martedì 20 dicembre 2011

l’Unità 20.12.11
C’è del metodo nella follia di Casseri
Il killer xenofobo non era un soggetto isolato: frequentava CasaPound e soprattutto godeva della stima di autorevoli intellettuali della destra italiana Come Gianfranco de Turris, giornalista Rai, estimatore dei libri dell’omicida
di Roberto Arduini


Si fa un gran parlare in rete e fuori delle coperture politiche e culturali che hanno portato alla tragedia di martedì a Firenze, quando il folle Gianluca Casseri ha ucciso a colpi di arma da fuoco due ambulanti senegalesi, ferendone gravemente altri tre prima di suicidarsi. Ma il killer xenofobo non era un soggetto isolato. Frequentava CasaPound e soprattutto godeva della stima di autorevoli intellettuali della destra italiana. Su cui ora in molti puntano l’attenzione: sul forum del collettivo di scrittori Wu Ming, sui blog dedicati alla letteratura fantastica e ieri sera a L’Infedele di Gad Lerner, sono emersi i legami stretti che legavano Casseri a Gianfranco de Turris, vicecaporedattore dei servizi culturali al Giornale Radio della Rai, andato in pensione nel febbraio del 2009, in quota a Alleanza Nazionale e poi al Pdl. In sua difesa è sceso in campo Gianluca Iannone, presidente di CasaPound Italia, mentre si sta stilando un’interrogazione alla commissione di Vigilanza Rai.
«Casseri e de Turris avrebbero partecipato a comuni iniziative con tanto di filmati», scrivono il portavoce di Articolo21 Giuseppe Giulietti e il senatore Pd Vincenzo Vita: «Non ci interessano gli aspetti giudiziari, ma la Rai ha nulla da dire? I fatti a quando risalgono? Il de Turris in questione è forse lo stesso che continua a curare una rubrica su Radiouno Rai ogni domenica sera?».
L’azienda si è vista costretta ad ammettere che il giornalista ora conduce il programma L’Argonauta assicurando subito che «valuterà la sua posizione».
LE PREFAZIONI
De Turris ha firmato ben due prefazioni encomiastiche ai libri di Casseri. L’ultimo, I Protocolli del Savio di Alessandria, pubblicato a maggio per l’editore Solfanelli, è un’invettiva contro Il cimitero di Praga di Umberto Eco e conferma l’esistenza del complotto pluto-giudaico sul mondo. Nella prefazione, de Turris loda Casseri e spiega (come già fece il suo maestro Evola) che i Protocolli dei Savi di Sion, pur essendo un documento falsificato, nondimeno dicono cose vere.
I saggi di Casseri su Lovecraft sono sempre stati annunciati sui siti web più noti nell’ambito del fantastico italiano, così come il romanzo scritto con Enrico Rulli, La Chiave del Caos, sempre con prefazione di de Turris e definito bonariamente un «romanzo esoterico». De Turris è fondatore e segretario della Fondazione «Julius Evola», dedicata al «pensatore» d'estrema destra, con trascorsi fascisti e nazisti, teorico della gerarchia tra le razze. Quel che ha compiuto Casseri non è in alcun modo un «atto di follia», ma una coerente messa in pratica di queste idee.
Ma non è solo la Rai a essere investita dalle polemiche. Di scrittori come J.R.R. Tolkien e H.P. Lovecraft la destra si è appropriata a lungo, impropriamente. Ed è proprio la casa editrice che pubblica le opere di Tolkien in Italia a esser chiamata in causa. Grazie a de Turris, Casseri ha partecipato ad Albero di Tolkien (Bompiani, 2007), raccolta di saggi che raduna il gotha della pseudo-tolkienologia di estrema destra. Il testo di Casseri in dodicesimo cerca di usare la tecnica dell’«adattabilità» dell’opera di Tolkien, più volte utilizzata da de Turris. Così, anche quando si parla di letteratura, mito o si raccontano di mondi fantastici, viene trasmessa una cultura reazionaria. La lettura evoliana di Tolkien chiama in causa il suo cattolicesimo per rivendicare l’essere «di destra», come accade nella Postfazione a La Leggenda di Sigurd e Gudrùn (Bompiani, p. 436).
La mera strumentalità di quest’assunzione trova conferma anche nella poca accortezza con cui viene trattato l’argomento, a volte con affermazioni ridicolmente false. Come quando de Turris scrive che Tolkien avrebbe convertito l’amico C.S. Lewis, che da protestante si fece cattolico (in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, p. 213).
L’esempio più eclatante dell’insipienza della casa editrice rispetto all’autore del Signore degli Anelli è però la recente pubblicazione del Maestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher. Il volume è del 1972, cinque anni prima della pubblicazione del Silmarillion e soprattutto molto prima della pubblicazione dei 12 volumi della History of Middle-earth. De Turris nell’introduzione dimentica proprio questa prospettiva storica, liquidando in poche parole i 40 anni che lo separano da noi e ignorando completamente quanto è stato pubblicato in questi anni anche in Italia.
I limiti di de Turris come critico tolkieniano sono poi confermati dal testo, come la nota 21 (p. 64), in cui confonde il capo dei Nazgul col Negromante, oppure la nota 98 (p. 334) in cui pone nella Seconda Era (e non nella Prima), l’incontro tra Túrin e Mim. Ma la più clamorosa è la nota 60 (p. 244) in cui, parlando di Minas Tirith, de Turris spiega, travisando il testo, che la Montagna Bianca sarebbe il Taniquetil di Valinor, un po’ come mettere l’Everest sulle Ande. Viene da pensare che la sua conoscenza della critica tolkieniana si limiti alla Biografia di Michael White (p. 41), opera ben più scarsa di quella ufficiale di Carpenter. Ma si cita sempre l’introduzione al Signore degli Anelli di Elémire Zolla, scritta dall’intellettuale di destra nel lontano 1969 e smentita, nel medesimo libro, dalla Prefazione scritta da Tolkien stesso. Perché preoccuparsi di tutto questo? Tanto Tolkien vende lo stesso...

il Fatto 20.12.11
“Questa Italia è la nuova terra straniera”
Gino Strada lancia S.O.S. Emergency “Più impegno sul fronte interno”
di Stefano Citati


Gino Strada, la campagna “S. O.S. Emergency” per la raccolta fondi si concentra molto sul-l’Italia. Il nostro paese è una delle nuove frontiere del disagio dove sempre più persone hanno bisogno di aiuto?
A me sembra che l’Italia sia sempre più terra straniera, un luogo in qualche modo alieno, non solo per le necessità degli stranieri, ma anche di molti cittadini italiani. Da anni mi sono reso conto che i bisogni non sono solo oltre frontiera, in altri paesi, dove noi siamo presenti da tempo, ma sempre più qui, in patria. Per questo abbiamo aperto il poliambulatorio a Palermo per i migranti, dove curiamo, in modo del tutto gratuito, persone che vengono da oltre 70 paesi. E poi a Marghera, nato con lo stesso obiettivo e dove, con il passare del tempo, ci siamo accorti che che la presenza degli italiani è salita oltre il 20% del totale: nuovi poveri, scesi sotto la soglia della miseria. E poi gli ambulatori mobili, che seguono i braccianti nei loro massacranti lavori stagionali.
La sanità italiana è sempre più malata, e questo si riflette sulla vita di tutti. La via della guarigione passa sempre più attraverso soluzioni economiche. C’è un’altra via?
Non mi pare che ci sia bisogno di gran consulto di economisti, bastano quattro amici al bar per dare formule economiche. Ma bisognerebbe ribaltare la questione: non è quanti risparmi si possono fare sulla sanità, ma quante e quali sono le necessità e recuperare i fondi altrove. Perché non tagliare i soldi per la guerra? Nessuno lo ha mai veramente fatto, nemmeno questo governo mi pare, almeno per ora. Perché noi i costi delle
guerre in questa situazione proprio non ce le possiamo permettere, ed è un esercizio che pare si faccia solo per susseguio alla potenza a stelle e strisce. E l’altro problema è smetterla con la bestemmia che bisogna trasformare gli ospedali in aziende. Faccio un esempio: scommetto che se il ministero della Sanità o chi per lui potesse darci in gestione San Raffaele decidendo quale è il budget adeguato, saremmo in grado di curare tutti gratuitamente, senza far pagare alcun ticket, tenendo i conti a posto. E questo perché la differenza la fa il profitto del privato, mentalità e sistema che si è infiltrata nelle strutture pubbliche. Facciamo il caso dell’intervento di sostituzione mitralica che è sovvenzionato dal servizio pubblico con 25mila euro ma il cui costo di base è di 2.000. O le pulizie, appaltate all’esterno, mentre l’igiene di un ospedale non può essere considerato una possibilità di lucro. Negli ultimi decenni l’idea di servizio pubblico si è sgretolata a tappe successive, anche per via della casta medica: l’arrivo della libera professione all’interno degli ospedali, l’aziendalizzazione, l’esternalizzazione dei servizi; la quantità al posto della qualità. Pubblico e privato devono poter rimanere separati, e le case di cura camminare con le proprie gambe. È un discorso che vale anche per un altro pilastro della nostra repubblica: l’istruzione.
Per questo chiederete ai vostri sostenitori uno sforzo per impegnarsi anche in Italia. Ma i fondi mancano perché si riduce il numero dei donatori o la quantità di denaro che arriva?
Il numero di donatori di Emergency è per fortuna in costante aumento, ma essendo in gran parte normali cittadini, hanno meno soldi, e il flusso generale si è ridotto. Chiediamo 5 milioni di euro, per continuare i nostri 47 progetti con i quali siamo presenti in 7 paesi, e per aprire 5 nuovi ambulatori in Italia, nelle città dove il bisogno è maggiore: penso a Bari, Napoli, Roma... Con questo impegno all’estero abbiamo guadagnato il rispetto delle popolazioni che abbiamo assistito; in Italia un buon servizio pubblico, il rispetto del bene comune, ridà fiducia nei confronti dello Stato. Per noi è un’avventura di civiltà che deve continuare, nonostante le difficoltà, anche burocratiche come, per esempio, i due anni di tempo che lo macchina statale ci mette a stabilire ed erogare il 5x1000. In fin dei conti alle difficoltà siamo abituati: penso ad Azzarà e alla sua vicenda in Sudan, che si è conclusa bene; ma penso anche ai successi dei nostri centri in Afghanistan dove abbiamo già raggiunto e superato di molte volte gli obiettivi del millennio sulla mortalità materna che l’Onu si è prefissato per il 2015. E mi ricordo anche che storicamente, è nei momenti di crisi che i cittadini si sentono più solidali.
Quale è la cosa che le farebbe più piacere poter fare, l’impegno che sente più urgente e personale.
Sono un chirurgo, vorrei poter tornare a operare; vorrei poter dedicare più tempo alla sala operatoria, a curare i miei malati.

il Fatto 20.12.11
Storie dell’Italia che odia l’uomo nero
L’ultimo caso di razzismo a Verona: ma dopo Firenze la paura è ovunque
di Silvia Truzzi


Milano Un paio di settimane fa sul Fatto raccontavamo una storia di Bologna, dove i ragazzi del liceo Copernico erano riusciti a evitare che attorno alla loro scuola si costruisse una cancellata per tener fuori i clochard che di notte si rifugiano lì. “Droga, senza tetto, gang urbane: un cancello non potrà niente contro queste realtà, realtà di cui dobbiamo prendere atto. È facile rinchiudersi in sè stessi relegando all’esterno il male che non si vuole riconoscere e affrontare”: così gli studenti, in una bellissima lettera, avevano convinto la Giunta provinciale. Due giorni fa, sempre a Bologna, cinque ragazzi hanno pensato bene di non far durare troppo a lungo la buona notizia. Con grande coraggio e umanità, una notte si sono avvicinati a un clochard di 74 anni che dormiva, l’hanno preso a calci e pugni e gli hanno portato via tutto quello che possedeva: duecento euro. Se la viltà ha una faccia, assomiglia tanto a quella di questi ragazzi. O al gruppetto di Verona che venerdì ha picchiato e insultato un tredicenne cingalese. “Che cazzo guardi negro di merda? ”: questa la gentile domanda rivolta al piccolo immigrato da un ragazzo sull’autobus. Ma non finisce qui. Il giorno dopo il 13enne ha la sfrontatezza di farsi vedere ancora in giro e incontra di nuovo il ragazzi del bus. Uno di loro - racconta il quotidiano l’Arena - ha una bottiglia di birra in mano e la versa sulla faccia del ragazzino, che viene buttato a terra. “Poi i quattro delinquenti cercano di farlo rotolare sotto un’auto in transito, ma per fortuna non ci riescono”. Lo picchiano, forse con una spranga: cinque segnalati, tre denunciati (uno solo è maggiorenne) per lesioni con l’aggravante dell’odio razziale. La stessa del rogo al campo rom di Torino, per cui sono finite in cella due persone. Risultato: il 13enne è terrorizzato e non vuole uscire di casa. Come ugualmente impauriti sono molti neri che vivono nel nostro paese, dopo la strage di Firenze. On line il sito razzismoitalia.blogspot.com   tiene una rassegna stampa piuttosto interessante, un elenco delle quotidiane vergogne d’Italia. Alcune storie sono molto note, come l’aggressione alla cestista di colore Abiola Wabara, destinataria di insulti e sputi durante un incontro di Serie A. Altre sono meno conosciute, ma raccontano un clima.
DENUNCIANO gli studenti universitari dell’Emilia Romagna che la Regione avrebbe escluso gli immigrati dalle borse di studio: “Nell’anno accademico 2011/2012 sono risultati idonei 17.505 studenti – si legge in un comunicato diffuso da Sinistra Universitaria – ma l’azienda regionale per il diritto allo studio riesce a erogare solo 16.822 borse. Gli esclusi? Tutti gli studenti extra-comunitari immatricolati. Solo 40 ragazzi stranieri, cioè il numero minimo garantito dal bando, hanno avuto accesso alla sovvenzione”. A Segrate, un imprenditore di 38 anni è stato condannato a due anni e mezzo di carcere: costringeva uno dei suoi operai, un cingalese di 47 anni, a tenere sul carrello di lavoro la seguente scritta “Negro non capace di lavorare ma capace di prendere soldi”. A lui si rivolgeva consuetamente con l’epiteto “sporco negro”. C’è un video che mostra un episodio accaduto a bordo di un treno delle Ferrovie Appulo Lucane: il controllore aggredisce un tranquillo gruppo di immigrati spiegando loro: “Speriamo che venga Hitler, vi tagli la testa e vi spedisca al forno crematorio”. A Pordenone, sempre quest’anno, un cartello avvertiva senza mezzi termini: “Si affitta solo a italiani”. La propietaria si è giustificata così: “Abbiamo avuto una brutta esperienza con quella casa. Una coppia di stranieri ci ha vissuto lo scorso anno. Lei una brava ragazza, ma lui l'ha lasciata e lei si è trovata in difficoltà. Non ce la faceva a starci dietro. Così abbiamo detto basta. Tanto più che nel palazzo vivono dei professionisti. Vogliamo che qui abitino brave persone”.
MONTESACRO, Roma: un manifesto affisso fuori da un bar spiega che è “vietato l’ingresso agli animali e agli immigrati”. Ci sarà stata una rissa? Massì, per ogni discriminazione si trova sempre una giustificazione. In Italia, secondo i dati Istat, gli stranieri residenti sono oltre 4 milioni e mezzo: chi tra loro è occupato in media guadagna trecento euro in meno di un lavoratore italiano (dati della Cgia di Mestre). E dove dovrebbero abitare? Sotto i ponti no, è troppo pericoloso. Si rischia che qualche Borghezio - europarlamentare della Lega Nord - passi e dia fuoco ai materassi (il per nulla onorevole nel 2002 è stato condannato a cinque mesi di carcere con la sospensione condiziona-le insieme ad altri sette militanti del Carroccio). Appunto, la Lega: il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha pubblicamente condannato l’aggressione al ragazzino cingalese. Ma si può dimenticare la petizione “Firma per mandare via gli zingari dalla nostra città” per cui Tosi è stato condannato in via definitiva, insieme ad altri leghisti veronesi? Oppure - se c’è un peggio in questo peggio - che quando era consigliere comunale d’opposizione, propose un ingresso differenziato sugli autobus per gli immigrati? Forse no, se non altro per far sentire diverso chi se la prende con qualunque diverso, nero o rom che sia.

il Fatto 20.12.11
Ma Pound non era un grande poeta?
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, come mai la figlia del grande Ezra Pound non fa una azione giudiziaria contro l'uso del nome di suo padre?
Margherita

TEMO che Margherita ricordi solo l'immagine del poeta, che è stato certo un poeta importante. Ma abbia dimenticato l'uomo squallido, antisemita, persuaso che il mondo fosse diretto dalle banche e ( attenzione ) , che le banche fossero tutte nelle mani degli ebrei e che dunque l'usura, praticata dai mercanti ebrei padroni del mondo , fosse la causa di tutti i mali. Questa visione ( vi ricorda qualcosa di ciò che si sente dire oggi ?) ha portato Ezra Pound a vedere nel fascismo e nel nazismo la soluzione ai problemi della democrazia e del capitalismo, corrotti dagli ebrei. Casa Pound , come si vede, composta di personaggi che, privi di qualunque idea di ciò che sta accadendo o può accadere, e insensibili al danno immenso prodotto come una ferita inguaribile, dalle idee che amano, trasportano cadaveri e producono altri cadaveri. Il loro Pound non è il grande poeta ma il piccolo fascista rifugiato presso Mussolini e sicuro di avere trovato negli ebrei i suoi nemici. Adesso ci sono i neri, i senegalesi, che sono tra i più attivi nel popolo dei nuovi venuti . E spargere morte comunque è un buon compito, dato il passato. Coerente, se non altro, con un rimpianto mondo di stragi. Trovo strano che qualcuno esiti a chiudere i loro centri in nome della libertà di pensiero. Le pallottole non sono pensiero. Samb Modoli e Diop Mor, i due senegalesi assassinati a Firenze ( e il loro connazionale gravemente ferito Mustapha Dieng) non sono gli avversari di un dibattito e non sono le vittime di un pazzo. Sono le vittime di un delitto politico che uno Stato democratico non può accettare come un lutto. Deve punire ( esecutore e mandanti, tutti i mandanti ) come un delitto.

Repubblica 20.12.11
Siamo tutti senegalesi
di Adriano Sofri


Scandivano i loro slogan sotto il palco, mentre dal palco li esortavano alla calma. C´erano delle donne, e una ha gridato in italiano: «Dobbiamo dire solo parole umane. Siamo qui per l´umanità. Siamo tutti uguali». Uno davanti a lei si è voltato: «Non siamo tutti uguali. Noi siamo migliori». Si sono messi a rimproverarlo, allora gli ho battuto sulla spalla e gli ho detto: «Hai ragione, siamo migliori». È rimasto un po´ interdetto, poi ha detto: «Io non sono razzista». Abbiamo concordato che potevamo dire: «Siamo tutti migliori».
La manifestazione non era, come distrattamente veniva da dire, «per» i senegalesi, ma «con» i senegalesi, e specialmente per noi. «Noi» abbiamo la tentazione di trattare questioni enormi come le migrazioni come se ne decidessimo. Io, per esempio, non saprei bene che cosa fare, se dipendesse da me, e tutt´al più mi par di sapere che cosa non farei: molte cose. (Farei bensì come Andrea Riccardi, la visita alla tomba di Jerry Masslo a Villa Literno, al campo rom incendiato a Torino, al Palazzo Vecchio di Firenze: che non è ancora una linea politica, ma la premessa, e quanto diversa dall´altra!). «Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato, ed allora ci si accorgerà che esistiamo», aveva detto Masslo, e toccò a lui, «prima». Dev´essere arduo per chi governa fare un buon uso della parabola del samaritano. Per noi un po´ meno. Il nostro prossimo non sono «i migranti», o «i senegalesi»: sono persone, quelle in cui ci imbattiamo, che si imbattono in noi. Perché sia chiara la reciprocità (pensiamo infatti a quella parabola immaginando di trovarci nei panni di quello che può aiutare il malcapitato, e mai del malcapitato) copio qui la motivazione della medaglia d´oro conferita da Ciampi nel 2004 a Cheikh Sarr, 27 anni, senegalese, lavorava da muratore: «Mentre si trovava nella spiaggia di Marina di Castagneto Carducci, udite le invocazioni di aiuto di un bagnante, si gettava in mare per soccorrerlo. Compiuto il salvataggio veniva sopraffatto dalla violenza del mare… Fulgido esempio di eccezionale coraggio, nobile spirito di altruismo e preclara virtù civica». (Era ferragosto, l´italiano salvato se ne andò senza dire grazie: a proposito di clandestini). Sarr aveva una bambina di 10 mesi, non l´aveva mai vista. Diop Mor aveva una figlia di 13 anni, e non l´aveva ancora mai vista, se non nella foto che sabato stava in testa al corteo.
È stato grande, composto e commovente, il corteo. Gli africani erano tanti, parecchi latino-americani, e italiani tanti. Tuttavia non c´era "la città", quella sua grandissima parte che non ha un impegno politico o associativo, che riempiva il centro natalizio e si chiedeva se ci sarebbero stati disordini – o non si chiedeva niente. C´è da tempo un abuso della nozione di zona grigia. Ma una tragedia come quella che si è consumata a Firenze, vittime innocenti e inermi scelte per il colore e la fisionomia, vale da rivelazione. Un´autopsia sul corpo vivo di una comunità, e si capisce che la comunità se ne ritragga e abbia voglia di ricucire alla svelta e tornare all´usato. Ma non si può. Traduco da un sito senegalese questo commento: «Gli italiani del nord non considerano nemmeno quelli del sud come concittadini, e invocano una secessione. E il partito che incita a questo ha ministri nel governo. Così i meridionali, umiliati, se ne rivalgono come possono sui poveri immigrati di colore, e questo costringe il migrante africano e senegalese a subire un doppio razzismo!».
Sapevo poco di senegalesi, in galera sono rari. C´era una bella ricerca torinese del 2005, o i libri e la rivista web di Pap Khouma sull´Italia raccontata dai migranti – i Modou modou, o, le donne, Fatou fatou – che tornano in patria. Sarebbe importante che un analogo lavoro di conoscenza reciproca venisse svolto da italiani e senegalesi, a partire dalla ferita di questi giorni, impegnasse l´università e la comunità e la gente. Sabato Enrico Rossi, presidente della Toscana, ha esortato i senegalesi a raccontare con confidenza le loro storie ai nostri concittadini più fragili, i vecchi, e ad ascoltare le loro. Quanti erano in quella piazza, e hanno sentito la fraternità di un abbraccio e la civiltà delle parole, non vorrebbero ridiventarsi invisibili e diffidenti. I luoghi di incontro sono quasi recintati: dove si presta un´assistenza volontaria, dove si stringono legami politici e umani, come nei centri sociali. Era evidente lungo la manifestazione un legame politico e umano fra giovani italiani "estremisti" e stranieri. Ne riconosco forza e debolezza, perché ricordo la comunità instaurata fra ragazzi e ragazze di Torino o Milano e giovani immigrati dal meridione alla fine degli anni ´60, la trasfusione umana che anticipava l´intesa politica. Qui si tratta di un sud più a sud, ma di una fusione altrettanto intensa. Quanto alla debolezza di allora e di oggi, sta nell´aderire all´altro, allo straniero rifiutato, fino a estraniarsi e ripudiare a propria volta la propria società, a sentirsene fieramente transfughi. Diventare senegalesi o rom o di qualunque sud del cuore, per non essere più italiani, disdettare questo mondo e sentire al microfono dell´altro che "Dio è grande". Ma per obiettare all´equivoco che si annida nel ripudio di un´identità ereditata in nome di una prescelta, nel mettersi nei panni altrui fino a scoprirsi in maschera, bisogna pur meritarsi la simpatia per gli altri di cui gli "estremisti" e i loro bravi cagnolini sono capaci. Senza di che, non ci si stupirà che persone cui sono assassinati i fratelli per il colore della pelle, di cui sono bruciate le baracche per una vociferazione, scegliessero di rispondere altrimenti che con le parole magnanime di Pape Diaw. Non c´era "la città", sabato. (Tanto meno "la politica" del centrodestra, esonerata dal testimoniare dolore e vergogna, magari col pretesto che "la sinistra" li strumentalizzi).
I senegalesi morti ammazzati raggiungono la necrologia all´ingrosso, la cifra senza nomi propri degli annegati. In Borsa, il differenziale fra la loro vita media e la nostra è di vent´anni, e per quelli che tentano la traversata del deserto e del mare di cinquant´anni e più. La zona grigia dice: "Ammazzarli no, però il buonismo…". Il cattivismo è una semina che ha già raccolto tempesta. Negare il voto, negare la cittadinanza a chi nasce qui – negare perfino la registrazione all´anagrafe di chi nasce da una madre "irregolare", come in una Betlemme: è pazzia. Lasciamo alle autorità gli scioglilingua sull´immigrazione regolare e irregolare, ma quelli incontriamo – in un ambulatorio, su un autobus, per strada – sono persone, e la gran parte dei regolari di oggi sono arrivati ieri da irregolari, e tanti irregolari di oggi saranno regolari domani. Le schiere non sono così spartite come negli affreschi toscani del Giudizio Universale, o somigliano tutt´al più alle contese fra diavoloni e angeli che tirano di su o di giù i corpi in bilico. Tiriamo, noi, dalla parte buona; e così sia di noi.

