è il prezzo dell’aver tollerato per anni la denigrazione del diverso. A Firenze l’assassinio di due senegalesi e il ferimento di altri tre è stato definito il raptus di un invasato. Non so se liquidare come impazzimento un gesto che ovviamente non ha nulla di sensato sia di qualche utilità. Una certezza c’è: chiunque veda un pericolo in un altro perché di fede o etnia differente, ha enormi problemi. Ma non si può leggere tutto come un fatto individuale, come non si può dire che siamo – tout court – un popolo xenofobo. Eppure per anni abbiamo lasciato impunemente sproloquiare un partito di governo che sputava insulti su tutti, dai meridionali agli extracomunitari. Le “cazzate” della Lega? Massì, lasciamoli dire: che male faranno? Mercoledì sera a Milano con Giorgio Ambrosoli e Nando Dalla Chiesa abbiamo presentato l’ultimo libro di Gian Carlo Caselli, “Assalto alla giustizia” (Melampo). Tra il pubblico – giustamente indispettito da un’irruzione di un gruppetto di militanti di Forza Nuova –, un ragazzo ha fatto una domanda a Caselli. Incidentalmente ha raccontato di aver discusso con alcune persone della strage di Firenze: qualcuno aveva parlato dell’assassino come “eroe bianco”. Il discorso sulla libertà di manifestazione del pensiero è complesso, ma alcune cose non si dovrebbero poter dire. Caserta è in subbuglio proprio per una frase che una professoressa di scuola media avrebbe rivolto a un’alunna, che protestava perché il suo test di geografia – uguale a quello di altri compagni – era stato valutato diversamente: 7 invece che 9. L’insegnante – circostanza avvalorata dalle testimonianze scritte dei compagni della bambina – le avrebbe detto: “Ma è perché tu sei diversa, sei nera”. Un’indagine del provveditorato è stata immediatamente avviata, aspettiamo i risultati. Se la frase è stata detta, è stata pronunciata da una persona chiaramente disturbata. È una storia laterale, ma quali danni può produrre? Abbiamo oggi – e grazie al cielo – un ministero alla Cooperazione e all'integrazione. Il titolare, Andrea Riccardi, ha sollevato in questi giorni di episodi miseri un tema problema fondamentale: “Bisogna stare attenti alle parole perché possono essere pericolose. La predicazione del disprezzo ha una responsabilità di linguaggio. Occorre ritrovare un nuovo uso pubblico delle parole”. Le parole seminano odio, che poi germoglia. Spargono benzina, a poco a poco, in modo che il giorno in cui un cerino cadrà – per sbaglio o con dolo – tutto prenderà fuoco. Qualcuno pensa che queste considerazioni siano anche troppo ovvie, come ovvio è il fatto che razza è un termine biologicamente privo di significato. Ma bisognerà replicarle sapendo di ripetersi, come antidoto, ogni volta che il veleno della discriminazione s’inietta in un corpo sociale ancora miseramente debole.

La Stampa 18.12.11
La manifestazione di solidarietà ha riempito ieri le strade del centro di Firenze: accanto ai senegalesi moltissimi fiorentini, alcuni con cartelloni e biglietti di scuse
Quindicimila “no” al razzismo
di Guido Ruotolo


Che bella Firenze che ha visto sfilare i suoi figli, bianchi e neri, in una giornata luminosa e con una aria frizzante. Tanti, tantissimi, 15 mila. Inaspettati. Soprattutto i fiorentini, che hanno risposto in maniera sorprendente e che hanno così sostenuto i fratelli senegalesi che, abituati a dover essere invisibili, si sono ritrovati in migliaia e si sono abbracciati. Che emozione sentire il presidente della Regione Toscana, Rossi, dire dal palco: «Da oggi mettiamo al bando parole quali extracomunitari, vu cumpra e clandestini... ».
Doveva essere una giornata di dolore, muta, per ricordare Dop e Samb, i suoi due fratelli uccisi martedì scorso da un estremista di destra che si è poi tolto la vita, e invece è stato un giorno dell’orgoglio della comunità senegalese e della domanda di cittadinanza per gli immigrati. Firenze e Dakar non dovevano fare pace, perché la ferita che si è aperta riguarda il Paese intero e pone domande a tutti. Dice dal palco il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi: «Non è stato il gesto isolato di un folle, ma il frutto di una cultura e di una tolleranza verso la xenofobia». E Pape Diaw, il rappresentante della comunità senegalese fiorentina, è stato ancora più esplicito, riferendosi alla Lega: «C’è un partito che si richiama alle radici cristiane ma fomenta l’odio razziale. Per la politica questa manifestazione dovrebbe essere l’alba di una nuova speranza».
Il perdono e i perché Mamadou era in vacanza a casa. Ha preso il primo volo dal Senegal ed è rientrato a Firenze. Lui è il segretario dell’Associazione dei senegalesi fiorentini: «È più facile perdonare che trovare una risposta al perché. Una ragazza italiana che vive a Dakar ha distribuito volantini nei quali chiedeva scusa. Senza parole i ragazzi che avevano lavorato alla Barilla in Italia, e che sono tornati in Senegal per aprire un impianto di “Pasta Mi”. Un senegalese su quattro è immigrato e con il suo lavoro mantiene la sua numerosa famiglia a casa. E oggi il mio Paese si interroga preoccupato».
Nelson Mandela, Jerry Masslo, Malcom X, le icone della manifestazione (c’è anche un senegalese che ha una bandiera con il volto di Rosa Luxemburg). E «razzismo» la parola più gridata e scritta del corteo. Sfila Adriano Sofri, arriva il senatore Pardi. In testa, c’è un cordone di autorità senegalesi e italiane. L’ambasciatore inviato dal presidente del Senegal, Papa Saer Gueye, e il segretario del Pd Bersani. E poi Nichi Vendola, Marco Ferrero, Rosi Bindi e Gianfranco Rotondi, il segretario del Psi Nencini. E il segretario della Fiom-Cgil Landini. Arriva il sindaco Renzi, che dice rivolgendosi a Bersani: «Grazie segretario per essere venuto». Ma proprio Renzi non prenderà la parola dal palco per incomprensioni con gli organizzatori proprio sul percorso del corteo. «Basta Razzismo». «Quanto vale la vita di un immigrato? ». Striscioni, cartelli. In Piazza Dalmazia, dove il killer ha aperto il fuoco ammazzando due senegalesi, il corteo si muove prima dell’orario previsto. C’è l’«Associazione 3 febbraio» con il suo striscione: «Fratelli e sorelle uniti contro il razzismo». E anche volantini sul «diritto all’autodifesa per gli immigrati e gli antirazzisti». C’è chi sfila portando in braccio un barboncino bianco mentre una madre un marmocchio. Sorridente, sì un corteo sorridente nonostante il lutto. E forse perché il vedersi in tanti, il respirare un’aria diversa ridà fiato ai senegalesi e ai fiorentini.
Feriti ancora gravi Insieme con il console onorario Eraldo Stefani, l’ambasciatore giunto dal Senegal e quello di sede a Roma erano andati in mattinata a visitare i feriti. Impressionati, per le condizioni di salute. C’è uno di loro che probabilmente rimarrà paralizzato. Sono tutti e tre in rianimazione. Chi colpito alla spina dorsale, chi all’addome o alle braccia. Aida Ba è la moglie di Mbenghe Cheike. Ha 35 anni e un’energia che le sprizza dalla pelle. Non è abbattuta, suo marito se la caverà. «Abbiamo avuto due figli, 18 e 5 anni, più lui aveva una ragazza da un’altra donna, che oggi ha 19 anni. Io lavoro in una fabbrica a Signa e lavo cassette di frutta. Sono a busta paga, 800 euro al mese. L’affitto della casa arriva a 650 euro. Mio marito vende al mercato. La prima figlia è arrivata che io avevo 17 anni. Mi chiedi se sono felice? No, non lo sono. E non per la mia famiglia ma per le condizioni di vita qui».
Le scuse dei fiorentini Gli ambasciatori senegalesi attraversano piazza Duomo. Ci sono cittadini fiorentini che li bloccano chiedendo scusa. Riaffiorano nella memoria di qualcuno gli eroi senegalesi: quello che a Siena ha sventato una rapina facendo sparire la chiave d’accensione dell’auto dei rapinatori, o il povero di Castagneto di Livorno che per salvare un ragazzo in difficoltà in acqua è annegato.
Da Berlino arriva una telefonata al segretario dell’Associazione dei senegalesi fiorentini: «È una associazione spiega Mamadou - che si occupa di crimini razzisti. Vogliono venire a Firenze... ». Si commuove il prefetto, che spiega alla delegazione senegalese la sua preoccupazione per qualche gesto sconsiderato (che non ci sarà) dei centri sociali o degli anarcoinsurrezionalisti. Il corteo arriva in piazza Santa Maria Novella. Che si riempie all’inverosimile. È buio ormai, nel salotto buono di Firenze si fanno compere di Natale. Quel cartello con le foto di una donna, di una ragazzina e di un uomo. Era la famiglia di Samb Modou. La figlia di Samb oggi ha 13 anni e lei non ha mai rivisto il padre da quando aveva 2 anni.

La Stampa 18.11.12
“Ora una commissione per fare chiarezza”
L’ex ministro Tall Sall: “Comunità minacciata”
di G. Ru.


L’inchiesta Aissatov Tall Sall ex ministro senegalese per l’Informazione chiede che si indaghi su possibili complici
L’ ex ministro dell’Informazione, portavoce del Partito Socialista senegalese, Aissatov Tall Sall, propone una commissione d’indagine internazionale sull’esecuzione di due cittadini senegalesi e il ferimento di altri tre: «Avvocati senegalesi e italiani devono indagare su quello che è successo, per dare delle risposte ai dubbi e alle domande che tutti ci poniamo».
Cosa è successo a Firenze?
«Un dramma insostenibile per tutti i senegalesi. E, dunque, sono venuta a Firenze per esprimere solidarietà alla mia comunità. Come avvocato dico che quello che è accaduto deve trovare risposte convincenti».
Il killer si è sparato. Cosa c’è ancora da investigare?
«Hanno detto che era un pazzo di estrema destra. Ma ha mirato selezionando il bersaglio. Ho raccolto l’informazione che nella nostra comunità girava da prima la notizia di una possibile violenza contro senegalesi. Una voce raccolta al mercato di piazza Dalmazia».
Il killer era autorizzato ad avere un’arma da fuoco...
«È un tema del nostro approfondimento. Abbiamo bisogno di capire se si è trattato di un folle malato o di uno che è stato istigato ad aprire il fuoco. Dobbiamo accertare che non vi siano dubbi sul fatto che vi possano essere altri complici».
Qual è il giudizio sulla manifestazione appena conclusa?
«È stata una bellissima manifestazione. Una testimonianza di fratellanza vera».

«Quando la bomba esploderà anche in Italia – perché esploderà – nessuno dica che è uno choc o una “dolorosa sorpresa”. Perché i vertici ecclesiastici non stanno muovendo un dito per cercare la verità»
il Fatto 18.12.11
La Chiesa e i panni sporchi
di Marco Politi


