giovedì 22 dicembre 2011

La Stampa 22.12.11
Lavoro, Fornero si ferma dopo l’altolà di Bersani
Il ministro del Welfare: era tutto un equivoco, l’articolo 18 è l’ultimo problema
di Roberto Giovannini


ROMA «Non avevo e non ho in mente nulla in particolare che riguardi l'articolo 18». Elsa Fornero, ministro del Lavoro, approfitta dell’ospitata a «Porta a Porta» per chiudere in modo apparentemente definitivo il caso aperto dalla sua intervista di qualche giorno fa al «Corriere della Sera». Un’intervista, spiega la professoressa, che in realtà era stata concepita per «parlare di pensioni» e perché «passasse un messaggio di dialogo». «Dopo aver riletto la mia intervista - dice - l'avevo vista come un fatto positivo». E invece, afferma Fornero, «forse è stata un’ingenuità», forse «è stata un po’ una trappola giornalistica»; ma «non sapevo che il solo menzionare la possibilità di discutere dell’articolo 18 creasse queste polemiche che francamente non meritavo. Io in quell'intervista ci ho visto un' apertura».
Insomma, tutto un equivoco, una forzatura giornalistica. Ovviamente non è così, anche se è vero che - giustamente - i titolisti del «Corriere» hanno puntato sul tema più nuovo e interessante, cioè la volontà del ministro di mettere mano alle regole sul mercato del lavoro. Peraltro, di fronte alle (prevedibili) critiche piovutele addosso nei giorni successivi Fornero ha reagito in modo piccato, ribadendo come nessun tema - compreso l’articolo 18 e i licenziamenti - sia un tabù. Sennonché l’accendersi della polemica su un tema tanto delicato ha preoccupato non solo il Capo dello Stato, ma lo stesso premier Mario Monti. E dopo il «niet» espresso dai leader sindacali, ieri è arrivato anche un secco altolà da parte del Pd, con il «ma siamo mica matti» di Pierluigi Bersani, che poi ha rincarato la dose nel corso di un incontro con Monti.
E così, ieri Fornero ha deciso di correggere il tiro. «Vogliamo lasciarlo stare questo articolo 18? - ha chiesto retoricamente -. Io sono pronta a dire che non lo conosco. C'è tanto da fare nel mercato del lavoro, l'articolo 18 arriva per ultimo». Certo, il ministro chiarisce che pur non avendo «nulla in mente» sul tema dei licenziamenti «chiedo che si parli di lavoro guardando ai problemi». Assicura invece che «il lavoro e la creazione di posti di lavoro sono la mia prima e unica preoccupazione», perché questa «è la nostra prima emergenza». E spiega: «Bisogna rimettere in moto l’occupazione. Sono angosciata quotidianamente dalle richieste di crisi aziendali e dalle domande di Cig in deroga. Dobbiamo agire: dobbiamo fare in modo che le aziende tengano i lavoratori e offrano lavoro», a cominciare «dalle donne e dai giovani», afferma Fornero. Ma «non è con i soldi pubblici che si possono creare posti di lavoro. Si creano con una economia sana; con imprese, piccole e capaci di stare sul mercato. È questo il modello cui dobbiamo tendere, con l’aiuto del sindacato». Dunque, come governo «siamo aperti a ogni tipo di discussione, non abbiamo idee preconcette». E «abbiamo la ragionevolezza di parlare di riforme con Lupi, Bindi e Bonanni (ospiti in studio da Vespa, ndr) e persino con la Camusso».
Detto questo, nonostante la correzione di rotta e di toni resta l’intenzione dell’Esecutivo di intervenire sul tema delle regole del lavoro, dalle assunzioni ai licenziamenti. Tuttavia, non affrontandole in modo isolato, ma inserendole in una discussione che abbia un respiro più ampio e più generale. Ma senza correre, dopo un approfondito confronto con i partiti e le forze sociali. E possibilmente, evitando altre «trappole» e incidenti mediatici.

La Stampa 22.12.11
Il leader Pd rilancia “Non ci basta l’asse con Pdl e Terzo Polo”
Irritazione per le scelte dell’esecutivo
di Federico Geremicca


ROMA Ha incassato in un sol colpo l’apprezzamento dei sindacati, il sostegno del suo gruppo dirigente e perfino l’applauso di Nichi Vendola, che non è precisamente cosa di tutti i giorni. Ma non è per questo - o almeno non è solo per questo che Pier Luigi Bersani ieri ha deciso di tornare in campo per strattonare vistosamente Mario Monti ed un suo ministro (Elsa Fornero) rei di giocare troppo disinvoltamente con una questione (la modifica dell’articolo 18) che per il Pd è praticamente fuoco.
Del resto, le ragioni della rude uscita («Roba da matti... ») le ha spiegate lo stesso leader democratico, e stavolta non c’è davvero motivo per non credergli: «Abbiamo garantito a Monti lealtà e fedeltà, ma anche trasparenza... La nostra gente deve capire che cosa stiamo facendo».
Ed è appunto questo quel che è il leader Pd andato a dire ieri sera a Mario Monti. Come spiega dopo il colloquio col premier uno dei più stretti collaboratori di Bersani «al presidente del Consiglio noi non abbiamo da chiedere un provvedimento in particolare, quanto - piuttosto - suggerire una direzione». Che non può essere, appunto, continuare a tirare la corda sempre dalla stessa parte. «Noi confermiamo la disponibilità ad aprire il capitolo del mercato del lavoro - continua l’uomo dello staff del segretario - ma è insensato partire dall’articolo 18. C’è una questione sociale che rischia di farsi esplosiva, soprattutto alla luce delle previsioni per il 2012. Questo rende indispensabile metter mano a tre questioni che non sono più rinviabili: lotta al precariato, creazione di nuovi posti di lavoro, aumento dei salari».
Dovendo stare al modo in cui Pier Luigi Bersani ha poi commentato l’esito del faccia a faccia con Monti, si può ipotizzare che il brusco avvertimento lanciato dal leader Pd («Il problema è entrare nel mercato del lavoro, non uscirne. Il governo dovrà capirlo, altrimenti... ») abbia sortito gli effetti sperati. Non solo - infatti - il ministro Fornero ha fatto retromarcia sulle ipotizzate modifiche all’articolo 18, ma lo stesso Bersani ha incassato: «Qualcuno pensa che licenziando si crea lavoro: questa è una assurdità, e non credo sia nelle intenzioni del governo».
Ma le questioni economiche - e le loro pesantissime ricadute sociali non sono certo l’unico problema che il leader del Pd ha da affrontare. All’avvio dell’esperienza Monti erano infatti due - a voler sintetizzare - le faccende che preoccupavano lo stato maggiore dei democrats. La prima era appunto legata alla prevedibile pesantezza della manovra che il governo dei tecnici avrebbe varato; la seconda riguardava i serissimi rischi di confusione politica che la strabiliante (anche se temporanea) alleanza con il Pdl di Berlusconi avrebbe potuto determinare nel popolo dei democrats. Entrambi i problemi restano sul tappeto, ma Bersani - alla luce della crescente insofferenza della base - ha cominciato ad affrontarli con assai meno diplomazia...
Così, se Berlusconi dopo l’incontro a pranzo col premier ha fatto sapere di reputare necessaria la creazione di una “cabina di regia” che veda tutti assieme i leader di partito e i capigruppo di maggioranza, il segretario democratico è stato netto: «Il regista l’abbiamo già, lasciamo stare le cabine... ». Non solo. Sul tema delle riforme - da quelle dei meccanismi parlamentari e quella elettorale - è stato altrettanto esplicito: «Dobbiamo portare a casa qualche risultato». E non soltanto con un dialogo ristretto a Pd-Pdl e Terzo polo, bensì in un confronto che non tagli fuori le altre forze politiche: in testa a tutte viene da ipotizzare - quelle che potrebbero essere domani alleate del Pd in campagna elettorale.
Varare una manovra per ora solo “lacrime e sangue” e tagliare tutti i ponti con i possibili partner della futura coalizione elettorale, non sarebbe infatti un bell’affare. E se è vero che, con riconosciuta generosità, rispetto agli interessi di partito Bersani ha più volte affermato che «viene prima l’Italia», beh, quel che non può accadere è che il Pd venga per ultimo. Ed è bene che Monti se ne convinca. Altrimenti...

La Stampa 22.12.11
Legge elettorale banco di prova per i leader
di Marcello Sorgi


All’indomani dell’appello di Napolitano ai partiti della maggioranza per un più forte sostegno al governo, Bersani ha chiesto di sgomberare il campo da ipotesi di riforma dell’articolo 18, mirate a snellire le procedure di licenziamento (richiesta accolta in diretta a «Porta a porta» dalla ministra del lavoro Fornero). E Berlusconi, dopo un pranzo di due ore con Monti a Palazzo, incontrando i senatori ha ribadito che il Pdl è ancora l’arbitro della situazione e in qualsiasi momento può decidere di tornare ad elezioni. Se non fosse per Casini e il Terzo polo, che continuano a garantire il loro appoggio incondizionato al governo, verrebbe da dire che l’appello del Capo dello Stato non ha trovato l’accoglienza dovuta, e nella maggioranza tripartita che sostiene l’esecutivo tecnico la tensione continua ad essere alta.
In realtà, a parte qualche eccesso polemico (soprattutto da parte dei sindacati, che temono il bis della riforma delle pensioni decisa senza concertazione), il governo continua a godere di un forte appoggio politico, e grazie a questo la manovra dovrebbe essere licenziata oggi in Senato. Più che un gioco di veti, dunque, si sta delineando una sorta di schieramento preventivo in vista della cosiddetta fase 2 del lavoro di Monti e dei suoi ministri. Alfano, Bersani e Casini, in altre parole, devono trovare il modo di trasformare il loro accordo «tecnico» (le virgolette ormai sono d’obbligo, dopo un mese di vertici a tre) in una forma di collaborazione politica compatibile con il livello crescente di insofferenza dei rispettivi elettorati alla stagione dei sacrifici.
Prima di stabilire se davvero ci sia spazio per reimpostare il confronto sulle riforme istituzionali, come ha suggerito Napolitano, sarà la legge elettorale il banco di prova dell’intesa tra i tre leader. Se la Corte costituzionale, alla ripresa, darà via libera ai referendum, l’urgenza di trovare un accordo per evitare un voto che potrebbe portare alla reintroduzione del Mattarellum, la legge maggioritaria che inaugurò la stagione del bipolarismo, potrebbe spingerli ad accelerare la trattativa: in particolare Casini, che a causa del ritorno al Mattarellum potrebbe vedere compromesso il suo disegno terzista. Ma anche nel caso in cui la Consulta bocci i quesiti referendari, la necessità di mettersi attorno a un tavolo, non solo per decidere quali emendamenti proporre ai provvedimenti del governo, ma per dare un senso al finale della legislatura, potrebbe rivelarsi ineludibile.

Repubblica 22.12.11
La corruzione e il potere ingiusto
di Carlo Galli


A livello politico, la corruzione è la deviazione del potere dalle finalità che gli vengono assegnate dalla civiltà moderna. Che consistono nell´amministrare impersonalmente e imparzialmente, e nel riconoscere e tutelare i diritti individuali e collettivi in un contesto di legalità, di certezza, di uguaglianza, di prevedibilità. C´è corruzione quando un apparato pubblico (una burocrazia) accetta o sollecita per sé benefici, in denaro o d´altra natura.
Benefici solo in cambio dei quali soddisfa alcuni bisogni sociali – non tutti, ma solo quelli dei corruttori –; ma questa è appunto una deviazione sostanziale del potere dal proprio orizzonte pubblico. La corruzione rende il potere parziale e ingiusto perché favorisce qualcuno (chi è in grado di corrompere prima e meglio) a danno di tutti coloro che hanno diritto a una prestazione pubblica, o a vedere riconosciuto un diritto, un merito.
Quando questo strappo alle regole diventa sistema, quando l´anomalia diventa norma, si perde qualcosa di ancora più profondo della forma moderna del potere. È la fiducia dei cittadini nel potere, e al tempo stesso nella sostenibilità delle loro relazioni sociali. Per ogni concorso truccato, per ogni promozione ingiusta, per ogni permesso edilizio comperato, per ogni scandalo, per ogni occhio chiuso, tutta la collettività paga un prezzo: si dissipa quel capitale di reciproca credibilità fra Stato e cittadini, e all´interno della stessa società, che è l´architrave e il cuore del patto sociale. Ovvero, la promessa – implicita ma vitale – di tutti verso tutti che la nostra vita collettiva sarà immaginata, concepita e condotta secondo principi che la differenziano dalla vita in una giungla. La promessa che la vita sociale si organizzerà in modo tale che non sempre il più forte, il più ricco, il più astuto, prevarranno sugli altri – come invece avviene in quello stato di natura al quale i filosofi che hanno fondato la modernità politica affermavano che è necessario uscire, verso la civiltà perfezionata –.
La corruzione è il tradimento di quella promessa, di quel patto; è il ritorno della natura all´interno della vita associata, con tutta l´irrazionalità e l´imprevedibilità, con tutti i rischi, con tutta la cecità che la natura comporta. È la risposta più pigra e naturale alle difficoltà del funzionamento dello Stato, alle nuove esigenze della società: anziché operare riforme – mirate, progettate razionalmente – si sceglie la via più facile per recuperare efficienza, cioè il reciproco adattamento fra uno Stato invecchiato e una società che accetta di decomporsi pur di funzionare. Con il risultato perverso che, al contrario, si pregiudicano le basi stesse dell´efficienza, a tutti i livelli.
La decomposizione delle architetture della politica, che danno forma anche alla società – il potere pubblico, la legge, l´uguaglianza –, e l´affermarsi di conglomerati opachi di forze occulte, di collusioni fra pezzi di Stato e pezzi di società, di omertà diffuse, di sistemi illegali, di cricche, di mafie, sono infatti la fine della distinzione e della chiarezza, e l´affermazione della nebbia, dell´oscurità, in cui tutti sospettano di tutti, e tutti – i pubblici funzionari, ma anche ogni cittadino – perseguono il proprio interesse privato: ciecamente, senza certezze, senza altra progettualità che non un sempre più cinico e disperato "tirare a campare". Tutti avvitati, quindi, nella corruzione e nell´inefficienza.
Abituarsi a questa qualità delle relazioni politiche e sociali, trovarle magari ingiuste ma normali, sgradevoli ma naturali e insopprimibili, è non solo la più radicale corruzione – in primis, dell´immagine che abbiamo di noi stessi, della nostra autostima come cittadini e come esseri umani, e quindi delle stesse fondamenta morali e civili del sistema-Paese, della volontà collettiva di vita civile –, ma è anche un calcolo sbagliato, una deriva rovinosa. La corruzione è anche un costo economico proprio perché le economie sviluppate, pur con tutte le loro contraddizioni, chiedono ancora quella prevedibilità dei pubblici poteri e della vita sociale che è proprio ciò che il nostro Paese non sa più offrire, se non a macchia di leopardo, solo in alcune zone del territorio. Ed è per questo che gli investimenti stranieri precipitano, e che si espande il raggio d´azione delle economie criminali, che dalla corruzione dello Stato e della società traggono il loro nutrimento parassitario.
Fra le anomalie di questo Paese c´è oggi, si dice, anche il fatto che la democrazia è a rischio. È vero. Ma non certo perché l´esecutivo è formato da tecnici – che senza il voto del parlamento non andrebbero lontano: altro che golpe! –. Ma perché la corruzione soffoca sistematicamente la nostra fiducia in quei valori fondamentali, in quegli assetti istituzionali, in quella trasparenza delle relazioni sociali, in quella possibilità di sviluppo civile e materiale, in cui la democrazia in ultima analisi consiste.

l’Unità 22.12.11
«Le nostre sorelle stanno dando una lezione all’Egitto»
La marcia delle donne a Piazza Tahrir, le brutalità dei militari, il tentativo di azzerare la primavera egiziana: l’Unità ne parla tra gli altri con lo scrittore Ala al-Aswani,
la femminista Nawal El Saadawi, lo storico Tariq Ramadan, l’attivista Negm Nawara
di Umberto De Giovannangeli


Abbattere una tirannia è importante, ma lo è altrettanto edificare sulle sue macerie qualcosa di diverso anche in termini di superamento di una società patriarcale. Il nuovo Egitto potrà definirsi compiutamente tale se realizzerà una vera parità tra i sessi. La rivolta delle donne di Piazza Tahrir e la brutale repressione dei militari racconta che il “nuovo Egitto” è ancora un’utopia». A parlare è Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo araba, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. «Sono orgogliosa e indignata per ciò che sta avvenendo nel mio Paese – dice la scrittrice a l’Unità -. Orgogliosa perché le mie “sorelle” stanno dando una lezione al mondo. Indignata per la violenza che stanno subendo».
Violenze che hanno indignato la comunità internazionale e riaperto il dibattito sulla vera natura della transizione nell’Egitto del dopo-Mubarak. Accade tutto al Cairo. Una giovane viene aggredita dagli sgherri del feldmaresciallo Tantawi, la gettano per terra, le strappano gli indumenti, la spogliano, in modo che si veda il suo reggiseno azzurro, intanto uno alza un piede per colpirla, per scalciarla, come probabilmente ha già fatto in precedenza, come probabilmente farà ancora, dopo. Quelle immagini hanno fatto il giro del mondo.
«La situazione richiede scuse ed una gestione politica: non si può prendere in giro il Paese e negare l'uso della violenza o delle armi contro i manifestanti», sostiene il direttore del settimanale nasseriano Al Arabi, Abdallah al Sennawi. «Il Consiglio militare e le sue politiche sono la causa della crisi attuale e i problemi nascono dall' azione dei militari per svuotare di contenuti la rivoluzione, in cooperazione con una particolare forza politica, e sollecitando la riconciliazione nazionale per far uscire il Paese dall'empasse», considera Sennawi, senza nominare gli islamisti che stanno riscuotendo successo nelle elezioni politiche in corso per il rinnovo della camera bassa del parlamento.
Ancor più pesante lo scrittore Ala al-Aswani, convinto che i militari stando tentando di annullare la spinta della rivoluzione del 25 gennaio, dopo aver fatto finta di appoggiarla. Per il più importante scrittore egiziano, il vero scopo del Consiglio militare è quello di mantenere nel Paese il regime del deposto presidente Mubarak, «così com’era». «Nei lunghi dieci mesi fino ad oggi dice Aswani c'è stato un conflitto costante tra la volontà dei rivoluzionari di cambiare totalmente l'assetto del Paese e quella dei militari di mantenere in vita il precedente, con un equivoco di fondo nato l'11 febbraio, quando il Consiglio capeggiato dall'ex ministro della difesa di Mubarak ne ha preso il posto, sacrificando il Rais».
«Il Consiglio militare continua lo scrittore, autore di romanzi di successo internazionale, tra cui Palazzo Yacoubian, Chicago, Se non fossi egiziano, La rivoluzione egiziana (tutti editi da Feltrinelli) vuole isolare dalla popolazione il blocco dei rivoluzionari, le anime nobili che hanno sacrificato la loro vita prima a Piazza Tahrir, poi negli scontri in via Mohamed Mahmoud, quindi alla sede della televisione e infine al palazzo del consiglio dei ministri. E ci stanno riuscendo perchè ormai tutti sono stanchi, non vogliono più sentir parlare di rivoluzione e vogliono che torni la stabilità. Ma quale?».
«La contro rivoluzione colpisce il cuore stesso della rivolta del 25 gennaio, la lotta per i diritti umani, soprattutto delle donne», afferma decisa Hala Shukrallah, giornalista e attivista. Le forze di sicurezza stanno cercando di umiliare e colpire le donne perché «sanno che le persone che non si preoccupano della loro vita tengono comunque alla loro madre, moglie e sorella. Così hanno voluto umiliare il popolo egiziano umiliando le loro donne», spiega a l’Unità Negm Nawara, una delle organizzatrici della “marcia delle donne” dell’altro ieri.
Altra protagonista è Asmaa Mahfouz, 26 anni. Però prima di combattere contro i governi, l’attivista riconosce che le donne egiziane devono spesso combattere contro le proprie famiglie per diventare libere. La sua famiglia conservatrice un fratel-
lo è un ufficiale di polizia e un altro un ufficiale dell'esercito è rimasta inizialmente sconcertata dal suo interesse per la politica. «Mi bloccavano Internet, così andavo a manifestare in strada – raccontami hanno proibito di andare in strada, così ho usato il telefono. Le donne in Egitto hanno più spirito di degli uomini. La gente mi chiede sempre: “Perché non si lavora sui diritti delle donne?”».
La rivolta delle donne proietta ombre inquietanti su una transizione dall’esito incerto. Riflette in proposito Tariq Ramadan, professore di Studi Islamici Contemporanei presso il St. Antony’s College della Oxford University ed è visiting professor presso la Facoltà di Studi Islamici della Qatar Foundation: «La via verso la democrazia in Egitto è tutt’altro che trasparente; dobbiamo evitare di scambiare l’apparenza per realtà. Gli islamisti potrebbero operare contro altri islamisti, così come un governo democratico occidentale potrebbe sostenere un apparato militare non democratico. Questa è la politica; dobbiamo restare vigili anche nel nostro ottimismo. Religiosa o no, la sincerità in politica non è mai abbastanza».

l’Unità 22.12.11
Siria, la strage dei civili 250 morti in 48 ore «L’Onu batta un colpo»
L’opposizione al regime di Assad chiede una urgente riunione del consiglio di sicurezza Onu dopo gli ennesimi massacri. In sole 48 ore sarebbero stati uccisi oltre 250 civili. La comunità internazionale: «Ora fermatevi».
di U.D.G.


Un massacro di civili. Cinque ingegneri iraniani rapiti. La Siria sprofonda sempre più nell’orrore e nel sangue. Almeno 111 civili sono stati uccisi marted dalle forze si sicurezza siriane a Kafrueid, nella regione d'Idleb, nel nord est della Siria, secondo un bilancio dell'Osservatorio siriano dei diritti umani. «È stato un massacro organizzato. Le truppe hanno circondato le persone e poi le hanno uccise», dice Rami Abdul-Rahman, direttore dell' Osservatorio. I soldati fedeli ad Assad – prosegue Rahman si sono raccolti intorno ai civili per poi sparare sulla folla e su quanti fuggivano per paura di essere arrestati. Il bilancio delle vittime cresce di ora in ora e assume sempre più le dimensioni di una mattanza. Circa 250 siriani sono stati uccisi in 48 ore nel nord-ovest del Paese: lo afferma il Consiglio nazionale siriano (Cns), principale piattaforma di oppositori all'estero di cui fanno parte anche i Comitati di coordinamento locale degli attivisti in patria. In un comunicato, il Cns denuncia «gli orrendi massacri compiuti dal brutale regime degli Assad contro inermi civili a Jabal Zawiya», provincia nella regione nord-occidentale di Idlib.
Secondo il comunicato del Cns, le regioni di Idlib e Homs sono «zone disastrate» ed «esposte a un genocidio su larga scala», ed è per questo, che devono essere dichiarate «zone sicure sotto protezione internazionale e da cui si devono ritirare le forze del regime» di Damasco. Nell’invocare l’intervento immediato della Mezzaluna Rossa e di altre organizzazioni umanitarie, l’opposizione siriana ha chiesto anche una riunione d'emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu «per discutere dei massacri in corso nelle regioni siriane di Idlib e Homs. La Francia ha denunciato il «massacro senza precedenti» dell’altro ieri in Siria e ha lanciato un forte appello alla Russia affinchè «acceleri» i negoziati al Consiglio di Sicurezza dell'Onu sul suo progetto di risoluzione nei confronti del regime di Bashar al-Assad: lo ha detto a Parigi il portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero, aggiungendo: «Dobbiamo fare tutto per far cessare questa spirale assassina nella quale Bashar al-Assad trascina ogni giorno di più il suo popolo».
Fine immediata delle violenze e garanzie per la sicurezza dei civili secondo il piano d'azione arabo. È l'appello lanciato a Damasco dal segretario generale della Lega Araba Nabil el Araby, alla vigilia dell'arrivo del primo gruppo di osservatori arabi previsto per oggi. Gli Usa ammoniscono Damasco che «se l'iniziativa della Lega araba ancora una volta non sarà pienamente attuata, la comunità internazionale dovrà adottare ulteriori misure per fare pressione sul regime di Assad per fermare la repressione». «Bashar al-Assad non dovrebbe avere dubbi sul fatto che il mondo sta guardando e che la comunità internazionale e il popolo siriano non accettano la sua legittimità», dichiara il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. Linea condivisa dal titolare della Farnesina, Giulio Terzi. «È inaccettabile» che così tante persone siano state uccise in una zona della Siria vicina al confine con la Turchia, nonostante il regime del presidente Bashar al-Assad abbia accettato il piano della Lega araba per porre fine allo spargimento di sangue nel Paese», afferma il ministero degli Esteri turco Ahmet Davutoglu. A rendere ancor più infuocata la situazione è il rapimento di cinque ingegneri iraniani a Homs. «I cinque ingegneri sono stati rapiti alle 6.30 di oggi (ieri, ndr), mentre stavano andando al lavoro. Chiediamo la loro liberazione immediata», è scritto in una nota dell'ambasciata iraniana a Damasco citata dall'agenzia Mehr.

La Stampa 22.12.11
L’ateismo “mistico” della Corea
Bollata come superstizione ogni forma di confessione, ma il culto della famiglia Kim è una vera religione
di Ilaria Maria Sala


Venerazione del leader Le celebrazioni per i 40 anni al potere di Kim Jong Il, nel 2004. La salma del Caro Leader, scomparso quattro giorni fa, sarà imbalsamata al termine del lutto nazionale
L’idea Juche è il principio-guida della Corea

HONG KONG Quattro giorni dopo l’annuncio della morte di Kim Jong Il e del passaggio dei poteri al figlio minore Kim Jong Un, mentre alcuni osservatori notano un rafforzarsi di presenze militari alla frontiera con il Sud, continua il periodo ufficiale di lutto nazionale in Corea del Nord. Il corpo del Caro Leader deceduto giace in una camera ardente al Mausoleo di Mumsusan, a Pyongyang, dove si trova anche il corpo imbalsamato del padre e fondatore della patria, Kim Il Sung. Si pensa, per quanto ancora non vi siano conferme, che alla fine del lutto nazionale di dieci giorni (fino al 29 dicembre) la salma verrà imbalsamata, innalzando a due il numero di Kim preservati per i posteri. Queste «sacre reliquie» sono il massimo punto focale del culto della famiglia Kim, vera religione di una nazione che, almeno in forma ufficiale, liquida invece come superstizione ogni tipo di confessione.
Come sempre quando si guarda alla Corea del Nord, le contraddizioni diventano evidenti: il nonsenso pare regnare sovrano fino alla comicità, l’assurdo è divertente proprio in quanto non plausibile, tanto da far pensare che di sicuro nemmeno i coreani del nord possano credere a una tale serie di dabbenaggini. Ma la propaganda, nei Paesi che ne fanno un tale uso, non è quasi mai «solo propaganda», come conferma l’impressionante dimostrazione di teatrale cordoglio a cui si assiste in questi giorni. Lavaggio del cervello? Lacrime versate per non mettersi nei guai? Paura di un futuro incerto, o sincero senso di perdita?
Nell’impossibilità di chiedere direttamente ai cittadini della Corea del Nord quello che rappresentano i loro singhiozzi, quanto sta avvenendo nel Paese può forse essere letto interpretandolo come parte di una religione: quella dell’Idea Juche, termine solitamente tradotto come «autarchia» ma che letteralmente significa «principio fondamentale», o «soggetto», e che è l’ideologia ufficiale (per quanto fumosa) della Corea del Nord. A questa si accompagna da alcuni anni il corollario del «socialismo del primato militare». L’idea Juche, sancita nella Costituzione nordcoreana come principio-guida, governa tutto: da come vanno piantati i cetrioli a come vanno condotte le trattative diplomatiche, eppure, resta del tutto vaga – consentendo di farle voler dire quello che, di volta in volta, è necessario al regime. Nella Costituzione, viene detta «una prospettiva mondiale che ha al proprio centro il popolo, un’ideologia rivoluzionaria per raggiungere l’indipendenza delle masse popolari». Man mano che ci si inoltra nelle descrizioni dell’Idea, si viene colpiti da un richiamo di sapore cristiano: infatti, Kim Il Sung (nato Kim Song Ju, ma che prese il nome di un noto guerrigliero scomparso) era figlio di Kim Hyong Jik, maestro, di profonda fede protestante, che educò il figlio all’interno della Chiesa riformata. L’idea Juche, vista in questo contesto, assume immediatamente altre caratteristiche: è un concetto mistico, prima ancora che politico, circondato dal mistero.
Ecco dunque che i tre ritratti che si possono vedere appesi ai muri di così tanti locali della Corea del Nord – Kim Il Sung, accompagnato da Kim Jong Suk, la prima moglie, e dal figlio Kim Jong Il, appaiono in questa luce come una strana Sacra Famiglia, unita non dallo Spirito Santo ma per l’appunto dall’Idea Juche. Ora che il Figlio è deceduto (ma solo in forma terrena: del resto il padre, Kim Il Sung, è stato dichiarato Presidente Eterno dopo la sua scomparsa, ed è indubbio che anche Kim Jong Il sarà insignito di una qualche forma di immortalità simbolica) e che i ritratti di Kim Jong Un si stanno già affiancando a quelli del padre e del nonno, l’ideologia fondamentale promette di estendersi ulteriormente.