l’Unità 20.12.11
Il segretario Pd sorpreso dall’intervista della titolare del Welfare: «Quella riforma non è in agenda»
Bersani: si lasci stare l’articolo18
Anche l’Ocse smentisce il mito della flessibilità
di Ronny Mazzocchi


Negli ultimi quindici anni il mondo del lavoro italiano ha conosciuto un profondo mutamento dal punto di vista legislativo, strutturale e sociale. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, infatti, l’Italia ha adottato una serie di riforme per rendere il mercato del lavoro meno rigido.
Il tutto con l’idea che una maggiore flessibilità sia dei salari sia delle norme che regolano assunzioni e licenziamenti avrebbe favorito la crescita dell’occupazione, ridotto la disoccupazione e incoraggiato la crescita economica.
Si tratta di un tema su cui si è tornati prepotentemente nelle ultime settimane, con varie proposte che si sono spinte fino ad auspicare una maggiore flessibilità in uscita attraverso la modifica o addirittura l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. La tesi di fondo è che l’introduzione dei contratti flessibili, ottenuta attraverso il pacchetto Treu del 1997 e la legge Biagi del 2003, avrebbe favorito l’ingresso nell’area dell’occupazione di moltissimi giovani, ma che il permanere di un basso livello di occupazione e l’esplosione del fenomeno della precarietà siano dovuti alla diffidenza delle imprese ad assumere i lavoratori in un contesto istituzionale con forti protezioni per gli occupati a tempo indeterminato. Solo facilitando la licenziabilità dei lavoratori sarà quindi possibile garantire maggiori posti di lavoro e un miglioramento delle condizioni lavorative per i giovani.
La linearità del ragionamento, unita all’indubbia efficacia retorica del termine “apartheid”, sembra però contrastare con alcune indicazioni che vengono da recenti pubblicazioni economiche. Innanzitutto l’affermazione secondo cui l’ampliamento delle norme che hanno esteso la gamma dei contratti di lavoro atipici abbia contribuito a migliorare la posizione dei giovani agevolando il loro ingresso nel mondo del lavoro e riducendo la loro situazione di svantaggio nei confronti dei lavoratori adulti andrebbe valutata con maggiore cautela. Sebbene le statistiche ufficiali evidenzino come l’introduzione dei contratti a termine abbia effettivamente determinato almeno fino allo scoppio della crisi la riduzione dei tassi di disoccupazione giovanili, lo svantaggio sia assoluto che relativo dei giovani rispetto agli adulti non solo non si è ridotto, ma è addirittura aumentato.
Una recente indagine Ocse ha infatti evidenziato come il rapporto fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello degli adulti sia aumentato, in Italia e nella Ue, in tutto il decennio che precede la crisi del 2008. Se nel 2000 per un giovane italiano il rischio di restare disoccupato era 3,2 volte quello di un adulto, nel 2008 tale valore era già salito a 3,7. La riduzione osservata nella disoccupazione giovanile in Italia fino al periodo pre-crisi, quindi, non sembra tanto da attribuire all’allargamento dei contratti atipici, ma ad altre forze. Risultati poco incoraggianti arrivano anche dall’integrazione dei giovani nel mondo del lavoro. Non solo i tassi di occupazione giovanile sono rimasti molto bassi, ma il differenziale rispetto al resto della Ue è aumentato in modo preoccupante per tutte le categorie di età e di sesso considerate, con l’unica eccezione delle donne sopra i 30 anni. Anche il vecchio adagio secondo cui un lavoro precario è comunque meglio di nessun lavoro, perché una volta dentro il mercato sarebbe più facile trovare altri lavori, non sembra trovare conferme nei dati.
Il Rapporto sul mercato del lavoro elaborato dal Cnel evidenzia infatti che la probabilità per un lavoratore a termine di essere occupato a distanza di un anno, non solo è più bassa di chi è occupato con un contratto a tempo indeterminato, ma è addirittura diminuita nel corso dell’ultimo decennio. Questa conclusione sembra confermata da un altro dato: non vi sono effetti positivi sull’addestramento e sulla formazione generale delle persone occupate con contratti a termine. Questi ultimi svolgono un ruolo di porta d’accesso al lavoro permanente quando il rapporto di lavoro interessa lo stesso datore di lavoro, mentre questo non sembra vero fra le imprese. E in ogni caso il tempo richiesto per la trasformazione di una relazione contrattuale da temporanea a permanente è piuttosto lungo e questo lascia supporre che le imprese tendano ad utilizzare una sequenza di contratti a termine come strategia per ridurre il costo del lavoro, piuttosto che come uno strumento per selezionare la manodopera. Da ultimo, molti dubbi permangono sugli effetti che una minore tutela del lavoro dovrebbe avere sui livelli di occupazione e sulla crescita economica. Le indagini economiche condotte negli ultimi anni non evidenziano alcun legame fra regimi di protezione dell’impiego e tassi di occupazione. Al contrario, se da un lato le istituzioni possono rendere difficile licenziare, dall’altro la certezza di un rapporto di lavoro duraturo sembrerebbe aumentare l’efficienza e l’impegno del lavoratore e, per questa via, la produttività. Un elemento importante da tenere in considerazione in vista della cosiddetta “fase due” del governo.

Corriere della Sera 20.12.11
Il Pd si divide sulla riforma Bersani chiede tempo a Monti
Fassina: non va fatta. Ma Ichino: rimuovere le barricate
di Monica Guerzoni


ROMA — Sulla prima pagina del suo sito il professor Pietro Ichino la riassume così: «Di fronte al governo che ha deciso di procedere si rimuovono le barricate». Dopo anni di studi per riformare il mercato del lavoro il senatore è ottimista, ma il Pd è spaccato in due emisferi contrapposti e una mediazione sembra impossibile. La linea del governo o quella della Cgil? Fornero o Camusso? La sfida si gioca sulla carne viva del Pd, tra i partiti di maggioranza quello storicamente più sensibile alle ragioni dei lavoratori.
Quando Bersani dice «ora facciamoci il Natale e lasciamo stare l'articolo 18» traduce in pubblico quel che, in privato, ha già detto al premier e al ministro del Welfare. E cioè che il Pd, che ancora deve «digerire» le pensioni, non è pronto per parlare di licenziamenti. E che se il governo vuole proseguire il viaggio deve rinunciare alla tentazione di rivoluzionare il mercato del lavoro. Il problema è che una parte per nulla minoritaria del partito spinge per rompere il tabù. Al Corriere la Fornero ha detto «non ci sono totem» e come il ministro, con gradi diversi di adesione alle tesi di Ichino, la pensano Veltroni, Letta, Gentiloni, Morando, Verini, Follini, Renzi... Ma l'ala sinistra del partito e buona parte dei cattolici sono pronti a dar battaglia sulle orme della Camusso, per la quale l'articolo 18 è «una norma di civiltà» e il contratto unico «un nuovo apartheid». Il responsabile economico Stefano Fassina è categorico, la norma che limita i licenziamenti «non si tocca» e la priorità è riformare gli ammortizzatori sociali: «Il mercato del lavoro non rientra nelle emergenze. Perché intervenire ora su un punto sensibile, delicato e divisivo?». Prima di tutto per «superare il dualismo tragico tra chi ha tutte le tutele e chi non ne ha nessuna» sprona a far presto il senatore Enrico Morando, che sostiene con forza il modello Ichino. Ma il bersaniano Matteo Orfini chiede al segretario di «porre il veto» e si prepara a dare battaglia: «Se un pezzo di Pd vuole mettere in discussione le scelte fondative di un partito nato a difesa dei più deboli, il 20 gennaio presenti un ordine del giorno all'Assemblea nazionale e vediamo chi ha la maggioranza».
A Monti mezzo Pd chiede insomma di «non fare scherzi» e di mostrare la stessa «responsabilità» che i democratici hanno avuto nel votare la fiducia. E l'altra metà spinge per mettere mano alla riforma. «Non possiamo essere i custodi della rigidità del mercato del lavoro — sprona Marco Follini —. C'è sempre un vincolo esterno, dobbiamo decidere se è la Bce o la Cgil». Per Rosy Bindi, come Cesare Damiano, il «vincolo» è indubbiamente la seconda. L'ex ministro del Lavoro reputa «assurdo» che facilitare i licenziamenti aiuti la crescita: «L'idea di Ichino, che il Pd debba sposare le scelte del governo, è subalterna e inaccettabile». Ma lo stesso senatore, teorico della flessibilità coniugata alla sicurezza del posto, sa che «il Pd è una polveriera» e sta bene attento a non provocare altre scintille. «La mediazione c'è — suggerisce Ichino — Damiano e Cofferati hanno aperto a Tito Boeri, che prevede l'applicazione dell'articolo 18 dal terzo anno di contratto a tempo indeterminato». Un progetto condiviso anche dal vicesegretario, Enrico Letta.
Per conciliare due opposte visioni dell'economia e della società Franceschini, Treu e Baretta lavorano a una difficile mediazione. E Beppe Fioroni, che pure condivide la necessità di importanti modifiche, rivela il disagio dei cattolici: «La Fornero non può andare avanti con gli annunci, come Sacconi. Se è una vera riformatrice sappia che, su questi temi, prima si ascolta e poi si parla».

l’Unità 20.12.11
Per chiedere sacrifici ci vuole il consenso
di Carla Cantone
Segretario generale Spi-Cgil

Vi è uno squilibrio insopportabile nella distribuzione dei sacrifici chiesti dal governo ai cittadini con la manovra. Il costo della crisi è, infatti, per l’80% a carico dei pensionati, delle donne, dei giovani e dei lavoratori mentre il 15% viene recuperato dai redditi alti e solo un misero 5% dalle grandi ricchezze.
Il sindacato dei pensionati della Cgil si è mobilitato per modificare la manovra, a partire da quell’ingiustizia operata ai danni degli anziani attraverso il blocco delle già esigue rivalutazioni annuali.
La tenace battaglia messa in campo ha prodotto un primo, seppur parziale, risultato in quanto inizialmente la manovra prevedeva il blocco della rivalutazione su tutte le pensioni fatta eccezione per quelle minime da 468 euro al mese.
Giorno dopo giorno siamo riusciti ad ottenere il mantenimento della rivalutazione per le pensioni fino a 1.400 euro lordi, riuscendo così a recuperare quattro miliardi di euro dalle fasce più ricche a copertura del sacrificio che era stato chiesto alle fasce più deboli ed esposte. Tutto questo è ancora insufficiente ma è servito comunque a tutelare almeno cinque milioni di pensionati a dimostrazione che qualcosa di più equo si poteva fare.
Ora occorre non dimenticare gli altri 8 milioni di persone che vivono con un reddito da pensione medio-basso ed è per questo che non ci rassegniamo all’idea che anche per loro vi sia la tutela del potere d’acquisto.
La crisi è pesante e c’è bisogno di portare fuori il Paese da una situazione particolarmente dura.
Sappiamo bene di chi sono le responsabilità e che queste vadano ricercate in tre anni di politiche sbagliate operate dal governo Berlusconi. C’è qualcuno che vorrebbe rimuovere questa verità storica, cambiando le carte in tavola e provando, come la Lega, a rifarsi una verginità. I pensionati, però, hanno la memoria lunga e non possono dimenticare la macelleria sociale a cui sono stati sottoposti per tre anni con la cancellazione del fondo per la non autosufficienza, con i fortissimi tagli alla sanità e agli enti locali e con la sostanziale riduzione dei servizi socio-assistenziali e dell’insieme del welfare. I danni provocati dal governo precedente si sommano ora alla manovra di Monti e portano tantissime persone in una condizione di grande sofferenza e disagio. Il Paese avrebbe bisogno di altro, di meno disuguaglianza e di una maggiore giustizia sociale.
La giustizia sociale per noi significa andare a toccare chi non ha mai pagato attraverso una vera patrimoniale, contrastando una volta per tutte l’evasione fiscale, azzerando finalmente i costi della politica e fissando un tetto ai compensi di quei manager e di quei dirigenti ora strapagati. Lo Spi Cgil, con la sua autonomia e il suo ruolo di rappresentanza sociale, non rinuncerà ne oggi ne domani a pretendere tutto questo da qualsiasi governo sia esso di emergenza che eletto dai cittadini – e a rivendicare il diritto a vivere in un paese migliore, più giusto e più equo.
Continueremo a chiedere che le pensioni medio-basse siano tutelate concretamente e che si dia vita ad un welfare degno di un paese civile. Non possono essere gli anziani i soliti ad essere colpiti perché, insieme ai giovani, rappresentano l’anello più debole di un modello di società fortemente in crisi. Gli anziani più di tutti hanno a cuore il futuro dei giovani e di questo paese, altro che egoismo o scontro intergenerazionale.
È vero, Luciano Lama, diceva che non voleva vincere contro le sue figlie. Ma Lama diceva anche che un Paese è considerato civile e democratico solo se vi sono politiche pubbliche per un welfare che abbia il segno della giustizia e indispensabili politiche per il lavoro. Il tema prioritario non può e non deve essere la cancellazione dei diritti, in un paese dove ci sono 2 milioni di disoccupati, oltre 5 milioni di persone che vivono in una condizione di precarietà occupazionale e di tutti questi il 30% sono giovani e donne.
Le priorità devono essere la crescita, lo sviluppo e il lavoro. Anche per questo diciamo: giù le mani dall’articolo 18! Un grande uomo della sinistra italiana, Enrico Berlinguer, nel 1981 ebbe a dire: «Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire».
Noi la pensiamo ancora come lui.

l’Unità 20.12.11
Lo sciopero del pubblico impiego con un sit-in in piazza Montecitorio. «Non ci fermeremo»
Sindacati, la protesta continua
Lo sciopero dei lavoratori pubblici è un successo. Al presidio davanti a Montecitorio Camusso, Bonanni e Angeletti attaccano il governo: anche con la fiducia la manovra rimane iniqua e sbagliata.
di Massimo Franchi


In piazza, perfino la Vigilia di Natale. La mobilitazione dei sindacati contro la manovra va avanti e l’appuntamento è per il 24 dicembre. Cgil, Cisl, Uil e Ugl sono «uniti» e «convinti che si possa ancora cambiare».
Stipati come sardine fin dalle 9 e mezzo del mattino nella piccola piazzetta che si affaccia su Montecitorio, i lavoratori pubblici venuti ad ascoltare i segretari confederali e quelli di categoria hanno molta più rabbia che stanchezza. Un anno, se non più, di mobilitazione contro la serie di manovre che ha colpito loro più di tutti gli altri lavoratori ha lasciato cicatrici, ma non ha fiaccato la voglia di far sentire la loro voce.
MEDICI IN CAMICE FINO A 70 ANNI
Ci sono i medici in camice bianco e fra loro Ignazio Marino con il suo fornito di nome e qualifica: «Lo scandalo è la penalizzazione dei medici che lavorano nel pubblico rispetto a quelli che lavorano nel privato. Nel resto del mondo, Stati Uniti compresi, i chirurghi come me possono lavorare fino a 70 anni, ma sono loro a sceglierlo, non gli è imposto come qua in Italia».
Dal palco invece sono i segretari generali a prendere la parola. «Dopo molti giorni siamo ancora qui a protestare contro provvedimenti che hanno tutto tranne il senso della giustizia esordisce Luigi Angeletti della Uil -. Non siamo per nulla rassegnati a lasciare che le cose procedano secondo la logica che vorrebbe il governo. La mobilitazione continua». «Siamo ancora qui a protestare ha proseguito contro provvedimenti che hanno tutto tranne il senso della giustizia».
Sul palco anche il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella «i veri obiettivi della riforma del mercato del lavoro sono due: l'articolo 18 e il sindacato. Il governo Monti si sta rivelando di giorno in giorno un governo sempre più politico, sempre meno tecnico. Lo dimostrano la manovra che, esattamente come avvenuto con le precedenti, colpisce lavoratori, pensionati e famiglie senza chiedere sacrifici a chi ha di più, e lo dimostra allo stesso tempo il presunto invito al confronto sul mercato del lavoro arrivato ieri dal ministro Fornero, che ha finto di darci un “benvenuto” partendo proprio dalla messa in discussione della tutela delle tutele», ha attaccato.
Da parte sua, Susanna Camusso mette le mani avanti sul cammino del decreto. Per il segretario generale della Cgil «anche la fiducia non chiude la partita semplicemente perché il Paese non ce la fa, non può sopportare una manovra come questa». Sul capitolo dipendenti pubblici, Camusso sottolinea che «bisogna tornare ai contratti nazionali e alla contrattazione», mentre «non si può andare avanti a fare riforme per decreto». La sostanza è chiara, soprattutto per gli statali: «Abbiamo già dato e non abbiamo più nulla da dare». Usa la metafora medica, il segretario della Cgil: «Il governo parla sempre di malati e antibiotici, ma la pediatra di mia figlia mi ha sempre insegnato che con gli antibiotici non vanno usati troppo e poi sfido chiunque ad essere tranquillo se si troverà, dopo la riforma delle pensioni, a stare in un Pronto soccorso con operatori di 70 anni che ti curano».
L’appuntamento per i lavoratori pubblici «è a marzo quando si terrà il voto per le Rsu» (rappresentanze sindacali unitarie), «una conquista fortemente voluta dalla Cgil spiega il segretario della Funzione pubblica Rossana Dettori e adesso appoggiata anche da Cisl e Uil».
Angeletti, Bonanni e Angeletti hanno poi stigmatizzato fortemente la campagna «antifannulloni» dell’ex ministro Brunetta: «I fannulloni sono quelli che hanno fatto le riforme che ci hanno portato qui», hanno attaccato.
I segretari di categoria hanno poi lanciato un appello: «Il governo prenda atto hanno affermato i segretari generali Fp-Cgil, Rossana Dettori, Cisl-Fp Giovanni Faverin Uil-Fpl, Giovanni Torluccio (Uil-Fpl) e Uil-Pa, Benedetto Attili (Uil-Pa) del segnale mandato dai lavoratori della pubblica amministrazione, correggendo la manovra nel segno dell'equità e aprendo un tavolo di confronto sui temi del lavoro pubblico, dalla contrattazione nazionale e decentrata alla riorganizzazione degli enti, dalla previdenza ai servizi pubblici locali».
Anche se Brunetta non c’è più, la guerra di cifre sull’adesione non è passata. I sindacati hanno parlato di «alta adesione» allo sciopero proclamato unitariamente per oggi mentre il ministero della Funzione pubblica ha diffuso dati di poco superiori all'8,7%. I sindacati non hanno diffuso cifre ma hanno sottolineato che disagi ci sono stati soprattutto per il rinvio delle visite specialistiche e degli interventi programmati ma anche negli uffici.

Repubblica 20.12.11
Se l’articolo 18 diventa un lusso
di Stefano Rodotà


Gli effetti del decreto "Salva Italia" dureranno a lungo, perché redistribuiscono poteri e risorse. Per questo non è possibile far tacere lo spirito critico, né pretendere una sorta di acquiescenza sociale, alla quale giustamente i sindacati hanno detto di no. Il decreto, infatti, tocca profondamente vita e diritti delle persone.
I diritti sono diventati un lusso? L´"età dei diritti" è al tramonto? Di questo discutiamo in questi tempi difficili, e non solo in Italia. E´ tornata l´insincera tesi dei due tempi: prima risolviamo i problemi dell´economia, poi torneranno i bei tempi dei diritti. "Prima la pancia, poi vien la morale" – fa dire Bertolt Brecht a Mackie Messer nel finale del primo atto dell´Opera da tre soldi. Ma l´esperienza di questi anni ci dice che di quel film viene sempre proiettato solo il primo tempo.
Vi è una ricerca francese sui diritti sociali intitolata "Droits des pauvres, pauvres droits". Dunque, "diritti dei poveri, poveri diritti": diritti sempre più deboli per i più deboli, e che non si sa che fine faranno. Oggi siamo di fronte ad interventi caratterizzati da una forte asimmetria sociale, che fanno crescere ancora di più la diseguaglianza. Ma qual è la soglia di diseguaglianza superata la quale è a rischio la stessa democrazia? Siamo consapevoli che stiamo passando per un numero crescente di persone dall´"esistenza libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, ad una situazione che spinge verso la pura sopravvivenza biologica?
Proprio nei tempi difficili bisogna parlare dei diritti. Senza conservatorismi, si dice. E allora, poiché il Governo annuncia interventi nella materia del lavoro, usciamo da schemi inutili e aggressivi come quelli che mettono al centro la modifica dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Uno sguardo sull´immediato futuro, realistico e lungimirante, esige che si affronti una revisione dei regimi di sicurezza sociale nella prospettiva del riconoscimento di un diritto ad un reddito universale di base. Di questo si discute da tempo, come mostra un libro appena pubblicato da Giuseppe Bronzini. Si potrebbe così cominciare ad invertire la rotta: dalla sopravvivenza di nuovo verso l´esistenza, ricongiungendosi anche ad una precisa indicazione dell´articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: "al fine di lottare contro l´esclusione e la povertà, l´Unione riconosce e rispetta il diritto all´assistenza sociale e all´assistenza abitativa volte a garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti".
Si è detto che l´Italia deve riguadagnare la dimensione europea, rifiutata nei tempi del berlusconismo. Ma, se si vuole che i cittadini non guardino all´Europa solo come fonte di imposizioni e di sacrifici, bisogna ricordare quel che disse il Consiglio europeo nel 1999: «"La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità». L´Europa dei mercati non può essere disgiunta dall´Europa dei diritti, pena una delegittimazione che può contribuire alla sua dissoluzione. I governanti devono rendersi conto che la Carta dei diritti fondamentali non è un documento al quale dedicare qualche distratta citazione, ma uno strumento che, adoperato con continuità e sincerità, può mostrare il «valore aggiunto» dell´Europa, nel quale diventa conveniente riconoscersi per tutti.
Ma l´Europa è anche quella dei trattati, di cui ora si propongono modifiche per rendere possibile un più diretto governo dell´economia. Di nuovo una questione di legittimità democratica. Si può rafforzare il potere europeo in questa materia sottraendolo a controlli che non siano solo quelli esercitati dalla forza degli interessi di governi nazionali? Se si vuol mettere mano al Trattato di Lisbona, allora, è necessario che una riforma includa un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo. Qui l´antica vocazione europeistica dell´Italia potrebbe essere rinverdita. Vorrà farlo l´attuale Governo, guadagnando così meriti presso tutti quelli che credono ancora in una ripresa della costruzione democratica dell´Unione?
Questa linea di riforma istituzionale, attenta a democrazia e diritti, dovrebbe essere seguita anche per le riforme costituzionali di cui si torna a parlare in casa nostra. Queste non possono essere considerate solo dal punto di vista di un nuovo assetto per Parlamento e Governo. E l´insistenza sulla giusta necessità di restituire ai cittadini poteri confiscati dall´indegna attuale legge elettorale non può limitarsi a questa soltanto. Le nuove forme di partecipazione politica, dei cui effetti abbiamo avuto prove concrete in occasione dei referendum e delle elezioni amministrative, esigono forme istituzionali che diano corpo e legittimazione a quella "democrazia continua" che ormai caratterizza la sfera pubblica e che non può essere affidata soltanto alla dimensione mediatica o alla logica dei sondaggi. Ricordate la critica di Rousseau alla democrazia rappresentativa inglese? "Il popolo inglese crede d´essere libero; s´inganna, non lo è che durante l´elezione dei membri del Parlamento; non appena questi sono stati eletti, esso diventa schiavo, non è più nulla". A questa schiavitù politica, al silenzio tra una elezione e l´altra, i cittadini si ribellano sempre di più, grazie soprattutto alle opportunità loro offerte da Internet. Sono lontanissimo dalle semplificazioni di chi continua a pensare ad una democrazia salvata dalla tecnologia, e ritengo che si debba sempre riflettere sui rischi di una "democrazia elettronica" come forma del populismo dei nostri tempi. Ma è suicida continuare a guardare alle istituzioni e alle loro possibili riforme senza prendere seriamente in considerazione la necessità di integrazioni nuove tra democrazia rappresentativa e presenza più diretta dei cittadini.
Nella prospettiva di riforme, volte però alla buona "manutenzione" e non allo stravolgimento della Costituzione, mi limito ad indicare una sola ipotesi, di cui già ho parlato in passato, ma che il successo dei referendum rende attuale. Mi riferisco all´iniziativa legislativa popolare, prevista dall´articolo 71 della Costituzione e che, finora, ha avuto come effetto solo la frustrazione dei proponenti, visto che il Parlamento ignora del tutto le proposte firmate dai cittadini. Credo che sia venuto il momento di rinvigorire questo istituto, prevedendo procedure che riguardino le modalità in base alle quali il Parlamento deve prendere in considerazione quelle proposte e dando al comitato promotore il diritto di seguirne l´iter parlamentare in commissione, secondo il modello che ha già portato a considerare i promotori di un referendum addirittura come «potere dello Stato». Un passo così impegnativo dovrebbe essere accompagnato da un aumento delle firme necessarie, ben oltre le attuali cinquantamila. Ma avrebbe l´effetto positivo di avviare una integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta (che può e deve trovare ulteriori forme), di aprire un canale tra eletti ed elettori, di insidiare l´autoreferenzialità della politica e di avviare così un suo riscatto nel tempo del massimo suo discredito.
Anche così potremo ricongiungerci all´Europa. L´articolo 11 del Trattato di Lisbona affianca alla democrazia rappresentativa uno strumento di democrazia diretta: il nuovo diritto di iniziativa dei cittadini europei che, in numero di almeno un milione, possono chiedere alla Commissione europea di prendere iniziative in determinate materie. Non è un caso che di questo strumento si prepari a servirsi la rete europea dei movimenti per l´acqua bene comune, dunque proprio i soggetti ai quali si deve la più forte iniziativa referendaria.
L´uscita dalla regressione culturale e politica, nella quale siamo piombati, sta proprio nella capacità di ricominciare a frequentare il futuro senza condizionamenti, primo tra tutti quello che vuole ricondurre tutto alla logica del mercato.

