sabato 24 dicembre 2011

l’Unità 24.12.11
Il segretario Cgil
Non si salva l’Italia se non si fa crescere il lavoro
di Susanna Camusso


Una vigilia di Natale in piazza, dove abbiamo allestito un grande albero, l’Albero del lavoro, delle storie del lavoro. Per dire che la nostra mobilitazione continua, e continuerà ancora, per chiedere di cambiare le scelte più inique contenute nella manovra e per ridare un futuro al Paese ripartendo dai giovani e dal lavoro.
La manovra economica approvata, l’ennesima nel corso di questo travagliato anno, ha tratti forti di iniquità, pesa soprattutto sul reddito da lavoro dipendente e su chi ha di meno ed è troppo timida verso gli alti redditi. Una manovra con un segno di profonda ingiustizia sociale determinato da scelte che, ancora una volta, ricadono sui soliti noti. Il presidente del Consiglio ha attribuito alla pesante correzione di bilancio il nome di «salva Italia». Noi abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere che non si salva l’Italia se si impoverisce la gran parte della sua popolazione. Possiamo dire che il criterio, così come enunciato dallo stesso Monti nel suo primo discorso alle Camere, ovvero «rigore equità crescita», ha un anello mancante: l'equità, mentre per la crescita siamo ancora in attesa.
Di certo non dimentichiamo che se ci troviamo qui, in questa situazione difficile, il carico maggiore di responsabilità è da imputare alle politiche del governo precedente, con il suo aver negato la crisi, praticato la divisione nel Paese, fatto crescere le diseguaglianze, svilito il lavoro pubblico, alimentato il populismo. Abbiamo salutato positivamente l'uscita di scena dell'ex governo. Abbiamo compreso la credibilità nazionale ed europea del nuovo governo, ma ciò non deve impedire il giudizio sulle scelte fatte e di criticare le continuità con le passate manovre. In particolare, pur apprezzando il risultato sulla deindicizzazione delle pensioni, sottolineiamo l’iniquità della cosiddetta «riforma delle pensioni». Una decisione sbagliata che penalizza i lavoratori con 40 anni di contributi e scollega la previdenza dal lavoro. Inoltre, in una stagione già così difficile per il lavoro, sottrae possibilità ai giovani, taglia risorse al sistema invece di trasferirle sulle pensioni dei giovani. Così come per la tassazione sulla casa, modifiche ne abbiamo ottenute, ma la misura chiedeva una progressività, perché non possiamo mettere sullo stesso piano chi ha ricevuto dai nonni una casa in eredità e chi magari ne possiede venti.
Per questo la mobilitazione unitaria per cambiare il segno di queste scelte continuerà. La fase due annunciata da Monti dovrà mettere in agenda la correzione dei punti più ingiusti della manovra e guardare alla crescita, ai giovani ed al lavoro. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, l'articolo 18 deve considerarsi capitolo chiuso: si fa sempre più strada nel Paese l'idea che il tema non sia la flessibilità in uscita ma la riduzione drastica delle troppe forme contrattuali atipiche e una riforma degli ammortizzatori sociali per la continuità del reddito. Apriremo, inoltre, una vertenza fiscale che parta dall'introduzione di un'imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze per recuperare risorse da destinare non solo alla crescita ma anche ad un urgente riequilibrio: c'è un sovraccarico insopportabile di tassazione sul lavoro dipendente che deve essere urgentemente risolto.

il Riformista 24.12.11
La deriva del partito persionale
di Emanuele Macaluso


Ieri l’Unità ha pubblicato un’intervista a Nichi Vendola che sembra una pietra tombale sull’alleanza che aveva preso il nome dalla città di Vasto: Pd-Idv-Sel. Preliminarmente vorrei fare una osservazione che a mio avviso ha un senso molto politico: l’intervista è corredata da una grande foto di Niki circondato da manifesti con il simbolo del Sel e anche il nome di “Vendola”. Insomma come quelli del Pdl con Berlusconi, dell’Idv con Di Pietro e dell’Udc con Casini: il partito personale. Una deriva a cui non resiste nemmeno la sinistra. Ma veniamo al dunque. Il giudizio di Vendola sulla manovra somiglia a quello di Di Pietro: «Socialmente sbagliata, inutile per il contenimento del debito pubblico, spinge il paese dentro una voragine recessiva». Non ha votato contro perché Sel non ha parlamentari. Sappiamo bene che questa manovra non è quella che avrebbe fatto un governo di sinistra (che non c’è), e per essere varata occorre che sia votata (con grandi mal di pancia e diserzioni) anche dalla destra. Vendola invece chiede «una patrimoniale pesante» che nemmeno un governo di centrosinistra sarebbe in grado di varare. E con questa linea il segretario di Sel pensa che, se si fosse votato, il centrosinistra di Vasto avrebbe vinto le elezioni. Infatti, per il futuro, insiste nel dire che non si può fare a meno di Di Petro.
Scrivo questa nota perché ritengo che nel partito di Vendola ci sia un pezzo della sinistra che ha una storia in comune con quella che si ritrova nel Pd e fuori dai partiti. L’orientamento politico di questa forza ha quindi un rilievo e occorre discutere con rigore sul domani.
Vendola teme che il Pd, consideri «il governo conservatore di Monti, propedeutico per nuove alleanze». Cioè teme un’alleanza tra il Pd e il Centro, come sbocco della crisi politica che attraversa tutti gli schieramenti politici.
A questo punto vorrei fare io una domanda a Vendola: la collocazione del Centro di Casini, Fini e Rutelli, con la sinistra o con la destra è un tema che non interessa Sel?
E interessa saperlo perché le alleanze di domani sono condizionate dall’azione politica di oggi. La posizione nei confronti dell’emergenza che vive il paese, e quindi del governo chiamato a uscirne, è il terreno di questa verifica. E se questo è il terreno, il giudizio radicalmente negativo di Vendola pone al Pd un problema. Anche perché il segretario del Sel vede oggi «un centrosinistra genuflesso che si comporta come un chierichetto nei confronti dei poteri costituiti». Cosa fare? Io penso che il centrosinistra dovrebbe mantenere una sua autonomia e un suo punto di vista sulla situazione politica e sui contenuti stessi della manovra. Ma oggi occorre fare una scelta di fondo che attiene alle sorti stesse del paese. E proprio in nome di un autonomo giudizio, il centrosinistra deve contribuire decisamente e anche criticamente al successo del governo Monti.
La sua sconfitta sarebbe la vittoria della destra reazionaria, tra cui c’è la Lega. Ma non solo la Lega.

il Riformista 24.12.11
Se il partito di Bersani perde i deputati-operai
QUI PD. Dopo l’annuncio delle dimissioni della Codurelli («ho l’impressione di non riuscire a rappresentare le lavoratrici alla catena di montaggio») parla Boccuzzi, l’onorevole democrat ex dipendente della Thyssen Krupp
di Ettore Maria Colombo


«Soffro troppo a sostenere le politiche di Monti. Mi dimetto da deputata». Così ha detto, ieri, in un’intervista all’Unità rilasciata ad Andrea Carugati, Lucia Codurelli. Lecchese, 61 anni, ex operaia, già delegata di fabbrica per la Cgil, poi a lungo dirigente dei Ds, la Codurelli dice addio al Parlamento con una lettera inviata già da giorni al presidente della Camera: «Ho l’impressione di non contare niente, di non riuscire a rappresentare le operaie alla catena di montaggio, la parte del Paese sul quale più si accanisce la manovra varata dal governo Monti». Per diventare effettive le dimissioni andranno, in ogni caso, votate dall’Aula di Montecitorio, la quale, per norma e per prassi, le respinge, almeno la prima volta. Vedremo se la Codurelli ci ripenserà, ma certo è che, per quanto ne abbia parlato a lungo con il segretario del Pd, che l’ha invitata a recedere («Lucia, non sei mica solo tu a soffrire», gli avrebbe confidato il segretario, stando all’Unità, che è come dire: «Stiamo soffrendo pure noi») la deputata ex-operaia non appare intenzionata a recedere. «Non sono l’unica. Siamo in tanti, nel grup-
po del Pd, a essere in sofferenza», spiega la Codurelli. Tra di loro c’è, di sicuro, Antonio Boccuzzi. Classe 1973, torinese, ex operaio della Thyssen Krupp («è solo da pochi mesi che non lo sono più»), ex delegato Uil, carattere mite, ma codino da rasta, Boccuzzi ha visto la morte in fac-
cia, in quel rogo maledetto. Se la Codurelli si dimetterà davvero, resterà lui solo a potersi fregiare della qualifica di “ex operaio”, nel gruppo parlamentare del Pd.
Vorrebbe chiedere alla Codurelli di ripensaci?
Sì, ma prima voglio parlarle in privato. Avevo percepito il suo disagio, ma non credevo si sarebbe dimessa. Vede, abbiamo lavorato tanto, io e lei, in commissione Lavoro e anche tutti gli altri, come il mio amico torinese Stefano Esposito, per portare a casa dei risultati. E qualcosa abbiamo ottenuto. Io ed Esposito ci volevano astenere, per dare un segnale, almeno, di malessere, poi Bersani ci ha convinto. Non tutto è chiuso, c’è il decreto Milleproroghe dentro il quale vanno inseriti, assolutamente, i provvedimenti che non siamo riusciti a mettere dentro la manovra economica: norme a favore dei lavoratori più deboli, quelli più penalizzati. La battaglia, per me, è appena cominciata. E intendo portarla avanti, in Parlamento e fuori, con la Cgil e con tutti gli altri sindacati confederali. Che sono casa mia, a differenza di altri che stanno nel Pd.
Soddisfatto, allora?
Guardi, questa manovra manca di equità, e in modo pesante, questo è sotto gli occhi di tutti. C’è molto poco sulle pensioni d’oro, che poteva essere tassate molto di più del livello attuale, il 15%. Anche i capitali scudati potevano essere tassati di più. Non c’è la patrimoniale e molto altro ancora. E anche dire, come stanno dicendo Monti e Fornero, che poi ci sarà il secondo tempo non va bene.
Dunque?
Il Pdl ha posto veti grandi come una casa su questo e su altro. Non si poteva fare di più. Vede, nelle assemblee che faccio in giro per l’Italia o dalle mie parti, con l’eccezione di quelli davvero in difficoltà,
la gente normale è pronta a fare sacrifici, però chiede che li facciano anche gli altri, specie i più ricchi, non da soli. Bere la pillola amara va bene, è necessario, ma insomma, che la bevano tutti, almeno è
meno amara.
Parliamo di Pd, uno vede in tv Sergio Cofferati e Pietro Ichino e pensa: stanno in due partiti diversi?
Guardi, anch’io, quando vedo queste scene, vivo un senso di spaesamento e, anche, di confusione. Non
va bene. Non è che io neghi il principio democratico, ma se c’è una linea, votata a larga maggioranza, come quella stabilita dalla Conferenza nazionale sul Lavoro del Pd tenuta a Genova, tutti dovrebbero attenersi a quella. E alla voce del segretario. Sento, invece, troppe voci discordanti e che stonano, a partire dall’articolo 18. Licenziare, già oggi, è molto facile, glielo posso garantire io, e pensare di stravolgere lo Statuto dei Lavoratori è assurdo. Il Pd deve parlare con una voce sola.

La Stampa 24.12.11
Sette milioni per Radio Radicale

Anche stavolta Radio Radicale riesce ad acchiappare i finanziamenti che le sono necessari. Stavolta il «poche-proroghe» concede per il 2012 sette milioni di euro, presi dai fondi (certo non abbondanti) disponibili a sostegno dell’editoria. Scelta che solleva le proteste di Franco Siddi, segretario della Fnsi.

l’Unità 24.12.11
Con il Milleproroghe soldi a Radio radicale, tagli al Fondo editoria
di Roberto Monteforte


Bel regalo per Natale a Radio Radicale. Viene confermata la convenzione con lo Stato ed anche lo stanziamento di oltre sette milioni di euro. Lo indica la bozza del «Milleproroghe». Che però prevede che la copertura per la spesa sia garantita da una «riduzione dell’autorizzazione di spesa» degli stanziamenti previsti nella
legge del 25 febbraio del 1987 che rinnova la legge 416 sull’editoria.
Tradotto vuole dire che quei sette milioni di euro saranno sottratti al già brutalmente tagliato Fondo per l’editoria. Un vero paradosso, visto che sono molte le testate a rischio chiusura proprio per l’eseguità del Fondo. Lo denuncia con energia il segretario della Fnsi, Franco Siddi. «Il ripristino dei fondi a Radio Radicale affermanon sia a scapito degli obblighi verso la carta stampata, il cui fondo è stato ingiustamente impoverito mentre è indispensabile che sia al più presto ripristinato». «Se esiste un problema di recupero di Radio Radicale continua non può passare su una legislazione destinata al sostegno della carta stampata già oltremodo mortificata e con oggi molte testate a rischio moria e centinaia di posti di lavoro in bilico. Non si può applicare il principio vita tua, mors mea. Si trovino per Radio Radicale conclude vie giuste e non improprie».
Quanto la crisi sia pesante lo testimonia Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista. Proprio a causa dei tagli al «finanziamento diretto» l’edizione cartacea chiuderà i battenti dal prossimo 1 ̊ gennaio. La redazione ha avuto un incontro con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Carlo Malinconico che ha riconosciu-
to riferendosi a Liberazione come «siano da tutelare e valorizzare realtà editoriali di particolare rilievo». Oltre alla «sua profonda preoccupazione», Malinconico che ieri è stato ricevuto da Napolitano al Quirinale ha auspicato «una soluzione che consenta la continuità editoriale ed occupazionale». Ma in quali tempi? È quello che Siddi gli ha chiesto, invocando «un esito concreto e rapido» per quella testata e per le altre che rischiano la chiusura». L’altra richiesta al Governo è stata quelle di «far conoscere rapidamente l’ammontare reale delle risorse disponibili con l’integrazione delle quote del cosiddetto “Fondo Letta” al fine «di consentire alle imprese in difficoltà di poter fornire idonee rassicurazioni alle banche ed avere così accesso al credito».
Ora senza correzioni al Milleproroghe, la situazione sarà ancora più drammatica.

il Fatto 24.12.11
La Casta ingrassa sulla nostra pelle
Si allarga lo scandalo alla Regione Lazio Non solo pensioni e vitalizi ad assessori “esterni” e decaduti: anche ricchi incarichi a candidati Pdl trombati. Ma chi li ferma?
di Carlo Tecce


La manovra Polverini prevede 1,4 miliardi di tagli e aumenti di imposte, con il bollo auto che sale del 10 per cento e la benzina di 20 centesimi
POLVERINICRAZIA Oltre ai nuovi vitalizi, i posti d’oro nelle aziende esterne alla Regione

Il pacco firmato Regione La-zio è complicato. La manovra dei vitalizi per assessori esterni e consiglieri decaduti nasconde tagli e tasse per 1,4 miliardi di euro. Come incartare i sacrifici (per i cittadini) con i privilegi (per i politici). Eppure il governatore Re-nata Polverini mette su il viso del dispiacere, quel senso di pudore nel chiedere euro ai cittadini, sempre e comunque ai cittadini: “Era l'unica possibile”.
GIÀ, MICA poteva lasciare senza pensione la Giunta oppure i tre consiglieri del centrodestra transitati per sbaglio in Regione? Il regalo farà contento il sindaco Giovanni Di Giorgi che, nervosamente, deve scegliere la poltrona giusta: resta nel Consiglio laziale o si dedica al comune di Latina? Un dilemma e un sollievo: qualsiasi decisione prenda Di Giorgi, il vitalizio è garantito a 50 anni con una riduzione del 5 per cento, a 55 al 100 per cento. Nessun dubbio, però, sui rincari: aumentano le imposte (+0,33% Irpef), la benzina con un'accisa inedita (20 centesimi al litro), il bollo per l'automobile (+10%). Mentre calano i fondi per il sociale e le opere pubbliche (-100 milioni di euro). Com'era? “L'unica manovra possibile”. Peccato che il centrosinistra suggeriva al Governatore di vietare un mal costume tipico di una regione grossa, indebitata e spendacciona: un dirigente pubblico deve rispettare un tetto massimo di stipendio senza cumulare l'incarico in corso con il vitalizio regionale.
NON CONOSCIAMO la risposta perché l'ex sindacalista si è rifiutata di rispondere ai partiti di opposizione: rischiava di bombardare l'alleanza con il Pdl che si regge sui favori reciproci e il potere condiviso. Il mandato Polverini ha un difetto di nascita: la lista dei berlusconiani rimase fuori perché presentata in ritardo, e dunque i cacicchi locali, non eletti, andavano sistemati. Quelli che sommano lo stipendio pubblico con il vitalizio già maturato in banca o in tasca. Ecco i sei candidati trombati in partenza e ora, momentaneamente, occupati in aziende satelliti della Regione Lazio. C'è l'imprenditore Luigi Celori, 54 anni, a spasso con una rendita di tre legislature: è stato nominato presidente di Autostrade del Lazio, superati mesi di inattività politica. C'è Tommaso Luzzi, 61 anni, per 15 anni in Regione: si è accontentato di Astral, una società che pulisce e asfalta le tangenziali e i raccordi. C'è il socialista Donato Robilotta, 56 anni, commissario straordinario di Ipab Sant'Alessio, un centro per ciechi che gestiva un imponente patrimonio immobiliare. C'è Bruno Prestagiovanni, 54 anni, commissario straordinario di Ater Roma, un carrozzone che assegna le case pubbliche. C'è Massimiliano Maselli, 44 anni, presidente di Sviluppo Lazio, dove transitano bandi di gara e studi scientifici. C'è Erder Mazzocchi, 43 anni, commissario straordinario di Arsial, l'agenzia regionale per l'agricoltura. I magnifici sei incassano un degno e meritato stipendio pubblico, servono serenamente le istituzioni sapendo di incassare (in futuro o adesso) un sostanzioso vitalizio. I magnifici sei, soprattutto, assicurano l'esistenza politica di Re-nata Polverini.
AL TRAGUARDO di una serie di nomi e scrivanie, fra le proteste cestinate e negate, c'è un'ultima idea che i partiti di opposizione hanno presentato al governatore: perché confermare il rimborso chilometrico per i consiglieri? Vi può suonare stonato, ma i rappresentanti laziali, se abitano a 15 chilometri dal palazzo regionale, recuperano un quinto di un pieno di benzina. I 71 consiglieri laziali vengono pagati per il mandato in Regione (indennità), per essere presenti in aula (diaria), per raggiungere il palazzo (rimborso), per presiedere o partecipare in commissione (e sono venti). Però, va detto che la Polverini ci ha provato. Voleva fare una manovra con meno tasse ai cittadini e più tagli ai politici. Il Governatore ha deluso i cronisti che speravano in un ripensamento sui vitalizi: “Niente passo indietro. Da due giorni siamo in linea con le altre Regioni. Avevamo una discriminazione che colpiva solo i nostri assessori esterni, abbiamo messo le cose a posto”. E il Codacons che fa ricorso contro la manovra? “Che devo fare? ”, ha risposto la Polverini. Se sapesse cosa fare, sarebbe il governatore del Lazio che toglie ai ricchi e dà ai poveri, non viceversa. O forse, caspita, è proprio lei?

il Fatto 24.12.11
Dalle tessere dell’Ugl all’elicottero per la “sagra del peperoncino”


Lei, Renata Polverini, ha anche parlato di accanimento. Troppe cose e tutte insieme, specialmente a partire dalla sua candidatura alla presidenza del Lazio, nell’era post-Marrazzo. Si è parlato di presunto “tesseramento gonfiato all’Ugl”, il sindacato di destra che per anni l’ha vista protagonista. “colpevole”, in primis, la redazione di Report, poi alcuni articoli di Libero ed Europa. In sostanza, i numeri di iscritti venivano alterati in modo tale da avere un maggiore peso negoziale al tavolo con gli altri sindacati e negli organismi ed enti previdenziali. La Polverini, alla fine, si è giustificata e ha spiegato che l’Ugl non si sarebbe comportata in modo diverso dagli altri sindacati. Quindi la vicenda legata a un appartamento: abitava in una casa dell’Ater (Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica) sull’Aventino, zona molto chic di Roma, con affitto a prezzi popolari. La giustificazione? “Da tre generazioni ci abita la famiglia di mio marito”. Peccato che le case degli enti non si possono ereditare: l’assegnazione varia al variare del reddito. E ancora il 22 luglio del 2011, quando il Fatto Quotidiano scopre che il presidente del Lazio raggiunge Rieti (un’ora d’auto da Roma) con un elicottero messo a disposizione dalla Protezione civile. L’evento imperdibile era la “Sagra del peperoncino”. Al cronista che le chiede spiegazioni specifiche non risponde. Poi sibila: “Non ho nulla da spiegare. Pago tutte le spese che faccio, non scoprirai nemmeno una cena a mio carico. L’importante è che non vado con i soldi pubblici, vai tranquillo caro”. L’affettuoso “caro” del presidente regionale è anche accompagnato da spintoni e insulti di Rositani: “Vada via, cretino, altrimenti la prendo a schiaffi. Non ha capito? Le do uno schiaffo”. Ma sulla vicenda Renata Polverini ha poi proseguito assicurando che l’elicottero: “Lo userò ancora se avrò bisogno di conciliare, da presidente, la mia presenza in più contesti”. Ora si riapre un nuovo capitolo della Polverineide, lo scandalo dei vitalizi.

il Fatto 24.12.11
Insulti anche a Riccardi
Nuovo attacco on line contro gli ebrei romani
di Federico Mello


É il caso di cominciare a riflettere seriamente su ciò che sta avvenendo su Internet in questi giorni. Dopo il caso del forum nazista Stormfront, un altri gravi atti di odio antisemita è stato denunciato ieri. “Ecco i nazisti-ebrei, membri della cupola mafiosa ebraica”. Questo il titolo che sovrasta un poster di propaganda apparso sul sito antisemita Holywar nel quale sono riportati nomi, cognomi e fotografie di collaboratori del sito della capitale Romaebraica.it . La denuncia è arrivata da Giacomo Kahn, direttore del mensile “Shalom” sul sito stesso della Comunità ebraica romana. Nel poster – ripubblicato proprio da Romaebraica.it   –, in mezzo a numerosi deliri che fanno il verso a una sorta di integralismo cattolico di stampo razzista e violento, si invitano i cattolici a un maggior impegno “contro l’intolleranza ebraica”. “Questi schiavi di Satana – prosegue il poster che mette in effigie una Stella di Davide con al centro una svastica – vogliono la distruzione della Chiesa cattolica”. Segue poi una lunga lista di personaggi – ebrei e non – indicati come appartenenti alla “cupola”.
Kahn denuncia una vera e propria campagna antiebraica: “Ogni volta che si affrontano temi che riguardano la Comunità ebraica – le sue parole –, ogni volta che denunciamo derive antisemite della società italiana, ogni volta che denunciamo tentativi negazionisti e interpretazioni riduttive della storia della Shoà, i nostri nemici vengono allo scoperto e si scatenano, organizzando campagne antiebraiche che diventano vere e proprie istigazioni alla caccia all’uomo”. Non solo: “Da tempo l’antiebraismo, specie quello che si esprime attraverso la rete, ha assunto toni sempre più aggressivi nei confronti degli ebrei, ne abbiamo data ampia testimonianza sul sito della Comunità Ebraica, ricordando le recenti liste nere e le minacce di Militia”. Anche questa volta il sito pubblica foto degli esponenti della comunità ebraica e redattori del sito come se fossero bersagli. Sono in atto, conclude Kahn, “le procedure per la denuncia, presso la Polizia postale, di questo attacco antisemita che attraverso la diffamazione e la menzogna vorrebbe spegnere la voce della comunità ebraica italiana”.
Sempre ieri, inoltre, è stato utilizzato un articolo de Il Giornale per attaccare il ministro per l’Integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi: lo ha usato un partecipante al forum sulle pagine italiane del sito neonazista Stormfront.
L’articolo è di Paolo Granzotto ed è stato pubblicato sul quotidiano milanese il 18 dicembre scorso. Il ministro viene criticato per aver avanzato, dopo i gravi fatti di Torino, l’idea di dare case ai Rom e di mandare a scuola i loro figli. Non solo. Il forum pubblica un altro articolo, questa volta del giornalista Maurizio Blondet, che definisce Riccardi “cripto-giudeo” e “cattolico noachide” (il noachismo è un sistema morale nella tradizione ebraica) e mostra la foto del ministro a Torino, in visita presso la comunità ebraica.
Questa nuova ondata di antisemitismo digitale, suscita la reazione del Pd: “Preoccupa l’aumento in questi giorni di aggressioni antiebraiche sulle pagine dei più conosciuti siti antinazisti e antisemitì” dicono i responsabili sicurezza e giustizia del Pd, Emanuele Fiano e Andrea Orlando. “Ci auguriamo che la magistratura, come nel caso del sito Stormfront voglia procedere rapidamente per istigazione all’odio razziale e diffusione di idee diffamatorie. Rimane tuttavia ancora la sensazione che in un periodo di grave crisi sociale, lo stereotipo antisemita riemerge sempre con rinnovata forza come nel caso del sito Holywar con i volti e i nomi di appartenenti alla comunità ebraica di Roma a cui va la nostra solidarietà”. I democratici si stringono anche intorno al ministro Riccardi “oggetto anche lui di ingiurie e offese che certamente non fermeranno il suo impegno per l’integrazione e la tolleranza”.
Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, condanna “ogni forma di antisemitismo e di incitamento alla violenza razziale”, ed “esprime solidarietà alla comunità ebraica di Roma e a tutti coloro che il sito antisemita Holywar cita nel suo delirio diffamante”.