La Stampa 22.12.11
La disciplina da robot che sedusse Fidel
di Yoani Sanchez


Castro fu accolto con canti sincronizzati che tentò di trapiantare a Cuba. Invano

Un uomo solo spazza le foglie secche di un ampio viale dove non si vede passare un’auto in nessuna direzione. Abbassa la testa ed evita di parlare con il fotografo. Forse si tratta di un individuo che è stato punito per non aver applaudito con sufficiente entusiasmo durante una riunione oppure non si è inchinato con deferenza teatrale davanti a qualche membro del Partito. La scena della spazzino che percorre una strada desolata si può vedere in un documentario sulla Corea del Nord diffuso dalle nostre reti alternative d'informazione. Una testimonianza dolorosa che mostra persone vestite in maniera identica, edifici di un anonimo colore grigio e innumerevoli statue del Leader E t e r n o . Un inferno in miniatura, che ci fa tirare un sospiro di sollievo - almeno in questo caso - per non essere nati sotto la dispotica dinastia dei Kim.
Quando nel marzo del 1986 Fidel Castro si recò a Pyongyang, fu ricevuto da quasi un milione di persone, tra cui migliaia di bambini che agitavano bandierine sincronizzate in modo sospetto. La televisione cubana insisteva a mostrare cori che cantavano come se fossero una sola voce, ballerine che non si distinguevano tra loro neppure per un capello fuori posto e ragazzini che suonavano il violino con sorprendente maestria e anomala simultaneità. Alcuni mesi dopo quel viaggio presidenziale, nei corsi artistici delle scuole primarie cubane si cercava di imitare una disciplina così robotica. Niente da fare. La bambina accanto a me lanciava la palla pochi secondi dopo che la mia era caduta sul pavimento e al termine di ogni presentazione alcune scarpette venivano abbandonate sul palcoscenico. Il Leader Massimo provò una cocente delusione per la caotica condotta del suo popolo, così diverso da quei nordcoreani che si inginocchiavano in maniera sincopata di fronte al segretario generale del Partito dei Lavoratori. Lunedì scorso, le immagini di migliaia di personeche piangevano per strada la morte di Kim Jongil mi ha fatto venire a mente quei bambini sincronizzati. Il nostro esperimento tropicale non è mai riuscito ad «addomesticarci» come loro, ma alcuni aspetti seguono il modello coreano. Pure a queste latitudini la genealogia è stata più determinante delle urne e l'eredità di sangue ha prodotto - in 53 anni - soltanto due presidenti, entrambi con lo stesso cognome. In Corea del Nord il delfino si chiama Kim Jong-un; forse tra breve a Cuba ci diranno che l’erede designato è Alejandro Castro Espín. Il solo pensiero mi fa trasalire, come già mi è accaduto una volta vedendo file di ragazzine che nella stessa frazione di secondo lanciavano in alto una palla.

La Stampa 22.12.11
Rizzo: “Quello è un Paese che resiste al capitalismo”
“Perché tanto putiferio per il mio telegramma?”
intervista di Riccardo Barenghi


Comunista Marco Rizzo è segretario del partito dei Comunisti Sinistra Popolare

Marco Rizzo, ex Pci, ex Rifondazione, fedelissimo di Armando Cossutta, ex vice di Oliviero Diliberto, oggi è il leader di un partito sconosciuto che si chiama Comunisti italiani-sinistra popolare. La notizia è che il suo gruppo, unico in Italia, ha inviato un telegramma di condoglianze al regime della Corea del Nord per la morte di Kim Jong Il.
Siete diventati comunisti coreani?
«Ma no, per carità».
Però il telegramma l’avete mandato.
«Vabbè, ma noi abbiamo rapporti con tutti i Paesi comunisti del mondo».
Quindi con molte dittature del mondo...
«Guardi che tre mesi fa una delegazione di parlamentari italiani, c’erano anche Dini e Tonini, durante un’assemblea dell’Onu ha incontrato il viceministro degli esteri nordcoreano e qualche giorno fa ha anche depositato in Parlamento la relazione su quell’incontro. Nessuno ha avuto niente da obiettare. Invece per un telegramma scoppia il putiferio».
Però voi vi chiamate comunisti italiani, che significa un’anomalia rispetto al mondo comunista. Cioè democrazia, elezioni e libertà. Cose che mancano in Corea.
«Perché l’attuale presidente del consiglio, ossia Mario Monti, è stato eletto da qualcuno? ».
Vuole dire che l’Italia è come la Corea?
«Voglio dire che ormai viviamo sotto un pensiero unico, per cui chiunque non si omologhi viene additato al pubblico ludibrio».
Ma la Corea per lei cos’è, un esempio da seguire?
«Io preferisco i rigatoni al sushi, nel senso che la mia cultura politica è italiana, europea. Ma la Corea, come Cuba, è uno dei pochi Paesi al mondo che resiste al modello dominante. All’imperialismo capitalista».
A caro prezzo però, il prezzo della libertà per il suo popolo.
«È un popolo che il suo prezzo lo sta pagando da sessant’anni, attaccato nel 1950 da 17 Paesi oltre agli americani e che dal 1954 vive sotto embargo. Totale: 4 milioni di morti».
Parlavamo della libertà, della democrazia...
«E allora le dico che è più libero un Paese in cui la gente ha diritto alla casa, alla scuola e alla sanità di un Paese costretto a votare per personaggi omogeneizzati dalla televisione».
Meglio una satrapia orientale pseudocomunista di una democrazia occidentale quindi?
«Guardi, comunisti si diventa e non ci si nasce. Ma in ogni caso io non posso certo andare dai coreani a dirgli cosa devono fare e come, io che insieme a tutti i comunisti italiani, capeggiati da Occhetto, mi sono suicidato nel 1989».

Repubblica 22.12.11
Kim Jong-un sotto tutela cinese
E accanto all’erede nordcoreano spunta una misteriosa "dama nera"
Un direttorio guiderà la Corea del Nord la Cina mette sotto tutela Kim Jong-un
di Giampaolo Visetti


Il Grande Successore sarà affiancato da generali e dirigenti del partito
Soluzione imposta da Pechino per rassicurare Usa e Corea del Sud. Sale l´allerta al confine

SEUL - Il "Grande Successore" è già un leader sotto tutela. Pyongyang continua a diffondere le immagini di una Corea del Nord disperata per la morte di Kim Jong-il, ma il regime si muove per evitare di essere rovesciato dalle forze armate, o da un popolo ridotto alla fame e a cui i militari stanno sottraendo il cibo. La «grande persona nata in cielo», come Kim Jong-un è stato ribattezzato, non assumerà dunque subito il comando della nazione.
Troppo giovane e troppo inesperto, per guidare da solo l´ottava potenza nucleare del pianeta. Pyongyang, dopo 61 anni, si avvia così a rinunciare ad un dittatore unico e si affida ad una inedita «Commissione del partito dei lavoratori». Il direttorio a termine e il "Grande Successore" subito commissariato sono la vittoria della Cina, che dal primo istante ha lavorato per evitare il collasso nordcoreano. Mentre la propaganda esaltava le doti del non ancora trentenne terzogenito del "Caro Leader", Pechino trattava con Pyongyang una soluzione capace di garantire la stabilità nella penisola coreana, rassicurare i mercati e tranquillizzare Russia, Giappone e Stati Uniti. Il giovane Kim Jong-un sarà ufficialmente capo assoluto, ma in quanto rappresentante di un comitato centrale famigliar-partitico-militare composto da parenti, alti dirigenti comunisti e generali fedeli.
Nessuno sa la data di scadenza del nuovo governo dinastico fondato sulle forze armate, ma fonti di Pyongyang assicurano che il potere effettivo è già stato assunto dalla sorella più giovane del capo defunto, Kim Kyong-Hui, e dal marito Jang Song-Thaek, 65 anni, depositario delle decisioni cruciali. Pechino, Mosca, Washington e Seul hanno concordato che affidare ad un ragazzo il più cruciale dossier atomico del pianeta, assieme al compito di resuscitare l´economia di un Paese fallito, avrebbe comportato un rischio fatale. Di qui il patto segreto con Pyongyang: salvare il regime interno in cambio della garanzia della sicurezza esterna.
Non è detto che il tentativo abbia successo, che i generali emarginati del Nord e i membri esclusi della famiglia Kim accettino di uscire di scena, ma i segnali rassicuranti si rafforzano. L´esercito ieri ha giurato fedeltà a Kim Jong-un e ha ubbidito ai suoi primi ordini, tra cui sospendere le esercitazioni invernali e rientrare nelle caserme. Tutto l´apparato del potere appare poi al fianco del «Grande e Rispettato Compagno» e la scenografia degli onori al leader defunto diventa ogni giorno più colossale. Agenzia e tivù di Stato affermano che nel primo giorno di camera ardente, oltre 5 milioni di cittadini della capitale, che ne conta la metà, hanno reso onore alla salma e che la coda per sfilare davanti alla bara di cristallo che la contiene supera le 800 mila persone. Esagerazioni ridicole che tradiscono timori, ma non solo. Gli attori costretti ad interpretare il ruolo degli afflitti indicano alla popolazione l´atteggiamento considerato corretto dalle autorità, in modo che i 24 milioni di nordcoreani, nel timore di essere controllati, possano imitarli.
Sessant´anni di culto della personalità e di lavaggio del cervello, tecniche nate a Pyongyang, rendono la messinscena falsa e vera allo stesso tempo, agevolando la successione di Kim Jong-un. Il giovane principe stalinista ieri è tornato nel mausoleo che ospita la camera ardente. Sulle note dell´Internazionale, vestito e truccato in modo da sembrare anziano e assomigliare il più possibile a suo nonno, con alle spalle una misteriosa donna in nero, ha pianto ancora davanti alle telecamere e ha confermato che anche il padre sarà imbalsamato. Dopo i funerali del 28 dicembre, Kim Jong-il diventerà una mummia, come quelle di Lenin, Mao Zedong e Ho Chi Minh, e resterà per sempre esposto nel palazzo Kumsusan a fianco della mummia di suo padre Kim Il-Sung, fondatore della repubblica di cui in aprile si celebrerà solennemente il centenario della nascita.
In Corea del Nord grande preoccupazione desta la scomparsa degli altri figli del leader deceduto: nessuno li ha più visti, la propaganda non ne parla e si temono le conseguenze di una lotta fratricida. All´estero inquieta invece la ripresa massiccia della contro-propaganda di esuli e dissidenti riparati in Corea del Sud. Ieri sono tornati sul confine lungo il 38º parallelo e a bordo di dieci mongolfiere hanno inviato verso il Nord 200 mila volantini che invitano il popolo nordcoreano a insorgere e a rovesciare la dittatura. Kim Jong-un, per confermare la sua fama di leader spietato e blandire l´esercito, potrebbe reagire esordendo al collaudo dei missili ereditati dal padre. E a Seul, da ieri sera, i livelli d´allerta sono aumentati.

La Stampa 22.12.11
Libero il blogger Navalny: “Boicottate Putin”
Arrestato per 15 giorni durante un corteo ora l’opposizione lo vuole al Cremlino
di Anna Zafesova


«Siamo entrati in galera in un Paese e ne siamo usciti in un altro». Il primo commento di Alexey Navalny, alle tre di una nevosa notte moscovita, fuori da un distretto della polizia nell’estrema periferia di Mosca, è tra l’incredulo e il trionfante. Nei 15 giorni in cui è rimasto dietro le sbarre, condannato per «resistenza» alla polizia dopo la prima manifestazione contro i brogli elettorali, in Russia sono riapparsi concetti e fenomeni dimenticati come l’opposizione, le manifestazioni di protesta, i detenuti politici che fanno scioperi della fame. Ed è apparso un eroe. Navalny, avvocato e blogger senza peli sulla lingua, è entrato in cella come un personaggio che godeva di popolarità su internet, e ne è uscito ieri come candidato alla presidenza, atteso da giornalisti e fan, e seguito in diretta web da migliaia di persone. Lui non vuole parlarne: «Quelle del 4 marzo non saranno elezioni, ma una manipolazione organizzata da truffatori e ladri», e parteciparvi «è inutile». Quindi la strategia diventa «votare contro Putin» e «mobilitare la rabbia della gente» per ottenere infine elezioni libere. Alle quali «parteciperanno tante persone, forse anch’io».
In diversi l’hanno già proposto, non solo su internet dove il numero dei suoi seguaci su twitter è aumentato da 6 mila a 160 mila in due settimane, non solo in piazza dove il 10 dicembre era il grande assente e il 24 sarà l’idolo della folla, ma anche negli ambienti politici. Sabato scorso un gruppo di dissidenti di Yabloko ha proposto di candidare alla presidenza il blogger inventore del tormentone «il partito dei truffatori e dei ladri» per Russia Unita, al posto dello storico leader Yavlinsky. Biondo, occhi chiari, mento deciso, una faccia che più da russo non si può, l’irriverente blogger anti-casta è visto da molti come il candidato unico antiPutin. Anche perché non viene dagli ambienti liberali, con i quali era in rapporti tesi: è stato espulso da Yabloko per nazionalismo, e le sue filippiche contro gli immigrati danno fastidio a molti. Lui ieri è stato ironico: «Ho giocato a backgammon con i compagni di cella uzbeki».
I 15 giorni di arresto di Navalny e altri manifestanti si sono trasformati in una nuova occasione di protesta, dentro e fuori dal carcere, con decine di persone, dagli oligarchi ai pensionati, che inviavano ai nuovi dissidenti cibo e vestiti. Gli ex detenuti dicono di non essere stati picchiati, ma di aver dovuto subire piccoli e grandi dispetti dagli agenti. Fino al momento della liberazione: per evitare l’uscita dal carcere sotto gli occhi delle telecamere, gli oppositori sono stati trasportati con l’inganno - «Mi hanno tappato la bocca e due poliziotti mi si sono seduti sopra», ha raccontato Ilya Yashin, uno dei leader della protesta - in distretti di polizia periferici, dove gli agenti li hanno minacciati e accusati di essere «al soldo degli Usa».
Ma intanto il Consiglio per i diritti umani presso il Cremlino prepara una «durissima» dichiarazione sui brogli elettorali, dopo aver fatto esplodere ieri un’altra bomba: un rapporto, firmato da autorevoli esperti russi e internazionali, che dichiara «errato» il secondo processo a Mikhail Khodorkovsky. Forse Navalny ha ragione, qualcosa è cambiato.

La Stampa 22.12.11
Don Black, il suprematista che ispira i neonazi italiani
Usa, il fondatore di Stormfront ha una passione per il Belpaese “Vi ammiriamo perché non vi fate sottomettere dagli immigrati”
di Maurizio Molinari


L’Italia nel mirino I gruppi neonazisti americani guardano con ammirazione ai loro simpatizzanti italiani, che nei giorni scorsi hanno pubblicato una «lista nera» di politici e giudici che «proteggono gli immigrati»
133.000 utenti. Picco di adesioni sul sito Stormfront nel dicembre 2008 dopo l’elezione di Barack Obama

EX LEADER DEL KU KLUX KLAN Ha studiato il mondo della Rete in cella, poi con il figlio Derek ha creato il sito web razzista
IL SUPERMARKET DELL’ODIO Palestra di idee estremiste ma anche punto d’incontro per single purché «bianchi»

Supermercato dell’odio e pensatoio per la conquista del governo federale ma anche palestra di idee suprematiste, megastore di cimeli hitleriani e punto di incontro per single, a patto che siano bianchi e gentili: Stormfront non è solo il sito Internet più importante dei gruppi neonazisti americani ma il punto di incontro per chiunque voglia partecipare all’edificazione di un’«America bianca» capace di liberarsi di ebrei, neri, ispanici e gay.
Tali caratteristiche nascono dalle idee e dal lavoro di Don Black, l’ex leader del Ku Klux Klan che negli Anni Settanta aderisce al Partito popolare nazionalsocialista bianco americano per poi dedicarsi nel 1981 al fallito colpo di Stato nella Repubblica Dominicana.
Anziché diventare l’uomo forte di Santo Domingo finisce in una cella federale dove, per tre anni, studia i computer convincendosi che lo aiuteranno a perseguire l’avvento del suprematismo in America. È questa la genesi di una conoscenza hi-tech che lo porta a creare Stormfront nel marzo 1995, appena un mese prima della strage di Oklahoma City, scegliendo come simbolo la croce celtica e come nome «Fronte della tempesta» per trasmettere l’intenzione di «fare pulizia» di tutto ciò che inquina la società americana.
A fianco Don Black ha il figlio Derek, oggi suo braccio destro, e la casa di West Palm Beach diventa il quartier generale dove il sito cresce a vista d’occhio: gli utenti unici nel gennaio 2002 sono 5 mila, nel giugno 2005 superano i 52 mila e, sulla scia del disgusto per l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, nel dicembre 2008 arrivano a 133 mila con la conseguente necessità di reclutare 40 moderatori per gestire i forum nei quali si discute di conflitti razziali, progetti di scalata delle istituzioni, nostalgie naziste e armi da fuoco.
L’odio contro gli ebrei, i neri, gli immigrati e i gay è il tema dominante e porta l’Anti defamation league (Adl, Lega Antidiffamazione) a coniare la definizione di «Supermarket dell’odio» per Stormfront, mentre il «Southern Powerty Law Center» dell’Alabama, che studia i gruppi suprematisti, svela l’esistenza di un forum nel quale Don Black spinge i seguaci ad arruolarsi nelle forze armate per ottenere l’addestramento necessario a vincere la «guerra della razza», grazie alla quale sarà possibile far tornare l’America «solo bianca».
I forum sono la forza di Stormfront perché aggregano seguaci, simpatizzanti e curiosi a migliaia, anche dall’estero. D’altra parte il motto scelto da Don Black è «White Pride Worldwide», orgoglio bianco in tutto il mondo, a conferma di voler portare il verbo suprematista ovunque possibile, Italia inclusa.
A svelare l’attenzione per il nostro Paese è lo stesso Don Black che nel 2008, in un’intervista dell’allora corrispondente di «Repubblica» Mario Calabresi, disse, anche a nome del figlio: «Ci piace l’Italia, c’è molta eccitazione sul nostro sito per quello che sta succedendo da voi, siete i primi a reagire, a dimostrare che non vi fate sottomettere dagli immigrati, anche David Duke la pensa così, tanto che passa la maggior parte del suo tempo nel Nord Italia e nel 2007 eravamo tutti a sciare sulle Dolomiti».
Duke è il volto di maggior spicco del Ku Klux Klan negli Stati Uniti. Nel 1990 diventò deputato della Louisiana con una campagna che vide debuttare la testata «Stormfront» per il suo bollettino. Il legame fra lui e Don Black si sviluppa attorno al sito perché i forum consentono di aggregare un popolo suprematista che non discute solo di ideologia ma gareggia nell’acquistare i prodotti neonazisti più in voga o si incontra nei forum dedicati a single, uomini e donne, in cerca dell’anima gemella, a patto che sia ariana.
Forse anche per questo Don Black definisce Stormfront «il Ku Klux Klan del XXI secolo», pur affrettandosi a precisare che «a un giornalista americano non lo direi mai». La prudenza si spiega con quanto un recente studio del «Southern Poverty Law Center» ha appurato: Black chiede ai seguaci di «non scrivere ingiurie razziali»" sul web perché non vuole guai con la giustizia, al fine di poter continuare a crescere.
"40 moderatori per le discussioni"

Corriere della Sera 22.12.11
La poesia dev'essere, non significare
Nel secolo scorso irrompe Freud con la psicoanalisi che incrocia i versi nella pura energia dell'inconscio
di Franco Manzoni


Nel corso del Novecento l'ars poetica spesso ha rappresentato una tra le rare incontaminate risposte alle tragedie della storia. Un'ancora di salvezza dinanzi agli istinti più bestiali dell'essere umano. Un rifugio irrazionale di bellezza che si oppone alla crisi delle diverse società concepite con ridicola volontà di eternarsi. Innumerevoli guerre, per tacere di quelle mondiali, nel secolo scorso hanno dilaniato la terra e continuano sino ai nostri giorni. Tuttavia in ogni epoca la poesia si offre come un nettare, la medicina salvifica, concede ai lettori o al pubblico, che ascolta, di recuperare il senso delle cose, di riappropriarsi della memoria, di avere un ruolo nella dimensione cosmica. Inoltre dona un senso profondo di darsi pace pure in chi vive l'esilio, come Dante che, percepito il calo delle vendite dei suoi manoscritti, per sopravvivere si trasformò in uno showman di richiestissime performance.
A differenza di ogni altro periodo storico, il Novecento è stato il secolo della psicoanalisi. Vi è un indubbio legame inscindibile fra la nuova scienza di Freud e di Jung e l'interpretazione dei versi. Innanzitutto la poesia non deve significare, ma essere. È un atto di nascita, di positiva affermazione esorcizzante. Tutto ciò conduce al rifiuto del terrore per la fine ineluttabile, nel vacuo tentativo dell'allontanamento del fenomeno «morte». Per assurdo — ma non lo è se si ricorda il dadaismo, il movimento spazialista di Fontana e la provocazione di un'intera pagina bianca intesa quale scrittura artistica — la poesia potrebbe anche presentarsi senza parole come il viaggio di un branco di delfini col naso a bottiglia o il volo senza requie degli uccelli migratori.
Aldilà dell'etica e della ragione, non rimane che ideare inconsciamente una via di stabilità, vale a dire il recupero della parola come evento spiazzante, eversivo, dissacrante contro il male, la riduzione in schiavitù più o meno palese e conscia, gli inganni del destino, che Vico delineò bene nell'eterogenesi dei fini, nella ciclica provvidenza della storia e nella poetica mitica dei fanciulli, sublimi autori di versi per natura. Un torrente in piena per l'ispirazione di Pascoli. Arte e psicoanalisi s'incrociano là dove non esiste ancora la distinzione tra reale e fantastico, semmai pura energia dell'inconscio. A questa fonte attinge il poeta, al proprio inconscio e a quello collettivo, per creare e giungere a far risuonare dentro di sé la parola primigenia, affinché, per via emozionale, questo processo possa in seguito ripetersi nel lettore o nell'ascoltatore. Di conseguenza la poesia può diventare inconscio, capace di dire solo l'indicibile.
Così, seguendo il senso linguistico della metamorfosi, Alcmane, autore greco vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C., ammette di aver scritto versi «imitando con parole / quello che aveva inteso / dal canto delle pernici». Immagine straordinaria, che rimanda a un certo frammentarismo tipico della prima metà del Novecento. Brandelli senza resti, interruzione, rottura in mille pezzi della realtà, che non arresta lo scorrere del tempo, lo parcellizza incrinandolo in rivoli di sillabe e di emozioni. La consistenza della condizione «lontananza» o «assenza» da un reale desiderato, descritto, spesso rifiutato e temuto, oltre a liberare valenze analogiche, ha effetti incredibili sull'attitudine poetica, sullo stile del dettato. Produce la «distanza» psicologica, che si traduce in continua attenzione a carpire i messaggi rispondenti a uno stadio travagliato di serena veglia interiore, percettiva e commossa, non turbata o intorpidita. Nel Der Sänger di Goethe il vecchio cantore itinerante rivendica l'esigenza interiore di essere libero nel dedicarsi interamente al proprio canto, perché è conscio di una sua purezza interiore.
Poesia, quindi, significa libertà ed etica. È questo il messaggio tramandato a noi dai primi aedi. Anche nella Ninetta del Verzee di Carlo Porta i valori morali possono prendere voce, diventare personaggi, parlando con i tratti di una creatura autentica che, nell'abbandono della confidenza, racconta una storia di umiliazioni, offese, soprusi. Ecco che la poesia ha la grande possibilità di rimuovere inutili attese, lasciando intravedere un liquido che ci intride tutti, aldilà della volontà di ognuno. Ciò che congiunge inavvertitamente apparenti distanze è il poeta, un «uomo collettivo», portatore e rappresentante della vita psichica inconscia dell'umanità. Lo sforzo sta nell'educazione ad accogliere le tracce trasmesse dalle sensazioni che uniscono e dividono. L'emozione linguistica può essere rappresentata come una carezza che si insinua impercettibilmente a svegliare il nucleo profondo della nostra interiorità. Diventa perciò tensione vibrante, sospesa, pronta a sfogarsi: un punto d'abbrivio per la bramosia. Se il fine del desiderio risulta irraggiungibile nell'immediato, in ogni caso è la condizione più feconda, atta a mantenere integra la ricchezza dell'energia poetica emotiva. Non si deve aver paura di soffrire o di assistere al dolore altrui, né che l'emozione salga, percuota le tempie, lieviti il trasalimento fino al visionario.
Nasce qui la poetica della «lontananza», dell'«annullamento mitico di sé», come in Remo Pagnanelli o nel cubano Ángel Escobar, giungendo alla scoperta che i versi solamente esistono, non tanto l'autore, vibrano, si riproducono istintivamente, senza alcuna progettazione. Non a caso, dando fragore alla forza dell'inconscio collettivo junghiano e alla necessità del poeta di comunicare a un pubblico reale, René Char scrisse: «In poesia, non si abita che il luogo che si lascia, non si crea che l'opera da cui ci si distacca, non si ottiene la durata che distruggendo il tempo. Ma tutto ciò che si ottiene con rottura, distacco e negazione, non lo si ottiene che per gli altri. La prigione si richiude subito sull'evaso. Il liberatore è libero solo negli altri. Il poeta gioisce solo della libertà degli altri». Un processo artistico che accadde già ai tempi di Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Tasso, Lope de Vega, Goethe, Hölderlin, Leopardi, Baudelaire. Scrivevano per sé e non solo. Allo stesso modo succede per gli autori italiani del Novecento quali Sbarbaro, Campana, Rebora, che dai critici all'inizio vennero sottostimati con differenti motivazioni. Oppure Montale, Pavese, Pasolini, Caproni, Luzi, Alda Merini. Mentre ora la produzione poetica sta cercando quell'equilibrio che possa concorrere a ricomporre l'esperienza personale e quella sociale nella non facile condizione storica in cui ci troviamo a vivere.