il Riformista 20.12.11
Non agitare come medicina l’articolo 18
di Emanuele Macaluso


I rapporti tra Monti, i suoi ministri e i sindacati sono tesissimi. Il tema è la manovra economica, già votata dalla Camera, sulla quale il segretario della Cisl, con sprezzante ironia, ha detto che, così come è confezionata, avrebbe potuto farla suo zio, ignorante di politica ed economia. La Camusso, ieri sul Corriere della Sera ha definito «folle» l’intervento sulle pensioni e «supponente» il governo che ha varato quella manovra. C’è già stato uno sciopero nelle aziende private, nei trasporti, e dei dipendenti pubblici. La lotta, dice Camusso, continuerà. La reazione è sbagliata ma il governo può dire che ha fatto tutto per cercare, e trovare, un’intesa anche non piena, parziale, con i sindacati? Penso proprio di no.
La ministra Fornero, intervistata dal Corriere, dice alcune cose condivisibili, ma ci sono affermazioni discutibili. A Bonanni: «Vorrei invitarlo a discutere delle cose che stanno in questa manovra e penso di avere la presunzione di poterlo convincere che l’equità c’è, magari non quanto lui vuole, e il rigore c’è». Ma, scusi Ministra, se è così sicura, perché non ha discusso, prima e bene, con i dirigenti confederali? E a proposito dell’equità, quando il giornalista del Corriere, Marro, le chiede: «E per le categorie come i militari e i magistrati?» la sua risposta è: «Per questi c’è un rinvio, ma solo per approfondire la specificità. La stessa cosa per la Cassa dei professionisti”. E no, dopo il rigore immediato per i pensionati, non si può, per altri, «approfondire». Anche se dice: «nessuno si illuda che non interverremo». I verbi coniugati al futuro in questi casi non sono utilizzabili. Così quando la Ministra dice: «sulle pensioni sopra i 200mila euro, l’inasprimento c’è stato», ma «io l’avrei voluto più alto del 15%». Anche in questo caso, coniugare i verbi al condizionale non va bene.
Occorre osservare che nei discorsi e negli interventi dei dirigenti confederali non c’è una rappresentazione della situazione per quella che è: drammatica, sull’orlo del precipizio. In queste situazioni, pur criticando la manovra, occorre dire con chiarezza e forza, che se precipita tutto, il mondo del lavoro pagherà più di tutti. E le riforme del welfare debbono essere promosse da chi è interessato al welfare. In questo clima l’articolo 18 dello Statuto non può essere agitato come un simbolo o la medicina che occorre far prendere ai bambini che non capiscono. I problemi delle riforme del mercato del lavoro sono molto complessi e occorre un confronto serio, meditato e rigoroso. Se non ci sarà un rapporto e un minimo di intesa tra governo e sindacato non reggerà né l’uno né l’altro. Ci sarà il caos.

l’Unità 20.12.11
«Abolire il precariato. Lavoro, questa la prima riforma»
Sociologi ed ex sindacalisti d’accordo: non si crea occupazione rendendo più facile il licenziamento, le cifre parlano chiaro L’ex leader Cgil Cofferati: il vero problema è la crescita
di Luigina Venturelli


Qualcuno osserva: «Come minimo non va al nocciolo del problema». I più benevoli commentano: «Pecca di cattivo tempismo». Mentre quelli abituati a diffidare tagliano corto: «La dice lunga sulle reali intenzioni politiche di questo governo». La scelta del ministro Fornero di sollevare adesso, e per l’ennesima volta in questi ultimi anni, la questione dell’articolo 18 non ha certo entusiasmato gli addetti ai lavori. Sociologi e giuslavoristi, semmai, la ritengono una strada pericolosa sulla quale l’esecutivo potrebbe inciampare in malo modo.
«Quella dell'articolo 18 si presenta come una sfida irragionevole, neppure politica ma esclusivamente ideologica, che non affronta minimamente i problemi quotidiani del lavoro. Mentre quel che ci va di mezzo è il destino del governo Monti: non invidio Susanna Camusso, e neppure Elsa Fornero», si limita a puntualizzare Aris Accornero, che nel 1999 sull’argomento ha pure pubblicato un libro profeticamente intitolato L'ultimo tabù. Perché affrontare «uno scontro inevitabile con il sindacato», è la domanda retorica che si pone l’esperto di sociologia industriale, quando ci sono ben altre questioni da affrontare, meno spinose e più urgenti?
«Per esempio, si potrebbe partire dalla proposta di riforma delle assicurazioni sociali presentata dal centrosinistra all’allora ministro Cesare Damiano. L’attuale sistema di ammortizzatori non può reggere ad una crisi come questa ed esiste un disordine pazzesco tra i diversi strumenti, spesso usati per finalità diverse da quelle originarie. Una riforma organica potrebbe portare anche risparmi, non solo costi».
Sugli stessi toni anche la collega Chiara Saraceno, benché convinta della «necessità di parlare prima o poi di una maggiore omogeneità di trattamento tra le diverse categorie e generazioni di lavoratori». Ma non è questo il momento: «Non si può parlare di articolo 18 senza aver fatto prima la riforma degli ammortizzatori sociali. E non è certo una questione urgente in questa congiuntura economica, visto che la maggioranza dei lavoratori è esclusa dall’applicazione della norma, perché impiegata in piccole imprese o con contratti atipici, mentre la maggioranza dei licenziamenti non avviene per giusta o ingiusta causa, ma perché le aziende chiudono a causa della crisi».
Oltretutto, a differenza del capitolo pensioni che può vantare un effetto immediato sul bilancio statale, quello aperto sulla norma più famosa dello Statuto dei lavoratori «ha più una funzione simbolica che effettiva». Dunque, conclude la sociologa, non produrrebbe nemmeno risultati apprezzabili per le finanze pubbliche.
Ancora più netto il giudizio di Luciano Gallino: «Affrontare ora la riforma dell’articolo 18 è una scelta totalmente sbagliata. Le cifre che parlano di disoccupazione, di chiusura di fabbriche, e di precari espulsi dal mercato del lavoro sono sempre più preoccupanti: ci si dovrebbe occupare di creare nuova occupazione, anche con metodi diretti d’intervento legislativo». I dati del ministero dello Sviluppo economico, secondo cui sono a rischio 90-100mila posti di lavoro nei settori industriali tradizionalemtne più forti, come quelli della cantieristica e degli elettrodomestici, stanno a dimostrare che «parlare oggi di iperprotetti nel mercato del lavoro non ha più alcun senso». Senza considerare «la leggenda metropolitana da sfatare secondo cui licenziamenti più facili porterebbero a nuove assunzioni».
La priorità è un’altra: «Il conto più pesante è stato finora pagato da un’intera generazione di giovani, e ormai di non più giovani, che hanno conosciuto solo tipologie di lavoro precario. Da lì bisogna iniziare, dall’abolizione del decreto attuativo della legge 30: a tal fine va bene anche il contratto unico di lavoro, ma senza veleno nella coda perché, per come è concepito adesso con possibilità di licenziamento, porterebbe solo nuova precarietà dove oggi ce n’è un po’ meno», prosegue Gallino. «Adesso i tre quarti delle assunzioni avvengono con contratti atipici, sfoltire quella giungla di precarietà sarebbe già un bel passo avanti».
L’ex segretario generale della Cgil Sergio Cofferati, protagonista di una storica battaglia a difesa dell’articolo 18, nemmeno si fa illusioni sul pessimo tempismo o sulla scarsa prudenza del governo Monti: «Non esistono in natura i governi tecnici, le scelte sono sempre politiche. Anche in questo caso l’esecutivo dà voce ad un’ossesione diffusa contro un diritto che garantisce la dignità dei lavoratori. il che la dice lunga sulle sue intenzioni sottotraccia». Oggi «il vero problema è la crescita, come creare posti di lavoro, non come licenziare, soprattutto dopo questa manovra recessiva».

il Riformista 20.12.11
Suicidi da default
Il nuovo (triste) record di Atene
di Andrea Luchetta


Il tasso di suicidi in Grecia è cresciuto del 40% in un anno. L’incremento più elevato a livello europeo, ancora più significativo se consideriamo che - storicamente - la Grecia presenta uno dei tassi più contenuti del Vecchio continente.
Dall’inizio della recessione il numero di persone che ha scelto di togliersi la vita è raddoppiato, superando abbondantemente la soglia dei cinque suicidi ogni 100mila abitanti.
Dimitri Deliolanes - autore di Come La Grecia, un saggio sulla diffusione della crisi del debito - non ha difficoltà a mettere i dati in relazione alla fase nerissima che sta attraversando il suo Paese. «Il punto è che non si vede via d’uscita. Atene è tecnicamente fallita da più di un anno. Capisco la necessità di mantenerla in vita artificialmente per preservare la zona euro, ma in teoria l’Unione europea doveva preoccuparsi anche di rilanciare l’economia, non solo di rattoppare il bilancio».
In un reportage molto ben documentato, il Guardian offre qualche altra cifra che rende l’idea del disatro sociale in cui si è tradotto l’effetto congiunto di austerity e recessione. Il numero di senzatetto ha superato quota 20mila nel solo centro di Atene, mentre il tasso di disoccupazione veleggia verso il 20 per cento - 42 per cento per la fascia d’età fra compresa fra i 25 e i 40 anni. Gli psichiatri di Atene hanno denunciato un incremento del 30 per cento nelle richieste d’assistenza, e la maggior parte dei pazienti cita come ragione «l’ansia e la depressione causate da timori finanziari».
Crescono le richieste d’aiuto al corrispettivo ellenico del Telefono azzurro, mentre il numero verde preposto alla prevenzione del suicidio è subissato di telefonate. «Prima della crisi ricevevamo 10 chiamate al giorno» ha raccontato uno psichiatra al quotidiano britannico. «Ora ci telefonano anche 100 persone in 24 ore». «La maggior parte è costituita da donne fra i 30 e i 50 anni e uomini fra i 40 e i 45, tutti afflitti da preoccupazioni economiche».
Di pari passo, i fondi destinati all’assistenza sociale vengono tagliati con l’accetta, complice anche l’enorme difficoltà del governo a ridurre l’evasione fiscale (fra il 2,5 e il 3 per cento del
Pil secondo il Financial Times). Nell’ultima visita ad Atene i rappresentanti della “troika” che sta tenedo in vita il Paese (Ue, Bce, Fmi) hanno chiesto risparmi per altri due
miliardi di euro, da realizzare entro fine marzo. L’ennesima manciata di sale sulle ferite di un Paese in recessione da quattro anni (-5,5 per cento atteso per il 2011), per cui si prevede un’ulteriore contrazione del 2,8 per cento nel 2012.
Dall’inizio della crisi, globalmente, il Pil greco ha perso il 15 per cento. Le rassicurazioni del portavoce della troika - «non siamo qui per punirvi» - sono state accolte con profondo scetticismo.
«La ricetta non funziona» spiega Deliolanes. «Gli stessi funzionari internazionali stanno manifestando i primi dubbi, ma continuano a imporre tagli e licenziamenti. L’ultima proposta è abbassare il salario minimo da 550 a 450 euro al mese. E’ assurdo, vogliono trasformare un Paese della zona euro nella Cina o nell’India».
Un sondaggio pubblicato ieri rende l’idea dello smarrimento dei cittadini. «Il bipolarismo è finito. Il Pasok oggi raccoglierebbe il 18 per cento, Néa Dimokratía il 25. L’astensione è al 40 per cento, mentre cresce a dismisura il voto di protesta al Partito comunista o ad altre formazioni minuscole di sinistra, che oggi supererebbero la soglia di sbarramento».
Regge solo il premier Papademos, che il 40% dei greci vorrebbe vedere candidato alle elezioni previste per l’inizio del 2012. «Un’ipotesi che spinge i partiti a boicottare la sua azione. Papademos, rispetto a Monti, ha un handicap significativo: il suo governo è formato praticamente dagli stessi uomini del gabinetto Papandreou, con in più quattro ministri di secondo piano di Néa Dimokratía e quattro di estrema destra. Cosa volete che possa combinare in un contesto del genere...».
Giuseppe Dell’Acqua è il direttore del Dipartimento di Salute mentale di Trieste e da quando ha assunto l’incarico si è trovato a combattere contro uno dei tassi di suicidio più elevati d’Italia. «Nel 1997 viaggiavamo su medie mitteleuropee» spiega al Riformista: 24 suicidi ogni 100mila abitanti, portati esattamente alla metà in poco più di dieci anni. Il Dipartimento triestino ha messo in atto una strategia di prevenzione a tutto campo, favorito in questo da una concezione estensiva della salute mentale, sviluppata a partire dagli
anni della riforma basagliana. «L’impennata del tasso in Grecia - prosegue Dell’Acqua - mi ricorda l’Europa orientale negli anni seguiti allo sfaldamento dell’Urss. Quando si parla di suicidio bisogna assolutamente evitare un’analisi di tipo causa-effetto unidirezionale, e fare un passo indietro per comprendere le ragioni più personali di ogni singolo caso. Ma è chiaro che le prospettive future - intese nell’accezione più ampia - giocano un ruolo determinante».

l’Unità 20.12.11
Bonino: basta con le barricate

«È un dibattito vecchio, questi problemi sono sul tavolo da un decennio. I radicali proposero un referendum sull’articolo 18, che fu perso perché Berlusconi disse che le riforme le avrebbe fatte lui e Cofferati diceva che violavamo i diritti umani. Sollevare ancora veti e barricate è un modo di fare già visto e che non paga», dice Emma Bonino.

l’Unità 20.12.11
«Un salto rispetto al passato: apriamo le porte ai giovani»
Il neo sottosegretario «Con questo governo non si parla più di tagli. Abbiamo già ripristinato i fondi per l’edilizia scolastica. Insegnare è esaltante»
di Ma. Ge.


Da maestro di strada Marco Rossi Doria, se ripensa al “suo” ingresso nella scuola, ancora oggi non trattiene l’entusiasmo: «È un mestiere bello, anzi direi esaltante, io ho iniziato a farlo che avevo ventun’anni...». Da neo-sottosegretario all’Istruzione però quando parla di ridare ai giovani la possibilità di diventare insegnati, misura parole e numeri. Sa cosa vuol dire, dopo tredici anni, tornare ad annunciare un concorso.
Quando sarà bandito?
«Attenzione: non siamo ancora a questo. Ma c’è uno studio intenso negli uffici del ministero per capire come applicare finalmente le normative esistenti. Metà dei docenti di cui la scuola avrà bisogno, come prevede la legge 124 del 1999, saranno reclutati attraverso le graduatorie permanenti, l’altrà metà, come prevede la legge del 244 del 2007, attraverso concorso. Così è stabilito dalle norme che già esistono. Da una parte ci sono le esigenze di fatto e di diritto di chi è già inserito in graduatoria, dall’altra però occorre anche rispondere all’esigenza di fare entrare nuove persone giovani nell’insegnamento».
Di quanti posti stiamo parlando? «Certo non abbiamo trecentomila cattedre da ricoprire come hanno scritto alcuni giornali. Ci sono quelle che si libereranno man mano che la gente andrà in pensione, tenendo conto che con le nuove norme anche gli insegnanti andranno in pensione più lentamente. Io, per esempio, ci dovevo andare nel 2013 e ci andrò invece nel 2019. Comunque dei posti si libereranno e si faranno ripartire i concorsi perché metà di quelle cattedre saranno assegnate per concorso. Questa è l’ipotesi di studio».
Si può fare almeno una stima?
«I numeri di quanti posti si libereranno nella scuola nei prossimi tre anni sono allo studio dei nostri tecnici. È un computo complesso. Dobbiamo recepire le nuove normative per la pensione, vedere quante sono le cattedre nelle diverse discipline e nei diversi segmenti del sistema scolastico. È un lavoro già in atto. Ma finché non sarà terminato non possiamo parlare di numeri. Tanto meno di 300mila cattedre a disposizione. Purtroppo saranno molte di meno».
Oggi il ministro parlava di 25mila l’anno. I sindacati temono che possano essere anche meno con le norme sulla pensione.
«Il lavoro che stiamo facendo è proprio di controllare quel numero. Posso però dire che se fosse 25mila, 12.500 insegnanti sarebbero presi dalle graduatorie permanenti e l’altra metà da nuovi concorsi. La modalità di questi concorsi e la loro durata non sono ancora stati decisi. Certamente c’è un problema e questo governo ha deciso di affrontarlo».
 Dopo 13 anni è un fatto epocale
«È una grande notizia. La terza in pochi giorni. La prima è che non si parla più di tagli per la scuola, per ora. La seconda è che sono stati dati dei soldi, 974milioni per l’edilizia scolastica, per le infrastrutture informatiche e per la lotta alla dispersione. La terza è questa del concorso per gli insegnanti».
Quanti saranno gli aspiranti?
«Su questo si sono cimentati in tanti. Io mi sottraggo. Che faccio vado in giro a chiedere ai giovani: vuoi fare l’insegnante? Lo troverei bizzarro».
I sindacati dicono che si rischia di dare loro false speranze.
«Io penso che il mondo della scuola che attende notizie dal ministero sia adulto: sa quante sono le complessità, come e quanto questo mondo è stato fermo e quanto ci vuole per rimetterlo in moto. Trattiamo tutti da adulti. Diciamo cosa vogliamo fare e in che direzione ci si sta muovendo. False illusioni questo governo non ne vuole dare». C’è il rischio che se i posti a disposizioni non saranno molti si generi un conflitto?
«Ripeto: abbiamo due esigenze da contemperare, salvaguardare le legittime aspettative di chi è precario e salvaguardare il principio che dei giovani e giovanissimi devono poter accedere a questo mestiere. Dobbiamo fare le due cose insieme. Molto spesso nella vita bisogna tenere insieme due principi e noi proveremo a farlo. L’esperienze e le nuove energie servono entrambe». Quelli che ce la faranno in che scuola si troveranno a insegnare?
«Si troveranno a insegnare in una scuola in trasformazione che ha nuove funzioni di guida rispetto ai giovani, dal momento che siamodentro una crisi che è anche crisi di modelli educativi. Guidare i giovani all’apprendimento e a misurarsi con se stessi e con il mondo in generale è un mestiere esaltante». Quando lei ha iniziato a insegnare si pensava che la scuola potesse cambiare i disequilibri sociali è ancora così?
«Certo che si può ancora pensare perché in tutto il mondo e anche in Italia l’istruzione, lo dicono i dati di Bankitalia, continua ad essere il principale fattore di contrasto delle diseguaglianze. Se riesci a scuola hai più possibilità di migliorare rispetto alla condizione di vita dei tuoi genitori».
Anche in questo Paese?
«Anche in questo Paese, anche in questo tempo».

l’Unità 20.12.11
Editoria, si aspetta l’esecutivo. A gennaio «sospesa» Liberazione
Attesa per gli interventi del ministro Fornero e del sottosegretario Malinconico al convegno Fnsi. «Liberazione» sospende le pubblicazioni, a rischio la «Padania». Contro le privatizzazioni edicole chiuse il 27, 28 e 29 dicembre.
di Roberto Monteforte


Il primo contratto collettivo nazionale, stipulato ben cento anni fa, era giornalistico. Un primato che hanno «festeggiato» con orgoglio la Federazione nazionale della Stampa italiana con il ministro del Welfare, Fornero e il sottosegretario alla presidenza con delega all’editoria, Carlo Malinconico. Ma l’occasione è resa meno festosa dai giornali che chiudono o che sono a rischio chiusura dopo i tagli ai contributi diretti. Non sono pochi i quotidiani e settimanali che rischiano di non vedere la riforma del settore annunciata da Malinconico, a partire da criteri più rigorosi per l’assegnazione dei contributi. Intanto la Mrc, società editrice di Liberazione, ha già annunciato di non farcela: visti i tagli e la difficoltà del rapporto con le banche dal 1 ̊ gennaio il quotidiano di Rifondazione comunista non sarà in edicola. «Sospensione cautelativa delle pubblicazioni»: questo è l’effetto «della cancellazione retroattiva del finanziamento pubblico per i giornali cooperativi, di idee e di partito decisa dal governo Berlusconi e confermata dal governo Monti». Un colpo durissimo per una redazione già provata da una pesante ristrutturazione: 23 esuberi di giornalisti su 30 e 14 esuberi di poligrafici su 20. Ora, sono a rischio 50 posti di lavoro.
Il governo, tramite il sottosegretario Malinconico, pare aver compreso l’urgenza degli interventi richiamata più volte anche dal direttore di Liberazione, Dino Greco. Ma occorre far presto.
A chi si applicheranno i criteri più rigorosi invocati dal Colle se le testate interessate rischiano di chiudere prima? Quando saranno stanziati i fondi? Con quali criteri verranno distribuiti? Tutto andrebbe definito entro febbraio. Ma le banche attenderanno?
«Vogliamo che sia chiaro a tutti che sono in campo da tempo diverse proposte alternative che permetterebbero di reperire le risorse necessarie senza gravare sui conti dello Stato» scrive la redazione riunita in assemblea permanente. Chiedono «scelte politiche chiare e operative per non consegnare tutta l'informazione nelle mani di pochi colossi editoriali, com'è successo per le televisioni». «L'appello del presidente Napolitano in difesa del pluralismo dell'informazioneaggiungono è ancora in attesa di una risposta».
Questo sarà un Natale amaro e pieno di incertezze anche per i lavoratori de La Padania, il giornale della Lega Nord. Ieri il Consiglio d’Amministrazione della avrebbe dovuto prendere delle decisioni importanti sul rilancio della testata che, con i conti in rosso, ha già attraversato uno stato di crisi. La redazione pare disponibile ad affrontare altri sacrifici pur di salvare tutti i posti di lavoro. La società Editoriale Nord, invece, potrebbe voler perseguire percorsi di tagli più traumatici. Molto dipenderà dalle certezze che il governo sarà in grado di fornire in queste ore al settore dell’editoria non profit, cooperativa, politica e di idee.
Vi è attesa per quanto diranno oggi all’iniziativa Fnsi il ministro Fornero e il sottosegretario Malinconico, soprattutto dopo le recenti dichiarazioni di quest’ultimo.
Attendono risposte non solo gli editori, i giornalisti e i poligrafici, ma anche gli edicolanti. Sono sul piede di guerra per l’annunciata privatizzazione dei punti di vendita. La protesta vede compatte le cinque sigle «sindacali» che rappresentano le imprese familiari, circa 50 mila lavoratori, che gestiscono la rete delle 33 mila edicole diffuse su tutto il territorio. Sottolineano come il loro sia un servizio pubblico reso alla collettività, a garanzia del pluralismo che non sarebbe assicurato da una distribuzione lasciata nelle mani dei grandi gruppi privati. Se le loro ragioni non saranno ascoltate dal governo, assicurano che le edicole resteranno chiuse il 27, 28 e 29 dicembre.