Maggio 2010. All’assemblea generale della Cei il cardinale Bagnasco si innervosisce in conferenza stampa per una domanda sull’intervista del direttore dell’Osservatore Romano in cui viene lodato l’esempio dei vescovi di Inghilterra e Galles che hanno istituito in ogni diocesi e molte parrocchie una task force – cui partecipano molte donne – per sorvegliare e prevenire gli abusi sessuali del clero. I vescovi italiani non istituiscono nessun organismo di controllo.
Maggio 2010 il segretario della Cei mons. Crociata comunica ai giornalisti che i casi di pedofilia del clero in Italia sono 100. Il presidente della Cei dichiara di non essere “in grado” di dire cosa è stato dei preti criminali. Destituiti? Trasferiti? Ridotti allo stato laicale? Silenzio assoluto. L’anno 2010 è segnato dall’esplodere degli enormi scandali di abusi in Irlanda e in Germania, un drammatico seguito agli scandali avvenuti negli Stati Uniti, in Canada, in Brasile, in Australia.
IN ITALIA l’episcopato non prende nemmeno in considerazione la proposta di don Fortunato Di Noto, il prete siciliano impegnato da anni specialmente nel contrasto della pedofilia on line, di istituire in ogni diocesi un “vicario per i bambini”. Una sola diocesi in Italia – Bressanone – istituisce un numero verde e apre un’inchiesta per portare alla luce gli abusi del clero. Un anno dopo vengono comunicati all’opinione pubblica i risultati: nel ventennio trascorso si registrano tredici vittime maschili e dodici femminili. La conferenza episcopale italiana ignora l’esempio della diocesi altoatesina. È evidente che se tutte le duecento diocesi italiane aprissero un’indagine, almeno qualche migliaio di casi insabbiati sarebbe scoperto. Per questo la gerarchia ecclesiastica non si muove.
In Belgio i vescovi hanno istituito una commissione che nel 2010 ha messo on line i risultati. La maggioranza delle vittime aveva intorno ai dodici anni. “Una vittima ne aveva due, cinque ne avevano quattro, otto ne avevano cinque e dieci sette”. (Rapporto Adriaenssens). Almeno tredici vittime si sono suicidate. In Austria il cardinale Schoenborn ha affidato a un’ex governatrice regionale democristiana l’incarico di svolgere un’inchiesta indipendente. In Italia nessun cardinale ha preso una simile decisione per la sua diocesi. In Germania i vescovi hanno stabilito nell’estate del 2011 che un gruppo di lavoro di ex giudici ed ex pro-curatori in pensione passeranno al setaccio i dossier personali del clero di tutte le diocesi tedesche. Nulla del genere in Italia.
Ancora nell’ottobre 2011 il segretario della Cei ribadisce che la responsabilità sulla vigilanza degli abusi spetta unicamente al vescovo. La Cei sta elaborando severe linee guida per contrastare il fenomeno. L’esperienza ha ormai dimostrato incontrovertibilmente una cosa. Se si vuole fare luce, bisogna nominare un incaricato diocesano e un vescovo a livello nazionale per seguire sul serio il dossier. Se si vuole fare luce bisogna nominare un’inchiesta nazionale indipendente.
NON BASTA che Benedetto XVI a più riprese abbia condannato il fenomeno e si sia incontrato in varie parti del mondo con alcune vittime. Non è più sufficiente nemmeno l’esistenza di norme più severe della Congregazione per la Dottrina della fede o l’impegno che per maggio 2012 le conferenze episcopali abbiano approntato linee guida nazionali.
Servono concreti atti di governo della suprema gerarchia cattolica per fare luce su decine e decine di migliaia di crimini avvenuti in tutto il mondo. Il caso orripilante dell’Olanda è significativo. In un solo anno di lavoro la commissione indipendente, promossa dall’episcopato olandese e guidata dall’ex ministro democristiano Deetman, ha calcolato che dal 1945 ad oggi nei seminari, nelle scuole, negli orfanotrofi cattolici il numero delle vittime si colloca tra diecimila e ventimila. Basta un anno di lavoro, basta una commissione indipendente per arrivare a scoprire la verità. In Italia, in Europa, in tutto il mondo.
La Cei si rifiuta di imboccare questa strada, Benedetto XVI che segue personalmente l’attività dell’episcopato italiano non ha voluto finora dare nessun ordine perché sia fatta chiarezza in Italia. Dal Vaticano non è giunta l’indicazione ad avviare un’indagine internazionale né si è deciso di aprire finalmente gli archivi per rivelare decenni di insabbiamento.
Quando la bomba esploderà anche in Italia – perché esploderà – nessuno dica che è uno choc o una “dolorosa sorpresa”. Perché i vertici ecclesiastici non stanno muovendo un dito per cercare la verità.

il Fatto 18.12.11
ICI Bagnasco proprio non vuol pagare


Il cardinal Angelo Bagnasco, capo dei vescovi, pochi giorni fa sembrava aver aperto sulla possibilità che la Chiesa pagasse l’Ici (o Imu) sugli immobili che hanno anche natura commerciale. A sciogliere ogni equivoco ci pensa però l’intervista di ieri al Corriere della Sera: “Le tasse non sono un optional, la Chiesa paga l’Ici”. Poi, però, a metà colloquio ammette: “L’esenzione dall’Ici per talune categorie di enti e di attività non è un privilegio. È il riconoscimento del valore sociale dell’attività esentata e – cosa non secondaria – non riguarda solo la Chiesa, ma anche altre confessioni religiose e una miriade di realtà non profit”. Peccato che non sia questo il punto: bensì il fatto che l’esenzione riservata a immobili per uso “non commerciale”, vista la vaghezza della definizione, finisca per beneficiare anche parecchie attività lucrose. Comunque, la manovra è stata approvata e anche questa volta la Chiesa si è salvata.

Repubblica 18.12.11
I privilegi della Chiesa le ambiguità della legge
di Miguel Gotor


Le polemiche sul pagamento dell´Ici da parte della Chiesa cattolica lasciano riaffiorare un fascio di atteggiamenti antichi.
Da un lato c´è l´impuntatura anticlericale, carica di pregiudizi e di non poca disinformazione; dall´altro, la chiusura a riccio del fronte clericale che vede nella semplice sollevazione della questione un´aggressione alla Chiesa come istituzione.
Bisogna, invece, ragionare, a partire dal riconoscimento di alcuni dati di fatto. Il primo è la crisi economica che il Paese sta attraversando: l´attuale governo ha chiesto duri sacrifici, i cui effetti, sul terreno delle politiche sociali e assistenziali, sono oggi percepiti con preoccupazione dagli amministratori locali, ma non sono stati ancora compresi sino in fondo dalla cittadinanza e soprattutto dalle fasce più deboli della popolazione che pagheranno il prezzo più alto. In un simile contesto, se riconosciamo la criticità di questa fase storica, è giusto che qualunque istituzione presente in Italia si impegni più del normale e persino del dovuto per contribuire ad attutire le conseguenze dell´emergenza favorendo la raccolta delle risorse e il loro spostamento a protezione dei più deboli, avendo come stella polare il valore dell´equità.
Il secondo è il riconoscimento del ruolo sociale della Chiesa cattolica nel nostro Paese. Essa svolge una funzione di supplenza preziosa quanto silente, si pensi solo alle mense della Caritas, operando con delicatezza e amore laddove la mano pubblica non riesce ad arrivare. Il merito principale di questa azione è quello di considerare l´altro da sé anzitutto una persona, a prescindere dai diritti di cittadinanza che gli sono riconosciuti come individuo. Senza retorica: si tratta di un esercito disarmato di poveri, stranieri, deboli, malati che vive ai margini delle nostre consumistiche esistenze e riceve un pasto, un ascolto, uno sguardo.
Il terzo dato è la necessità, non solo per i politici, ma anche per gli uomini di Chiesa di far sì che le parole siano il più possibile coerenti ai fatti. Sotto questo profilo, le dichiarazioni del cardinale Bagnasco di ieri lasciano ben sperare perché riconoscono la necessità di "chiarire e di fare alcune precisazioni" sul tema della qualità delle esenzioni fiscali oggi previste e si dicono disponibili a "valutare la chiarezza delle formule normative vigenti". Ammettono cioè l´esistenza di un problema che è bene mettere a fuoco, spazzando il campo dalle dispute ideologiche e mostrando un´effettiva volontà di collegare i pronunciamenti valoriali alla concretezza delle pratiche.
La Chiesa già oggi paga l´Ici per gli spazi commerciali, mentre invece è esentata dal farlo laddove si è in presenza di un uso dell´immobile legato alla fede, al culto o all´assistenza sociale. È giusto che sia così perché, come ha ricordato il cardinale Bagnasco, il mondo della solidarietà non può essere tassato al pari di quello del business. Quanti, invece, ritengono che ciò debba avvenire senza compiere distinzioni sbagliano perché attaccano un insieme di beni e di valori comuni, come il volontariato e la solidarietà, che costituiscono il cuore pulsante del tessuto civile italiano. Il problema, però, è nella zona grigia presente nell´attuale normativa che consente di trasformare la solidarietà in business. Sono infatti previsti luoghi di carattere "parzialmente" commerciale che godono dell´esenzione fiscale in modo legittimo, ma ingiusto. Di conseguenza, se il proprietario dichiara che l´uso sia solo in parte con finalità di profitto non ha l´obbligo di pagare l´Ici. Facciamo un esempio concreto: oggi può non versare l´imposta quell´albergo gestito da un ordine religioso o da un movimento ecclesiale, magari sorto accanto a un luogo di culto, che di fatto fornisce servizi in un regime di libera concorrenza a strutture private. E può non farlo perché gli viene riconosciuto un uso "parzialmente" commerciale che lo rende esente. Il secondo problema è legato all´inevitabile prossimità ambientale che, a livello comunale, può crearsi tra il sindaco che dovrebbe riscuotere la tassa e le autorità ecclesiastiche diocesane che possono eventualmente svolgere pressioni affinché ciò non avvenga. Si ha la viva impressione che alcune finalità commerciali si nascondano sotto il mantello dell´attività sociale o religiosa, un´impressione che, per fare un esempio, la recente parabola milanese di don Verzé rende particolarmente acuta.
Per risolvere questa situazione basterebbe svolgere un censimento degli immobili ecclesiastici che distinguesse con chiarezza le funzioni sociali e religiose da quelle meramente commerciali. In secondo luogo, sarebbe importante superare questa ambiguità interpretativa della legge, in cui si annida certamente il privilegio e, in alcuni casi, anche l´interessata contiguità tra amministrazione ecclesiastica e funzione pubblica. In questo modo si lancerebbe un messaggio costruttivo al corpo sociale che aiuterebbe a superare tante sterili polemiche che spesso nascono proprio con l´obiettivo di coprire i veri problemi e di evitare di risolverli, un atteggiamento che l´Italia di oggi non può più permettersi.

Repubblica 18.12.11
Bagnasco: sì al confronto sull´Ici nessuna cresta sull´8 per mille
Dalle case di ferie alle cliniche, ecco il business esente
di Silvio Buzzanca


Il Terzo Polo e il Pdl fanno muro. Casini: il Vaticano già paga ed è inutile continuare a parlarne
Il presidente dei vescovi: tutto quello che riceviamo dallo Stato va in opere di solidarietà in Italia e all´estero
La Cei è disponibile a rivedere la normativa sul non profit per chiudere lo scontro sulla tassazione

I vescovi italiano guadagnano solo 1.300 euro al mese e dunque «non fanno la cresta» sui soldi che arrivano alla Chiesa dall´otto per mille. Il cardinale Angelo Bagnasco replica alle polemiche e torna a parlare di soldi pubblici e sgravi fiscali a favore della Chiesa. Parla all´Università Gregoriana sia dei soldi che arrivano dalle dichiarazione dei redditi degli italiani, sia del pagamento dell´Ici sugli immobili ecclesiastici destinati ad attività commerciali. E su questo punto il presidente della Cei ribadisce da un lato che la Chiesa paga l´Ici e dunque gli attacchi «sono senza fondamento». Dall´altro lato Bagnasco ripete che ci sono magari casi di i vescovi italiani sono «disposti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti e delle attività non profit oggetto dell´attuale esenzione».
Una disponibilità che sembra tenere conto dell´ordine del giorno approvato venerdì dalla Camera con parere favorevole del governo che chiede di «definire» la questione degli edifici utilizzati parzialmente per fini commerciali. Un´Ipotesi che non preoccupa Bagnasco, interessato invece a fare sapere che è stato avviato un dialogo con il governo.
Ma ieri il presidente della Cei ha voluto rispondere anche a chi attacca la Chiesa sui soldi che arrivano dalle dichiarazioni dei redditi. E dice: «Ho letto che riceviamo 1 miliardo di euro, spendiamo 350 milioni per gli stipendi e il resto è cresta». Bagnasco vuole replicare proprio su questo punto. «Certamente - dice - non esiste la cresta dei vescovi perché tutto il resto dell´otto per mille che non è destinato al sostentamento del clero va per la carità, in Italia e all´estero, per opere di solidarietà che la Chiesa fa da sempre. E va anche per opere pastorali, oratori e manutenzione delle chiese».
In tempi di polemiche feroci sulla casta e i suoi stipendi, il presidente della Cei rivela che «tutto è trasparente e rendicontato come risulta dai rendiconti pubblici che sono sul sito Internet della Cei. Le cifre sono sotto gli occhi di tutti, i nostri stipendi sono dell´ordine di circa 1.300 euro anche se qualcuno di molto autorevole dice che sono troppo modesti, per noi sono più che sufficienti e ringraziamo il Signore».
Precisazioni e spiegazioni che mirano a bloccare quelle che il cardinale Bagnasco definisce dosi consistenti di «disinformazione». Ma l´obiettivo non sembra essere stato centrato. Se Pier Ferdinando Casini dice che la Chiesa deve pagare l´Ici come tutti e la paga. Per cui è una finta polemica, non si capisce di cosa discutiamo», altri tornano all´attacco. Passata la festa, gabbato lo santo - attacca Mario Staderini - . Quando la pressione dell´opinione pubblica metteva paura, Bagnasco faceva aperture e ammetteva l´esistenza di un problema. Ora che in Parlamento il pericolo è scampato, - conclude il segretario di Radicali italiani - torna a pontificare e alzare il muro di gomma». Maurizio Gasparri parla di «attacco alla Chiesa», mentre Oriano Giovanelli del Pd condivide con Bagnasco la necessità di «fare chiarezza».

Scuole
Istruzione privata dall´asilo al liceo oltre 200 istituti nella capitale

Sono 232 gli istituti scolastici cattolici di Roma, secondo l´ultimo censimento dell´Ufficio diocesano della capitale. Un numero che va moltiplicato almeno per due, perché nella maggior parte degli istituti ci sono almeno una materna, un´elementare e una media inferiore, oppure alla media si affiancano i licei. Ci sono anche istituti che coprono tutto il ciclo dell´istruzione, come l´Highlands Institute dei Legionari di Cristo, che parte dalla scuola dell´infanzia e arriva al liceo classico, linguistico e scientifico. La maggior parte sono scuole per l´infanzia, ma ci sono anche molti licei. Il costo è vario: si va dalle rette moderate delle scuole salesiane a quelle più alte di alcuni istituti riservati all´alta borghesia romana, come il Collegio "San Giuseppe", l´Istituto "Massimiliano Massimo", l´Istituto Sacro Cuore Trinità dei Monti, il Marymount.
(r.am.)