Inediti di Kavafis, nuova traduzione di García Lorca
Nuove traduzioni, testi inediti e scelte antologiche nuove per molti autori, e per tutti curatele e introduzioni d'autore: è un nuovo sguardo sul panorama poetico novecentesco, la collana «Un secolo di poesia» del «Corriere della Sera», curata da Nicola Crocetti, che sarà in edicola da martedì 27 dicembre (prima uscita 1 euro più il prezzo del quotidiano, le successive 7,90 più il quotidiano) con 30 volumi monografici dedicati ad altrettanti giganti della poesia. Nuovo sguardo, quello offerto da Pietro Marchesani sulla poetessa polacca Wislawa Szymborska nel primo volume della collana, con la selezione dei testi di Elogio dei sogni che il grande polonista recentemente scomparso ha scelto per quest'edizione e ha accompagnato a una nuova introduzione. E ancora inediti tradotti per la prima volta, come nel secondo volume, dedicato al poeta greco Costantino Kavafis, che uscirà il 3 gennaio nel volume curato e introdotto dal grecista Filippomaria Pontani, che nell'antologia (intitolata La memoria e la passione) cura anche le traduzioni di alcuni testi mai apparsi in precedenza. Proprio per quanto riguarda le traduzioni, va segnalato ad esempio che sono tradotte ex novo da Valerio Nardoni le poesie di Federico García Lorca per l'antologia Nuda canta la notte, che sarà in edicola il 7 febbraio; o che per il tredicesimo volume, dedicato a T. S. Eliot, i testi antologizzati sono stati integralmente ritradotti da Massimo Bacigalupo, così come accade per quasi tutti i testi di Seamus Heaney, nel 23° volume, ritradotti da Franco Buffoni. I testi introduttivi, infine, sono nuovi e pensati appositamente per la collana del «Corriere», con firme prestigiose del quotidiano, poeti, scrittori e studiosi, da Ranieri Polese per Pablo Neruda (in edicola dal 10 gennaio) a Vivian Lamarque per Alda Merini (in edicola il 31 gennaio), a Cesare Segre per Pier Paolo Pasolini (in edicola dal 14 febbraio). (Ida Bozzi)

Repubblica 22.12.11
Un pensiero contro
Rovatti: “Sulle pagine di Aut Aut combattiamo dogmi e ideologie”
intervista di Antonio Gnoli


Il filosofo ricorda la storia della rivista da lui diretta fondata da Enzo Paci nel 1951. Mentre esce un´antologia con i migliori saggi pubblicati
"Il nome alludeva a Kierkegaard, ma anche all´esigenza culturale di una presa di posizione"
"Contribuì a preparare il ´68 ma finì per criticare il movimento degli studenti"

È una delle riviste più belle in circolazione. A dire il vero lo è da sessant´anni. Cioè da quando Enzo Paci la fondò nel 1951. Sobria, internazionale, al passo con l´evoluzione dei tempi, aut aut è l´espressione di una filosofia militante attenta alle questioni del soggetto (vedremo in che senso) e dei rapporti con l´altro. Un´antologia di suoi scritti, curata da Pier Aldo Rovatti che ne è il direttore dal 1976, è uscita ora con il titolo Il coraggio della filosofia (il Saggiatore, pagg. 533, euro 25).
Rovatti, perché fu scelto Aut Aut come titolo?
«La testata alludeva a una famosa opera di Kierkegaard, ma il suo significato indicava l´esigenza culturale di una netta presa di posizione. Siamo di fronte a un bivio – diceva Enzo Paci nel primo editoriale – o la strada della barbarie o quella della civiltà. Barbarie per lui era il pensiero dogmatico e tutte le idee di tipo assolutistico del passato e del presente. Formulò un no deciso alle forme di violenza che si riproducono attraverso i pregiudizi. Era il 1951. Sebbene la guerra e il fascismo fossero alle spalle, la cultura continuava ad essere un deserto. Un giovane professore universitario, che aveva coniugato Platone con l´esistenzialismo, e di lì a poco avrebbe scoperto la fenomenologia, ideò e fece nascere aut aut».
Lei è stato allievo di Paci. Che persona è stata?
«Paci ha scritto degli ottimi libri. Era un uomo formidabile per cultura, spirito critico e originalità di idee. Le sue lezioni alla Statale di Milano erano per tutti un´esperienza di vita. Aveva un grande fascino. Io lo subii al punto che lasciai il corso di lettere e mi iscrissi a filosofia. Ricordo che un sabato del 1961 feci con Salvatore Veca un´esercitazione in aula su "Fenomenologia e teatro". Il testo piacque a Paci che ci chiese se volevamo pubblicarlo sulla rivista».
Non ha l´impressione che, aldilà dei meriti, della scuola fenomenologica – del tentativo di Paci di coniugare Marx con Husserl – resti ben poco?
«Marx con Husserl significava rivitalizzare il materialismo storico, salvando il marxismo critico dalla barbarie. La domanda sul soggetto che Paci allora sollevava è rimasta aperta in tutto il percorso successivo di aut aut fino a oggi».
Dopo gli anni della fenomenologia giunse il Sessantotto e aut aut è stato un buon termometro del dibattito allora in corso. Non ritiene però che il ruolo della rivista poteva essere più critico verso il movimento?
«La rivista aveva contribuito a preparare il ´68 ma non si identificò mai con il movimento degli studenti, anzi ne criticò i dogmatismi suggerendo un orizzonte filosofico molto più ampio».
Due figure di quel "decennio rosso" furono Raniero Panzieri e Franco Fortini. Il confronto con loro vi ha svincolato dal condizionamento del Pci. Ma restava il rischio di essere riassorbiti in un´idea di "soggettività rivoluzionaria" che si è mostrata velleitaria e impraticabile.
«Il decennio al quale allude è stato forse il momento più dinamico della rivista: la questione dei bisogni ne rappresentò il filo rosso, il collettore e insieme la provocazione filosofica. Le idee di alcuni allievi di Lukács (Agnes Heller in primo luogo) e le loro critiche al "socialismo realizzato" costituirono un elemento importante di questo filo. Non a caso attorno alla rivista si aggregarono intellettuali di spicco, talora assai dissimili, da Cacciari a Fortini. Eravamo una palestra di posizioni anche conflittuali. E non mi pare che in quegli anni caldi la rivista abbia mai rinunciato alla sua ispirazione critica».
Gli anni Ottanta hanno significato un rapporto privilegiato con Foucault. Lo stesso che, negli anni Novanta, si mostrerà con Derrida. Non c´è stato un eccesso di francesizzazione della rivista?
«Troppa Francia? Non so. Tra l´altro c´è da aggiungere l´interesse per Lacan che continua tuttora. Prima sembrava tutto girare attorno alla fenomenologia, che parlava tedesco, la stessa lingua di Heidegger, al quale abbiamo dedicato successivamente moltissima attenzione. Ma non credo che la geofilosofia sia un sintomo significativo. Foucault entra nelle pagine di aut aut alla fine degli anni Settanta quando il problema centrale diventa per noi quello del potere e della natura dei dispositivi in cui viviamo».
Insieme a Vattimo lei è stato fautore in Italia di un "pensiero debole". Ritiene che questo modo di interpretare il mondo sia ancora valido? O non crede che quell´esperienza si sia consumata dopo il nuovo richiamo alla realtà e ai fatti che la determinano?
«Qui vorrei essere molto netto: il pensiero debole era inattuale nel 1983, quando uscì allo scoperto, e resta inattuale oggi, quando si vorrebbe celebrarne il funerale. Il pensiero debole non è morto semplicemente perché non si è mai permesso che vivesse davvero. Quanto ad aut aut, l´indebolimento delle pretese assolutistiche della filosofia e la critica agli usi "violenti" della verità si intonavano perfettamente con i motivi per cui la rivista era nata, cioè la denuncia di ogni barbarie del pensiero, insomma di tutte le ideologie. E si accordava altrettanto bene con la microfisica del potere e la critica al "Soggetto filosofico" che attraversano l´intero pensiero di Foucault».
I temi dell´alterità e dell´ospitalità sono le coordinate dell´ultima fase della rivista. Non c´è il rischio di un eccessivo buonismo filosofico?
«Non direi proprio che aut aut possa essere accusata di buonismo filosofico. Al contrario, è una rivista che tende a produrre fastidi e lanciare provocazioni. Alterità ha per noi significato apertura ad altri mondi culturali, ma soprattutto bisogno di stanare e descrivere le insidiose e diffuse retoriche dell´alterità che vengono spacciate per supplementi d´anima. Quanto all´ospitalità non ha niente di dolce, non è un cibo per anime belle. Come l´abbiamo intesa noi, sulla scorta di Derrida, vuol dire essere stranieri, appunto ospiti in casa propria».
Chi vi critica sostiene che la rivista sia eccessivamente filosofica. Troppo elitaria.
«È un´obiezione che condivido e che implica anche un aspetto di scrittura. Le molte proposte spontanee che arrivano in redazione sono spesso scritte in filosofese, che la dice lunga sull´idea astratta di filosofia che circola e su come l´università formi studiosi magari bravi ma spesso incapaci di comunicare».
Siamo usciti, forse, da un regime politico ma non da una crisi che ha tratti epocali. Come si posiziona aut aut di fronte alle nuove incertezze, paure e precarietà che stiamo vivendo?
«Credo che l´Italia sia ancora immersa nella cultura-spettacolo e nei suoi tratti, diciamo pure, populistici. Sottovalutare questo aspetto della barbarie sarebbe un errore. Quanto alla precarietà sociale sarebbe sbagliato attribuire alla filosofia, concreta o no che sia, il compito di prefigurare soluzioni teoriche ed etiche. Non è affar suo. La filosofia non deve venir meno al suo ruolo di descrizione e di critica. Il suo compito è individuare linee di resistenza continuando nel contempo lo smascheramento delle retoriche vecchie e nuove, visibili o striscianti. Chiamerei tutto ciò lavoro di "etica minima"».
Cosa significa?
«Un lavoro tutt´altro che di superficie, visto che mette in gioco la domanda più cruciale: che ne è oggi, nella società neoliberale realizzata, della soggettività? Assistiamo a una sorta di falsa pienezza del soggetto che illusoriamente pensa di essere un individuo libero, autonomo e padrone di sé. Quando in realtà tutto va nella direzione opposta. Il soggetto egoistico non è più una storia narrabile. Meglio ripartire dalla sua finitezza e precarietà».

Repubblica 22.12.11
Un gruppo fondamentalista cristiano siberiano presenta un esposto contro la distribuzione della Bhagavad Gita "È stampa pericolosa, incita alla guerra". Ma l´India si ribella e minaccia: bloccheremo gli affari con la Russia
Il libro sacro degli induisti che fa litigare Delhi e Mosca
Sarà un tribunale a decidere sull’uscita del testo della grande epica del Mahabharata
di Raimondo Bultrini


BANGKOK Se Mahatma Gandhi fosse ancora vivo, sarebbe il più sorpreso tra tutti. La sacra Bhagavad Gita, il libro che fu guida e ispirazione della sua vita dedicata alla non violenza, rischia di essere bandito in Russia come "letteratura estremista".
La sentenza sarà emessa, tranne rinvii, il 28 di questo mese da una Corte della remota città siberiana di Tomsk, dove un gruppo integralista cristiano ha presentato una denuncia con migliaia di firme per chiedere il divieto su tutto il territorio russo della traduzione e distribuzione del testo principe dell´Induismo. La loro accusa riecheggia quelle degli stessi indù contro il Corano: «Esalta la guerra» e provoca «discordia sociale», hanno scritto i querelanti. Ma è la prima volta che viene portato a giudizio il testo fondamentale della grande epica del Mahabharata, un trattato sulla vita e la morte attribuito al potente dio Krishna. Conosciuta da un miliardo di indiani, la Gita viene perfino distribuita gratis nelle carceri e nelle scuole, oltre a essere recitata ormai in tutto il mondo, come ha fatto pochi giorni fa l´artista Philip Glass al Met del Lincon Centre di New York a beneficio degli "Occupy Wall Street".
Per stabilire se davvero la Gita incita alla violenza, la Corte di Tomsk ha già affidato perizie e valutazioni "tecniche" alla facoltà di Studi orientali della locale università. «Gente incompetente»", hanno tagliato corto gli studiosi indiani, «come possono giudicare la parola del nostro Dio?».
Anche le reazioni politiche e sociali in India all´annuncio del processo sono state immediate e al livello più alto, con un rinvio straordinario della seduta del Parlamento nazionale per chiedere al governo una protesta ufficiale contro la Russia. Lo stesso primo ministro di Delhi si è impegnato a intervenire per interrompere il processo e far annullare la data della sentenza, mentre il ministero degli Esteri inviava una nota di censura a Mosca. «Ma c´è poco che possiamo fare - hanno spiegato i portavoce indiani - perché a decidere non è il governo russo, bensì una Corte siberiana».
La controversia ruota attorno ai consigli che Krishna, emanazione infallibile dell´Olimpo vedico, elargisce al suo discepolo e provetto arciere Arjuna, figlio del re degli dèi e destinato a battersi per ripristinare il Regno del Bene contro gli infidi cugini che lo usurpano. Il dialogo, altamente filosofico e mistico, avviene sul campo di battaglia dove Arjuna l´"infallibile", viene convinto da Krishna a non farsi irretire dal timore di dover uccidere gente del suo stesso sangue per portare a termine la sua missione di giustizia. Mentre lo guida sul carro in battaglia, il dio gli parla del coraggio, dei doveri di un guerriero, della natura umana e di quella degli dèi. «È la guerra come metafora della nostra lotta interiore per realizzarci», spiegano gli studiosi, che citano i nomi di parecchi occidentali celebri ispirati dal libro, da Einstein a Oppenheimer, da Carl Jung a Herman Hesse.
Ma per i membri della chiesa ortodossa che ha presentato la denuncia, le parole sono pietre e c´è un tono eccessivamente guerrafondaio nel testo tradotto e commentato dal leader della più grande fondazione dei devoti di Krishna, la Iskon. Non così la pensa Philip Glass, che al Met di New York ha recitato proprio quei brani della Gita dove Krishna spiega ad Arjuna il compito di un dio: «Quando la giustizia si estingue e le regole del male governano il Paese, noi veniamo a esistere, epoca dopo epoca, e prendiamo forma visibile, e ci muoviamo, un uomo tra gli uomini, per la tutela del bene, ricacciare indietro il male e rimettere la virtù al suo posto».
È il principio della "Guerra giusta", la Dharma Yudda, una Jihad in versione Hindu conosciuta da un miliardo di indiani fin dall´infanzia sotto forma di fiaba. Per anni il Mahabharata è andato in onda in tv con centinaia di puntate che hanno tenuto il Paese incollato allo schermo. Per questo il processo siberiano non mancherà di essere seguito attentamente sia dai milioni di indiani residenti in Russia che da quelli di casa. «Non sarà tollerato nessun insulto a Krishna», ha tuonato il celebre politico Lalu Prasad Yadav, che porta il nome di famiglia del dio ed è stato per anni ministro del Congresso. Diversi gruppi ultraortodossi hanno annunciato cortei davanti alle sedi consolari e perfino un boicottaggio dell´import-export con Mosca.

l’Unità 22.12.11
Brigantesse guerriere per forza
Spesso sono in fuga da mariti violenti o scelgono di unirsi alla banda dei briganti dopo essere state rapite o stuprate. Una pagina di storia ancora tutta da scoprire... Ce ne parla Enzo Ciconte in un libro che vi anticipiamo
di Enzo Ciconre


Tra i briganti ci sono le donne, intraprendenti, affascinanti, coraggiose, spericolate. Non drude, come spregiativamente sono descritte nelle carte dell’epoca, ma brigantesse.
Seguono i loro uomini, ne condividono o ne subiscono le scelte dopo un rapimento o uno stupro e combattono al loro fianco, alcune lasciandoci la vita. Sono tante, e negli ultimi tempi la loro storia comincia ad essere raccontata.
Le storie delle donne narrano il volto vivo di un Mezzogiorno dove ci sono miseria, desolazione e devastazione negli stili di vita e nell’immaginario di queste popolazioni che tra l’altro hanno abitudini e culture diverse da quelle degli uomini venuti dal Nord.
Per quanto incredibile possa sembrare molte di loro, dopo l’esperienza con i briganti e dopo espiata la condanna, si rifanno una vita e una regolare famiglia con tanto di matrimonio. È il caso di Lucia Pagano, meglio nota come Maria Lucia Dinella di Avigliano, rapita dal fratello di Ninco Nanco e aggregato alla banda.
VITTIME DEI BANDITI
È il caso di Maria Rosa Marinelli di Marsicovetere, costretta a seguire Angelantonio Masini, e Filomena Cianciarulo, rapita dalla banda Masini che si sposano subito dopo essere uscite dal carcere.
Reginalda Rosa Cariella, Reginella, è un’altra vittima della banda Masini. A lei il tribunale militare di Potenza concede l’assoluzione perché convinto che i fatti addebitati alla brigantessa siano stati commessi in stato di costrizione.
Filomena Di Marco Pennacchio, è di Casalvecchio di Puglia e non ha ancora 17 anni quando uccide il marito violento. Rifugiatasi in un bosco per non finire arrestata incontra Giuseppe Caruso e se ne innamora. È una donna intraprendente e molto libera per i suoi tempi. È l’amante di Crocco, di Giuseppe Schiavone e Ninco Nanco. Spietata e sanguinaria da brigante, si trasforma appena arrestata; si pente e denuncia i suoi vecchi compagni d’avventura. Maria Oliverio Ciccilla, è di Casole Bruzio poco distante da Macchia di Spezzano Piccolo dove è nato Pietro Monaco. I due, secondo il racconto che ne fa Peppino Curcio, si conoscono sin da ragazzi e si sposano molto giovani. Pietro fa il soldato, prima con i Borbone, poi si arruola con Garibaldi e infine viene chiamato a fare il militare dal nuovo Regno d’Italia. È davvero troppo. A questo punto diserta e va per i monti dove si unisce alla banda di Domenico Straface Palma.
Il famigerato Fumel tenta in tutti i modi di premere su Maria perché faccia costituire il marito, ma questi rimane dov’è. I due si ricongiungono dopo che lei ha ucciso la sorella che s’è invaghita del marito. Rimarranno insieme fino alla morte di Monaco, ucciso da due traditori.
La morte è già una tragedia, ma adesso per Ciccilla comincia l’orrore perché ordina di tagliare la testa del marito in modo che non cada in mano dei soldati o dei traditori e non possano portarla in trionfo per le vie del paese, e la sotterra lei stessa in un luogo segreto.
Poco dopo si costituisce. Viene condannata a morte, ma la sua condanna fu communtata nei lavori forzati a vita. La sua fine è leggendaria. C’è chi la vuole rinchiusa a Fenestrelle, chi morta a 35 anni.
IL DISONORE O LA MACCHIA
Nessuna di loro nasce brigantessa. Alcune scappano da mariti violenti; altre sono rapite e stuprate, e decidono di rimanere nella banda per non dover vivere da disonorate in paese, emarginate da tutti; altre ancora raggiungono i loro innamorati che nel frattempo sono diventati briganti. Ci sono quelle che diventano vittime perché parenti di briganti e, perseguitate, scelgono di fare le brigantesse. Altre, e sono tante secondo l’elenco che ne fa Valentino Romano, sono accusate di manutengulismo.
Clotilde De Filippo, che ha studiato le brigantesse sannite, ha potuto notare come in provincia di Benevento il brigantaggio offra alle donne la «possibilità di riscrivere la propria vita, passando da una situazione di passività e subalternità» a una «situazione di attivismo e protagonismo in quanto vere e proprie guerriere».
Le brigantesse vivono, oggi, in numerose fotografie scattate dopo la loro cattura o la loro morte, queste ultime in orrende e oscene pose. Sono i comandanti militari a voler fotografare i briganti, uomini e donne, per pubblicare le foto sui giornali e pubblicizzare i progressi della repressione. Le donne hanno un posto di rilievo, sono fotografate ed esibite. «Sembrano amazzoni pronte al combattimento ha osservato Simona de Luna e sono invece contadine sconfitte».

Repubblica 22.12.11
Un libro di Brands dedicato al periodo tra il 1865 e il 1900
Quando l’America scoprì il capitalismo
di Lucio Villari


La prima parte descrive i grandi magnati con il loro contorno di banche politica, giornali

Tra pochi anni anche gli Stati Uniti ricorderanno i 150 anni della loro "rifondazione". Il 19 aprile 1865 con la capitolazione in Virginia del generale sudista Robert Lee il nord industriale vinse la guerra, confermando in modo definitivo il valore dell´unità della nazione contro la secessione degli Stati del Sud e avviando una svolta politica e sociale della sua identità. Solo che quella svolta e quella unificazione statuale hanno coinciso con una improvvisa, accelerata mutazione dell´economia americana.
Dal 1865 in poi gli Stati Uniti hanno raggiunto primati di sviluppo produttivo, tecnologico, scientifico, hanno trasformato il loro destino quasi esclusivamente agricolo in un mondo governato dall´alta finanza, dalle industrie meccaniche, dal petrolio, dalle ferrovie, dall´avventura della conquista del Sud e del West (col genocidio degli indiani), dalle prodezze della speculazione edilizia. Contemporaneamente hanno messo in discussione o in crisi molti statuti della democrazia, cioè quel connotato particolare che, come aveva visto Tocqueville trenta anni prima, distingueva gli Stati Uniti dai sistemi politici della vecchia Europa. Seguire però con attenzione analitica e critica il dipanarsi di questo filo non è stato facile per la storiografia americana che nel secolo scorso ha visto schierati su fronti diversi coloro che dissentivano dai guasti provocati dal capitalismo ruggente e coloro che ne esaltavano le magnifiche sorti.
Tra i primi vi è certamente H. W. Brands, dell´Università del Texas, premio Pulitzer, che in questi mesi di crisi ha pensato di rileggere, anche con ironia, le ragioni più lontane dei problemi attuali. Ed ecco il recente e appassionante American Colossus. The Triumph of Capitalism.1865-1900, un volume di 686 pagine (Random House), dove i trentacinque anni che hanno portato gli Stati Uniti alle soglie del ´900 sono studiati senza infingimenti ideologici. Basti leggere la prima parte intitolata "The rise of the Moguls", i "mongoli", i magnati Morgan, Rockefeller, Carnegie, Vanderbilt, Ford, col contorno di banche, aziende, compagnie ferroviarie e petrolifere, giornali, università, economisti, deputati, eccetera, e seguire, come fa Brands, le loro imprese e il dilatarsi delle loro frontiere geografiche, politiche e della autocelebrazione e esaltazione. Con conseguenze eccezionali sul piano della produzione e della ricchezza ma anche con crisi sociali e politiche della democrazia e con l´inizio del caos tipico di un capitalismo Colossus che riesce ad arricchire molti e a istupidire tutti.
Il capitolo "Gotham and Gomorah" (Gotham in slang è un luogo di sciocchi) documenta bene le cose. Che all´aprirsi dell´ultimo decennio dell´Ottocento erano divenute così complicate da richiedere la promulgazione nel 1890 dello Sherman Antitrust Act, primo tentativo del governo di riprendere il controllo politico delle regole e di tentare di imporle ai "magnati" con gli strumenti della legalità e dei principi costituzionali. In quei mitici trentacinque anni sono nate le grandi città moderne americane con tutte le meraviglie possibili regalate dall´elettricità, la chimica, le acciaierie: treni sopraelevati, tram, illuminazione, ascensori, telefoni, grandi magazzini, scale mobili, il tutto mescolato a quartieri miserabili, inquinati, pieni di cinesi, di italiani, di irlandesi. Brands racconta tutto ma al suo racconto vorrei aggiungere le testimonianze di due scrittori europei che proprio a fine secolo decisero di vedere quanto stava accadendo in America. Uno era Giuseppe Giacosa che, passeggiando a New York nel 1898, si espresse così: «È impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l´umidità fetente, il disordine di quelle strade». L´altro Rudyard Kipling che, dopo una visita a Chicago, si espresse con più leggerezza: «Dopo aver visto la città non sento alcun pressante bisogno di rivederla».

Repubblica 22.12.11
Il convegno dei fisici che si occupano del progetto Large Hadron Collider
Parla italiano la particella di Dio
di Elena Dusi


Agli esperimenti nucleari partecipano per la maggior parte scienziati del nostro paese. Ma c’è il rischio che i più promettenti giovani ricercatori espatrino

È un anello enorme al Cern costruito per prendere al laccio i misteri dell´universo: il bosone di Higgs (di cui una settimana fa è stata annunciata la traccia), materia ed energia oscura, i primi istanti dopo il big bang, la supersimmetria, l´esistenza di dimensioni extra. I suoi signori parlano italiano, anche se il gigantesco tunnel circolare dell´acceleratore di particelle Lhc (il Large Hadron Collider) corre per ventisette chilometri tra le montagne del Giura e il lago Lemano, cento metri sottoterra a cavallo della frontiera svizzera e francese.
Lunedì mattina a Milano i signori italiani dell´anello si sono riuniti al Museo nazionale della scienza e della tecnica per raccontare "Lo strano mondo di Lhc" e la frontiera delle loro ricerche. I responsabili dei cinque esperimenti del Large Hadron Collider più il direttore della ricerca del Cern Sergio Bertolucci, insieme al presidente dell´Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) Fernando Ferroni, hanno ricordato che il nostro paese ha una competenza all´avanguardia nel settore della fisica e può appoggiarsi sulle spalle dei giganti del secolo passato, ma finirà col soffocare questo fiore prezioso se lascerà espatriare tutti i suoi giovani talenti appassionati ma precari.
Oggi un decimo dei diecimila fisici che lavorano a Lhc sono italiani. Dei sei miliardi di euro spesi per costruire la macchina più grande mai realizzata dall´umanità, il 15 per cento viene dal nostro paese. E in Italia è stato realizzata una parte del "motore": i magneti che accelerano i protoni fino al 99,99 per cento della velocità della luce e ne piegano la traiettoria lungo il tunnel circolare. Lhc è allo stesso tempo il luogo più freddo dell´universo (i magneti lavorano a meno 271 gradi, uno in meno della temperatura media dell´universo), il più caldo (nei punti di collisione fra i nuclei di piombo si raggiungono temperature dieci volte più alte dell´esplosione di una supernova) e anche il più vuoto, affinché nel tubo dove vengono accelerati i protoni o i nuclei di piombo nulla disturbi la folle corsa delle particelle.
«Il 2011 è stato emozionante per noi» racconta Fabiola Gianotti, dal 2009 a capo dell´esperimento Atlas: un gigante da settemila tonnellate, venticinque metri di altezza e tremila fisici di cui mille italiani. Proprio Atlas, insieme all´esperimento gemello (e rivale) Cms, ha osservato il primo segnale del bosone di Higgs. «La macchina ha funzionato benissimo e abbiamo ristretto la finestra entro cui, se esiste, questa particella deve trovarsi. Se pensiamo che a lei hanno dato la caccia per oltre quarant´anni acceleratori di tutto il mondo, si può intuire l´atmosfera di entusiasmo che viviamo».
La definizione "particella di Dio" fa perlopiù inorridire i fisici. Ma sulla sua importanza si concentra Guido Tonelli, portavoce di Cms: «Senza il bosone di Higgs non esisterebbe la chimica e non esisteremmo noi. Fra le sue funzioni, questa particella limita il raggio delle interazioni deboli all´interno del nucleo degli atomi e lascia invece che le interazioni elettromagnetiche abbiano una portata più estesa nello spazio, permettendo che giochino un ruolo importante nella nostra vita quotidiana. Spiega poi come mai le particelle elementari abbiano masse diverse l´una dall´altra».
I cinque spokesperson italiani (sui sei totali di Lhc) guidano i loro esperimenti in virtù di una democratica elezione da parte dei colleghi. Pierluigi Campana, spokesperson dell´esperimento Lhc-b, cerca di capire il perché dell´asimmetria tra materia e antimateria, mentre Simone Giani con il suo Totem analizza la traiettoria dei protoni dopo le collisioni per dedurne la struttura interna. Paolo Giubellino è responsabile dei mille fisici di Alice, l´esperimento che si concentra sullo studio delle collisioni fra nuclei di piombo. «È in queste collisioni che raggiungiamo una temperatura cento mila volte più calda del centro del Sole. La materia assume una forma che chiamiamo plasma di quark e gluoni, caratteristica dell´universo fino a una decina di millesimi di secondo dopo il big bang. Abbiamo osservato che le piccole fluttuazioni all´interno di questo plasma lasciano una memoria di sé nel momento in cui la materia si espande e si raffredda. La struttura su larga scala dell´universo, con tutta probabilità, è frutto di fluttuazioni minime avvenute nei primi istanti dopo il Big Bang».
Se Lhc è in grado di scrutare nel destino dell´universo osservando il suo seme, saranno i prossimi anni a dircelo. «Siamo entusiasti per i risultati raggiunti finora – sorride Bertolucci – ma non dimentichiamo che questa macchina, avviata due anni fa, è stata studiata per durarne altri venti».

il Fatto 22.12.11
Dopo 60 anni in radio, la Rai spenge Notturno Italiano
di Anna Maria Pasetti


Salvate Notturno Italiano, data di inizio 1° luglio 1952, data di fine 31 dicembre 2011. La “vittima” non solo è la più longeva trasmissione prodotta dalla Rai, ma uno dei simboli della una memoria storica del nostro paese. Concepita come uno zibaldone notturno di musica italiana, ne ha proposto il passato e il contemporaneo offrendo la stessa dignità ad artisti noti e talenti sconosciuti. Il tutto sotto la guida competente di un gruppo di conduttori dal pedigree musicale. La chiusura prevista a giorni risponde ai tagli voluti dal Piano di risanamento votato all’unanimità dal Cda Rai lo scorso 25 novembre, e nella fattispecie allo smantellamento della capacità produttiva/ideativa di Rai Italia / Rai Internazional, ridotta a mero contenitore di programmi delle reti generaliste. L’operazione è a perdere su ogni fronte: il lavoro per oltre cento persone che andranno in “ricollocamento”, l’ascolto per molte migliaia di affezionati nel mondo. All’annuncio di “buttar via 60 anni della nostra Storia” si è alzata la protesta trasversale, ovvero coerente allo spirito di Notturno. Fiorello ne twitta l’allarme, Capossela si indigna, ma soprattutto è la gente comune a riempire il Forum web e la pagina Facebook del programma con messaggi di sconcerto. “Per me che sono in Giappone il Notturno è una sorta di buon giorno. Fanno un sacco di spazzatura in tv e in alcune radio, e una radio così non merita di chiudere”, posta Alessandro.
MENTRE PEPPINO, da New York, ricorda “Notturno Italiano è stato per me e per migliaia di emigranti italiani sparsi in tutto il mondo un essenziale legame con la nostra Patria. Pper lunghi anni un vero conforto mentale e spirituale per tutti noi italiani all'estero”. All’happening di sostegno promosso dall’associazione culturale romana Apollo 11, due sere fa, si sono radunati artisti, l’attuale curatore Piero Galletti e un elenco incontenibile di conduttori, dagli storici Paolo De Bernardin, Carlo Posio fino al più giovane Duccio Pasqua, fiero delle t-shirt fatte ad hoc, “Meglio i notturni che i tramonti”. Perché a tramontare sarebbe anche il lavoro in corso di digitalizzazione di vecchie glorie in 78 giri pescate dall’archivio Rai o donate dai collezionisti, di cui finora Notturno si è fatto carico. Francesco Di Giacomo del Banco, il primo a esibirsi, non sente ragioni: “C’è la precisa volontà di fomentare il pensiero unico, di arredare le orecchie della gente come l’Ikea ne arreda le case”. E oggi la protesta, allargata alle vittime degli altri tagli, si sposta a Viale Mazzini.