La Stampa 20.12.11
Maxi-tagli anche per i militari
Gli uomini in servizio passeranno da 190 a 150 mila: ma resta da primato il numero di alti ufficiali
di Francesco Grignetti


La sforbiciata Tremonti aveva deciso un taglio di due miliardi rispetto ai 14,3 miliardi stanziati nel 2011
Marina In totale sono 34.000 uomini: gli ufficiali sono 4.500, i sottufficiali 13.576 (di cui 2.178 primi marescialli, 5.774 marescialli e 5.624 sergenti) mentre la truppa dei volontari conta 10.000 militari in servizio permanente e 4.971 militari in ferma prefissata
La fotografia della Forze armate oggi Aeronautica In totale sono 44.000 uomini: gli ufficiali sono 5.700, i sottufficiali 26.280 (di cui 3.000 primi marescialli, 6.480 marescialli e 16.800 sergenti) mentre la truppa dei volontari conta 7.049 militari in servizio permanente e 4.971 militari in ferma prefissata
Esercito In totale sono 112.000 uomini: gli ufficiali sono 12.050, i sottufficiali 24.091 (di cui 2.400 primi marescialli, 5.583 marescialli e 16.108 sergenti) mentre la truppa dei volontari conta 56.281 militari in servizio permanente e 19.578 militari in ferma prefissata

Altro che sforbiciare, alla Difesa è con la scure che il nuovo ministro sarà costretto a intervenire. Forse non si giungerà ai livelli britannici dove si taglieranno 700 posti di altissimi ufficiali, ma intanto dai 14,3 miliardi di euro che le tre forze armate avevano a disposizione nel 2011 (senza considerare i 5,7 miliardi destinati ai carabinieri) Tremonti aveva stabilito un taglio brusco di quasi 2 miliardi. E quindi il ministro-ammiraglio Giampaolo Di Paola da settimane avverte: «Sarà un ridimensionamento molto significativo e consistente, in uomini e in prospettive. Toccheremo tutte le componenti dello strumento militare». Verranno ridotte le spese per nuovi armamenti, saranno chiuse caserme, sciolti reparti, razionalizzate le spese, rafforzate le strutture interforze.
Negli ultimi anni a pagare le ristrettezze economiche della Difesa erano stati solo i più giovani, così sono sempre meno i ventenni arruolati con la ferma a tempo e i trentenni nel servizio permanente. Il risultato è che il corpaccione della Difesa - dove c’è una pianta organica di 190 mila persone - in proporzione si è appesantito di ufficiali e sottufficiali, per di più in età matura, ed è diventato patologico il numero dei generali: 425 quelli italiani a fronte di 900 americani (che però guidano un esercito da 1 milione e 400 mila soldati).
I ranghi militari sono zeppi anche di sottufficiali, antica eredità di quando le forze armate erano costruite sulla leva e su una massa di 400 mila soldati di truppa. Si calcola che ce ne siano almeno ventimila in più rispetto alle esigenze. Per questi ultimi, ufficiali e sottufficiali in esubero, Di Paola accarezza il progetto della mobilità nell’ambito dello Stato. «La componente uomini va trattata con rispetto», premette il ministro, che però conferma di pensare a «esodi del personale verso altre strutture» oltre naturalmente al «deflusso naturale legato all’età».
Di Paola intende procedere nonostante le prevedibili resistenze. Se non lo facesse, la spesa della Difesa sarebbe assorbita in misura grottesca dagli stipendi. E sembra di risentire le intemerate dell’ex ministro Maria Stella Gelmini, quando afferma: «Quello che ci sarà dopo le riduzioni, dovrà essere efficace per la sicurezza dell’Italia. Se non si troverà questo nuovo equilibrio, le tasse pagate dagli italiani sarebbero inutili. Diventeremmo un ammortizzatore sociale».
Lo sforzo di Di Paola sarà un ridisegno complessivo delle forze armate: «Occorre un bilanciamento delle risorse tra il personale, gli impegni operativi e il necessario rinnovamento». Ciò significa che da un modello a 190 mila soldati si potrebbe attestare a un altro da 150 mila. Ovviamente anche gli investimenti in armamenti andranno attagliati al nuovo livello. E così le spese in infrastrutture. Una sola priorità non potrà essere intaccata: le forze operative, specie quelle in grado di essere proiettate all’estero. «Continueremo con l’operatività negli impegni internazionali che il Paese ha assunto: Afghanistan, Libano, dove a fine gennaio l’Italia su richiesta dell’Onu assumerà il comando di Unifil, ed il Kosovo, dove la situazione è meno brillante di quanto si pensava». Dall’Iraq, invece, gli ultimi 70 italiani vanno via oggi. «Siamo lì con la Nato - dice ancora Di Paola - e l’Alleanza ha deciso la conclusione della missione il 31 dicembre prossimo: vale quindi anche per l’Italia».

Repubblica 20.12.11
Via al controllo dei conti correnti ecco il maxi-computer del Fisco che elabora 22mila dati al secondo
Stop al segreto bancario, scattano le nuove verifiche


Come funziona il "cervellone" della Sogei che attraverso duemila server attua le nuove norme della manovra
Faro su dichiarazioni dei redditi, patrimoni immobiliari, utenze di luce e gas, movimenti in banca

ROMA - Scontro sempre più duro sull´articolo 18 tra il ministro del Welfare e i sindacati. «Sono preoccupata», ha affermato la Fornero. Secca la replica: «Sia più accorta». Il governo setaccerà i conti correnti per stanare gli evasori fiscali. I sindaci della Lega: «Non pagheremo l´Imu».
E a rastrellare questi dati per mettere nel mirino chi muove milioni senza dichiarare un centesimo sarà Serpico. Non Frank, l´inflessibile super-poliziotto newyorchese reso immortale da Al Pacino, ma il maxi-cervellone da un milione di miliardi di byte di memoria che ronza 24 ore su 24 nei sotterranei romani della Sogei.
È lui – il Grande fratello dell´Agenzia delle entrate – il jolly del Belpaese per far fare il salto di qualità alla lotta ai furbetti del fisco. Duemila server stipati in meno di duemila metri quadri che conoscono al centesimo tutti i nostri segreti finanziari. Un super-eroe con il cervello di silicio cui è affidata un missione fondamentale per salvare le casse tricolori: quella d´acchiappa-evasori. Obiettivo: utilizzare le 22.200 informazioni al secondo che transitano dai suoi processori per stanare gli italiani che ogni anno sottraggono all´erario qualcosa come 120 miliardi (3mila euro a contribuente), una cifra che da sola basterebbe a pagare gli interessi su tutto il nostro debito pubblico.
Il curriculum vitae di Serpico – acronimo di Servizi per i contribuenti – è già più che onorevole: da cinque anni a questa parte ha dato un contributo sostanziale per raddoppiare da 5 a 11 miliardi le cifre recuperate dall´Erario e smascherare 350mila evasori totali. Ecco come funzionerà l´acchiappa-evasori della Laurentina quando da Capodanno avrà a disposizione il suo nuovo arsenale di dati.
Un tesoro in byte. Visto così, alla prima schermata, Serpico pare una creatura innocua. Qualche campo da riempire, sfondo turchese e due caselle chiave: codice fiscale o partita Iva. Basta digitare uno dei due valori però, e il Grande Fratello del fisco mostra subito i muscoli. La seconda videata è solo l´antipasto. Nome e cognome del contribuente, più le sue ultime cinque dichiarazioni dei redditi. Un "invio" e si va oltre. Scavando in pochi millesimi di secondo tra tutte le banche dati collegate online con l´Einstein della Sogei (catasto, demanio, motorizzazione, Inps, Inail, dogane, registri) il pc alza il tiro: sul megaschermo appaiono le auto intestate, le case, i terreni, eventuali aerei e barche. Un altro invio, la schermata vira in blu, e il servizio è completo. Serpico ha scovato tutte le nostre utenze (luce, gas, acqua) le spese voluttuarie più alte e significative, le polizze assicurative, le operazioni per cui ci è stato chiesto il codice fiscale, persino le iscrizioni in palestra o allo Yacht club Costa Smeralda. La quinta schermata, il bazooka come lo chiamano in Sogei, è figlia del Salva Italia ed è in fase di preparazione. Fotografati i redditi dalla dichiarazione, censiti i principali beni immobiliari, l´occhio del cervellone fotograferà i soldi che teniamo in banca, i movimenti dei nostri conti correnti e le operazioni sopra i mille euro. Le banche e gli intermediari finanziari manderanno una nota periodica e lui elaborerà per segnalare le eventuali anomalie. Una rivoluzione visto che il controllo dei conti correnti era consentito fino ad oggi solo se sul singolo contribuente era già in corso un controllo.
Il faro sui sospetti. Nessun essere umano, naturalmente, è in grado di gestire la valanga di dati che piove ogni giorno nel sotterraneo a due passi dalla Laurentina. Serpico macina quasi 31 milioni di dichiarazioni dei redditi, poco meno di 5 di comunicazioni Iva e quasi un centinaio di migliaia di pagamenti telematici all´anno. L´Agenzia delle Entrate imposta gli algoritmi applicativi per concentrare la ricerca sulle categorie più a rischio. L´anno scorso è toccato alle finte Onlus e al redditometro, la spia che segnala la disponibilità di beni sproporzionati al reddito percepito. Il lavoro sporco lo fanno i duemila server (che hanno un po´ di gemelli in Abruzzo per salvare il data-base in caso di problemi): incrociano i dati, verificano le anomalie. E quando individuano il sospetto mandano in automatico un "alert" informatico alla direzione dell´agenzia delle entrate e alla sede provinciale del caso individuato. Con un "bip" del computer il super-ispettore ha già scovato 518 proprietari di aerei e 42mila titolari di barche più lunghe di 10 metri che dichiarano meno di 20mila euro. Tutti finiti ora sotto accertamento. Il Salva-Italia, ovviamente, moltiplica la sua efficacia. Non tanto sul fronte del numero dei contribuenti passati ai raggi X, quanto rendendo più semplice isolare i casi a rischio evasione grazie alla fotografia in tempo reale dei loro conti correnti, delle loro spese e del loro patrimonio mobiliare.
La palla agli ispettori. La verà novità della manovra, dicono in camera caritatis tutti i super-esperti di fisco, è proprio qui. Nessuno andrà a ficcare il naso nelle tasche dei contribuenti fedeli, ma gli algoritmi di analisi di rischio di Serpico selezioneranno un elenco di presunti colpevoli (si spera) a basso tasso d´errore. Le vecchie lettere del redditometro di qualche anno fa, per dire, avevano incastrato solo 12mila evasori su 75mila cartelle erariali inviate. Le cose già ora sono migliorate (su 30mila accertamenti con il redditometro nel 2010 ben 12mila si sono conclusi con un patteggiamento dell´interessato). Gli "alert" informatici usciti dai sotterranei della Sogei, dopo l´era delle cartelle pazze, dovrebbero partorire quella delle cartelle intelligenti. E il lavoro dei 15mila ispettori delle Entrate e della Finanza – che nel 2010 ha scovato un evasore all´ora contro uno ogni 71 minuti del 2009 – dovrebbe essere molto più semplice. mirato ed efficace.
Lo stesso discorso vale per Gerico, il software con cui autonomi e partite Iva calcolano la congruità dei loro redditi con gli studi di settore (la media per la loro categoria d´attività). Il timore che l´occhio lungo del fisco possa scoprire dai sotterranei della capitale i capitali evasi potrebbe convincere molti ad aumentare il tasso di fedeltà al fisco. Anche perchè il Salva-Italia ha introdotto norme che premiano le dichiarazioni più realiste inasprendo le pene (indagini finanziarie più sanzioni penali) per chi dichiara il falso. E con sul collo il fiato di Serpico – così spera Monti e tutto il paese – non saranno in molti quelli che oseranno sfidare la sorte.

l’Unità 20.12.11
Il soggetto coalizione evapora, restano i partiti
di Michele Prospero


Vent’anni fa il sistema politico si ritrovò senza partiti e assunse il maggioritario come una ideologia, nel senso di una falsa coscienza che deformava la esatta comprensione dei processi e creava aspettative del tutto illusorie. Senza valutare le proprie forze (come si fa in politica, per non ricevere schiaffoni), il Pds annusò il maggioritario come la nuova terra promessa. Con appena il 16 per cento dei voti riportati nel 1992, la Quercia scrutava Westminster come il suo nuovo sol dell’avvenire.
Il calcolo politico rimase offuscato da uno spirito visionario. Abbagliato dalle elezioni amministrative del 1993, che lesse alla luce del secondo turno e non invece, come sarebbe stato assai più istruttivo, in considerazione del primo turno (Msi in testa a Roma, Napoli), il Pds confidò in uno scenario ormai favorevole. Berlusconi non c’era ancora ma nitidi erano i segnali di uno scivolamento verso destra dei moderati. Il disegno strategico era del tutto strabico e presumeva che la giocosa macchina da guerra avrebbe vinto contro un centro ormai andato in fumo, i cascami di una destra concentrata solo nel Meridione, una gazzarra leghista confinata nel Nord.
Il Pds pensava, per le prime elezioni del 1994, ad una battaglia riservata a ben 4 protagonisti distinti. Occhetto aveva l’ideologia del maggioritario, Berlusconi invece la furbizia tattica del disperato e azzeccò la mossa giusta. Egli fece da cerniera tra due forze non coalizzabili, la Lega che invocava la lotta contro la porcilaia fascista e il Msi che sventolava il tricolore contro il sedizioso esercito padano. Il cavaliere vinse con la sua coalizione massima vincente ma dopo sette mesi saltò tutto. Emergeva la capacità evocativa dell’inizio. E per vent’anni questa consuetudine (vincere per non governare) è diventata la regola (dis)funzionale del sistema, fino al suo epilogo.
Ora che il congegno bipolare è imploso, e restano partiti senza sistema, occorre archiviare una fase fallimentare e progettare con realismo (non come nel 1993) un diverso approdo. L’ingrediente principale di una nuova legge elettorale è una corretta analisi politica. Al centro di essa deve esserci la consapevolezza storica che l’evanescente soggetto coalizione è per sempre evaporato, e non rimane allora che lavorare sui partiti come assi ricostruttivi di un quadro politico diverso. Non serve più un bipolarismo meccanico, che si è rivelato un momento di degenerazione. Rimane un bipolarismo politico che non poggi però sui pungoli costrittivi della tecnica elettorale. Accanto a due grandi partiti vicini al 30 per cento, possono trovare spazio altre sensibilità politico-culturali, nel solco della tradizione plurale della società italiana.
Un bipolarismo maturo non regge però senza un elevato senso di responsabilità. La prima metaregola è che il pluripartitismo moderato non può alterare il sommo principio per cui al partito più grande (in caso di coalizione) spetta la leadership. Non sono ammissibili giochetti che minano il rendimento del sistema. L’esperienza del governo tecnico potrebbe fornire quel reciproco riconoscimento che avvicini alla Germania, dove nessuno si sogna di contendere ai due più grandi partiti la poltrona di cancelliere. Quando il voto non dà vincitori, i due partiti non esitano ad allestire una grossa coalizione. Anche per questo nessun partito intermedio coltiva indebiti sogni di grandezza facendo leva sulla centralità sistemica.
Non devono però sfuggire i segni di sofferenza della proporzionale personalizzata vigente in Germania. Il meccanismo della doppia scheda (una per il partito nel collegio uninominale e l’altra per la lista di partito) ha funzionato egregiamente (con governi più stabili di quelli inglesi, grazie alla sfiducia costruttiva) fino a quando esisteva un sistema a 3 e poi 4 partiti. Ora che un quinto soggetto supera la soglia del 5 per cento si aprono delle incognite nella conduzione del sistema.
Un adattamento utile per l’Italia potrebbe prevedere un ampliamento al 60 per cento dei collegi uninominali. Ci sono però anche altre opzioni. Non tanto alla Spagna occorre guardare (dove il ritaglio delle minuscole circoscrizioni favorisce un bipartitismo di fatto che in Italia cucirebbe una camicia su misura della destra, per via del forte insediamento territoriale della Lega e della completa cancellazione delle forze intermedie di centro e di sinistra) ma alla Grecia. La proporzionale, con diverse soglie a crescere nella ripartizione dei seggi, agevola una aggregazione attorno ai due partiti maggiori, senza però palesare le distorsioni territoriali e la sottorappresentazione dei partiti satelliti. Le varianti tecniche sono sempre molteplici. L’importante è mantenere diritta la barra del disegno sistemico: due grandi partiti con altre forze rappresentate ma riconciliate con l’aureo canone che i voti si contano e non si pesano.

l’Unità 20.12.11
Lotta alla corruzione
Pulizia morale: la cura che serve all’Italia
di Nicola Tranfaglia


Chiunque abbia la fortuna di vivere nel nostro straordinario paese, ricco di bellezze naturali, oltre che di numerosissimi monumenti che la storia ci ha lasciato, accetta con difficoltà il giudizio categorico dell’Agenzia Trasparency International che pone l’Italia al sessantanovesimo posto per il livello di corruzione che la caratterizza da un tempo non precisato. Eppure, di fronte a quello che è successo negli ultimi secoli e decenni della nostra storia non c’è tanto da meravigliarsi. Stiamo vivendo in quella che molti chiamano la terza repubblica dopo la costituzione del 1948 e che chi scrive, da storico, definisce soltanto il sessantacinquesimo anno della repubblica che si è affermata con il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 dopo un’aspra resistenza armata che vide contrapposte la Repubblica Sociale Italiana, alleata con Hitler, e le zone libere del paese, governate dalle truppe angloamericane e percorse sulle montagne e sulle colline dai partigiani scesi a combattere contro i nazionalsocialisti tedeschi e i fascisti di Salò.Il presidente, Giorgio Napolitano, ha dovuto di necessità chiamare al governo per un tempo che è difficile misurare per ora (ma che sarà in ogni caso non molto lungo) un gruppo di professori e di tecnici che hanno incominciato ad affrontare i problemi più urgenti, e prima di tutto la grave crisi economica che ha investito l’Europa e l’Occidente, e l’Italia in modo particolare, dopo i danni spaventosi che il trionfo dei populismi ha generato negli ultimi quindici anni. Quel trionfo ha portato al potere fin dagli anni novanta un imprenditore come Silvio Berlusconi noto non soltanto in Italia per i suoi trascorsi discutibili come venditore spregiudicato di palazzi e gestore disinvolto di canali televisivi, amico di personaggi condannati ripetutamente per vicinanza ad associazioni mafiose, come il senatore Salvatore Cuffaro e l’organizzatore iniziale di Forza Italia, anche lui senatore, Marcello Dell’Utri. Di fronte alla prima, sorprendente vittoria del 1994 le forze politiche che si sono opposte al leader populista non sono state sempre unite e decise ad opporre a Berlusconi una chiara visione alternativa per una società moderna e fedele ai principi fondamentali della costituzione repubblicana né abbastanza rigorose nella scelta delle donne e degli uomini in grado di liberare il nostro paese dai mali più antichi: la corruzione pubblica e privata innanzitutto ma anche il clientelismo e il trasformismo di cui anche negli ultimi anni abbiamo visto esempi clamorosi. Ora non c’è più tempo da perdere. Usciremo dalla crisi e potremo ricostruire il paese soltanto se sapremo opporre al berlusconismo, ormai in crisi mortale, una volontà di ferro e la pulizia morale di cui gli italiani sentono sempre più bisogno.

l’Unità 20.12.11
L’anniversario
Quel grido di dignità lanciato da Piergiorgio
di Mina Schett e Maria Antonietta Farina


Ci sono momenti, gesti, che raccontano più e meglio di qualsiasi discorso. Per esempio, l’ultimo quadro di Piergiorgio Welby: una donna. È una donna coi capelli biondi, gli occhi chiusi, la guancia è appoggiata alle mani giunte. È un quadro dipinto nel 1998, vi si coglie tutto l’amore che Piergiorgio nutriva per la vita, l’amore, le cose belle. Poco dopo sarebbe andato «altrove», come desiderava e voleva: perché lui che aveva tanto amato la vita, non ce la faceva più. La speranza, si dice, è l’ultima a morire; per lui, morire era diventata l’ultima speranza.
Piergiorgio ci ha lasciato cinque anni fa, dopo aver lottato, con tutte le sue forze per il diritto a una vita che fosse degna di chiamarsi tale; e per il diritto di morire altrettanto dignitosamente, a non soffrire quando questa sofferenza è atroce, senza scopo.
Aveva scritto, Piergiorgio, una bella lettera al presidente della Repubblica Napolitano. «Il mio sogno, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede... è ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi».
Il presidente rispose. La risposta di un laico che sa cos’è la misericordia, che non giudica e cerca di comprendere. Il presidente si augurava che il messaggio di «tragica sofferenza» di Piergiorgio rappresentasse «occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito... Il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento». Ma è quello che è avvenuto.
Prima di Piergiorgio, a colpire l’opinione pubblica, a scuoterne le coscienze, la vicenda di Luca Coscioni; abbiamo avuto poi altri casi: Monicelli, il grande regista, che sceglie di sfracellarsi e porre fine alle sue sofferenze; e recentemente Lucio Magri, per porre fine alla sua sofferenza è dovuto «emigrare» in Svizzera. In comune queste storie hanno l’averci fatto riflettere, averci fatto toccare con mano una realtà che esiste, quotidiana; e che pure si nega, si occulta. In comune queste storie ma di quante altre, di persone comuni, che non fanno «notizia», veniamo a conoscenza con l’associazione Luca Coscioni! hanno il fatto che i loro protagonisti rivendicano dignità: della vita e della morte; non vanno giudicati, ma vanno rispettati.
Noi sentiamo il dovere, di lottare perché questo diritto, questa facoltà siano rispettate; e perché chi soffre e non vuole esercitare quel diritto e quella facoltà sia nella condizione di poterlo fare. Per anni, colpevolmente, chi soffre per gravi malattie neurodegenerative e le loro famiglie sono state abbandonate a loro stessi; il precedente governo non ha voluto, nonostante le tante assicurazioni, procedere all’indispensabile aggiornamento del nomenclatore e dei Livelli Essenziali di Assistenza. Ora le cose, finalmente, sembrano essere cambiate. Il Governo Monti ha accolto un ordine del giorno radicale in questo senso, assicurando che in tempi rapidi si farà quello che non è stato fatto finora. Anche questa è stata una battaglia di Luca e di Piergiorgio, ed è una conquista che in loro nome va intitolata.

Repubblica 20.12.11
Il capitano Welby
di Alessandra Longo


Cinque anni fa moriva, aiutato da un medico, Piergiorgio Welby. In una lettera-appello, aveva chiesto a Napolitano di poter «staccare la spina» e porre fine ad una sofferenza senza orizzonti di recupero. Gli italiani furono costretti a confrontarsi seriamente con questioni come la morte e la vita. Il caso Welby, per alcune settimane, fu ospitato nei titoli di testa del Tg1 di allora (non a guida Minzolini). Welby vinse la sua battaglia per il diritto «ad una morte opportuna». Gli negarono i funerali religiosi. In 5 anni non è cambiato nulla, una legge sul biotestamento ancora non c´è. Per ricordare «Il Capitano», le associazioni radicali Piero Welby e Luca Coscioni presenteranno oggi, nella sala stampa della Camera dei Deputati, il progetto artistico «Ora sulla mia vita decido io».