Sanità
Il 25 per cento dei posti letto è gestito da enti religiosi

Negli ospedali religiosi si trova il 25% dei posti-letto di Roma (le statistiche regionali considerano i nove ospedali cattolici e l´unico israelitico). Eppure i dieci nosocomi della capitale gestiti da istituzioni religiose pesano molto poco sulla spesa sanitaria laziale, appena il 6,6%, secondo recenti stime della Regione. Non solo: ospedali come il Fatebenefratelli o il Policlinico Gemelli godono di una fama indiscussa, che ne fa dei poli della sanità italiana.
Accanto agli ospedali, fanno capo alla Chiesa anche tre illustri istituti di ricerca di carattere scientifico, uno legato al Fatebenefratelli, l´altro al Bambin Gesù (l´ospedale pediatrico di Roma) e l´ultimo dell´Idi (Istituto Dermopatico dell´Immacolata). Il sistema sanitario laziale li ha sempre considerati un grande patrimonio per la qualità del servizio erogato e per la professionalità di chi ci lavora.

Case e uffici
Il re del mattone in affitto a Roma è Propaganda Fide

Propaganda Fide è l´istituto religioso con il maggior numero di immobili in affitto a Roma Fra gli ultimi immobili acquisiti da Propaganda Fide a Roma c´è anche un´ala del palazzo di via Giosuè Carducci 2, non lontano da via Veneto. Una decina i mini-appartamenti affittati a preti e religiosi per cifre che vanno dagli 800 euro in su. L´intero patrimonio di Propaganda Fide nella Capitale vale nove miliardi di euro e comprende, oltre alla prestigiosa sede di piazza di Spagna, una rete di circa duemila edifici e appartamenti. Fra gli affittuari della Congregazione c´è anche Bruno Vespa, che per un appartamento con terrazza su piazza di Spagna paga 10 mila euro al mese. Di Propaganda Fide era anche il palazzo di via dei Prefetti acquistato dall´ex ministro Pietro Lunardi e finito al centro dell´inchiesta sui "Grandi eventi".

Alberghi
B&B e suite a cinque stelle giro d´affari per 700 milioni

Un centinaio di case vacanze, altrettanti bed & breakfast, decine di conventi trasformati in hotel de charme. Il patrimonio immobiliare "vocato" al turismo di proprietà del Vaticano conta soltanto a Roma circa 10mila posti letto. Un censimento ufficiale non è mai stato fatto. Nell´elenco ci sono piccole strutture economiche, ma anche importanti complessi monumentali a 4 o 5 stelle con prezzi da 200 a 300 euro. Il business, secondo le stime di Federalberghi Roma, sarebbe di oltre 700 milioni. L´unica altra cifra certa è quella che il Comune di Roma ammette come mancato introito per il pagamento dell´Ici. Secondo il Campidoglio dal 2006, il gettito non corrisposto per gli immobili della Chiesa adibiti a uso commerciale compresi alcuni negozi del centro affittati a prezzo di mercato vale ogni anno almeno 25,5 milioni di euro.

La Stampa 18.12.11
L’asse farmacisti-Vaticano
“Bloccare la pillola” La Chiesa in campo con i farmacisti
Lo stop ai medicinali nei supermercati deciso dopo i suggerimenti del Vaticano
di Andrea Tornielli


I suggerimenti, discreti ma incisivi, sono arrivati dal Vaticano e dai vertici della Conferenza Episcopale Italiana. E così anche la Chiesa ha avuto qualche ruolo nelle modifiche apportate alla manovra del governo sull’Ici e le liberalizzazioni.
I farmaci con ricetta resteranno un’esclusiva delle farmacie
«Viva preoccupazione» Oltretevere per la vendita del farmaco considerato abortivo

A cominciare dal sensibile ridimensionamento del progetto che prevedeva di estendere la vendita dei farmaci di fascia C con ricetta medica nelle parafarmacie e nei supermercati. La categoria dei farmacisti ha infatti trovato Oltretevere un’insperata sponda contro l’iniziativa del governo. Tra i farmaci che sarebbero sbarcati nei supermercati c’era anche la Norlevo, la «pillola del giorno dopo», che impedisce l’annidamento nell’utero dell’ovulo fecondato.
Dalla Santa Sede, conferma a La Stampa un’autorevole fonte vaticana, è partita la pressante richiesta, rivolta al governo e ai parlamentari cattolici, di non portare la Norlevo nei supermercati visti i problemi etici connessi: c’è chi ritiene la pillola soltanto un anticoncezionale, anche se d’emergenza, mentre il Movimento per la Vita ha sempre ribadito come, in caso di concepimento avvenuto, l’effetto della pillola possa definirsi abortivo (anche se non va confusa con la Ru486 che può essere usata solo negli ospedali). Proprio l’Mpv aveva chiesto a tutte le forze politiche e ai «parlamentari dichiaratamente sensibili ai valori “non negoziabili” di agire per modificare questi aspetti della manovra». E la «viva preoccupazione» vaticana è giunta a destinazione ed è stata presa in considerazione.
Altre iniziative sono arrivate dalla Chiesa italiana. Non solo attraverso gli editoriali, le inchieste e le richieste puntualmente messe in pagina dal quotidiano «Avvenire» diretto da Marco Tarquinio, sul quoziente familiare, l’equità, l’indicizzazione delle pensioni, il sostegno al lavoro e alle imprese. A intervenire, seppure in termini generici di auspicio, è stato anche il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che ha invitato a dare un segnale in favore delle famiglie. In questo caso però decisivo è stato il lavoro dei parlamentari di Pdl e Udc, che ha portato alla detrazione per il pagamento dell’Imu (l’ex Ici) sulla prima casa aumentata di 50 euro per ciascun figlio sotto i 26 anni, senza legare lo sconto sulla tassa al reddito della famiglia, come invece avrebbe preferito il Pd. È un’applicazione del «quoziente familiare» alla tassa sulla prima casa nuovamente reintrodotta da Monti dopo l’abolizione decisa dal governo Berlusconi.
Venerdì la Chiesa italiana, insieme a tutti gli enti «no profit», ha tirato un sospiro di sollievo anche per l’approvazione di un ordine del giorno relativo alle polemiche delle ultime settimane, culminate nella raccolta di adesioni online per abolire l’esenzione Ici-Imu agli immobili ecclesiastici promossa dalla rivista MicroMega. Il Parlamento ha infatti respinto due ordini del giorno, presentati rispettivamente dai radicali e dall’Idv, e ne ha invece approvato uno presentato da Pdl e Pd con il quale l’esecutivo si impegna «valutare l’opportunità di affrontare e definire, considerato il valore sociale delle attività svolte da una pluralità di enti “no profit” e, tra questi, gli enti ecclesiastici, la questione relativa al pagamento dell’Imu sugli immobili parzialmente utilizzati a fini commerciali».
Al momento della presentazione della manovra, rispondendo a una domanda, Monti aveva risposto che il governo non aveva ancora affrontato la questione. Una settimana fa era intervenuto il cardinale Bagnasco per manifestare la disponibilità della Chiesa a far sì che non possano esistere zone grigie. Anche ieri il presidente della Cei ha ribadito al Corriere della Sera: «Siamo disposti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti e delle attività no profit oggetto dell’attuale esenzione». Il cardinale ha anche ripetuto che «la Chiesa paga l’Ici» e che «eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati, devono essere accertati e sanzionati con rigore». Ribadendo però al tempo stesso che l’esenzione «per talune categorie di enti e di attività non è un privilegio» ma «il riconoscimento del valore sociale dell’attività che viene esentata». Le parole dell’ordine del giorno Pdl-Pd appaiono in linea con quanto espresso dal presidente del vescovi.

«la religione cristiana è una risorsa per il Paese...»
La Stampa 18.12.11
Dio salvi la regina e le radici cristiane
Nell’Inghilterra che seppellisce l’ateo militante Hitchens fanno discutere le dichiarazioni del premier Cameron
di Andrea Malaguti


Cameron e Dio. Nel giorno in cui il Regno Unito seppellisce in lacrime il talento reazionario e ribelle di Christopher Hitchens, profeta di una razionalità lucida, atea e aggressiva, il primo ministro di Sua Maestà decide di affidare a un sorprendente discorso pronunciato alla Christ Church Cathedral e indirizzato all’Arcivescovo di Canterbury il proprio richiamo alle radici della Gran Bretagna. «Siamo un Paese cristiano e non dobbiamo avere paura di dirlo». Boom. Dibattito immediato. Siti intasati, proteste e applausi alla Bbc, discussioni sui giornali: è il ritorno al Medioevo della ragione o un richiamo finalmente genuino a una sensibilità diffusa di cui sarebbe assurdo vergognarsi?
Riuscendo a sfilarsi per qualche ora dal dibattito soffocante sul rapporto tra l’Inghilterra e l’Europa, David Cameron partecipa a Oxford alla celebrazione dei 400 anni della Bibbia di Re Giacomo. Un testo che gli sembra imprescindibile per capire l’anima di quella che lui continua a chiamare Big Society. «La rivolta nelle strade di agosto - ma anche i comportamento di certi banchieri o della politica che ruba sulle note spese - dipende dall’ignoranza di un codice morale che impedisce di agire senza rispetto per gli altri». E quel codice, suggerisce, viene da Dio. «Ho molti dubbi teologici e ammetto che sono un praticante blando, ma è la mancanza dei valori cristiani che porta la società al collasso. La filosofia del vivi e lascia vivere si è trasformata presto in quella del fai come ti pare». Platea ammutolita. È questo un politico inglese moderno?
Sono lontani i tempi in cui Alastair Campbell, spin doctor laburista di Downing Street, rispondendo a chi gli chiedeva degli orientamenti religiosi di Blair, diceva secco: «We don’t do God», noi non ci occupiamo di Dio. Una posizione che Cameron aggiorna. «Nessun partito può reclamare un filo diretto con l’Altissimo. Ma nessuno può negare il peso dei valori cristiani per la Gran Bretagna e per i suoi cittadini». D’altra parte è stato proprio Blair, con la sua FaithFoundation, a riportare il tema sui tavoli della politica mondiale affermando che «le persone di diverse religioni di tutto il mondo ormai vivono insieme. La globalizzazione le unisce e anche i bambini devono imparare a capire le diverse culture e le diverse fedi. È la sfida di un secolo, il XXI, in cui non ci saranno conflitti di ideologia politica, ma di ideologia religiosa».
Più o meno le parole che Cameron dispensa alla platea oxfordiana. «È proprio perché abbiamo fiducia nelle nostre radici cristiane che consideriamo una risorsa decisiva per il Paese le altre religioni, dall’Islam all’ebraismo». Stavolta raccoglie un’ovazione. Prende fiducia. Insiste. Racconta di una società impossibile senza il dialogo interreligioso. «Molte persone mi hanno detto che proprio per questa nostra tolleranza è più facile essere ebrei o musulmani nel Regno Unito piuttosto che in Francia». E al di là dell’ossessivo confronto con Sarkozy sono parole che fanno effetto se messe a confronto con quelle di Hitchens - coscienza dell’altra parte del Regno - che pochi giorni prima della morte, calvo per la chemioterapia, scavato, deciso a non lasciarsi condizionare dalla malattia, discutendo con l’amico Ian McEwan sotto la luce al neon dell’ospedale di Houston, si era scagliato ancora una volta contro la fede: il più pericoloso veicolo d’odio della storia. «Secondo i preti siamo creati corrotti e poi ci viene ordinato di fare del bene. Come se esistesse una dittatura ultraterrena, una Corea del Nord del regno dei cieli. Beh, è vero esattamente il contrario. Nell’uomo la morale viene prima della religione».
Non aveva mai digerito, lui, inglese di Portsmouth, l’idea dell’esistenza di un punto di riferimento eterno a cui aggrapparsi quando ci manca qualcuno da incolpare per la profonda scontentezza che abbiamo di noi, un facile bersaglio per i nostri insulti o una scusa perenne per la nostra indispettita mediocrità. «La religione ha il potere di far dire cose cattive a persone buone e cose stupide a persone intelligenti», giurava. Idee che Cameron, come la maggior parte degli inglesi (43% cristiani, 51% atei, secondo un sondaggio della Bbc), conosce bene. Ma quando si scatena il dibattito il compito di un leader è quello di guidare la sua gente - lo dice la parola, no? -, non di mettersi in coda. E questo probabilmente si ripeteva il premier mentre parlava alla Christ Church Cathedral, disperatamente alla ricerca dei semi vitali di una società solida e non costruita con la cartapesta di una buona volontà posticcia.

il Fatto 18.12.11
Hitchens e la scoperta del cancro
L’assurda guerra alla mortalità
Nel settembre 2010, su Vanity Fair, il grande polemista Christopher Hitchens raccontava la scoperta del cancro che l’ha ucciso due giorni fa.
di Christopher Hitchens