La Stampa 22.12.11
La musica di Beethoven «ispirata» dalla sordità


Gli spartiti composti da Beethoven risentono dei suoi problemi d’udito. Lo spiegano i ricercatori di un team olandese che ha analizzato parte della musica del compositore tedesco, confrontandola con l’andamento della sua progressiva sordità. Si è così visto che, via via che passavano gli anni e l’udito scemava, le composizioni includevano un numero sempre minore di note alte. Una rarefazione che, dopo la definitiva sordità del musicista, si è interrotta: a quel punto, infatti, le note alte sono riapparse. Nello studio il numero di note sopra 1568Hz scritte per il primo violino è stato contato e calcolato in percentuale rispetto a tutte le altre. Si è constatato che poco dopo i primi sintomi documentati di ipoacusia, nei quartetti dell’Opera 18 c’era un 8% di note alte. Dal 1805 si scende al 5% (Opera 59) e al 2% (Opera 74 e 95). Dal 1825, quando il compositore aveva ormai capito che non avrebbe mai potuto ascoltare la sua Nona Sinfonia , le note alte tornano via via a ricomparire: la percentuale sale a quasi il 4%.

mercoledì 21 dicembre 2011

l’Unità 21.12.11
Il ministro dell’Interno Cancellieri: «Fenomeni da monitorare e respingere con fermezza»
Vannino Chiti: «La magistratura individui e persegua gli autori di un atto vile e razzista»
Giudici e politici «coccolanegri» Sul web la lista vergogna nazista
Nel sito che inneggiava al killer di Firenze, la lista di proscrizione su esponenti della chiesa cattolica, della comunità ebraica, assessori e sindaci che lavorano per l’integrazione e contro magistrati troppo morbidi.
di Jolanda Bufalini


Si chiama Stormfront ed è il sito neonazista che a gennaio pubblicò la lista di proscrizione degli ebrei. Questa volta il pretesto per arricchire la lista nera è l’omicidio degli immigrati senegalesi a Firenze. Nel forum, che è la filiazione italiana di un sito americano fondato da Don Black (già Ku Klux Klan), sono stati bloccati i messaggi inneggianti all’assassino, sono rimasti gli argomenti contro «l’insano gesto» di Gianluca Casseri, e il loro tenore è molto eloquente: «è stato un assist a chi è a favore del meticciato,
dell’invasione etnica», oppure: «qui non si inneggia a nulla contro la legge, al massimo si plaude a chi lo ha già fatto». Il tutto condito da un triste umorismo: «Non mi piacciono i negri e in democrazioa i gusti sono gusti».
Ma poiché sono stati accusati di odio razziale i partecipanti al forum vogliono dimostrare di odiare molto più gli italiani: «Io vorrei dimostrare che odio molto di più certi italiani che aiutano gli allogeni e ne traggono un tornaconto economico», scrive uno che si firma Costantino e si raffigura con il volto dell’imperatore, lo stesso che aveva definito Casseri «un eroe bianco». È lui a dare il là all’arricchimento della black list, nella quale compaiono di diritto i 945 deputati e senatori. Il primo a essere indicato è padre Ezio Segat, di «una parrocchia del Veneto» la motivazione: «dà i soldi del Veneto skin agli immigrati». Segue Stella Targetti, vicepresidente della Toscana, insulta-
ta perché vuole una scuola dove nessuno è straniero. Ci sono il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici e l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, insieme al gruppo che ha curato il rapporto Caritas sull’immigrazione. C’è l’assessore torinese all’integrazione Ilda Curti, a cui il sindaco Piero Fassino ha espresso immediata solidarietà, colpevole di essersi espressa a favore della Moschea. I Torinesi sono finiti nel mirino del sito dei razzisti anche per la condanna del pogrom del campo nomadi scatenato dalla falsa notizia di uno stupro e fra loro c’è Laura Longo, il magistrato che sta indagando sul rogo. C’è Gad Lerner, l’Infedele è definito «propaganda ebrea», che ha regito: «Onorato di essere insieme a tante brave persone». E il sindaco di Padova Flavio Zanonato, accusato di essere a favore del voto amministrativo agli immigrati regolari. Tutti «coccolanegri», secondo il lessico razzista del sito.Nel mirino anche magistrati, come Domenico Galletta, accusato di aver comminato una pena troppo mite (10 anni) all’immigrato marocchino che investì otto ciclisti ed è stato condannato per omicidio colposo plurimo aggravato. Con il giudice additati anche il gup e l’avvocato difensore. Ci sono inoltre i tre giudici del Tribunale del riesame di Palermo Antonella Consiglio, Giuseppina Di Maida e Filippo Serio. Mentre a Milano tre consiglieri Sel del Comune di Milano Luca Gibillini, Mirko Mazzali e Anita Sonego. Nella lista anche Roberto Mallini, della associazione Everyone per i diritti civili. Everyone spiega che «Stormfront da anni diffonde ideologie antisemite e di stampo neonazista violando la legge Mancino e le convenzioni internazionali». In Germania e in Francia pagine analoghe sono state oscurate ma il problema è che il server che ospita il portale italiano è a Palm Beach in Florida, per questo racconta Malini abbiamo scritto a Sara Morrison, console Usa a Firenze, e all’ambasciatore David Thorne «per impegnare il dipartimento di Stato di concerto con il governo italiano».
LA REAZIONE
Le liste di proscrizione hanno messo in moto la reazione del parlamento e del governo. Una interrogazione è stata presentata da Giuseppe Giulietti (articolo21) e Vincenzo Vita: «Ci auguriamo che si vogliano individuare e colpire i mandanti, i loro complici. Purtroppo questi gruppi agiscono tra molte coperture e complicità».
Il vicepresidente del Senato Vannino Chiti chiede «una azione decisa di magistratura e polizia per individuare e perseguire i responsabili di questi gesti indegni».
E il ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, ospite di Porta a porta, ha definito il sito: «Un brodo di coltura che non si riesce sempre a isolare e sul quale bisogna lavorare». Per il ministro dell’Interno, che ha rilevato che si tratta dello stesso sito da cui erano partiti i tributi di ammirazione per l’assassino di Firenze, «il monitoraggio deve essere costante perché «sppiamo bene che la storia non deve ripetersi». Anna Maria Cancellieri si dice convinta che l’Italia non è un paese xenofobo però «bisogna vigilare con costanza e fermezza perché il malessere c’è e si manifesta anche con le parole, che feriscono come pietre».

il Fatto 21.12.11
Gli amici degli immigrati nel mirino dei nazi italiani
Stormfront: il forum costola del Ku Klux Klan e la lista nera
di Federico Mello


I nazisti connessi alzano il tiro. Dopo aver inneggiato negli scorsi giorni alla strage di Firenze, ora sono passati alle liste di proscrizione contro magistrati, giornalisti, uomini di chiesa e politici colpevoli di “aiutare gli immigrati” o di essere “ebrei”.
La casamatta dell’odio è quella diventata nota in questi giorni. Il forum Stormfront, sezione italiana dei suprematisti bianchi legati al Ku Klux Klan. Qua gli utenti hanno nomi come “Complotto giudaico”, “Nuovo gladiatore”, “Legione76”. Nelle loro immagini di profilo si fregiano di svastiche, celtiche, croci di ferro, foto di Hitler. Lunedì è partito il loro attacco a tenaglia. Da una parte contro politici, sacerdoti e magistrati (in molti casi indicati con tanto di foto segnaletica) che in varie occasioni hanno preso le parti degli immigrati. Dall’altro contro i giornalisti e in particolare contro La7, quella che definiscono “emittente ebraica per eccellenza, di proprietà del giudeo Bernabè” dove “l’ebreo Gad Lerner” dedica una puntata ai fatti di Firenze. Per quanto riguarda le personalità italiane – come denunciato dal gruppo per i diritti umani EveryOne –, nel mirino finiscono il sindaco di Padova, Flavio Zanonato; il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici; il presidente dell’Unione Musulmani d’Italia Adel Smith; monsignor Cesare Nosiglia, la pm di Torino Laura Longo colpevole di aver “contestato l’odio etnico per gli scontri di Torino”. Per lei viene pubblicata anche una foto in toga al fianco dei colleghiRaffaele Guariniello e Francesca Traverso. “Visto che ci dicono che siamo razzisti, scrive il membro di Stormfront ‘Costantino’, noi dimostriamo che odiamo di più certi italiani che gli allogeni”. Il dizionario Treccani informa che per “allogeno” si intende “di altra stirpe o nazione”. Nel linguaggio in salsa coloniale caro ai nazi, chi sta con gli “allogeni”, ovvero con gli immigrati, merita di diventare nemico ed entrare in questa “lista dei delinquenti italiani”. Ci sono anche don Ezio Segat sacerdote della diocesi di Vittorio Veneto; la vicepresidente della Regione Toscana Stella Targetti (definita “Bastarda immigrazionista”) ; i giudici Domenico Galletta e Carlo Fontanazza; l’avvocato Salvatore Staiano; Emiliano Riba, avvocato dell’imam di Torino Khounati; l’assessore del Comune di Torino Ilda Curti; don Fredo Olivero; le sociologhe Adriana Luciano e Roberta Ricucci. Per non farsi mancare niente, nella lista finiscono anche “il governo Monti” al completo, Maurizio Costanzo; il co-presidente di EveryOne Roberto Malini; i tre giudici del Tribunale del Riesame di Palermo (Antonella Consiglio, Giuseppina Di Maida, Filippo Serio; Luca Gibillini) ; i consiglieri di Sel del Comune di Milano Mirko Mazzali e Anita Sonego.
Colpisce come queste personalità impegnate nel sociale diventate target, risultino in molti casi poco conosciute al grande pubblico nazionale. Nei forum non c’è esplicito invito ad atti di violenza, ma tale è il livello di odio da ricordare il rancore del terrorismo rosso e nero nei confronti di “obiettivi” in secondo piano rispetto alla scena nazionale.
L’attacco contro La7 arriva invece lunedì pomeriggio, quando un utente informa i camerati che Gad Lerner, nel consueto appuntamento del lunedì si occuperà di razzismo e immigrazione partendo dai fatti di Firenze. “Un Natale che piacerebbe a Hitler? ” il titolo della puntata. Stormform commenta: “Questa sera su La7, emittente ebraica per eccellenza, di proprietà del giudeo Bernabè, l’ebreo Gad Lerner, dal suo ‘postribolo televisivo’ (cit.) farà una puntata relativa ai recenti fatti di cronaca, che hanno alzato l’allarme ‘razzismo’, invito tutti, se non avete un cazzo da fare, a guardarvi la puntata, potremmo osservare, come si fa in laboratorio con i ratti, come l’ebreo mente e distorce la realtà in favore del progetto mondialista voluto e diretto dal giudaismo e dalla massoneria”. Ad accompagnare il post, un montaggio con una stella di David e “i giudei a La7” indicati in Alain Elkann, Roberto Saviano, Enrico Mentana e gli stessi Lerner e Bernabè. Non manca chi aggiunge un commento: “Purtroppo i porci giudei ci riescono benissimo a far credere alla gente ciò che loro vogliono”. Gad Lerner segnala queste follie sul suo blog e aggiunge: “Commentare sarebbe superfluo. Chi definiva Gianluca Casseri un pazzoide isolato, sarà bene che si ricreda”.
È incredibile che un forum come questo sia ancora accessibile in Italia, in molti paesi europei è stato bloccato. Fondato dall’americano Don Black, già leader del Ku Klux Klan, è attivo dal 1990, quando il web ancora non esisteva e “girava” sui Bbs, un sistema di mailing list antesignano dei blog. Adesso, come informa il fondatore in un post (nel quale chiede, manco fosse Wikipedia, un aiuto economico ai membri), è diventato “il primo sito di suprematisti nel mondo visitato da 40 mila utenti ogni giorno”. E anche in Italia contiene innumerevoli articoli con espliciti inviti all’odio razziale. Nel mucchio finiscono centinaia di nomi, tra gli altri anche Carlo De Benedetti, Fu-rio Colombo, Miriam Mafai e Oliviero Beha. Ieri un coro di condanna si è alzato contro i nazisti digitali. Il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri “invita a tenere alta la guardia” mentre la Giunta distrettuale dell’A. N.M. di Palermo esprime ai colleghi “la piena e convinta solidarietà”. Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi definisce “un onore per la Toscana che la sua vicepresidente, Stella Targetti, sia nella lista nera di un sito neonazista”; e se per il sindaco di Torino Piero Fassino “la lista va condannata e respinta”, per Gianni Alemanno si tratta di “una vergogna delittuosa che va punita”. Vendola, infine, avverte “saremo sempre in prima fila contro chi sparge il pregiudizio razzista”.
La polizia postale italiana fa sapere di essersi già attivata. Il server si trova negli Usa, ma contatti sono in corso con le autorità americane per chiedere che sia rimossa la pagina e per risalire ai responsabili delle proscrizioni. Eppure per queste centrali dell’odio si potrebbe anche procedere obbligando tutti i provider, ovvero le compagnie telefoniche che portano Internet nelle nostre case, a inibirne l’accesso. Si fa per i siti di pirateria non si vede perché non si possa fare con i nazisti.

il Fatto 21.12.11
Quelli della lista di proscrizione
Nell’elenco giornalisti, politici, sacerdoti e magistrati
di Luca De Carolis


Ci hanno detto che Casseri, l’assassino di Firenze, era un pazzoide isolato. Ma l’elenco dimostra che esiste una rete di razzisti, nell’unico paese occidentale dove si possono pubblicare liste di proscrizione”. Gad Lerner, conduttore de L’Infedele, è il più noto tra i “nemici” indicati da Stormfront. Un giornalista, ebreo. Che non ha paura: “Di insulti e minacce ne ricevo di continuo, ma non ho chiesto e non chiederò la scorta, come fanno certi direttori, per cui averla fa status symbol”.
DUE sere fa ha dedicato la sua trasmissione al razzismo. Ricorda: “Prima del programma, ho ricevuto sul mio blog minacce e insulti in serie. Uno l’ho letto a inizio trasmissione: mi si accusava di dedicare la puntata ai senegalesi uccisi per avidità”. Odio puro, che per Lerner non trabocca solo da razzisti minoritari: “C’è una precisa strategia della disinformazione, che presenta l’Italia come un Paese nel quale immigrati e rom sono i più fortunati, riempiti di privilegi dalla politica. È lo stesso messaggio della Lega Nord e di certa stampa. Domenica scorsa Il Giornale titolava: «Case gratis ai rom». Ma quelle sono abitazioni pensate per chi ha subìto un pogrom”. Domanda naturale: perché? Lerner risponde così: “Perché la destra italiana non ha ancora fatto tutti i conti con il suo passato, e perché per anni ha governato l’imprenditore della paura. Ma sulle ragioni profonde ci sarebbe da parlare a lungo. Quel che conta è che in Italia sono aumentati i morti per razzismo”. Tra i nomi sul sito c’è anche quello di Ilda Curti, assessore alle Politiche di integrazione dei nuovi cittadini per il Comune di Torino. Della lista ha saputo dagli sms di solidiarietà che le sono piovuti sul telefonino. Racconta: “La prima reazione è stata scrivere un messaggio su Face-book”. Parole di umanissimo sconcerto: “Sono nella black list, «odiata più degli stranieri». Non so se mettermi a piangere dallo schifo, urlare o vomitare”. Un paio d’ore dopo, Curti osserva: “Forse sono nella lista anche per il mio impegno a favore delle minoranze religiose e del loro diritto ad avere luoghi di culto come la moschea”. Di certo, è stata inclusa da gente informata, che scheda gli avversari.
L’ASSESSORE non s’intimorisce: “Magari saranno due imbecilli di Torino ad aver scritto di me e degli altri torinesi citati. Ma non ho paura: anzi, sono orgogliosa di essere in quella lista di persone per bene”. Flavio Zanonato, sindaco di Padova e delegato Anci all’immigrazione, non dà molto credito alla cosa: “Quel sito mi pare un gran buffonata, è solo gente che cerca visibilità”. Ma ribadisce le sue idee: “Mi mettono in una lista di chi tifa contro l’Italia. Invece, proprio perché voglio bene al mio Paese, so che si vive meglio se gli immigrati sono integrati”.

il Fatto 21.12.11
I siti: chiuderli? norme inefficaci
di Roberta Zunini


L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non avere ancora bandito il forum neonazista Stormfront, come è invece accaduto in Germania e Francia; questo poiché il portale si appoggia su un server americano con sede a West Palm Beach, in Florida, e ogni operazione di natura giudiziaria, se avanzata dalle sole autorità italiane, diviene estremamente complessa, se non impossibile”, hanno spiegato ieri gli attivisti di Everyone, che invitano la rappresentanza Usa in Italia a farsi portavoce presso il governo Obama della necessità urgente di dichiarare il sito fuorilegge. La polizia postale preferisce non rispondere in proposito rimandandoci al garante della privacy, Francesco Pizzetti. Il Presidente del Garante per la protezione dei dati personali che è stato confermato per il quinto anno consecutivo alla guida del Gruppo europeo in materia di cooperazione giudiziaria e di polizia sottolinea come la questione sia estremamente complessa perché per quanto riguarda il trattamento dei dati personali via internet non esiste un'autorità internazionale. “Dobbiamo verificare innanzitutto le dimensioni e le caratteristiche di Stormfront. Il fatto che faccia ricorso a un server straniero non vuol dire nulla in sé perché dipende da quali dati vengono caricati su questo server e precisamente quale funzione svolge”. Il garante sottolinea che “se dopo la fase istruttoria venisse riscontrato che l’attività di Stormfront riguardi in tutto e per tutto il nostro Paese, allora si potrà far ricorso alla magistratura e per quanto riguarda le mie facoltà, potrò chiederne il blocco e anche un immediato divieto di divulgazione”. Per ora secondo Pizzetti è ancora troppo presto per dare una risposta precisa. La legislazione italiana consente di bloccare dei siti solo quando presentano contenuti di carattere pedopornografico o estremi di reato. Questa è l’unica eccezione. Altrimenti si sconfinerebbe nella lesione della libertà di opinione. Nella serata di ieri la polizia postale avrebbe comunque avviato contatti con le autorità americane per ottenere che i responsabili del sito o, in alternativa, quelli del server su cui si appoggia il forum, rimuovano la pagina. Contemporaneamente gli investigatori avrebbero chiesto di risalire al computer da cui è stata pubblicata la lista, per poi cercare di individuare gli eventuali responsabili.

La Stampa 21.12.11
L’allarme. Il rigurgito xenofobo
In Rete la “lista nera” dei nazisti
Il sito Stormfront attacca politici, preti e giornalisti: difendono immigrati, zingari, ebrei e neri
Il forum è registrato negli Usa: la polizia postale ne ha chiesto l’oscuramento
di Grazia Longo


ROMA Il sito solidarizza con chi ha appiccato il fuoco al campo rom di Torino L’ispiratore Il sito americano Stormfront è stato fondato nel ‘95 da Don Black (nella foto), ex leader del movimento razzista Ku Klux Klan alla fine degli Anni Settanta Laura Longo Il pm sta conducendo l’inchiesta sul recente rogo di un campo Rom a Torino Flavio Zanonato Il sindaco di Padova sarebbe «tra i delinquenti più pericolosi» Maurizio Costanzo Il giornalista commenta: «Sono nella lista perché mi sono sempre comportato bene... »
Stavolta nessuno ha perso la vita, com’è invece accaduto una settimana fa a Firenze dove due senegalesi sono stati uccisi dal neonazista Gianluca Casseri che si è poi suicidato ma il razzismo continua a imporsi sulle nostre vite.
Questa volta l’odio fomenta una lista nera di politici, magistrati, sacerdoti, giornalisti, avvocati. Tutti «colpevoli» di difendere persone di colore, ebrei, zingari. A pubblicarla nella Rete è il forum neonazista di Stormfront, fondato dall’americano Don Black, ex leader del Ku Klux Klan. Che bolla come «delinquenti» chi in realtà si batte da tempo in difesa della legalità. A partire da quelle dei più deboli. Tanto da spingere il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, a tenere alta la guardia sulle manifestazioni di intolleranza: «È un brodo di coltura che non si riesce a isolare. Le forze dell’ordine hanno una attenzione molto alta, ma sono fenomeni che vanno monitorati costantemente».
Stormfront, attraverso il sedicente Costantino, spara a zero contro Flavio Zanonanto («tra i delinquenti più pericolosi»), la vicepresidente della giunta toscana, Stella Targetti («bastarda immigrazionista sei nella lista») l’assessore all’integrazione di Torino, Ilda Curti, che aveva duramente condannato l’incendio al campo Rom di dieci giorni fa.
Tra i giornalisti spiccano Maurizio Costanzo e Gad Lerner (che si guadagna la doppia citazione finendo anche nell’elenco cattivo degli ebrei), mentre tra i religiosi sono indicati don Ezio Segat, sacerdote della diocesi di Vittorio Veneto («ha preso i soldi raccolti dal veneto skin e li ha dati ai poveri fratelli immigrati»), monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino e don Fredo Olivero. Non vengono risparmiati neppure i magistrati. A partire dal pm torinese Laura Longo, che contestò l’odio etnico per l’incendio al campo nomadi, il giudice Domenico Galletta, il gup Carlo Fontanazza, che giudicò il marocchino responsabile della morte di 8 persone a Lamezia Terme.
La polizia postale si è già attivata per rimuovere la black list. Ha contattato le autorità americane che hanno la giurisdizione poiché il forum è stato registrato negli Usa per ottenere che i responsabili del sito o, in alternativa, quelli del server su cui si appoggia il forum, cancellino la pagina. Contemporaneamente gli investigatori hanno chiesto di risalire al computer da cui è stata pubblicata la lista, per poi cercare di individuare gli eventuali responsabili.
Intanto lo sdegno e la condanna non conoscono tregua. L’organizzazione per i diritti umani EveryOne ritiene «urgente dichiarare fuorilegge il portale». Allarga gli orizzonti Gad Lerner: «Purtroppo è la riprova che Gianluca Casseri non era un pazzoide isolato. Mi onora essere in quella lista». «Se vengo messo nella black list dei neonazisti vuol dire che nella vita mi sono comportato in maniera giusta», gli fa eco Maurizio Costanzo. Riccardo Pacifici, presidente Comunità Ebraica di Roma rilancia sull’esigenza di punire chi cavalca l’ideologia xenofoba: «È evidente che la vigilanza delle istituzioni, oltre a quella dell’intelligence, non può che essere accompagnata da una certezza della pena che possa assicurare alla giustizia gruppi eversivi». Scandalizzato è il procuratore di Torino Giancarlo Caselli, che sceglie la strada dell’ironia: «Provo una forte invidia verso la collega Laura Longo, nel constatare che non figuro insieme a lei in quella squallida lista». E contro la lista dell’odio si schierano anche il sindaco di Torino, Piero Fassino, e il leader di Sel Nichi Vendola.
L’intolleranza del portale di Stormfront non conosce limiti. «Visto che ci dicono che siamo razzisti scrive il sostenitore Costantino noi dimostriamo che odiamo di più certi italiani che gli allogeni». Il gruppo EveryOne, che ha denunciato il caso, ha sollecitato il console Usa a Firenze, Sarah Morrison, e l’ambasciatore Usa a Roma, David Thorne, per un intervento congiunto con i ministri dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri italiani, «per l’immediata chiusura del sito web e per l’individuazione di tutti gli utenti passibili di denuncia per reati contro la persona e contro la comunità».

La Stampa 21.12.11
Sorpresa a Parma La lista neofascista fa il pieno a scuola
In un istituto tecnico industriale i 4 posti vanno agli studenti di destra
di Franco Giubilei


PARMA Il futuro Gli studenti del «Blocco studentesco» promettono altre iniziative per rafforzare la presenza nell’istituto: «Faremo conferenze, dibattiti e attività sportive»
Nell’ormai ex roccaforte rossa emiliana, erosa finora soprattutto dalle infiltrazioni leghiste, ecco apparire anche lo spettro dell’estrema destra, con la vittoria del Blocco studentesco alle elezioni in un istituto tecnico di provincia, l’Itis Galilei di San Secondo Parmense.
Un exploit così clamoroso da finire in gran risalto sul sito della formazione neofascista: «Siamo riusciti a eleggere quattro dei nostri candidati su quattro posti disponibili, segno che il buon lavoro svolto in questi primi mesi di militanza ha pagato». L’affermazione del Blocco studentesco, sia pure per una manciata di voti, è maturata in una scuola di 600 studenti lasciando l’amaro in bocca ma anche qualcosa di più fastidioso fra alcuni giovani, che rinvengono in quell’esito segnali inquietanti di ritorno al passato: «Sono molti i problemi con cui ci dobbiamo scontrare oggi, ma tra questi non pensavo che ci fosse il fascismo – dice uno di loro -. Fa venire i brividi solo a pronunciarlo». A osservazioni come queste risponde il responsabile del Blocco studentesco Riccardo Rigoni: «A sinistra sono ancorati alle logiche degli anni Settanta. Noi facciamo politica sui problemi della scuola, e sulle nostre risposte otteniamo consensi». Il fatto che i consensi in questo caso siano arrivati in una realtà tradizionalmente impermeabili a suggestioni di derivazione neofascista diffonde una soddisfazione comprensibile fra gli attivisti del Blocco, ben sintetizzata da un’altra frase pubblicata sul suo sito: «Queste elezioni sono solo le prime della tornata che ci vedrà impegnati in altri istituti con candidati su più fronti. E’ sicuramente un primo passo, molto importante».
Non è la prima volta che l’avanzata nelle scuole delle formazioni di estrema destra avviene alla chetichella, sorprendendo gli avversari: a Roma i gruppi che fanno riferimento a Casa Pound e si riconoscono nella linea del Blocco studentesco hanno conquistato scuola dopo scuola. Il responsabile locale Rigoni è conscio che le elezioni vinte a San Secondo Parmense sono frutto, più che di adesione ideologica, del fatto che all’Itis Galilei si sia presentato un raggruppamento organizzato, che anche grazie a questo ha saputo raccogliere la maggioranza dei voti.
Quanto ai connotati xenofobi, il Blocco nega e rilancia: il loro addetto stampa è un ragazzo di colore. Poi, certo, conferma la propria posizione sulla necessità di fermare l’immigrazione.
E ora? Ora quelli del Blocco guardano avanti: «Continueremo con conferenze, dibattiti e attività sportive e ricreative per coinvolgere gli studenti e renderli attivamente partecipi del loro futuro». Zero ideologia, nessun accenno nostalgico, frasario diretto e militanza, danno l’assalto all’ex fortezza rossa nella consapevolezza di riuscire a penetrare persino qui. Ma al Galilei gli oppositori al Blocco credono di riconoscere l’antico nemico nero e se prendono con l’ignoranza degli studenti: «Forse solo un ventesimo dei ragazzi della scuola conosce questa associazione, che nel silenzio si espande – spiega uno studente Mentre il paese è impegnato nei suoi problemi, loro si muovono. E la colpa non è dei quattro rappresentanti, ma di chi li ha votati non sapendo chi votavano».

il Fatto 21.12.11
Lega, cittadinanza ed espulsione
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, a proposito del diventare o no cittadini italiani al compimento dei 18 anni per gli stranieri nati in Italia, lei scrive (16 dicembre) “Se sei uscito dal confine italiano anche per un solo giorno (magari per una gita scolastica o un evento sportivo) la cittadinanza è negata”. Mi chiedo dove ha letto quanto afferma. La normativa dice (art. 4, comma 2): “Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente fino alla maggiore età, diviene cittadino italiano se dichiara di volerlo, entro un anno dalla suddetta data”. Ciò che ho letto nella sua rubrica non viene menzionato, e dunque mi è sembrato fuorviante. Marcello