Repubblica 20.12.11
Fine vita, la scelta e la legge
risponde Corrado Augias


Caro Augias, oggi ricorre il quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby. Malgrado il suo auspicio, fatto proprio dal presidente Napolitano, un dibattito serio tra le forze politiche e nelle sedi istituzionali sul tema della eutanasia non è mai neanche iniziato. L'unico "frutto", avvelenato dall'integralismo cattolico, di questi anni e delle dolorose vicende (Nuvoli ed Englaro in primis ) che hanno fatto seguito a quella di Welby, è la legge inumana e incostituzionale sul testamento biologico. Il Parlamento continua ad ignorare il fenomeno estesissimo della eutanasia clandestina (si fa ma non si dice), così come i suicidi e i tentati suicidi di malati terminali (oltre 2 mila l'anno, ci informa l'Istat, il doppio dei morti sul lavoro): se non quando le vittime sono persone famose come Monicelli o Magri. Nel caso di quest'ultimo, i giornali hanno rivelato agli italiani che le nostre pessime leggi , dopo il turismo dei divorzi brevi e quello della fecondazione assistita, stanno incrementando anche il "turismo eutanasico" verso la Svizzera.
Carlo Troilo - Roma

Ipocrisia, scrive il signor Troilo. Sì, certo, ipocrisia. Ma ci si può chiedere non senza ragione se in un paese come il nostro, dove le posizioni libertarie sono sempre state difficili e di minoranza, non sia da preferire l'ipocrisia del "si fa ma non si dice" al tentativo di fare una legge destinata a diventare una mostruosità umana come per la procreazione assistita e il testamento biologico. Si tratta di temi sui quali ogni serena discussione è resa ardua da chi non accetta mediazione alcuna su principi che considera "non negoziabili". Allora meglio niente. Il tema della fine vita è delicatissimo e, forse, nella situazione data, una decisione caso per caso sarebbe da preferire anche a prescindere dall'ipocrisia. Decisione da parte di chi? Dell'interessato in primo luogo, se possibile, dei suoi familiari, del medico curante. Decidere su che cosa? La casistica è ampia. Piergiorgio Welby chiedeva solo che si mettesse fine ad un'esistenza "vegetale" per lui insopportabile. Lucio Magri è andato in Svizzera per essere accompagnato alla morte con dignità e senza dolore. Entrambi i casi sono condivisibili. Diversa invece l'ipotesi dell'eutanasia vera e propria ovvero se io chiedessi a un medico di iniettarmi un liquido letale come dovetti fare anni fa per un cane molto malato senza speranza. Il mio suicidio riguarda solo me, è l'esercizio estremo della mia libertà sulla mia carcassa. Il coinvolgimento di un terzo, come sostiene giustamente Gustavo Zagrebelsky, trasforma il gesto d'un individuo in un fatto sociale, quindi meritevole di attenzione giuridica. Così in ogni caso si dovrebbe discutere la materia, con laica ragionevolezza, civile attenzione, senza dogmi, senza anatemi.

il Riformista 20.12.11
Cinque anni fa moriva Welby. E con lui la politica
Inutile cercare il colpevole del decesso dei partiti: è un chiaro esempio di eutanasia
di Alessandro Calvi


Cinque anni fa moriva Piergiorgio Welby. E con lui moriva la politica: rinchiusa in un Palazzo che rassomiglia sempre più a una cripta invece che a una agorà, è rimasta nuda di fronte alla propria incapacità di dare risposte alla società. Era la notte tra il 20 e il 21 dicembre del 2006 quando a Welby fu staccato il respiratore. Fu, quella, la prima di una lunga serie di sconfitte per il Parlamento.
Era il 2006, appunto. Sono cambiate molte cose da allora, è cambiata la stessa geografia politica; ciò che non è cambiato, però, è la sostanza. Il traccheggiare incerto del Parlamento attorno ai temi più delicati, come la bioetica, lo testimonia. All’epoca, in commissione Sanità al Senato andava in scena uno spettacolo che avrebbe dovuto mettere in guardia su cosa sarebbe stato il futuro Pd. Ds e Margherita si facevano la guerra sul testamento biologico, e avrebbero continuato così ancora per mesi. Avevano la maggioranza, erano alleati, ma di quella legge non se ne fece nulla. Poi, fu anche peggio. E dire che gli inviti alla serietà non erano mancati. Tra tutti, quello di Giorgio Napolitano al quale Welby aveva scritto invocando una vita dignitosa. «Io amo la vita», scrise; e spiegò: «Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti». Napolitano raccolse il messaggio. «Esso scrisse il Presidente della Repubblica può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confrontosensibileeapprofondito,qualunquepossaessereindefinitivalaconclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perchè il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento». Poche settimane dopo, Welby morì.
La sera del 20 dicembre prima di cena diede ancora un’ultima occhiata alla posta elettronica. Poi, un disco di Bob Dylan. «Lui era sereno», raccontò su queste pagine sua moglie, Mina. «Se ne è andato così. Io gli tenevo la mano, gli sono stata accanto fino all’ultimo battito. Fu sedato e contemporaneamente staccato dal respiratore mentre già andava addormentandosi. Poco prima gli avevo chiesto se era proprio sicuro. Lui disse soltanto: sì». Amava la vita, Welby, ma era consapevole della propria condizione. Inchiodato in un letto, imprigionato nel suo corpo dalla distrofia muscolare progressiva, ormai respirava soltanto perché era attaccato a un respiratore. E non poteva più muoversi. Non c’era speranza di migliorare. Porre fine a quella condizione dolorosa era una possibilità dignitosa. Fu la sua scelta. Era parte di una battaglia politica. La politica, però, tradì quella battaglia e le speranze di Napolitano. Gli anni successivi non furono neppure gli anni del silenzio: furono quelli della elusione. In quella legislatura non se ne fece nulla del testamento biologico. Poi, fu anche peggio.
Nacque il Pd; e poi il Pdl. E morì Eluana Englaro. E la politica morì una volta ancora. Il corpo dei malati divenne terreno sul quale i partiti presenti in Parlamento misurarono tattiche di piccolo cabotaggio. Le Camere, poi, diedero vita a una corsa contro il tempo e contro il corpo di quella donna già morta da anni e che era ormai soltanto un simulacro della vita che fu. Inutili gli appelli del padre Beppino.Ad ascoltarlo furono soltanto i giudici, i quali applicano la legge. La politica, allora, si scatenò su quel fronte. Il Parlamento, su iniziativa del Pdl, trascinò la Cassazione in un rovinoso conflitto tra poteri dello Stato di fronte alla Corte Costituzionale, nell’arrogante pretesa di impedire ai giudici di applicare la legge, considerando ciò una invasione di campo seppure, allo stesso tempo, continuava a non decidere nulla. Alla fine, rimediò uno schiaffò dalla Consulta.
La smorfia di quel senatore del Pdl che, la sera che arrivò la notizia della morte di Eluana, concluse il suo intervento in aula con un gesto di stizza, non si può dimenticare: era il volto rabbioso della sconfitta. E sembrava contenere una minaccia. Era il 9 febbraio del 2009. Sono passati anni, ma neppure quella minaccia il Parlamento è riuscito a mettere in pratica; soltanto il tentativo di approvare una legge discutibile che fa la spola tra Camera e Senato. «Ma io dice oggi Mina Welby spero che questa legge rimanga nei cassetti e che ne venga proposta una come si deve». Nel frattempo la politica si è dissolta, sostituita dai tecnici. Ma è inutile cercare il colpevole della sua morte: non è omicidio, è un chiaro caso di eutanasia.

Repubblica 20.12.11
L’ammainabandiera (dell’Urss) /1
Il giorno in cui finì l’Unione Sovietica
di Enrico Franceschini


La Piazza Rossa vuota e silenziosa. Al Cremlino aria di smobilitazione. Era l´epilogo di un dramma durato sessant´anni: stava cadendo l´Urss Ma la gente aveva cose più importanti a cui pensare: per esempio, come sfamarsi
Il Paese era allo sbando dopo anni di rivolte culminate nel fallito golpe d´agosto
La svolta fu decisa con un brindisi a base di vodka dai leader delle tre repubbliche slave

La Piazza Rossa era bianca di neve, vuota, silenziosa. Il giorno prima il resto d´Europa aveva celebrato il Natale cristiano; ma a Mosca, quel 25 dicembre 1991, era andato in scena l´epilogo di un dramma durato settant´anni: la fine dell´Unione Sovietica. Sul pennone del Cremlino, verso sera, era scesa la bandiera rossa con falce e martello, sostituita da quella bianca, rossa e blu della Russia; quasi nello stesso momento Mikhail Gorbaciov aveva rassegnato le dimissioni da presidente dell´Urss con un breve discorso trasmesso in tivù. Nelle strade della capitale non si avvertivano né gioia né dolore: indifferenza, piuttosto. La gente aveva cose più importanti a cui pensare: come sfamarsi, per esempio.
Soltanto due quotidiani russi ripresero per intero il discorso delle dimissioni. La televisione l´aveva mandato in onda senza commenti.
E non ci fu niente di solenne nell´ammainabandiera: nessuno spettatore, nessuna colonna sonora, funerea o trionfale. Avvenne quasi in sordina, di nascosto, sebbene quell´atto meccanico avesse fatto calare il sipario su gran parte del ventesimo secolo. La rivoluzione del 1917, la guerra civile tra bianchi e rossi, la vittoria sul nazismo, il progresso dall´aratro all´atomica, il primo uomo nello spazio, l´arcipelago Gulag, i carrarmati a Budapest e a Praga, il muro di Berlino, l´Afghanistan: tutto spazzato via da una bandiera che scende dal pennone. Piangevano solo, davanti al teatro Bolscioj, i vecchi veterani dell´Armata Rossa, con le medaglie sulla giacca: gli altri, favorevoli o contrari, erano occupati a tirare avanti o a pianificare vendette, ruberie, rese dei conti. Un assaggio di quello che sarebbe seguito nei vent´anni seguenti.
C´era aria di smobilitazione, la mattina del 26 dicembre, al Cremlino. Entrando insieme alla mia collega di Repubblica Fiammetta Cucurnia, non incontrammo un´anima nei cortili dell´ex-reggia zarista. Dentro, corridoi deserti: niente guardie del corpo, scomparse le segretarie. Soltanto Andrej Graciov, il fido consigliere del presidente, era rimasto al suo posto. «Resterò qui ancora un paio di giorni, il 29 dicembre la Russia prenderà possesso del mio ufficio», disse Gorbaciov, accogliendoci nel suo ampio studio al terzo piano dell´ex-reggia zarista, senza nominare per nome il suo rivale, il presidente russo Boris Eltsin, colui che gli aveva dato la spinta finale per farlo cadere. Alle sue spalle, una scrivania ingombra di telefoni bianchi, che non squillarono una sola volta durante il colloquio; in un angolo il vessillo dell´Urss, che lui non aveva ancora ammainato. Lo zar detronizzato sembrava sorprendentemente tranquillo. E dire che Eltsin, come avremmo scoperto più tardi, proprio quella mattina gli aveva praticamente strappato di mano la valigetta con i codici per lanciare un attacco nucleare, ultimo simulacro del potere: per quanto superpotenza decaduta, l´Urss era pur sempre il solo paese al mondo in grado di annientare gli Stati Uniti con un attacco militare.
Aveva avuto un paio di settimane per abituarsi all´idea di perdere il comando della nazione più grande della terra, ormai allo sbando dopo anni di caos, penurie, rivolte, culminate nel fallito golpe di Pcus-Kgb-Armata Rossa nell´agosto di quell´anno. Il 7 dicembre Eltsin aveva incontrato il presidente dell´Ucraina, Leonid Kravcjuk, e quello della Bielorussa, Stanislav Shuskevic, in una dacia dove un tempo andava a caccia Breznev. Baltici, azeri, georgiani, armeni e i khanati dell´Asia Centrale avevano già proclamato l´indipendenza. Restava alle tre repubbliche slave fondatrici dell´Urss decidere che fare. Eltsin esibì un vago progetto di Gorbaciov per rifondare l´unione con un nuovo trattato. Nessuno dei tre lo firmò. Brindarono con vodka alla decisione che l´Urss cessava «di esistere come soggetto di legge internazionale», poi andarono a smaltire la sbornia alla sauna. Evgenija Patechuk, una segretaria, scrisse a macchina il comunicato: in seguito, nella sua città, la ribattezzarono «colei che distrusse l´Unione Sovietica». L´8 dicembre Eltsin telefonò la notizia al presidente americano Bush, lasciando al suo partner Shuskevic il compito di informare successivamente Gorbaciov: «E a me cosa succederà?», fu la sua sbalordita reazione.
Andai spesso al Cremlino, in quei giorni, per incontrare Graciov e negoziare con lui la possibilità di un´intervista: il testamento politico di Gorbaciov. Il consigliere tergiversava. Passai il Natale chiuso in casa a telefonargli e finalmente nel tardo pomeriggio rispose, fissando l´intervista per il mattino dopo. Ex-presidente da poche ore, Gorbaciov apparve rilassato, come qualcuno che si è tolto un peso dalle spalle, pur esprimendo timori ed amarezza per il suo fallito progetto di democratizzare il comunismo. Alla fine, quando eravamo già in piedi e posammo con lui per una foto ricordo davanti alla bandiera dell´Urss, ricordò la vacanza fatta tanti anni prima in Italia, nel ´71, con la moglie Raissa, quando era ancora uno sconosciuto, un segretario regionale del Pcus alla scoperta dell´Occidente. L´estate precedente avevo visitato Privolnoe, il villaggio di poche centinaia di abitanti nel sud della Russia dove era cresciuto Mikhail Sergeevic, un luogo di fango mucche mosche, lontano dalla capitale più di quanto la terra disti dalla luna: eppure da quel buco Gorbaciov era arrivato alla sommità del Cremlino. «Che paese l´Italia», ci disse sulla porta del suo ufficio. «Dio, come erano belle Siena, San Gimignano, Venezia, la Sicilia». Confidò che a Raissa piacevano gli spaghetti, ma si vergognava di non saperli arrotolare con la forchetta. Poi rammentò che in Sicilia un tizio ronzava attorno a sua moglie: «Fui costretto a fargli capire che sarebbe finita male, se non smetteva». Riuscì anche a ridere, in quella drammatica giornata. Ma Graciov, al suo fianco, aveva una faccia da funerale.
Uscendo sfiorammo il cimitero che cinge le mura del Cremlino, dietro il mausoleo con la salma inbalsamata di Lenin. Vi erano sepolti tutti i segretari generali (incluso Stalin ma tranne Krusciov), e poi marescialli dell´Armata Rossa, cosmonauti, eroi del lavoro. C´era anche la tomba dell´unico americano sepolto al Cremlino: John Reed, il giornalista che aveva raccontato la rivoluzione bolscevica in un libro diventato celebre, Dieci giorni che sconvolsero il mondo. Settant´anni più tardi, avevamo assistito ai sei mesi che sconvolsero l´Urss, dal golpe d´agosto alle dimissioni di Gorbaciov. Non sempre tuttavia la vicinanza aiuta a comprendere un avvenimento. Soltanto il mattino seguente, tornando al Cremlino per ringraziare Graciov, mi parve di capire meglio l´enormità di quanto era accaduto. Attraversando un lungo corridoio deserto, ci imbattemmo di nuovo in Gorbaciov, che si aggirava tutto solo per il suo ex-palazzo. Strinse la mano a me e baciò Fiammetta. Ma con noi c´era Sergej Avdenko, figlio di uno scrittore sovietico e nostro prezioso collaboratore: Gorbaciov abbracciò anche lui e Sergej barcollò, emozionato, incredulo, come tramortito. Per tutta la vita aveva guardato i segretari generali del Pcus solo in tivù o sul palco in cima al mausoleo di Lenin, durante la parata per la festa della rivoluzione: esseri distanti, intoccabili, quasi irreali. E adesso l´ultimo imperatore, sceso dal trono, tornato uomo, abbracciava con semplicità uno dei suoi sudditi. Una storia era finita. Ne cominciava un´altra.

Repubblica 20.12.11
L’ammainabandiera (dell’Urss) /2
L´incontro con l´ex presidente dopo le dimissioni: "Ma alla fine la storia mi darà ragione"
E Gorbaciov ci confessò "Ho perso troppo tempo"
di Fiammetta Cucurnia


Il 26 dicembre di vent´anni fa, poche ore dopo il crollo dell´Urss, Mikhail Gorbaciov concesse una lunga intervista ai corrispondenti di Repubblica Fiammetta Cucurnia e Enrico Franceschini e al corrispondente della Stampa Giulietto Chiesa. Arrivammo al Cremlino in quelle ore convulse, e ci trovammo immersi in un clima di generale smobilitazione. Da un giorno all´altro, tutto sembrava cambiato. Superato il piantone della torre Kutafia entrammo nel parcheggio delle Zil semivuoto tra operai che svogliatamente sistemavano sulle mura gli addobbi di fine anno. Poi, lunghi corridoi quasi deserti. Le dispense delle lussuose sale da ricevimento erano state svuotate di tutto, dalle tazzine da caffè ai cucchiaini con lo stemma di un Paese che non esisteva già più. I collaboratori del presidente riempivano casse e liberavano gli uffici per i prossimi inquilini, i leader della nuova Russia.
Sulla cupola dell´antica fortezza zarista la bandiera rossa era già stata ammainata, ma nell´ufficio al terzo piano dove ci accolse Gorbaciov, dietro la scrivania con i telefoni bianchi con la stella a cinque punte che i russi chiamano vertushka, il vessillo con la falce e martello era ancora al suo posto. «Starò qui al massimo fino a dopodomani» ci disse. Era il suo primo giorno da ex presidente.
Al di là di ogni attesa, però, Mikhail Gorbaciov non ci apparve distrutto. Sembrava così giovane e pieno di vita, - aveva allora appena sessant´anni - così ironico, vivo e sereno come non era stato più da tanto tempo. Glielo dicemmo. «Lo vedete» rispose. «Presa una decisione, non ci si pensa più. La stessa cosa mi successe nell´85, quando decisi di cominciare. Oggi è uguale. Del resto, l´avevo detto: se il processo di riforma del nostro Stato multinazionale avesse superato la soglia della disgregazione dell´Urss, non ci sarebbe più stato posto per me. Adesso comincia un´altra vita. E io dalla vita non sono stato viziato, per questo non mi spavento. Ho già provato di tutto. Forse ora inizia una fase di riflessione, di cui ho molto bisogno».
Aveva fatto portare del tè coi biscotti. Ce lo offrì e lui stesso e cominciò a sorseggiarlo, succhiando un pezzo di zucchero duro, secondo la vecchia tradizione russa. Ci disse molte belle parole sull´Italia, su quanto amasse il nostro Paese, su quanto fosse stato importante per la sua crescita politica. Allora gli domandammo perché, parlando alla nazione la sera prima, aveva detto che lasciava il suo posto con inquietudine e speranza. Prima di rispondere si sistemò sulla sedia, sempre accanto al fedele portavoce, Andrej Graciov, e si fece scuro in volto. Fu lì che finalmente avvertimmo tutta l´amarezza, la preoccupazione e anche la rabbia che albergava nel suo cuore. «Parlando al Paese ho misurato le parole. Non vorrei che il processo di formazione degli Stati Indipendenti, e cioè lo smembramento dell´Urss, possa portarci fuori dal terreno democratico. Sarebbe terribile per tutti noi. Abbiamo fatto tanti sforzi per piegare questo mostro totalitario, per dare ossigeno a un nuovo organismo, perché potesse mettersi in moto e superare gli ostacoli. E proprio nel momento finale siamo stati colpiti con il putsch. Io continuo a credere che sarebbe stato meglio creare una nuova Unione, ma sono un politico, e se questa Comunità di Stati Indipendenti che sta nascendo al posto dell´Urss offre una chance, allora io farò di tutto per appoggiarla». E poi: «La conferenza stampa degli undici presidenti della nuova Comunità mi è sembrata un combattimento tra galli. Spero di non essere profeta». Invece lo fu.
Certo, quel 26 dicembre 1991 Mikhail Gorbaciov non poteva neppure sospettare che vent´anni più tardi, passata l´Urss, passata la Comunità e passato anche Eltsin, il suo Paese si sarebbe ritrovato a tu per tu con un nuovo zar capace di "aggirare" le regole più elementari della democrazia. Però quel giorno disse: «Eravamo in dirittura d´arrivo. L´unione si stava riformando. Anche il Pcus si stava trasformando adeguandosi al pluralismo politico. Purtroppo il golpe ha rovinato tutto. Ho detto a Boris Eltsin: Boris Nikolaevic, finché la Russia seguirà la linea delle trasformazioni democratiche, io non solo la appoggerò, ma la difenderò. Se poi si creerà una situazione diversa, allora dovrò dare un altro giudizio».
Ma quali sono gli errori che non rifarebbe, Mikhail Sergeevic? «Bisognava sfruttare di più il consenso per muoversi più rapidamente. Anche il negoziato per il nuovo Trattato d´Unione doveva essere anticipato. Ma per questo ci voleva l´alleanza di tutte le forze democratiche che invece hanno continuato a combattersi, e si sono indebolite. Per questo credo di non aver potuto scegliere fino in fondo le mie mosse. Ho perso tempo. Ma ciò non tocca la mia scelta principale, che difendo e di cui sono orgoglioso: aver cominciato le riforme nel 1985. La mia speranza di riformare l´Urss non era un´illusione. No. Io ero il più realista di tutti, perché capivo che senza isolare il partito non avremmo ottenuto nulla. E avevo ragione. La Storia lo dirà». E poi: «Io sono cambiato insieme al Paese e, d´altra parte, io ho cambiato questo Paese». Allora gli chiedemmo se pensava in qualche modo di rientrare in politica, magari in futuro. «Oggi non posso neppure pensare di passare all´opposizione. Opposizione di cosa? Delle riforme? Contro me stesso? Qualunque cosa accada da oggi in poi, la mia sorte si è già compiuta. Di fronte a voi siede un uomo che sin dal primo giorno ha cominciato coscientemente a distribuire il potere che aveva. Ora potrò riflettere e dividere con altri il frutto della mia esperienza». Alzandosi dalla sua poltrona di ex presidente ci raccontò ancora delle dure prove a cui era stata sottoposta in quegli anni la sua famiglia. Di Raissa, che ancora non si era ripresa, dopo il golpe. Poi ci abbracciò e ci baciò tutti, come amici. «Vi confesso che i miei la vedono come me - aggiunse - non è un dramma. È nell´ordine delle cose. Anche se da noi non era mai successo prima». «Tutto a posto, vsjo normalno», disse. E scoppiò in una risata liberatoria.

Repubblica 20.12.11
Basta Lord in Parlamento l´ultima crociata di Clegg
di Alessandra Baduel


Il vice premier britannico, leader dei Liberal democratici, attacca i diritti ereditari degli "ermellini" di Westminster Un´ambiziosa riforma costituzionale che la regina dovrebbe citare nel suo discorso: "Dovranno andare via nel 2012"
"L´esperienza non basta: legiferano in nome del popolo ma non rispondono agli elettori"
Una Camera Alta quasi interamente elettiva per eliminare privilegi secolari

LONDRA. Abolire o rendere elettiva la Camera dei Lord è stato l´obiettivo dei laburisti per circa un secolo, ma adesso è il vice primo ministro liberaldemocratico Nick Clegg ad arrivare vicino al risultato. Clegg ha annunciato ieri che in maggio sarà portata in parlamento la proposta di riforma costituzionale che farà della Camera dei Pari un organo elettivo all´80 per cento.
Sapendo bene che i conservatori si sono già dimostrati piuttosto lontani dall´idea, Clegg ha precisato di avere l´approvazione sia di Cameron che del ministro del Tesoro George Osborne, per poi concludere: «Non ci devono essere dubbi riguardo alla nostra determinazione».
L´obiettivo di Clegg, che aveva già fatto un tentativo in maggio, affossato dalla sconfitta dei lib-dem nel referendum sul sistema elettorale, resta lo stesso di sempre: «I Lord - ha detto ieri - sono un affronto ai principi di apertura che sono il fondamento di una democrazia moderna: nepotismo e patronato invece del merito, un´entità che accumula potere. E sono anche cento anni che si prova a fare questa riforma». A maggio, dunque, sarà Elisabetta d´Inghilterra a pronunciare davanti alle Camere la proposta, che farà parte del programma preparato dal governo ma esposto come di consueto dalla regina in parlamento. Westminster, ha insistito Clegg, dovrà approvare, anche a costo di invocare il Parliament Act, che nel 1911 tolse alla Camera dei Lord il potere di respingere le proposte di legge.
Gli 814 Pari del regno ora in carica sono per la maggior parte membri a vita di nomina politica. Solo 92 hanno ereditato il ruolo, scampando alla riforma del governo Blair che nel 1999 riuscì a cancellare 666 seggi "di famiglia". Ventisei infine sono i posti riservati ai Lord Spiritual, vescovi della Chiesa anglicana. Finora solo Oliver Cromwell è riuscito a interrompere le sedute della Camera dei Pari, abolita dalla rivoluzione inglese nel 1649 per essere poi riaperta con la restaurazione della monarchia undici anni dopo. Nell´ultimo secolo i ripetuti tentativi dei laburisti hanno portato a modifiche, limitazioni dei poteri, ma mai a quanto sta proponendo ora Clegg. Ieri il vice primo ministro ha parlato apertamente di individui che «si nascondono dietro una patina di competenza la quale non può di certo più essere un buon alibi per una Camera che legifera in nome del popolo ma non risponde agli elettori».
Come ha anticipato al Guardian, Clegg è sicuro del successo: «È un accordo dell´intera coalizione». Secondo le cifre, l´obiettivo potrebbe essere raggiunto solo se tutti i partiti condivideranno l´iniziativa. Ma i primi a non seguire Clegg potrebbero essere proprio i laburisti, orientati per ora ad appoggiare una proposta che vuole una Camera dei Pari elettiva al 100 per cento. Clegg si è rivolto anche a loro, ieri: «Sono sempre stati i più determinati nella lotta contro quel bastione del privilegio che è la Camera dei Lord: spero che riscoprano il loro passato, invece di dedicarsi a giochini per ottenere vantaggi politici a breve termine, come all´epoca del referendum».