Più di una volta mi sono svegliato sentendomi la morte addosso. Ma nulla mi aveva preparato per quell’alba dello scorso giugno quando ebbi la sensazione di essere incatenato al mio cadavere. L’intera cavita’ toracica sembrava svuotata e poi riempita di cemento a presa lenta. Avvertivo appena il mio respiro, ma non riuscivo a riempire i polmoni d’aria. Il cuore batteva troppo forte o troppo piano. Ogni movimento, per quanto minimo, comportava una attenta programmazione. Dovetti fare uno sforzo inaudito per attraversare la mia stanza d’albergo a New York e chiamare aiuto. Arrivarono e si comportarono con straordinaria cortesia e professionalità. Ebbi il tempo di chiedermi a cosa serviva tutto quello spiegamento di stivali ed elmetti, ma oggi, ripensandoci, capisco che si trattava di una deportazione, gentile quanto si vuole, che mi catapultava dal paese di chi sta bene nella terra della malattia. Nelle ore che seguirono, dopo che si erano affannati intorno al mio cuore ai ai miei polmoni, i medici di questo triste posto di frontiera mi dissero che era necessario chiamare un oncologo.
La sera prima mi ero occupato del lancio del mio libro nel New Haven e poi avevo preso parte al ”Daily Show” con Jon Stewart e ad un incontro con Salman Rushdie. Non avevo cancellato questi due impegni pur sentendomi male. Avevo vomitato due volte senza che nessuno se ne avvedesse. E’ quello che fanno i cittadini del paese dei malati quando si aggrappano ancora inutilmente al loro vecchio domicilio.
A suo modo la nuova terra è molto accogliente. Tutti sorridono e non c’e’ traccia di razzismo. Il senso dell’umorismo è un po’ latitante e ripetitivo, non si parla di sesso e la cucina è la peggiore che mi sia mai capitato di provare. Il paese ha una sua lingua – una lingua franca, al contempo monotona e difficile – e una sua gestualità cui e’ necessario abituarsi. Ad esempio sono capaci, la prima volta che ti vedono, di infilarti le dita nel collo. Proprio così sono venuto a sapere che il cancro aveva raggiunto i linfonodi e che una di queste deformi bellezze era visibile e palpabile. Che il cancro sia ”palpabile” non pare una buona notizia specialmente quando non sanno ancora da dove è partito. Il carcinoma lavora incessantemente dall’interno verso l’interno. Le terapie spesso agiscono piu’ lentamente facendosi strada dall’esterno verso l’interno. All’altezza della clavicola mi hanno infilato una quantità di aghi continuando a ripetere ”il tessuto è il tessuto”, uno slogan molto in voga dalle parti di Tumorville. Poi mi hanno detto che per i risultati della biopsia bisognava aspettare una settimana.
Ci è voluto molto più tempo per scoprire la sgradevole realtà. Nella cartella clinica la parola ”metastatizzato” è stata la prima ad attirare la mia attenzione. L’alieno aveva colonizzato parte del polmone e dei linfonodi. E il campo base si trovava nell’esofago. Anche mio padre era morto, molto rapidamente, di cancro all’esofago. Aveva 79 anni. Io ne ho 61. Qualunque sia la ”corsa” cui sto partecipando su questa terra, all’improvviso mi trovo a essere finalista.
La nota teoria di Elisabethh Kubler-Ross secondo cui si passa dal rifiuto alla rabbia, dalla depressione all’”accettazione” non si applica al mio caso. Suppongo di aver attraversato un periodo di ”negazione”, ma non mi ci vedo a piagnucolare su quanto tutto questo sia ingiusto. Quanto alla rabbia non è roba per me. Mi opprime invece una sensazione di spreco. Avevo dei progetti per i prossimi dieci anni e mi li ero sudati e meritati. Veramente non potrò assistere al matrimonio dei miei figli? Né potro’ scrivere il necrologio di vecchi furfanti come Kissinger e Ratzinger?
L’oncologia ti propone questo accordo: in cambio della possibilità di vivere ancora qualche anno accetti di sottoporti alle chemioterapia e poi, se sei fortunato, alla radioterapia e magari anche a un intervento chirurgico. Insomma ti lasciamo ancora da queste parti per un po', ma ci devi dare qualcosa di tuo: gli organi del gusto, la capacità di concentrazione, la possibilità di digerire quello che mangi e, naturalmente, i capelli. Sembra un buon affare. Disgraziatamente comporta anche la necessità di fare i conti con uno dei più stucchevoli luoghi comuni del nostro tempo. La gente non ha il cancro: combatte la battaglia contro il cancro. E’ un luogo comune che ritroviamo anche nei coccodrilli. Come se si potesse dire che uno e’ morto dopo una lunga e coraggiosa battaglia contro la mortalità.
Traduzione di Cab

Corriere della Sera 18.12.11
Controlli sui redditi: un «povero» su tre dichiara il falso
di Fiorenza Sarzanini


Su circa 14.000 famiglie controllate nei primi 10 mesi di quest'anno, quasi 4.000 hanno illecitamente dichiarato di essere sotto la soglia minima fissata dalla legge, potendo così ottenere benefici, ad esempio, per i figli (dagli asili nido alle agevolazioni sulle tasse universitarie) o per i parenti anziani. È uno dei dati più eclatanti che emerge dal rapporto della Guardia di Finanza sugli sprechi della spesa pubblica.

ROMA — Ricchi nella realtà, poveri per lo Stato. E proprio grazie a questa finta indigenza migliaia di italiani sono riusciti a ottenere benefici per i figli — dagli asili nido gratuiti alle agevolazioni sulle tasse universitarie — per i parenti anziani con i servizi sanitari a domicilio. Ma anche riduzioni sulle bollette di luce e gas. Su circa 14.000 famiglie controllate nei primi 10 mesi di quest'anno, quasi 4.000 avevano illecitamente dichiarato di essere sotto la soglia minima fissata dalla legge. Vuol dire, una su tre. È uno dei dati più eclatanti che emerge dal rapporto annuale della Guardia di Finanza sugli sprechi della spesa pubblica. Si tratta del bilancio di un'attività diventata strategica nel momento in cui si cerca di risanare i conti dello Stato. A leggere i resoconti appare evidente come tra i settori in sofferenza nei quali si deve intervenire con urgenza effettuando un monitoraggio costante anche da parte delle stesse autorità di controllo, c'è quello della Sanità. Ma la cifra più eclatante continua a rimanere quella legata al danno erariale provocato dai dipendenti statali che commettono abusi, falsi o accettano mazzette: da gennaio a ottobre 2011 ha abbondantemente superato un miliardo e 700mila, sono ben 3.736 persone denunciate alla Corte dei Conti.
Nel complesso, le azioni illecite e le verifiche inesistenti nella spesa pubblica causano ogni anno un mancato introito di circa tre miliardi di euro. In totale negli ultimi tre anni gli sprechi hanno superato la cifra record di dieci miliardi di euro. E infatti nella relazione si evidenzia come «il contrasto alle frodi, che da un punto di vista ragionieristico pesa quanto e forse più di quello delle entrate fiscali, oggi traspare in maniera ancor più evidente in ragione del perdurante momento di crisi e degli impegni politici assunti dall'Italia nei confronti della comunità internazionale, i quali impongono che le risorse disponibili siano spese sino all'ultimo euro per sostenere l'economia e le classi più deboli, eliminando sprechi, inefficienze e, nei casi più gravi, distrazioni di fondi pubblici che rappresentano un ostacolo alla crescita del Paese». Una considerazione che trova fondamento anche nelle sempre più frequenti frodi comunitarie che hanno causato, soltanto nel 2011, una perdita di oltre 120 milioni di euro che sale fino a 700 milioni di euro calcolando gli «aiuti indebitamente percepiti da privati e imprese» negli ultimi tre anni.
Finti ricoveri e pazienti deceduti
«Il controllo della spesa sanitaria — sottolineano gli analisti delle Fiamme Gialle — stante la sua particolare importanza nell'ambito del bilancio pubblico e le sue dinamiche di crescita rappresenta una delle priorità inderogabili per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica». La realtà appare però ben lontana dal raggiungimento di questo obiettivo se si calcola che nei primi dieci mesi di quest'anno sono stati effettuati 1.507 controlli e sono finite sotto inchiesta 1.866 persone. La perdita calcolata per lo Stato è pari a 274 milioni di euro, addirittura il triplo di quanto era stato accertato nel 2009. E proprio in questo settore si sbizzarrisce la fantasia dei pazienti, ma soprattutto quella degli operatori: medici, infermieri e responsabili delle strutture.
La violazione più frequente riguarda l'autocertificazione di cittadini che attestano un falso Isee (l'indicatore della situazione economica equivalente) e ottengono prestazioni mediche totalmente esenti da ticket. Ma la «voce» che provoca il maggior danno al bilancio dello Stato riguarda i ricoveri: perché ci sono alcuni medici e paramedici che certificano di aver effettuato prestazioni in day hospital anziché in ambulatorio e altri — in servizio presso le cliniche convenzionate — che attestano di essere arrivati attraverso il pronto soccorso in modo da ottenere il rimborso delle spese dal servizio sanitario nazionale che altrimenti non sarebbe previsto. E poi ci sono i dottori «di base» che fanno risultare in cura pazienti che in realtà sono morti o si sono trasferiti all'estero e in questo modo continuano a percepire il compenso. Per avere un'idea dell'incidenza basta calcolare che le ispezioni condotte nel 2008 e nel 2009 hanno consentito di scoprire 67.000 «fantasmi» e denunciare 347 medici che avevano percepito illegalmente 22 milioni e mezzo di euro. «La necessità di pervenire al risanamento dei conti pubblici — evidenziano gli analisti delle Fiamme Gialle — impone un'oculata attività di contenimento e razionalizzazione della spesa, accompagnata da una mirata azione di controllo finalizzata all'individuazione delle condotte negligenti o illecite che, consentendo sprechi, diseconomie o inefficienze possono rappresentare una variabile sensibile nelle funzioni di crescita delle uscite di bilancio».
Asili nido e assegni sociali
Assegno per chi ha almeno tre figli minori, assegno di maternità, asilo nido, mensa scolastica, libri, borse di studio, sconti sulle tasse universitarie e una serie di servizi di assistenza agli anziani o ai malati come le cure a domicilio: sono le agevolazioni previste per i nuclei familiari a basso reddito. Peccato che ad usufruirne siano spesso ricchi professionisti che presentano dichiarazioni poco superiori allo zero. I numeri contenuti nel dossier della Finanza forniscono il quadro della situazione. Si scopre così che «nel triennio 2007/2009 ci sono stati 41.000 interventi che hanno portato alla denuncia di 12.256 soggetti per falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche». L'esborso per lo Stato è stato di ben quattro milioni di euro. Boom di richieste anche per gli ultimi due anni con un totale di circa 9.000 persone scoperte e un danno che supera i tre milioni di euro. Il record di denunce è stato in Toscana con 683 segnalazioni alla magistratura, poi il Lazio con 567 illeciti accertati.
Truffe e raggiri sono stati scoperti in tutta Italia pure per il cosiddetto «assegno sociale» destinato a chi ha più di 65 anni e un reddito inferiore ai 6.000 euro annui. «È stato riscontrato — sottolineano i finanzieri — che molti cittadini extracomunitari hanno perfezionato la pratica di erogazione e poi sono rientrati nel Paese di origine facendo così venir meno il requisito della residenza nello Stato italiano necessario per continuare a ottenere il sostegno che, in tal modo, si tramutava in una "pensione d'oro" considerato il differente costo della vita rispetto all'Italia». Anche molti nostri connazionali hanno il sussidio: «Emigrati in Argentina che hanno fatto rientro in Italia e vi hanno soggiornato il tempo necessario a vedersi riconoscere l'assegno, poi sono nuovamente espatriati. I controlli sono appena iniziati, il risultato è sorprendente: 571 illeciti scoperti con un esborso di ben 11 milioni di euro, vuol dire un guadagno illecito che per ogni abusivo è stato di 20mila euro.