il Fatto 24.12.11
Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg
Tv: l’Italia non è libera
di Marina Castellaneta


Rafforzare il pluralismo nel segno della libertà di stampa. Lo chiede il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg che nello studio del 6 dicembre sul pluralismo nei media e i diritti umani (CommDH (2011) 43) disegna la mappa della situazione dei media tradizionali in Europa e dei rischi per la democrazia provocati da situazioni di monopolio, tutt’altro che scomparsi malgrado l’avvento di nuovi strumenti di comunicazione.
Un posto di primo piano tra gli Stati che subiscono effetti negativi proprio per la presenza di situazioni monopolistiche lo conquistano le nuove democrazie sorte dalle ceneri dell’ex Unione sovietica e l’Italia. L’ex Rappresentante dell’OSCE sulla libertà dei media Miklos Haraszti, che ha curato lo studio, mette l’accento sull’anomalia italiana che mostra come il monopolio possa “provocare rischi gravi anche nelle più antiche democrazie”. La libertà di stampa e di espressione godono buona salute in Italia, ma – si precisa nello studio – questo non vale per il settore televisivo dominato da un duopolio Rai e Mediaset che, tra l’altro, si trova in una situazione di monopolio tra le televisioni commerciali e nel mercato pubblicitario. Tutto aggravato dal fatto che l’ex premier Silvio Berlusconi non sono solo è comproprietario di Media-set, ma è stato anche capo del governo con forti controlli sul sistema televisivo pubblico. In barba agli standard europei che vietano a politici la proprietà e il controllo di emittenti televisive per evitare interferenze politiche o di governo sulla libertà di stampa. “La Germania e il Regno Unito – scrive Haraszti – impongono restrizioni sulla diretta proprietà o controllo delle emittenti da parte di attori politici; i Paesi Ue richiedono indipendenza dai partiti e dai politici. L’Italia, a dispetto della legge Frattini, non ha fatto niente”.
A nulla è servita le leggi Gasparri e Frattini del 2004. Scarsi anche i risultati dal passaggio dall’analogico al digitale che, malgrado la novità, consentono ai due soggetti che controllano la televisione (Rai e Mediaset) di usare la propria forza economica anche nel mercato digitale.
In tutta Europa, poi, spirano venti di monopolio. Troppi i segnali che mostrano una tendenza a forme di concentrazione tra i media tradizionali. Con difficoltà sia per le televisioni indipendenti che non riescono a ottenere licenze e sia per i giornali nella distribuzione delle copie. Non mancano mezzi anche più sottili con grandi gruppi che comprano pubblicità unicamente nei media fedeli. In Europa, poi, c’è ancora una concentrazione dei mass media nelle mani di pochi gruppi editoriali con maggiori rischi di interferenze con la linea editoriale di stampa e televisione.
NON BASTA QUINDI l’avvento del digitale per raggiungere, almeno sul fronte televisivo, maggiore pluralismo. Certo, è risolto il problema della scarsità delle frequenze, ma non automaticamente quello provocato da situazioni di monopolio. La Commissione europea dovrebbe intervenire con maggiore forza. L’impero editoriale di Murdoch è stato oggetto di poca attenzione da parte di Bruxelles sul fronte del rispetto delle regole di concorrenza, mentre la Commissione ha riservato maggiore attenzione a Spagna e Francia che stanno provando a cambiare il sistema televisivo pubblico “decommercializzando” e provando ad attingere risorse in altro modo. Un intervento visto con favore nello studio perché mettere a disposizione della collettività un canale libero da annunci commerciali incrementa la qualità della televisione e permette la diffusione di programmi funzionali alla diversità culturale. È vero che la concorrenza è essenziale, ma i media non possono essere considerati semplicemente come un altro mercato. Non vanno esclusi, quindi, sgravi fiscali e aiuti a patto che la loro concessione sia indipendente da ogni valutazione sui contenuti. Un trattamento particolare deve poi essere riservato al servizio pubblico considerato dal Consiglio d’Europa, in molti documenti, come uno strumento per la costruzione della democrazia, per la tutela dei diritti umani e per la salvaguardia delle diversità culturali (si veda lo studio specifico sul servizio pubblico, CommDH (2011) 41).
Nessun dubbio, poi, che i nuovi media grazie a Internet cambiano gli scenari e consentono maggiore pluralismo, ma c’è un rischio perché lo sviluppo delle reti ha spinto alcuni governi a intervenire così come era accaduto con l’avvento della televisione, ossia con un eccessivo controllo statale.

l’Unità 24.12.11
Città satelliti fantasma
La bolla immobiliare spaventa il colosso Cina
Grattacieli semivuoti, scuole senza bambini, vigili urbani lungo strade deserte L’edilizia sembrava un settore trainante dell’economia e si costruisce ancora ma Pechino ora annuncia una frenata e impone tasse più alte sulla casa
di Gabriel Bertinetto


Gengis Khan, imperatore a corto di sudditi. Nella grande piazza di Kangbashi la sua statua troneggia in solitudine. Una città progettata e costruita per ospitare almeno un milione di persone mostra tutto il suo spettrale splendore di palazzi disabitati, cinema senza spettatori, scuole a frequenza zero, negozi che non si sono mai riempiti né di merci né di compratori, larghe arterie stradali dove scorre lentissimo solo il tempo e il traffico è assente. Un’immensa e ordinata colata di cemento e asfalto spicca nel cuore desertico della Mongolia interna cinese. Attorno al luogo in cui sino a sei anni fa non c’era che un minuscolo villaggio, si estende su una superficie di 35 chilometri quadri il nuovo, e assai ipotetico, capoluogo della prefettura di Ordos.
Fenomenale investimento edilizio basato sul pronostico di eventi che non si sono materializzati. Grazie al sottosuolo zeppo di carbone e gas naturale (rispettivamente un sesto e un terzo delle risorse nazionali), il reddito medio degli abitanti del luogo è uno dei più alti di tutta la Cina. C’erano le premesse perché i nuovi ricchi locali investissero in quello che si prospettava come un grosso affare. Ed effettivamente quasi tutti gli appartamenti sono stati comprati subito, sulla carta. Acquisti speculativi, effettuati nella previsione di rivendere a breve scadenza o affittare a caro prezzo. Ma in quelle case ad abitare non ci vuole andare nessuno. A tutt’oggi a Kangbashi vivono poco più di 20mila persone, sperdute, pressoché invisibili.
Follie del deserto mongolo? Spostiamoci duemila chilometri a sudest, alle porte di Shanghai, capitale del miracolo economico cinese.
Sembra Kangbashi, ma si chiama Lingang.
Città satellite sorta in espansione circolare attorno a un rotondo lago artificiale largo tre chilometri. In sei anni a partire dal 2005 sono stati spesi complessivamente oltre 16 miliardi di euro. Quaranta chilometri di strade. Ventiquattro ponti. Canali e giardini. Condomini, uffici, e centri commerciali. C’è davvero tutto quello che serve a una articolata e funzionante convivenza urbana. Mancano solo i fruitori. Chi l’ha visitata di recente, ha notato netturbini e vigili urbani al lavoro per ripulire marciapiedi che nessuno sporca e garantire l’ordinata circolazione di vetture che non passano mai. Degli 800mila abitanti previsti entro il 2020, a Lingang per ora non si vede l’ombra.
Kangbashi, Lingang. Non sono casi isolati. Il territorio della Repubblica popolare è costellato di città o quartieri tirati su in gran fretta nell’entusiastica illusione di uno sviluppo illimitato. Le banche hanno imprestato senza freni a imprese e individui accecati dal miraggio di un arricchimento facile e quasi inevitabile. I prezzi sono saliti vertiginosamente. Parte di coloro che si erano indebitati per inseguire il miraggio edilizio, non riescono più a pagare le rate. Parte di coloro che hanno investito nel mattone, si ritrovano proprietari di un bene di cui non possono disporre perché scarseggiano ormai gli acquirenti. Tanto che i prezzi stanno ora scendendo altrettanto precipitosamente di quanto erano cresciuti.
In altre parole in Cina si sta passando dal boom alla bolla. All’orizzonte del miracolo economico cinese si profila l’incubo vissuto negli ultimi anni da centinaia di migliaia di persone in Occidente, tra case requisite a debitori insolventi, imprese costrette a chiudere, banche sull’orlo della bancarotta.
Pechino annusa il pericolo. E vara misure per contenere la spirale inflazionistica, ad esempio imponendo limiti all’erogazione del credito, mentre viene allo scoperto la «fragilità» del sistema bancario cinese.
Secondo il Fondo monetario internazionale, le banche locali sono abbastanza robuste da sostenere crisi isolate, ma verrebbero travolte dal cumulo fra eccesso di emissioni creditizie ed esplosione della bolla immobiliare. «Sembrano costruite sulla sabbia», commenta Jim Chanos, presidente del fondo di investimento Kynikos, che ha deciso di vendere le proprie quote nella Banca dell’Agricoltura, una delle più grandi in Cina, proprio mentre lo Stato, attraverso il Fondo governativo di sicurezza ha iniziato a comprare azioni delle quattro maggiori banche nazionali, per proteggerle dal rischio di un ulteriore indebolimento.
Recentemente il vice premier Li Keqiang ha dichiarato che «la Cina manterrà le restrizioni vigenti nel mercato». Vale a dire sono confermate le misure varate un anno fa per correggere gli squilibri nel settore edilizio. Fra i provvedimenti per impedire lo scoppio della bolla, tasse più alte sulla casa, e in alcune città il divieto di possederne più di una. In pratica le autorità stanno tentando di rimediare ai guai provocati da loro stesse con l’immissione selvaggia di capitali agli inizi del decennio.
Insomma è tempo di rivedere alcuni luoghi comuni diffusi da qualche tempo in Occidente sulla Cina. Ciambella di salvataggio per i Paesi del Vecchio e Nuovo continente che affogano nei debiti. Inesauribile fucina di prodotti destinati ai mercati esteri. Immenso bacino d’acquisto per le merci in arrivo dall’Occidente. Questo era diventato a poco a poco la Cina nell’immaginario collettivo grazie alla straordinaria crescita degli ultimi anni, lo sviluppo edilizio, la modernizzazione tecnologica. Una foto troppo nitida, cui necessita più di un ritocco per assomigliare di più al vero.

La Stampa 24.12.11
Wall Street manda gli 007 a studiare la crisi cinese
I grandi investitori non hanno dubbi: il Dragone è a rischio
di Francesco Semprini


ROMA Natale Anche a Wall Street gli addobbi natalizi la fanno da padroni Quest’anno la Borsa Usa ha sofferto con tutte le piazze mondiali Ora punta il dito sul rischio cinese: e prepara le sue contromisure
Sono al lavoro da mesi, impegnati a raccogliere ogni indizio utile, a visionare ogni giuntura della mastodontica ossatura del Dragone. Sono gli 007 arruolati dai fondi speculativi, «task force» inviate sul territorio cinese con l’obiettivo di raccogliere dati, filtrarli, ed elaborarli per consentire la formulazione di strategie a prova di crisi.
Sempre più spesso basate su scommesse al ribasso. Perché lo tsunami finanziario dopo aver travolto Stati Uniti ed Europa, farà rotta verso l’Estremo oriente. Ne sono convinti molti hedge fund che da mesi inviano i loro 007 a Shenzen, Guangzhou o Pechino per capire di che magnitudo possa essere il rischio cinese. Emerging Sovereign Group, il fondo controllato per il 50% dal private equity Carlyle, ha spiegato al Financial Times di aver parlato chiaro ai propri clienti: «Pensiamo che il prossimo atto della crisi andrà in scena in Oriente», nonostante le misure aggressive varate dal governo cinese per far fronte alla recessione. C’è da temere, commentano gli analisti, non solo perché Esg è un’autorità in materia (ha fiutato prima di altri la crisi in casa euro). Ma anche per la volatilità degli indicatori: l’indice Shanghai Composite da aprile ha registrato una contrazione del 27%, il Pil cinese ha rallentato la corsa dal 10,4% del 2010 al 9,2% del 2011, e le previsioni per il 2012 lo danno a +8,3%.
Si è contratto il rapporto tra consumi privati e crescita, mentre le fonti di finanziamento si sono ridotte, per non parlare delle perdite di novembre registrate dal manifatturiero. «Questo può dare un’idea delle dimensioni della debolezza», dicono gli strateghi di Brevan Howard, hedge fund con 32 miliardi di asset gestiti, secondo cui il problema è costituito anche dai dati governativi che offrono solo una visione parziale. Ecco così che per far fronte ai lati oscuri della comunicazione pechinese spiega Ft alcuni fondi come Glg Partners hanno arruolato squadre di 007 da inviare sul territorio.
A pensar male del resto non si sbaglia del tutto: c’è chi a scommettere contro la Cina ci ha guadagnato e come, specie nell’ultimo anno. Ariose China Growth Fund, ad esempio, ha registrato un rimbalzo del 35% nei ricavi, mentre Hugh Hendry, il guru scozzese di Eclectica Asset Management che con il suo «China Short» ha messo a segno un +52%. Come? Puntando al ribasso su titoli del settore automobilistico ma soprattutto immobiliare. Il «real estate» sembra essere il tallone d’Achille della seconda economia mondiale, anche perché rispetto agli Usa, dove sono stati privilegiati i consumi, le risorse finanziarie liberate dal governo cinese sono confluite per la gran parte in infrastrutture e mattone, generando effetti inflattivi. Da qualche tempo però si sta registrando un calo nel valore degli immobili, un’ombra sull’orizzonte economico nazionale e non solo. Tanto da permettere ad Hendry di conquistare l’appellativo di nuova Cassandra per il video girato nel 2009 in un distretto finanziario di Guangzhou desolato, tra grattacieli quasi vuoti e palazzi semideserti. La sua clip è cliccatissima su YouTube. Nel 2011 degli spazi adibiti ad uso ufficio risultano vuoti il 14% a Shanghai e il 9% a Pechino, mentre «le vendite immobiliari a settembre e ottobre, i mesi di maggior fermento, sono calate dal 40 al 60% su base annuale», avverte James Chanos, fondatore del fondo Kynikos Associates. Il gestore di origini elleniche è convinto che la bomba cinese sarà mille volte più potente di quella di Dubai e per questo ammonisce le agenzie di rating per i «giudizi rosei» elargiti al Dragone: «Attenti l’hard landing della Cina è già cominciato».
E questa volta Pechino sembra poter far poco rispetto al 2008, spiega Gordon Chang, autore de «Il prossimo collasso della Cina». Il paese sta andando incontro a una transizione politica come ne avvengono una ogni dieci anni, «destinata a proseguire sino al 2014 quando la nuova leadership si sarà stabilmente insediata». Questo secondo Chang crea una semiparalisi ai vertici di Pechino per la quale i «tecnocrati possono adottare solo modeste misure destinate a rivelarsi inadeguate».

La Stampa 24.12.11
Continua la repressione della “rivoluzione dei gelsomini”
Cina, Chen Wei condannato a 9 anni per quattro articoli pubblicati sul Web
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG Giro di vite
Protesta in Cina Sono sempre più limitate le possibilità di espressione dei dissidenti anche su Internet

Finisce con una sentenza durissima il tentativo di portare in Cina una ventata di gelsomini: l’attivista per i diritti umani Chen Wei, 42 anni, detenuto da 10 mesi, è stato condannato ieri a 9 anni di prigione per aver scritto quattro articoli su Internet, inneggiando alla nascita della società civile in Cina, nello scorso febbraio, quando alcuni dissidenti cinesi avevano auspicato delle proteste che si ispirassero alle rivolte mediorientali.
Gli articoli, alcuni dei quali ospitati da siti esteri quali Human Rights in China, un’organizzazione di dissidenti in esilio, chiedevano il diritto alla libertà di espressione, e sono costati a Chen la condanna per «incitamento alla sovversione del potere di Stato». Uno dei più letti si intitola semplicemente «Le malattie del sistema, e la democrazia costituzionale come medicina»: ma evidentemente già questo è stato troppo per le autorità cinesi.
Il processo si è tenuto nella città di Suining, nel Sichuan, ed è durato meno di due ore. Secondo quanto dichiarato dall’avvocato di Chen, Zhen Jianwei, l’attivista non ha nemmeno potuto rilasciare una dichiarazione, ed ha potuto consultarsi con il suo legale appena due volte da febbraio. La pena è di gran lunga la più severa comminata alle più di 130 persone arrestate dall’inizio dell’anno dopo il tentativo di «rivolta dei gelsomini», ed è paragonabile solo alle pene durissime subite dal Nobel per la Pace Liu Xiaobo, condannato a Natale del 2009 a 11 anni, e da Liu Xianbin, condannato a 10 anni per aver scritto articoli pro-democrazia.
In tutti e tre i casi, si tratta di attivisti che hanno avuto un ruolo importante nelle proteste di Tiananmen del 1989, e che hanno già scontato pene detentive per la loro partecipazione a quel movimento. Chen Wei torna in prigione per la terza volta, sempre per reati d’opinione: dopo due anni di carcere per il suo ruolo a Tiananmen, infatti, Chen venne nuovamente condannato nel 1992 per aver cercato di organizzare una commemorazione pubblica del massacro di Pechino che mise fine alle proteste del 1989, e trascorse cinque anni dietro le sbarre. Inoltre, tutti e tre gli attivisti sono fra le centinaia di firmatari della Carta 08, un testo prodemocrazia ispiratosi alla Carta 07 cecoslovacca, in parte scritto da Liu Xiaobo, che chiedeva alle autorità cinesi vaste riforme politiche.
Chen, ha fatto sapere l’avvocato, avrebbe deciso di non richiedere un processo d’appello, ma ha ribadito la sua innocenza, e dichiarato che «la democrazia prevarrà». Oltre ai nove anni di prigione, Chen dovrà anche scontare due anni aggiuntivi di interdizione dai pubblici uffici.
Immediatamente, numerosi gruppi per i diritti umani, da Amnesty International e Pen International all’organizzazione cinese in esilio Chinese Human Rights Defenders hanno condannato la sentenza, chiedendo l’immediata liberazione di Chen.
La Primavera dei Gelsomini cinese, prima ancora di essere riuscita a sbocciare, si conclude con un pesante inverno. "Il processo è durato due ore. Il dissidente era stato già in prigione per Tiananmen"

l’Unità 24.12.11
Dura condanna per il dissidente Chen leader di Tienanmen


Chen Wei, attivista dei diritti umani in Cina ed ex leader delle proteste di piazza Tienanmen nel 1989 e firmatario di Charta 08, la petizione che chiedeva riforme al regime, è stato condannato a 9 anni di carcere per «sovversione». Chen era stato arrestato lo scorso febbraio insieme ad altri dopo aver cercato di organizzare manifestazioni contro il regime
sull’onda delle rivolte arabe. La corte di Suining nella provincia di Sichuan ha condannato il 42enne dissidente dopo un processo durato tre ore nel quale gli sono stati contestati alcuni scritti critici nei confronti del partito comunista cinese. La condanna «per incitamento alla sovversione del potere dello stato» è stata una delle più dure comminate agli attivisti arrestati nell’ultimo anno. Chen ha ribadito in aula la sua innocenza aggiungendo: «La democrazia alla fine prevarrà e i dittatori cadranno». I suoi legali hanno riferito che non presenterà appello.

il Riformista 24.12.11
E la Cina (in Usa) scopre il fascino della religione
I giovani mandati a studiare nelle scuole private della “bible belt” si convertono sempre più spesso al cristianesimo. E il risveglio religioso spaventa anche il Partito, che si arrocca in difesa dell’ateismo
di Andrea Pira


Attraversano l’oceano, studiano e si convertono. I giovani cinesi scoprono la religione seduti tra i banchi delle scuole private confessionali della Bible belt americana, nel sudovest degli Stati Uniti. Se il proselitismo è vietato oltre la grande Muraglia, ha rivelato un’inchiesta di Bloomberg Businessweek, sempre più scuole protestanti, e in misura minore cattolica, svolgono opera missionaria in cattedra.
«In Cina non sarei potuta diventare cristiana» ha raccontato al settimanale Wu Haiying, 21 anni, ex studentessa alla Ben Lippen High School in South Carolina, dove arrivò su consiglio di un suo insegnante di inglese in Cina, un cristiano rinato. «Affinché una persona decida di convertirsi occorre tempo. Il forte spirito religioso che pervade la Ben Lippen ti fa quasi sentireindoverediavvicinartial cristianesimo».
Dei 108 studenti stranieri dell’istituto, 80 sono cinesi. Una «larga minoranza» si avvicina alla religione, ha spiegato il direttore del programma di inserimento, Emery Nickerson, convinto che il governo di Pechino non sarebbe contento quanto lui delle conversioni. Superato lo smarrimento iniziale, i ragazzi, catapultati senza preparazione in un ambiente di ferventi cristiani, fanno una scelta gradita ai dirigenti scolastici ma che lascia senza parole i genitori.
Gli insegnanti, i compagni di scuola, le famiglie che li ospitano, sono coinvolti nell’opera di proselitismo. «Persone che tengono talmente agli studenti cinesi tanto da volere che conoscano Gesù Cristo come lo conosciamo noi», ha sottolineato un ex direttore della scuola. Per i genitori cinesi, spiegano i consulenti, gli istituti confessionali garantiscano solidi valori morali, una preparazione adeguata e rette più economiche.
Gli Usa sono inoltre considerati una nazione cristiana, dunque questo tipo di scuole sono percepite come parte della cultura statunitense. Oltre ai corsi d’inglese, indispensabili per molti ragazzi che spesso mentono sulla loro reale conoscenza della lingua, si affiancano letture della Bibbia e partecipazione ai culti.
«Pechino è confusa ha detto al settimanale Daniel Bays, esperto di cristianità in Cina Il governo non può impedire ai genitori di mandare i figli a studiare all’estero. Teme il loro rientro in patria, ma non può farci molto». I cristiani in Cina oscillano tra gli 80 milioni e 125 milioni. Di questi, 12 milioni sono cattolici, divisi tra i 5 milioni di affiliati all’Associazione patriottica legata al Partito comunista e i fedeli delle chiesa sotterranea allineati al papa. Sebbene dal 1949 la Repubblica popolare sia uno Stato ufficialmente ateo, nel Paese convivono diverse religioni, dal buddhismo al taoismo, dal cristianesimo all’islam, sia nella sua versione uigura, sia tra i cinesi Hui, l’unica minoranza a distinguersi esclusivamente su base religiosa dal resto della popolazione.
Il risveglio religioso sembra non aver risparmiato neppure il Partito. Ne è una prova l’intervento del vice presidente del dipartimento per il Fronte unito, Zhu Weiquan, sulle pagine di Cercare la verità, rivista teorica del Comitato centrale del Pcc.
L’alto funzionario, incaricato di gestire il fascicolo Tibet, ha messo in guardia i suoi compagni dal diffondersi di pratiche religiose tra i membri del Partito. Gli oltre 80 milioni di iscritti devono essere atei, ha detto Zhu. «All’internodelPartitoc’èchi spinge per la revoca del divieto a professare una qualche fede. Sostengono che possa essere di aiuto ai quadri e alcuni, addirittura, che il divieto sia anticostituzionale ha aggiunto Ma la nostra politica verso la religione non è cambiata di una virgola».
Frasi pronunciate in chiusura di un anno che ha visto Pechino aprire uno scontro diplomatico con il Vaticano per le ordinazioni episcopali senza l’assenso papale con conseguente scomunica dei vescovi coinvolti; l’assedio al monastero buddhista di Kirti e le autoimmolazioni dei monaci in segno di protesta, e un’attenzione particolare al taoismo come tassello della strategia di soft power cinese.