Repubblica 20.12.11
Ungheria, i giudici nel mirino dell´ultradestra
Saranno di nomina governativa. Sfida a Bce e Ue sull´indipendenza della banca magiara
Bruxelles e il Fmi fermano i negoziati per la concessione di un maxiprestito anti-default
Pronta anche una legge per varare decreti in due giorni aggirando il Parlamento
di Andrea Tarquini


BERLINO - In Ungheria tira aria di golpe bianco del governo di destra nazionale contro i principi costitutivi della democrazia e dell´Unione europea. Forte di una maggioranza di due terzi dei legislatori, la Fidesz, cioè il partito del premier Viktor Orban, sta per introdurre cambiamenti radicali. Primo, nuove procedure parlamentari per poter trasformare un decreto in legge in due giorni, con voto in corsa senza obbligo di esteso dibattito in Parlamento. Secondo, quello che alla Banca centrale europea (Bce), alla Commissione europea e al Fondo monetario internazionale (Fmi) appare un preoccupante taglio dell´indipendenza della Magyar Nemzeti Bank, la Banca centrale. Terzo, la giustizia: l´apparato giudiziario è ormai controllato dall´Ufficio nazionale della giustizia, guidato dalla signora Tuende Hando, vicinissima al capo dell´esecutivo e amica di sua moglie, col potere di nomina dei giudici. La Bce di Draghi, Bruxelles e il Fmi protestano.
«Lanciamo un appello alla lotta contro le leggi che il governo vuol far passare il 23 dicembre, gli ultimi chiodi per sigillare la bara della democrazia», proclama il partito di opposizione verde/liberal Lmp, che chiama a una manifestazione. Bce, Commissione europea e Fmi protestano. L´ambasciatore Usa in Ungheria, signora Eleni Tsakopoulos Kounalakis, si dice «inquieta» per la democrazia nel paese. La riforma dello statuto della Banca centrale è stata accolta con «gravi preoccupazioni» dalla vicepresidente della Commissione europea, Viviane Reding, e dalla Bce, mentre il Fmi ammonisce che «un´erosione dell´indipendenza dell´istituto sarebbe grande motivo d´inquietudine». Il ministro dell´Economia Gyorgy Matolcsi ha detto che la legge andrà avanti, ma in una concessione a Bruxelles, Francoforte e Washington il governo appronta emendamenti: assicurazioni formali che l´indipendenza della Magyar Nemzeti Bank non sarà violata. Passo forse obbligato, dopo che Fmi e Ue avevano interrotto i negoziati sul credito del Fondo (si parla di 15-20 miliardi di dollari) ritenuto indispensabile a evitare un default magiaro. Ma resta nel progetto di legge l´aumento del board (consiglio monetario) della Banca a nove membri, di cui sei di nomina parlamentare.
Non va meglio per la Giustizia. Con i suoi estesi poteri l´Ufficio nazionale della giustizia (Obh) può nominare i giudici. Dopo la legge-bavaglio e la nuova Costituzione di stampo nazionalista-autoritario, la Fidesz sta trasformando sempre più l´Ungheria da democrazia parlamentare a Stato in mano a un partito. Ma la Consulta si ribella: ha bocciato l´obbligo dei giornalisti di rivelare le loro fonti alla Nmhh, l´autorità-grande fratello di controllo sui media. Lo scontro sul futuro a Budapest è ancora aperto.

l’Unità 20.12.11
Cairo. L’alto commissario Onu Pillay: «Subito un’inchiesta sugli abusi»
Indignazione Le immagini di manifestanti colpite fanno il giro del mondo
Egitto, la strategia della violenza contro le donne
Colpire le donne per scatenare la reazione dei loro compagni in Piazza Tahrir. Scioccanti le «immagini di manifestanti, donne comprese, brutalmente aggrediti e bastonati», denuncia l’Onu. Dodici morti in 4 giorni.
di Umberto De Giovannangeli


Quelle immagini hanno fatto il giro del mondo suscitando orrore e indignazione. Poliziotti egiziani entrano in azione a Piazza Tahrir. Trascinano il corpo di una ragazza. Si accaniscono su di lei. La colpiscono ripetutamente con i manganelli. Uno dei poliziotti assesta un calcio in pancia alla ragazza. Colpire le donne, per scatenare la reazione dei manifestanti. È una direttiva impartita alle squadre antisommossa entrate in azione in questi giorni a Piazza Tahrir. Colpitele per impartire una lezione a tutte le donne che hanno osato tornare in piazza per rivendicare diritti e giustizia. L’ordine viene dai vertici del potere militare. L’indignazione si propaga nel mondo.
VERGOGNA
L’Alto Commissariato Onu per i diritti umani Navi Pillay ha condannato con fermezza la brutale repressione delle manifestazioni in piazza Tahrir. Per Pillay sono «assolutamente scioccanti» le «immagini di manifestanti, donne comprese, brutalmente aggrediti e bastonati, anche molto tempo dopo che non fanno più alcuna resistenza». Si tratta di atti «pericolosi per la vita e disumani, che non possono essere giustificati invocando il ripristino della sicurezza o del controllo della folla», aggiunge Pillay in una nota pubblicata ieri a Ginevra. L’Alto commissario esprime particolare preoccupazione per
quella che appare una presa di mira deliberata delle donne manifestanti. Pillay ha quindi nuovamente chiesto un’indagine imparziale e indipendente in tutti i casi di abuso e di repressione violenta dei manifestanti che si sono verificati negli ultimi mesi ed il rilascio immediato di tutti coloro che sono stati arrestati per aver tentato di esercitare i loro diritti. Deve inoltre essere fermata la campagna mediatica volta a screditare i manifestanti pacifici, ha detto Pillay. «Esorto gli alti dirigenti militari e politici egiziani ad agire subito o rischiano in futuro di essere accusati di complicità in reati gravi», ha detto. Pillay ha inoltre invitato i manifestanti a mantenere la natura pacifica delle loro manifestazioni e sit-in.
Con il pesantissimo titolo «Dichiarazioni naziste spiegano la brutalità dei soldati» il Network Arabo per i Diritti Umani (Anhri) ha denunciato ieri in un comunicato una inquietante affermazione diffusa sugli scontri al Cairo dal consigliere delle Forze Armate per gli Affari Morali, generale Abdel-Moniem Kato, che ha dichiarato al giornale Al Shorouk: «Voi vi preoccupate di alcuni ragazzi di strada che meritano di essere buttati negli inceneritori di Hitler». Secondo l’organizzazione dei diritti umani «chiunque fa dichiarazioni del genere dovrebbe essere condannato con decisione, pubblicamente. Le affermazioni del generale lo fanno aggiungere all’elenco di chi deve essere inquisito e posto sotto processo insieme con poliziotti e militari che hanno ucciso, torturato e abusato dell’inviolabilità del corpo di una donna o di un uomo».
BILANCIO DI SANGUE
Nel comunicato si ricorda anche che la sezione Affari Morali dell’esercito dovrebbe avere, tra gli altri, il ruolo di educare e di creare consapevolezza nei soldati egiziani. Invece «le opinioni del generale stanno dietro le violenze atroci ed eccessive contro i manifestanti egiziani, visti in video online e sui giornali da milioni di persone». Sin da due giorni sono circolati in rete e nelle trasmissioni di varie tv internazionali immagini di soldati che brutalizzano alcune persone con bastoni e calci, spogliano parzialmente e trascinano per strada una giovane donna in jeans, salvo scappare quando altri manifestanti si avvicinano minacciosamente, lanciando pietre contro di loro.
L’avvocato egiziano per i diritti umani Ahmed Ragheb ha denunciato ieri la morte di un suo assistito per tortura durante la detenzione al Cairo. Il legale ha riferito che l’uomo, Mohammed Mohie Hussein, faceva parte di un gruppo di circa 200 persone detenute in un tribunale del Cairo dopo essere state arrestate durante gli scontri con le forze di sicurezza. Un’ora dopo essere stato interrogato alla presenza di numerosi avvocati difensori era morto, ha raccontato Ragheb. «La sua condizione è peggiorata durante la custodia, era già ferito quando è arrivato», ha spiegato l’avvocato.
Intanto cresce il bilancio di sangue. Sono 12 le persone rimaste uccise in quattro giorni di scontri, c Centinaia le persone rimaste ferite e 181 i manifestanti arrestati.

La Stampa 20.12.11
Le condizioni per mantenere la pace nel Pacifico
di Malcom Fraser


Il Pacifico occidentale sta affrontando un problema difficile: conciliare le crescenti aspirazioni della Cina in una regione dove gli Stati Uniti hanno mantenuto il primato dalla fine della Guerra Fredda. Gli Usa sono intenzionati a mantenere il dominio nella regione? O sono disposti a operare attraverso i forum multilaterali per reimpostare le regole? La decisione sarà determinante per capire se la pace continuerà a regnare nel Pacifico.
E’ difficile interpretare lo stanziamento di 2500 marines americani a Darwin, Australia una decisione annunciata dal presidente Obama nel suo recente tour in Asia - come qualcosa di più di un gesto simbolico, un richiamo provocatorio alla determinazione degli Stati Uniti di rimanere nella regione. Gli obiettivi di Washington, tuttavia, rimangono poco chiari.
Dall’altra parte della regione Asia-Pacifico, l’ascesa della Cina è vista come positiva, ma tale da richiedere che Pechino operi nell’ambito di regole condivise a livello internazionale. Cosa che, naturalmente, dovrebbe valere per tutti. Ma le tensioni saranno inevitabili se la Cina non partecipa alla creazione di queste regole.
È difficile prevedere come si evolverà il ruolo dell’America nella regione. In ogni caso, i cinesi risponderanno duramente agli sforzi degli Stati Uniti per rafforzare la propria presenza militare nella regione. Contenere la Cina non è la risposta alle domande di sicurezza dell’Asia.
La penisola coreana, Taiwan e le isole del Mar Cinese Meridionale e le rotte marittime sono tutti temi del potenziale contenzioso tra Stati Uniti e Cina. Ma, anche se queste questioni sono importanti, entrambe le parti dovrebbero proseguire gli sforzi diplomatici per minimizzare la rivalità sino-americana su di esse e quindi evitare di imbarcarsi in una nuova Guerra Fredda.
Nelle condizioni attuali, rispondere alla crescita della Cina con la forza militare sarebbe malvisto. La Cina sta modernizzando il suo esercito e si propone di diventare una potenza marittima di peso, spingendo molti osservatori della Cina a chiedere maggiore trasparenza. Ma è dubbio che gli Stati Uniti offrano alla Cina molta trasparenza sulle proprie capacità militari. Per mettere la questione in prospettiva, il bilancio della Difesa degli Stati Uniti rappresenta il 43% di tutte le spese militari in tutto il mondo, mentre la spesa della Cina rappresenta poco più del 7%.
Nessun Paese parlerà mai apertamente della sua capacità militare in modo meno che generico. Troppi osservatori dimenticano che la forza nucleare della Cina è solo un deterrente: di gran lunga troppo piccola per essere una forza di attacco preventivo. E la Cina è tra i primi Paesi disposti a impegnarsi a non fare uso dell’arma nucleare, in condizioni di reciprocità con le altre potenze nucleari.
La Cina non ha dimostrato alcun interesse a emulare le potenze imperialistiche europee del XIX secolo o gli sforzi imperialistici del Giappone nella prima metà del ventesimo secolo. La storia della Cina ignora l’ansia per tali ambizioni. I cinesi ricordano fin troppo dolorosamente i trattati ineguali imposti dalle potenze occidentali alla Cina e al Giappone nel XIX secolo e all’inizio del ventesimo. Un’alleanza tra Usa, Giappone, Australia, ed eventualmente India, progettata per contenere la Cina, sarebbe accolta dai cinesi con quella storia bene in mente.
E’ molto probabile che la Cina consideri l’accordo di cooperazione recentemente annunciato dai ministri della Difesa giapponese e indiano come una risposta alle pressioni americane. I suoi leader suggeriranno di nuovo che è in atto una politica di contenimento e che questa concezione strategica della Guerra Fredda è nemica dello sviluppo senza conflitto nel Pacifico occidentale.
Lo sfondo storico è importante, ma la posizione strategica dell’Occidente dipende dalle azioni odierne. Per esempio, la Cina ha cooperato - forse non abbastanza - per i problemi suscitati dalla Corea del Nord. Per ridurre le tensioni nella regione forse gli Stati Uniti dovrebbero iniziare gli a lungo evitati colloqui diretti con la Corea del Nord, che potrebbero contribuire a risolvere i problemi di sicurezza posti dal regime di quel Paese.
E’ il concetto di soft power formulato dal filosofo della diplomazia politica Joseph Nye: la diplomazia, non la forza delle armi, è il modo migliore per perseguire questi obiettivi. Naturalmente, la diplomazia deve essere sostenuta dalla forza, ma gli Stati Uniti ne hanno più che a sufficienza, senza militarizzare la regione Asia-Pacifico più di quanto già non lo sia. La risoluzione pacifica di questi conflitti richiede che si dia alla Cina un ruolo nel processo decisionale e questo implica che entrambi gli sfidanti rinuncino a qualsiasi desiderio di primato regionale.
Durante i primi tempi della crisi dello Stretto di Taiwan nel 1954, la Cina iniziò a bombardare oltreconfine le isole Quemoy e Matsu, minacciando di «liberare» Taiwan. Mentre gli Stati Uniti contemplavano la possibilità di un attacco nucleare contro la Cina, il primo ministro australiano Robert Menzies disse tranquillamente al presidente americano Dwight Eisenhower: «Se c’è una guerra per Taiwan, è affar vostro e non nostro». Menzies aveva ragione. Aveva capito la distinzione tra gli obiettivi degli Stati Uniti e gli interessi nazionali dell’Australia.
Gli Stati Uniti non schiereranno mai di nuovo un grande esercito di terra sul continente asiatico. Le guerre non possono essere vinte solo dal cielo e gli Stati Uniti non daranno il via a una sfida nucleare. Lo stanziamento di marines Usa nel Nord dell’Australia appare dunque inutile: queste truppe non hanno alcuna ragione plausibile di essere lì. Inoltre, hanno inutilmente diviso l’opinione pubblica australiana sul tema fondamentale della sicurezza del Paese. Oggi l’Asia presenta una serie completamente nuova e unica di circostanze. I dilemmi derivanti da tali circostanze richiedono nuove soluzioni, non concetti obsoleti da Guerra Fredda.
*ex primo ministro australiano Copyright: Project Syndicate,

Repubblica 20.12.11
Escalation nucleare o pace la Cina guiderà la transizione
In un paese ridotto alla fame, il potere del delfino dipende dal sostegno dell´esercito
Pechino ha enorme influenza su Pyongyang, che non sopravvive senza i suoi aiuti
di Federico Rampini


È tra questi due estremi che oscillano le reazioni dei governi mondiali, da Washington a Tokyo, da Seul alle capitali europee, dopo la morte del dittatore nordcoreano Kim Jong-il e il passaggio del potere all´erede designato, il figlio più giovane. Lo scenario catastrofe si è materializzato subito, con i test di missili effettuati ieri da Pyongyang, e l´immediata mobilitazione delle truppe sudcoreane e americane, lungo il confine più militarizzato del mondo. A far paura non è solo il fatto che la Corea del Nord possiede abbastanza plutonio per una mezza dozzina di bombe atomiche, e ha più volte avviato la preparazione di armi nucleari. Nell´ipotesi più pessimistica, la fragilità dell´erede al trono - il terzo della dinastia Kim a occupare quella posizione - può indurlo a una prova di forza per accreditarsi presso i suoi militari. Il potere di Kim Jong-un dipende dal sostegno dell´esercito, l´unica istituzione funzionante, in un paese ridotto alla fame e governato per decenni con il terrore. Il terzo Kim non ha dimostrato particolari attitudini al comando, la sua selezione è avvenuta probabilmente perché il padre appena scomparso lo giudicava come il meno "debosciato" dei suoi rampolli. Non è molto, come credenziale per assumere il comando di un apparato militare geloso delle sue prerogative e dei suoi privilegi, in una nazione che vive sotto la legge marziale permanente.
La coesione della Corea del Nord, se così si può definire, è stata costruita tenendo il paese in uno stato di emergenza bellica permanente. La propaganda ha inculcato ossessivamente nella popolazione la minaccia imminente di un´aggressione militare da parte dell´America e della Corea del Sud. Per un leader inesperto, insicuro della propria posizione, una via per consolidarsi può essere quella di "avverare" il pericolo della guerra, lanciandosi per primo in atti ostili verso il vicino del Sud. Più sale la tensione più i militari si sentono confortati nel loro ruolo indispensabile, centrale e preminente. In questo scenario, la transizione diventerebbe destabilizzante, aprendo un focolaio di tensione gravissima in Estremo Oriente. Un problema enorme per Barack Obama, che non ha davvero bisogno di crisi militari nell´anno elettorale in cui ha promesso di chiudere quasi completamente i fronti iracheno e afgano. Anche Pechino però non vedrebbe con favore un´escalation bellica ai suoi confini: a Pechino come a Washington la preoccupazione numero uno è l´economia, il boom cinese sta rallentando da mesi, i conflitti sociali si moltiplicano. Una tensione militare in Asia non farebbe che aggiungere nuove nubi sull´economia globale, togliendo altra energia al motore dell´export made in China (basti pensare alle ripercussioni sui mercati di sbocco sudcoreano, giapponese e taiwanese, tre partner economici importanti per la Repubblica Popolare).
Un secondo scenario, all´estremo opposto, è iper-ottimista: vede in Kim Jong-un il demiurgo di una transizione pacifica verso rapporti più normali con l´America. In questa versione, grazie alla sua formazione in Svizzera, il terzo Kim sarebbe un "cripto-occidentale", pronto a chiudere l´atroce parentesi di oltre mezzo secolo di despotismo comunista. Anche in questo caso l´ostacolo è la Cina: non può tollerare un´evoluzione al termine della quale ci sarebbe la riunificazione delle due Coree sotto l´ombrello americano. Di che alimentare la psicosi dell´accerchiamento a Pechino, proprio mentre si prepara l´avvicendamento (pacifico) di una generazione di leader, da Hu JIntao a Xi Jinpin.
Resta il terzo scenario, quello intermedio e forse più probabile. E´ l´ipotesi di una transizione affidata alla "guida amichevole" della Cina stessa. Pechino ha enormi poteri d´influenza su Pyongyang, che non sopravviverebbe senza i suoi aiuti alimentari, energetici, militari. Anche quando Kim li infastidiva con le sue letali provocazioni contro Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, i leader cinesi non hanno mai "staccato la spina" che teneva in vita il regime nordcoreano, perché lasciarlo crollare sarebbe stato peggio. La storia conta: la Corea del Nord esiste solo grazie ai milioni di soldati cinesi che Mao Zedong mandò a combattere contro gli americani nel 1950. La geostrategia conta ancor più: la penisola coreana è un bastione di difesa della Cina, contro gli Stati Uniti e l´arco dei loro alleati nel Pacifico. Se la Cina riesce a manipolare Kim Jong-un secondo i suoi disegni, lo vedremo anzitutto sul terreno economico, con l´accelerazione di quegli esperimenti fin qui molto timidi di trapianto del capitalismo a Pyongyang. Sull´economia si giocano due sfide essenziali. La prima: salvare il popolo nordcoreano dalle carestie ricorrenti che lo hanno decimato. La seconda è perfino più cruciale: uno sviluppo economico è la premessa per riconvertire alla vita civile 1,2 milioni di soldati, un´armata parassitaria che opprime questo paese spremendone le già magre risorse. La Corea del Nord "sinizzata" resterebbe un satellite strategico di Pechino, ma probabilmente diventerebbe meno erratica e minacciosa per l´Occidente.

Corriere della Sera 20.12.11
Bimbi affamati, Internet per i capi, Cartoline dalla fortezza comunista
di Marco Del Corona


PECHINO — Avevano lo stesso sale. Le lacrime delle operaie per la morte di Ho Chi Minh, nel Vietnam del Nord del 1969. I singhiozzi delle guardie rosse orfane di Mao Zedong, Pechino 1976. Anche il pianto del 1994, quando una Pyongyang simile — ma non uguale — a quella di oggi si disperava per la fine terrena di Kim Il-sung. Lo stesso sale, ma in Corea del Nord è il sale di una nazione che si sente in guerra col mondo, assediata. Ed è vero, perché dopo la guerra del 1950-53 sul 38° Parallelo né altrove venne mai siglato un accordo di pace. Così a Pyongyang sono le forze armate a contare più di tutto: la Corea del Nord è plasmata sulla politica del «Songun», «prima i militari», elaborata e portata all'estremo da Kim Jong-il. Sono loro, un milione e 200 mila (più quasi 6 milioni di riservisti), ad assorbire la fetta maggiore di un Pil calcolato nominalmente su 1.800 dollari pro capite annui. E c'è, a tenere insieme il tutto, un nazionalismo parossistico e autarchico che talvolta fa diffidare persino degli «amici» cinesi: si chiama «Juche», altra elaborazione del Kim Jong-il filosofo. E lo spirito patriottico viene addirittura prima di un socialismo spacciato — anche questo — quasi di esclusiva produzione locale. Non socialismo e basta, ma socialismo coreano.
Rispondendo a una domanda del Corriere, una settimana fa il politologo americano Robert D. Kaplan avvertiva: «Le due Germanie, i due Vietnam, i due Yemen... In passato abbiamo sbagliato tutti gli scenari di Paesi divisi. Bisogna fare attenzione alla Corea». Barack Obama e l'omologo sudcoreano Lee Myung-bak si sono parlati al telefono, ma la geopolitica su larga scala non esaurisce la specificità di un Paese sfuggente. Le immagini fatte circolare da missionari sudcoreani o transfughi riparati a Seul mostrano le scene di disperata miseria nelle province lontane dalla capitale-vetrina. Bambini a branchi, inselvatichiti, rabbiosi di fame. Altri video mostrano mercati dove si praticano embrionali forme di apertura economica, ciclicamente incoraggiate, tollerate, represse. Dai confini fluviali con la Cina passano, quando possono, commercianti improvvisati o chi fugge per non tornare.
Pyongyang invece resta la metropoli perfetta, anche ora che il gelo siberiano rallenta gli sforzi edilizi in vista del centenario della nascita di Kim Il-sung, 15 aprile 2012. Eppure l'opacità e la chiusura del regime producono all'esterno visioni sfasate. Se il razionamento alimentare perdura e l'esercito si prende le derrate migliori, entro la fine dell'anno si raggiungeranno il milione di utenze di telefonia mobile 3G, anche se il sistema non permette di uscire dal perimetro del «regno eremita». Internet come lo conosciamo noi non è accessibile alla massa, però l'élite lo usa, e nelle università funziona un Intranet. Il regime ha un Sito web, www.uriminzokkiri.com: isolati sì, fuori dal mondo no.
I manuali scolastici portano i segni di un desiderio di apertura, per quanto frenato dai tabù. Il britannico Stewart Lone, cattedra universitaria in Australia, ha sfogliato il più recente. Ha insegnato inglese a più riprese ai 13-15enni della scuola media Kumseong Numero Uno di Pyongyang e, di passaggio a Pechino, raccontava pochi giorni fa come nel nuovo libro «si parli di Paesi occidentali in modo selettivo ma non improprio: dell'Irlanda interessano la rivolta alla dominazione inglese, la grande carestia, l'esaltazione della cultura indigena; della Nuova Zelanda si enfatizza la presenza dei maori; del Sudafrica Mandela e la lotta all'apartheid». Curiosità per temi globali «come la crescita demografica, l'inquinamento, i problemi energetici». Pagine a distanza di sicurezza dell'ideologia. Ma si tratta dell'indizio che nulla è così immobile dietro la cortina di ferro e di bambù e lo scenario resta complicato: proprio come l'aneddotica sugli stravizi di Kim Jong-il — dvd, cognac, sushi, i miracoli assortiti cantati dalla propaganda — ha sviato a lungo le cancellerie occidentali, quando invece Madeleine Albright arrivò ad ammettere come il Caro Leader sapesse il fatto suo sui dossier chiave.
Mentre Pyongyang sperimenta nelle ore di punta i primi, limitati incolonnamenti d'auto — di fabbricazione cinese — e contempla le prime pubblicità, dalle province di tanto in tanto affiorano notizie di «incidenti» locali. Fame, rabbia, disaffezione. Tuttavia, riferiscono i transfughi a Seul, il biasimo spesso non va (non andava) a Kim Jong-il, ma ai «traditori» e agli «incapaci» che lo tenevano all'oscuro della realtà. Il Caro Leader era il patriarca benigno, come già il Grande Leader, Kim Il-sung. «Se l'erede Kim Jong-un ha capito cos'aveva in mente il padre — dice al Corriere Yu Yingli, ricercatrice dello Shanghai Institute for Foreign Studies — farà con lui quello che Kim Jong-il attuò con Kim Il-sung», ovvero inserirne nella Costituzione il ruolo post mortem: «Potrebbe essere l'unica via per consolidare il potere». Un corpo imbalsamato accanto all'altro nel mausoleo di Kumsusan, forse, potrà funzionare, almeno per un po'. Kim.1 e Kim.2 insieme, a maggior gloria di Kim.3. Tre Coree, quasi. E non è detto che quella di Kim Jong-un assomiglierà per sempre alle altre due.