Corriere della Sera 18.12.11
La fiducia nell'esecutivo è in diminuzione Meno consensi ai partiti, indecisi al 47%
di Renato Mannheimer


Anche dopo le modifiche apportate alla manovra varata dal governo, la distribuzione delle intenzioni di voto appare sostanzialmente stabile. Il centrosinistra nel suo insieme (ammesso che, dato lo stato attuale dei rapporti tra i partiti, si possa ancora parlare di una coalizione di centrosinistra) continua ad evidenziare un vantaggio di poco meno di 10 punti sul centrodestra (ammesso, anche in questo caso, che l'espressione «centrodestra» conservi politicamente qualche significato) e il Pd supera il Pdl di circa il 3%. Ma l'insieme dei partiti che appoggiano il governo mostra una tendenza all'erosione dei consensi (come ha osservato Roberto Weber) a vantaggio delle forze di opposizione. Si tratta di una tendenza — per ora quantitativamente modesta — che riflette il diffondersi in certi settori di popolazione di un disagio e di una sfiducia.
Il governo, come si sa, ha subito dopo la presentazione della manovra un calo di consensi relativo sia alla persona di Monti (la fiducia si è abbassata di 11 punti in una settimana), sia l'esecutivo nel suo complesso (per il quale il calo è ancora maggiore e raggiunge il 18%). Buona parte di questo andamento dipende dal fatto che alla grande maggioranza degli italiani (78%) la manovra appare non equa, sia pur considerando i tempi stretti in cui la si è dovuta attuare. Ciononostante, il supporto popolare a Monti rimane ancora molto elevato e riguarda ancora la maggioranza assoluta o relativa (53% per la persona del presidente del Consiglio e 46% per il complesso del governo) degli italiani. Si tratta, considerando l'impatto così pesante della manovra economica, di valori eccezionalmente ampi, che mostrano come la gran parte dei cittadini abbia compreso la drammaticità della situazione e la necessità di un intervento veloce ed efficace. È un pò cambiata negli ultimi giorni la geografia politica del supporto al Presidente: sino a una settimana fa, l'appoggio più esteso proveniva infatti dagli elettori del centrosinistra, mentre oggi il supporto maggiore deriva dai votanti per il Terzo Polo. Ma il consenso per Monti rimane ampio tra gli elettori di tutti i partiti: perfino tra i leghisti, si registra più di un terzo (35%) di consensi. Resta però il fatto che la fiducia ha manifestato un calo significativo e, specialmente, che il clima generale mostra l'accrescersi di un diffuso pessimismo. Quest'ultimo non riguarda solo il governo, ma coinvolge l'insieme delle istituzioni del paese, sia politiche, sia economiche e sociali. L'indice complessivo di fiducia per le istituzioni, calcolato settimanalmente da Ispo, dopo essersi accresciuto in occasione della nomina del nuovo governo, tende da allora ad una costante diminuzione giorno dopo giorno.
Il clima di opinione generale è dunque caratterizzato da tratti contraddittori. Da un verso, ci si rende conto della situazione e si tende ancora in buona misura ad appoggiare il governo. Dall'altro, si fa fatica a digerire le misure imposte e, specialmente, si teme che nel futuro il quadro peggiori ancora. Anche in conseguenza di tutto ciò, accanto alla stabilità (relativa e per certi versi apparente) della distribuzione delle intenzioni di voto, si registra — ed è il fenomeno probabilmente più significativo — un sensibile accrescimento di quanti si dichiarano indecisi sul partito da scegliere alle eventuali prossime consultazioni o sono addirittura tentati dall'astensione. Nel loro insieme, costoro sono passati dal 35% registrato ad ottobre, al 47% rilevato oggi. Insomma, di fronte al contesto attuale, quasi metà degli italiani non sa che partito votare o, peggio, li boccia tutti.

Corriere della Sera 18.12.11
Veltroni «torna» e prova a insidiare il leader Bersani sulla premiership
di Maria Teresa Meli


ROMA — Raccontano che l'altro ieri sera, quando la Lega, a mò di scherno nei confronti di Bersani, ha cominciato a urlare nell'aula di Montecitorio «Veltroni, Veltroni», il segretario del Pd non abbia gradito e abbia avuto un moto di stizza.
Non è dato sapere il grado di consapevolezza che i deputati del Carroccio hanno messo nella loro malizia. Chissà se erano consci del fatto che in questo particolare periodo Bersani soffre l'improvviso attivismo dell'ex leader. Risvegliatosi da un lungo letargo Veltroni è più che mai determinato a tornare a condizionare la linea del partito. Ed è per questa ragione che con ancor maggiore slancio degli altri compagni del Pd ha sposato la linea del governo Monti. Certo, non è riuscito a raggiungere l'obiettivo massimo che si era prefisso. Ovverosia la gestione collegiale del partito. Quella è una richiesta che Bersani si guarda bene dall'esaudire. Ma intanto un primo risultato lo ha raggiunto. Come spiegava Ermete Realacci il giorno del voto della manovra: «La rottura con Di Pietro è un fatto acquisito. Pensate che poteva succedere se andavamo alle elezioni, vincevamo e dovevamo governare questa crisi economica con Idv e Sel».
Nichi Vendola che è furbo ha capito il gioco ed evita di polemizzare con il Pd per la scelta di appoggiare Monti, Di Pietro, invece, si è messo fuori da solo. E la strategia bersaniana immortalata nella foto di Vasto è ormai un sogno del passato. Rischia di diventarlo anche la candidatura del segretario alla premiership del centrosinistra. Anche su quella Veltroni sta già lavorando. E, ancora una volta, questo suo progetto dipende dal governo Monti. O meglio dalla sua durata. Se si arriva sino a fine legislatura, l'ex leader ha molte più chance di mandare in porto i suoi piani. Ma se invece si va alle elezioni anticipate Veltroni dovrà dire addio alla sua strategia. E un piccolo rischio, stando a Beppe Fioroni, c'è: «Tutti quelli che si rendono conto che se questo governo dura gli attuali equilibri politici verranno modificati e si apriranno molti nuovi giochi, potrebbero avere interesse a staccare la spina a Monti. E non parlo solo di Berlusconi, anche dalla nostra parte c'è chi potrebbe pensarla così, sbagliando perché chi stacca la spina perde le elezioni».
Ma se la legislatura va avanti, nel Pd muterà inevitabilmente il quadro. Congresso o non congresso, che per statuto dovrebbe svolgersi nell'ottobre del 2013, cioè dopo le elezioni di fine legislatura. Veltroni e i suoi, in un primo tempo avevano pensato di mettere in pista Matteo Renzi. Ma il sindaco di Firenze appare all'ex segretario un candidato difficile da far accettare al «corpaccione» del Pd, composto da ex Ds, e agli apparati. Archiviata questa ipotesi, ora Veltroni guarda con un certo interesse a Enrico Letta. Il vicesegretario ha dalla sua molte carte: è giovane, è un moderato a cui la foto di Vasto non è mai piaciuta, ed è già stato al governo. Potrebbe essere lui il candidato ideale per la premiership del centrosinistra nel segno del Pd riformista e non socialista d'antan. Insomma di quel Partito democratico che Veltroni aveva immaginato nel 2008, quando lo ha messo al mondo.

«il decreto “svuota carceri” varato venerdì dal governo è stato accolto dietro le sbarre come “un regalo del Papa”»
Corriere della Sera 18.12.11
No del Pd all'amnistia Palma chiede limiti
L'ex guardasigilli: dieci anni di pena sono troppi
di Dino Martirano


ROMA — L'«Osservatore Romano» scrive che il decreto «svuota carceri» varato venerdì dal governo è stato accolto dietro le sbarre come «un regalo del Papa». E probabilmente oggi nel carcere romano di Rebibbia — dove Benedetto XVI si recherà in visita — i carcerati ringrazieranno anche il Guardasigilli Paola Severino che però, da domani, si dovrà misurare con il Parlamento per la conversione del decreto legge. E in particolare con le polemiche sul trattenimento nelle 706 camere di sicurezza dei commissariati e delle caserme degli arrestati in flagranza di reato in attesa (massimo 48 ore) della convalida da parte del giudice.
Ora contro questa norma — che prevede il dimezzamento della custodia pre cautelare (da 96 a 48 ore) ma introduce il trattenimento degli arrestati nelle camere di sicurezza (comprese quelle della polizia municipale) — si sono già espressi i sindacati degli agenti: «Attenzione, così il personale di polizia destinato alla custodia verrà necessariamente sottratto al controllo del territorio», avverte Claudio Giardullo, segretario del Silp. E si è mosso anche l'ex sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano (Pdl), che parla di «micro celle, adatte per lo più a trattenere per qualche ora, ma inadeguate, per dimensioni e arredo, a ospitare per qualche giorno». Emanuele Fiano e Andrea Orlando del Pd, pur «ringraziando il ministro per la priorità assegnata al problema carcere», chiedono al governo un incontro per «verificare ipotesi alternative dopo un confronto con i sindacati di polizia». L'alternativa, sulla linea indicata dall'ex Guardasigilli Francesco Nitto Palma, viene individuata anche da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, negli arresti domiciliari obbligatori in attesa della convalida.
Ma sul piatto c'è anche la timida apertura del ministro sull'amnistia: «Se il Parlamento la propone certamente non mi opporrei». Tanto basta, dunque, per riaprire un dibattito che solo i radicali hanno tenuto in vita. Ma il Pd risponde negativamente: «L'amnistia sarebbe un alibi, che in breve tempo si rivelerebbe anche inutile», taglia corto Luciano Violante. Nel Pdl, invece, l'ex ministro Altero Matteoli è «favorevole affinché il Parlamento discuta e voti un'amnistia». Per l'ex ministro Palma, tuttavia, bisognerebbe chiarire qual è la portata dell'amnistia: «Fino 3-4 anni oppure fino a 10 anni come propongono i radicali? In questo caso, fuori da ogni prassi, andrebbero amnistiati reati gravissimi come la corruzione, il peculato, parte delle violenze sessuali».
Oggi davanti al Papa, come anticipato a Radio Vaticana, il ministro annuncerà che ora il governo punta su un provvedimento finalizzato al reinserimento del detenuto. E padre Federico Lombardi, portavoce della sala stampa vaticana, ha già fatto capire qual è il timore di Bendetto XVI: «Le preoccupazioni per la crisi economica non devono far dimenticare chi è ai margini della società».

il Riformista 18.12.11
Carceri: manca l’azione del Pd
di Emanuele Macaluso


C’è un tema, che attiene alla cultura politica dei gruppi dirigenti dei partiti e di chi governa le istituzioni, e che oggi è all’ordine del gior- no: le drammatiche condizioni in cui vivono i carcerati. La do- manda che mi pongo è questa: perché la sinistra è poco sensibile rispetto a una questione che attiene alla condizione umana? La destra in Italia ha una tradizione forcaiola, repressiva. La sinistra so- cialista e democratica no. Anche nel Pci, dove non mancavano posizioni repressive, c’era una forte corrente sensibile ai temi carcerari. Giancarlo Pajetta, ogni volta che qualche mem- bro della Direzione chiedeva aumenti di pena anche per reati gravi, lui che il carcere l’a- veva fatto per più di dieci anni, insorgeva e trovava consensi. Negli anni del terrorismo però
nel Pci prevalse una logica diversa e ha lasciato un segno.
L’alleanza con Di Pietro non è stata certo una cura per gli eredi confluiti nel Pds-Ds-Pd.
Non è quindi un caso che anche su questo tema siano i radicali, e particolarmente Marco Pannella, a condurre una battaglia sacrosanta. E non è un caso che il presidente della Re- pubblica abbia mostrato particolare sensibilità al tema ricevendo il leader radicale.
La richiesta di un’amnistia per svuotare in parte le carceri non è stata recepita. La destra ha sabotato e la sinistra non ha combattuto. Ora la ministra della Giustizia ha fatto alcune proposte che possono attenuare il fenomeno di cui si parla e la Lega ha attaccato con violenza il governo che «mette tasse e libera i delinquenti» (titolo del- la Padania). Il tema è rilevante per l’attenzione che viene data o non data a ciò che si verifica nelle caserme, nei tribunali e nelle carceri, dove si amministra giustizia e in- giustizia, e si misura il grado di civiltà di una società. La sinistra democratica è tale se su questi temi ha una posizione liberale in senso più alto della parola e per farla valere svolge una costante e coerente azione politica e culturale.

Corriere della Sera 18.12.11
«Rivolte arabe a rischio senza l’Occidente»
Vali Nasr: «Ci vorrebbe uno sforzo generoso di Usa e Ue come fu con l'Est europeo alla fine della Guerra fredda»
intervista di Lorenzo Cremonesi