GRAZIE per la lettera. Mi aiuta ad aggiungere un'altra ragione per voler modificare al più presto la legge leghista. Infatti, non solo il testo che lei mi ha fornito precisa esattamente quanto detto dalla lettrice Raffaella e da me, e ripetuto da tutti i gruppi di volontariato (Caritas, Comunità di S. Egidio, Libera) sulla necessità di riformare al più presto quella legge. Lei giustamente trascrive: “Che vi abbia risieduto (in Italia) legalmente e senza interruzioni”. La legge è una macchina che non si esprime con il linguaggio generico della conversazione, ma con quello, privo di fenditure, della prescrizione. “Senza interruzione” vuol dire senza interruzione, lunga o breve. Sono stati legittimamente esclusi dalla concessione della cittadinanza giovani che a dodici o quattordici anni erano stati fuori dai confini italiani con la propria scuola, la propria classe o la propria squadra sportiva. Lei dice che “fuorviante” è la lettera a cui rispondevo e la mia risposta. Invece, fuorviante è la legge, che sembra narrare un percorso normale e però contiene brutte sorprese. Infatti, la lettura del testo da lei fornito ci fa notare l'altra trappola predisposta per il giovane nato in Italia da genitori non italiani. Mi riferisco alla parola “legalmente”. Come sa chiunque segua le questioni di immigrazione, la legalità è una condizione arbitraria. Una famiglia la può perdere di colpo, adulti e bambini, se il capofamiglia perde il lavoro. In quell'istante si interrompe il requisito dettato dalle parole “senza interruzione”. E niente, nella legge che appare così innocua, neppure il successivo recupero dello stato di legalità, annulla l'interruzione. In altre parole, stiamo parlando di una legge leghista che si può riassumere in questo motto: qualunque cosa pur di arrecare danno a uno “straniero”. Questa è l'Italia in cui abbiamo vissuto sotto Berlusconi e Bossi. Per questo sono tra coloro che invocano, per i bambini nati in Italia, la cittadinanza subito.

il Fatto 21.12.11
“Ci sarà una volta”. Che mamma da favola
Il cantante dei Têtes de Bois ha raccolto le storie della buonanotte delle immigrate
di Silvia D’Onghia


Una volta la mamma africana di un bimbo di 8 anni è venuta da me e mi ha detto: “Da quando sono arrivata in Italia ho sempre e solo due amiche. Scambio qualche parola con le italiane all’uscita da scuola e qui, nel suo ambulatorio. Quel giorno, fermo in auto in tangenziale, ho capito che dovevo fare qualcosa per lei e per tutte le altre”. Andrea Satta è la voce dei Têtes de Bois. Non tutti sanno che è anche un pediatra. Di base, per l’esattezza. Vuol dire che ogni giorno si fa cento chilometri in macchina per andare e tornare dal suo ambulatorio di Valmontone, paese di 16 mila anime alle porte della Capitale. Senza più una distinzione netta di confini: “Per molti è un dormitorio, lavorano a Roma e vengono a dormire qui. Gli affitti costano meno, esistono ancora i lavori cosiddetti ‘umili’, le piccole realtà artigianali – racconta Andrea (come lo chiamano le mamme) –. I rapporti umani, pur essendo precari, sono forse più diretti. E io mi sento un radar, un lettore delle trasformazioni sociali. Da qualche anno il mondo è cambiato, anche in Italia”.
I BIMBI DI ANDREA, un pediatra senza camice, vengono da tutti i continenti, nessuno escluso. Nella grande vasca dei giochi, tra i termosifoni e le finestre colorate, scompare invece il colore della pelle. Un punto di incontro, oltre a uno studio medico, un luogo in cui lo scambio di esperienze e di racconti aiuta a migliorare non solo la vita dei bambini. “Sono specializzato in pediatria preventiva e sociale. Posso curare le malattie, ma posso e devo fare qualcosa in più”. E così, di fronte al racconto di quella mamma africana sola in una metropoli di 4 milioni di abitanti, ad Andrea è venuta un’idea: scrivere un libro. Non il solito libro, il racconto “dall’alto” dell’esperienza maturata tra canzoni e vaccini. “Ho pensato che una volta al mese, il lunedì, alla chiusura dell’ambulatorio, avrei potuto invitare le mamme, quattro straniere e un’italiana, e avrei chiesto loro di raccontare le favole con cui si addormentavano da piccole. Non i loro figli, proprio loro. Quando mai queste donne hanno avuto la possibilità di raccontare una cosa che appartiene alla propria crescita, alla propria individualità? L’esperimento ha funzionato. Da quel giorno la mamma egiziana col chador non è più sola: ha dato qualcosa di sè agli altri e ha avuto qualcosa da loro”.
Due anni di favole, due anni di integrazione adulta. Un libro, appunto, “Ci sarà una volta, Favole e mamme in ambulatorio”, le illustrazioni di Sergio Staino e 22 racconti, dalla “Leggenda (polacca) di Wars e Sawa” al “Te voglio bene” pachistano, dalla “Tribù degli Ilatosè” della Nigeria a “Chichibio e la gru” della Puglia. E poi Brasile, Norvegia, Romania, Belgio, Marocco, Napoli e la Calabria passando per la Palestina. Un viaggio intorno al mondo e i proventi destinati a Emergency. “La cosa che mi ha colpito – prosegue Satta – è che molte favole si assomigliano, il tessuto narrativo è lo stesso, anche se cambiano i personaggi. I nostri lupo e pecora in Africa diventano leone e gazzella. Poi invece ci sono storie uniche, nate per esempio in Brasile e rimaste lì”. La settimana scorsa Andrea è andato a presentare il libro in una Feltrinelli romana e ha chiamato anche le sue mamme. Nonostante lo sciopero dei mezzi pubblici sono arrivate tutte e tutte hanno letto la propria favola, alcune in un italiano stentato. “Io non so se mi esibirei in pakistano a Karachi. Il giorno dopo, al termine dell’ambulatorio, me le sono trovate lì fuori. Appena sono uscito due bimbe hanno tirato su due cartelli: ‘Grazie Andrea’. Mi sono commosso. Ogni famiglia aveva preparato una specialità del suo Paese e ci siamo fermati a mangiare”.
GIÀ, PERCHÈ lo scambio è diventato anche culinario: “C’è persino la sfida tra i cous cous tunisino e marocchino. Le loro storie sono tutte speciali, perchè come fanno a sopravvivere in un Paese straniero, del quale magari conoscono a stento la lingua, lontane dalle loro famiglie, con una crisi economica che si abbatte anche su di loro? Proprio la crisi mette contro italiani e stranieri, soprattutto i ceti popolari. E allora io non devo convincere gli intellettuali, io devo abituare alla convivenza la gente semplice. Questo è un Paese borghese ed egoista, vecchio e stanco. Chi ci può salvare? Tutti quelli che non sono vecchi e stanchi”.
Il libro non è un punto di arrivo, è l’elemento di un percorso che continuerà, perchè i bambini continuano a nascere. “Venuti a conoscenza del progetto, mi hanno scritto colleghi pediatri da ogni parte d’Italia, vorrebbero farlo anche loro”. E, chissà, magari un giorno le istituzioni se ne accorgeranno.

l’Unità 21.12.11
Il segretario del Pd: «Sì a una riforma del lavoro, ma il problema non è buttare fuori la gente»
Anche Alfano suggerisce «cautela» a Fornero. Letta: «Altri motivi se le aziende sono in crisi»
Lo stop di Bersani sull’articolo 18 «Dibattito fuorviante»
Bersani e Alfano consigliano alla ministra del Welfare maggiore cautela. Operazione dei leader di Pd e Pdl per blindare il governo. Discussione in Parlamento per una riforma istituzionale e una nuova legge elettorale.
di Simone Collini


Gliel’hanno detto a mo’ di consiglio, ad Elsa Fornero, approfittando del clima disteso che si respirava in quelle particolari occasioni. Pier Luigi Bersani ha incrociato la ministra del Welfare al concerto di Natale di Montecitorio. Angelino Alfano le ha parlato durante lo scambio di auguri al Quirinale. E il messaggio recapitato dai leader delle due forze maggiori che sostengono il governo è stato il medesimo, anche se poi nella sostanza della questione il segretario del Pd e quello del Pdl la pensano in modo assai diverso: sul lavoro si deve ragionare con calma, evitando il rischio di inasprire il clima con uscite sui giornali.
Un ragionamento fatto da Bersani, per il quale la discussione sull’articolo 18 è «fuorviante» perché una riforma del mercato del lavoro deve sì esserci ma partendo dagli ammortizzatori sociali e dalle misure che consentano di battere la precarietà e di creare nuova occupazione. Ma in parte espresso anche da Alfano, che prima dell’inizio della cerimonia al Quirinale ha suggerito a Fornero più «calma» e maggiore «cautela» quando si affrontano i temi del lavoro, anche perché il «mix di crisi» e problemi legati all’occupazione può innescare delle dinamiche difficilmente controllabili.
OBIETTIVO BLINDARE IL GOVERNO
Anche se i leader di Pd e Pdl hanno opinioni differenti sull’articolo 18, hanno entrambi la preoccupazione di garantire stabilità al governo, mettendolo al riparo da spinte che possono provenire sia dalle forze che non hanno votato fiducia e manovra (Lega e Idv, con Vendola che da fuori il Parlamento minaccia di «riprendere la lotta di classe») che da settori interni alle forze che sostengono Monti (a cominciare dagli ex-An che scalpitano per andare al voto in primavera). E disinnescare la polemica sull’articolo 18, concordano Bersani e Alfano che in questa fase hanno frequenti contatti, è il primo passo. Il secondo è avviare un confronto in Parlamento per una riforma istituzionale che modifichi il sistema bicamerale e il numero dei parlamentari, riveda i regolamenti di camera e senato, per poi arrivare anche a una nuova legge elettorale. Per farlo, è l’opinione dei leader del Pd e del Pdl, non serve dar vita a un coordinamento permanente tra le forze che sostengono Monti, come invece vorrebbe Pier Ferdinando Casini, non servono bicamerali ad hoc. Ci vuole un’agenda di riforme da discutere in Parlamento, è la convinzione di Bersani, e «non servono particolari patti» (è stato sempre il leader dell’Udc a proporre a Pd e Pdl un «patto costituente»).
IL PROBLEMA NON È BUTTAR FUORI
Un’operazione che però rischia di non vedere la luce se attorno al governo si crea un clima di tensione. In più Bersani, rispetto ad Alfano, è contrario per ragioni anche di merito, oltre che di metodo, ad aprire ora una discussione sull’articolo 18. «Non c’è il problema delle “uscite”», aveva già detto tanto in privato al premier e alla ministra del Welfare quanto in pubblico alla Camera annunciando il sì del Pd alla manovra. Un concetto che ieri ha ribadito in un’intervista al Tg1 della sera: «La riforma del mercato del lavoro ci vuole ma oggi il problema dell’Italia non è buttar fuori la gente, il problema è come si entra nel mondo del lavoro, come si crea lavoro, come si rende il lavoro meno precario, servono ammortizzatori sociali moderni». Per Bersani il governo deve muoversi coinvolgendo i sindacati, perché la concertazione può portare a una sintesi positiva, mentre è da evitare «una discussione dai giornali».
Il Pd su questo, sulla necessità della concertazione come sul fatto che l’articolo 18 non è la priorità, è unito. Lo dice Bersani, che sottolinea come la posizione del suo partito sul mercato del lavoro sia quella votata alle assemblee dei mesi scorsi. Lo dice Anna Finocchiaro, per la quale partire da questo punto è «fuorviante e sbagliato», lo dice il presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani, che parla di «errore di strabismo reale». Ma lo dice anche Enrico Letta, che pure è convinto che con quello che è successo in questi mesi siano da rivedere anche le decisioni prese alle assemblee del partito e che di articolo 18 si possa anche parlare, «ma in coda a una serie di questioni su cui bisogna intervenire». «Il Pd è unito sul fatto che l’articolo 18 non è l’elemento che non fa crescere l'economia», dice il vicesegretario del Pd, che pur difendendo Fornero per essere stata «crocifissa per un passaggio in un’intervista da 300 righe», ricorda: «Quando le aziende ci dicono che sono in crisi, l’articolo 18 non lo nominano mai. Le questioni che citano sono altre».

il Fatto 21.12.11
Il Pd e l’asino di Buridano
di Paolo Flores d’Arcais


Riuscirà Corrado Passera a sedurre la nomenklatura del Partito democratico, o dovrà accontentarsi di fare il leader della destra presentabile? Mentre la Cgil dichiarava la sua opposizione frontale al governo Monti (indigente di equità al punto che si sono alleati con la Camusso perfino sindacati per anni corrivi col berlusconismo), l’uomo forte del governo tecnico utilizzava le domande di Fabio Fazio, questa volta incalzante (ma neppure una sull’indegna operazione Alitalia!), per intonare un canto delle sirene che sui dirigenti Pd vorrebbe fare l’effetto del flauto magico o di una irresistibile danza del ventre: lotta “senza pace” all’evasione, revoca del regalo delle frequenze televisive al putiniano di Arcore, nessuna rinuncia al programma delle liberalizzazioni. Queste ultime, come si sa, sono la stella cometa di Bersani, benché accanto a lodabili misure anticorporative (taxi, farmacie) l’etichetta preveda alle volte scempio di realtà produttive da difendere (librerie, negozi tradizionali, ecc).
Quanto al resto, era stato il segretario della Uil Angeletti, se non sbaglio, non un “eversivo” dirigente Fiom, a ricordare a Ballarò che le misure contro l’evasione questo governo le doveva inserire nel pacchetto: i benefici materiali si sarebbero visti tra due o tre anni, ma tutti e subito quelli morali, la famosa “credibilità”, cioè la certezza di non essere di fronte all’ennesima grida manzoniana. E quanto alle frequenze, non uno tra i dirigenti del Pd che abbia evidenziato come le parole di Passera sull’argomento siano state, tra dire e non dire, uno slalom che neppure il Tomba dei tempi d’oro.
Il fatto è che nel Pd le divisioni sono ormai prossime al punto di rottura, e se il governo Monti conclude la legislatura l’implosione sarà inevitabile. I Fioroni e i Veltroni vogliono l’accordo con Casini, e vagheggiano smaccatamente Passera come leader di questo grande centro (che battezzeranno centrosinistra). Ma gli elettori, una parte cospicua dei militanti (per quel che ne resta), e la forza organizzata della Cgil, non li seguiranno mai. In Italia c’è bisogno di una destra pulita, ma anche – più che mai – di una sinistra, di un partito dell’eguaglianza “giustizia e libertà”. In realtà Bersani e Camusso sono paralizzati, come l’asino di Buridano: l’alternativa al neocentrismo, per essere credibile, dovrebbe aprirsi alla società civile, assumere la lucidità delle posizioni Fiom, rinnovare radicalmente i dirigenti. Un blocco sociale anti-privilegi nel paese già c’è, manca ancora un leader.

l’Unità 21.12.11
Editoria, il governo promette: a gennaio le nuove regole
Malinconico annuncia che entro gennaio arriverà il nuovo regolamento con criteri più rigorosi per i contributi diretti all’editoria. Subito dopo arriveranno le risorse. La protesta di «Liberazione». La solidarietà di Stampa Romana
di Roberto Monteforte


Un regolamento con le nuove regole per la ripartizione dei contributi sarà presentata all’inizio di gennaio. È questo l’obiettivo del governo. Lo ha assicurato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Carlo Malinconico intervenendo ieri al convegno organizzato dalla Fnsi nel centenario del primo contratto nazionale di lavoro che è stato «giornalistico». Si cercherà di razionalizzare l’utilizzo delle risorse avendo però ben presente la tutela del pluralismo. «L'appello lanciato dal presidente della Repubblica ha chiarito è la guida per il nostro intervento. I nuovi criteri dovranno fare chiarezza nel settore, aiutando i giornali che garantiscono il pluralismo ed eliminando le situazioni che sprecano risorse».
LA PROTESTA DI LIBERAZIONE
Ma ci sono le emergenze. Come quella rappresentata dal quotidiano Liberazione che dal 1 ̊ gennaio non sarà in edicola per effetto dei tagli al contributo diretto decisi dal governo Berlusconi e confermati da Monti. Ieri giornalisti e poligrafici del giornale di Rifondazione comunista hanno organizzato un presidio sotto la sede della Fnsi, continuato nel pomeriggio al Quirinale, in concomitanza con la cerimonia della consegna del «ventaglio» al presidente Napolitano. «Si tratta del primo frutto avvelenato dei tagli al Fondo per l'editoria che il governo Berlusconi, in questo seguito da quello Monti, ha perpetrato in questi ultimi anni» commenta l’Associazione Stampa romana. «Una politica miope che, invece di colpire gli abusi e le trovate truffaldine, sta riducendo al collasso un settore che ha rappresentato e rappresenta un importante tassello di quel delicato puzzle chiamato pluralismo dell'informazione». I problemi, infatti, non sono solo per Liberazione, ma anche per le altre testate non profit, cooperative, politiche e di idee che rischiano la chiusura. Malinconico, che ha assicurato di incontrare al più presto i giornalisti di Liberazione, ha ricordato come con l’inserimento della voce «tutela del pluralismo» nel Fondo Letta deciso con il decreto «Salva Italia» ora in discussione al Senato, si potrà fronteggiare la difficile fase di transizione che si aprirà l’anno prossimo. Prima, però, occorre definire i nuovi criteri e la «bonifica». Si avrà più forzaha aggiunto il sottosegretario nel chiedere le risorse necessarie alla salvaguardia del pluralismo. «L'impegno del sottosegretario Malinconico è apprezzabile, ma non sufficiente. Servono decisioni e soldi, subito» aggiunge Stampa Romana. Un giudizio espresso anche dal presidente Fnsi, Roberto Natale e da Gugliemo Epifani, presidente della fondazione Di Vittorio.
Al convegno Fnsi ha preso la parola anche Giulio Anselmi, il presidente dell’Ansa, ora alla guida della Fieg. Ha definito «garanzia di concorrenza leale» il contratto collettivo dei giornalisti e ha chiesto «flessibilità» e «qualità» per affrontare la sfida del multimediale. «Non come strumento per aggirare i diritti, ma per rendere più agili le aziende e più facile il lavoro dei giornalisti» ha assicurato. Quello che preoccupa la Fieg sono «i contratti di lavoro falsati» o le «sedicenti cooperative» che finiscono per «falsificare la concorrenza». Un invito alla «bonifica» del settore. Eppure sono proprio le aziende a favorire le situazioni di precariato sottopagato e lesive della qualità e della dignità del lavoro giornalistico. Lo hanno denunciato il segretario della Fnsi, Franco Siddi e il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino. A tenere banco, però, è stato il ministro del Welfare, Lisa Fornero che ha attaccato duramente la categoria e i suoi istituti autonomi a partire dall’Inpgi. Immediata è arrivata la risposta del segretario Fnsi, Franco Siddi e del presidente Inpgi, Andrea Camporese. «Giudizi inaccettabili e immotivati». Senza un serio chiarimento annunciano una risposta decisa.

l’Unità 21.12.11
In difesa della politica
di Francesco Piccolo


L’ossessione per Berlusconi è stata prontamente sostituita dall’ossessione per la Casta. C’era un improvviso vuoto di rabbia da sfogare, ed è stato semplice e rapido occuparlo. Sia chiaro: ci sono giornalisti meritevoli che da anni cercano con minuziosa razionalità di denunciare le magagne costituite da eccessivi privilegi e anche eccessivi tornaconti; ci sono dati di fatto sulla irrilevante attività legislativa di questo Parlamento. E soprattutto c’è la questione fondamentale di questi anni e di questa legislatura: i deputati non rappresentano direttamente la popolazione perché non sono stati direttamente indicati. In più, si cerca dai politici quel gesto esemplare che autoelimini privilegi e indennità eccessive per comunicare al resto della popolazione la partecipazione diretta ai sacrifici di questi tempi.
Insomma, di ragioni per criticare la classe politica, e i rappresentanti di questa legislatura in particolare, ce ne sono (ma ce ne sono sempre state!). Quello che è preoccupante, adesso, è la facilità con cui i limiti di questa critica siano stati superati, con quella disinvoltura e quella violenza di chi è sicuro di stare dalla parte giusta e non ha timore di esagerare. La critica problematica agli eventi politic, e la rabbia generica “contro quelli che stanno lassù” che è sempre stata indicata come una questione risolta nei discorsi in autobus o mentre si faceva la fila alle Poste queste due categorie così diverse, si sono fuse; è la storia di questi anni: si mescola con facilità una critica mirata e razionale, un’idea di miglioramento dello stato delle cose, con un’avversione irrazionale e distruttiva. Le due modalità si sono mescolate, a tutto vantaggio di quella più violenta. Così, alla fine, in questi ultimi mesi, si è parlato del barbiere o della buvette e dei prezzi che elargiscono, quasi quanto l’ici e le pensioni. Come se le due cose fossero uguali; e come se il Parlamento esistesse soltanto per permettere ad alcuni privilegiati di farsi la barba e di mangiare pesce fresco a pochi euro.
Nessuno sembra più voler ricordare che la nostra Repubblica ha ancora il suo punto d’appoggio per sollevare il mondo, ed è il Parlamento. Lo si può dimezzare, cambiare, si possono diversificare i due rami; si può continuare insistentemente a fare richiesta di eliminazione di indennizzi, privilegi, rimborsi spese poco chiari e pensioni eccessive. Bisogna farlo, certo. Ma credo che un paese che voglia restare solido e ritrovare una strada per la crescita, debba consolidare e rendere più degni e avere ancora rispetto sia della professione politica, sia dei partiti politici, sia della classe dirigente che verrà scelta per andare a legiferare. La politica, quella in cui bisogna credere, va difesa, non attaccata. Non è quello che sta accadendo.
Non sono qui a difendere la classe politica così com’è soprattutto, ripeto, quella specifica di questa legislatura, così poco rappresentativa. Però la questione che preme di più è questa: si può delegittimare così interamente, così intensamente, così irrazionalmente un intero sistema politico, un’intera idea della politica? Già con la fine della Prima Repubblica, il mestiere della politica era stato messo in discussione in maniera apocalittica. Si parlava di gente che doveva venire dalla società civile (ma perché, i politici da dove vengono?), che significava che non dovevano aver fatto una carriera politica ma dovevano “scendere in campo” da un giorno all’altro, abbandonando il proprio mestiere e andando a legiferare in sede parlamentare. Questo pensiero si è consolidato, e infatti la maggior parte dei rimproveri che i cittadini fanno ai politici si concentra soprattutto su coloro che stanno in politica da molti anni, anche i migliori.
Stare in politica, fare politica, crescere all’interno di un partito, organizzare un partito, un gruppo dirigente all’interno di esso, ha sempre più una connotazione negativa, sospettabile alla meno peggio, una sfiducia pregiudiziale.
Eppure, il mestiere della politica, è ancora uno dei mestieri più affascinanti. I partiti politici, il dibattito delle idee al loro interno, e le idee di un partito confrontate con le idee di un altro partito, hanno ancora un aspetto decisivo, anche in tempi in cui nuovi mezzi si impongono: i partiti sono organi semplificatori degli indirizzi della società, sono aggregatori di persone che si assomigliano e vogliono lottare insieme. C’è ancora un lunghissimo elenco da citare, di italiani di sinistra, di centro e di destra che hanno onorato o addirittura illuminato questo mestiere. E ci sono ancora ora, in questo momento, in questo Parlamento, delle persone che onorano la loro scelta di vita. Allo stesso modo, molte volte, sempre troppe, il mestiere della politica è stato interpretato male: di sicuro la gestione del potere a lungo termine mette in moto dei meccanismi compromissori. Credo che sull’esempio di altri paesi si possano trovare degli aggiustamenti per proteggere il potere dalla politica, e anche gli elettori dagli eletti. Ma l’idea che si possa aspettare liberamente fuori dal palazzo di Montecitorio i parlamentari che escono, per insultarli, fischiarli e indicarli come la feccia del paese, è un’idea che non funziona e che non può essere alimentata da un compiacimento consapevole. Può essere tollerata, può essere comprensibile nei momenti tragici, nei momenti in cui la rabbia prende il sopravvento. Ma il problema di questo paese sembra proprio questo: si sta abituando a vivere in un eterno moto di collera e irrazionalità; e non solo: comincia a compiacersene, ad affezionarsi. E non può funzionare. Per due motivi bisogna stare attenti ad abbattere la politica così come la conosciamo: è facile farlo e quando è facile bisogna sempre averne sospetto; e non è sostituibile a meno che non si voglia credere che il Qualunquismo possa tornare ad avere una presenza fisica in Parlamento, come ai tempi di Guglielmo Giannini.
Insomma, l’antipolitica che chiunque la pratichi, nega di praticarla, e dice che è la vera politica; ma ne dubito può avere senso per brevi periodi e soltanto come reazione, come accadde per esempio nel periodo di Tangentopoli. Subito dopo, va ricostruito il rispetto per il mestiere della politica, per la centralità dei partiti. E il compito diventa smettere di insultare, e di nuovo tornare a vigilare su coloro che abbiamo eletto. Perché questo paese, la sua costitutiva Repubblica, di cui stiamo contando le varie fasi la prima, la seconda, e ora la terza ha le sue basi potenti e inaffondabili nel parlamento, nei partiti che cercano di indirizzare le idee. Guai se queste istituzioni fondanti si perdessero guai se venissero indicate soltanto come il cancro di cui liberarsi. È così che molti paesi, racconta la storia, hanno spazzato via la democrazia. E, in modo più modesto ma non poco devastante, è nella rabbia antipolitica che ha trovato terreno fertile qualcuno che è sceso in campo contro la classe politica e che è rimasto lì vent’anni. Facendo credere che il suo non era un mestiere. Oggi, se ci fosse un nuovo Berlusconi, se parlasse come Berlusconi parlò venti anni fa, vincerebbe le elezioni, approfittando della rabbia degli italiani contro la politica. È possibile che siamo ancora fermi lì?

l’Unità 21.12.11
Nuovi criteri oggettivi
Ricerca, la qualità non è un’opinione
di Pietro Greco


Ha ragione il ministro Francesco Profumo: la valutazione deve entrare nel Dna del nostro sistema di ricerca e di istruzione superiore, se vogliamo migliorarlo. Per questo salutiamo con favore l’avvio della Valutazione della qualità della ricerca 2004-2010 presentato ieri a Roma da Stefano Fantoni e Sergio Benedetto alla presenza del nuovo ministro, ben cinque anni dopo la costituzione dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca voluta dal governo Prodi e, in particolare, dall’allora ministro dell’Università e della Ricerca, Fabio Mussi. Lo screening coinvolgerà 95 università, 12 Enti pubblici di ricerca vigilati dal Miur e 24 altri Enti pubblici e privati che hanno chiesto di essere valutati; vagliando il lavoro di 65.000 tra docenti universitari e ricercatori degli Enti pubblici di ricerca, per complessivi 216.000 prodotti.
Sarà certo un lavoro enorme. Che impegnerà oltre 450 esperti in un processo che si concluderà il 30 giugno 2013, con la pubblicazione di un rapporto finale. Il costo dell’operazione è di 10,5 milioni di euro. Sarà, soprattutto, un lavoro necessario. Perché affermerà il valore del merito in un sistema che quel valore in larga parte già lo conosce. Ma, proprio perché il primo passo è stato fatto (finalmente) e noi lo abbiamo salutato con sincero favore, entriamo nel merito del sistema di valutazione. Tre ci appaiono i punti essenziali da mettere a fuoco.
Primo. La qualità della nostra ricerca è buona, in alcuni settori eccellente. È la quantità dei ricercatori che è carente. Se l’Italia recupera solo l’8,5% delle risorse europee destinate alla ricerca, sebbene il Paese contribuisca per il 15% alla dotazione del fondo comune, non è per scarsa qualità, ma per scarsa quantità: gli scienziati italiani sono in numero molto inferiore a quelli di Germania, Francia, Regno Unito e anche Spagna.
Secondo. I parametri bibliometrici proposti dall’Anvur sono necessari per la valutazione del merito, ma non sufficienti. Occorre avere il coraggio di proporre strumenti più raffinati, purché utilizzati da in maniera rigorosa da valutatori “terzi”.
Terzo. Il più grande problema del sistema di ricerca e di istruzione in Italia è la burocrazia. Ove ce ne fossimo dimenticati, hanno provveduto a ricordarcelo le clamorose dimissioni rassegnate ieri, per motivi burocratici appunto, da Domenico Giardini, il presidente appena nominato dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Uno scienziato italiano di grande valore, docente del prestigioso Eth di Zurigo, cui di fatto viene impedito di tornare in Italia.

l’Unità 21.12.11
Welby cinque anni dopo
Sul fine vita meglio non legiferare
Testamento biologico: non si pongano limiti alla libertà del malato
e del medico. Evitare che la misura “sottilissima”sia indicata d’autorità
di Massimo Adinolfi