Repubblica 20.12.11
In un'antologia gli scritti dello psicoanalista italiano più noto nel mondo
La lezione sul male di Franco Fornari
Studiò il fenomeno della guerra provando non solo a interpretarlo dandogli un´ermeneutica ma cercando di "bonificare" le pulsioni più violente
di Massimo Recalcati


Chi è stato Franco Fornari (1921-1985)? Indubbiamente lo psicoanalista italiano più conosciuto nel mondo, più tradotto, più apprezzato dai suoi colleghi, più capace di lasciare una impronta significativa sulla cultura italiana e, probabilmente, insieme a Elvio Fachinelli, anche il più autenticamente creativo e fecondo. Ma è stato anche un professore che provava ad insegnare la psicoanalisi alla Statale di Milano negli anni ´70-´80 in una Università attraversata dall´onda lunga del post-Sessantotto e dal sisma del movimento del ´77. Uno scrittore infaticabile, che con uno stile per niente polveroso e appesantito da stupide erudizioni, sapeva promuovere un ripensamento generale della lezione freudiana pur riconoscendo in quella lezione il fondamento originario della pratica e della dottrina della psicoanalisi. Un intellettuale che ha rotto lo "splendido isolamento" della nostra disciplina intervenendo, senza alcun conformismo, nella vita sociale, in quella delle istituzioni e delle organizzazioni, nelle scuole, negli ospedali, provando ad applicare la psicoanalisi anche ai verbali di un consiglio di Istituto.
Piacentino, penultimo di dieci figli di una famiglia di agricoltori, uomo di rara affabilità e disponibilità al dialogo, lettore curioso, analizzante e allievo di Cesare Musatti, i suoi interessi spaziavano dalla vita affettiva del bambino alla psicoanalisi della guerra e della bomba atomica, dalla teoria del linguaggio al funzionamento dei dispositivi istituzionali, dai sogni delle madri in gravidanza alla psicosomatica del cancro, dall´iconologia estetica alla filosofia della politica, dalla psicoanalisi come pratica clinica alla psicoanalisi come teoria generale dell´ideologia. Restano di grandissima attualità e intensità alcuni suoi libri, come lo straordinario Psicoanalisi della guerra (1966) che fece dire ad André Green che si trattava dell´opera di psicoanalisi sociale più importante dopo Il disagio della civiltà di Freud, o come Il codice vivente (1981) dove viene teorizzata una delle sue intuizioni più feconde, quella della "paranoia primaria" come condizione basale perché la violenza fantasmatica contenuta nel parto, come in ogni evento traumatico, possa essere disinnescata e ammortizzata da un terzo (il codice paterno) in grado di prendersi carico di questa violenza - per Fornari il padre è colui che "sa prendere su di sé la morte" - per consentire la vita.
Di questo ampio, variegato e ricchissimo insegnamento – di cui la recente antologia curata da Diego Miscioscia per Cortina titolata Scritti scelti offre una visione panoramica di grande interesse – vorrei ritagliare due possibili ritratti di Fornari psicoanalista. Il primo ritratto è quello più noto; è il ritratto del teorico dell´inconscio strutturato come un codice affettivo, della cosiddetta teoria coinemica, la quale propone una versione dell´inconscio non tanto come luogo pulsionale (secondo la lezione freudiana più ortodossa) ma come una matrice originaria composta da una batteria di (pochi) significati primi, comuni all´umano, filogeneticamente determinati, detti coinemi, alla cui dinamica notturna Fornari riconduce tutti i fenomeni dell´esistenza. L´inconscio coinemico è un inconscio che pensa, è un pensiero naturale, è "facoltà di rappresentazione", aspira al bene, è un soggetto normativo, capace di strategia, non è pulsione di morte ma pulsione di significazione. In questa "nuova filosofia dell´inconscio" l´ottimismo semiotico e morale di Fornari sembra non lasciare spazio agli aspetti più scabrosi della lezione freudiana, tra tutti proprio quello della pulsione di morte (che resta invece centrale in autori come Klein e Lacan). Il Fornari coinemico espelle infatti dall´inconscio la dimensione del Male, la tendenza alla ripetizione dissipativa. Egli preferisce porre l´inconscio come un "pensiero della notte" capace, come un bravo regista, a dettare il copione più vitale e creativo agli attori della vita diurna.
Esiste però un altro possibile ritratto di Fornari psicoanalista. Si tratta del Fornari studioso del fenomeno della guerra, dell´aggressività e della paranoia, di un Fornari che non esclude affatto il problema del Male e della tendenza dell´umano a restarne sedotto. Questo secondo Fornari non pensa l´inconscio come pura facoltà di significazione, come un "voler dire" primario, ma lo ritrae come luogo del Terrificante, del senza volto e del senza parole. E allora la psicoanalisi smette di essere una macchina interpretativa che pretende di ricondurre ogni cosa al quadro immutabile dei coinemi, ma diventa una pratica che prova a confrontarsi con questo Terrificante affinché la morte e la distruzione non restino le ultime parole dell´umano.
Il problema centrale diventa allora quello di come sia possibile trasformare, o meglio, per usare una parola chiave del lessico fornariano, bonificare la violenza, il caos, la guerra, la malattia, l´insensatezza, la pregenitalità perversa, la spinta all´appropriazione sadica e fusionale. Non è forse questa la posta in gioco ultima dell´esperienza dell´analisi? Non tanto la ricerca ermeneutica del senso, quanto la possibilità di bonificare l´angoscia di morte in possibilità di legami fecondi, in quella "tolleranza del lutto e della solitudine" che per Fornari è la sola condizione etica per una vita generativa.

il Fatto 20.12.11
Addio a Havel
Un poeta sul palcoscenico dell’anticomunismo
di Piero Benetazzo


Era entrato al mitico Castello con il passo felpato del mimo, trascinandosi dietro rockettari, Franz Zappa, una banda di amici sgualciti con cui aveva condiviso galera, birrerie, speranze e paure. La “rivoluzione di velluto” di Vaclav Havel fu certamente la più straordinaria di quelle rivolte popolari che in pochi mesi abbatterono, nel 1989, i regimi comunisti in tutto l'Est: la più breve, del tutto indolore guidata da uno scrittore che sedeva sul palcoscenico di un teatro, “Lanterna magica”, in una nuvola di fumo, di strepiti, di sudore. Lui, Havel, da poco uscito di prigione, lanciava da quel palcoscenico i suoi slogan, dettava le sue condizioni a un regime ormai allo stremo ed era affascinante vedere come la società si armonizzasse velocemente con le sue parole d'ordine, che descrivevano il comunismo come un “grande inganno”, ansiosa quindi di recuperare se stessa, la sua identità e la sua cultura.
Poche settimane dopo era già al Castello. Spesso ne percorreva i corridoi e le solenni stanze in monopattino per smitizzare - diceva - la paura delle istituzioni, riavvicinarle alle gente, convincerla a uscire dall'apatia. Vaclav Havel era nato in una famiglia molto ricca in quella borghesia che il regime comunista considerava il suo più acerrimo nemico. Era dunque un cittadino di “secondo ordine” senza diritti all'istruzione, seguito spesso dalla polizia, isolato. Lo stato si ricordò di lui solo per costringerlo al servizio militare e, proprio in casema, egli scoprì e coltivò la sua passione per la scrittura e soprattutto per il teatro, il luogo più tradizionale delle opposizioni ceche ai soprusi della storia (nei teatri si difese l'identita nazionale sia sotto gli Asburgo che durante la “normalizzazione” stalinista). In uno dei suoi lavori più conosciuti descriveva come la tortuosa lingua della burocrazia comunista avesse tolto ogni vero significato alle parole, istupidendo l'individuo, privandolo della sua identità. Coniugare morale e politica: era questo il suo messaggio continuo e battente, risollevando quella bandiera (“pravda vitezi”, la verità vince) già di Giovanni Hus (bruciato sul rogo come eretico) e di Thomas Masaryk, il primo Presidente della Repubblica cecoslovacca. Ma quando i suoi lavori cominciavano a entrare nei teatri, l'invasione delle truppe sovietiche schiacciò la “primavera di Praga”. Era la fine del tentativo, guidato da Alexander Dubcek, di coniugare socialismo e democrazia e della speranza che il comunismo fosse in grado di rinnovare se stesso.
Quella che veniva considerata una battaglia per la libertà e l'identità nazionale si trasferì dal partito alla società civile e Vaclav Havel ne fu l'interprete intransigente e coraggioso: fu tra i fondatori di Charta 77 il manifesto delle libertà civili, punto di riferimento di tutti i dissidenti dell'Est e che Havel, nonostante le pressioni poliziesche, continuò sempre a difendere e a diffondere. Per anni, entrava ed usciva di galera, ma continuava imperterrito a dare interviste a ricevere i giornalisti occidentali nella sua casa in riva alla Vltava, del tutto indifferente alla minacciosa sorveglianza delle macchine della polizia. Si parlava e si dibatteva spesso in cucina, come con tutti gli altri dissidenti, un ambiente che forse suggeriva intimità e protezione, stemperava le tensioni.
E così - come amava ironizzare - dalla cucina salì al Castello. Vi è rimasto quasi 14 anni, un tempo forse troppo lungo che ha reso più fragile e discutibile il bilancio della sua Presidenza. Egli stesso scriveva della sua delusione per la grande apatia della società che usciva dal comunismo, una società “minata da una cieca esplosione di ogni immaginabile vizio umano”. Ed era impaziente, innervosito, dalla resistenza che incontrava il suo messaggio di riscatto morale per uscire dall'"immoralità del comunismo”. I suoi critici lo hanno sempre accusato di “dilettantismo”. Vaclav Havel è rimasto a lungo alla Presidenza, ha ancorato il suo paese all'Europa e al mondo occidentale, ma si è anch'egli impigliato nei piccoli e grandi cinismi del potere. In particolare molti gli rimproverano di aver accettato - dopo aver minacciato le dimissioni - la divisione del paese dalla Slovacchia, ma soprattutto di aver voluto una legge criticata anche dalle organizzazioni umanitarie: la ha chiamata lustarace e impedisce l'ingresso in politica di chiunque abbia avuto un ruolo dirigente nel partito comunista. La legge ha duramente punito, in particolare, quel mezzo milione di persone che non si erano piegate, avevano rifiutato di accettare l'invasione sovietica, erano state espulse e ora riemergevano, dopo un ventennio, dai cantieri della metropolitana, dalle miniere, dai portierati di notte. Nemmeno Alexander Dubcek avrebbe potuto rientrare in politica. Forse per ragioni ideologiche ha privato un paese confuso di questo forte e raro messaggio di coraggio e resistenza. Poi sono venute le liti famigliari sulle proprietà recuperate, il matrimonio con una giovane attricetta, le piccole miserie quotidiane. La sua popolarità era un po’ svanita, ma il suo messaggio sul primato della morale sulla politica resta sempre forte e urgente.

il Riformista 20.12.11
Il potere dei senza potere
In morte di Vaclav Havel
di Ubaldo Casotto


Sabato scorso è morto Vaclav Havel, scrittore, drammaturgo e uomo politico praghese. Quando, il 29 dicembre 1989, divenne presidente della Cecoslovacchia (e poi, dopo la divisione dalla Slovacchia, della Repubblica Ceca fino al 2003), il pensiero andò subito al titolo profetico di un suo pamphlet di undici anni prima, Il potere dei senza potere. Nel 1978, Havel era già un dissidente di lungo corso, aveva già vissuto sulla sua pelle la repressione seguita alla fine della Primavera di Praga del 1968, il suo dissenso gli costò (in più riprese) cinque anni di prigionia, in cui contrasse la malattia respiratoria di cui è morto all’età di settantacinque anni. Ma era ancora, di fatto, uno sconosciuto per gran parte dell’Occidente; il suo nome era tra i primi firmatari, insieme a Jiri Hajek e Jan Patocka (morto il 13 marzo 1977 dopo estenuanti interrogatori) del manifesto di Charta ’77, movimento di cui fu portavoce, ma il dissenso dell’Est faceva fatica ad approdare nelle prime pagine dei quotidiani e nei telegiornali del mondo cosiddetto “libero”.
Il potere dei senza potere giunse in Italia grazie a un sacerdote di Forlì, don Francesco Ricci, fondatore del Centro Studi Europa Orientale (Cseo). Non fu lui materialmente a portarlo al di qua della Cortina di ferro, bensì un gruppo di donne recatesi in Cecoslovacchia ufficialmente per una vacanza, e che riattraversarono la frontiera con le veline del dattiloscritto di Havel nascoste sotto una scatola di formaggini Milkana. La piccola casa editrice romagnola, attenta in modo quasi solitario al dissenso dell’Est in anni in cui nessuno poteva neanche immaginare la caduta del Muro, lo tradusse e lo pubblicò nel 1979. In seguito uscì da Garzanti.
Con quel libro Havel, senza volerlo pianificare, prefigurò il suo futuro politico, un «senza potere» che giunge al vertice dello Stato, e nello stesso tempo identificò il nemico insopportabile per ogni forma di totalitarismo ideologico: il singolo che rivendica la sua libertà di pensiero e di azione e che rifiuta di «vivere nella menzogna». Il classico granello di sabbia che viene quotidianamente triturato dai meccanismi del sistema totalitario, ma che può farlo inceppare.
Questo essere solitario non deve necessariamente essere un intellettuale o un politico, basta un verduraio.
Il protagonista de Il potere dei senza potere è, infatti, il direttore di un negozio di frutta e verdura, il quale, come tutti i commercianti della città, ha in vetrina un cartello: «Proletari di tutto il mondo unitevi», non ci crede lui, non ci credono più forse neanche i proletari che entrano a fare le spesa; il cartello è un po’, ormai, come le piccole icone degli altarini nelle isbe dei contadini russi, o certe edicole mariane agli angoli dei palazzi romani: stanno lì per tradizione, nell’indifferenza di tutti. “Quasi” di tutti. Il verduraio, un giorno decide di togliere il cartello, di rompere un tacito patto di fedeltà con il potere che lo governa, di ribellarsi alla circostanza che lo pone, ne sia cosciente o meno, nel ruolo del mentitore. Fino a quel giorno in cui prova a «vivere nella verità». Questo tentativo gli costa la persecuzione: perderà il posto di direttore del negozio e tornerà a fare l’addetto del magazzino, ai figli saranno chiuse le porte delle scuole superiori, ed entrerà in una spirale di punizioni e angherie.
Tutto questo per un cartello cui nessuno badava più?
La reazione apparentemente spropositata del regime a un piccolo gesto di ribellione del singolo ha ragion d’essere nella sua pretesa totalitaria. Il tutto meno uno non è più il tutto. L’ideologia, è questa la sua caratteristica, che fa da collante tra potere e società non può sopportare l’eccezione. La sua funzione è esattamente quella di fornire alle persone nel doppio ruolo di vittime e pilastri del sistema l’argomento (o l’illusione) che giustifica il sistema stesso come realizzazione della legge universale che concilia l’uomo con il tutto. Il sistema post-totalitario (così lo definì Havel) richiedeva (richiede?) questo convincimento o almeno la sua finzione: l’accettazione di vivere nelle menzogna. «È ovvio che degli uomini che hanno semplicemente deciso di vivere nella verità, di proclamare ad alta voce quello che pensano, di solidarizzare con i cittadini, di creare come vogliono e di comportarsi in sintonia con il proprio “io migliore” non accettino che questa loro “posizione” originale e positiva venga definita al negativo... e soprattutto che non accettano di essere definiti come coloro che sono contro questo e quello e non semplicemente come coloro che sono questo e quello» (Il potere dei senza potere).
Con la sua azione libera, l’ortolano ha affrontato un mondo e ha posto le basi per il suo cambiamento non violento. La «vita nella menzogna», infatti, si perpetua solo a condizione della sua universalità: ogni trasgressione, ogni tentativo di vita nella verità «la nega come principio e la minaccia nella sua totalità». Perciò, scrive Havel, la vita nella verità «non ha solo una dimensione esistenziale (restituisce l’uomo a se stesso), noetica (rivela la realtà com’è), e morale (è un esempio); ma ha anche una evidente dimensione politica».
Nei sistemi post-totalitari il potere si fonda sulla sottrazione ai danni degli uomini della loro esistenza autentica, sulla loro alienazione. Fornendo una falsa risposta al desiderio dell’uomo, il potere deve far riferimento alla vita autentica che dimora inespressa negli uomini. Celata nel mondo dell’apparenza, della menzogna, vive perciò la sfera segreta inespressa, delle intenzioni della vita. Tuttavia, essa non resta sempre segreta e inespressa: nel momento in cui viene alla luce e si manifesta (nell’alzata di testa del verduraio) lo fa con un’enorme forza dirompente. Il sistema viene sgretolato dalle sue fondamenta poiché la manipolazione delle intenzioni autentiche della vita gli viene ormai impedita: l’uomo si riappropria dell’espressione del suo desiderio.
Della sua biografia letteraria e politica tanto si è già scritto, ma è in forza di questa impostazione umanistica che Havel sarà protagonista della “rivoluzione di velluto” del suo Paese e anche della prima secessione non cruenta di un’entità statale, quella tra Slovacchia e Repubblica Ceca.

La Stampa 20.12.11
Hitchens, l’ultimo attacco alla Chiesa


Due mesi prima di morire, Christopher Hitchens, scomparso la scorsa settimana per un tumore all’esofago, aveva sferrato un duro attacco al Vaticano accusandolo di complicità con i regimi totalitari degli Anni 30 in Europa. Ateo militante, Hitchens ha sostenuto nell’ultima intervista con Richard Dawkins su New Statesman che ogni governo fascista in Europa in quel periodo era in realtà un «partito cattolico di estrema destra».

Repubblica 20.12.11
Libri, amore e ironia quegli ultimi giorni passati con Hitchens
Lo scrittore che aveva fede soltanto nei libri
di Ian McEwan


Commentava i sonetti della Browning portati da me e aveva ripreso la "Montagna incantata" di Mann
Non voleva né uva né fiori, solo conversazione e presenza. I silenzi erano utili. Gli piaceva trovarmi lì quando riapriva gli occhi
L´autore di "Solar" racconta il loro incontro in ospedale: dalla lettura di Chesterton ai video guardati sul computer (nonostante il dolore e la morfina), il ritratto dello scrittore scomparso

Il posto dove ha trascorso le ultime settimane della sua vita ha poco a che fare con i libri. Ma Christopher Hitchens ne ha fatto qualcosa di suo. Il Medical Center di Houston, vicino al centro della città, è un assembramento di torri, un po´ come La Défense di Parigi o la City di Londra. Qualcosa come un comprensorio finanziario ove la moneta corrente è la malattia.
È un complesso che concentra competenze mediche e tecnologiche di altissimo livello mondiale. La più alta delle sue torri è la negazione di un possibile dio benigno: la scritta al neon che la sovrasta indica il reparto di oncologia pediatrica. Questo «dirupo tagliato netto» – come Larkin descrive in un suo poema la torre di un ospedale – si innalza proprio di fronte all´edificio del reparto di Christopher, un po´ meno alto, riservato agli adulti.
Non c´è mai stato un malato più facile da visitare in un ospedale. Non voleva né uva né fiori, solo conversazione e presenza. I silenzi erano tutti utili. Gli piaceva trovarmi ancora lì quando riapriva gli occhi dopo uno dei suoi frequenti momenti di torpore, indotti dalla morfina. La sua malattia non lo interessava. Non ne voleva parlare.
Al mio arrivo dall´aeroporto, l´ultima volta che sono andato a trovarlo, ha visto spuntare dalla mia borsa un piccolo libro, e ha subito allungato la mano.
Era London Under di Peter Ackroyd, una storia sotterranea della città. Per una decina di minuti abbiamo celebrato il suo autore; non ne avevamo mai parlato prima, ma sembrava che Christopher avesse letto tutti i suoi libri. Solo dopo ci siamo salutati. Quel libro, lo voleva – mi ha spiegato – perché era piccolo e poteva tenerlo in mano senza stancarsi il polso. E subito si è messo a scrivere note a matita sui margini. Lo avrebbe finito in serata. Avrebbe anche potuto farne una recensione, ma doveva scrivere un pezzo lungo su Chesterton.
Ecco come si svolgevano queste visite: si parlava di libri e di politica; a un certo punto lui si appisolava, mentre io leggevo o scrivevo; poi si ricominciava a parlare, dopo di che ci mettevamo a leggere tutt´e due. La stanza del reparto di cure intensive era ingombra di macchinari lampeggianti e di tubi, che però sembravano quasi decorativi. I libri, il giornalismo e le idee che li sottendono avevano conquistato quel luogo sterilizzato, lo avevano riscaldato e nobilitato trasformandolo in qualcosa come una bella biblioteca universitaria; e ci proteggevano dalla lugubre visione delle torri oltre le vetrate, di quel mondo ove amori e opportunità – scrive Larkin – sono «irraggiungibili da ogni mano che da qui si tende».
Nel pomeriggio lo aiuto a scendere dal letto. L´idea è di passeggiare su e giù per il reparto, tanto per fargli muovere le gambe. Mentre si appoggia a me col poco peso residuo del suo corpo tremante, gli dico – solo perché so che lo sta pensando: «Prendi il mio braccio, vecchio rospo!» E lui mi fa quel mezzo sorriso di sbieco che ricordo così bene, lo stesso di quando era in buona salute. Un sorriso di intesa o di anticipazione, come quando a fine pomeriggio ci si preparava a una «serata vergognosa», cioè di piacere, o anche «da sodali» – che era una delle sue espressioni preferite.
Sarà stato per questo che due ore dopo gli ho letto ad alta voce Whitsun Weddings (I matrimoni di Pentecoste). Christopher mi ha chiesto di farlo anche per suo figlio Alexander – una presenza preziosa in quella stanza, nelle ultime settimane – e per sua moglie Carol Blue, che si batteva come una tigre per la sua causa medica. Si era accanita contro certe lentezze burocratiche dell´ospedale con tanta ferocia che qualcuno aveva chiamato i guardiani per farla buttare fuori. Per fortuna aveva finito per affascinarli e disarmarli.
Ho letto il poema, e al celebre finale: «A sense of falling, like an arrow-shower / sent out of sight, somewhere becoming rain» (Un senso di caduta, come scroscio di frecce / mandate via a perdita d´occhio/ da qualche parte trasformate in pioggia) Christopher ha mormorato dal suo letto: ««È così cupo, orribilmente cupo». Io non ero d´accordo – e non per il desiderio di tirarlo su di morale. Anche se certo il viaggio giunge al termine, e le coppie di novelli sposi si dividono per andare verso destini separati. Ma lui insisteva sulla sua idea, e dopo una settimana, quando già ero di ritorno a Londra, ancora ne discutevamo scambiandoci battute via e-mail. Ecco come esordiva uno di questi messaggi: «Carissimo Ian, beh, di fatto, "no rain, no gain" (niente pioggia, niente guadagno) – ma tutto dipende dalla misura in cui Larkin antropomorfizza il suo subconscio… A titolo provvisorio esprimerei il sospetto che quel "trasformarsi in pioggia da qualche parte" non promette niente di buono».
E dire che quest´uomo soffriva costantemente. Non potendo bere né mangiare, succhiava minuscole schegge di ghiaccio. Qualcun altro avrebbe cercato di ingannare se stesso con l´idea di un qualche piano divino (perché proprio io?), o il sogno di un aldilà. Per Christopher c´erano solo i libri. Nei tre giorni della mia ultima visita ho preso nota dei suoi temi di conversazione. Dopo avermi scippato il mio Ackroyd, mi ha parlato di un narratore slovacco; si è chiesto se i romanzi di Dreiser sul mondo della finanza potessero servire da guida nell´attuale crisi; ha commentato il cattolicesimo di Chesterton, i Sonnets from the Portuguese di Browning, che gli avevo portato alla mia visita precedente, e la Montagna Incantata di Thomas Mann, che aveva riletto in funzione di una riflessione sulle ambizioni imperiali tedesche nei confronti della Turchia. E siccome avevamo incominciato a parlare dei vecchi tempi a Manhattan, ha voluto celebrare e citare il Requiem tedesco di James Fenton: «Quanto è mai confortante/una o due volte all´anno/ritrovarsi insieme/ e scordare i tempi andati».
Mentre stavo con lui, nella lontana Londra era in corso una celebrazione: alla Festival Hall, Stephen Fry esponeva le sue riflessioni sulla vita e sul tempo di Christopher Hitchens. Lo abbiamo aiutato a scendere dal letto e a sedersi in poltrona, davanti al mio portatile. Alexander si è scavato un percorso su Internet mediante tutta una serie di password speciali per collegarci all´evento, e grazie a un suo piccolo stereo siamo riusciti a ricevere l´audio molto prima del video. Ciò che abbiamo ascoltato era sorprendente e anche molto gratificante per Christopher: il suono di duemila voci, con tanti frammenti di dialoghi. E infine anche l´immagine della sala affollata.
Sembravano molto giovani. Avrei scommesso che sull´Iraq sarebbero stati quasi tutti in totale disaccordo con Christopher. Ma erano lì. E in tutto il Paese erano accorsi per lui, a riempire le sale cinematografiche. Con un mezzo sorriso, Christopher ha alzato l´esile braccio in segno di saluto. Anche se i parenti stretti e gli amici sono presenti nella stanza dell´ospedale, si muore in solitudine. Il confinamento è totale. Ma Christopher ha potuto vedere coi suoi occhi che fuori da quella piccola stanza, la vita non lo aveva dimenticato. Per un momento – e con tutto il rispetto per Larkin – grazie a Internet, il mondo gli ha teso la mano. La mattina dopo, su richiesta di Christopher e con l´aiuto di Alexander, ho portato un tavolino sotto la finestra, installato all´altezza giusta il suo computer portatile coi vari fili e spinotti e sistemato i cuscini sulla poltrona. Certo, era bello conversare e sonnecchiare, ma gli restavano solo tre giorni di tempo per buttar giù tremila parole su Ian Ker e la sua biografia di Chesterton. Ogni volta che sentirò parlare di Christopher giornalista penserò a questo momento.
Considerate il mix: dolori continui, debolezza estrema, effetti della morfina, il tutto intrecciato alle complessità della teologia della Riforma, al romanticismo di Chesterton, all´immagine di un´Inghilterra pervasa da quel tipo di cattolicesimo che mediava lo scontro col fascismo, e il suo gusto del paradosso, che Christopher voleva ridimensionare. A momenti la testa gli penzolava, gli si chiudevano gli occhi, ma poi con uno sforzo sovrumano si dava uno scossone per svegliarsi e scrivere qualche altra riga. La sua eccellente memoria gli era d´aiuto, poiché non aveva sottomano i libri che normalmente avrebbe consultato per un lavoro del genere. Quando uscirà questa recensione, leggetela. La miracolosa fluidità della sua prosa non lo abbandonava mai, il suo impegno era appassionato. È rimasto sempre fedele al suo mestiere. Uno scrittore consumato, un amico brillante. Come nella celebre frase di Walter Pater, arso «in quella dura fiamma, simile a una gemma». Fino alla fine.
Traduzione di Elisabetta Horvat
© 2011 Ian McEwanAgenzia Santachiara