Corriere della Sera 24.12.11
Anche la Paris Hilton russa scende in piazza contro Putin
Batosta alle urne e molti sospetti
Oggi nuova manifestazione con politici, blogger e star Il popolo scende in strada


MOSCA — Saranno in tanti e tra loro non mancheranno politici di lungo corso, intellettuali famosi, scrittori e vippume vario. Compresa Ksenia Sobchak, nota come Paris Hilton russa, che appena un anno fa si presentava a un'intervista col presidente georgiano Saakashvili (dopo la guerra del 2008) indossando una maglietta col ritratto di Putin, «l'amato premier».
La grande manifestazione di oggi degli indignati russi ha messo in fibrillazione il Paese. Quarantacinquemila persone si sono già impegnate a partecipare sulla pagina di Facebook. Registi, attori e altri personaggi di spettacolo hanno realizzato filmati in cui compaiono con un nastro bianco (come quelli della precedente dimostrazione che Vladimir Putin aveva scambiato per profilattici) con su il proprio nome e l'invito a scendere in piazza. La blogosfera è in fermento e ogni metodo appare buono per convincere la gente a non starsene a casa. Compreso quello escogitato da un sito che esorta le ragazze a non farsi scappare l'occasione di incontrare migliaia di maschi giovani, benestanti e intelligenti. Si, perché secondo tutte le rilevazioni, coloro che protestano sono soprattutto professionisti e intellettuali che vivono nelle grandi città, in particolare la capitale e San Pietroburgo. I membri di quelle che lo stratega del Cremlino Vladislav Surkov aveva bollato come «comunità urbane annoiate». Ma delle quali oggi Putin e il presidente Dmitrij Medvedev hanno deciso di tenere conto, per cercare di evitare danni peggiori.
E l'annuncio di una serie di misure per allentare la «democrazia guidata» è stato accolto con favore dal Consiglio d'Europa: «passi importanti per rafforzare la democrazia in Russia». Un giudizio che certamente ha fatto molto piacere al Cremlino, dove si sta cercando in tutti i modi di riportare la protesta sotto controllo, incanalandola verso lidi diversi da quelli dove sono approdate tutte le varie rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina, eccetera).
Così lo stesso Surkov, del quale peraltro Putin si starebbe per liberare, ha affermato in un'intervista che «il sistema è già cambiato». Le istanze della protesta, sarebbe il messaggio, sono già state accolte dal potere. Anche il capo della chiesa Kirill, che nei giorni scorsi si era lasciato andare a dichiarazioni che parevano incoraggiare i manifestanti, ieri ha espresso grande cautela: l'informazione che proviene dai network sociali rende i russi «particolarmente vulnerabili di fronte a manipolazioni». Il popolo farebbe bene a non farsi corrompere da questi siti. Il timore, ovviamente, è che agenti stranieri stiano operando nell'ombra per organizzare una rivoluzione, come ha più volte detto lo stesso Putin.
Intanto i manifestanti vanno avanti. Dopo il rifiuto di due strade vicino al Cremlino, hanno ottenuto dalle autorità la via intitolata ad Andrej Sakharov. Ci saranno praticamente tutte le opposizioni democratiche. Per non scontentare nessuno, gli oratori saranno 19, compresi famosi scrittori come B. Akunin e Dmitrij Bykov. Interverrà anche il blogger Aleksej Navalny, che ha scontato 15 giorni di carcere per la precedente dimostrazione.
Probabilmente salirà sul palco anche Mikhail Gorbaciov, che all'inizio aveva appoggiato in pieno Putin. «Mi sentivo veramente legato a lui, ma ora?» si è chiesto l'ex presidente sovietico. Le cose dette dal premier dopo le precedenti proteste (i profilattici e il resto) lo hanno veramente colpito: «Sono dispiaciuto. E provo veramente vergogna».
Come la Sobchak, anche altri personaggi famosi hanno deciso di cambiare fronte. La piazza sta diventando un luogo cool dove essere. E poi sono già migliaia gli utenti che hanno visto il filmato che si richiama al sito di relazioni sociali «teamo» (http://www.newsru.com/russia/23dec2011/kanun.html). Il messaggio è esplicito. All'ultima manifestazione c'erano tra 25 e 60 mila persone, per il 70% maschi. Il 65% aveva meno di 35 anni e l'80% disponeva di un reddito superiore alla media. Il 50% non era sposato. «Tiriamo le somme: migliaia di uomini perfetti e liberi; andiamo in piazza!».
Fabrizio Dragosei

Corriere della Sera 24.12.11
«Brogli in serie, a Mosca una democrazia da preistoria»
di Virginia Piccolillo


ROMA — Non c'è solo la piazza a chiedere conto a Vladimir Putin dei brogli. Il bureau dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha preso una decisione senza precedenti in Russia: inviare per la terza volta gli osservatori. Andrea Rigoni, deputato italiano che farà parte della missione di post-monitoraggio, spiega perché: «Ci sono evidenze di irregolarità, per giunta "poco professionali"».
Poco professionali?
«Già, non sono avvenuti come al solito nei paesini, ma persino nella capitale. Segno del grande nervosismo che ha preso il governo di fronte alla protesta. Per la prima volta Putin ha sentito un brivido: qualcosa potrebbe cambiare».
Quali evidenze ci sono del voto truccato?
«Ci sono video girati con i telefonini di cui blog come Golos sono pieni. Ci sono testimonianze: anche di fronte a uno di noi c'è chi ha inserito più di una scheda nell'urna».
E lui cosa ha fatto?
«Nulla. Il problema è che noi possiamo solo osservare».
Quali sono le tecniche di broglio?
«Oltre allo stuffing vote con pacchi di schede precompilate inserite nell'urna, c'è l'home vote, basta telefonare e dire che si è malati e il seggio viene a casa tua. E il bussing vote: blocchi di persone trasferite in pullman da un seggio a un altro per votare più volte».
E come viene consentito?
«Esiste il certificato di assenza dal proprio luogo di residenza, per chi lavora in un'altra città, che consente di votare altrove. Al seggio non c'è possibilità di controllare se lo ha già fatto e lo si lascia votare. Sono state verificate firme assimilabili alla stessa persona. Interi uffici hanno fatto il tour del voto».
Ma chi li portava a votare?
«Tutte le autorità statali hanno fatto propaganda per il partito di governo. In più c'è stata una fase pre-elettorale molto burocratizzata e controllata che ha fatto da sbarramento. Molte forze politiche non sono state registrate dal ministero della Giustizia (dunque dal governo) e non hanno potuto candidarsi. Quando sono andato alla commissione centrale elettorale, per verificare il trasferimento dei dati, io sono passato, ma il mio interprete no. Delle centinaia di contestazioni documentate solo 23 sono state accolte. Si dà per scontato che un margine di brogli esista sempre. Però la Russia non può rimanere all'età della pietra della democrazia».
Cosa accadrà al termine della vostra missione a Mosca?
«Il plenum dell'assemblea deciderà, se la situazione resta questa potrebbero scattare censure o sanzioni».
Putin è caustico con la protesta.
«È molto preoccupato. Con queste percentuali di voto alle presidenziali potrebbe essere costretto ad andare al ballottaggio. Sente che c'è una frattura interna. Non è più lo zar».

Repubblica 24.12.11
Mosca torna in piazza contro Putin Anche Gorbaciov sale sul palco


MOSCA La Russia torna in piazza contro Putin e prepara nuove cifre da record. Se l´8 dicembre i centomila di piazza Bolotnaja hanno messo in allarme il governo urlando contro i brogli e le censure, adesso si prepara una scossa ancora più forte. Nel grande raduno previsto per oggi sulla piazza delle Tre Stazioni, ci sarà una folla ancora più grande. E sul palco, a godersi dopo vent´anni una platea così vasta, ci sarò anche Mikhail Gorbaciov, il padre della perestrojka. L´annuncio della sua partecipazione convincerà altre migliaia di cosiddetti moderati a partecipare alla protesta. In un´intervista a Novaja Gazeta, il giornale della giornalista assassinata Anna Politkvoskaja, Gorbaciov ha ammesso di «provare profonda vergogna» per aver appoggiato inizialmente la presa di potere di Putin e dei suoi. Con Gorbaciov ci saranno lo scrittore Boris Akunin, che ha scoperto la politica dopo il voto palesemente truccato del 4 dicembre. Il titubante leader del partito democratico Jabloko. Il cantante rock Jurij Shevciuk, leader del gruppo Ddt entrato quasi per caso tra le fila dei ribelli dopo un diverbio pubblico con Putin. Daranno forza ai leader naturali delle proteste: l´ex vicepremier eltsiniano Boris Nemtsov, l´ecologista Evgenja Chirikova e il blogger anticorruzione Aleksej Navalnjy, atteso da decine di migliaia di fans dopo il suo arresto e 15 giorni di carcere. Pensata come un grande evento, più un concerto che un comizio, la manifestazione costerà tutti i centomila euro raccolti nel porta a porta. Previsto il nastro bianco come segno di protesta, le foto di Vaclav Havel per onorare la memoria dell´intellettuale ceco ignorato dal Cremlino e il solito slogan: «Via il partito dei ladri».
(n. l.)

Repubblica 24.12.11
Sangue a piazza Tahrir, il furo di una rivoluzione
di Tahar Ben Jelloun


Gli avvenimenti in atto a piazza Tahrir, in Egitto, ci obbligano a rettificare alcuni dati divulgati da tutti noi, che però sono errati. Ciò che è accaduto un anno fa in Egitto non era una rivoluzione, bensì un colpo di stato militare. Mubarak non ha lasciato il Paese sotto la spinta dei manifestanti, per quanto numerosi e decisi, ma per volontà di una giunta militare che non gli ha lasciato altra scelta.
Questo punto è essenziale per comprendere la violenza della repressione scatenata dall´ottobre scorso contro gli egiziani e le egiziane. L´esercito ha preso il potere, facendo credere che sarà il popolo a governare il Paese. Grave errore. Il popolo è rimasto per le vie e sulle piazze, e ha creduto di essersi sbarazzato dalla dittatura di un capo corrotto. Ma purtroppo la verità è un´altra: l´esercito ha mantenuto lo stato d´emergenza decretato 50 anni fa. Il 9 ottobre scorso, alcune auto blindate hanno investito 27 manifestanti che si ribellavano contro le aggressioni ai danni dei copti; e il 19 novembre lo stesso esercito ha ucciso 50 manifestanti e tradotto davanti a tribunali speciali migliaia di insorti, condannati a pene pesanti. L´esercito non intende cedere neppure un grammo del suo potere, e soprattutto dei suoi privilegi. Come già Sadat, Mubarak aveva colmato i militari di favori: sapeva che in questo modo li avrebbe placati, evitando un colpo di stato. Ma nel gennaio scorso, quando tra il clamore popolare milioni di persone hanno occupato piazza Tahrir, così come i rivoluzionari francesi avevano preso Place de la Bastille, i militari non potevano contrapporsi a quella forza popolare, quando già si contavano centinaia di morti e di dispersi. Hanno dunque giocato il gioco della rivolta, mentre in segreto si preparavano a prendere il potere.
Il 20 dicembre migliaia di donne hanno manifestato specificamente contro le violenze dei soldati ai danni delle manifestanti arrestate. Ieri una di loro ha dichiarato davanti alle telecamere: «Mi hanno pestata, mi hanno strappato i vestiti di dosso. Ero nuda, ma nei miei occhi non c´era paura». Un´altra manifestante brandiva un giornale con la fotografia di tre soldati mentre trascinano a terra, come un animale, una donna a metà denudata, gridando: «L´Egitto senza dignità è un Egitto senza vita!».
I militari invitano le donne a restarsene a casa. Ma il 25 gennaio scorso queste donne hanno dato il via alla rivolta. Come chiedere loro di tornare in silenzio a fare le casalinghe? In ogni epoca, l´Egitto ha avuto le sue combattenti: non sono donne sottomesse né rassegnate. Se oggi Hillary Clinton dichiara che quanto avviene in Egitto è una vergogna per lo Stato, dimentica però di dire che il governo americano era stato messo al corrente del modo in cui i militari hanno destituito Mubarak per prendere il potere. Nessuno lo rimpiange, ma tutti esigono che sia giudicato, e soprattutto che riporti nel Paese i miliardi di dollari da lui rubati e depositati presso banche straniere. I militari non seguono questa via. Stanno rubando la rivoluzione del popolo, mentre le elezioni danno favoriti i fratelli musulmani.
Ora queste elezioni non sono democratiche, nella misura in cui si intende la democrazia come una cultura, una tradizione radicata nelle mentalità. In Egitto, come in Marocco e in Tunisia, la democrazia ha funzionato in quanto tecnica. Ma votare non basta per essere democratici: occorre difendere i valori fondamentali che sono alla base di un sistema democratico. Ora, la religione è incompatibile con la democrazia (si è ben visto ciò che ha dato la democrazia cristiana in Italia).
Quella che aveva preso il nome di "primavera araba" sta perdendo i suoi colori, e trascolora oramai verso il rosso: rosso sangue.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Corriere della Sera 24.12.11
Cuba, amnistia anche per reati politici


Cuba a sorpresa annuncia la liberazione di circa tremila prigionieri, alcuni dei quali condannati per crimini contro la nazione. Ossia prigionieri politici. Il presidente Raul Castro ha comunicato ieri un'amnistia senza precedenti per «ragioni umanitarie». Tra i prigionieri vi sarebbero anche 86 stranieri di 25 Paesi diversi. L'amnistia dovrebbe divenire effettiva nei prossimi giorni, come ha dichiarato il presidente Castro in chiusura della seconda sessione annuale dell'assemblea nazionale cubana. Non ha, però, precisato se verrà scarcerato anche l'americano Alan Gross, condannato nel mese di marzo a 15 anni di carcere con l'accusa di spionaggio. Il governo cubano aveva già liberato più di 100 prigionieri politici nel 2010, dopo l'intercessione della Chiesa cattolica. E forse dietro quest'ultimo annuncio potrebbe esserci la prossima visita di Benedetto XVI il prossimo aprile.

Repubblica 24.12.11
Eros e Amore
Il senso della vita secondo Gesù
di Eugenio Scalfari


SCALFARI "Noi abbiamo una mente riflessiva che ci consente di pensare noi stessi e di vedere le nostre azioni Ma nell´economia dell´Universo siamo solo un piccolo evento"
MARTINI "Il Vangelo dice: ama il tuo prossimo come ami te stesso. Lei ama gli altri?" SCALFARI "I diversi da me li tollero, in qualche caso li amo. Ma gli ingiusti no"
Due punti di vista partiti da premesse diverse cercano nella giustizia nella carità e nel perdono una prospettiva comune
Eugenio Scalfari e il cardinale Martini ragionano sui nodi che stringono fede ed esistenza terrena
MARTINI "Il dubbio mi tormenta spesso, fa parte della nostra condizione di uomini e non di angeli Chi non si cimenta con esso, crede in maniera poco intensa"