Non è giusto. O è giusto così. Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire. Morire così. Morire ora. Anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto.
Non è giusto, oppure è giusto così. Ma la giustizia, qui, non è l’obbligo contratto innanzi a una legge, umana o divina, bensì la misura della comune appartenenza all’umanità e al senso, che si compie assegnando alla cultura (all’elaborazione dell’uomo) ciò che altrimenti apparterrebbe solo alla natura. Così la nascita, così la morte, così tutti i fenomeni di passaggio, gli attraversamenti di soglie, i transiti al confine. Perciò non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui. Un tratto che però caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire. Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori».
Più difficile è dunque trovare la misura, la giustizia. Dopo i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, il Parlamento italiano ha ritenuto di averla trovata. Piergiorgio Welby è morto, giusto cinque anni fa, avendo ottenuto, al termine di una lunga, lucidissima battaglia, che fosse staccato il respiratore che lo teneva artificialmente in vita. Eluana Englaro è morta dopo che il padre, al termine di una battaglia altrettanto lunga, ebbe ottenuto, grazie a un tribunale, l’interruzione dell’alimentazione artificiale, conformemente alla supposta volontà della figlia. I due casi hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a tentare di legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d'autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge.
Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini.
A cinque anni di distanza dal caso Welby, ci si può dunque chiedere, «sine ira ac studio», perché quella legge. E soprattutto se non sia l’umanità dell’uomo garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge, in casi estremi come quelli che riguardano il vivere e il morire. Senza dogmatismi, senza sicumere, disposti a riflettere e, se del caso, a cambiare. A utilizzare lo strumento legislativo, se è per difendere e non per coartare, o a accantonarlo, se è per dare responsabilità e non puro arbitrio.

il Riformista 21.12.11
Welby, triste anniversario nel silenzio della politica
di Alessandro Calvi


Zero, o quasi zero. Cinque anni fa moriva Piergiorgio Welby. Cinque anni dopo, nel giorno della sua morte, a ricordarlo c’è soltanto l’associazione Luca Coscioni. E, radicali a parte, la politica, ancora una volta, è del tutto assente. Neppure un ricordo, nessuna voce. Zero, appunto. Ed è un silenzio che fa davvero impressione.
Sarà certamente vero che, travolti dalla crisi, sostituiti dai tecnici, impegnati nel tentativo oggettivamente non semplice di non sparire del tutto dalla scena, i rappresentanti del popolo eletti in Parlamento forse hanno dimenticato cosa accadde esattamente cinque anni fa, nella notte tra il 20 e il 21 dicembre del 2006 quando a Piergiorgio Welby fu staccato il respiratore automatico. Welby fece fino in fondo della propria vita un manifesto politico; e oggi nessun politico, a distanza di cinque anni, ha ritenuto di dover spendere neppure una riga di comunicato stampa per ricordarlo. Eppure, a interrogare un motore di ricerca sul nome “Welby”, le risposte ancora oggi si contano a milioni. Zero, o quasi zero, invece sono i risultati se la stessa operazione la si compie sui notiziari delle agenzie di stampa di ieri. Sarà la crisi, appunto. Chissà.
􏰀 Mina e Piergiorgio Welby
Eppure, cinque anni fa di parole ne furono spese davvero tante. Altrettante ne corsero quando, e si era arrivati al febbraio del 2009, morì Eluana Englaro. Tutti o quasi, allora, intervennero nel dibattito che si fece infuocato. Ancora una volta, la vita dei malati e il loro corpo erano tornati ad essere terreno di scontro per i partiti. Si ascoltarono discorsi alati, si presero solenni impegni. Si accese anche uno scontro istituzionale tra Cassazione e Parlamento che si concluse di fronte alla Corte Costituzionale con una rovinosa sconfitta su tutta la linea per chi, con arroganza, aveva smesso di esercitare il proprio diritto-dovere, ossia legiferare, e riteneva che anche i giudici dovessero fare altrettanto, omettendo di applicare leggi poco gradite alla maggioranza di centrodestra che allora governava il paese. Poi, il nulla. Di testamento biologico non se ne sentì più parlare o quasi. Di tanto in tanto, il tema torna a fare capolino sulle cronache quando la politica ritiene di dover stringere qualche bullone nei rapporti con il Vaticano. Evidentemente, per la politica il ricordo di Welby non vale tanto. O non serve. Così, l’unico titolo che ieri includeva la parola “Welby” è rimasto quello che ha dato conto della conferenza stampa dell’associazione Luca Coscioni e dell’Associazione Radicale Piero Welby con la quale a Montecitorio è stato lanciato il progetto “Ora”, che consiste in un cofanetto firmato da numerosi artisti e che contiene il videoclip dei Diskanto dedicato alla battaglia civile di Welby e che serve per sostenere il diritto «un fine vita scelto, consapevole e dignitoso». Chissà se in Parlamento qualcuno lo ascolterà?

l’Unità 21.12.11
Egitto A migliaia nei cortei nelle strade del Cairo dopo il caso della ragazza aggredita dai soldati
Proteste Hillary Clinton: «Le manifestanti picchiate disonorano lo Stato». Ieri all’alba altri 4 morti
La rabbia delle donne in Piazza Tahrir «Siamo la linea rossa»
Marciano per le strade, gridano a faccia scoperta i loro slogan contro i militari e accusano anche i Fratelli musulmani, che hanno taciuto dopo l’aggressione della ragazza velata. E ora l’esercito «deplora» l’accaduto.
di Umberto DE Giovannangeli


La rabbia delle donne infiamma Piazza Tahrir. Centinaia di donne, di tutte le età, velate e non, hanno sfilato per le vie del centro del Cairo per protestare contro l'aggressione e il denudamento in Piazza Tahrir di una manifestante, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo.
SDEGNO E RABBIA
«L'esercito deve difendere e non aggredire le donne in piazza», dice una dimostrante. «Pensa se quella ragazza fosse tua figlia» ha detto un' altra, rivolgendosi al capo del Consiglio militare Hussein Tantawi che, secondo molte manifestanti intervistate da al Jazira, dopo questo episodio se ne deve andare. «Le nostre ragazze sono la linea rossa» grida una signora velata, mentre un'altra accusa i Fratelli musulmani di non avere nemmeno preso posizione sull'accaduto. «Si sono occupati delle donne solo quando c'era da rivendicare la liberazione di Kamelia», la donna copta al centro di una querelle di mesi fra gli islamisti e la Chiesa per una sua presunta conversione all'Islam. «Ma oggi non si fanno sentire», osserva la donna, che come molte brandiva le foto della ragazza stesa al suolo, senza più la camicetta, circondata da agenti che la picchiavano. Sdegno e rabbia. E una determinazione a non mollare: «Ali Baba e i 19 ladroni» urla una manifestante, in riferimento al maresciallo Hussein Tantawi e ad altri generali che fanno parte della giunta che presiede. «Paghiamo per le forze armate, mettiamo loro addosso le uniformi in modo che ci proteggano, non che ci attacchino», afferma l’attivista Nawarah Negm. Le violenze inflitte alle donne nelle manifestazioni in atto in Egitto sono indegne della rivoluzione e «disonorano lo Stato», denuncia il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton. Le donne sono «prese di mira in modo particolare dalle forze dell'ordine e dagli estremisti», rimarca Clinton. «Le manifestanti sono state picchiate e sottoposte a violenze orribili», incalza il capo della diplomazia americana. In serata, con un comunicato l’Esercito «deplora profondamente gli attacchi alle donne che manifestano in Egitto».
Nel quinto giorno consecutivo di proteste, nuovi scontri sono scoppiati all'alba a Piazza Tahrir. Quattro persone sono rimaste uccise. Un medico di un ospedale da campo installato dai manifestanti di aver visto un ragazzo di 14 anni colpito da un proiettile al petto. Per il quinto giorno consecutivo, i militari egiziani hanno sparato proiettili contro i manifestanti, oltre ad aver usato bastoni e gas lacrimogeni per disperdere la folla accampata in Piazza Tahrir. I feriti sono stati portati nella moschea Omar Mukram dove è stato allestito un ospedale da campo.
IL BILANCIO DELLE VITTIME
Il primo dei tre morti si chiamava Mohammad Samir Maslaha ed aveva 20 anni. Sarebbe stato ucciso in via Talaat Harb. La seconda vittima aveva la stessa età e si chiamava Mohammad Mustafa Hussein Sayed. Era uno studente di ingegneria ed è stato ucciso in Piazza Tahrir. Il terzo infine si chiamava Islam Abdel Hafith, deceduto nell'ospedale da campo allestito nella moschea per le ferite riportate in piazza. Secondo testimoni, centinaia di forze governative in tenuta antisommossa hanno aperto il fuoco contro i manifestanti pacifici. «Hanno inseguito i manifestanti e dato fuoco a qualsiasi cosa che trovavano sulla loro strada, compresi dispositivi medici e coperte», raccontato un testimone. In quattro giorni di sanguinosa repressione a Piazza Tahrir sono morti 14 manifestanti e oltre 500 sono rimasti feriti. Nove dei dieci ma-
nifestanti sottoposti ad autopsia in seguito agli scontri nella zona di Piazza Tahrir sono deceduti per colpi d'arma da fuoco, riferisce il capo della medicina legale egiziana Ehsan Kamil Georgi.
«Denuncerò alla magistratura chi mi accusa di essere dietro gli scontri che si registrano in questi gironi in Piazza Tahrir» al Cairo. Il leader liberale egiziano Ayman al-Nour risponde a quanto è apparso sulla stampa egiziana, dove fonti dei militari lo accusavano di essere il mandante degli scontri in corso nella capitale. «Si stanno vendicando per l'iniziativa che ho portato avanti nelle scorse settimane nella quale chiedevo la fine della giunta militare e il passaggio dei poteri a un organismo civile», aggiunge al-Nour. Il Consiglio militare egiziano dia l'ordine di fermare immediatamente l'uso della forza contro i manifestanti. È l'appello lanciato dal candidato alla presidenza Mohamed El Baradei, sollecitando le forze armate a limitarsi alla protezione degli edifici pubblici. Il Consiglio militare, afferma il Premio Nobel per la Pace, deve dare «un segnale chiaro che a tutti che esercito e polizia rispetteranno la legge e manterranno il sangue freddo» e che i responsabili della sicurezza coinvolti negli scontri saranno giudicati.

Corriere della Sera 21.12.11
Cairo, le egiziane in marcia contro la violenza alle donne
Rabbia per la manifestante picchiata e denudata
di Viviana Mazza


I soldati egiziani volevano punirla e umiliarla. Ma piazza Tahrir l'ha scelta come propria icona e, ieri, ha portato con orgoglio la sua immagine in processione. La chiamano «la ragazza con il reggiseno blu». Dopo il blogger Khaled Said, torturato a morte dalla polizia ed eletto a simbolo della rivoluzione del 25 gennaio, e dopo il dentista Ahmed Harara cui i proiettili dei cecchini hanno strappato entrambi gli occhi, ora il simbolo della piazza che non accetta più il potere dell'esercito è quella ragazza inerme che sabato al Cairo è stata trascinata per le braccia, colpita con bastoni di legno e presa a calci dai soldati. Alla fine è rimasta immobile, sull'asfalto. Indossava i jeans, le scarpe da ginnastica. Aveva il torso nudo. La tunica destinata a nascondere con modestia le forme del corpo e forse i capelli le era stata strappata dal petto, rivelando le braccia delicate, lo stomaco candido, il reggiseno blu. Il volto era invisibile, coperto dai resti dell'abito. La ragazza — un'attivista — ha chiesto che il suo nome non sia reso pubblico, ma il video in cui viene picchiata ha fatto il giro del mondo. E mentre negli ultimi cinque giorni di scontri tra l'esercito e i dimostranti, i morti — quasi tutti colpiti da proiettili sono almeno 13, l'immagine di quel reggiseno blu catalizza e accresce la rabbia.
Tra le condanne internazionali, la più dura è stata quella del segretario di Stato Usa Hillary Clinton, il cui Paese fornisce ogni anno 1,3 miliardi di aiuti militari al Cairo. «Le donne sono state picchiate e umiliate nelle stesse strade in cui hanno rischiato la vita per la rivoluzione — ha detto —. Le manifestanti sono state arrestate e sottoposte a orribili abusi. Le giornaliste sono state aggredite sessualmente e ora le donne vengono attaccate, denudate, picchiate in strada. Questa sistematica degradazione delle egiziane disonora la rivoluzione, è un'onta per lo Stato e le sue divise e non è degna di un grande popolo». Hillary ha rimproverato «sia le autorità militari che i maggiori partiti politici» per aver escluso le donne dalla transizione che dovrebbe portare alle presidenziali entro giugno (ma la piazza chiede entro febbraio). E le egiziane ieri si sono fatte sentire. Donne velate e donne con i capelli sciolti, mamme e ragazzine, una signora con un reggiseno disegnato sulla maglietta: erano migliaia e hanno marciato attraverso piazza Tahrir gridando all'unisono «le donne dell'Egitto sono la linea rossa». L'obiettivo è sconfiggere quella che chiamano la «strategia della vergogna». Nel 2005, durante le proteste contro i brogli elettorali, gli scagnozzi di Mubarak molestavano le donne per intimidirle. La Giunta militare che ha preso il potere alla caduta del Raìs, ai loro occhi, usa gli stessi metodi. A febbraio, 17 ragazze arrestate in piazza sono state sottoposte a «test di verginità». Ma una di loro (una sola), la parrucchiera Samira Ibrahim, ha avuto il coraggio di denunciare l'esercito. «Un incidente isolato»: così il generale Adel Emara ha definito il caso della ragazza con il reggiseno blu, promettendo una inchiesta. Non è così: un'anziana donna che porta cibo ai manifestanti, nota come mamma Khadija, è stata schiaffeggiata e umiliata, altre ragazze sono state picchiate. La Giunta nega di aver ordinato l'uso della forza, e ha accusato i manifestanti di complottare per dar fuoco al Parlamento. Ma i media hanno mostrato che a lanciare i molotov sono sia i manifestanti che i soldati, dai tetti. La ragazza con il reggiseno blu «è in condizioni molto gravi», ha detto al Times un giornalista picchiato mentre tentava di soccorrerla. «Non esce più di casa. Teme che la Giunta l'arresti». Ma è consapevole della forza che la sua umiliazione ha scatenato. «Non importa se parlo o no. Quello che mi hanno fatto dice già abbastanza».

Corriere della Sera 21.12.11
«Vogliono ridurci al silenzio con la strategia della vergogna»
di V. Ma.


«L'uso della strategia della vergogna contro le donne è un retaggio dell'era Mubarak. L'esercito l'ha adottata subito ma in quest'ultimo giro di scontri, dal 16 dicembre, è diventata davvero una loro tattica chiave», dice Mona Seif, 25 anni. Figlia di un avvocato dei diritti umani imprigionato per cinque anni sotto Mubarak e di una attivista e docente di matematica (entrambi di sinistra), Mona è la leader della Campagna contro i processi militari (cui l'esercito da febbraio ha sottoposto almeno 1.200 civili). Parla al telefono dal Cairo. Di sottofondo si sentono i vagiti di un bimbo. È Khaled, il nipotino: si chiama come il blogger-simbolo della rivoluzione, ed è nato il 6 dicembre. Il padre Alaa lo ha visto solo da dietro le sbarre (noto blogger anche lui, è in carcere da fine ottobre). «Ad esempio, l'altro giorno — racconta Mona — c'erano due attivisti vicino a piazza Tahrir, un ragazzo e una ragazza. I soldati hanno picchiato entrambi, ma hanno arrestato solo lei. Avrebbero potuto prenderli tutti e due, ma nel mirino ci sono le ragazze. L'esercito cerca di scuotere e spezzare lo spirito dei rivoluzionari in modi diversi. Adesso sta usando questa strategia».
A febbraio, 17 ragazze erano state sottoposte a «test di verginità» dopo l'arresto. Ma dietro porte chiuse. La «ragazza con il reggiseno blu» invece è stata umiliata in pubblico.
«È un segnale per tutti noi, per dirci che non ci sono più linee rosse. Non hanno aggredito solo giovani donne, ma anche donne anziane, donne col niqab. Hanno infranto tutti i tabù, al di là dell'immaginazione della gente».
Anche tu sei stata picchiata?
«Sì, il 16 dicembre. Hanno arrestato me e mia sorella minore. Ci hanno detenute in luoghi separati, lei era nel Parlamento. Mi hanno picchiata con bastoni di legno e coi loro stivali, ma non ho subito abusi sessuali».
La strategia della vergogna dovrebbe condurre le donne, umiliate, al silenzio. Sta funzionando?
«No. Non penso che i militari afferrino l'idea che più diventano brutali più incitano la gente alla rivolta».

La Stampa 21.12.11
La Russia torna in piazza con la benedizione di Gorby
Sabato la replica della manifestazione dei 50 mila: si unirà anche l’ex presidente
di Mark Franchetti


MOSCA Attivisti comunisti all’ultima manifestazione contro i risultati delle elezioni parlamentari: in piazza scenderà tutta l’opposizione
Esattamente due settimane dopo che Mosca ha assistito alla più grande manifestazione dell’opposizione da quasi due decenni, sabato prossimo decine di migliaia di persone saranno di nuovo nelle strade della capitale russa per protestare contro i risultati delle elezioni parlamentari, vinte dal partito al potere di Vladimir Putin.
Il Cremlino ha dato l’autorizzazione per una manifestazione fino a cinquantamila persone. Non è chiaro se questa volta scenderà in piazza più o meno gente ma in ogni caso l’evento è importante. Il contrasto con il passato non potrebbe essere più evidente. Le consuete dimostrazioni dell’opposizione nel passato non attiravano più di qualche centinaia di persone. Il permesso per queste piccole manifestazioni veniva negato di routine e la polizia quasi sempre violentemente arrestava i partecipanti.
Persino Mikhail Gorbaciov, il padre della glasnost che ora ha ottant’anni, sarà alla manifestazione di sabato. Nonostante in Occidente sia ancora una star, Gorbaciov ha oggi poca o nessuna influenza in Russia, ma la sua presenza è significativa perché non ha mai prima d’ora criticato Putin cosi apertamente.
Ci sarà anche Alexei Navalny, il più celebre blogger anti-corruzione della Russia e una figura che molti considerano uno dei volti del movimento di protesta. Navalny è mancato nella precedente manifestazione di massa, perché era stato arrestato e condannato a due settimane di carcere. Alto, occhi azzurri, ha soltanto 36 anni ed è stato descritto da alcuni come il più interessante personaggio politico emerso in Russia dall’ascesa al potere di Putin dodici anni fa. Altri lo hanno addirittura pronosticato come futuro presidente.
Avvocato, Navalny è carismatico, di grande capacità dialettica e noto per il suo sarcasmo: è stato il primo a descrivere il partito di Putin, Russia Unita, come un «partito di imbroglioni e ladri», un’espressione ora ampiamente usata. Lungi dall’essere un liberale pro-occidentale, il caustico blogger e attivista, è un fiero nazionalista le cui aspre posizioni contro l’immigrazione hanno causato preoccupazioni nei ranghi diradati dell’opposizione democratica.
Ma ciò tuttavia è proprio il motivo per cui alcuni pensano che possa diventare un leader politico a livello nazionale. Essere visto come un democratico è profondamente dannoso in Russia, dove milioni di elettori associano il termine al caos e alla miseria che seguirono il collasso dell’Unione Sovietica.
La presenza di Navalny potrebbe far salire la tensione alla manifestazione di sabato. E, fatto ancora più inquietante, c’è un crescente timore che possano infiltrarsi agenti provocatori, dato che sia l’estrema destra che l’estrema sinistra sono profondamente scontenti che la manifestazione di massa di due settimane fa si sia svolta così pacificamente: almeno 50 mila persone sono scese in piazza, ma la polizia non ha effettuato un solo arresto e non ci sono state violenze.
Qualsiasi disordine, sabato prossimo da chiunque sia provocato sarà probabilmente sfruttato dal Cremlino come pretesto per proibire ogni futura manifestazione. Una sottile repressione è già cominciata, con giornalisti dell’opposizione che vengono licenziati o censurati e appelli dei servizi di sicurezza perché vengano approvate norme per controllare Internet. I siti critici nei confronti del Cremlino stanno già subendo continui attacchi hacker.
«Il Cremlino sta ancora cercando di digerire la manifestazione di due settimane fa», dice un analista politico vicino alla presidenza. «Sta ancora cercando ci capire come meglio reagire. È un po’ confuso, perché si tratta di un trend nuovo ed inaspettato. Putin e i suoi sono abituati ad agire con la popolarità in crescita, non in calo».
Lo stesso Putin ha mandato segnali contrastanti, la settimana scorsa. Prima è sembrato che elogiasse di dimostranti, poi li ha accusati di essere strumenti nella mani dell’America e infine ha addirittura insultato il nastro bianco che è diventato il simbolo della protesta, sostenendo di averlo scambiato per un preservativo. «A mio parere Putin ha sentito quelli che sono scesi in piazza ma non li ha capiti», dice il cremlinologo, indicando una distinzione fondamentale.
Tra meno di tre mesi Putin affronterà la sfida più grande della sua carriera politica, quando correrà per la terza volta per la presidenza. Secondo gli ultimi sondaggi il suo tasso di popolarità è al 44 per cento, il più basso di sempre. Putin vincerà e sarà il prossimo presidente della Russia non c’è dubbio ma la questione cruciale è se sarà obbligato ad affrontare il secondo turno.
Agli occhi di molti russi un secondo turno renderebbe le elezioni presidenziali giuste e libere. E legittimerebbe anche la sua presidenza. Ma agli occhi di Vladimir Vladimirovich un uomo che un tempo godeva di una popolarità all’80 per cento un secondo turno sarebbe un’umiliazione senza precedenti. Tenete gli occhi aperti sulla Russia, perché il suo umore politico non è mai stato così interessante e imprevedibile da almeno un decennio.

il Fatto 21.12.11
Corea del Nord
Le lacrime del popolo dei burattini orfani
di Maurizio Chierici


Non è facile capire le lacrime di Pyongyang per chi è avvolto dalla comunicazione globale. Notizie che ci inseguono nelle tasche dei telefonini: tutto di tutti, la vita minuto per minuto. Ma la Corea del Nord è il paese più isolato del mondo e l’oscuramento non riguarda solo le frontiere vicine o capitali lontane; accompagna da 63 anni la famiglia che regna col dogma di un comunismo fuori dalla storia. Kim II Sung, padre della dinastia; Kim Jong, primo erede che sabato se ne è andato lasciando un figlio a ripetere le stesse cose. Nei dogmi della “guida suprema del popolo più felice”, sono cresciute tre generazioni e le parole raccolte nei testi di scuola, ribattute nell’ossessione da giornali e tv i quali contrappongono ogni giorno la beatitudine del regime alle tragedie della infelicità delle democrazie corrotte; queste parole cementano una cultura alla quale i coreani sono appesi come burattini.
ECCO LO SGOMENTO: il filo che lega la loro “beatitudine” al potere all’improvviso si rompe. Non solo il vuoto della sicurezza svanita, ma la malinconia per un destino che diventa incerto. Insomma, lacrime vere. Testimoniano la disumanità delle vite programmate dal regime, vuoto della conoscenza all’origine di solitudini surreali. Mezzo secolo di isolamento ha rubato idee e le nuove parole cresciute nelle abitudini d’altrove, anni attraversati nell’ammirazione del niente.
“Niente” che il mondo invidia: ogni giorno tutte le scuole in fila al Museo delle Meraviglie. Grotta scavata nella roccia: accoglie i regali ricevuti da Kin Sung. Paccottiglia da mercatino delle pulci: tristissimi lampadari veneziani, autografi di Reagan e Madeleine Albright, nemici odiati eppure “folgora-ti” dalla grandezza della guida spirituale che adesso non c’è più. Non è facile acquietare lo sgomento.
L’elaborazione pubblica del dolore può rappresentare “un’ebetudine stuporosa”, inerzia sinistra di sei milioni di persone che ignorano come è cambiato il mondo. Bisogna dire che il dolore rituale, appassionatamente sincero, accompagna la scomparsa anche dei protagonisti delle città informate.
OMBRE intraviste nelle tv: campioni del brivido, Michael Jackson e altre voci, Stati Uniti in ginocchio lungo i binari dove passa il treno con le spoglie del Bob Kennedy assassinato. Incredibile, vale anche per Fidel Castro. Tre quarti dei cubani sono cresciuti sotto i suoi ritratti. Chi lo odia e chi continua ad amarlo eppure nella previsione biologica della scomparsa, si trovano d’accordo nel immaginare il vuoto che lascerà: emozioni opposte, destabilizzanti.
Passata l’ebbrezza del primo momento si affacciano i ricordi. Immaginiamo cosa succede a Pyongyang dove ragazzi in divisa marciano quando ancora fa buio. Su e giù per viali immensi, cantando. Non smettono da 50 anni fino a quando non sciolgono le righe per scuola o lavoro, sempre in fila come formiche spaventate se qualche straniero chiede informazioni. Girano le spalle e si allontanano “per non essere contaminati”. Non racconti delle propagande, la solitudine è proprio questa.

La Stampa 21.12.11
Allertati i soldati americani e sudcoreani
Nessun dignitario straniero alle esequie di Kim Jong Il. Forse andrà il premier cinese Wen Jiabao
La Cina benedice Kim Jong Un
Timori negli Usa e a Seul per le mosse del nuovo leader di Pyongyang
di Ilaria Maria Sala


La Corea del Nord è in lutto per la morte del Caro Leader Kim Jong Il, e le poche immagini che ne escono mostravano ancora ieri persone che si abbandonano a pianti collettivi, alcuni molto teatrali, altri che sembrano veri casi di isteria, o se non altro di ansia repressa finalmente lasciata uscire. Ufficialmente, il periodo di lutto durerà fino al 29 dicembre, un giorno dopo la celebrazione del funerale di Stato, il 28 dicembre. Non saranno invitati capi di Stato stranieri per partecipare alle esequie: l’unica eccezione, ancora non confermata, sembra riguardare il premier cinese Wen Jiabao, che ieri si è recato all’Ambasciata della Corea del Nord a Pechino per firmare il libro del cordoglio, insieme alla quasi totalità del Politburo cinese. E da Pechino arriva la prima benedizione per il nuovo corso di Pyongyang. È stato Liu Weimin, portavoce del ministero degli Esteri, a incensare l’erede del Caro Leader, Kim Jong Un definendolo «un grande leader e un buon amico del popolo cinese, che ha contribuito allo sviluppo del socialismo». La propaganda del regime di Pyongyang si è già messa in moto; tv pubblica e agenzia di Stato, la Kcna, parlano di Kim Jong Un come del «rispettato e grande compagno», e lo descrivono come «la grande persona nata in cielo», tributo finora riservato solo al padre e al nonno.
Nel frattempo, la salma è stata esposta nella camera ardente, e diversi militari e dignitari, incluso il «Grande Successore» Kim Jong Un, terzogenito di Kim Jong Il, sono andati a piangere e a inchinarsi davanti al corpo senza vita del leader. In tutta la capitale – e presumibilmente anche nel resto del Paese – migliaia di persone si sono recate davanti ai numerosi ritratti e alle statue del Leader che decorano i vari palazzi istituzionali e governativi, lasciando fiori, e procedendo a gruppi che vengono via via fatti avanzare per lasciare il posto agli altri. I negozi sono chiusi, i raggruppamenti di più di cinque persone per attività non legate al lutto nazionale sono stati proibiti, e anche i ristoranti sono quasi tutti chiusi per lutto. Il resto, quello che sta avvenendo nei corridoi del potere, i patti e le compravendite politiche che i diversi gruppi di interesse stanno probabilmente portando avanti, è lontano dalle poche telecamere e si può solo immaginare, aspettando che il nuovo assetto del potere a Pyongyang si renda più leggibile. Questo, almeno, è quanto fa la Corea del Sud: i militari sono in allerta, tanto quelli coreani che gli statunitensi, presenti in massa a Sud del 38˚ parallelo dai tempi dell’armistizio del 1954. Gli aeroporti e le stazioni hanno controlli maggiori, la polizia armata pattuglia aree a potenziale rischio, e un leggero senso di allarme, ma soprattutto di incerta attesa, avvolge la capitale sudcoreana. Nulla a che vedere, dunque, con il panico che sentirono gli abitanti di Seul nel 1994, quando morì il padre di Kim Jong Il, Kim Il Sung. Diciassette anni fa infatti le persone si erano affrettate a svuotare i supermercati e a ritirare soldi dalle banche, mentre adesso la vita procede senza troppi intoppi. Anche le reti televisive, dopo solo mezza giornata, hanno interrotto le trasmissioni monotematiche sulla scomparsa di Kim Jong Il, inframmezzandole ora a spettacoli di varietà e ai nuovi episodi delle popolarissime soap nazionali.
A livello politico, invece, la preoccupazione è più forte: continuano le telefonate fra Seul, Tokyo e Washington, e finalmente Seul ha deciso di inviare le condoglianze ai cugini del Nord. Yu Woo Ik, il ministro della Riunificazione, ha confermato che non ci sarà nessuna delegazione sudcoreana al funerale di Kim Jong Il, ma che la vedova dell’ex presidente Kim Dae Jong, Lee Hee Ho, e la moglie del presidente della Hyundai, Hyun Jung Eun, andranno in seguito a portare personalmente il messaggio di cordoglio. Le due donne sono state scelte in quanto rappresentano due dei momenti chiave di quella «politica del raggio di sole» con cui il Sud aveva sperato di avvicinare Pyongyang, con scarsi risultati.
Ora, di nuovo, tutto è da costruire, e si attende: ci saranno aperture, da parte del Grande Successore, verso Seul e il resto del mondo? O delle dimostrazioni di forza? Pyongyang singhiozza platealmente, e il mondo osserva con apprensione.