ISTANBUL — «A un anno esatto dal suo inizio, la Primavera araba è in seria difficoltà. Non sappiamo come andrà a finire. Però soltanto in Tunisia e parzialmente in Marocco assistiamo a un'evoluzione pacifica verso la democrazia. Per il resto occorre che l'Occidente faccia del suo meglio per aiutare i movimenti di rivolta. L'Egitto è nei guai, in Libia le cose vanno male, come del resto nello Yemen e nel Bahrein. E in Siria c'è il rischio di una guerra civile sanguinosa come nell'Iraq del 2006-2007. È vero che siamo tutti comprensibilmente preoccupati dalla recessione economica e dalla crisi dell'euro. Ma senza l'aiuto fattivo di Europa e Stati Uniti, il Medio Oriente minaccia di implodere». In occasione ieri del primo anniversario dello scoppio delle manifestazioni di Sidi Bouzid, che il 14 gennaio 2011 portarono poi alla fuga verso l'esilio del presidente tunisino Ben Ali, abbiamo chiesto una valutazione allo studioso americano di origine iraniana Vali Nasr, consulente dell'amministrazione Obama per la politica estera.
Le rivolte tunisine furono seguite da quelle in Egitto e diventarono presto il modello e la speranza delle masse arabe contro dittature decennali. A che punto siamo?
«Siamo al punto che i problemi stanno mettendo sempre più in forse il processo di democratizzazione. Tre dittatori che credevamo inamovibili sono caduti. Ma gli altri rimangono e hanno imparato la lezione. Non vogliono finire come Mubarak né tanto meno come Gheddafi. Resistono con la forza. Senza un intervento straniero difficilmente potranno essere battuti. Come il Colonnello in Libia, che è stato rimosso solo grazie all'intervento muscolare e fondamentale della Nato e dopo una lunga, sanguinosissima guerra civile. In Egitto la casta dei militari si rivela più dura di quanto credessimo. Non vuole lasciare le redini del comando. Le sommosse in Siria e Bahrein sono represse nel sangue».
Dove va meglio?
«Senz'altro in Tunisia. In Giordania e Marocco le caste al governo hanno concesso importanti riforme per prevenire le rivolte violente di piazza. Ma anche qui la situazione resta fluida, instabile, potenzialmente esplosiva».
I motivi delle difficoltà?
«Direi che uno dei maggiori è stata la latitanza della comunità internazionale, in primo luogo di Europa e Stati Uniti. In questo senso la Primavera araba è stata sfortunata. È scoppiata proprio mentre l'Occidente era sempre più preoccupato per la crisi del suo sistema economico. Al tempo delle rivoluzioni democratiche nell'Est europeo, a ridosso della fine della Guerra fredda, si fece molto per integrare le nuove economie nel mercato comune. Ci fu uno sforzo generoso collettivo. La Primavera polacca fu accompagnata dagli aiuti di Parigi, Roma, Londra e Washington. Lo stesso avvenne per il Brasile e in generale per il Sudamerica. Ma non è stato così per le rivoluzioni arabe. L'Egitto è stato abbandonato a sé stesso, e così anche la Tunisia. I motivi sono più che comprensibili, ovviamente. E tuttavia non aiutano a uscire dall'impasse».
Può essere più specifico?
«L'80 per cento delle industrie egiziane sono legate all'universo militare. Da soli gli imprenditori egiziani non riescono a riconvertirsi. Hanno bisogno degli aiuti internazionali, che però non arrivano. Senza una riforma radicale della struttura economica egiziana non potrà avvenire quella della politica. Insomma non potrà crescere la democrazia».
Conseguenze?
«Si lascia spazio ai fondamentalisti islamici. I salafiti sono stati la grande sorpresa delle ultime elezioni, hanno sfiorato il 30 per cento dei voti. E ora minacciano di andare ben oltre i confini egiziani. Se in Libia il governo centrale non riuscirà rapidamente a imporre la propria autorità sulle milizie armate crescerà il terreno per l'estremismo religioso».
E in Siria?
«È il Paese che preoccupa maggiormente. Non ha il petrolio come la Libia, ma è immensamente più importante. I suoi equilibri interni influiscono direttamente sullo scenario iraniano, turco, libanese, israeliano, giordano e iracheno. C'è indubbiamente una nuova classe di giovani e di intellettuali desiderosi di libertà e cambiamento contro le vecchie oligarchie alauite legate agli Assad. Ma loro stessi restano divisi, senza programmi d'azione precisi e in comune. Le minoranze, con i cristiani in testa, temono che la caduta della dittatura li trascini nel baratro come avvenuto ai cristiani in Iraq e come rischia di succedere ai copti egiziani. Purtroppo non prevedo nulla di buono. Bashar Assad e la vecchia nomenclatura baathista non esiteranno a impiegare qualsiasi strumento pur di non andarsene. Il gioco sarà ancora più brutale, violento, crudele».

«Esistono due grandi parole che sono importantissime: “Giustizia e Libertà”
La Stampa 18.12.11
Margherita Hack Astrofisica
“I miei viaggi tra le stelle e in bicicletta”


In questi giorni sono usciti ben quattro libri di Margherita Hack: «Perché sono vegetariana» (Edizioni Altana), «La mia vita in bicicletta» (Ediciclo Editore), «Margherita Rossa» con Nicola Atalmi (Edizioni Datanews) e «Tutto comincia dalle stelle) (Sperling & Kupfer). C’è un filo rosso che lega tra loro tutti questi volumi?
«Sì, soprattutto tra i primi due. “Margherita Rossa” racconta le mie convinzioni politiche e perché sono sempre stata di sinistra. “Tutto comincia dalle stelle” è invece un viaggio immaginario nell’universo per i giovani su un’astronave che viaggia alla velocità della luce».
Che significato hanno le stelle nella sua vita?
«Io sono una fisica e mi interessa l’astrofisica e cioè il fatto che ci vuole la conoscenza di tutte le parti della fisica per capire come funzionano e di che cosa sono fatti i corpi celesti».
Perché le interessa tanto la fisica?
«C’è a chi piace la letteratura, a chi la matematica, c’è a chi piace il gelato al cioccolato e a chi quello con la panna. A me piace la fisica. Le stelle sono un bello spettacolo della natura, ma non vedo nulla di romantico in questo».
E la politica?
«La politica mi ha sempre interessata da cittadino. La politica attiva non fa invece per me».
È vero che da bambina lei è stata fascista?
«Tutti noi da bambini eravamo fascisti, c’era il mito dell’impero, si faceva il tifo per l’Italia come oggi si fa per la Nazionale di calcio. Il mio babbo era antifascista e perse anche il lavoro; la mamma invece era di sinistra».
E oggi?
«Sono sempre di sinistra, cioè mi interessa la giustizia sociale, dare un minimo di vita decente a tutti. Sinistra democratica vuol dire intervenire nella politica per sentire idee e necessità ». Le piace il governo del professor Monti?
«Mi piace più di quello di prima. È tutta gente che sa leggere, scrivere e far di conto. Essendo un governo di professori, si rendono conto dell’importanza che hanno la ricerca, la cultura e l’università».
Quanto conta lo sport che ha accompagnato tutta la sua vita?
«Ad essere sincera la mia vera passione era per lo sport e non per le stelle».
Soprattutto per la bicicletta?
«Mi piaceva lo sport agonistico, da giovane l’atletica. Allora per le donne non c’erano gare sulle due ruote, altrimenti le avrei fatte. Mi sarebbe piaciuto praticare pure la maratona».
Dunque lei è molto competitiva?
«Sì, ancora oggi. Se mi sorpassano in auto in maniera poco ortodossa parto subito in tromba».
E i suoi animali?
«Mi sono sempre piaciuti molto».
Perché ne ha così tanti in casa?
«Capitano. Uno offre del cibo ad uno di loro, e poi la voce si mette a girare. Ma ora ho solo cinque gatti e un cane».
È vero che è vegetariana da sempre?
«Lo sono dalla nascita. Lo erano i miei genitori che erano teosofi e seguivano la filosofia indiana che nutre un rispetto particolare per ogni forma di vita».
Non ha mai mangiato carne?
«Non ho nessun merito di non aver ceduto perché la carne mi fa schifo. Sono dei cadaveri, mangiano dei cadaveri. È terribile pensare alla sofferenza degli animali. Sono sicura che se si portassero i bambini a visitare i macelli passerebbe la voglia di mangiare carne».
È favorevole o contraria all’energia atomica?
«Credo sia necessaria, bisogna continuare la ricerca. Nelle centrali da fissione vengono lasciate delle scorie perché sono basate su materiali radioattivi, ma in futuro vi saranno centrali nucleari da fusione dove vi sono processi analoghi a quelli che avvengono all’interno delle stelle. Ma oggi costa di più produrre energia da fusione di quanto se ne ricavi».
Dove ci porterà la ricerca in futuro?
«Più si scopre e più c’è da scoprire. Ci sono tante forme di energia come quella della marea, ma quella lo scoprirà qualcun altro».
In questa fase della sua vita che cosa la interessa maggiormente?
«Lavorare, scrivere articoli, far capire cosa è la scienza e rispondere alle tante domande sulla scienza e la religione che mi vengono fatte».
La scienza e la religione sono conciliabili?
«Credo di sì. La scienza è basata su esperimenti. La fede è un fatto personale. C’è chi ha bisogno di credere in Dio oppure no. A me non importa nulla dell’aldilà e nemmeno di Dio che credo sia un’invenzione per spiegare il mondo. Un tempo, molti anni fa, c’erano tanti dei per spiegare tanti fenomeni diversi. Oggi che la scienza ne ha spiegati tanti c’è un solo Dio che in realtà è la metafora di un bisogno spirituale personale».
Lei ha dei bisogni spirituali?
«Esistono due grandi parole che sono importantissime: “Giustizia e Libertà”».

Corriere della Sera Salute 18.12.11
Perché i geni responsabili hanno resistito Il talento degli «Asperger» dietro i grandi progressi umani
di Danilo Di Diodoro


Dopo che per centinaia di migliaia di anni i nostri antenati avevano continuato a costruire sempre gli stessi strumenti di pietra, rudimentali raschietti e punteruoli, a un certo punto, circa centomila anni fa, un'improvvisa rivoluzione tecnologica. Gli strumenti diventano più precisi, sono costruiti con maggior cura, compaiono arpioni, archi e frecce, trappole e tagliole, che rendono possibile cacciare anche gli animali più pericolosi. Una svolta evolutiva che la professoressa inglese Penny Spikins del Department of Archaeology dell'University of York, ritiene potrebbe almeno in parte essere dovuta al contributo innovativo dato da personalità affette da disturbi dello spettro autistico, come riportato recentemente dalla rivista New Scientist.
Questi individui hanno infatti la capacità di essere molto sistematici e di applicarsi in maniera focalizzata ai loro compiti, e quindi potrebbero essere stati loro a migliorare l'ideazione e la realizzazione degli utensili. Sorprendente anche il fatto che, proprio nello stesso periodo, si assista anche a un'impennata della creatività artistica, testimoniata dal ritrovamento di collane e decorazioni in osso o di semplici strumenti musicali. Di lì a poco i nostri antenati avrebbero cominciato a dipingere figure realistiche ed espressive di uomini e animali sulle pareti delle caverne, disegni dei quali è stata rilevata l'estrema somiglianza con quelli effettuati anche oggi da persone affette da autismo. Contemporaneamente, cominciavano a svilupparsi la spiritualità e la religione e a diffondersi gli sciamani, con i loro miti, i loro stati di trance e le loro allucinazioni uditive. Probabilmente persone che oggi sarebbero diagnosticate come schizofreniche, ma che a quel tempo giocarono forse un ruolo fondamentale nel creare le prime comunità e i primi aggregati della civiltà.
Dunque è possibile che un impulso decisivo allo sviluppo sociale, creativo e tecnologico degli esseri umani sia stato dato proprio da persone portatrici di disturbi psichici appartenenti all'area dell'autismo, della schizofrenia e dei disturbi dell'umore, che sono almeno in parte trasmessi geneticamente. Questo spiegherebbe anche come mai quelle che nella società contemporanea ci appaiono persone in difficoltà e soggette allo stigma sociale, non siano state spazzate via dalla selezione naturale che in teoria dovrebbe fare piazza pulita delle varianti genetiche meno vantaggiose. Ma se sono arrivate fino a noi, queste persone devono aver avuto un ruolo sociale positivo e propulsivo per molte migliaia di anni.
«A un certo punto i nostri antenati iniziarono a sviluppare emozioni molto complesse, come la compassione, la gratitudine e l'ammirazione» dice la professoressa Spikins. Questo arricchimento culturale divenne anche uno dei passaggi fondamentali che consentì agli esseri umani di sovrastare gli altri ominidi che ancora si aggiravano sul pianeta, come l'Uomo di Neanderthal presente nell'Eurasia dell'Ovest, l'Homo erectus presente in Indonesia, l'Homo floresiensis (meglio noto come «Hobbit»).
Paradossalmente, l'elemento vincente fu forse proprio la presenza e la persistenza di geni correlati a quelli che oggi consideriamo disturbi psichici. Magari non proprio quelli più gravi, che possono essere troppo distruttivi per la socialità di un individuo; senza contare il fatto che nelle piccole popolazioni dell'umanità dei primordi il numero di portatori di disturbi psichici doveva essere talmente limitato che è difficile credere che queste persone possano aver plasmato le società nelle quali vivevano.
Forse, quindi, l'elemento vincente furono i disturbi meno gravi, ma sempre appartenenti allo spettro dei disturbi autistici. «Negli anni più recenti c'è stata una crescente attenzione verso altre condizioni autistiche, — precisa Spikins in un articolo pubblicato sul Cambridge Archaeological Journal — come la sindrome di Asperger che, da una parte crea una chiara differenza nella "mente", ma dall'altra non comporta per forza una significativa esclusione sociale».
Le persone affette da questa sindrome condividono con l'autismo vero e proprio la difficoltà a sviluppare relazioni empatiche con gli altri, tuttavia sono capaci di un normale utilizzo del linguaggio e di realizzare un'interazione sociale funzionante. Però, "pensano differentemente" e così possono imporre svolte brillanti alle scienze e alle arti. Attraverso le epoche sono molte le persone di spicco riconosciute come portatrici di queste caratteristiche, ad esempio Charles Darwin, Isaac Newton, Lewis Carrol, Vincent van Gogh e soprattutto Albert Einstein.
Quest'ultimo fu spesso considerato una persona incapace di affetti profondi, ebbe relazioni familiari difficili, perse il contatto con alcuni dei suoi figli (uno dei quali, Eduard, trascorse molti anni in ospedale psichiatrico). Però riuscì a pensare l'impensabile, a scardinare le basi della fisica del suo tempo, utilizzando come strumento di lavoro esclusivamente le sue capacità mentali e teorizzando che «l'immaginazione è più importante della conoscenza». E con la sua immaginazione creativa, attraverso esperimenti condotti esclusivamente nella sua mente, nel 1905 arrivò a una serie di idee e modelli rivoluzionari, come il concetto di relatività del tempo e dello spazio, ognuno dei quali avrebbe da solo meritato un premio Nobel (che in effetti gli fu assegnato nel 1922 per l'effetto fotoelettrico) e che per molti decenni rimasero incomprensibili alla stragrande maggioranza dei suoi contemporanei.