In fondo ad un lungo corridoio una porta a vetri si apre su una piccola stanza dove scorre il tempo di Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, biblista, pastore di anime e di coscienze, cardinale di Santa Romana Chiesa. Siede su una poltrona accanto ad una finestra dalla quale si vedono un pezzo di cielo e un cipresso.
Accanto a lui c´è il suo assistente, don Damiano, che è quasi la sua ombra, lo aiuta a muoversi, gli somministra le medicine alle ore stabilite, lo accompagna nei suoi spostamenti ormai rari. Non è frequente che un gesuita diventi cardinale e ancor meno frequente che sia stato alla guida della diocesi più importante d´Europa, ma Martini è un´eccezione per tante cose ed anche per la sua carriera ecclesiastica.
A me è capitato di vedere molto da vicino i gesuiti in una fase particolare della mia vita: avevo vent´anni, era il 1944, Roma era occupata dai nazisti; i giovani di leva e gli ebrei erano ricercati dalle SS, la polizia militare del Reich, ed io trovai rifugio insieme ad un centinaio di altri giovani nella Casa del Sacro Cuore dove i gesuiti gestivano i cosiddetti "esercizi spirituali". Duravano al massimo una settimana, ma nel nostro caso durarono più d´un mese. La Casa era extra-territoriale, con bandiera del Vaticano alla finestra e guardie palatine al portone.
Poiché, come ci disse il padre rettore, i gesuiti non dicono bugie, gli esercizi spirituali dovemmo farli in piena regola sebbene tra di noi ci fossero molti ebrei e alcuni non credenti.
Per me fu una preziosa esperienza anche perché il rettore era padre Lombardi, un prete di notevole personalità e grande finezza intellettuale cui in seguito fu dato il soprannome di "microfono di Dio" per le sue attività che a dire il vero erano più politiche che pastorali.
I gesuiti che conobbi in quell´occasione e che guidavano le "meditazioni", celebravano la messa e le altre funzioni religiose che costellavano la nostra giornata, li osservai con molta attenzione; il rettore, quando ci separammo, mi propose addirittura di iscrivermi all´Università Gregoriana, eravamo entrati in confidenza ed anche in polemica durante una serie di dibattiti su Sant´Agostino e su San Tommaso.
Ricordo queste vicende personali per dire che i gesuiti che conobbi allora non somigliavano in nulla a Carlo Maria Martini. Erano molto accoglienti e amichevoli, ma piuttosto arcaici nel loro modo di considerare la religione; Martini invece è pienamente coinvolto nella modernità di pensiero. Quanto all´intensità della fede, non sta certo a me misurarla; dico solo che la fede di Martini ti fa pensare perché emerge dal suo profondo; quella che si respirava al Sacro Cuore aveva invece un sentore di sacrestia piuttosto sgradevole per chi come me la fede non ce l´ha e neppure sente il bisogno di cercarla.
Vi domanderete allora quale sia la ragione per la quale io frequenti Martini e lui accetti di buon grado questa frequentazione. La mia risposta è che siamo sulla stessa lunghezza d´onda, ci sentiamo in sintonia l´uno con l´altro e il motivo probabilmente è questo: ci poniamo tutti e due le stesse domande: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Sembrano essere diventante un luogo comune queste domande e forse lo sono, ma continuano a costituire la base d´ogni filosofia e d´ogni conoscenza. Le nostre risposte spesso differiscono ma talvolta coincidono e quando questo avviene per me è una festa e spero anche per lui.
Il nostro di oggi è il quarto incontro che ho avuto con lui; è il 6 dicembre, fuori piove, siamo nella casa di riposo della Compagnia di Gesù a Gallarate in un edificio che fu donato alla Compagnia una cinquantina d´anni fa dalla famiglia Bassetti. Gli incontri precedenti sono avvenuti nel 2009 e nel 2010, ma il primo fu un dibattito che avvenne a Roma alla fine degli anni Ottanta a palazzo della Cancelleria, organizzato da don Vincenzo Paglia, della comunità di Sant´Egidio.
Il cardinale è ammalato di Parkinson, è lucidissimo, ma cammina con difficoltà. Da qualche tempo il male gli ha molto affievolito la voce che è diventata quasi un soffio, ma don Damiano ha imparato a leggere dal movimento delle sue labbra le parole senza voce e le traduce per renderle comprensibili.
Il nostro colloquio qui trascritto è stato rivisto dal cardinale: le difficoltà della comunicazione rendevano necessario il suo "imprimatur".
[* * *]
Scalfari Vorrei cominciare il nostro dialogo da un nome e dalla persona che lo portava: Gesù. Per me quella persona è un uomo nato a Betlemme, dove i suoi genitori Giuseppe e Maria che vivevano a Nazareth si trovavano occasionalmente il giorno e la notte del parto. Per lei, eminenza, quel bambino è il figlio di Dio. Sembrerebbe che la differenza tra noi su questo punto sia dunque incolmabile. Eppure è proprio quel nome che ci unisce. Lei lo chiama Gesù Cristo, io lo chiamo Gesù di Nazareth; per lei è Dio che si è incarnato nel Figlio, per me è un uomo che è creduto essere il Figlio e in quella convinzione ha vissuto gli ultimi tre anni della sua vita, gli anni della predicazione e poi della "passione" e del sacrificio. Ma la predicazione è appunto quel tratto della sua vita che ci unisce. Ho pensato molto all´incontro di due persone già avanti negli anni che vengono da educazioni, culture e percorsi di vita così diversi che sono desiderosi di conoscersi sempre più e sempre meglio. Ha un senso tutto questo? Qualche volta penso che lei speri di convertirmi, di farmi trovare la fede. Questo rientrerebbe nei suoi compiti di padre di anime. È questo che lei si propone?
Martini No, non penso di convertirla anche se non possiamo escludere né io né lei che ad un certo punto della sua vita la luce della fede possa illuminarla. Ma questa è un´eventualità che riguarda solo lei. Lei cerca il senso della vita. Lo cerco anch´io. La fede mi dà questo senso, ma non elimina il dubbio. Il dubbio tormenta spesso la mia fede. È un dono, la fede, ma è anche una conquista che si può perdere ogni giorno e ogni giorno si può riconquistare. Il dubbio fa parte della nostra umana condizione, saremmo angeli e non uomini se avessimo fugato per sempre il dubbio. Quelli che non si cimentano con questo rovello hanno una fede poco intensa, la mettono spesso da parte e non ne vivono l´essenza.
La fede intensa non lascia questo spazio grigio e vuoto. La fede intensa è una passione, è gioia, è amore per gli altri ed anche per se stessi, per la propria individualità al servizio del Signore. Il Vangelo dice: ama il tuo prossimo come ami te stesso. Non c´è in questo messaggio la negazione dell´amore anche per sé, l´amore – se è vera passione – opera in tutte le direzioni, è trasversale, è allo stesso tempo verticale verso Dio e orizzontale verso gli altri. L´amore per gli altri contiene già l´amore verso Dio. Lei ama gli altri?
Scalfari Non sempre, non del tutto. Mentirei se dicessi che amo gli altri con passione come amo alcune persone a me vicine e mentirei se dicessi che l´odio è un sentimento a me ignoto. Detesto l´ingiustizia e odio gli ingiusti. I diversi da me li tollero e in qualche caso li amo pensando che la loro diversità sia ricchezza. Ma gli ingiusti no.
Martini Forse lei ricorderà che sul tema dell´ingiustizia abbiamo molto discusso nel nostro precedente incontro.
Scalfari Lo ricordo benissimo. Io le domandai quali fossero i peccati più gravi e lei mi rispose che la precettistica della Chiesa enumera una serie di peccati numerosa. In realtà – mi disse e io l´ho trascritto fedelmente nell´articolo che feci dopo quel nostro incontro – il vero peccato del mondo è l´ingiustizia, dal quale gli altri discendono.
Martini Sì, lei ricorda bene, dissi così. Ma forse non approfondimmo abbastanza che cosa intendevo con la parola ingiustizia.
Scalfari Può spiegarlo adesso.
Martini Ebbene l´ingiustizia è la mancanza di amore, la mancanza di perdono, la mancanza di carità e il sentimento di vendetta.
Scalfari Lei mi disse anche che il sacramento della confessione e della penitenza, fondamentale per i cristiani, non è più vissuto e praticato come dovrebbe essere.
Martini La penitenza non è quella di recitare dieci "paternostri" ma scoprire la bellezza della carità e metterla in pratica.
Scalfari Mi ricorda il pentimento dell´Innominato del Manzoni nei Promessi sposi....
Martini La lotta contro l´egoismo è molto lunga.
Scalfari Ne deduco che il Creatore ha creato un mondo ingiusto.
Martini Il Creatore ha donato agli uomini la libertà. Essa può generare la solidarietà verso gli altri, ma anche l´egoismo, la sopraffazione, l´amore verso il potere. Ho letto il suo ultimo libro, lei parla di queste cose.
Scalfari Sì, anch´io penso che l´istinto d´amore pervada la vita delle persone ma abbia diverse dimensioni e direzioni. Lei lo chiama amore, io lo chiamo eros, lei chiama il bene carità ed io lo chiamo sopravvivenza della specie, cioè umanesimo. Mi sembra che con parole diverse diciamo la stessa cosa. Gesù, per quanto capisco, tentò il miracolo di cancellare l´amore per se stessi, ma quel miracolo non riuscì.
Martini Gesù non tentò di cancellare l´amore per se stessi, anzi lo mise come misura per l´amore degli altri.
Scalfari Io penso che la vita sia cominciata da un essere monocellulare e poi sia andata vertiginosamente avanti secondo l´evoluzione naturale. Noi abbiamo una mente riflessiva che ci consente di pensare noi stessi e di vedere le nostre azioni, ma nell´economia dell´Universo siamo un piccolo evento: così è nato il mondo e noi tutti e così scomparirà. A quel punto nessun´altra specie sarà in grado di pensare Dio e Dio morirà se nessun essere vivente sarà in grado di pensarlo. Noi non siamo una regola, noi siamo un caso, una specie creata dalla natura, come credo io, o da un dio trascendente come crede lei. Spinoza dice: Deus sive Natura, oppure anche Natura sive Deus. Lei sa che questa concezione della divinità, così intensa come lei ha, sconfina nell´immanenza? Una scintilla di Divinità sta dunque in tutte le creature viventi ed è appunto la vita.
Martini Lei mi domandò nel nostro precedente incontro che cosa io pensassi dell´affermazione del teologo Hans Küng che sostiene la fede verso la vita come la condizione preliminare e necessaria per arrivare alla fede in Dio. Lo ricorda?
Scalfari Sì, ricordo anche che lei era d´accordo con quell´affermazione.
Martini È vero e lo si vede osservando un bimbo appena nato il quale si affida nelle mani dei genitori totalmente. Anche lei è venuto qui nella fiducia che non avrebbe trovato nessuno con un fucile spianato. Questa è una forma primaria di fede.
Scalfari Chiaro. Lei ha detto in un suo scritto che è un errore affermare che Dio sia cattolico.
Martini Sì, l´ho detto. Dio è il Padre di tutte le genti, quindi apporgli l´aggettivo cattolico è limitante.
Scalfari Ammetterà tuttavia che il monoteismo cristiano è assai diverso da quello ebraico e anche da quello dell´islam. In quelle religioni la Trinità sarebbe considerata eresia inconciliabile con il Dio unico. In quelle religioni il Dio unico è innominabile e non raffigurabile, per i cristiani invece ha il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed è stato dipinto e scolpito per millenni. La storia dell´arte occidentale è in gran parte la storia di Dio, del Figlio, della madre del Figlio, dei Santi. Si può dire che il cristianesimo è una religione monoteista? Oppure storicamente è una religione ellenistica?
Martini La Trinità è Dio-comunione. Il Figlio è la Persona con cui il Padre si manifesta agli uomini. Forse il modello "ontologico" con cui si è pensata la Trinità fino ad oggi dovrebbe cedere il passo al modello "relazionale" che aiuterebbe meglio anche il dialogo orizzontale. Quanto ai Santi, non sono solo intermediari tra noi e Dio ma anche testimoni del bene e forse la Chiesa ne ha canonizzati troppi.
Scalfari Dunque quando la nostra specie scomparirà e quando il giudizio universale sarà avvenuto il Figlio non avrà più ragion d´essere e lo Spirito santo neppure.
Martini Non esattamente, il Figlio sarà la beatitudine delle anime che vivranno nella luce.
Scalfari Senza memoria del sé terrestre che hanno abbandonato?
Martini Noi uomini non siamo in grado di sapere queste cose, di conoscere l´aldilà. Sappiamo però che Paolo dice che la Carità non avrà mai fine. Quindi supponiamo che riconosceremo ciò che abbiamo vissuto nell´amore.
Scalfari Dio è il padre di tutte le genti, ma la Chiesa ha fatto del Dio cattolico anche una bandiera d´identità, di guerra e di stragi.
Martini Quando ha fatto questo ha sbagliato. La Chiesa, come tutte le istituzioni terrene, contiene il bene ed il male ma è depositaria di una fede e di una carità molto grandi. Anche Pietro rinnegò.
Scalfari Forse è troppo istituzione.
Martini Forse è troppo istituzione.
Scalfari Forse è troppo dogmatica.
Martini Direi in un altro modo: l´aspetto collegiale della Chiesa è stato troppo trascurato. Secondo me questo punto andrebbe profondamente rivisto.
La conversazione dura ormai da oltre un´ora. Guardo don Damiano in modo interrogativo e lui mi fa di sì con la testa. Dico al cardinale che è arrivata l´ora di congedarmi. «Ma le faccio un´ultima domanda: che cosa pensa dei fatti politici italiani di questi ultimi mesi? La Chiesa, dopo un silenzio troppo lungo, mescolato con alleanze oltremodo discutibili, ha infine chiesto con il cardinale Bagnasco che venisse ripulito il fango che ha imbrattato l´etica pubblica. È d´accordo con questa posizione?».
Martini Sono d´accordo. In Italia esiste una cattolicità avvertita e consapevole e ci sono anticorpi preziosi che alla fine si manifestano contribuendo a recuperare il bene anche nella sfera dove si amministra il potere.
Mi alzo. Anche lui si alza aiutato da don Damiano. Ci abbracciamo. Lui mormora qualcosa e don Damiano traduce: «Ha detto che prega spesso per lei». Io rivolgendomi a lui gli dico: «Io la penso molto spesso, è il mio modo di pregare». Lui si avvicina al mio orecchio e con un filo di voce dice: «Prego per lei, e anch´io la penso spesso», sorride e mi stringe la mano. Forse voleva dire che pensare l´altro è più che pregare. Io almeno ho capito così.

venerdì 23 dicembre 2011

il Fatto Saturno 23.12.11
Psicoanalisi sotto scacco?
di Marco Filoni


FREUD È MORTO e la psicanalisi non si sente troppo bene. Le critiche sul buon vecchio Sigmund non sono nuove. Ma da un po’ di tempo è la psicanalisi stessa sul banco degli imputati. L’accusa: dogmatismo, inefficacia clinica e totale chiusura alla discussione sulle pratiche e i risultati. Ultimo atto di questo lungo processo viene dagli Stati Uniti, in seguito all’apertura dell’archivio freudiano depositato alla Library of Congress di Washington dalla figlia Anna. Dallo studio di queste carte, molte delle quali inedite, gli studiosi Mikkel Borch-Jacobsen e Sonu Shamdasani hanno dato alle stampe il libro The Freud Files. Qui cercano di dipanare la complessa storia della psicanalisi con una missione piuttosto chiara: «Dobbiamo affrettarci a studiare la psicanalisi finché possiamo perché presto non saremo più capaci di capire le sue caratteristiche e per una buona ragione: la psicanalisi non è mai esistita». Chapeau! In altre parole, senza Freud e la sua leggenda, l’identità e la radicale differenza della psicanalisi da altre forme di psicoterapia scompaiono. Gli adepti del culto freudiano avrebbero negli anni riscritto la loro storia rendendola “leggenda-ria”. Ma la leggenda sta collassando: la psicanalisi non è riuscita a costruirsi come scienza capace di avere un suo ruolo importante nella società contemporanea. Giusta o sbagliata la diagnosi, ci si aspetterebbe un dibattito. Ma così non è. Gli psicanalisti si trincerano dentro un fortino che, agli occhi di molti, sa di ortodossia. E non si pensi che sia soltanto un affare americano: di qua dell’oceano non va certo meglio. Risse, insulti, accuse e colpi bassi. Prima con l’uscita del Libro nero della psicanalisi e del conseguente Anti-libro nero. Poi con Michel Onfray che ha scritto Crepuscolo di un idolo. Smantellare le favole freudiane (Ponte alle Grazie), al quale ha risposto Elisabeth Roudinesco, decano degli studi psicanalitici francesi, con il suo Perché tanto odio? L’affabulazione di Onfray (in francese da Seuil). E tra un’affabulazione e un’altra, se le danno di santa ragione. Per Onfray «la signora Roudinesco è come la vedova d’un grande scrittore che s’impiccia di tutto, senza l’avallo della quale nulla di valido può esser pronunciato su Freud». E, aggiunge, la psicanalisi è soltanto un business che i suoi iniziati difendono come si difende una religione. Per la Roudinesco, invece, Onfray è solo un antisemita che fa di Freud un “tiranno” perverso che abusava sessualmente della cognata e dominava tutte le donne della sua famiglia, «omofobo, fallocrate, falso e avido di denaro, ammiratore di Mussolini e complice del regime hitleriano per la sua teorizzazione della pulsione di morte». Insomma, Onfray è un «Dio solare, edonista e masturbatore». Schermaglie da cortile assunte a dibattito. Freud è e resterà un classico, e magari qualcuno spinto dal clamore si prenderà la briga di leggerlo. E magari sarà anche la volta buona per farsi qualche domanda, anche qui da noi, aprendo, perché no, un dibattito. Si può criticare la psicanalisi? Si può fare un bilancio, magari cercando di comprendere apporti e deficit di questa disciplina? Cosa resta di Freud e di Lacan? Si attendono risposte.
M. Borch-Jacobsen S. Shamdasani, The Freud Files, Cambridge UP, pagg. 414, £ 55,00

l’Unità 23.12.11
Antirazzismo: passare dalle parole ai fatti
Tre proposte per cambiare
di Filippo Miraglia responsabile immigrazione Arci


L e recenti tragiche vicende di Torino e Firenze dimostrano che per la nostra democrazia il razzismo è più che un rischio concreto. La reazione è stata ampia e forte e ciascuno ha la responsabilità di raccogliere il segnale arrivato dalle tante manifestazioni del 17 per rilanciare la necessità di un grande e unitario movimento antirazzista, individuando le cause di quanto successo e avanzando proposte.
Sulle cause. Non si tratta né di lanciare indistinte accuse di razzismo, né di assumere un atteggiamento giustificazionista. Entrambe queste posizioni rischiano di avere effetti deresponsabilizzanti.
Bisogna invece prendere atto che negli ultimi anni sono aumentati i casi in cui privati cittadini, aziende o pubbliche amministrazioni non applicano l’art.3 della Costituzione, con una demolizione progressiva del principio di uguaglianza che rappresenta l’humus su cui è maturato un diffuso sentimento di fastidio verso migranti e minoranze.
Dopo le importanti dichiarazioni antirazziste di questi giorni da parte di politici e rappresentanti delle istituzioni, bisogna ora trasformare le parole in azioni concrete. Servono scelte che riaffermino il principio di uguaglianza e che ricostruiscano il senso di appartenenza alla comunità basato su un’idea di cittadinanza come spazio di inclusione e non di negazione dei diritti di una parte.
Proviamo a indicare 3 questioni: la prima è quella dei venditori ambulanti, la categoria a cui appartenevano le vittime di Firenze. I continui blitz di forze dell’ordine e vigili urbani, del tutto sproporzionati alla gravità del reato contestato, vengono percepiti come una conferma della pericolosità sociale dei venditori stranieri. Questo comportamento va cambiato. Vanno applicate a questa categoria di lavoratori spesso colpevoli solo di non rispettare le regole sul commercio le stesse modalità che si usano per altre categorie. Vanno cercate soluzioni concordate, coinvolgendo le comunità locali oltre che i diretti interessati. La seconda questione riguarda i campi rom. La loro stessa esistenza provoca discriminazione e razzismo. Ma le prime vittime del degrado in cui versano molti campi sono proprio le persone costrette a viverci in una sorta di apartheid. Va chiusa la stagione degli sgomberi imposti dalle amministrazioni, per concordare con i rom soluzioni abitative alternative, finalizzate all’integrazione.
Infine, se si vuole realmente evitare che si ripetano persecuzioni e violenze, si applichi la legge Mancino e si impedisca il proliferare di organizzazioni e siti di stampo fascista e razzista. La democrazia non si costruisce con i divieti, ma non si può più consentire che simili culture continuino ad avvelenare la nostra società.

il Riformista 23.12.11
Legge sulla cittadinanza
Se bussasse pure Gesù troverebbe chiuso
di Cinzia Leone


«Se Gesù nascesse oggi in Italia, resterebbe per sempre un ospite, nemmeno troppo gradito». A parlare è don Armando Zappolini, parroco di Perignano, provincia di Pisa, e presidente del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza.
Minorenne di sicuro, migrante pure, se per sfuggire alle minacce di Erode, Gesù, insieme a Giuseppe e Maria, da Betlemme invece di rifugiarsi in Egitto puntasse oggi a Nord Ovest, sbarcando in Italia, non verrebbe riconosciuto come cittadino italiano, ma come un immigrato, portato dai genitori palestinesi e arrivati clandestinamene: un cittadino di serie B. «L’assurdità di una legge sulla cittadinanza ancorata al principio dello “ius sanguinis”deve finire conclude don Zappolini – Firmiamo le proposte di legge di iniziativa popolare per cambiare la legge su cittadinanza e diritto di voto». La Bibbia, da Abramo in poi, è tutta una storia di immigrati. Se bussasse oggi all’anagrafe per diventare cittadino italiano, Gesù troverebbe chiuso. Figuriamoci quegli extracomunitari dei Magi.

Repubblica 23.12.11
A Repubblica tv la leader della Cgil sollecita anche modifiche sulle pensioni e considera "archiviata" la questione articolo 18
Ma per la Camusso la fase uno non è chiusa "Noi aspettiamo ancora la patrimoniale"
intervista di Annalisa Cuzzocrea


Con Cisl e Uil chiediamo che già nel milleproroghe ci siano correzioni sulla previdenza, a partire dai lavoratori precoci
La concertazione del ´91-´92 non può tornare, ma ci sono materie su cui occorre il confronto con le parti sociali per arrivare ad accordi

ROMA Considera archiviato il dibattito sull´articolo 18, chiede al governo di concentrarsi su precarietà e disoccupazione, ma per il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ospite a Repubblica Tv la fase uno non è finita: si può ancora intervenire sulle pensioni, si può pensare alla patrimoniale, e a una lotta più efficace contro evasione e sommerso.
Secondo Monti la fase dedicata alla crescita è già iniziata. Ve ne siete accorti?
«La sensazione per ora è che si tratti solo di annunci. E che l´attenzione sia volta solo al sistema delle imprese, mentre si dovrebbe anche intervenire sui redditi dei lavoratori. E comunque, per noi, la prima fase non è finita».
Su cosa volete riaprirla?
«Cgil, Cisl e Uil, unitariamente, chiedono modifiche sulle pensioni già nel decreto milleproproghe. Non si è tenuto conto dei lavoratori precoci, si sono stabiliti salti di 6 anni, rinvii di 10. Si poteva costruire un meccanismo sulla volontarietà, invece si è voluto un sistema rigido, senza tener conto di lavori e fatiche diverse».
Sul capitolo fisco, c´è stato il tentativo di andare a colpire chi ha pagato poco finora. Lo riconoscete?
«Noi volevamo e continuiamo a volere la patrimoniale, perché comunque c´è uno squilibrio. Sulle prime case poteva esserci una progressività più significativa. Tra addizionali comunali, regionali, accise, Ici, la botta più consistente riguarda il lavoro dipendente. E poi servirebbero misure più incisive su evasione, elusione e sommerso».
Il ministro Fornero ha fatto una significativa retromarcia. L´articolo 18 è un argomento chiuso?
«Questo è un Paese un po´ confuso, sotto la cenere cova sempre qualcosa e non si può mai dire mai, ma io considero quel capitolo archiviato».
Lei l´ha definita una norma di civiltà, resta il fatto che appare anche un tabù. Chiunque ne parli è costretto alla marcia indietro.
«Perché ci sono delle cose che segnano la storia del lavoro, laddove si è affermato un punto di difesa. Quella è una norma contro la discriminazione, come ce ne sono in ogni Paese, e non incide affatto sul resto».
Cosa pensa del contratto unico proposto da Ichino, una sorta di scambio tra assunzione a tempo indeterminato e meno tutele, che però crescono nel tempo.
«Ha lo stesso difetto di considerare i diritti la ragione per cui non c´è la stabilizzazione. Invece non c´è perché si è costruito un sistema di formule di lavoro che costano pochissimo. Se si pagasse di più il lavoro atipico, cambierebbe tutto».
E della proposta Fornero di un salario minimo garantito?
«Con quali soldi? Bisogna concentrarsi su un sistema di ammortizzatori che garantisca continuità di reddito e ricollocazione, invece di sventolare bandierine senza avere le risorse».
Per i giovani cosa proponete?
«Bisogna innalzare l´obbligo scolastico, e mettere questo Paese in grado di fare dei piani industriali seri che creino lavoro».
L´unità sindacale durerà?
«Distanze ce ne sono, basti pensare ad alcune grandi vicende contrattuali, ma c´è un percorso unitario che è utile coltivare e che, su lavoro e crescita, dirà delle cose».
Tornerà la concertazione?
«Se per concertazione si intende la riproposizione del ‘91-92, non è possibile, sono cambiate troppe cose. Quello che è sgradevole è che non ci sia l´interlocuzione con il sindacato. Ci sono delle materie su cui servono il confronto e la determinazione di accordi con le parti sociali. Hanno sbagliato nella prima fase, spero non sbaglino ancora».
Sarete in piazza il 24, alla vigilia di Natale.
«Per dire che non abbiamo smobilitato, che continuiamo».
Ci saranno altri scioperi quindi?
«C´è la possibilità che non ci siano. Per un verso dipende dal presidente del Consiglio, dall´altro si apre un´importante stagione contrattuale, e dipenderà dalle imprese».

il Fatto 23.12.11
Lombardi: “Non l’abbiamo registrato noi”
Se Vatican.xxx diventa un portale porno
di Federico Mello


Il diavolo, si sa, è nei dettagli. E questa volta proprio di “diavolo” parliamo (ovvero di pornografia), almeno nella prospettiva della Chiesa cattolica che ha sentito il bisogno di affidare al portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, una smentita ufficiale.
Dal 6 dicembre, infatti, sono disponibili a livello globale siti con dominio. XXX. Il dominio, pensato appositamente per siti di carattere pornografico, è stato approvato ufficialmente lo scorso marzo dall’Icann (l’ente internazionale preposto a regolare i domini), e a breve partiranno i primi siti.
Il problema però è che con il nuovo dominio qualsiasi indirizzo web risulta, in un certo senso, di nuovo a disposizione. È questo il caso, per esempio, di Vatican. xxx, registrato da una società anonima: ci sono pochi dubbi su che tipo di contenuti si appresta a pubblicare e la prospettiva di un porno-portale con un nome che è molto simile a quello di riferimento della Chiesa cattolica imbarazza non poco il Vaticano.
Inizialmente si era diffusa la notizia che a comprare il dominio fosse stato lo stesso ufficio stampa vaticano per tutelarsi contro usi impropri, ma è stato lo stesso Lombardi a smentire: “Non risponde al vero – ha dichiarato il gesuita – la notizia che il Vaticano avrebbe acquistato il dominio internet ‘vatican. xxx’ per proteggersi da usi impropri, dato che l’identificativo ‘xxx’ riguarda siti per adulti”. “In realtà – ha aggiunto – tale dominio risulta non disponibile, perciò effettivamente acquistato da qualcuno, ma non dal Vaticano. Non risulta che tale dominio sia stato acquistato dalla Santa Sede o da organismi che facciano capo a essa”. Come andrà a finire lo capiremo nei prossimi giorni. Ma il problema che deve affrontare il Vaticano riguarda praticamente ogni azienda, personalità, politico, starlette, pop-star o canale televisivo che potrebbe trovarsi un dominio pornografico “clone” rispetto a quello ufficiale.
Probabilmente i rispettivi interessati potrebbero non gradire che sul web compaia un sito www. berlusconi. xxx ; o www. ladygaga. xxx ; o www. microsoft. xxx   e via porneggiando.
Il rischio è concreto: finora sono stati venduti 80 mila domini a tripla X e aziende come Pepsi e Nike si sono già messe al sicuro comprando l’equivalente del loro dominio. Fin dall’inizio l’idea del dominio a luci rosse si è dimostrata poco efficace. É stata osteggiata infatti, prima di tutto dall’industria hard che teme future censure in blocco e di perdere la possibilità di attirare visitatori che inciampano sulle sue pagine casualmente.
Su Vatican. xxx ancora non c’è alcun contenuto. Solo una scritta: “Il sito è stato registrato”. Che potrebbe tradursi in un brutto regalo di Natale per la Chiesa cattolica.