La Stampa 21.12.11
La Cina potrebbe rivelarsi il vero alleato in un eventuale salvataggio della Corea del Nord
di Wayne Arnold


Un giorno la Corea del Sud assorbirà la sua cugina povera del Nord. Questa almeno è l’ipotesi più diffusa. Ma se la Corea del Nord dovesse fallire, potrebbe essere Pechino ad avere più interesse a sostenerla. La Cina si ritroverebbe a dover iniettare liquidità in cambio di una gestione più responsabile a Pyongyang.
La morte del leader, Kim Jong-il lascia il Paese in una situazione terribile. Kim ha avuto più di un decennio per consolidare il controllo prima della morte di suo padre, Kim Il-sung, nel 1994. Suo figlio, Kim Jong-un, è stato nominato successore meno di un anno fa. La popolazione della Corea del Nord si trova di fronte a carenze alimentari croniche. La Corea del Sud ha meno interesse di quanto molti ritengano. Nonostante la condivisione della storia e della lingua, pochi giovani sudcoreani ritengono la Corea del Nord qualcosa più di un vicino fastidioso. Quelli disposti a pagare l’enorme costo della riunificazione potrebbero essere più interessati a rimuovere la minaccia nucleare che a creare l’unità nazionale. La Cina non gradirebbe una Corea unita, soprattutto visto lo stretto legame della Corea del Sud con gli Usa. La Cina è il più grande partner commerciale della Corea del Nord e condivide con questa un confine che è l’itinerario preferito dai disertori. Ha buoni motivi per volere che Pyongyang imiti il suo capitalismo socialista, il che in parte spiega le quattro visite di Kim Jong-il alla Cina negli ultimi 18 mesi. Pechino potrebbe avere già in serbo piani per un salvataggio teorico. Il debito estero della Corea del Nord è grosso modo stimato in sei volte il Pil. Se fallisse, avrebbe bisogno di valuta forte e di aiuti umanitari per prevenire la carestia e un’ondata di rifugiati. Avrebbe bisogno di prestiti a bassi interessi per rafforzare le riserve. Ma la sfida più difficile potrebbe essere quella di capire chi guiderà il Paese. I Kim e i loro sostenitori militari dovrebbero andarsene, così come le loro armi nucleari. Questa potrebbe essere la parte più complessa di un eventuale salvataggio. Per ora, entrambi i vicini staranno sperando che questo momento arrivi il più tardi possibile.

La Stampa 21.12.11
“Sadico e spietato” Il dossier della Cia sul giovane tiranno
L’intelligence americana lancia l’allarme “Vorrà mostrare subito che è lui il capo”
di Maurizio Molinari


Capace di crudeltà sadiche, torturatore di piccoli animali, con un carattere imprevedibile, mandante di attacchi contro la Corea del Sud, persecutore di disertori e scelto dal padre come erede in ragione di tali caratteristiche: è il profilo di Kim Jong Un come emerge da analisi dell’intelligence americana e giapponese.
Gli 007 americani sono nel mirino delle critiche per essere stati colti di sorpresa dalla scomparsa del dittatore Kim Jong Il come già avvenne per il reattore nucleare di Yongbyon e per l’impianto atomico nordcoreano in Siria, distrutto dagli israeliani nel 2007 e nel tentativo di difendere la propria credibilità sul dossier di Pyongyang fanno trapelare attraverso il «Wall Street Journal» carte su Kim Jong Un con dettagli finora rimasti segreti.
Anzitutto sul suo carattere, definito «violento», «crudele» e «preoccupante» perché «quando era bambino torturava piccoli animali» ed è poi cresciuto nel «culto della personalità del padre» dimostrandosi «ancora più spietato e imprevedibile di lui» affermano le fonti citate dal «Wall Street Journal», secondo le quali nonostante il periodo di studi trascorso in Svizzera Kim Jong Un «è cresciuto per gran parte della vita in Corea del Nord». Un periodo determinate è, secondo fonti giapponesi, quello passato nell’accademia militare di Pyongyang «dove aveva insegnanti personali e non partecipava alla classi» restando isolato.
Di lui si conosce assai meno di quanto si sapeva del padre quando del 1994 salì al potere dopo la morte di Kim Il Sung. L’artefice di tale segretezza sarebbe Kim Jong Il, regista di una designazione destinata rinnovare l’autoisolamento della Corea del Nord perché il figlio Kim Jong Un è stato forgiato, cresciuto ed educato a sua immagine e somiglianza.
Fra i pochi ad aver letto i rapporti dell’intelligence sul nuovo potente di Pyongyang c’è Mike Roberg, capo della commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti, che definisce «non buono» il suo carattere. A dimostrarlo sarebbe il fatto che i due attacchi militari lanciati dalla Corea del Nord contro la Corea del Sud nel 2010, l’affondamento di una nave da guerra e il bombardamento di un’isola lungo il confine, sarebbero stati ordinati di persona da Kim Jong Un per testimoniare alle gerarchie delle forze armate la capacità di guidare la nazione.
Sempre lui avrebbe spinto le forze di sicurezza, secondo fonti di Tokio, a intensificare la caccia ai disertori. A sostenerlo dentro l’esercito vi sarebbero due pesi massimi della nomenklatura: il vicemaresciallo Ri Yong Ho, destinato a guidare le forze armate durante la transizione, e Jang Song Thaek, ex stretto consigliere di Kim Jong Il del quale ha sposato la figlia Kim Kyong Hui. «Nel breve termine potremmo trovarci davanti ad un leader aggressivo, determinato in questo modo a consolidare il proprio potere» spiega Bruce Klinger, ex analista dell’intelligence ora in forza alla Fondazione Heritage di Washington. Si tratta di uno scenario che potrebbe portare ad una escalation di tensioni con la Corea del Sud e forse con il Giappone.
«Disponiamo di piani dettagliati su cosa fare se la Corea del Nord dovesse lanciare attacchi assicura al New York Times Michael Green, ex consigliere di George W. Bush sull’Asia mentre non ne abbiamo sull’ipotesi di uno sgretolamento interno del regime».
Ma anche se non dovesse avvenire nulla di tutto ciò, le conseguenze potrebbero essere preoccupanti «perché Kim Jong-Un avendo a disposizione una transizione facile continuerebbe ad affamare la popolazione ed a sviluppare l’arsenale nucleare» sottolinea Jeffrey Bader, ex consigliere asiatico del presidente Obama.

Repubblica 21.12.11
Corea
Sul parallelo della paura
di Giampaolo Visetti


Lungo il 38° parallelo, la morte di Kim Jong-il è segnata più dallo stupore che dal lutto. L´albero di Natale che avrebbe dovuto umiliare un nemico che non c´è più è stato smontato. E tra Seul e Pyongyang la paura è la sola emozione condivisa
Travolti dal ridicolo i servizi segreti di Usa e Giappone: erano all´oscuro dell´agonia
Alla tv il decesso sembra seguito dal lamento di un popolo orfano. Si tratta di una recita
La salma è stata deposta dentro il memoriale Kumsusan tra fiori bianchi e rossi
Il Sud non invierà delegati al funerale del 28, ma ha mandato inedite condoglianze

La morte di Kim Jong-il, replica perfetta della liturgia messa in scena per suo padre nel 1994, entra negli occhi del mondo attraverso le immagini della folla di Pyongyang, in lacrime e in ginocchio per il distacco dal suo dio-eroe. Oltre il filo spinato steso lungo il 38° parallelo, il Muro di Berlino dell´Asia che da cinquantotto anni separa la realtà dalla finzione delle due Coree, l´addio all´imperatore dell´ultima dinastia comunista sopravvissuta all´ascesa del capitalismo d´Oriente, appare invece segnato più dalla paura e dallo stupore, che dal lutto. Nel villaggio-vetrina di Panmunjom, avamposto estremo nella zona demilitarizzata sospesa tra Sud e Nord, i militari nordcoreani che sigillano la frontiera non piangono affatto e oggi hanno l´ordine di non sparare ai manifesti degli esuli che esultano per l´infarto che avrebbe infine «fatto giustizia di un assassino». Davanti alla tivù, il decesso del "Caro Leader" sembra seguito dall´inconsolabile lamento di un popolo che si sente orfano. Tra gli spettrali fuggiaschi del regime, che dalla notte ingrossano le file di un esodo dal Nord impetuosamente ripreso e a quanto pare tollerato, la notizia che il profeta stalinista della dissuasione atomica non è sopravvissuto ai suoi eccessi, si rivela al contrario accolta da un generale sollievo, velato dall´ansia del futuro.
Dalla nazione inaccessibile, chiusa ora anche alle delegazioni internazionali, filtra il racconto di una capitale blindata, riempita di figuranti della propaganda e paralizzata. Le forze armate, fino ad ora passate agli ordini del "Grande Successore" Kim Jong-un, vietano agli abitanti dei villaggi di spostarsi e li invitano a restare chiusi in casa. Nella Corea del Nord i dodici giorni di lutto nazionale si traducono in scuole, uffici e negozi sbarrati, coprifuoco giorno e notte, popolazione scomparsa e strade riservate ai movimenti di 1,2 milioni di soldati. Un rituale del terrore, contrabbandato per condivisione del dolore, che tradisce una lunga preparazione e che smentisce la narrazione di un decesso improvviso a bordo di un treno blindato lanciato in fondo al buio. Con il trascorrere delle ore, l´incerta transizione dell´egemonia di padre in figlio strappa al mistero l´evidenza di due nazioni.
Quella creata dai vertici delle forze armate e del partito comunista, incollata alla tivù o impegnata nel recitare il ruolo della folla inconsolabile, e quella reclusa che, se versa una lacrima, è per il presentimento dei nuovi sacrifici che l´attendono.
Tra Seul e Pyongyang, in una terra obbligata a piangere senza provare dolore e costretta a esultare senza essere felice, la paura è la sola emozione condivisa ed è difficile capire chi sia più spaventato dall´idea di irritare il proprio nemico. Il sole non era ancora sbucato dalla collina che nasconde l´artiglieria puntata su Seul quando, per ordine del governo del presidente Lee Myun-Bak, dalla frontiera che taglia Panmunjom è stato rimosso l´enorme albero di Natale del Sud che avrebbe dovuto far sentire ancora più poveri e umiliati i fratelli del Nord. Cinque squadre di soldati, a bordo di mezzi prestati dalla base militare americana, hanno smontato l´abete d´acciaio illuminato da ventimila lampadine, sparato in faccia ad un nemico che forse già non c´era più. Dopo tre ore se ne sono andati senza dire una parola, tra gli applausi degli stessi operai sudcoreani che ogni giorno passano nel Nord per raggiungere il distretto industriale di Kaesung. Dalla capitale del cosiddetto mondo libero sono partite anche inedite condoglianze per «il popolo nordcoreano», inviti a «riprendere un dialogo di pace» e poco prima di mezzogiorno è stato interrotto il lancio di 400 palloncini che dovevano far volare tra i sudditi della famiglia Kim il ritratto del fresco defunto, corredato da inni di gioia per il suo decesso.
Seul, come Pechino, non invierà delegazioni al funerale del 28 dicembre, ma la mano tesa è stata prontamente stretta dal giovane Kim Jong-un, investito despota in cerca di riconoscimento. Le esercitazioni militari del Nord sono state sospese per tutto l´inverno, i soldati richiamati nelle caserme ed è partito l´ordine di far cessare slogan e minacce verso Washington e Seul. Dentro e fuori l´enigmatico universo fondato su una pace senza pace e su una guerra senza guerra l´imperativo collettivo è sostenere disperatamente il mistero di un successore di cui non si conosce nemmeno l´età, preferendo il male di uno scenario brutto al disastro di una prospettiva peggiore. Nella sospensione di una tregua innescata dalla giustificata assenza temporanea di un nemico, mentre il presidente cinese Hu Jintao varcava personalmente l´ambasciata nordcoreana di Pechino per le condoglianze e i telefoni dei leader di tutte le potenze mondiali si intasavano di inviti alla stabilità, quello che la propaganda di Pyongyang ha ribattezzato «grande e rispettato compagno, inarrivabile guida spirituale e ideologica del nostro popolo», ha fatto il suo debutto sulla scena globale del potere.
Gli opposti orfani della due Coree hanno trascorso ore ipnotizzati davanti alle immagini ossessive del vero passaggio delle consegne. Kim Jong-un, nella nuova divisa di generale a quattro stelle, senza aver mai fatto un giorno di servizio di leva ha aperto la camera ardente dove nella capitale del Nord è stata deposta la bara del padre Kim Jong-il, dentro il Memoriale Kumsusan in cui riposa anche la mummia del nonno Kim Il-Sung. Una musica solenne ha introdotto il minuto di silenzio e il prolungato raccoglimento del leader-ragazzo che dovrà decidere cosa fare di almeno sei testate atomiche. Kim Jong-il è tornato ad essere solo un corpo come quello di chiunque, rivestito del suo anacronistico abito color cachi, sintetizzato tra due cifre d´oro, "1942-2011", coperto da un mantello rosso e disteso in una cassa di cristallo posata sopra un mantello di Kimjongilie, i fiori bianchi e rossi ribattezzati con il suo nome. La cerimonia, studiata per rassicurare sulla tenuta della successione ed esibire i volti di generali e parenti chiamati a vegliare sulla sorte della nuova divinità di Pyongyang, ha confermato l´attuale volontà generale di non consegnare ora alla storia un relitto del passato.
Chi in queste ore riesce a fuggire dal Nord sostiene che il "Caro Leader", presto trasformato a sua volta in mummia per esigenze di nazionalistica venerazione, sarebbe stato ucciso nelle scorse settimane da generali epurati per fare posto al figlio, o da un cancro al pancreas giunto all´ultimo stadio. È la paradossale spy-story di una condanna annunciata, il sacrificio del padrone sconfitto di un regime agonizzante: universalmente noto a tutti fuorché ai servizi segreti di Corea del Sud, Usa e Giappone, ora sbattuti tra la condanna e il ridicolo. Proprio chi giurava di sapere, per 51 ore è rimasto all´oscuro di una potenza nucleare fuori controllo, apprendendo dalla tivù la notizia inseguita per anni e infine bucata come già quella del compimento del programma atomico che minaccia l´Oriente. Tra Seul e Pyongyang l´obbligato tentativo di prolungare il regime di Kim in Kim, premiato dal sollievo delle Borse che puniscono solo l´incertezza, oscilla così tra recita e paura, sopra rabbia e minacce, dentro gli interessi e il dolore, il cinismo e l´inettitudine, la speculazione e le illazioni che da cinquantotto anni insistono nel rianimare il cadavere di un inoffensivo conflitto spaventoso a cui nessuno intende rinunciare.
Ieri era Mosca, a sfruttare schiavi e padroni della Corea del Nord per allontanare dall´Asia la tentazione della democrazia. Oggi è la Cina, atterrita dall´instabilità sulla porta di casa e da un "effetto-rivoluzione" nell´anno che ha visto l´ebbrezza della libertà rovesciare regimi considerati incrollabili. Ma anche la gente di Seul, per la prima volta, questa sera confessa che costa infine meno continuare a finanziare la farsa del terzogenito dei Kim posto sotto la tutela degli zii, piuttosto che trovare subito cento miliardi di euro per assorbire una riunificazione alla tedesca, o l´inarginabile ondata di 24 milioni di profughi. Cina e Usa nella notte hanno così convenuto che un campo di battaglia internazionale dove nessuno muore, fuorché chi lo abita, va oggi tutelato come un parco. Senza il "Caro Leader" nulla sarà più come prima, ma con il "Grande Successore" tutto deve dunque restare com´è. E lungo il confine di Panmunjom, dove i militari del Nord e gli attivisti del Sud questa sera sentono di essere ridotti a figuranti del medesimo destino che li esclude, ci si prepara «al funerale più sacro»: desiderando che sia l´ultimo, ma sperando che non lo sarà.

il Fatto 21.12.11
Wukan, il villaggio che sfida il potere cinese
Rivolta contro le requisizioni forzate della terra. Pechino assedia, ma non interviene
di Simone Pieranni


Pechino . Dopo Wukan, Haimen. Neanche il tempo di analizzare la portata storica di quanto sta succedendo nel villaggio di pescatori in protesta da settembre e in grado di dare vita a un’estemporanea forma di autogoverno, che la notizia di ieri in Cina è il propagarsi della contestazione a soli 100 chilometri da Wukan. Secondo alcuni cittadini che hanno postato foto e brevi commenti su Weibo, il Twitter cinese (notizie poi riprese da agenzie internazionali) ad Haimen si sarebbe svolta una protesta contro una centrale elettrica cui la polizia avrebbe risposto con estrema violenza. Cause differenti ed esito altrettanto diverso rispetto a Wukan, a confermare l'intrigante situazione sociale in Cina.
Nel villaggio del Guangdong la lotta si è sviluppata contro le requisizioni forzate della terra. È cominciato tutto a settembre e ancora oggi l'esito è incerto: la polizia ha circondato il villaggio – bloccando anche i viveri – ma non è intervenuta in modo violento. Una settimana fa ha però arrestato uno dei leader della rivolta, morto tre giorni dopo in carcere, in circostanze misteriose. Un infarto, secondo la polizia, torture per estorcere una confessione secondo la popolazione. E all'interno del paese, data la fuga a settembre dei funzionari locali del Partito comunista, una forma di autogoverno – attraverso commissioni anche per negoziare con il governo centrale che dal Financial Times è stata paragonata all'esperienza della Comune di Parigi.
Una straordinarietà – complice anche la presenza di giornalisti stranieri, considerati oggi una garanzia al mancato intervento violento della polizia – che rende Wukan diversa dagli altri 80 mila incidenti che accadono ogni anno in Cina: proteste, rivolte, violenti scontri, il 65% dei casi a causa di problemi dovuti alla requisizione forzata delle terre. I governi locali per fare cassa tolgono la terra che lo stato affitta ai contadini, per affittarla a costruttori. Un giro d'affari immenso e in nero: le requisizioni sono spesso violente e illegali. In questo modo i funzionari locali non devono pagare le tasse al governo centrale. Un problema storico in Cina che coinvolge terra, funzionari corrotti, rabbia contadina. Ieri gli abitanti di Wukan hanno reso pubbliche le proprie richieste, solo nel caso vengano rispettate sarà rinviata la manifestazione organizzata per oggi. Gli abitanti chiedono che la polizia rimuova i posti di blocco, che qualche reporter possa vedere il corpo del leader morto in carcere, che venga avviata un'inchiesta sui funzionari corrotti.
È soprattutto contro di loro la protesta di una popolazione che secondo le testimonianze tiene ancora in grande conto il potere centrale pechinese, al quale di fatto si sta rivolgendo da giorni. L'ultimatum è arrivato nella serata di ieri: stamattina ci sarà un nuovo incontro con i rappresentanti del governo. In caso di mancata risposta sulle richieste, nuova manifestazione. Un altro elemento distintivo di Wukan è l'attuale situazione in Cina e i suoi protagonisti in campo. Nel 2012 cambieranno i vertici del paese, è previsto un rallentamento economico (anche a causa della crisi economica europea e degli Usa) che fa temere il sorgere di nuovi disordini sociali. Wang Yang capo del partito nel Guangdong è uno dei personaggi dato in grandissima ascesa, come probabile membro del Comitato Centrale del Politburo.
La regione cinese era infatti diventata un modello, sia economico, sia sociale improntato a un liberalismo che aveva fatto nascere paragoni con lo statalismo nostalgico di Bo Xilai, leader del Pcc di Chongqing. Wang Yang è considerato una persona in grado di dare il meglio nelle dispute sociali: anche per questo, forse, la polizia ad oggi non ha attaccato il villaggio. Wang Yang potrebbe vedere Wukan come una pedina del suo domino: trovare una soluzione e togliere la patata bollente a Pechino, vorrebbe dire conquistare parecchi punti nei pallottolieri giusti del potere cinese.

Repubblica 21.12.11
Una sinistra a misura d’uomo
Diritti e valori, la politica è questa
La globalizzazione ha distrutto ogni istituzione sociale. Il fondamento dei giudizi e dell´azione diventa solo morale
Il sociologo su "MicroMega": "Bisogna occuparsi della vita concreta degli individui"
Una distinzione fondamentale con la destra è come ci si pone nei confronti della situazione delle donne
di Alain Touraine


Il teorema da tempo accettato secondo cui il centro della vita sociale è il sistema economico, cioè la stretta corrispondenza delle categorie della vita economica con quelle della vita sociale, non è più accettabile. L´economia si è separata dalla vita sociale: è questo il significato profondo della globalizzazione. Il mondo delle istituzioni sociali, politiche e giuridiche sta crollando. La costruzione dei giudizi sociali non può più avere altri fondamenti se non morali.
Qual è il posto del lavoro nella vita individuale e collettiva: questo è il tema che meglio definisce lo spirito di una concezione "morale" della vita sociale; l´unione di una politica di questo genere con la repressione delle condizioni economiche illegali trasformerebbe in modo fondamentale la vita sociale di tutti. Bisognerebbe attribuire molta più importanza di quanto non si faccia oggi a tutti i problemi che riguardano le minoranze di ogni tipo, che si tratti dei giovanissimi, dei vecchi, dei disabili o delle minoranze culturali, linguistiche, sessuali, religiose o altro ancora.
Il problema è che siamo stati abituati a sentire la destra parlare il linguaggio della morale, e la sinistra quello dei rapporti di forza e della lotta del profitto contro i salariati. Ma si può ancora sentire questo discorso quando la speculazione trionfa ovunque, e quando vediamo l´impossibilità di ricostruire l´economia? E quando, nel vuoto o nella debolezza dei discorsi fatti da partiti e governi di sinistra, le voci che sentiamo e che rappresentano più attivamente la sinistra sono al contrario cariche di indignazione, di appelli alla giustizia, di rivendicazione dell´accesso reale, e non soltanto legale, alla soddisfazione dei bisogni più fortemente sentiti – non è chiaro che i temi "morali" mobilitano molto più di quelli strettamente economici?
Non esiste più altra sinistra se non quella che prende la parola o se ne impadronisce, come già avevano fatto i movimenti pionieristici degli anni Sessanta del secolo scorso, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia.
Sinistra o destra sono prima di tutto delle concezioni della società, delle definizioni del Bene da difendere e del Male da combattere. La sinistra o la destra si possono definire anche a livello sociale dal punto di vista delle categorie sociali a cui appartengono gli elettori o i simpatizzanti, ma la posta in gioco e la natura del conflitto non si possono più definire in termini sociali. Non sono più i contadini poveri o gli operai della grande industria a costituire la sinistra. Lo vediamo tutti i giorni, più o meno chiaramente a seconda del paese che osserviamo e delle categorie che analizziamo.
Ma noi abbiamo bisogno di identificare le nuove categorie che condividono la visione appena evocata. Dobbiamo individuare negli ambiti principali della vita sociale – produzione, distribuzione, finanziamento, educazione, salute, occupazione del territorio, politica culturale eccetera – le scelte che permettono di collocare la destra e la sinistra e di contrapporre l´una all´altra, compito immenso ma che è tuttavia indispensabile almeno iniziare a intraprendere.
L´elemento di definizione che per primo viene alla mente è che la destra pensa in termini di oggetti e di rapporti tra gli oggetti, e che definisce gli attori tramite le loro situazioni oggettive. Tanto più colpisce dunque che tale tentativo sia stato, in un passato già lontano, identificato con la sinistra. Il che impone di rompere con le ideologie che sopravvivono alle realtà storiche che hanno cercato di interpretare. Ciò che definisce, all´opposto, la sinistra, è che pensa e agisce in termini di diritti.
Il populismo di destra, che lamenta le deplorevoli condizioni dell´infanzia, dei poveri, delle donne e dei prigionieri è sempre esistito. Ma il pensiero e l´azione diventano di sinistra solo quando il pensiero si interroga sulle ragioni della disuguaglianza, o della dipendenza e della violenza, cercando nelle vittime i possibili protagonisti di volontà e desiderio d´azione.
Il settore in cui è più facile definire la sinistra è il giudizio espresso sui diritti e sulla situazione delle donne; forse perché i progressi verso la parità tra uomini e donne sono così lenti, quando non sono assenti del tutto. Le nostre società sono ancora in effetti, in questo ambito, in stragrande maggioranza di destra. Se ciò che meglio definisce la sinistra è il giudizio sulla condizione della donna, la destra si definisce meglio per l´importanza attribuita all´identità, che si traduce nella paura delle minoranze, soprattutto quelle di recente formazione. Le politiche dell´identità sono politiche di destra. Il che non significa che alcuni orientamenti di sinistra non possano identificarsi con un ideale nazionale o religioso, cosa ovviamente innegabile.
Questo è il cammino che occorre seguire per dare un contenuto reale alle idee di destra e di sinistra. Solo quando un gran numero di individui, di gruppi e di organizzazioni si impegna con decisione in tali compiti ci si può preoccupare dei problemi di organizzazione politica. Con ciò non si vuole certo sostenere che si debba ripartire da zero ma, al contrario, che la costruzione di una tendenza politica deve fare i conti con un retaggio di partito che è un ostacolo, più che un aiuto, allo sviluppo di nuove idee, di nuove prassi, di nuove mobilitazioni. A partire dalla nostra riflessione odierna, questi sono gli interrogativi che dovremmo continuare a porci: su quali punti decisivi la sinistra e la destra si oppongono? E quali differenze devono esistere tra le forme di azione politica delle persone di destra e delle persone di sinistra?
(Traduzione di Anna Tagliavini)

La Stampa TuttoScienze 21.12.11
Il gene “sente” come vivi
Il nostro destino non è inciso nel Genoma, ma si trasforma con le abitudini “buone” e “cattive” Una disciplina emergente, l’epigenetica, svela come l’ambiente influenza l’espressione del Dna
di Marco Pivato


Le giraffe non hanno sviluppato un collo lungo a forza di ostinarsi ad acchiappare le foglie più alte... ». Si potrebbe cominciare così un'argomentazione per confutare Lamarck, giacché il meccanismo dell'evoluzione intuì Darwin – è la comparsa casuale di caratteri che si affermano quando risultano più vantaggiosi in uno specifico ambiente: le giraffe un po’ più «dotate», arrivando al cibo più facilmente, avevano un’aspettativa di vita più lunga e quindi più probabilità di avere progenie che ereditasse il carattere «collo lungo». Oggi tuttavia c'è chi rivaluta il contributo dei comportamenti individuali e delle pressioni ambientali – in gergo la disciplina si chiama «epigenetica» – nella trasmissione dei caratteri.
Come il team guidato dallo svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute, ospite in Italia della Fondazione Bracco e del Museo della scienza e della tecnologia di Milano. Bygren ha cominciato a studiare l'influenza degli stili di vita sul cervello in un campione di 12 mila individui e si è trovato sotto la lente i meccanismi con i quali i comportamenti influiscono sulle istruzioni a priori dei geni e, addirittura, come questi possano essere ereditati. Il professore parte da alcuni dati di fatto. «Gli stili di vita – spiega – influenzano l'espressione genica». E fa un esempio: «Se una donna possiede il gene Brca1, che espone al cancro al seno, può ritardare fino ad antagonizzare l'esordio della malattia grazie a un'alimentazione ricca di antiossidanti, abbondanti in frutta e verdura, che inducono l'espressione degli enzimi deputati a " spegnere" i radicali liberi e grazie all'attività fisica, che promuove il silenziamento di geni prooncogeni».
Il destino, dunque, non è scritto nei geni, ma «dipende dalla modulazione dell'azione dei geni». Il dogma centrale della biologia, secondo cui «un gene produce una proteina» – alla base dei vari processi fisiologici – è stato infatti confutato, quando si è scoperto che, pur possedendo solo circa 25 mila geni, il nostro Genoma è in grado di produrre centinaia di migliaia di proteine: «Ogni gene spiega Bygren è capace di codificare allo stesso tempo per più di una proteina e la codifica dipende dai segnali chimici che riceve, indotti proprio dagli stili di vita individuali».
Il campione a disposizione era composto da individui selezionati per particolari attitudini alla lettura, interessi per la musica, il cinema, il teatro e la cultura in generale. L'esperimento ha individuato come queste attività migliorino la salute del cervello e in ultima analisi l'organismo in generale: «L'allenamento delle capacità cognitive continua guida lo sviluppo delle cellule staminali nelle aree del cervello primitivo a differenziarsi in nuovi neuroni, che a loro volta formano nuove sinapsi». Il cervello, proprio come un muscolo, se sollecitato, conserva e potenzia le sue funzioni, «in particolare nell'area dell'ipotalamo, deputata alla gestione della memoria, e in quella dell' ippocampo, che tra le tante funzioni sottende l'espressione degli stati emotivi». Se infatti viviamo un evento emozionante, e quindi «stressante» per il cervello, l'ormone cortisolo media un processo che porta alla fortissima impressione di quell'evento nella memoria. «Ecco perché esemplifica il professore tutti ci ricordiamo cosa stavamo facendo l'11 settembre 2001».
L'effetto «anabolizzante» della cultura sul cervello può aumentare l'aspettativa di vita anche di decine d'anni: «La generazione di nuove sinapsi – continua Bygren – contrasta l'insorgenza del morbo di Alzheimer e aumenta in generale la capacità di gestire al meglio tutto il sistema nervoso periferico e quindi la funzionalità degli organi, mantenendoli in buona salute». Lo studio prova che cultura e svago sono al secondo posto come fattori che determinano l'aspettativa di vita, dopo l'assenza di malattie e prima di fattori come età, reddito, lavoro e sesso. Ma è possibile fissare le buone abitudini nei geni destinati alla progenie, ossia nei gameti? «Secondo noi, è possibile, ma il processo non è mediato dai gameti precisa il professore -. E spiega: «Un nostro studio su popolazioni del Terzo Mondo, in famiglie con una storia di denutrizione perpetuata da generazioni, mostra che i neonati hanno una fisiologia precaria e sono più esposti alle malattie. Analogamente le popolazioni che si sovralimentano trasmettono ai figli una fisiologia che li espone ad altre malattie, come il diabete».
I cromosomi non sono l'unico veicolo per la trasmissione dei caratteri e Bygren lo spiega con una similitudine: «Le conseguenze della " fame da cibo" si trasmettono con le stesse regole della " fame da cultura". Le donne incinte che si alimentano correttamente trasmettono segnali chimici che favoriscono uno sviluppo virtuoso del feto così come quelle che si alimentano intellettualmente trasmettono segnali chimici utili allo sviluppo del sistema nervoso nella fase embrionale». Ma attenzione: «Proprio perché l'espressione genica è modulata dagli stili di vita, una volta al mondo, i geni “buoni” vanno coltivati altrimenti la loro espressione è inibita: così, se parliamo di cultura, la stimolazione cognitiva dev'essere promossa nel nascituro, perpetuata nella crescita e con l'avanzare dell'età, affinché i geni che promuovono il differenziamento delle staminali in neuroni e sinapsi rimangano accesi».