Corriere della Sera Salute 18.12.11
In Olanda, alla ricerca dello strano legame fra la sindrome e l'informatica


S embra esistere uno strano legame tra l'autismo (e altri disturbi appartenenti alla stessa categoria ma meno gravi, come la sindrome di Asperger) e le capacità matematiche, l'interesse per l'informatica, l'ingegneria e la fisica. Una ricerca pubblicata sul Journal of Autism and Developmental Disorders ha dimostrato che nella città di Eindhoven, in Olanda, dove esiste una particolare concentrazione di industrie di It (Information Technology), si riscontra un numero molto più elevato di ragazzi ai quali è stato diagnosticato un disturbo di tipo autistico. La ricerca è stata realizzata da Martine Roelfsema e da un gruppo di studiosi che fanno riferimento all'Autism Research Centre dell'University of Cambridge e ha dimostrato che a Eindhoven ci sono 229 casi di autismo ogni 10 mila ragazzi in età scolare, rispetto agli 84 di Haarlem e ai 57 di Utrecht (sempre in Olanda).
Secondo i ricercatori inglesi, il tratto psicologico comune tra l'autismo e queste discipline sarebbe l'interesse per la «sistematizzazione», una spinta verso il voler analizzare come lavorano i sistemi e tentare di riuscire a costruirli e a predirne e controllare il funzionamento.
Il tutto associato a una grande attenzione nei confronti dei dettagli. Studi precedenti avevano già dimostrato che, tra i padri e i nonni di ragazzi affetti da autismo, gli ingegneri sono molto più frequenti che tra padri e nonni degli altri ragazzi.
Naturalmente è possibile che l'alto numero di ragazzi autistici di Eindhoven possa dipendere da fattori diversi. Quindi potrebbe non essere la conseguenza del concentrarsi proprio lì di famiglie attratte dalla presenza di industrie tecnologiche, in quanto portatrici di geni correlati all'autismo e perciò portate alla sistematizzazione.
Gli stessi ricercatori prospettano ipotesi diverse, come la possibilità che nei servizi sanitari di Eindhoven si faccia una sovradiagnosi dei casi correlati all'autismo. Tuttavia, l'ipotesi dell'esistenza
di un legame profondo tra autismo e talento matematico/informatico resta, tanto che ora i ricercatori dell'Università di Cambridge stanno progettando nuovi studi finalizzati a chiarire ulteriormente questo legame.

Repubblica 18.12.11
"Niente Facebook per le mie figlie" Il bando di Obama divide la rete
Social network vietato a Sasha e Malia: "Questione di privacy"
"Perché dovremmo far sapere che cosa facciamo a tanta gente che non conosciamo?"
di Angelo Aquaro


Su Facebook ha 24milioni di "amici": ma Barack Obama non permette alle figlie di accedere al social forum. L´ultima confessione dalla Casa Bianca fa sobbalzare gli internauti di mezzo mondo. Anche perché il presidente ha usato proprio la sua pagina Facebook per presentare l´altro giorno "il nuovo ritratto della famiglia Obama!", scritto con tanto di punto esclamativo.
Possibile? Per la verità soltanto Malia, che ha compiuto 13 anni, potrebbe per legge aprire una pagina tutta sua. Ma Barack e Michelle confessano che la ragazzina è in altre cose affacendata: il presidente - dice la moglie - «l´ha spinta a leggere un po´ di classici», "Furore" e "Tenera è la notte", belle letture, Steinbeck e Fitzgerald. E Sasha neppure a parlarne: a 10 anni sarebbe troppo piccola. Ma il bando fa comunque sorridere. Proprio per l´utilizzo dei nuovi media, prima in campagna elettorale e anche ora alla Casa Bianca, che ha pure la sua brava pagina Facebook, Obama è stato ribattezzato «il primo presidente social media». E i legami col FacciaLibro di Palo Alto sono più che solidi.
Chris Hugh, uno dei quattro cofondatori, è il ragazzo che per il candidato Barack costruì quella macchina da guerra che portò alla mobilitazione pro-Obama su Internet. Per non parlare ovviamente dello stesso Mark Zuckerberg con cui il presidente s´è trattenuto anche a cena durante uno dei suoi blitz nella Silicon Valley. A ragione. L´altro giorno Forbes l´ha inserito al settimo posto nella sua classifica dei potenti del mondo - dove primeggia naturalmente il presidente degli Stati Uniti. La motivazione per cui il 27enne inventore di Facebook è balzato in soli 12 mesi dalla 40esima posizione alla top ten? «Quello che la Cia non è riuscita a fare in 60 anni Mark Zuckerberg è riuscito a farlo in 7: sapere che cosa pensano, leggono e ascoltano 800 miloni di persone». E già. Proprio la questione-privacy sarebbe all´origine del bando di famiglia: «Perché dovremmo far sapere che cosa facciamo a un mucchio di gente che non conosciamo?». Eccola la frase incriminata. Eccola la scomunica presidenziale. Senza possibilità di riscatto?
La verità come sempre sta in mezzo. La frase incriminata è rimbalzata dal settimanale americano People ai tabloid inglesi. Dove però - Daily Mail in testa - quegli spettegoloni di Londra si sono guardati bene dal sottolineare che Obama stava parlando per conto delle figlie. Spiegava cioè il loro pensiero: non propriamente il suo. Questo il passaggio dell´intervista. Domanda: «Permette alle sue figlie di andare su Facebook?». Risposta. «No». E qui ci sono pochi dubbi. Poi il presidente aggiunge. «La loro teoria è: "Perché dovremmo far sapere che cosa facciamo a un mucchio di gente che non conosciamo?"». La loro teoria, appunto. Mica Barack in principio è contrario. Anzi aggiunge lui stesso: «Vedremo come si sentono tra quattro anni». Come dire: quanto potrà durare?
Per adesso comunque il bando regge. Anche perché a leggere dietro le righe la bacchettona di casa sarebbe mamma Michelle. Domanda: che cosa guardate in tv? Mamma Obama: «Io e le ragazze Modern Family: è il nostro show preferito». E quell´impenitente di Barack: «Io vado un po´ più sul noir: Boardwalk Empire e Homeland». Cioè il telefilm sulla mafia con Steve Buscemi e lo psychothriller più visto d´America: roba che Facebook, alle ragazze, farebbe molta meno paura.

Repubblica 18.12.11
L’altro Natale
Gentilezza e speranze, perché anche gli atei hanno bisogno di godersi la festa
C´è un senso di comunità che ci serve e insieme ci consola È questo che molti riti ci fanno ritrovare
di Alain De Botton