La Stampa 23.12.11
Speculare sulla pedofilia non giova a nessun
di Enzo Bianchi, Priore di Bose


Periodicamente la tragica piaga degli abusi sui minori torna alla ribalta, quasi sempre legata al comportamento di persone preti, religiosi, educatori con responsabilità all’interno della Chiesa cattolica. E questo nonostante i dati confermino ogni volta che la percentuale di tali crimini commessi all’interno delle istituzioni cattoliche non si discosti da quella relativa a qualsiasi tipo di istituzione che si prende cura dei minori, specialmente se prevede la convivenza quotidiana tra educatori e minori. Anche la diffusione di tale patologia nella società in generale è indipendente dalla prevalenza o meno della cultura, delle tradizioni e delle istituzioni cattoliche in un determinato paese.
In questa attenzione ormai morbosa verso i misfatti di tanti educatori cattolici, lascia un profondo rammarico il constatare che nei mezzi di comunicazione si privilegino accenti scandalistici e a effetto e si ignorino o sminuiscano dati di fatto o iniziative che tentano di porre rimedio e di sanare questa orribile piaga. Quasi mai, per esempio, ci si interroga su quanto abbiano fatto o non fatto anche le istituzioni diverse dalla Chiesa cattolica per offrire adeguata riparazione non solo economica alle vittime, per intervenire a prevenire il ripetersi di tali misfatti, per analizzare in modo documentato e interpretare il fenomeno, per prendersi cura anche dei colpevoli, così sovente vittime anch’essi di simili abusi durante la loro infanzia. A volte poi si accostano allo «scandalo-pedofilia» problematiche che lo riguardano in modo per lo meno opinabile: dal significato del celibato ecclesiastico all’influenza del clima conciliare nella Chiesa cattolica. E questo sovente con tesi preconcette che utilizzano i dati solo se e quando confermano l’opinione che già ci si è fatta della situazione o l’immagine che si vuole dare di una specifica realtà ecclesiale.
Emblematico in questo senso mi pare il modo in cui si è trattata la recente pubblicazione dei risultati dell’inchiesta svolta in Olanda da una commissione indipendente sugli abusi nei confronti dei minori ad opera di istituzioni della Chiesa cattolica. Non si pretende che chi ne parla debba leggersi l’intero dossier redatto in neerlandese, ma basterebbe attenersi alla dozzina di pagine dei quattro comunicati stampa in lingua inglese e si eviterebbero distorsioni e veri e propri travisamenti. Innanzitutto si sarebbe messo in rilievo che la commissione indipendente era stata voluta dalla stessa Chiesa cattolica olandese diocesi e congregazioni religiose proprio per avere uno sguardo oggettivo e critico non solo sui comportamenti dei preti pedofili ma soprattutto sulle modalità in cui vescovi e superiori religiosi hanno fatto o non hanno fatto fronte alla tragica situazione in oltre sessant’anni.
Inoltre si sarebbe potuto valutare meglio il contesto socio-culturale proprio all’Olanda, così diverso, per esempio, da quello dell’Irlanda e profondamente mutato dai primi Anni Quaranta a oggi: nei Paesi Bassi la Chiesa cattolica è fortemente minoritaria, nell’opinione pubblica sono presenti persino movimenti politici che caldeggiano la legalizzazione dei rapporti sessuali con i minori tesi difese anche da alcuni opinionisti nostrani ora severissimi contro la Chiesa! -, come in altri Paesi dell’Europa settentrionale c’è meno tendenza all’omertà verso certi comportamenti e accuse...
Ancora più improprio mi appare l’accostamento delle cifre spaventose di abusi all’immagine della Chiesa olandese così aperta e all’avanguardia nella ricezione del Concilio Vaticano II, quasi a lasciar intendere che il clima di rinnovamento di quella stagione e l’episcopato più conciliare abbiano influito al terribile degrado. Ora, delle decine di migliaia di abusi di cui si è occupata la commissione, commessi tra il 1945 e il 2010, oltre l’ottanta per cento risale agli anni precedenti il Concilio. Come si può allora parlare onestamente di «disfatta postconciliare dell’ultraprogressista Chiesa olandese»? Come si possono collegare tali misfatti al «catechismo olandese», opera a suo tempo criticata dalle autorità ecclesiastiche per alcune posizioni teologiche ma non certo morali? Così come non è corretto proseguire in questa lettura fuorviante segnalando che «il principale interprete di questa Chiesa aperta al mondo e al suo spirito è il vescovo emerito di Rotterdam, Adriaan Van Luyn», in realtà un vescovo salesiano di grande discernimento ed equilibrio, stimato al punto da essere eletto presidente dei vescovi della Comece (la conferenza dei vescovi dell’Unione europea). Non a caso, stigmatizzando il comportamento del suo predecessore, la commissione d’inchiesta afferma: «Questa situazione (negativa) ebbe termine con l’allontanamento di mons. Bär e l’arrivo del suo successore Van Luyn».
Davvero non giova a nessuno speculare su simili tragedie: non certo alle vittime, né alla Chiesa, ma nemmeno alla società civile che evita in tal modo di porsi interrogativi fondamentali su un’etica condivisa e sulla degenerazione di un clima che disprezza l’altro e offende il più debole.

Repubblica 23.12.11
La mappa dei privilegi
Scuole e conventi-albergo ecco le proprietà della Chiesa libere dall´imposta immobili
A Roma 1500 edifici. Il nodo della "zona grigia"
di Anna Maria Liguori e Giovanna Vitale


Il Campidoglio ha recuperato 11 milioni di arretrati. Tra gli altri tassato il complesso della Società San Paolo
Circa la metà dei beni sono sedi di parrocchie. Poi tanti appartamenti, case generalizie, ospizi e seminari
Un elenco depositato in Prefettura censisce il patrimonio della Capitale riconducibile a istituzioni religiose
Un patrimonio immenso, quasi tutto tax free: fu il governo Amato nel ´92 a prevedere una lunga lista di esenzioni. Il governo Berlusconi confermò la misura e quello di Prodi stabilì il mancato pagamento per gli edifici adibiti ad attività "non esclusivamente commerciali", aumentando così le zone grigie Ora si attende la pronuncia di Bruxelles per capire se si tratta di un aiuto di Stato e come tale contrario alle regole europee. Secondo l´Anci la cifra che manca è di 700 milioni
I casi del Santa Brigida in piazza Farnese e di Villa Maria autodefinito "hotel de charme"
Il fenomeno delle "case per ferie": sono circa 800, nate in gran parte per il Giubileo
L´autocertificazione evita il prelievo quando la finalità commerciale non è "prevalente"

Sono millecinquecento gli immobili della chiesa cattolica che, solo a Roma, non pagano l´Ici. Un elenco registrato al catasto e depositato in prefettura, che contiene sia gli edifici esentati per legge, come le 722 parrocchie, sia quelle centinaia di fabbricati intestati ad altrettanti enti, istituti, congregazioni, confraternite, società e opere pie che, pur svolgendo al loro interno attività commerciali, hanno presentato una autocertificazione che li mette al riparo dalla tassazione. Numeri tuttavia sottostimati rispetto al vasto patrimonio del Vaticano: la Santa Sede, in quanto Stato estero, non è infatti tenuto a comunicare le sue proprietà alle autorità italiane. Ragion per cui nessuno conosce con certezza quanti palazzi possieda e quali attività ospitano.
Un patrimonio immenso, quasi tutto tax-free, che secondo una stima dell´Anci risalente al 2005, avrebbe impedito ai comuni di incassare un gettito Ici compreso tra i 400 e 700 milioni, 20 dei quali soltanto nella capitale. Se ne discute ormai da vent´anni: dal lontano dicembre ´92, quando il primo governo Amato introdusse l´imposta comunale sugli immobili prevedendo una lunga lista di esenzioni, fra cui i fabbricati del Vaticano contemplati dai Patti Lateranensi nonché le attività, laiche e religiose, destinate a sanità, assistenza, istruzione, sport e culto. Norma che scatenò subito una ridda di contenziosi fino al 2004, allorché una sentenza della Corte di Cassazione stabilì che le attività «oggettivamente commerciali» dovessero essere soggetti all´Ici. Nel 2005, però, il governo di Silvio Berlusconi ribaltò il verdetto, estendo l´esenzione a tutti gli immobili della Chiesa. Fino al 2006, quando anche l´esecutivo guidato da Romano Prodi ci mise lo zampino, decidendo che dovessere essere tassati solo gli edifici adibiti ad attività «non esclusivamente commerciali». Una formula che ha contribuito a ingarbugliare la situazione, alimentando le zone grigie. Per richiedere l´esenzione Ici, infatti, basta che all´interno di un immobile trasformato magari in albergo ci sia una cappella. Un caso più diffuso di quanto si immagini, che ha moltiplicato le cause tributarie tra l´amministrazione cittadina e gli enti ecclesiastici
Case per ferie
A Roma, secondo le stime, sono almeno un´ottantina. Gestite da frati, suore, ancelle della carità, missionarie, che spesso hanno trasformato interi palazzi, o anche solo un parte di essi, in alberghi e ostelli. «Un fenomeno», spiega Marco Causi, ex assessore al Bilancio del Campidoglio e ora deputato del Pd, «esploso in occasione del Giubileo del 2000 quando molti istituti religiosi si sono attrezzati per dare ospitalità ai pellegrini». Nell´elenco della prefettura romana ci sono svariati esempi. C´è la Casa per ferie delle Ancelle di Maria Immacolata, ai Parioli, che offre camera con bagno e pensione completa a prezzi modici: da 54 a 62 euro. C´è l´Hotel Santa Brigida, nella centralissima piazza Farnese, pubblicizzata anche sul sito di viaggi tripadvisor, e l´Istituto di Suore benedettine di Torre Argentina. A Monteverde, con vista su Villa Pamhili, la brouchure di Villa Maria della Suore salvadoriane si autodefinisce hotel de charme.
Scuole
Sono 217 gli istituti religiosi destinati all´istruzione. Dalle materne alle superiori, sono esentati dall´Ici come tutte le scuole pubbliche italiane. Pur chiedendo, spesso, rette piuttosto alte. Alcuni licei superano anche i 7mila euro l´anno e sono gestiti da una costellazione di congregazioni. Si va dagli Highlands Institute dei Legionari di Cristo all´Istituto di Villa Flaminia dei Fratelli delle Scuole cristiane, nato nel ´56 da una sede distaccata del famoso San Giuseppe de Merode, l´istituto della Roma bene affacciato su Trinità dei Monti. C´è l´Istituto Massimiliano Massimo all´Eur, retto dai gesuiti all´Eur, dove hanno studiato Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo, Luigi Abete e Gianni De Gennaro.
Case di cura
Oltre agli ospedali religiosi accreditati dal Servizio Sanitario Nazionale, dal Fatebenefratelli al Campus Biomedico, esenti dall´Ici come i nosocomi pubblici, ci sono svariati edifici gestiti da religiosi che ospitano attività sanitarie, che non avrebbero diritto all´esenzione. La Provincia delle Suore Mercenarie, ad esempio, ha una casa di cura in centro a Roma e ora sta in causa con il Campidoglio. Come pure la Provincia religiosa dei santi apostoli Pietro e Paolo dell´opera di Don Orione, nel cui elegante complesso su via della Camilluccia ha ricavato anche una struttura di riabilitazione a pagamento.

Repubblica 23.12.11
E Alemanno apre il contenzioso "Pagate, svolgete attività commerciali"


ROMA Ha chiesto la collaborazione del Vicariato, il sindaco Gianni Alemanno, prima di far partire gli accertamenti sugli immobili degli enti ecclesiastici che non pagano l´Ici pur svolgendo attività commerciali. Si tratta di decine di alberghi, case di cura, persino l´editrice San Paolo, che non versano un solo euro pur fatturando importi milionari.
In base ai dati forniti dall´assessorato al Bilancio, il Campidoglio in quasi quattro anni ha già recuperato 11 milioni di arretrati. Ma diversi contenziosi sono ancora in corso. Come quello da 60mila euro con la Provincia religiosa dei S.S. Apostoli Pietro e Paolo dell´opera di don Orione, proprietario di un gigantesco complesso su via della Camilluccia che oltre alle attività religiose ospita anche una casa per ferie e una struttura di riabilitazione a pagamento. Simile il caso degli «immobili a reddito» posseduti dalla Provincia italiana Suore Mercedarie che vanta «un volume d´affari che fa registrare circa 7,1 milioni». Spiega il Campidoglio: «In particolare è stato assoggettato a tassazione l´immobile utilizzato per lo svolgimento di attività sanitaria non convenzionata», ossia una clinica nel cuore della città. L´Istituto Ancelle Riparatrici del Sacro Cuore di Gesù ha invece subito accertamenti sul «complesso affittato a studentesse che produce, peraltro, un volume d´affari superiore a 600mila euro, che fa escludere che tale attività non abbia natura commerciale». Ed è in lite con il Comune pure la Provincia dei Fratelli Maristi e delle Scuole per un complesso sportivo comprensivo di palestra e due piscine. Infine, «riguardo la Società San Paolo», precisa l´assessorato al Bilancio», «è stato tassato tra gli altri l´immobile dove svolgono l´attività commerciale. Evidente il dato del volume d´affari che ammonta a circa 7,3 milioni di euro».
(gio.vi.)

La Stampa 23.12.11
Il proporzionale e la suggestione di grande coalizione
Partiti in ordine sparso sul “Porcellum”
di Amedeo La Mattina


ROMA. Partita aperta Il Parlamento sarà presto alle prese con il dibattito sulla legge elettorale
La fase due è già cominciata, dice Mario Monti. Ma non sarà un secondo tempo scandito solo dai temi economici. Ad entrare nell’agenda dei partiti saranno la riforma costituzionale, con il superamento del bipolarismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, il rafforzamento dei poteri del premier. Non c’è dubbio che il 2012 è l’anno dell’autoriforma della politica e il tornante più faticoso è la modifica del sistema elettorale.
L’11 gennaio è stata convocata la prima udienza della Corte Costituzionale che dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità di due quesiti referendari che hanno l’obiettivo di far saltare il cosiddetto «Porcellum». Se questi quesiti verranno ammessi, il governo dovrà fissare la data della consultazione popolare in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. A meno che nel frattempo le forze politiche non riusciranno a trovare un accordo per riscrivere, in Parlamento, l’attuale sistema di voto. E saranno dolori, perché le posizioni dei partiti sono molto lontane. Anche dentro gli stessi partiti c’è una grande varietà di idee. Sia nel Pd sia nel Pdl ci sono i bipolaristi convinti, ma anche coloro che spingono verso un sistema proporzionale. Cosa poi propongono di preciso non è dato saperlo, per il momento. Il Terzo Polo, a cominciare dall’Udc, ha sempre sponsorizzato il modello tedesco (uno dei tanti sistemi proporzionali esistenti nel mondo), nella convinzione di poter smontare il «bipolarismo muscolare» e aggregare al centro moderati e riformisti. Magari per continuare l’esperienza di grande coalizione che oggi è solo tecnica, ma domani potrebbe diventare politica a tutto tondo.
«Tra l’altro spiega Roberto Rao dell’Udc non è detto che chi si è sempre professato bipolarista rimanga fermo sulle sue posizioni. Fini è un esempio lampante. Il fixing va fatto al momento opportuno e l’orizzonte è il 2013, cioè le elezioni politiche. E come dice Casini, forse non ci saranno più questi partiti, sigle e persone». «Certo osserva Maurizio Gasparri -, è ancora presto per capire quale sarà il punto di caduta di un accordo. Ma una cosa è certa: il Pdl rimarrà alternativo al Pd, e l’area moderata in Italia è maggioritaria rispetto alla sinistra. Comunque il confronto sulle riforme avverrà in Parlamento, tra i gruppi parlamentari. Si tratta di tematiche che non riguardano il governo». Per Giuseppe Fioroni del Pd, «gli italiani si sono stufati dei partiti come sono oggi, degli unti del Signore. Vincerà chi saprà cogliere le novità che stanno emergendo nella società e dall’esperienza del governo Monti. Il sistema migliore per la nuova fase politica è il proporzionale alla tedesca, che consente di mantenere il bipolarismo ma in maniera mite». Sono però molti tra i Democratici che non la pensano così.
Insomma, la confusione è ancora enorme, il rischio di un cortocircuito che possa fulminare il governo è dietro l’angolo. Soprattutto se la Consulta dovesse ammettere il referendum: i primi mesi del nuovo anno saranno occupati, nervosamente, in una corsa contro il tempo per definire un’intesa. E ciò mentre Monti dovrà mettere in campo i provvedimenti per la crescita. Tra l’altro il ministro della Giustizia Paola Severino ha fatto proposte precise per alleggerire la situazione drammatica delle carceri e la semplificazione del processo civile. Anche questo entrerà fra i temi politici della fase due. Il piatto forte però rimane la riforma elettorale. Se la Corte Costituzionale chiuderà la strada del referendum, allora i partiti avranno più tempo davanti a sé, ma non potranno mettere nel cassetto un milione di firme per eliminare il «Porcellum».

Corriere della Sera 23.12.11
La transizione verso la nuova politica
di Paolo Franchi


Non è sospesa «la democrazia», come si dice a sproposito. È una politica impotente che da tempo si è autosospesa, e tuttora fatica oltremodo a ritrovare la propria funzione nazionale e, per l'appunto, democratica.
Se nell'anno o poco più che presumibilmente ci separa dalle elezioni questa funzione non riuscisse a recuperarla, se insomma proseguisse l'andazzo di queste settimane, allora sì, anche chi rischia di innervosirsi (per quel che vale, è il mio caso) quando sente parlare di sospensione della democrazia dovrebbe riconoscere che davvero siamo entrati in una stagione del tutto nuova. O meglio dovrebbe prendere atto dell'esito post democratico di una «transizione» quasi ventennale, inaugurata con l'obiettivo dichiarato di venire a capo di una crisi democratica seguendo un percorso riformatore. Il termine, indubbiamente, è assai vago (ma, se è per questo, non lo sono meno gli innumerevoli «post» con i quali, e non solo in politica, ci si balocca da un pezzo). Di certo però, in attesa di definizioni più adeguate, sarebbe difficile non considerare quanto meno post democratico un regime politico in cui agli eletti dal popolo, alle coalizioni, ai partiti quasi per definizione fosse riservato, nel migliore dei casi, un ruolo gregario; magari addolcito, come era un tempo per le ciurme, da una modica quantità di diritto al mugugno.
Non si tratta, ci mancherebbe, di un esito scontato, ma di una (pessima) possibilità concreta, sì. I partiti, a cominciare da quelli che appoggiano il governo guidato da Mario Monti, lo sanno, o almeno lo intuiscono. Così come (si spera) sanno, o intuiscono, che è illusorio pensare di scongiurarla condendo quotidianamente l'appoggio all'esecutivo di borbottii, penultimatum, mezze prese di distanza abbozzate nel tentativo di non perdere il contatto con questo o quel pezzo del proprio elettorato che è, o si considera, ingiustamente colpito dalle misure del governo. Ma di questa illusione sembrano prigionieri. Come se davvero credessero, quando si tratterà di presentarsi agli elettori, di poter rappresentare la stagione appena inaugurata dell'emergenza alla stregua di una parentesi tanto obbligata quanto dolorosa, della quale sono stati partecipi, sì, ma solo per lo stretto necessario; e di poter chiedere il voto riprendendo le fila di un vecchio discorso interrotto, con il più classico degli heri dicebamus.
Peccato (si fa per dire) che una simile prospettiva semplicemente non esista. Sarebbe già qualcosa, certo, ma non basterebbe a renderla molto più realistica, una politica che cercasse di passare la nottata dedicandosi solo ai temi di sua più stretta pertinenza: dalla diminuzione dei propri costi e dei propri privilegi a una riforma della legge elettorale che restituisca ai cittadini l'elementare diritto di scegliere i propri rappresentanti, e agli eletti la dignità. Serve (servirebbe) qualcosa di più. Anzi, molto di più. Dei mesi che ci aspettano sappiamo che saranno molto duri e difficili, e pochissimo altro. Ma di sicuro l'Italia che andrà a votare sarà (economicamente, socialmente, culturalmente: e quindi anche politicamente) un Paese assai diverso da quello che abbiamo conosciuto sin qui, vivrà drammi, speranze, passioni che ben difficilmente si lasceranno incasellare secondo le categorie di una stagione, quella di un bipolarismo feroce e inconcludente al tempo stesso, che per molti anni è parsa a tutti, fan e avversari di Silvio Berlusconi, quasi destinata all'eternità, e già adesso fatichiamo un po' a ricordare.
Quale Paese sarà, con quali drammi, speranze e passioni avremo a che fare, nessuno può dirlo con esattezza oggi, quando la paura del futuro sembra il sentimento dominante. Ma è esattamente su questo che oggi dovrebbero cimentarsi, confrontarsi, individuare i punti di condivisione e quelli di contrasto tra loro e nei confronti dell'esecutivo, e insomma ritrovare la loro stessa ragione sociale di esistenza, partiti chiamati, pena una crisi irreversibile, a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», così come recita la Costituzione. Che questi partiti sappiano e possano farlo è lecito e anzi doveroso dubitare. Ma è proprio nei tempi calamitosi che talvolta si affermano leadership democratiche capaci di tenere insieme etica della convinzione ed etica delle responsabilità, volontà politiche, e persino visioni strategiche altrimenti inimmaginabili. Non è moltissimo, e però è su questo che tocca fare affidamento. Perché per il resto (rubo la citazione di Guido Dorso al presidente Napolitano) la formazione dei gruppi dirigenti è un mistero.