La Stampa TuttoScienze 21.12.11
Massimo Piattelli Palmarini: “C’è una zona d’ombra pronta a ingannarci”
Neuroscienze. “Il cervello conosce mille trucchi Ecco come sfruttare le sue potenzialità positive”
di Elisa Frisaldi


Nella scena finale di «Manhattan» di Woody Allen il protagonista d'un tratto si rende conto che non può più vivere senza la bellissima Tracy. Cerca di telefonarle, ma la linea è occupata, scende di corsa in strada alla ricerca di un taxi, ma senza successo. A passo spedito, a tratti correndo, arriva al portone di lei. Un autista in livrea la sta aspettando, lei andrà a Londra per sei mesi a frequentare un corso di recitazione. Compresa la situazione, lui, sbalordito, prorompe nell'angosciata riflessione: «Vai a Londra adesso? Vuoi dire che... Che vuoi dire? Che se fossi arrivato due minuti dopo non ti avr... avre... avrei trovata? ». «Mnh», risponde lei, annuendo.
Perché la nostra mente si ostina a rimuginare sui «se» e i «ma» anche di fronte a situazioni già perfettamente definite? Questo è solo uno degli interrogativi a cui Massimo Piattelli Palmarini, professore di Scienze Cognitive all'Università dell'Arizona, risponde nel suo ultimo libro «Chi crediamo di essere». L'autore si propone di chiarire quali sono i limiti della nostra mente, dal suo funzionare per moduli all'essere tendenzialmente pigra, svelando i trucchi che ci consentono di sfruttarne a pieno le potenzialità.
Infiniti mondi possibili. Per riuscire a vivere momento per momento quello che ci capita, abbiamo bisogno di proiettare la nostra realtà su uno sfondo di mondi possibili. Dal punto di vista evolutivo questa strategia ci aiuta a prevedere le conseguenze delle nostre azioni. L'«effetto collaterale» può essere il rimpianto per quelle cose che sembravano un'alternativa molto vicina e possibile a quanto è poi accaduto nella realtà.
«Sappiamo con certezza che per il nostro sistema cognitivo la percezione dello spazio, regolata dall'ippocampo e in particolare dai cosiddetti “place neuron” (neuroni “del posto”) è molto importante spiega Piattelli Palmarini -. Per consolidarsi, la memoria episodica ha bisogno di interagire sia con le rappresentazioni tridimensionali degli oggetti e dei luoghi che ci circondano sia con le “stanze astratte” in cui si trovano le rappresentazioni di ciò che poteva succedere o potrebbe accadere».
Man mano che la vita reale di ognuno di noi si definisce è bene, per la nostra serenità, andare a chiudere le stanze in cui altrimenti continuerebbero a vivere tutti gli altri mondi possibili.
Vincere la pigrizia. Se da un lato dobbiamo tenere a bada l'eccessiva tendenza a rimuginare, dall'altro può essere vantaggioso opporsi alla naturale pigrizia del cervello. A questo proposito Piattelli Palmarini racconta che Enrico Fermi poneva quesiti apparentemente irrisolvibili ai suoi studenti sia per metterli alla prova sia per far loro capire quante cose conoscevano senza esserne consapevoli. Alla domanda «Quanti accordatori di pianoforti ci sono a Chicago? » bisognava guardarsi bene dal rispondere: «Non ne ho la minima idea». Seguendo la logica (quanti abitanti, famiglie e pianoforti ha Chicago, quanto tempo serve per accordare lo strumento e quanti sono i giorni lavorativi), la risposta li attendeva dietro l'angolo.
La mente è per gran parte suddivisa in moduli all'interno dei quali vigono le regole per leggere, interpretare, combinare e trasformare le informazioni in essi contenute. In genere questi moduli interagiscono attivamente e in modo fulmineo. Esistono, poi, anche dei processi detti «centrali», che si occupano della fase molto delicata di raccolta degli elaborati di più moduli e della loro integrazione finale.
«Agire, prendere decisioni o fare promesse sotto l'effetto di emozioni come rabbia, rancore, imbarazzo, sdegno, desiderio sessuale, gelosia, può essere rischioso. In questi casi gli umori momentanei hanno il sopravvento e integrano automaticamente per noi i fatti, fornendo analisi e soluzioni poco oggettive».
Smascherare i ricordi. Non potevano mancare le false memorie, un altro di quei casi in cui il sistema nervoso centrale non riesce a discriminare fra ciò che è realmente accaduto e come invece l’abbiamo elaborato. I falsi ricordi prendono forma all'improvviso, guardando un film o ascoltando una storia. Una sequenza di immagini, emozioni e sensazioni molto vivide entra così a far parte dei nostri ricordi in modo assolutamente credibile, o almeno fino a quando qualcuno dall'esterno ci fornisce le prove per decostruirla. La psicologa Elizabeth Loftus lotta da anni per cercare di limitare gli errori giudiziari dovuti all'identificazione dell'imputato sbagliato da parte di testimoni oculari. La stessa Loftus, in qualità di esperta, si è trovata a decostruire falsi ricordi di molestie sessuali comparsi improvvisamente in persone adulte. Dopo attente analisi dei singoli casi, interrogatori agli interessati, ai familiari, agli ex maestri di scuola e agli amici, la psicologa ha dimostrato che quei flash mnemonici non potevano essere reali. Date e luoghi non corrispondevano, le persone accusate erano state confuse con altre, alcune erano perfino decedute prima dell'episodio così vividamente ricordato.
«Spero che nessuno abbia ricordi spiacevoli dell’infanzia. Ma, se così fosse, invito a verificarne la verosimiglianza. Potrebbe trattarsi del prodotto della mente e non di un fatto realmente accaduto. Una scoperta liberatoria».

Corriere della Sera 21.12.11
La (vera) rivoluzione si fa in versi
I ribelli Foscolo e Parini, l'incendiario Campana il fanciullo Corazzini: ogni crisi riparte dal romanticismo
di Aurelio Picca


Volevo iniziare (lo faccio) «l'armonia vince di mille secoli il silenzio»; volevo dire (e lo scrivo almeno per vezzo provinciale) che la Letteratura italiana è nata con lo Stile Novo, con Cavalcanti. Voglio ricordare che ogni epoca in crisi ha rimesso in moto la potenza della lingua e della visione. Per stare al Foscolo, che non sbaglia mai, il mondo è in perenne affanno, il Trattato di Campoformio è uno smottamento reiterato al quale si reagisce con l'equilibrio, la passione, l'eleganza della Poesia. La «modernità» che ci riguarda pretendo di farla partire dal sonetto foscoliano («Forse perché della fatal quiete/tu sei l'immago, a me sì cara vieni,/o sera!»), proprio perché l'asse portante Ovidio-Petrarca-Leopardi trova nel poeta di Recanati una femminilità ormai da delirio sentimentale (oltre al titanismo plastico, alla figurazione carnosa ed esoterica delle Operette morali), infatti la sua splendida crisi è l'oblio, il salmodiante incespicare del Canto notturno per chiudere la porta in faccia all'eternità. Invece in Foscolo, e prima di lui in Alfieri e Parini, la prova virile, la risposta alla crisi perenne non abbassa mai la guardia. Non cede. Non indietreggia. Nel primo spara dalla culatta di un ego che produce il primo romanzo italiano (Vita); nel secondo l'illuminismo lombardo, ma non giacobino, si scaglia su disonestà e corruzione. In altre parole: nessuna Rivoluzione o Restaurazione si ribellerà quanto la Poesia. È la poesia che traccia i confini; è la poesia che ci stampa addosso il nome che portiamo. Essa ci dà il battesimo, dunque ci crocifigge come individui e uomini che, da soli, debbono cercarsi un posto nel mondo.
Anche sul finire dei Settanta del secolo scorso si riprese con la poesia. Allora l'Italia e il Muro di Berlino chiedevano e offrivano risposte reazionarie e rivoluzionarie. Amelia Rosselli mi diceva: «I poeti debbono rimanere poveri. La povertà è la bussola che non ti fa sbagliare». La vestale, con il padre e lo zio uccisi dai fascisti a Parigi, leggeva al buio, dialogava con i fantasmi, si imponeva il disprezzo per la volgarità, ricordava la timidezza di Pasolini che l'aveva aiutata a pubblicare da Garzanti. Amelia Rosselli spezzava le costole ai versi per renderli pazzi e cenciosi fino a quando, un giorno, volle provare a scriverli sul cornicione del palazzo. Io, foscoliano e manzoniano, dentro di me aggiungevo: bisogna cercare la perfezione nella nostra lingua, il silenzio, la concentrazione totale, il digiuno, la solitudine, l'amore, la sfida, l'orgoglio, la tenacia.
La letteratura di quegli anni era ingessata tra neo avanguardia e impegno politico; la lingua poetica e narrativa era ridotta a slogan. Sì, c'erano le impennate eroico-retoriche di Dario Bellezza, i travasi tra autobiografia narrativa e versi dell'appassionatissimo Renzo Paris, Area di rigore di Valentino Zeichen, le poesie con «zoppìa» di Maurizio Cucchi, il risultato morfinico di Milo De Angelis, il dettato opalinico e rinascimentale di Giovanni Raboni, e poi la grande abbuffata del Festival di Castelporziano (1979) con Franco Cordelli divo timido dietro i suoi occhiali Rainbow con le lenti a goccia verde bottiglia, che non sanciva la pericolosità del poeta «sotto ogni Stato», bensì la morte stessa della poesia. Si era giunti al capolinea.
La lezione dei poeti che serviva ai nuovi non si trovava tra le schiere dei Fortini, dei Sereni (pur poderoso), dei Porta, dei Pagliarani (pur intelligente), piuttosto nei colpi incendiari di Dino Campana («Nella stanza un odor di putredine: c'è/ Nella stanza una piaga rossa languente. / Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto… Nel cuore della sera c'è, / Sempre una piaga rossa languente»), nelle preghiere del fanciullo straziato di Sergio Corazzini (Desolazione del povero poeta sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange» va imparata a memoria, come deve essere per Autunno di Cardarelli, per Il conte di Carmagnola di Manzoni). I «nuovi» avevano bisogno delle poesie liguri di Caproni, forse delle atmosfere ferraresi, raffinate e tocche di mente di Luciano Erba. Montale era il poeta di Ossi di seppia, ma anche l'intellettuale fotografato mentre fissa l'upupa imbalsamata. Sono convinto che ai poeti servisse soprattutto l'insostenibile luce di Giuseppe Ungaretti. Insomma pure quegli anni ebbero il loro Trattato di Campoformio. Ormai il linguaggio era ridotto a un vessillo agitato. Dunque la lezione di Pascoli (primo del Novecento, non si dimentichi), l'antilezione di Guido Gozzano (unica e possibile sintesi tra il Vate, l'attesa della morte e il raffinato modernariato), il pentagramma di d'Annunzio dove erano andati a finire? Così alcuni poeti (Salvia, Goroni, Scartaghiande, Del Colle, Antonella Anedda, Giovanna Sicari, Gabriella Sica per la collana del minuscolo editore Rotundo, diretta da Arnaldo Colasanti; mentre Crocetti a Milano faceva da polo per altri ancora più giovani: Antonio Riccardi, Stefano Dal Bianco) ripresero sillaba dopo sillaba a rinnovare la lingua infine pronta e servita ai narratori (sempre «nuovi» i narratori).
Da tempo sono convinto che i poeti e gli scrittori debbano riproporre non un neo romanticismo (ricordo i primi anni Ottanta), bensì il Romanticismo. Senza Manifesti, Progetti, Convegni. Per troppo si è stati persuasi, appunto, che il Romanticismo fosse un archetipo letterario. La post modernità, soprattutto, ne ha fatto un involucro per scriverci sopra la parola «cuore». Invece ogni crisi riparte dalla poesia «romantica». In pieno conflitto tra papato e impero si parte da lì; nel feroce e dorato Rinascimento si parte da lì (Ariosto); le Rime del Tasso ripartono da lì; i tedeschi, gli inglesi, gli italiani per strapparsi di dosso le rovine del neo classicismo ripartono da lì. Quindi, ora che ci sembra di assistere allo schianto di tre quattro imperi contemporaneamente, e di vedere come lo scambio di merci e corpi pare un precipitato apocalittico, è bene osare e dire che la povertà della passione e della sua corte vince non solo quando la ragione è in forma, tocca lo zenit, ma soprattutto quando la crisi divora la cultura, il tempo antropologico delle culture.
Ogni poeta che è sceso nell'Ade è stato romantico (Virgilio su tutti); ogni passione si trascina dietro la miseria (in poesia si trasforma in lusso e sfarzo, vedi Verlaine, Rimbaud, Baudelaire) si porta con sé la forma, la velocità, la semplicità dei linguaggi che nella sinestesia sconvolge ogni interferenza e ci offre la possibilità di scrivere ancora il nostro nome.

Si comincia con Szymborska, poi arriva Kavafis
Dal lavorìo riflessivo della Szymborska che «spalanca al nostro sguardo le cose prime e ultime della vita» (la definizione è di Franco Marcoaldi), fino ai «versi liberi modernissimi e vetusti» com'erano i componimenti di Kavafis secondo Marinetti, e così via attraverso Walcott, Neruda, Pessoa, e poi Merini, Pasolini, Luzi e molti altri: la nuova collana del «Corriere», «Un secolo di poesia», curata da Nicola Crocetti, proporrà 30 volumi monografici dedicati ad alcune delle voci più interessanti del Novecento (prima uscita del 27 dicembre 1 euro più il costo del quotidiano, le successive uscite 7,90 euro più il costo del quotidiano). Il primo volume sarà dedicato a Wislawa Szymborska, Elogio dei sogni, con testo originale a fronte e introduzione e cura di Pietro Marchesani, il grande polonista recentemente scomparso. Il 3 gennaio sarà la volta di Costantino Kavafis, con La memoria e la passione (introduzione e cura di Filippomaria Pontani), seguiranno il 10 gennaio Pablo Neruda con Tra le labbra e la voce (introduzione di Ranieri Polese, a cura di Giuseppe Bellini), il 17 gennaio Fernando Pessoa con Nei giorni di luce perfetta (introduzione di Marco Missiroli, a cura di Paolo Collo), per continuare il 24 gennaio con Derek Walcott (Nelle vene del mare, introduzione di Sergio Perosa, a cura di Matteo Campagnoli), il 31 gennaio con Alda Merini (Il canto ferito, introduzione di Vivian Lamarque, a cura di Nicola Crocetti), il 7 febbraio con Federico García Lorca (Nuda canta la notte, introduzione di Giorgio Montefoschi, a cura di Valerio Nardoni). Ciascun volume conterrà, oltre ad alcune delle poesie più importanti dell'autore (talvolta con componimenti inediti), anche nuove introduzioni. Tra le uscite successive, i volumi dedicati a Pasolini, Prévert, Luzi, Brodskij e numerosi altri. (Ida Bozzi)

Corriere della Sera 21.12.11
I tesori nascosti nella Bibbia
La Parola di Dio ci riconduce all'attenzione verso gli altri
di Armando Torno


Il libro delle ore fu un'invenzione del Medioevo. In esso venivano cadenzati i momenti liturgici per i diversi periodi dell'anno. Se ne trovavano esemplari presso le famiglie abbienti o le comunità più semplici, ne facevano uso laici senza timor di Dio e uomini che vivevano di penitenza e preghiera. Anche dopo la diffusione della stampa, il genere non conobbe crisi. Il libro d'ore — preferiamo chiamarlo in questo modo — oltre la meditazione favoriva il buon uso del tempo.
Oggi è sparito. Crediamo però che esso sopravviva sotto mentite spoglie. Per esempio, Vincenzo Paglia, vescovo di Terni e, tra l'altro, presidente della Federazione biblica cattolica, sta pubblicando da undici anni una sorta di breviario delle ore per credenti e per coloro che cercano qualcosa di non scontato. Quest'anno è appena uscito l'undicesimo della serie, La Parola di Dio ogni giorno 2012 (I libri di Sant'Egidio). Di che cosa si tratta? È semplice: commenta, come ricorda il titolo, ogni giorno dell'anno tutta la Bibbia. Non propone il testo sacro cronologicamente o secondo la sequenza che ne caratterizza i due Testamenti, ma invita a leggerne, volta per volta, una pagina con una esegesi accessibile a tutti. Insomma, una lettura continuata della Bibbia per rispondere alle domande dell'uomo d'oggi. Vincenzo Paglia, che è anche consigliere spirituale della Comunità di Sant'Egidio, dove l'idea di questo libro è nata, non si perde in fronzoli o in circonlocuzioni. Dopo undici volumi ha eletto semplicemente la Bibbia stella polare dei nostri giorni. In queste pagine c'è un aspetto pastorale, ma non è il solo. Il vero motivo che ha sostenuto l'autore è stato quello di legare la Scrittura al cuore, alla storia, alla vita.
Non è esagerato credere — partendo da questa esperienza — che la Sacra Scrittura abbia in sé le risposte che cerchiamo, o quanto meno possa metterci sulla strada per trovarle. L'opera, in altri termini, non risponde soltanto alle domande, ma indica itinerari. La preghiera, in questo nuovo breviario per tutti, si abbraccia alla meditazione. E in un mondo in cui il rischio dell'autoreferenzialità è a portata quotidiana, mentre il vortice della crisi costringe a ripiegarsi, l'irruzione della Bibbia giorno dopo giorno diventa un punto di solidità. Rompe il cerchio dell'io. Non si ha ragione interrogando solo se stessi; vero è che la preghiera cristiana è soprattutto ascolto dell'altro. Insomma, la Parola di Dio infrange la chiusura che impedisce il dialogo; riporta il nostro animo all'attenzione, all'incontro. Vero è che codesto libro è diventato un appuntamento che coinvolge decine di migliaia di persone in Italia e oltralpe. È tradotto in cinque lingue.
Poi non mancano le coincidenze. Quest'estate papa Benedetto XVI ha esortato i fedeli a riprendere in mano la Bibbia, invitandoli a leggere quei libri che non si conoscono. Ha fatto l'esempio del Cantico dei cantici. In esso è custodita un'idea dell'amore ben diversa da quella che testimoniano le cronache o gli spettacoli. Ebbene: La Parola di Dio ogni giorno 2012 si apre quest'anno proprio con il Cantico. In due momenti invita il lettore a soffermarsi sui versetti 1, 1-4 («Il bisogno di essere amata») e 1, 5-6 («Scura ma bella»); due pagine che consentono riflessioni desiderose di arrivare «sino al cuore» e, qui giunte, lo «riscaldino per il Signore». Poi il Cantico entra continuamente nelle pagine e ci si accorge che non c'è migliore lettura per avvolgere il Natale e il tempo che lo precede. L'amore, potente allegoria che permea il libro, diventa quel ponte che corre tra Dio e l'uomo. Perché Dio è amore e l'uomo vive mendicando amore.
Buona parte del volume appena uscito, oltre il Cantico, riconduce il lettore ai due libri delle Cronache, ai quali seguono le lettere di Paolo e le altre del Nuovo Testamento. Ma, come dicevamo, la Bibbia è la vera protagonista. Con le preghiere che seguono ogni lettura, e sono in appendice al libro. Con un invito a ripensare il proprio tempo. Con la Parola che è balsamo contro l'indifferenza.

Corriere della Sera 21.12.11
Addio a Eberhard Richter. Insegnò a tollerare l'ansia


Horst-Eberhard Richter è morto a Giessen (Francoforte) a 88 anni. Direttore dal 1992 al 2002 dall'Istituto Sigmund Freud di Francoforte, Richter ha indagato dal punto di vista filosofico, psicoanalitico e clinico l'ansia, l'angoscia e la paura. Convivere con l'ansia (Bompiani) è uno dei suoi libri di maggior successo, tradotto in dodici lingue. Nel bestseller Il complesso di Dio (Ipermedium editore), Richter sostiene che al venir meno di una figura divina cui fare riferimento l'uomo occidentale avrebbe storicamente risposto rifugiandosi in un «io» sempre più ipertrofico. Il suo nome è legato anche a studi e ricerche sull'ambiente familiare dei bambini e degli adolescenti sofferenti. In quest'ambito, tra le sue numerose opere spicca il saggio pionieristico Genitori, figli e nevrosi. Conflitti parentali e ruolo dei figli pubblicato in Germania nel 1963 e tradotto in italiano da Rusconi nel 1975.

Repubblica 21.12.11
Arringa i fedeli e li invita a pentirsi. Così Kanon è diventato una stella Negli Usa sono sempre di più i bambini "in missione per conto di Dio"
Baby predicatori a 4 anni l'ultima follia americana
di Anna Lombardi


Ragazzini venerati come santi intorno ai quali è nato un giro d´affari fatto di offerte ma anche di vendita di dvd foto e libri
Il padre del piccolo fenomeno: "Se domani chiedesse di non salire più sul pulpito non lo forzerei. Ma lui è felice. È ispirato"

ANNA LOMBARDI
«Lo Spirito Santo è qui. Lo sentite?» La vocina è quella squillante di un bambino biondo, un soldo di cacio che saltella sul pulpito della chiesa pentecostale di Grenada, Mississippi, in quello che sembra un gioco, l´imitazione di un adulto. Ma poi la voce si fa gutturale, profonda. «Lo sentite? Pregate. Pregate. Pregate…. «. Gli adulti intorno a lui s´inginocchiano. Piangono. Si battono il petto. Il bambino ormai urla a squarciagola. «Pentitevi. Pregate…». Qualcuno sviene. Qualcuno batte le mani. Anche il bambino batte le mani. Per oggi è finita. Andate in pace.
Kanon Tipton ha 4 anni ed è il più giovane predicatore del mondo. Sulla scena, pardon, sul pulpito, da quando era un bebè. Ha solo 18 mesi, quando questo figlio e nipote di predicatori, gattonando sul palco dove il nonno aveva appena terminato un sermone, prende in mano un microfono e inizia a parlottare. Ripetendo quella parola: "Pray", prega, fra gli applausi della congregazione. Una performance che qualcuno filma col cellulare e mette su YouTube: trasformando il bebè in un fenomeno della rete 4 milioni di contatti nella prima settimana che per i genitori è una rivelazione.
A raccontare la storia di Kanon e quella di altri bambini "in missione per conto di Dio" è un documentario di National Geographic in onda oggi alle 21. Bambini venerati come santi, che puzzano anche un po´ di zolfo, visto che intorno a loro si scatenano strani giri d´affari fatti di offerte spontanee, certo, ma anche di vendita di dvd, foto, libri. E delle tante prediche dove per garantirsi un posto in Paradiso è necessario acquistare un biglietto. Come nel caso di Terry Durham, baby taumaturgo di sedici anni che vive a Jacksonville, Florida. Sua mamma lo ha abbandonato in fasce alla nonna col fratello gemello. Ed è stata proprio la nonna a riconoscere i suoi poteri quando Terry aveva appena 4 anni: e a farlo ordinare "pastore" a sei anni da una congregazione di vescovi pentacostali, che gli appioppano anche un nome d´arte Little Man of God, piccolo uomo di Dio. Lui si descrive timido, con l´unico sogno, un giorno, di cantare come Michael Jackson. «Ma quando salgo sul pulpito dice lo Spirito Santo mi possiede. Non so più quel che faccio, quel che dico». Per ospitare le sue performance, hanno provato perfino ad affittare il Kodak Theatre di Los Angeles, quello degli Oscar. Salvo deviare l´evento in un teatro più defilato: pochi avevano sborsato i cento dollari necessari.
Un pezzo più a Sud, a Rio de Janeiro, vive Matheus Moreas, 12 anni, un ragazzino moro e riccioluto, che impartisce benedizioni e miracoli nelle favelas. I genitori dicono che ha acquistato i suoi poteri dopo una lunga malattia. Ha incominciato a catechizzare i reietti della megalopoli brasiliana a 4 anni. E ora la sua presenza è richiestissima in prigione, dove i carcerati dicono di ricevere gran conforto dalle sue visite di preghiera.
Kanon, Terry e Matheus non sono certo gli unici. Provate a digitare su YouTube la parola baby preacher: vi imbatterete nel video di una piccola predicatrice africana di due anni. Nei sermoni della quattordicenne brasiliana Ana Carolina Lucena Dias. Dello spagnolo Elijha, 4 anni. Nelle preghiere balbettanti di Elizabeth Kaneshiro, appena tre. Perché quanti siano effettivamente i baby predicatori nessuno lo sa e sul fenomeno non esistono dati precisi. Salvo che è certamente in crescita. Tanto che a Louisville, Kentucky, esiste perfino un festival: una tre giorni di sermoni, aperti però a chi ha più di sedici anni.
Il fenomeno non è nemmeno nuovo. Già negli anni Quaranta, Marjoe Gortner (il suo nome derivato dall´acronimo di Mary e Joseph, la Madonna e San Giuseppe) aveva raggiunto una certa notorietà dopo aver raccontato, a soli tre anni, di aver visto il Signore mentre faceva il bagnetto. Aveva cominciato a catechizzare fedeli in tutti gli Stati Uniti, celebrando perfino matrimoni per un decennio. Fino a quando il padre era fuggito portando via tutti i soldi. Marjoe era finito in una comunità hippie. Fino al 1971: quando raccontò ai registi Howard Smith e Sarah Kernochan la sua storia fatta di bugie costruite a tavolino, minacce, ore e ore di prove e ripetizioni forzate di quello che avrebbe detto durante i sermoni. Smith e Kernochan ne fecero un film, "Marjoe" appunto: che nel 1972 vinse l´Oscar come miglior documentario. «Non c´è niente di male ad aiutare un bambino che ha visto la luce a migliorare le sue potenzialità» dice ora candidamente Damon Tipton, il padre del piccolo Kanon. «Lo aiutiamo a valorizzare quello che lui ha già dentro. Se domani chiedesse di non salire più sul pulpito non lo forzerei. Ma lui è felice di quello che fa. E´ ispirato». Dal Padre Nostro o dal padre suo?