Repubblica 20.12.11
Asor Rosa e Capossela "Così Conrad è musica"
Uno scrittore e il dialogo, tra esperti, su come si riesca a passare dalla letteratura ai testi delle canzoni
"Attraverso la mediazione dei suoni, i personaggi dei libri, che ormai riguardano pochissime persone, arrivano a molta più gente"
di Sandro Veronesi


etti una mattina a casa di Alberto Asor Rosa, nel cuore della Città del Vaticano, imbucato in una conversazione tra il quasi ottantenne autore di Scrittori e popolo e Vinicio Capossela, il più letterario dei cantautori italiani. La loro stima reciproca, nonché la curiosità di conoscersi e parlarsi di persona mi porta a svolgere il ruolo d´intermediario, in quello che si rivelerà un dialogo sulla – chiamiamola così – plasticità della letteratura. Non credo succeda spesso che la critica letteraria e la musica popolare dialoghino così direttamente, per il tramite di due loro illustri rappresentanti: perciò esser presenti, e darne conto, secondo me ha una sua importanza. Anche se il ruolo di ponte che dovevo svolgere si rivela subito sovranamente inutile, considerando con quanta accuratezza Asor Rosa si è preparato le domande.
Alberto Asor Rosa «Tempo fa, leggendo un saggio di una collega americana che si occupa di letteratura dell´emigrazione, mi sono imbattuto in una citazione proveniente da una tua introduzione alla Confraternita dell´uva pubblicato da Einaudi. Dopodiché ho letto un´altra tua introduzione a quelli che una volta si chiamavano I racconti dell´Ohio di Sherwood Anderson, di cui possiedo la prima edizione del 1955. Fante, Anderson: da cosa nasce l´interesse per questi scrittori?».
Vinicio Capossela «Fante per diretta contiguità diciamo così di destino, poiché io come lui ho vissuto lo straniamento dell´appartenere a una comunità in maniera marginale, per via dell´emigrazione. Sono nato in Germania da genitori provenienti dall´alta Irpinia, e sono cresciuto in Emilia – quindi mi sono subito riconosciuto nei destini raccontati da Fante. Anderson perché racconta storie anche lui molto radicate nella comunità di cui fa parte, anche se in questo caso non c´è la marginalità. E poi è il tono di entrambi a riguardarmi, il timbro. Anderson soprattutto si porta ancora dietro l´eco del XIX secolo, quell´impronta biblica, puritana, per la quale, come in Conrad, gli errori sono irreparabili».
A. R. «Poi, da autori importanti ma ancora, diciamo così, umani, sei passato in questo ultimo disco ad autori decisamente "fuori misura": Omero, la Bibbia, Dante, Conrad, Melville. Cioè ti riferisci a un sistema massimo per condensarlo in un piccolo testo. Come avviene questo lavoro di condensazione? Che rapporto c´è tra Lord Jim libro e Lord Jim canzone?».
C. «Io credo che in noi operi sempre una specie di setaccio, grazie al quale di alcuni libri noi sappiamo riconoscere un´ombra che ci appartiene. La canzone finisce inevitabilmente per parlare di quell´ombra. Nel caso di Lord Jim è la debolezza, l´errore: questo mi appartiene. E infatti la canzone ripete "sei uno di noi"».
A. R. «E qual è il criterio di scelta prevalente? Che cosa privilegia?».
C. «Privilegia quel punto che ti centra come un birillo e ti butta giù. Un punto scoperto che si attiva. A me i grandi autori fanno sempre un po´ male, perché aprono un varco tra noi e "quell´altra parte della vita", soltanto intuita, ma necessaria a completarci. Io credo che nella letteratura non ci si possa nascondere, ma soltanto rivelare».
Qui l´eccezionalità di questo incontro si rafforza ai miei occhi nell´assenza totale di obiezioni, da parte di Asor Rosa, nei confronti dell´operazione che Vinicio – per me un fratello, ho intitolato un romanzo col titolo di una sua canzone – ha appena confessato. Possibile che gli vada bene? E siccome le obiezioni non le fa lui, ne faccio una io. Così, per seminare un po´ di zizzania.
Senti, ma in questo tuo servirti del più alto pensiero letterario esistente per ricavarne canzoni non ti sembra di andare a rubare in chiesa?
C. «No, onestamente no. Oltretutto a volte questi libri contengono già delle canzoni. Moby Dick è pieno di canti e Billy Budd termina con una ballata. Sono riportate tra virgolette, strofa per strofa; stanno lì e forse aspettano di essere cantate. In realtà passare per la grande letteratura epica è anche un modo di andare oltre il sé: sono archetipi che appartengono già a tutti».
E a lei, professore, tutto questo sta bene? Come la mettiamo con la sacralità della letteratura? Non le sembra di doverla difendere da questo tipo di creatività così onnivora, intrusiva?
A. R. «Al contrario, devo dire che questa scelta di esprimersi attraverso i grandi personaggi della letteratura senza aggiungere un "sé" è qualcosa di molto raro, sia nella canzone sia nella poesia. Lui prende i grandi testi, li concentra in un´intuizione e li mette in musica. È encomiabile, secondo me. Il rapporto letteratura-massa è oggi abbastanza compromesso: il fatto che la grande letteratura arrivi a tanta gente attraverso questa mediazione musicale mi sembra davvero commendevole».
C. «Il fatto è che il lettore è più interessato al cosa, secondo me, che non al chi. Parlare direttamente di sé io lo vedo più che altro come un ingombro che l´autore mette tra sé e il lettore».
A. R. «Già. Tutto questo però potrebbe anche far pensare a un autore che si prende troppo sul serio: invece no, tu sei ironico e autoironico, e in brani come Pryntyl tu giochi, anche, con chi ti ascolta».
C. «Io mi considero innanzitutto un uomo di spettacolo. Anche solo il semplice fatto di metterci della musica ha a che fare, secondo me, con questo istinto che viene dal mondo dello spettacolo. La musica, tra le tante cose, è anche svago. Io credo che testo e musica siano dei vasi comunicanti. La terzina di Dante sulla lancia del Pelìde era già usata dai madrigalisti, per cantare lo sguardo dell´amata. La sirenetta Pryntyl viene da un testo che Céline aveva concepito come "soggetto per balletto o cartone animato", la cui epigrafe cita la musica come "edificio del sogno"».
A. R. «Certo. E come costruisci il rapporto tra questi testi così carichi di letteratura e la musica che deve trasportarli? Esistono dei modelli per costruirlo?».
C. «Sì, ci sono sempre dei modelli – le arie d´opera, per esempio – , anche se io non mi pongo mai il problema in questi termini. Io resto fedele al motto "massimo risultato con il massimo sforzo"; oppure a una delle poche reminiscenze di chimica che mi sono rimaste dalla scuola, quella secondo cui un gas si espande finché ha spazio per farlo. Naturalmente molto deriva dalla struttura metrica del testo, dalla sua intrinseca musicalità. E soprattutto dalle parole, lavorarle come il ferro o il legno, fino a che non suonano. Alla fine tutto deve generare un´emozione, mettere in moto il meccanismo dell´evocazione».
A. R. «Mi resta un´ultima curiosità: hai detto che i tuoi genitori sono nativi dell´alta Irpinia. Stai parlando forse della zona descritta da Francesco De Sanctis nel suo Viaggio elettorale? Quel pugno di case strette attorno alla sua Morra, nel collegio di Lacedonia, dove ottenne quei 360 voti che all´epoca gli valsero l´elezione in parlamento?».
Qui devo dar conto di un certo sbalordimento di Vinicio Capossela. Evidentemente, anche se ha di fronte un grande erudito, non si aspettava questa notazione.
C. «Esattamente quei paesi lì, di cui parla De Sanctis».
A. R. «E anche Franco Arminio, che fa proprio un´operazione di "salvataggio" di quei paesi, di quelle realtà. E di che paese sono originari, i tuoi genitori?».
C. «Mia madre è di Andretta, detta "la Cavillosa"; mio padre è di Calitri, detta "la Nebbiosa"».
A. R. «La Cavillosa mescolata con la Nebbiosa: sai che è un´ottima definizione di te come artista, alla fin fine?».
È vero. Questa è forse la migliore definizione di Vinicio Capossela che abbia mai sentito. Ed è anche un´ottima maniera di terminare questa conversazione, che tanto strana alla fine non è stata.

Corriere della Sera 20.12.11
Il mito globale dei Re Magi
Perché il racconto commuove ancora il mondo
di Pietro Citati


Nei Vangeli, l'apparizione dei Magi è timidissima. Ignoriamo chi siano i Magi che, nel Vangelo di Matteo (l'unico che li ricorda), giungono da Oriente: sappiamo soltanto che seguono una stella, giungono a Betlemme, entrano nella casa di Giuseppe e Maria, vedono il bambino, si prostrano, gli rendono omaggio e gli offrono i doni: oro, argento e mirra.
Tutto il resto del racconto della Natività, che trionfa nel Vangelo di Luca, viene abolito da Matteo. Non ci sono i pastori e le greggi, l'angelo del Signore, la grande gioia di tutto il popolo, la nascita del Salvatore, la moltitudine dell'esercito celeste che loda Dio: «Gloria a Dio nelle sublimità e sulla terra pace agli uomini della divina benevolenza»; e sopratutto il segno singolarissimo, il paradosso dei paradossi: «Il Cristo, avvolto in fasce che giace in una mangiatoia». Nel Vangelo di Matteo, abbiamo soltanto questi Magi sconosciuti: saggi pagani, che anticipano la conversione dei popoli stranieri al Signore, mentre Israele lo rifiuta.
Il racconto è sobrio e rapido: nessun episodio della Bibbia lo anticipa; tanto che potremmo persino immaginare che sia un particolare indifferente, lasciato cadere a caso da Matteo. Ma, pochi anni dopo l'età dei Vangeli, la vicenda dei Magi diventò la più grande leggenda mitica del Nuovo Testamento: qualcosa di sacro, festoso, tremendo. La pietà popolare vi trovò tutto ciò che desiderava: il brillio delle grandi ricchezze, gli eserciti multicolori, l'Oriente, la misteriosa saggezza dell'Oriente, i minuziosi particolari della vita di Gesù, l'aura della leggenda, il verisimile, l'inverosimile, il vasto, l'ingenuo e il romanzesco, che incantano i semplici e i bambini. Così la storia dei Magi attraversò arricchendosi i secoli del Medioevo, lo riempì di apparizioni, fino a quando trionfò in un capolavoro: l'Historia Trium Regum di Giovanni di Hildesheim, composto attorno al 1364, e raccolto da Luca Scarlini nel piacevolissimo Natale dei Magi (Einaudi, pagine XXIV-271, 16).
Ora, finalmente, i nomi sconosciuti dei tre Magi vennero rivelati: si chiamavano Melkon, Gaspar, Balthasar, oppure Melchior, Jaspar, Balthasar.
Ognuno di loro discendeva da una delle tre razze della Bibbia: giungevano dalle diverse regioni d'Oriente; e incarnavano il passato, il presente, il futuro, o i sacerdoti, i guerrieri e i coltivatori. I narratori del Medioevo inventarono loro un passato, che risaliva fino alle origini del mondo. Quando fu cacciato dal Paradiso Terrestre, Adamo ricevette un dono di Dio che lo legava al suo creatore: un libro scritto, chiuso e sigillato da quella mano meticolosa e onnipossente.
Il libro discese le generazioni: venne trasmesso di figlio in figlio; da Mosè ad Abramo a Isacco a Giacobbe a Giuseppe; e finalmente giunse, intatto e immacolato, senza un foglio o una lettera in più o in meno, nelle mani dei Tre Magi. Quando l'angelo del Signore annunciò alla Vergine Maria che sarebbe divenuta madre, in quell'istante medesimo il libro si aprì; e la voce dello Spirito Santo — una voce squillante che non avevano mai ascoltato — annunciò ai Tre Magi di lasciare le loro case, di seguire una stella, e di andare ad adorare un misterioso Neonato.
La stella, quasi anonima, del Vangelo di Matteo diventò rapidamente una immensa stella miracolosa. Gettava fiumi e fiumi di luce, che avevano la consistenza dell'acqua di mare: splendeva più di qualsiasi astro o cometa mai conosciuti; anche di quella che, pochi decenni prima, aveva annunciato la nascita di Mitridate re del Ponto. Gli altri astri sembravano offuscarsi e ottenebrarsi dinanzi a quel chiarore sovrabbondante; e danzavano per rendergli omaggio.
A poco a poco, la stella si innalzò sopra il mondo, come un'aquila, e rimase immobile, fissa nello stesso punto: il sole si avvicinò sfiorandola, quasi toccandola; e i raggi lunghissimi e ardenti della stella diventavano grandi uccelli che battevano festosamente le ali. Giù in basso, in Persia o a Babilonia o in Caldea, i Magi fissavano il cielo con attenzione spasmodica; e quando gli occhi erano stanchi e quasi ciechi si accorsero che la superficie dell'astro era disegnata da una calligrafia minuziosa e meticolosa: qui c'era l'effigie di un bambino, lì l'immagine di una virgo che allattava, là il disegno di una croce sanguinante.
Non sapevano ancora che quei segni sarebbero divenute impronte evangeliche. I Magi continuarono a fissare per giorni il cielo e compresero che non avevano compreso. La stella miracolosa era un enorme angelo, che aveva preso le forme e lo splendore di una stella: forse lo stesso angelo che, molti secoli prima, aveva guidato i figli di Israele fuori dal vasto carcere dell'Egitto.
I tre Magi non si erano mai conosciuti. Venivano da lontano e percorrevano strade diversissime che non si incontravano nella vastità del deserto e delle montagne. Una sola cosa avevano in comune: quella stella, sempre la stessa, sempre diversa, che precedeva ciascuno di loro e i loro eserciti numerosi e coloratissimi; e avanzava quando essi avanzavano. Non sostavano quasi mai: quasi mai toccavano cibi e bevande, e non nutrivano le bestie di foraggio. Camminavano da lungo tempo e tuttavia credevano di aver camminato da una sola giornata, e di aver contemplato un solo tramonto. Mentre procedevano, le vie sconosciute, i corsi d'acqua, le paludi e le montagne diventavano vaste pianure, piene di strade affollate. Presso Gerusalemme si levò sopra di loro una nebbia densissima e caliginosa, che nascose la stella-angelo. Melchior si fermò presso il monte Calvario; Balthasar presso il monte Oliveto. Quando la nebbia si andò diradando, i tre Magi si incontrarono all'improvviso: non si erano mai visti, non si conoscevano; eppure si baciarono con grande affetto, come se avessero trascorso insieme tutta la vita. Cominciarono a parlare. Si accorsero di parlare lingue diverse: ma ciascuno di loro credeva che gli altri dicessero le loro stesse parole.
Quando i tre re giunsero vicino a Betlemme, vestirono gli abiti e gli ornamenti regali, che avevano portato con sé dall'Oriente. Lì vicino c'era una casa chiamata alchan: un tempo custodiva cavalli, muli, asini e cammelli, che venivano offerti ai viaggiatori e ai pellegrini: ma, al tempo dei Magi, la casa era distrutta ed era rimasto soltanto un piccolo tugurio — pareti di mattone, muri sconnessi, un'aia dove si vendeva pane, e una mangiatoia di pietra, grande come un'urna, alla quale erano legati il bue di un mendicante e l'asino di Giuseppe. Era la mangiatoia — «il segno dei segni» — di cui parlava il Vangelo di Luca.
La grande stella-angelo si fermò, si abbassò tra i mattoni e i muri di pietra con un fulgore così grande che ogni pietra del tugurio venne accecata e trasfigurata. I Magi furono sconvolti dal timore. Videro Maria, bruna di capelli e di pelle: essa si copriva il capo con un mantello bianco di panno, tranne il viso avvolto nel lino, e con la mano destra reggeva il corpo di Gesù. Allora Melchior offrì a Gesù un pomo d'oro, che stringeva in una mano, ed era già appartenuto ad Alessandro Magno. Rappresentava il mondo nelle sue forme più fastose e vistose. Ma Gesù non aveva bisogno del pomo d'oro e, appena gli fu consegnato, lo frantumò e lo ridusse in polvere con un tocco della sua piccolissima mano.
In quel momento cominciò il ritorno. La stella scomparve: nessun barlume celeste ricordava ai Magi che un grande angelo li aveva illuminati per due settimane. Le strade erano oscure, scoscese e incerte. Se il primo viaggio era durato dodici giorni, quello di ritorno, pieno di ansie, di pene e di fatiche, durò due anni. La notte, come tutti i viaggiatori, i Magi si fermavano nelle locande, chiedendo cibo, aiuto e soccorso. Ebbero timore e tremore. Alla fine dei due anni riuscirono a ritornare a casa, portando uno strano regalo. Quando avevano lasciato Betlemme, Maria aveva donato loro una fascia, come ricordo. In Oriente i Re e i principi si raccolsero attorno ai Magi, domandando cosa avevano visto e cosa avevano fatto, in che modo erano andati e ritornati, e cosa avevano portato con loro. Essi mostrarono la fascia di Maria. Celebrarono una festa, accesero il fuoco e, secondo l'usanza zoroastriana, lo adorarono e vi gettarono sopra la fascia. Il fuoco la avvolse e la accartocciò: ma, quando il fuoco si spense, estrassero la fascia dalle ceneri, come se la fiamma non l'avesse nemmeno toccata.
Dunque la verità — dissero i Magi — non era il fuoco d'Oriente: ma la fascia di Maria, la mangiatoia del Bambino, la croce disegnata sulla stella, l'astro-angelo che li aveva protetti, il tugurio pieno di splendore. I Magi presero la fascia, la baciarono, e se la misero sul capo e sugli occhi, dicendo: «Questa è la verità». Poi la nascosero con grande venerazione tra i loro tesori.
Infine, nelle loro remote e quasi inattingibili sedi d'Oriente, i tre Magi cedettero alla forza del tempo. Melchior aveva centosedici anni, Balthasar centododici, Jaspar centosei. Poco prima che morissero, sopra la loro città apparve una stella: la stessa che li aveva guidati a Betlemme; e ora ricomparve, a salutarli e forse ad accompagnarli per l'ultima volta. Nell'ottava della Natività del Signore, dopo aver celebrato l'Ufficio divino, Melchior chinò la testa e dolcemente si addormentò nel grembo di Dio, senza provare nessun dolore. Nella festa dell'Epifania, chinò il capo Balthasar: sei giorni dopo, Jaspar.
Gli aiutanti li rivestirono con i loro sontuosi abiti regali e sacerdotali: poi li seppellirono nello stesso sepolcro; in piedi, l'uno accanto all'altro, come se percorressero ancora le strade di Palestina, mentre l'astro-angelo li guidava verso la più conosciuta e sconosciuta delle grotte.

Tutti i grandi che si sono rifatti all'episodio
L'episodio che ha per protagonisti i tre Re Magi Melchiorre, Gaspare e Baldassarre ispirò nel Trecento a Giovanni di Hildesheim un capolavoro: il Natale dei Magi, raccolto da Luca Scarlini e appena pubblicato da Einaudi (pp. XXIV-271, 16).
Oltre a Giovanni di Hildesheim si sono ispirati a questo episodio evangelico scrittori di ogni epoca e tendenza letteraria: dagli autori dei Vangeli apocrifi a Marco Polo, da Jacopone da Todi a Goethe, da Gabriele D'Annunzio ad Anatole France, e ancora Lope De Vega, William Butler Yeats, Edzard Schaper e Arthur G. Clarke.

Corriere della Sera 19.12.11
La strana triade Svevo-Joyce-Gadda
di Giorgio Pressburger


Oggi sono centocinquanta anni da quando è nato Italo Svevo, uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. Era nato dunque nell'anno in cui era nata anche l'Italia. La grande narrativa moderna e l'unità politica del nostro Paese si può dire siano sorte insieme.
Ma Italo Svevo non era il vero nome di questo scrittore, la cui famiglia non era nemmeno italiana ma di origine ungherese. Veniva da una piccola città della Transilvania, oggi romena, allora appartenente all'Ungheria, cioè all'Impero Austro-Ungarico. Il nome di questa città, poco più che un paese, è Copsa Mica in romeno, Kiskapus per gli ungheresi. Vent'anni fa, all'epoca di Ceausescu era noto come uno dei punti più inquinati d'Europa. C'erano due grosse fabbriche una metallurgica, l'altra di produzione di coloranti che lavoravano a pieno ritmo. A Copsa Mica non c'è alcun segno dell'origine della famiglia Schmitz. Sì, Italo Svevo in realtà si chiamava Aron Hector Schmitz e la sua era una famiglia di ebrei centroeuropei. Lo scrittore aveva scelto lo pseudonimo di Italo Svevo per indicare l'appartenenza a due culture: italiana e tedesca. Svevo, nato a Trieste il 19 dicembre 1861, infatti non aveva per madre lingua l'italiano, ma il dialetto triestino e il tedesco. Aveva compiuto i suoi studi di indirizzo commerciale in Germania e non a Trieste, tantomeno in Italia. Quindi, lo scrittore oggi celebrato come l'orgoglio della narrativa italiana, tradotto e conosciuto in tutto il mondo, in realtà era una sorta di immigrato.
Questo fatto dice molto per l'origine della nostra nazione di allora, e anche di oggi. Italo Svevo aveva difficoltà a scrivere in italiano corretto, ma il novanta per cento degli italiani le avevano. Svevo chiese aiuto a amici e conoscenti per correggere il suo linguaggio narrativo. Uno di questi «correttori» era Silvio Benco. Ma il linguaggio di Svevo così atipico, così strano ma immediato, aveva negli apparenti difetti la sua forza. Oltrepassava i limiti del linguaggio letterario, dell'esatta copia del toscano del '300, divenuto dal '500 in poi la norma per la letteratura italiana e per il romanzo nazionale di Manzoni, I promessi sposi.
Trieste era un crocevia, allora, e Svevo nascendo lì aveva trovato una autentica, reale terra di nessuno europea popolata da avversari dell'Austria e ammiratori dell'Italia. Ed è di questi che lui parla nei suoi geniali romanzi e racconti, del piccolo borghese centroeuropeo che popola la terra di nessuno. Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno, goffo commerciante, è un ibrido che parla un italiano un po' sbilenco, come il suo autore. Il quale però è ugualmente un grande scrittore. Come si spiega questo? Svevo aveva scoperto una verità: la grandezza di un'opera non sta solo nel linguaggio. Quanti hanno letto la Bibbia in ebraico e in aramaico? Eppure la Bibbia è uno dei libri più letti.
La metamorfosi del personaggio del libro di Svevo è questa: la trasformazione di un piccolo insetto borghese centroeuropeo in essere universale, in «angelica farfalla», per dirla con Dante. James Joyce, dopo 14 anni di soggiorno a Trieste, percorrerà una strada simile dando vita al personaggio di Leopold Bloom, ebreo ungherese trapiantato a Dublino, città da mito letterario di cui diventa la coscienza vivente.
Ma c'è un altro narratore che si deve menzionare. Il vero grande manipolatore della lingua letteraria italiana, lo scrittore e ingegnere Carlo Emilio Gadda, altra colonna portante della nostra narrativa novecentesca, altra persona tormentata e dubbiosa, riconosciuta dalla cultura italiana tardivamente, come Svevo stesso. Anche Gadda era per metà originario dell'Ungheria. Sua madre, Adele Lehr, era un'insegnante di scuola media, di famiglia proveniente anch'essa dall'Impero Austro Ungarico. Gadda è stato, oltre che narratore di livello mondiale, un vero giocoliere dell'italiano letterario e dialettale, di vari dialetti. Nel suo capolavoro La cognizione del dolore il protagonista combatte con il proprio odio per la madre, e alla fine — ma il libro non è del tutto finito — pare che possa averla uccisa davvero. Gadda combatteva in quel libro per la sua libertà interiore. La madre l'aveva costretto a diventare ingegnere e non laureato in lettere: lui descrive sentimenti tanto autentici e tormentosi come forse non era riuscito a nessun suo contemporaneo.
Queste due figure dominanti testimoniano di un'Italia aperta al mondo circostante, non accecata da futili furori nazionalistici, nutrita da una cultura universale, non chiusa al nuovo e allo «straniero», come disgraziatamente capita in questi tempi.