Repubblica 23.12.11
Ricostruire la politica
di Guido Crainz


Appena l´emergenza più drammatica si è placata, i partiti hanno rimosso un paradosso inquietante: ancora una volta nel giro di pochi anni il nostro Paese sembra capace di esprimere governi di qualità, capaci di operare quando la politica viene travolta dalla crisi.
Così fu fra il 1992 e il 1994 quando, in condizioni difficilissime, Amato e Ciampi avviarono il risanamento proseguito poi dal primo governo Prodi: cioè dal governo di centrosinistra della "seconda Repubblica" che è stato meno prigioniero dei partiti. Nel 1992 il sistema politico crollò all´improvviso, oggi è giunta alle estreme conseguenze una corrosione del centrodestra che ha lasciato solo macerie e che si è svolta nella sostanziale assenza di un´opposizione credibile, capace di idee e progetti alternativi. Oggi come allora nel momento della verità i partiti sono stati più un peso che una risorsa, più un intralcio che uno stimolo.
È un nodo centrale del dramma di oggi. Per questa via si è lacerato sempre più, lo ha sottolineato benissimo Gustavo Zagrebelski, quel rapporto essenziale fra società e stato che è compito dei partiti garantire. Siamo giunti cioè al punto estremo di crisi della democrazia: di questo si tratta, ed è inutile nasconderselo. È significativo il ruolo costituzionalmente ineccepibile e al tempo stesso provvidenziale svolto negli ultimi vent´anni da tre capi dello Stato – Scalfaro, Ciampi e Napolitano – che hanno partecipato alla fondazione della Repubblica e sono felicissima espressione di quel clima, di quello spirito. Sono poi dei "non politici" di assoluta qualità a dare prova di uno spirito di servizio che dovrebbe essere il segno distintivo più nobile della politica. Una politica che sta bruciando quel che rimaneva della propria credibilità continuando a ignorare l´urgenza di riformare radicalmente se stessa, il proprio modo di essere e le proprie regole. E difendendo invece nella maniera più assurda i propri privilegi, fino al colpo di mano alla Regione Lazio e a tutte le vicende che variamente ruotano attorno ai vitalizi.
Siamo di fronte alla necessità di ricostruire non solo un sistema politico ma anche un Paese che appare profondamente smarrito e che è chiamato a sacrifici pesantissimi. Anche per proprie colpe: in passato è stato troppo pronto a rimuovere le proprie responsabilità. A dimenticare il contributo direttamente o indirettamente dato all´aprirsi delle voragini, con pesanti spinte corporative e corpose inosservanze degli obblighi civici. Così fu negli anni Ottanta: di queste pessime stoffe era intessuto il sostegno al pentapartito che celebrava allora i suoi trionfi e che ci guidò poi con spensierato ottimismo sin sull´orlo dell´abisso. La barca va, si diceva: fino al naufragio. Così è stato anche nella stagione berlusconiana, e nessuno può rispolverare oggi il mito di una società civile interamente sana contrapposta a un sistema politico corrotto. Sembra semmai più adeguata una vignetta di Altan di qualche tempo fa: "Il Paese avrebbe bisogno di riforme... ma anche le riforme avrebbero bisogno di un Paese".
Oggi siamo costretti di nuovo a "guardarci dentro", ad interrogarci sul nostro passato e sul nostro futuro. Il centrosinistra deve spiegare in primo luogo a se stesso perché nel crollo della "prima repubblica" mancò l´occasione di proporre modelli e pratiche di buona politica. E perché affossò poi rapidamente il primo tentativo di Prodi di andare in quella direzione, lasciando così via libera al consolidarsi del populismo e dell´antipolitica. Perché, anche, è diventato progressivamente preda di una opaca afasia.
È altrettanto importante il ripensamento che può coinvolgere quell´area moderata – spesso al di fuori o ai margini delle organizzazioni politiche – che non ha seguito fino in fondo la deriva berlusconiana: perché è così difficile nel nostro Paese la nascita di una destra normale? Ce ne sono finalmente le condizioni? Questo sarebbe un importantissimo elemento di svolta.
Le riflessioni delle forze politiche di entrambi gli schieramenti possono oggi essere favorite dalla qualità stessa del governo che è stato messo in campo. Essa ha fatto rapidamente impallidire tutte le ipotesi sul "dopo Berlusconi" che erano state avanzate in precedenza: sia quelle che sapevano di "conservazione" sia quelle che si presentavano con il volto dell´innovazione. Oggi ci appaiono tutte obsolete, sanno di antico e di inadeguato. Ed è sempre la qualità di questo governo a rendere ancor più stridenti le insufficienze dei partiti e le loro più estreme manifestazioni di irresponsabilità. Su questo terreno la Lega ha sbaragliato ogni suo precedente record ma la demagogia e l´improntitudine, dopo anni e anni di governo, non sembrano più farle guadagnare consensi. Se così continuerà ad essere, sarà un ottimo segnale. Non andrebbero neppure commentate poi le sortite di Berlusconi, primo responsabile del disastro ma pronto a far cadere il governo appena i sondaggi gli tornassero favorevoli: eloquente conferma di un insanabile conflitto con il bene comune.
La rifondazione di una classe dirigente sulla base della competenza, del rigore e dello spirito di servizio è dunque obbligatoria ed è un processo da avviare subito: altrimenti al voto del 2013 si giungerà con inquietanti incognite. Senza quest´inversione di tendenza, senza il contributo attivo della politica sarà molto difficile ricostruire l´etica collettiva, il senso di una comunità. Sono straordinariamente importanti al tempo stesso i segnali che verranno dal governo: la difesa intransigente di equità sociale e diritti, merito e trasparenza sono il motore indispensabile e insostituibile di una Ricostruzione. In un Paese smarrito ma ancora capace di uscire dalle derive di questi anni le indicazioni di futuro sono essenziali: contribuiscono in modo decisivo alla capacità vitale di una nazione, alla sua possibilità di ritornare protagonista. Questo governo ha tutte le qualità per mandare i segnali giusti, ed è in realtà l´ultima occasione per invertire la rotta. Per questo è giusto chiederglielo con forza.

il Fatto 23.12.11
Porcata alla Regione Lazio
I 14 assessori esterni e i 3 consiglieri decaduti andranno in pensione a 55 anni (3 mila euro al mese). E per tutti indennità con scatto
di Carlo Tecce


Uno schiaffo della casta targata Pdl, Polverini, Udc e Storace. A questi non importa niente dei sacrifici imposti al Paese. Alla Camera, cacciata la cronista del Fatto: faceva domande scomode Amurri e Tecce
Pensione a 55 anni per i 14 assessori esterni Il regalo anche a 3 consiglieri decaduti

La calcolatrice del momento, così ricercata così temuta, prevede il futuro. Ci prova. Fa un pronostico, diciamo. Se inserisci un paio di cifre e sospendi il respiro, tu giovane precario o tu padre operaio, potrai conoscere un giorno memorabile: quando, forse, andrai in pensione. Riforme comprese, più o meno. Ai cittadini il calcolo cervellotico (e la speranza). Mentre i 14 assessori esterni del Lazio meritano un vitalizio (e le certezze): appena arriveranno ai 55 anni di età, incasseranno un assegno mensile di 3 mila euro.
Pensate ai poveri amministratori laziali, mai eletti in Regione o spesso riciclati dal Parlamento: se fossero imbranati in matematica oppure in coda per il terzo mutuo? No, Renata Polverini doveva intervenire in onore del sindacalista che fu. Un'anonima manina inserisce un emendamento al Bilancio, un'agile penna firma una norma che rimanda a un comma che riflette una legge: non si capisce un tubo, ma funziona perfettamente. Sempre di notte, sempre di nascosto. Il taglio ai costi di caste e periferie, tradotto per la Regione Lazio, si trasforma in privilegio per tutti: “Che c'è di male? Risolviamo un'anomalia”, spiega la Polverini con incredibile stupore.
Qual è l'anomalia? Siccome i consiglieri regionali vanno in pensione a 55 anni anche se in carica per un giorno, avrà ragionato il governatore, perché penalizzare gli assessori esterni? E pazienza, avrà chiosato, se Luciano Ciocchetti (Udc), Teodoro Buontempo (La Destra), Stefano Zappalà (Pdl) avranno doppi contributi e doppio vitalizio per i mandati a Bruxelles o in Parlamento. Soltanto sei assessori rientravano nel listino Pdl escluso dal voto perché presentato in ritardo, il resto di una truppa eterogenea faceva politica nei comuni o nel sindacato Ugl del governatore. La 37enne Fabiana Santini, per esempio, nemmeno si è candidata: arriva direttamente dai collaboratori dell'ex ministro Claudio Scajola. La Polverini ha il merito di aver sistemato un esercito di anomalie sparando un sol colpo.
Questa è una grossa anomalia, seguite con attenzione. Per un'errata distribuzione dei seggi, i consiglieri Enzo Di Stefano, Giancarlo Gabbianelli e Gianfranco Sciscione sono tornati a casa dopo pochi mesi. Di Stefano ha un'intera legislatura in tasca, e dunque sogni d'oro. Ma l'imprenditore Sciscione (61 anni) e l'ex sindaco viterbese Gabbianelli (62 anni) rischiavano di aver viaggiato a Roma per nulla. Non vi preoccupate, la Polverini si ricorda di amici e alleati. La solita manina, la solita penna: “Il vitalizio si estende ai consiglieri cessati dall’incarico”. Se ascoltate la maggioranza in Regione, sentirete orazioni del tipo: noi, la casta a dieta; noi, passiamo al contributivo; noi, congeliamo l'aumento. Falso: qualsiasi modifica sui vitalizi sarà decisa entro i prossimi tre anni.
A NATALE guai a fare differenze: perché un paio di leggine per un gruppo e zero per il Consiglio regionale? Fermi, l'infaticabile Polverini ha sbrigato pure la pratica più complicata. Il governo di Mario Monti annuncia sacrifici per i politici? Il Parlamento potrebbe succhiare un po' di indennità? Nel Lazio comanda Polverini: lo stipendio di un consigliere non si tocca, salvi 10 mila euro più diaria mensile più spese di segreteria. Non faccia il furbo, professor Monti: nel Lazio vale la busta paga di novembre 2011, recita la leggina, qualsiasi variazione è inutile.
E i 10 mila euro crescono al ritmo dell'inflazione, rassicura il governatore. Il pacco di Natale per la Regione, firma autentica Polverini, contiene un mucchietto di tasse per i cittadini, ma la maggioranza di centrodestra non risponde neanche all'opposizione in protesta. Esterino Montino (Pd) s'infila in citazioni: “Questa giunta regionale ha come modello lo sceriffo di Nottingham. Toglie ai cittadini per dare rendite ai dignitari di corte. Siamo nel medioevo”. Vincenzo Marruccio (Idv) va dritto al tema: “È una vergogna che misura la distanza fra le gente e i politici”. La Polverini tace. Tanto le anomalie sono finite.

l’Unità 23.12.11
Esteso agli assessori non eletti (che sono quasi la totalità). Costerà un milione l’anno
Nella finanziaria che il consiglio regionale ha votato nella notte tanti sacrifici per i cittadini
Lazio, Polverini regala il vitalizio alla sua squadra
Vitalizio esteso anche agli assessori non eletti. Il consiglio regionale del Lazio ha votato nella notte tra mercoledì e giovedì l’emendamento promesso. Renata Polverini: «Questa è la mia squadra e la difendo».
di Mariagrazia Gerina


L’aveva detto il Cavaliere per convicerli a continuare a tirare la carretta durante la campagna per le regionali del 2010, che, nonostante il pasticciaccio della lista romana del Pdl, sarebbero stati ricompensati. E le ricompense per tutti gli uomini del Presidente che rimasero esclusi dalla competizione elettorale del Lazio per colpa di quella lista della discordia mai pervenuta all’ufficio elettorale di Roma, non sono ancora finite. L’ultimo dono per lorsignori, puntualmente nominati assessori all’indomani dell’inaspettata vittoria, è arrivato di notte. Come la befana. E a pagarlo saranno i cittadini del Lazio.
Così ha deciso tra mercoledì e giovedì il consiglio regionale del Lazio, che alle 2 e 30, ha approvato con 40 voti a favori e 21 contrari la finanziaria regionale. Nonostante i venti di austerità, l’annunciato cadeau ha resistito. Il vitalizio, che sarà trasformato in pensione contributiva dalla prossima consiliatura, per questa legislatura resterà intatto. E sarà esteso come recita l’emendamento scritto sempre nottetempo dalla commissione Bilancio alla vigilia della manovra anche a tutti gli assessori della giunta Polverini non eletti. «Questa è la mia squadra e la difendo a ogni costo», ha tuonato, Renata Polverini, neanche fosse un allenatore di calcio ridotto a «rivendicare» come vittorie anche le prestazioni peggiori. «Rivendico», dice proprio così a proposito delle «modifiche» studiate dalla commissione bilancio. Mentre il presidente della suddetta commissione Franco Fiorito prova a minimizzare: «Cerchiamo di non far credere all’esterno che sia in atto un assalto alla diligenza».
I CONTI CHE NON TORNANO
L’immagine, in effetti, sembra calzante. Su 16 membri della giunta (presidente compresa), i beneficiati dalla modifica sono 14, di questi 8 sono gli “esclusi” del Pdl a cui Berlusconi aveva promesso ricompensa. Estendere a tutti loro il vitalizio di 3mila euro al mese costerà circa 1 milione l’anno alle casse della Regione. «Questa giunta sembra lo sceriffo di Nottingham: toglie ai cittadini per dare rendite ai dignitari di corte», commenta il capogruppo del Pd Esterino Montino, misurando la finanziaria regionale appena approvata. Su un piatto della bilancia, il vitalizio extra. E non solo per gli assessori: anche i 3 consiglieri sovranumerari decaduti dopo il ricorso del Pd al Tar, se verseranno i contributi, potranno assicurarselo. Come pure «l’incompatibile» sindaco di Latina. Sullo stesso piatto, i 5milioni di spesa quella che Montino definisce «la giunta più cara d’Italia». E i 16 milioni di euro l’anno impiegati per le 270 assunzioni a chiamata diretta 23 da ottobre al 21 dicembre.
Sull’altro piatto della bilancia, invece ci sono invece i sacrifici a cui sono chiamati i cittadini del Lazio. L’aumento della benzina di 25 centesimi, quello del bollo auto del 10%. I venti ospedali sono stati «trasformati in fantasmi» ricorda ancora Montino per tentare di ripianare il deficit sanitario, comunque stimato in 840 milioni di euro nel 2011.E soprattutto i 45mila lavoratori in cassintegrazione: diecimila solo nell’ultimo mese. Loro come tutti avrebbero sperato in un incremento della spesa sociale. E invece denuncia il capogruppo di SeL Luigi Nieri la spesa sociale è passata dai 390 a 60 milioni.

l’Unità 23.12.11
Pompei continua a perdere pezzi
L’anno orribile degli scavi
di Vittorio Emiliani


Un anno orribile per l’antica Pompei, che si chiude con un nuovo crollo: nella domus di Loreio Tiburtino, una delle più visitate perché posta all’ingresso delle scolaresche. Un dramma della manutenzione ordinaria e straordinaria, che non sembra finire mai. E qui, caso raro, non sono stati i fondi a mancare quanto le competenze dopo il pensionamento dell’ottimo soprintendente Piero Guzzo, anni or sono. Pompei è una delle Soprintendenze “speciali” (accorpata, assurdamente, con quella, importantissima, di Napoli). Non le mancano i fondi, visto che incassa circa 20 milioni l’anno (per un 30% dirottati altrove). Ma, dopo Guzzo, si sono succeduti, a velocità grottesca, ben tre soprintendenti (ad interim) e due commissari: un prefetto in pensione e un funzionario della Protezione Civile. Che hanno delegittimato nei fatti il soprintendente, cioè l’esperto vero. Dei 79 milioni disponibili, il commissario Fiori ne ha investiti pochi, un po’ più della metà, nella indilazionabile messa in sicurezza di una città esposta al consumo di massa, alle intemperie, al dissesto idrogeologico. Il resto? Finito in “valorizzazioni” discutibili, a partire dal Teatro Grande, rifatto in tufo contemporaneo. Par di sentire chi invoca la creazione di una Fondazione Pompei e l’intervento salvifico, soprattutto gestionale, dei privati. Sciocchezze. Ignoranti o maliziose.
Bisogna invece rafforzare i poteri, anche gestionali, certo, dei soprintendenti, formarli meglio a tali compiti, dotarli di uffici amministrativi e tecnici efficienti, ricostituire la rete, lasciata sfibrare, dei presidii della tutela.

Corriere della Sera 23.12.11
Una bimba e l'immigrazione Pechino gira la fiction in Italia
di Marco Gasperetti


LUCCA — Si racconta che dopo una passeggiata sulle mura di Lucca, Kong Sheng, il regista più famoso di tutta la Cina, abbia ripensato a quella frase dell'illustre antenato: «Vedere ciò che è giusto e non farlo è mancanza di coraggio». Parole di Confucio dal quale il regista pare discenda.
Il coraggio di mister Kong è stato quello di aver accettato di girare la più importante e dispendiosa fiction mai prodotta in Cina con tappe a Lucca e a Parigi. Progetto pensato sul delta del Fiume Azzurro nel 30° anniversario delle grandi riforme e dell'apertura verso l'Occidente e l'economia di mercato. Un kolossal rispettoso della filosofia confuciana, prodotto sotto l'egida del governo di Pechino per Cctv-1, primo canale della tv di Stato.
«The China Story» è una produzione da 14 milioni di euro e con un cast di attori cinesi di primo piano. Ma il record più straordinario, questa storia cinese se lo guadagnerà sul fronte dell'audience: «Prevediamo che le quaranta puntate saranno seguite da almeno un miliardo di persone», azzarda la produzione. La troupe ha girato parte delle scene in un vecchio locale di Ponte a Moriano, il Bar Melody, a due passi dal Ponte del Diavolo, uno dei simboli in Toscana della notte di Halloween, quando migliaia di zombie in maschera sfidano il demonio che, si racconta, fu ingannato mille anni fa da un furbo maestro muratore. La piccola Ayu è la protagonista delle riprese lucchesi di questa telenovela, simbolo della Cina del cambiamento. «È una storia che inizia nel 1981 — spiega il regista —, l'epopea di una famiglia, dei suoi sacrifici per costruirsi un futuro migliore, la metafora di una nazione che sta cambiando profondamente».
Ayu si muove in una stanza ricostruita al primo piano del vecchio e trasandato bar, dove è costretta a lavorare tra vessazioni e gradi umiliazioni. Ma proprio davanti al Ponte del Diavolo incontra l'artista Calogero. «Che rappresenta il genio e la creatività italiana. Sarà lui a dare alla bambina fiducia in se stessa e a far scattare quella scintilla che la porterà ad avere successo».
La scelta di Lucca non è causale. Lo zampino c'è l'ha messo la Toscana Film Commission. In un primo momento la fiction doveva essere girata a Prato, almeno trentamila cinesi, un quartiere (quello di via Pistoiese) dove si parla quasi esclusivamente la lingua orientale. Poi ci sono state incomprensioni e tutto si è spostato a Lucca. E anche qualche polemica per la decisione di affibbiare la parte del cattivo a un imprenditore, guarda caso di Prato.

Corriere della Sera 23.12.11
Lavoro, la Cina ci obbliga a cambiare (ora)
di Milena Gabbanelli


Il 19 dicembre ho letto sul questo giornale un'intervista all'amministratore delegato di Google, che afferma, fra le altre cose: «Secondo me la politica in Italia, in Europa, e in una certa misura anche negli Usa, non è riuscita a mettere a fuoco la sfida che ha davanti. Si fanno soprattutto scelte tattiche, anche se importanti: le pensioni, i sostegni all'euro. Ma il vero problema è quello della competizione globale, dalla quale non ci possiamo ritirare. Puoi avere questo desiderio, ma se l'Italia realizza un grande prodotto e poi i cinesi si mettono a farlo meglio, non hai alternative: devi cambiare. La gente, da voi come da noi, è molto arrabbiata per questo...». Lo stesso giorno, sempre sul Corriere della Sera, leggo la reazione dei sindacati alla manovra: «La leader Cgil ha poi ribadito la sua strenua difesa dell'articolo 18: "Una norma di civiltà che dice che non si può licenziare un lavoratore perché sta antipatico, ha opinioni politiche o fa il sindacalista. Anche se non si applica a tutti è un deterrente contro la discriminazione. Un Paese democratico e civile non può rinunciarvi». Non entro nel merito di chi ha ragione e chi ha torto. Credo invece che le energie e le intelligenze dovrebbero essere convogliate nella costruzione di un sistema che permetta alle aziende (tutte e non solo quelle con meno di 15 dipendenti) di poter assumere e licenziare senza che questo debba essere, per chi viene licenziato, un dramma o la rovina di una famiglia. Ci sono esempi nei Paesi scandinavi che potrebbero essere studiati.
Sono le aziende (pubbliche o private) a creare ricchezza, e operano in un mercato globale in cui purtroppo le regole non sono le stesse in ogni Paese. Vincono i Paesi che facilitano le loro aziende, mediante una regolamentazione più rilassata, manodopera qualificata a minor prezzo e manipolazione dei cambi delle valute. Gli altri subiscono una progressiva riduzione della loro ricchezza, minori servizi pubblici, disordini sociali e impoverimento della loro forza di lavoro, per mancanza di esperienze al passo con le sfide dei tempi. A meno che non vi sia un ritorno, più o meno auspicabile, a una forma di protezionismo dei mercati, dobbiamo adattarci a queste regole finché non cambieranno. Non farlo ci spingerà inesorabilmente sempre più all'interno di una spirale letale che non può che portare a minor democrazia e civiltà.
Assicurare alle nostre aziende un futuro in cui possano creare ricchezza per tutti, non solo per pochi, vuol dire mettere in campo un sistema che permetta di superare senza traumi finanziari un licenziamento. Significa dare la possibilità di imparare un nuovo lavoro, grazie a scuole di formazione gratuite che assistano i cittadini per adattarsi, nel tempo, ad un mondo del lavoro che cambia più velocemente di quanto abbia fatto in passato (sarebbe auspicabile che il ministro Fornero avesse delle competenze in questo settore). Significa costruire una società in cui tutti pagano le tasse e non solo quelli che, in quanto dipendenti, non possono evaderle. Solo così potremo abbassarle, ripagare i nostri debiti e mantenere o migliorare i servizi pubblici per i cittadini. Spero che il governo Monti abbia un piano efficace che vada oltre la tracciabilità dei pagamenti superiori a mille euro, vista la sua reputazione da mastino. Il mondo è cambiato ed è incompatibile con il modo in cui siamo abituati a pensare e vivere. Spero per il mio Paese che i parlamentari per bene, i sindacati e i cittadini lo capiscano e comincino a lavorare a livello nazionale e internazionale per costruirne uno diverso e migliore.

La Stampa 23.12.11
La Cina regista dell’Oriente più immutabile
di Vittorio Emanuele Parsi


Mentre nel Vicino Oriente la mappa dei regimi ha subito in pochi anni importanti cambiamenti, nell’Oriente Estremo tutto sembra procedere immutabile. Dopo la detronizzazione di Saddam Hussein in seguito all’invasione americana del 2003, abbiamo assistito alla caduta di Ben Alì in Tunisia, alla fuoriuscita di Mubarak in Egitto, alla morte violenta di Gheddafi in Libia e al vacillare del potere degli Assad in Siria. Nel frattempo, nella lontana Corea del Nord, il terzo Kim («il grande successore») si appresta in tutta tranquillità, almeno apparentemente, ad ereditare il potere che già fu di suo padre («il caro leader») e di suo nonno («il grande leader»). In ottica «familiare», quello che non è riuscito agli Hussein, ai Gheddafi, ai Mubarak e che oggi è a rischio per gli Assad sembra funzionare perfettamente per i Kim. Ma quali sono le ragioni per cui strategie simili (di appropriazione dinastica del potere) conoscono esiti così diversi e, più in generale, perché l’Estremo Oriente non sembra scosso dalla stessa turbolenza o agitato dalle analoghe spinte che stanno interessando il Vicino Oriente?
Credo che la risposta vada ricercata, ancora una volta, nella Guerra Fredda e nella sua fine. Ancorché non avesse costituito un teatro di importanza paragonabile a quello europeo, il Vicino Oriente è stato pesantemente condizionato prima dalla Guerra Fredda e poi dal suo esito. Negli anni successivi al 1989, con la vittoria degli Stati Uniti, la regione a Sud e a Est del Mediterraneo è stata investita dai processi di globalizzazione economica senza riuscire però ad avvantaggiarsene. Il risultato è stato quello di crescite economiche fragili, squilibrate, insufficienti a offrire chance di sviluppo per popolazioni in tumultuosa crescita che hanno finito con l’aumentare le diseguaglianze, abbattere i già bassi livelli di vita, mettere in luce la corruttela di regimi sempre più delegittimati. La fine della Guerra Fredda, prima, e il declino del lungo «momento unipolare» degli Stati Uniti, poi, hanno semplicemente consentito che le contraddizioni potessero esplodere liberamente, generando quel flusso di sommovimenti rivoluzionari che chiamiamo «primavera araba».
Ben diversamente sono andate le cose in Estremo Oriente, dove il cambiamento più rilevante è avvenuto prima della conclusione della Guerra Fredda: con il riavvicinamento sino-americano del 1972 e il lancio delle politiche di «Riforme e Apertura» da parte di Deng Xiao Ping nel 1978, che avrebbe portato all’inedita «economia socialista di mercato» tutt’ora vigente in Cina. Gli effetti della fine della Guerra Fredda sono stati per così dire anticipati dalle trasformazioni interne del più grande player dell’Asia Orientale, che è riuscito nell’impresa di perpetuare il potere della classe dirigente comunista (siamo alla quarta generazione postDeng), inventando un inedito equilibrio tra autoritarismo politico e apertura economica finora vincente e accentuando il suo avvicinamento agli Stati Uniti. La capacità di giocare di anticipo spiega la stabilità cinese, al punto che persino il momento più drammatico nell’evoluzione del sistema cinese (la repressione di piazza Tienanmen) avviene nel giugno 1989, cinque mesi prima della caduta del Muro di Berlino. Ancora oggi che si sente in condizione di rivendicare un maggior ruolo nell’intera area del Pacifico, Pechino si guarda bene dal correre il rischio, di poter essere percepita come una potenza revisionista di uno status quo finora per lei tanto positivo, di cui anzi si erge a ferreo guardiano. Ed è in quest’ottica, che la Cina presta la sua fondamentale assistenza alla famiglia Kim, consentendo di celebrare la terza successione dinastica a un regime che non potrebbe essere più lontano ideologicamente da quello attuale di Pechino e che riesce a presentarsi tanto minaccioso per la comunità internazionale nella sua perpetuazione quanto nella sua caduta. Così, paradossalmente, facendo in modo che l’unica vera vestigia delle fasi più dure della Guerra Fredda il regime nordcoreano sopravviva proprio laddove la Guerra Fredda è finita per prima grazie al Paese la Cina che quella fine aveva saputo anticipare traendone il massimo vantaggio.