Il Natale è per forza di cose un periodo alquanto complicato per gli atei. Si può guastare l´atmosfera e a un certo punto dichiarare esplicitamente, tra il tacchino e lo sformato, che questa festività si basa interamente sulla dabbenaggine e – qualora uno si senta particolarmente pungente – sulla spudorata ottusità dei propri antenati? Oppure ci si limita a riempire le calze di Natale cantando Lontano in una mangiatoia, lasciandosi andare per l´occasione alla cordialità?
Da questo punto di vista non sono stato educato al compromesso. Sono cresciuto in una famiglia di atei convinti, allevato da un padre che faceva sembrare Richard Dawkins un ateo di mentalità aperta in relazione alla possibilità che esista un´entità suprema. Ricordo che ridusse in lacrime mia sorella nel tentativo di estirpare da lei l´idea - neanche ben radicata - che da qualche parte nell´universo si potesse nascondere un dio solitario. All´epoca aveva otto anni. Se i miei genitori si accorgevano che qualcuno nella cerchia delle loro amicizie nutriva in segreto un sentimento religioso, iniziavano a trattarlo con quel genere di compatimento riservato di solito a colui al quale è stata appena diagnosticata una malattia degenerativa, e da quel momento in poi era impossibile che si convincessero a ricominciare a prenderli sul serio.
Natale era un tipico banco di prova di tale coerenza. Al suo approssimarsi, i miei genitori innestavano l´overdrive e ponevano particolar enfasi nel sottolineare quanto assurdi fossero i rituali, l´arte, le canzoni e le tradizioni del Natale. I miei non si spingevano al punto di essere così senza cuore da negare a noi figli qualche regalo, ma giusto per sottolineare la loro posizione insistevano per farceli a metà agosto. Questo non era un problema. Anzi, era qualcosa di speciale, addirittura superiore. Ho trascorso tutta l´infanzia a rammaricarmi per coloro che erano così volgari da mettersi in casa un albero di Natale e appendere calendari dell´avvento. Possibile che non capissero?
Poi, intorno ai venticinque anni, attraversai un periodo di crisi del mio ateismo. Tutto ebbe inizio rivalutando il Natale e poco alla volta si estese alla religione nel suo complesso. Avvertii una prima sensazione di dubbio l´anno in cui fui invitato a trascorrere il Natale a casa di un amico cristiano che, evidentemente, aveva provato compassione nei miei confronti: a quel tempo ero single, ancora alla deriva dal punto di vista professionale e ovviamente ero solo. Quando manifestò l´idea che forse mi sarebbe piaciuto mettere alla prova i miei pregiudizi e prendere parte al pranzo di Natale a casa sua (promettendo scherzosamente che non sarebbero stati fatti tentativi per salvare la mia anima, se non altro fino al termine della portata principale), non feci nemmeno finta di opporre resistenza. Inutile dire che quell´occasione mi aprì gli occhi come non mai. Anche solo prendendo un cracker mi sembrò di prendere parte a qualcosa di tabù. C´erano cordialità, allegria, musica, e anche momenti di raccoglimento spirituale che non mi parvero più così tanto avulsi o stupidi. Mentre il pranzo si prolungava e sfociava in un indolente pomeriggio, iniziai a prendere atto di tutta l´entità della mia ambivalenza per ciò che riguardava i principi dottrinari che mi erano stati inculcati durante l´infanzia.
Non ho mai vacillato nella mia certezza che Dio non esiste. Mi sono semplicemente sentito libero di accogliere l´idea che potesse esistere un modo di avvicinarsi alla religione senza essere con ciò costretti ad accettarne anche il contenuto sovrannaturale. Mi sono reso conto che la mia tenace opposizione alle teorie sull´aldilà o sugli abitanti dei cieli non era una giustificazione sufficiente per rinunciare anche al Natale, alla musica, agli edifici, alle preghiere, ai rituali, alle celebrazioni, ai santuari, ai pellegrinaggi, ai pranzi in comunione e ai manoscritti miniati di tutte le confessioni religiose.
Per un ateo fare conoscenza col Natale significa quasi certamente infastidire i sostenitori di entrambi gli schieramenti del dibattito. I cristiani potrebbero risentirsi del fatto che una delle loro celebrazioni più sacre sia oggetto di una considerazione distaccata, selettiva e asistematica e potrebbero protestare affermando che le religioni non sono buffet dai quali si può spiluccare soltanto alcune cose a proprio piacere. Tuttavia, il rovescio della medaglia di molte religioni è l´irragionevole insistenza con la quale si vorrebbe che i loro fedeli mangiassero proprio tutto ciò che c´è nel piatto. Per quale motivo non dovrebbe essere possibile apprezzare la raffigurazione della modestia nei ritratti di Maria e Giuseppe a Betlemme e ciò nonostante tenersi alla larga dal dogma dell´annunciazione? Per quale motivo non dovrebbe essere possibile ammirare l´enfasi che il Cristianesimo dà alla compassione e al contempo sottrarsi alle sue teorie sull´aldilà? Per chi è sprovvisto di principi religiosi, immergersi in alcuni aspetti della fede potrebbe non essere un delitto, proprio come non lo è per un appassionato di letteratura scegliere un gruppo ristretto di scrittori preferiti dal corpus ufficiale di tutte le opere.
A Natale, senza alcuna ingenuità (senza dimenticare l´Inquisizione, le Crociate e i molti preti molto corrotti) dovrebbe essere possibile sentirsi svincolati dagli aspetti più dogmatici delle religioni per lasciarsi nutrire da quegli altri loro aspetti che continuano a essere di conforto per le scettiche menti dei contemporanei che affrontano le crisi e le sofferenze di un´esistenza mortale su un pianeta pieno di problemi. E dovrebbe essere possibile salvare parte di ciò che è bello, emozionante e profondo da tutto ciò che non sembra più vero.
Per un ateo una delle funzioni più interessanti che assolve il Natale è il fatto di alimentare uno spirito di comunione. Viviamo in un mondo affollato e tuttavia pieno di solitudine. Gli spazi pubblici nei quali di norma incontriamo il prossimo – i treni dei pendolari, i marciapiedi gremiti, gli atri degli aeroporti – cospirano nel proiettare un´immagine avvilente delle nostre singole identità, un´immagine che compromette la nostra capacità di restare aggrappati all´idea che ogni persona è ineluttabilmente il centro di un´individualità complessa e preziosa. Può essere difficile continuare ad avere fiducia nella natura umana dopo una passeggiata in Oxford Street: barricati come siamo ciascuno nel proprio bozzolo, ci affidiamo soprattutto ai media per farci un´idea di come è il nostro prossimo, e di conseguenza ci aspettiamo istintivamente che tutti gli estranei siano assassini, truffatori e pedofili. Per quanto introversi siamo diventati, non abbiamo ovviamente rinunciato a ogni speranza di allacciare dei rapporti. Nei labirinti deserti delle città moderne, non esiste emozione maggiormente onorata dell´amore. Tuttavia, non si tratta dell´amore di cui parlano le religioni, non si tratta di quell´espansiva e universale fraternità tra gli esseri umani, bensì di una varietà più guardinga, più circoscritta, e in definitiva più nociva. È l´amore romantico a farci partire nella nostra maniacale ricerca di quell´unica persona con la quale speriamo di instaurare e raggiungere una comunione completa che duri tutta la vita, quella persona particolare che ci risparmi la necessità di aver bisogno della gente in generale.
I rituali natalizi riflettono una profonda comprensione della nostra solitudine. Anche se crediamo pochissimo in quello che ci dicono sull´aldilà o sull´origine sovrannaturale delle loro dottrine, nondimeno possiamo ammirare il fatto che essi comprendono che cosa ci tiene lontani dagli estranei, e possiamo ammirare i tentativi che fanno di eliminare uno o due dei pregiudizi che di norma ci precludono di allacciare rapporti con il prossimo.
Una celebrazione natalizia o una messa non è – è ovvio – l´habitat ideale per un ateo: buona parte di ciò che si dice è un´offesa alla ragione o, semplicemente, è incomprensibile; la funzione dura a lungo e di rado argina la tentazione naturale di abbandonarsi al sonno. Nondimeno, la cerimonia è piena di suggestivi elementi che in maniera impercettibile rafforzano i vincoli d´affetto tra i partecipanti, e gli atei farebbero bene ad analizzarla e in qualche circostanza, forse, anche a prendervi parte.
La chiesa contribuisce con il suo immenso prestigio, andato crescendo nei secoli, con il suo sapere e la sua grandeur architettonica al nostro timido desiderio di aprirci a qualcun altro. La composizione di una tipica congregazione di fedeli è significativa: chi partecipa alla funzione tende a non essere della stessa età, razza, professione, livello di istruzione o di reddito. Si tratta di una sorta di campionario casuale di anime unite soltanto dal comune attaccamento ad alcuni valori. Una funzione o una messa spezzano in maniera attiva i sottogruppi economici o di status sociale nell´ambito dei quali di norma viviamo, e ci proiettano in un oceano molto più vasto di umanità. Siamo indotti a superare il nostro provincialismo e la nostra tendenza a giudicare e addirittura a scambiare un segno di pace con chiunque si sia seduto per puro caso al nostro fianco.
In quest´epoca di laicità, spesso diamo per scontato che l´amore per la famiglia e il senso di comunità debbano essere sinonimi. Quando i politici moderni parlano del loro desiderio di migliorare la società, osannano la famiglia come simbolo per eccellenza della comunità. Da questo punto di vista il Cristianesimo è più saggio e meno sentimentale, in quanto riconosce che un attaccamento alla famiglia può di fatto limitare la cerchia dei nostri affetti, distogliendoci dalla sfida più importante che è quella di allacciare rapporti con tutto il genere umano, imparare ad amare il prossimo come i propri parenti.
Non è un caso che il cibo e il suo consumo in comune siano così onnipresenti a Natale. Sedersi a tavola con un gruppo di persone, in parte sconosciute, offre il vantaggio incomparabile e stravagante di rendere un po´ più difficile la possibilità di detestarle impunemente. Il pregiudizio e l´ostilità etnica si nutrono di astrazione. Tuttavia, la contiguità che un lungo pasto richiede – e qualcosa d´altro che ha a che vedere col passarsi i piatti o con lo srotolare i tovaglioli in uno stesso momento – interrompe la nostra capacità di restare aggrappati all´odio. Malgrado tutte le soluzioni politiche su larga scala proposte per salvarci da tale ostilità, ci sono poche modalità più efficaci per promuovere la tolleranza tra sospettosi vicini di casa o diffidenti membri di famiglia che costringerli a consumare un pasto insieme.
Le religioni sono consapevoli che i momenti vicini all´ingestione di cibo si prestano in modo propizio all´educazione morale. È come se l´imminente prospettiva di qualcosa da mangiare seducesse il nostro "io" che di norma oppone resistenza, e lo inducesse a dimostrare di avere parte in quella medesima generosità nei confronti degli altri che lo stare a tavola ci ha dimostrato. Le religioni ne sanno abbastanza anche delle nostre dimensioni sensoriali non intellettuali, al punto da essere consapevoli che non possiamo essere tenuti in un circolo virtuoso soltanto per mezzo delle parole. Sanno che a un pranzo avranno un pubblico, per così dire prigioniero, che verosimilmente accetterà di compensare idee e nutrimento – trasformando così di fatto i pasti in dissimulate lezioni di morale. Ci fermano poco prima del nostro primo sorso di vino e ci offrono un pensiero che può essere ingerito con il liquido come una pasticca. Ci fanno ascoltare un´omelia nell´intervallo appagato tra due portate.
Le idee di fondo del Natale sono in definitiva piuttosto semplici: hanno a che vedere con la gentilezza, la speranza, il perdono. La vera difficoltà in rapporto a queste idee non è che esse paiano sorprendenti o particolari, ma che possano apparire fin troppo ovvie: la loro stessa ragionevolezza e ubiquità le spoglia del loro potere. Il compito delle religioni è stato quello di trovare nuovi modi per aprirci a forza gli occhi nei confronti di idee familiari in modo quasi tedioso e tuttavia di importanza cruciale. La storia della musica cristiana, per esempio, comprende una successione di attacchi alle grandi e vecchie verità sferrati da geni che cercarono di far sì che gli ascoltatori rimanessero una volta di più incantati e fossero esortati dall´umiltà della Vergine, dalla fedeltà di Giuseppe o dal coraggio di Gesù a fare ammenda interiore.
Spesso, in alcuni rituali come il canto o il pasto in comune il mondo laico vede una perdita della diversità, della qualità e della spontaneità. La religione appare autoritaria. Eppure, nella sua versione migliore questa autorità basata sui rituali consente ad alcuni aspetti della vita, fragili per quanto importanti, di essere più facilmente individuati e condivisi in modo più sicuro. Quanti tra noi non hanno principi religiosi o sovrannaturali nondimeno hanno bisogno di incontri regolari e ritualizzati con concetti quali amicizia, comunità, gratitudine e trascendenza. Non possiamo confidare di poterci fare strada in queste tematiche per conto nostro. Abbiamo bisogno di istituzioni che possano scavare, raccogliere e plasmare idee preziose per noi, ricordandoci che ne abbiamo bisogno, presentandocele in bei pacchetti ben confezionati, e garantendo di conseguenza il nutrimento di quella parte di noi di cui siamo maggiormente immemori.
Prima di girare le spalle a tutti gli aspetti della religione, dovremmo stare attenti a occuparci dei bisogni che esse hanno soddisfatto con successo. Molte delle soluzioni ai mali della Terra proposte dalle religioni si prestano a essere spogliate della struttura sovrannaturale dalla quale emersero in prima istanza, e tuttora mantengono valore e interesse. La saggezza delle religioni appartiene a tutta l´umanità, anche ai più razionali tra noi, e merita dunque che i più grandi avversari del sovrannaturale se ne riapproprino in modo selettivo durante tutto l´anno liturgico. Le religioni sono, seppur in modo intermittente, troppo utili, efficienti e intelligenti per essere lasciate soltanto a chi ha fede.
(Traduzione di Anna Bissanti)
L´ultimo libro di è Del buon uso della religione, pubblicato in Italia dalla casa editrice Guanda

Repubblica 18.12.11
Una certa idea di mondo
“Il medico di corte ci fa capire la forza utopica e la follia visionaria delle idee illuministe"
di Alessandro Baricco


Accadde tutto realmente, nel piccolo regno di Danimarca, nella seconda metà del Settecento. C´era questo re, Cristiano VII, che con ogni evidenza era poco più di un ragazzo demente, inadatto a svolgere con la necessaria linearità le più semplici funzioni della sovranità. Cercarono un medico, allora, per provare a limitare i danni con una qualche cura. Trovarono un tedesco: si chiamava Friedrich Struensee. Era brillante, abile e cresciuto nel verbo dell´Illuminismo. Prese per mano il re, convinto che pazzia fosse un nome troppo riassuntivo per definire quello che poteva succedere nel cervello di un uomo, e sicuramente di quell´uomo. Lo riportò a galleggiare passabilmente sulla superficie delle cose e si guadagnò la sua più completa fiducia. Non ci mise molto a diventare l´amante della regina, la persona più influente del regno e l´uomo che impresse alla Danimarca la più fulminea e incredibile delle rivoluzioni illuministe che la Storia ricordi. Morì, decapitato, un paio di anni dopo, giudicato colpevole di Lesa Maestà.
Fin qui i fatti. Bisogna poi saperli raccontare, se quello che vuoi farne è un romanzo.
Per Olov Enquist è un narratore squisito, e in quel particolare artigianato (distillare dalla Storia delle storie) è, per quel che ne capisco io, uno dei migliori. Ha oggi 77 anni, è noto per il suo impegno politico, è svedese. Non ci sarebbe da stupirsi se ce lo ritrovassimo premio Nobel, prima o poi. Ma a parte questo: scrive limpido, con architetture nitide e mai banali, una misura incantevole e dei cambi di velocità da ragazzino. Di rado forza le cose, e spesso sembra giusto accompagnarle, come pochi scrittori sanno fare. Ha un timbro di voce di cui non ho mai veramente scoperto il segreto: credo che parta da una specie di freddezza da referto medico e poi la scaldi al fuoco lento della sua personale meraviglia. Il risultato è strano: è come sentire un notaio che legge un testamento, ma il testamento è il suo, e allora la voce è più calda, e ogni parola piena di cose, e il tutto così irripetibile – ordinato ma irripetibile. Una cosa, in particolare, gli devo riconoscere, con invidia: ha un modo sconcertante di prenderti, ovunque tu sia, e di posarti in mezzo alle storie che racconta: lo sanno fare in molti, ma lui lo fa con un gesto mite, da artigiano modesto, che ti prende di sorpresa. Ti ritrovi lì in mezzo, ma maledettamente in mezzo, e neanche ti accorgi che qualcuno ti aveva preso in mano e ti aveva posato su quella scacchiera di cui nulla sapevi. Lasci che lui giochi, allora, ed è, per lo più, un piacere.
Il medico di corte è probabilmente il libro che gli è meglio riuscito, ma non è solo per questo che l´ho amato così tanto da parlarne oggi. L´ho amato anche perché custodisce una fantastica lezione sull´Illuminismo (e dunque, se posso avanzare un consiglio accessorio, un´ideale integrazione alla lettura del libro di Berlin sul Romanticismo). Forse non avevo mai capito veramente la forza utopica e la follia visionaria delle idee illuministe fino a quando Enquist non mi ha raccontato la fulminea rivoluzione danese di Struensee: fino a quando lui non mi ha fatto vedere da così vicino la realtà di un paese rivoltato come un calzino, in pochi mesi, sotto la scossa elettrica di folli ideali di libertà, di razionalità, di naturalità. Uno spettacolo sublime e grottesco. Una specie di Sessantotto in porcellana. Non si ha idea di come d´improvviso, centinaia di pagine lette e capite, mi siano tornate addosso, vive però, adesso, e perfino un po´ roventi. Una lezione, dico.
Poi, dato che in ogni bel libro c´è una pagina, o anche solo tre righe, che ci restano appiccicate per sempre, una scena ce l´ho, del Medico di corte, che avrò già raccontato cento volte, e figurati se qui non lo faccio un´altra volta. E´ giusto uno scambio telegrafico di battute, ma alle volte è da questi particolari che si giudica un narratore. E´ una scena tra Struensee e la regina. (Si chiamava Carolina Matilde, aveva vent´anni, era inglese, e all´apparenza aveva il fascino e il carattere di una melanzana. Ma solo all´apparenza.) All´inizio i due si detestano. Poi qualcosa succede. Struensee, tra le sue passioni, aveva l´andare a cavallo, e la regina a un certo punto, dismettendo la propria alterigia, gli concede il privilegio di insegnarle a cavalcare. Scelgono per lei un cavallo mite, e nella bellezza senza condizioni del parco di Bernstorff, Struensee la prende per mano e accetta di insegnarle. Era un uomo che sarebbe riuscito a trasformare in sedici mesi una monarchia oscurantista in un paradiso di libertà, uguaglianza e innocente follia. Sapeva scegliere le parole, e riassumere il mondo.
Prima regola, prudenza – disse.
E la seconda? – chiese lei.
Audacia – rispose Struensee.
Finito. L´ho detto, è giusto uno scambio di battute. Ma adesso che è vostro, applicatelo a cose meno inattuali dell´equitazione, e, giuro, vi tornerà incredibilmente utile.

il Riformista Ragioni 18.12.11
Ventennale /1
Il partito comunista e l’Unione sovietica: due crolli, non uno
di Gianni Cervetti

nelle edicole

il Riformista Ragioni 18.12.11
Ventennale /2
Il partito comunista e l’Unione sovietica: due crolli, non uno
di Paolo Franchi e Lucio Caracciolo

nelle edicole

il Riformista Ragioni 18.12.11
Libertà
di Mario Ricciardi

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