Repubblica 23.12.11
La crisi mondiale e l’incognita cinese
di Paul Krugman


La fotografia della situazione è la seguente: la crescita degli ultimi anni ha fatto affidamento su un colossale boom delle costruzioni alimentato da un´impennata dei prezzi degli immobili, che mostra tutti i segni classici di una bolla speculativa. C´è stata una rapida crescita del credito, che non ha avuto come canale il sistema bancario tradizionale ma soprattutto il «sistema bancario ombra» non regolamentato, non sottoposto alla vigilanza di organismi pubblici e non sorretto da garanzie pubbliche sui depositi. Ora la bolla sta scoppiando e ci sono ragioni concrete per paventare una crisi finanziaria ed economica.
Sto parlando del Giappone alla fine degli anni 80? Oppure sto descrivendo l´America del 2007? Potrebbe essere l´uno o l´altra, ma nel caso specifico sto parlando della Cina, che sta emergendo come un altro focolaio di problemi nel contesto di un´economia mondiale che in questo momento ha bisogno di tutto tranne che di cose del genere. Finora ero stato molto riluttante a pronunciarmi sulla situazione cinese, anche perché è difficilissimo capire che cosa stia succedendo effettivamente. Tutte le statistiche economiche nella migliore delle ipotesi sono una sorta di romanzo di fantascienza particolarmente noioso, ma quelle cinesi più di tutte le altre. Mi piacerebbe trovare un esperto di cose cinesi in grado di darmi qualche indicazione, ma sembra che ogni esperto abbia una sua teoria, diversa da quella di tutti gli altri.
Anche limitandosi ai dati ufficiali, però, la situazione è inquietante e le notizie recenti sono sufficientemente drammatiche da far suonare un campanello d´allarme.
L´elemento più sorprendente dell´economia cinese nell´ultimo decennio è la lentezza dell´incremento dei consumi delle famiglie rispetto alla crescita complessiva: in questo momento la spesa per i consumi ammonta ad appena il 35 per cento circa del Pil, più o meno la metà del dato statunitense.
Ma allora chi è che compra i beni e i servizi che la Cina produce? In parte siamo noi: con la riduzione del peso dei consumi nell´economia, la Cina si è affidata sempre di più al surplus commerciale per tenere a galla l´industria manifatturiera. Ma il fattore più significativo, dal punto di vista cinese, è la spesa per investimenti, che è schizzata fino a sfiorare la metà del Pil. La domanda ovvia è: con una domanda di consumi relativamente bassa, qual è la ragione di tutti questi investimenti? E la risposta è che dietro c´è soprattutto una bolla immobiliare, che si gonfia sempre di più. Gli investimenti nel settore immobiliare sono più o meno raddoppiati, in percentuale del Pil, dal 2000 a oggi, e rappresentano più della metà dell´aumento complessivo degli investimenti. E il resto sicuramente deriva, in buona misura, dall´espansione di aziende che vendono i loro beni e servizi alla fiorente industria delle costruzioni. Ma siamo sicuri che si tratta di una bolla? Ne ha tutti i segni caratteristici: non solo l´aumento dei prezzi, ma anche quel genere di febbre speculativa che conosciamo fin troppo bene per averla sperimentata sulla nostra pelle appena qualche anno fa (pensate alle coste della Florida).
E c´è anche un altro parallelo con l´esperienza americana: la gran parte del boom del credito viene non dalle banche, ma da un sistema bancario ombra non controllato e non protetto. Scendendo nel dettaglio, le differenze sono considerevoli: il sistema bancario ombra all´americana implicava, tendenzialmente, prestigiose società di Wall Street e strumenti finanziari complessi, mentre la versione cinese di solito riguarda banche clandestine e perfino monti di pietà. Le conseguenze però sono simili: in Cina, come in America qualche anno fa, il sistema finanziario potrebbe essere molto più fragile di quanto mostrino i dati sulle banche convenzionali.
Ora la bolla sta visibilmente per scoppiare. Quanti danni infliggerà all´economia cinese (e a quella mondiale)?
Alcuni commentatori dicono di non preoccuparsi, che la Cina ha leader forti e intelligenti, che faranno tutto quello di cui c´è bisogno per far fronte a un rallentamento dell´economia. Il sottinteso, quasi mai esplicitato, è che la Cina può fare quello che è necessario fare perché non deve preoccuparsi delle sottigliezze della democrazia.
Mi sembrano tanto le ultime parole famose. Ricordo benissimo di quando i giapponesi dicevano le stesse cose negli anni 80, di quando si sentiva dire che i brillanti burocrati del ministero dell´Economia nipponico avevano tutto sotto controllo. E mi ricordo, anni più tardi, di quelli che si sperticavano a dire che l´America non avrebbe mai e poi mai ripetuto gli errori che erano stati all´origine del decennio perduto del Giappone, quando in realtà le cose da noi stanno andando molto peggio di come andavano in Giappone.
Personalmente le dichiarazioni delle autorità cinesi sulla politica economica non mi sembrano particolarmente lucide e illuminate. In particolare, le misure assunte dalla Cina contro gli stranieri (ad esempio l´imposizione di un dazio punitivo sulle importazioni di automobili di fabbricazione statunitense, che non sarà di alcun aiuto all´economia del Celeste Impero, ma contribuirà ad avvelenare le relazioni commerciali con Washington) non mi danno l´idea di un Governo maturo, che sa quello che sta facendo. Altri dati episodici sembrano indicare che il Governo cinese non sarà condizionato dai vincoli dello Stato di diritto, ma è condizionato dall´onnipresente corruzione, e questo significa che ciò che accade effettivamente a livello locale può avere ben poco a che fare con quello che ordinano a Pechino.
Spero di non essere inutilmente allarmista a questo proposito, ma è impossibile non essere preoccupati: la storia cinese ricorda troppo da vicino i disastri che abbiamo visto in altre parti del mondo. E un´economia mondiale già in sofferenza per i guai dell´Europa non ha davvero bisogno di un´altra scossa sismica.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 23.12.11
Anniversari
Quando l’Urss ammainò la bandiera
Finiva vent’anni fa la lunga agonia dell’Impero rosso
Il 25 dicembre ’91 veniva ammainata la bandiera dell’Urss Ultimo atto di una fine cominciata con l’eretico Krusciov
di Enzo Bettiza


Il più longevo e violento dei grandi totalitarismi del XX secolo moriva vent’anni fa come era nato. Senza colpo ferire, non un morto per le strade
74 anni. La durata dell’Unione sovietica dalla rivoluzione del 7 novembre 1917 allo scioglimento del dicembre 1991"
15 repubbliche. Dalla frantumazione nascono 15 nuovi Stati, dalle tre repubbliche baltiche (che si erano già staccate nell’estate ‘91) a quelle asiatiche"
Il becchino Gorbaciov. Aveva capito che il sistema non era riformabile Negoziava sempre al ribasso"
In silenzio come nel ’17. L’esperimento comunista si chiudeva com’era iniziato nella quiete apparente"
Una lunga retromarcia. Con la morte di Stalin e la fucilazione di Beria si era aperta la crepa fatale
Un”a breve primavera. Venne il congresso del ’56 Togliatti, indispettito, capiva che sarebbe franato tutto
Nel congelatore. Niente rende meglio l’idea della sclerotizzazione di Breznev, un manichino"
Gli zombie. Andropov e soprattutto Cernenko erano inebetiti incapaci persino di parlare

Sono trascorsi esattamente venti anni, quasi una generazione, dal momento in cui sulla cima del Cremlino venne ammainata la bandiera rossa dell’Unione Sovietica e innalzato il tricolore bianco-rosso-blu della Federazione Russa. Dovevano passare due anni dal 1989, segnato dalla caduta del Muro e dai crolli dei regimi comunisti nell’Europa centrorientale, prima che il comunismo originario esalasse a Mosca il suo ultimo respiro nel gelo di una muta notte di dicembre. Il più longevo e più violento dei grandi totalitarismi del XX secolo moriva così com’era nato. Senza colpo ferire, non un morto per le strade. La sconvolgente cavalcata storica del bolscevismo russo dopo settant’anni di guerre d’ogni genere, genocidii, carestie pilotate, processi falsificati, schiavitù organizzate, attentati sofisticati, invasioni e colonizzazioni definite «liberazioni» era iniziata e finita nel silenzio e nella quiete apparente: dall’autunno del 1917 in una Pietrogrado sbandata e distratta all’inverno di una Mosca pressoché inconsapevole di quanto stava accadendo negli ultimi giorni opachi del 1991.
Certo, da un punto di vista cronologico, strettamente ufficiale, l’ammainabandiera della falce e martello ai tempi insidiosi e insidiati di Boris Eltsin avvenne il 25 dicembre 1991. In genere, però, il declino dei vasti imperi secolari s’identifica di rado in una data secca e precisa; più che morire d’infarto fulmineo, come accadde in via eccezionale per l’Austria e l’Ungheria nel 1918, agonizzano a lungo e si spengono gradualmente come quello romano, o cinese, o turco, o britannico.
Ma il discorso si fa assai ambiguo se prendiamo in considerazione la duplice unicità dell’Unione Sovietica. La «superpotenza sottosviluppata», che aveva raggiunto il suo culmine espansionistico e militare con Stalin, era stata simultaneamente due cose: una mezza rottura e insieme una continuazione fisiologica dell’immane territorio bicontinentale degli zar. Non dice nulla l’ammirazione perfino estetica dedicata da Stalin all’armata poliziesca dell’Opricninà di Ivan il Terribile, ai formidabili cantieri schiavisti di Pietro il Grande, agli spettacolari villaggi Potëmkin di Caterina, al culto di Kutuzov e dei generali tolstoiani di Guerra e pace? La convenzione storiografica ci ha fornito una data ufficiale per la morte dell’impero sovietico, prolungamento coattivo di quello zarista, ma nella periodizzazione reale le coincidenze temporali potrebbero, a guardarle meglio, disporsi piuttosto diversamente. Potremmo, per esempio, intravedere un primo gravissimo infarto dell’organismo imperiale nella morte di Stalin e nella quasi immediata esecuzione del suo braccio destro, il capo della polizia segreta Beria. Poi, un secondo infarto potremmo scoprirlo nell’antistalinismo di Kruscev per metà viscerale e metà strumentale, che, dopo l’esplosivo «rapporto segreto» del 1956, toccherà un massimo grado di profanazione nel 1961 con la cacciata della mummia del satrapo georgiano dal Mausoleo della rivoluzione sulla Piazza Rossa.
L’altra mummia, quella intoccabile di Lenin, resterà di nuovo sola all’interno della cripta di porfido, che ricordo sovrastata da uno striscione con la rozza scritta manuale Zakryt na remont: chiuso per riparazioni. Quella seconda e infamante morte di Stalin, annunciata tra grida e applausi entusiasti sulla fine del XXII congresso del Pcus, sembrava coincidere con la chiusura «per riparazioni» di almeno tre decenni di una rivoluzione tarlata e stravolta. Se ne ricavava l’impressione di un congresso di dissacratori usciti di senno, che delegittimavano se stessi e rinnegavano il loro stesso passato dalla «a» alla «zeta». Mi giungeva anche la notizia di un Togliatti blindato nell’alloggio del corrispondente dell’Unità; un Togliatti affranto, infuriato, che in quelle ore critiche congegnava contorte autointerviste, destinate a spiegare l’inspiegabile ai confusi comunisti italiani e ovviamente attribuite alla stesura del corrispondente Augusto Pancaldi. Questi lo nutriva con cibi improvvisati e lo carburava con infinite tazze di caffè bollente.
Io e altri colleghi residenti a Mosca correvamo intanto di qua e di là, mescolandoci ai capannelli in discussione animata davanti alla cripta svuotata del cadavere «cattivo». Le lingue si scioglievano per la prima volta senza paura a un passo dal Cremlino. Tutti parlavano, a voce alta, di crimini e di persecuzioni. Taluni citavano il nome di uno scrittore ignoto, un certo Solženicyn, professore di matematica, ex deportato, che avrebbe inviato in lettura a Kruscev un racconto realistico sui campi di concentramento. Molti acchiappavano al volo il primo sconosciuto e gli raccontavano cupe odissee familiari. Apparve ad un tratto un figlio di Yakir, generale dell’Armata rossa a suo tempo famoso che, messo al muro, cadde gridando «viva il grande Stalin! » non si sa se per fanatismo sacrificale o se per sarcastico ed estremo disprezzo. Il figlio, irato, pallido, al centro della piazza affollata, puntava con le lacrime agli occhi l’indice sul Mausoleo, in un gesto maledicente accompagnato da frasi blasfeme contro il tiranno omicida.
Lo sconcerto indispettito e quasi spaventato di Togliatti era più che giustificato dal suo punto di vista nettamente antikrusceviano. Anche a me, già allora, pareva di assistere in anticipo sui tempi lunghi della storia a una vera e programmata distruzione dall’alto dei miti più intangibili dell’Urss e, quindi, almeno di una parte essenziale dell’Urss medesima. La sensazione era che l’impero, alternando traumi brutali a lentezze atone e grigie, si disintegrasse o via via si prosciugasse pezzo per pezzo a partire dalla profonda scissura inflitta al corpo del passato dai due congressi del ‘56 e ‘61.
Dopodiché arriviamo, con il brusco licenziamento di Kruscev nel 1964, alla cosiddetta «glaciazione» brežneviana che si presenta come una sorta di ristalinizzazione senile del sistema. L’assenza di vita diventa la vita stessa di un universo totalitario stanco, sfibrato, privo persino della ruggente vitalità distruttiva dell’era staliniana. Tutto si ossida, si calcifica, si gerontocratizza. Financo l’aspetto fisico dell’ultimo Brežnev è tristemente emblematico. Quello che una volta era stato un uomo bello, vigoroso, ambizioso, diventa al suo crepuscolo un manichino meccanico, un replicante semiassopito, tenuto artificialmente in vita per qualche ora al giorno da farmaci devastanti. I membri del politburo che circondano il segretario generale sono anch’essi decrepiti, imbalsamati, a nient’altro intenti che impedire che il vuoto, il nulla, annidato nella costruzione bolscevica, non impazzisca e non li divori uno per uno.
In seguito, sepolto Brežnev, la situazione clinica del Pcus non cambierà di molto con l’avvento di Andropov e poi di Cernenko. Questi due successori effimeri, destinati a morire in breve tempo l’uno dopo l’altro, non faranno che riconfermare la senilità malata di un vertice imperiale che tenterà invano di sopravviversi con la minaccia verso l’esterno, mediante i missili puntati sull’Europa e sulla Cina. La condanna a imitare il moto con una finta conquista del mondo si prolungherà e completerà malamente, sul piano interno, con i tentativi cosmetici di Andropov volti a estirpare la corruzione, l’alcolismo, le mafie locali. Durante il vago interregno andropoviano, ai conati di bonifica dell’economia, prostrata dalla gara militare con l’America, farà da riscontro una repressione pressoché totale del dissenso: manicomi per i contestatori, blocco dei visti d’uscita dall’Urss, persecuzione giudiziaria ed extragiudiziaria delle attività editoriali di «samizdat» non autorizzate.
I poveri e informi barlumi d’iniziativa di Andropov, che si trascina sulla sedia a rotelle, sono in realtà l’ultima fiammata che la candela dà prima di spegnersi. Tutto, infatti, si spegne, con l’arrivo sulla scena di un vero e proprio cadavere vivente: Cernenko. La mummificazione dell’ homo bolscevicus, nel vacillante ectoplasma di Cernenko, raggiunge alla sua maniera una perfezione assoluta quanto allucinata. Più infermo dell’infermo dottor Mabuse, egli finge di governare dal capezzale l’impero che sta già perdendo la Polonia purestendendosi ancora da Minsk a Vladivostok. A malapena si notano le sue apparizioni in pubblico; sorretto per le braccia, trascinato di peso sul podio, rivolge a stento un mormorio ai presenti ch’egli non sa chi sono e subito ritorna al Nulla da cui era venuto. La sua vuota fissità, la sua paralisi motoria, la sua assenza di parola riproducono tal quale la fissità, la paralisi, l’assenza di un sistema già immerso nell’immobilità senza uscite di sicurezza. Il paradosso non poteva essere più singolare. Mentre la potenza militare dell’Urss è al culmine, in parvenza dilagante dappertutto, l’Urss medesima al suo interno è allo zero dell’encefalogramma piatto. L’anno reale della morte dell’Unione Sovietica è in effetti il 1985 che coincide, al millimetro, con il decesso dell’ultimo gerontocrate russo Kostantin Cernenko. Il dopo, per dirla con un bisticcio, non sarà che la quiete di un cimitero inquieto.
L’avvento del «ragazzo» Gorbaciov appena cinquantenne, favorito dall’autorevole Andrej Gromyko, patriarca della nomenclatura cooptante, s’imporrà da sé con l’ineluttabilità di una legge di ricambio naturale. Il vecchio e gommoso Gromyko, implacabile giocoliere dei «niet» antioccidentali, aveva però sbagliato tempi e conti. Si dice che l’incanutito veterano della gerarchia, rispondendo ai critici, avesse giustificato così la sua scelta: «Solo il compagno Michail Sergeevic Gorbaciov possiede, oltre all’età, anche la forza d’animo, lo spirito acuto, la devozione assoluta e l’erudizione moderna oggi indispensabili al consolidamento e all’avvenire del socialismo qui e in Europa». Ma Gromyko non otterrà la gratitudine di Gorbaciov, che nel padrino vedrà un retaggio anchilosato e lo giubilerà all’incosistente carica onorifica di presidente del Soviet Supremo. Il giramondo giovanile e ciarliero, il quale terrà molto di più al pregiudizio positivo che gli tributeranno le platee d’Occidente, non avrà per scopo finale la riforma modernizzatrice dell’impero rifondato da Lenin e dilatato da Stalin dall’Elba al Mar del Giappone. Egli non sarà, come tanti credono ancora che lo sia stato, l’accorto e sfortunato riformatore del comunismo russo ed europeo; sarà piuttosto l’esuberante e simpatico notaio della sconfitta comunista. Sconfitta che l’ormai celeberrimo profeta Solženicyn descriverà amaramente così: «L’Urss non è altro che un mendicante con una bomba atomica in mano».
Ovunque Gorbaciov andrà, da Berlino a Pechino, scatenerà con la sola sua presenza fisica le folle giovanili a favore della democrazia postcomunista. Predominerà nelle sue corde, di là dalla retorica della perestrojka e della glasnost, la tattica del compromesso sia con gli ex avversari occidentali, che lo riterranno un responsabile uomo di Stato, sia con i più temibili nemici indigeni che non sapranno come frenarlo e inchiodarlo. Userà le arti del negoziato al ribasso perfino nell’agosto cruciale del 1991, quando, imprigionato con la moglie dai golpisti veterostalinisti, tratterà abilmente la liberazione e la otterrà chissà come in un paio di giorni. Il buonismo in politica estera, il sorriso cattivante, l’estrosità negoziale, la ritirata dallo showdown nucleare gli consentiranno di costruire, sulla rinuncia imperialista e la fine della guerra fredda, un notevole capitale d’immagine e di credito personale.
Gorbaciov aveva probabilmente capito benissimo e per primo ciò che altri in Russia e in Occidente rifiutavano di capire. Capiva e vedeva che l’Urss non si poteva più salvare né conservare. Di conseguenza ha cercato, riuscendoci, di conservare e salvare in parte almeno se stesso. Toccherà al suo ardito rivale storico, Boris Eltsin, rinnegatore convinto e autoritario del socialismo reale, il compito di tirare giù platealmente col suo pugno la bandiera di un passato morto per sempre.

l’Unità 23.12.11
Reato di negazionismo. La legge sullo sterminio turco approvata dall’Assemblea nazionale
La reazione. Ankara ritira l’ambasciatore e parla di «passo irreparabile» nelle relazioni con Parigi
Sul genocidio armeno crisi diplomatica tra Francia e Turchia
Approvata alla Camera la legge che istituisce il reato di negazionismo per il genocidio armeno perpetrato dai turchi. Ankara richiama l’ambasciatore a Parigi
di Luca Sebastiani


Com’era da immaginare la tensione diplomatica tra Francia e Turchia è entrata ieri in una fase particolarmente acuta. Nicolas Sarkozy infatti non ha accettato nessun ripiegamento, e appena pochi minuti dopo che l’Assemblea nazionale aveva approvato il contestato testo di legge repressivo per chi nega l’esistenza del genocidio degli armeni perpetrato tra il 1915 e il 1917 dai turchi, Ankara ha annunciato il ritiro del proprio ambasciatore a Parigi «per un periodo indeterminato».
Era una minaccia che era stata già brandita nei giorni scorsi dalle autorità turche, insieme alle rappresaglie economiche e culturali che dovrebbero seguire nei prossimi giorni contro un atto che il vice premier Bülent Arinç ha definito «un tradimento della storia».
Presentato al Parlamento dall’Ump, il testo che prevede di punire la negazione dei genocidi riconosciuti dalla legge con un anno di prigione o una multa di 45mila euro (o le due insieme), dovrà ora passare al Senato per l’approvazione definitiva. Contrariamente che nell’Assemblea, alla Camera alta è la sinistra ad avere la maggioranza, ma sulla questione del genocidio armeno vige in Francia un certo consenso, non foss’altro che per motivi elettoralistici.
LE ELEZIONI DELL’ANNO PROSSIMO
Non sfugge a nessuno, del resto, che l’accelerazione di queste ore discende in linea diretta dalle prossime scadenze elettorali, le presidenziali e le politiche. «Ogni voto conta», ha detto Sarkozy ai suoi, e alla vigilia di una campagna che si presenta tutta in salita per lui, il presidente non ha voluto rinunciare al voto di tutti quei francesi che gonfiano le fila dei partiti nazionalisti e sovranisti Fronte nazionale in testa che già non vedono di buon occhio l’Unione europea e che considerano l’integrazione della Turchia nell’Ue come una bestemmia. Con questo testo poi, il presidente ha voluto anche riconciliarsi con la consistente ed influente comunità armena di Francia, 500mila persone circa.
Nel 2007, alla vigilia della sua elezione, così come l’altra candidata all’Eliseo Ségolène Royal, Sarkozy si era solennemente impegnato di fronte ai rappresentanti degli armeni francesi ad adottare un testo sul genocidio già approvato dall’Assemblea nel 2006. Ovviamente si trattava di promesse elettoralistiche, come molte altre dell’allora candidato.
LE IPOCRISIE DI SARKOZY
I cablo di Wikileacks, se ce ne fosse stato bisogno, hanno rivelato che solo due mesi dopo il suo ingresso all’Eliseo Sarkozy ha spedito il suo consigliere diplomatico Jean David Levitte ad Ankara per rassicurare il governo che il provvedimento sarebbe morto al Senato. E infatti lo scorso maggio, quando la maggioranza senatoriale era ancora in mano alla destra, il testo del 2006 è stato bocciato. Quando lo scorso settembre i rapporti di forza al Senato si sono invertiti, il candidato socialista alle presidenziali François Hollande ha promesso che la gauche avrebbe ripreso il testo e lo avrebbe fatto accettare. In visita ad Yerevan, capitale armena, solo dieci giorni dopo Sarkozy non poteva che impegnarsi sulla stessa strada.
Ieri il ministro degli Esteri armeno Edouard Nalbandian ha espresso la sua «gratitudine alle alte autorità della Francia, all’Assemblea nazionale e al popolo francese» per l’impegno nell’approvazione del testo, anche se in realtà il consenso è tutt’altro che unanime. Anche se il Francia nessuno nega il genocidio degli armeni, in molti hanno espresso opinioni contrastanti sulla necessità di questa nuova legge.
La Francia ha riconosciuto il genocidio armeno con una legge del 2001, e la legge Gayssot prevede già misure di repressione contro il negazionismo in generale. Per questo anche dentro alla maggioranza il testo approvato ieri è stato visto come una forzatura che rischia di soffiare sul fuoco in «una regione fragile e sensibile». Per il premier François Fillon poi, ha riportato il Canard enchaîné, le leggi sulla memoria sono letteralmente «una stronzata».

Repubblica 23.12.11
Su di noi 100 anni di odio ora la verità è salva
di Charles Aznavour


Questo intervento del celebre artista francese di origini armene è stato scritto in occasione della presentazione della legge approvata ieri

Ci sono voluti cinque anni per avere in Francia una legge che condanna la negazione del genocidio degli armeni. Un periodo lungo, che ha consentito a questo negazionismo di Stato di propagarsi sul nostro territorio attraverso una serie di manifestazioni, siti internet, profanazioni, atti di vandalismo, provocazioni. Ho qui la lista, chi vuole può consultarla. Queste aggressioni si iscrivono in quella stessa logica di odio che aveva presieduto al genocidio del 1915. Rientrano in quella stessa discriminazione razziale e in quella stessa arroganza criminale che era stata alla base dell´impresa di sterminio. È mai possibile che perfino in Francia, dove i nostri genitori hanno trovato rifugio per scampare a queste ignominie, i loro nipoti, quasi un secolo dopo, siano perseguitati dalla stessa malevolenza, dalla stessa ideologia omicida, dallo stesso flagello, il tutto promosso e incoraggiato dallo stesso Stato turco?
Il dibattito su questa legge, che certuni vivono come una limitazione alla loro libertà di espressione, è stato inquinato da numerose interferenze. Ma di che libertà si sta parlando? Il negazionismo è un´offesa alla verità dei fatti, un attentato alla memoria delle vittime, un oltraggio alla dignità umana. È un appello alla violenza e alla recidività. Il negazionismo di Stato è un elemento costitutivo del crimine, e sarebbe inconcepibile che lo Stato non si faccia carico di reprimerlo.
Come quasi tutti gli armeni di Francia, i miei genitori erano fra i profughi del 1915. Conserverò per sempre nella mia memoria i volti di quella generazione di miracolati, volti come quelli che figuravano, insieme ad altri, sulla famosa affiche rouge, il manifesto affisso sui muri di Francia dal regime collaborazionista, nel 1943, per additare alla pubblica riprovazione i partigiani fucilati del gruppo Manouchian, tutti lavoratori immigrati. La famiglia che ho costruito è cosmopolita: copre tutte le religioni del Libro. Mi sono sempre battuto contro ogni forma di razzismo e ho teso la mano al popolo turco, che non confondo con i suoi governanti.
Ma questi valori umanistici che ho costantemente difeso per tutti oggi vorrei che fossero pienamente rispettati anche per noi. Nessuno riuscì ad arrestare il meccanismo che condusse all´annientamento della civiltà della cosiddetta Armenia turca. Allora c´era la prima guerra mondiale. Che almeno vengano forniti gli strumenti per impedirne la negazione, oggi che siamo ancora in pace.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 23.12.11
Intervista a Gul Batus, docente universitaria ha insegnato Comunicazione e Relazioni Pubbliche all’Università di Istanbul“Troppi interessi a rischio Sarkozy farà retromarcia”
La sociologa: “Il popolo turco non accetterà mai questa norma”
di Marco Bresolin


La storia della Turchia non può essere usata dalla politica francese». Gul Batus, ex docente di Comunicazione e Relazioni Pubbliche all’Università di Istanbul, è convinta che la legge approvata ieri dall’Assemblée Nationale francese che punisce chi nega il genocidio armeno non passerà in Senato. Troppi gli interessi in gioco nei rapporti tra Turchia e Francia, ora a rischio perché Ankara «non accetterà mai un simile provvedimento».
La reazione del premier Erdogan è condivisa dalla popolazione turca?
«Dalla stragrande maggioranza. Da giorni si discute di questo provvedimento, considerato assurdo perché fa riferimento a fatti storici risalenti a un periodo in cui non esisteva nemmeno la Repubblica Turca. E poi va considerato anche il periodo: era in corso una guerra, non si è affatto trattato di un genocidio. Detto ciò, ogni Paese ha le sue “macchie” nel passato, ma proprio per questo la questione non va affrontata con la politica, bensì con la storia».
In che modo?
«Si possono aprire gli archivi, organizzare convegni e seminari. Ma non si può approvare una legge che ha solo uno scopo elettorale. Diversamente non sarebbe spiegabile il motivo per cui proprio ora la Francia tiri fuori la questione. In questa fase, come tutta l’Europa, ha problemi molto più seri da affrontare. E vista la crisi che vi ha colpiti, mi vien da dire: meno male che non siamo entrati nell’Ue».
Erdogan ha ritirato l’ambasciatore a Parigi e minaccia ripercussioni. Quali conseguenze ci saranno?
«Pesantissime. Le relazioni economiche e culturali sono molto forti. Per esempio nel settore automobilistico: abbiamo diversi stabilimenti Renault e Peugeot. Oppure mi viene in mente la notizia di qualche giorno fa, secondo cui Luis Vuitton aveva aperto a un socio turco. Che succederebbe se la Francia non facesse un passo indietro? Anche sul piano culturale i rapporti sono fitti: abbiamo otto scuole francesi in Turchia e i rispettivi direttori hanno da poco sottoscritto una dichiarazione contraria alla legge di Parigi».
La questione si risolverà?
«Credo proprio di sì, il Senato dovrà fare una riflessione: secondo i sondaggi l’86% dei francesi è contrario. E poi ieri mattina i deputati in Aula erano poco più di cinquanta, un decimo del totale. Ci sarà una retromarcia».
Anche perché i turchi in Francia rischierebbero di pagare a duro prezzo questa situazione...
«Lì ci sono 550 mila nostri connazionali, molti dei quali hanno manifestato davanti al Parlamento durante la votazione. Questa legge renderebbe molto difficile la loro vita in Francia».

La Stampa 23.12.11
Una disputa che imbarazza Obama
di Maurizio Molinari


La questione armena causa imbarazzi e grattacapi a Barack Obama da quando ha messo piede alla Casa Bianca. Il motivo è che durante la campagna elettorale del 2008 aveva adoperato l’espressione «genocidio» per definire la strage di armeni in Turchia avvenuta durante la Prima Guerra Mondiale, promettendo di commemorarlo come tale se fosse stato eletto. Ma dopo l’insediamento ha preferito ricorrere ad altri termini per scongiurare crisi con la Turchia, un partner Nato che Obama considera un alleato cruciale per rilanciare il dialogo con l’Islam. Così, nei tre anni da presidente, ha adoperato l’espressione armena «Meds Yeghem» (Grande Calamità) per commemorare il milione e mezzo di vittime cristiane, esprimendo rispetto per «la memoria di chi morì in una delle peggiori atrocità del XX secolo», ma facendo attenzione a non pronunciare la parola «genocidio».
Tale equilibrismo linguistico ha protetto l’intesa privilegiata con Tayyip Recep Erdogan, divenuto dopo l’inizio delle rivolte arabe uno dei principali interlocutori di Washington in Medio Oriente, ma ha comunque esposto Obama a pressioni e proteste. Ankara infatti si oppone con forza all’inserimento della strage di armeni fra le atrocità del ’900, ritenendola una «grave distorsione dei fatti» e accusando la Casa Bianca di «commenti inaccettabili che pregiudicano la normalizzazione dei rapporti fra Turchia e Armenia».
Sul fronte opposto la diaspora armena negli Stati Uniti sfrutta ogni occasione per mettere in difficoltà l’Amministrazione Obama, accusandola di aver mancato la promessa elettorale. Si tratta di un fronte rovente. Basti pensare che nelle ultime due settimane le associazioni di armeni-americani hanno ottenuto il passaggio alla Camera dei Rappresentanti di una mozione che chiede ad Ankara di «restituire i beni delle Chiese depredate durante il genocidio» perché «sono testimonianze uniche della Cristianità». Poi sono riuscite a bloccare al Senato la nomina di Matthew Bryza ad ambasciatore in Azerbaigian perché in passato si era opposto al riconoscimento del «genocidio armeno» da parte degli Stati Uniti, oltre al fatto di «essere sposato con una turca» seppur naturalizzata americana. Come se non bastasse, le associazioni armene, e i loro alleati di entrambi i partiti a Capitol Hill, stanno tentando di condizionare la suddivisioni degli aiuti economici ai Paesi del Caucaso per dare maggiori soddisfazioni a Erevan come forma di risarcimento per il mancato riconoscimento del «genocidio» del 1915. E si tratta di pressioni che mettono in difficoltà la Casa Bianca perché gli armeni sono un tassello della coalizione di minoranze che per tradizione vota i candidati democratici. Se Erdogan serve alle strategie mediorientali di Obama, rinunciare agli armeni può essere pericoloso per la corsa alla rielezione.

Repubblica 23.12.11
Parla Egemen Bagis, numero tre del governo turco e responsabile degli Affari europei
"Decisione razzista e xenofoba il popolo dirà no al made in France"
Nessun boicottaggio del governo. Ma la gente non comprerà vini e profumi che vengono da Parigi
di Marco Ansaldo


«Questa legge passata alla Camera di Parigi è una ferita insanabile nei rapporti fra Turchia e Francia, come ha appena commentato il nostro primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Perciò il governo turco ha deciso di adottare delle misure politiche, diplomatiche e militari. Ma nessun boicottaggio delle merci francesi. Sarà il popolo a decidere. È composto da gente emotiva, ed è la nazione a fare le sue scelte in base ai propri sentimenti».
Sono ore aspre ad Ankara. L´esecutivo di Erdogan si è riunito dopo la notizia che chi nega il genocidio armeno verrà perseguito con il carcere e pene pecuniarie. La Turchia oggi ammette i massacri del 1915, ma ne contesta l´entità e soprattutto la definizione di "genocidio", in cui non si riconosce. «Vogliono compromettere definitivamente i nostri rapporti con l´Europa è la tesi che circola negli ambienti diplomatici e nell´opinione pubblica Nicolas Sarkozy non solo si oppone all´ingresso della Turchia, ma vuole accaparrarsi i voti alle presidenziali dei quasi 600mila armeni presenti in Francia». A parlare con Repubblica è Egemen Bagis, numero tre del governo, responsabile per gli Affari europei e a capo del negoziato con la UE.
Ministro Bagis, perché parlate di ferita insanabile?
«Perché si tratta, come ha spiegato Erdogan, di una decisione presa con un fondamento di razzismo, discriminazione e xenofobia».
Che cosa vi disturba della scelta di Sarkozy?
«Sarebbe molto meglio se il signor Sarkozy abbandonasse il ruolo di storico, e pensasse piuttosto a risolvere i problemi economici dell´Unione Europea di cui il suo Paese è membro. Perché i suoi sono tentativi di abusare della politica interna della Francia. In realtà, così sta cercando anche di nascondere la propria perdita di consensi».
È vero che boicotterete anche una serie di prodotti commerciali francesi?
«Il popolo turco è emotivo ed esprime le sue reazioni. Lo abbiamo visto anche in passato. Possono scegliere da loro il supermercato dove fare la spesa, i negozi in cui acquistare le essenze, quale yogurt comprare, con quale tipo di linea aerea volare».
E quali prodotti possono rientrare sotto queste categorie?
«I cosmetici, i profumi, l´abbigliamento. I miei concittadini sono intelligenti e sanno scegliere fra i prodotti di importazione e quelli fabbricati qui. Nel comprare la propria automobile sanno se si tratta di una vettura locale oppure estera. In questo Paese la gente ha già versato il vino per le strade, o bruciato abiti e cravatte. Non c´è alcun bisogno di incitamento: sanno prendere decisioni da sé».

l’Unità 23.12.11
Al Cairo incontro tra i capi islamici e la dirigenza di Al Fatah
Riconciliazione nazionale: a gennaio il nuovo governo palestinese
Abu Mazen apre l’Olp a Hamas Israele: «Una scelta gravissima»
Hamas entra nell’Olp. Un passo cruciale per l’unità palestinese. Al tavolo anche esponenti della società civile e della Jihad islamica. Dura la presa di posione dello Stato ebraico: «Hamas resta un’organizzazione terrorista».
di Umberto De Giovannangeli


Hamas entra nell’Olp. Un passo cruciale per l’unità palestinese. Khaled Meshaal, leader del movimento islamico è entrato a far parte della commissione che preparerà le elezioni per la guida dell’Olp. Meshaal lavorerà con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). «La riconciliazione è decollata. Ci potrà volere tempo, ma abbiamo iniziato», afferma Azzam al-Ahmed, negoziatore di al-Fatah a seguito dei colloqui al Cairo tra i leader palestinesi. L’atmosfera è positiva, confermano fonti di Hamas, secondo le quali si torna adesso a parlare del ritorno nella Striscia di esponenti di Al-Fatah fuggiti nel 2007, in seguito al putsch contro Abu Mazen.
STRETTA FINALE
Allargamento dell’Olp e non solo. Un governo unitario palestinese, composto da esperti della Cisgiordania e di Gaza, sarà varato non più tardi del gennaio 2012: questo uno dei punti concordati dalle diverse fazioni palestinesi riunitesi al Cairo negli ultimi giorni. Lo ha reso noto Fawzi Barhum, un portavoce di Hamas. Le fazioni hanno inoltre approvato la composizione di un comitato di nove personalità presieduto dall’ex rettore dell’ Università Bir Zeit (Cisgiordania), Hanna Nasser che dovrà curare la organizzazione di nuove elezioni presidenziali e politiche nei Territori, nel maggio 2012. Entro la fine del gennaio 2012, secondo quanto reso noto da Barhum, gli esecutivi di Hamas a Gaza e dell’Anp a Ramallah rilasceranno inoltre tutti i detenuti politici. Da Ramallah,l’agenzia di stampa ufficiale Wafa conferma che Abu Mazen ha costituito un comitato elettorale, in vista delle elezioni presidenziali e politiche. La formazione di un governo unitario, composto da esperti e sostenuto da tutte le forze politiche, è slittata alla fine di gennaio. L’incarico di questo governo sarà di ricucire il lungo «strappo» fra Gaza (da quattro anni sotto il governo di Hamas) e la Cisgiordania (controllata dall’Anp) e di preparare il terreno per le elezioni. Secondo alcune indiscrezioni, Abu Mazen potrebbe allora presentarsi nella doppia veste di transizione sia come presidente sia come nuovo premier dell’Anp, nominando al suo fianco due vice premier: uno di Hamas, l’altro di alFatah. Altri problemi spinosi restano comunque sul tavolo: fra questi, la liberazione dei detenuti politici in Cisgiordania e a Gaza e la fusione di tutte le forze di sicurezza sotto un’unico comando. In Cisgiordania Abu Mazen controlla fra l’altro la «Forza Deyton», armata ed addestrata dagli Usa, mentre a Gaza Hamas controlla 15-20 mila miliziani inquadrati nelle Brigate Ezzedin al-Qassam e dotati di razzi capaci di raggiungere l’hinterland meridionale di Tel Aviv. Anche se le indiscrezioni che rimbalzano dal Cairo sono scarse, molti analisti palestinesi hanno maturato la sensazione che in questi giorni la loro leadership politica stia lavorando con impegno alla riconciliazione. Questa, viene fatto notare, è anche una diretta conseguenza degli sconvolgimenti accaduti in Egitto (dove per anni Hosni Mubarak aveva mantenuto la funzione di «angelo custode» personale di Abu Mazen) e in Siria dove, secondo la stampa, il terreno ormai brucia sotto i piedi dei vertici politici diHamas.
GEUSALEMME ACCUSA
Immediata la reazione d’Israele. «Nessuno nella comunità internazionale dovrebbe avere alcuna illusione nei confronti di Hamas. È un movimento terroristico nel suo cuore. Quando Abu Mazen fa dei passi verso Hamas, si allontana dalla pace», sostiene il portavoce del governo israeliano, Mark Regev, negando l’ipotesi che Hamas si stia spostando verso posizioni più moderate, in relazione alla riconciliazione con al-Fatah. Regev ha sottolineato che nelle celebrazioni di inizio mese il gruppo ha ribadito i suoi appelli per la distruzione dello Stato ebraico.

il Fatto 23.12.11
La santa congiura
Lo scrittore al Aswani minacciato dopo la denuncia dell’intesa militari-islamisti che schiaccia l’Egitto
di Roberta Zunini


 Il più importante scrittore egiziano e una delle voci più coraggiose nel denunciare i crimini del regime di Mubarak, Ala al Aswani, è sotto attacco: ogni giorno viene criticato dai media egiziani, che rispondono ai voleri del Consiglio militare al potere; una settimana fa è stato aggredito nei pressi di piazza Tahrir e due giorni fa ha dovuto affrontare una cinquantina di salafiti e controrivoluzionari che lo aspettavano, minacciosi, sotto casa. “Non gli avrei mai dato la soddisfazione di modificare la mia giornata, ma non nascondo di aver provato inquietudine. Per fortuna passanti e vicinato hanno preso le mie difese. Sono stato accusato di essere ateo e di mettere in cattiva luce l'islam. Gli ho risposto: ‘Domandatevi cosa significhi davvero secolarismo’. Non ho nulla contro i credenti, a qualsiasi fede essi appartengono. Resta il fatto che come io rispetto la loro libertà di credere, loro devono rispettare la mia di non credere. Il problema, comunque, non è l'islam in sé ma, come sempre, chi usa la religione per imporre un sistema di potere. Ed è ciò che sta accadendo oggi in Egitto dove il Consiglio militare coopera con la Fratellanza musulmana e soprattutto con i salafiti”.
CIÒ SIGNIFICA che il Consiglio militare, il nucleo politico dell'esercito sta ricevendo soldi non più dagli Stati Uniti ma da altre potenze straniere? “L'esercito era stato finanziato effettivamente in gran parte dagli Stati Uniti ma, a giudicare dai milioni di dollari spesi dalla Fratellanza musulmana e dai salafiti per organizzare le loro campagne elettorali, si può dedurre che il denaro stia arrivando da altre potenze o ricche organizzazioni”. Per esempio i ricchi wahabiti (una delle correnti più retrive dell'islam sunnita, ndr) dell'Arabia Saudita, visto che i salafiti e la Fratellanza musulmana sono sunniti e il feldmaresciallo Tantawi al vertice del Consiglio militare è visibilmente legato alla fratellanza? “Non ho prove per sostenere che i wahabiti stiano finanzianza. Non rendendosi conto di fare il gioco del Consiglio militare, che ha provocato l'instabilità proprio per mettere in atto una controrivoluzione”.
SECONDO L'AUTORE di “Palazzo Yacoubian” la maggioranza islamica che sta vincendo le elezioni parlamentari – dall'altro ieri si sta tenendo l'ultima fase delle consultazioni, nove province sono al ballottaggio per scegliere di fatto tra candidati dei Fratelli musulmani e salafiti – comunque è falsata. “Il Consiglio militare ha aiutato i partiti islamici a vincere: ampliando come prima cosa i collegi elettorali, ha avvantaggiato i candidati dei partiti più ricchi, gli unici cioè che potevano viaggiare in lungo e in largo per incontrare i propri elettori. I giovani rivoluzionari non hanno un soldo e quindi sono stati penalizzati. Ma quando si è trattato di verificare la provenienza dei soldi per il battage pubblicitario elettorale, come prevede la legge sul finanziamento ai partiti, gli ispettori hanno fatto finta di nulla”. Al Aswani tuttavia sostiene che il responso delle urne vada accettato democraticamente e che i rivoluzionari debbano legittimarlo confrontandosi pacificamente come avviene in democrazia. Confidando soprattutto sulle donne che, “loro sì, continuano a sostenere senza tentennamenti la rivoluzione”.
do il nuovo regime composto da alti militari e islamici, ma è un ragionamento che ha una solida logica”. Al Aswani su una cosa è tranchant: “Per ora il regime di Mubarak è stato sostituito da un altro regime. Anche se, per alcuni versi, la situazione attuale è ancora più grave che in passato. Il Consiglio militare uccide i rivoluzionari con il triplice scopo di togliere di mezzo i più determinati a cambiare le cose, di terrorizzare coloro che li sostengono e di scatenare l'odio tra la gente. Circa 20 milioni di egiziani si sono tenuti ai margini del processo rivoluzionario. Si tratta di persone che hanno preferito non schierarsi apertamente per varie ragioni. Inizialmente però, non erano contrarie al cambiamento. Ora, invece, queste stesse persone stanno cambiando idea e detestano i rivoluzionari perché impaurite dal clima di instabilità e insicurez-

La Stampa 23.12.11
Va a ruba in Francia un pamphlet al vetriolo
“Troppo stress” e spuntano gli anti-natalisti
1,6 milion. Sono tanti i figli che Oltralpe vivono con un genitore che si è risposato Molti odiano il Natale in quanto festa della famiglia tradizionale e in Francia una su tre finisce in divorzio
di Alberto Matteoli


Se detestate il Natale siete forse cattivi, ma di certo in buona compagnia. Forse perché la crisi morde e non è un Natale lieto, in Francia si fanno sentire quelli che proprio non amano l’albero, aborriscono i cenoni, odiano gli auguri, non sopportano Bing Crosby e, insomma, se potessero concierebbero le Feste per le feste.
Lo conferma il successo editoriale del Natale 2011, un librino che si è venduto talmente bene che adesso è in ristampa. Il suo autore è Robert Benchley (1889-1945), oggi quasi dimenticato o ricordato solo perché era un amicone di Hemingway, ma che fu un grande reporter di «Vanity Fair» e del «New Yorker». Il titolo del suo bestseller postumo dice tutto: «Pourquoi je déteste Noël», «Perché detesto il Natale». In dodici raccontini ecco rosolati peggio del cappone tutti i più melensi luoghi comuni delle festività. Babbo Natale finisce in padella, e con tutte le renne.
Il «Parisien», dal canto suo, ha pubblicato una pagina di testimonianze degli, chiamiamoli così, antinatalisti. C’è chi parte per mete esotiche solo per sottrarsi al tour de force dei cenoni e chi dice che, dopo la morte di una persona cara, Natale non è più Natale, o lo è meno. I soliti esperti pre^t-à-penser ci riflettono sopra. Jean Viard, sociologo delle vacanze, nota che il Natale è come «un compleanno universale», dunque tempo di bilanci che non tutti hanno voglia di fare. Isabelle Barbanti, psicoterapeuta, spiega che «questa festa rinvia alla famiglia, dunque alla propria infanzia che si è vissuta più o meno bene».
E questo è il punto. Se il Natale è la festa della famiglia, il problema di molti francesi è che di famiglie ne hanno più d’una. Attualmente, dall’altra parte delle Alpi un matrimonio su tre finisce in un divorzio e un milione e 600 mila figli vivono con un genitore che si è risposato. Il «Nouvel Observateur» ha pescato e intervistato una cinesiterapista di 46 anni, Bérénice, che ha quattro figli da due matrimoni. E, fra il marito e i figli suoi, la moglie del suo ex marito e i loro figli e i figli dei matrimoni precedenti delle mogli del suo ex marito, totalizza sei cenoni, arrivando al 26 non solo stremata ma anche, si suppone, ingrassata.
Un esempio perfetto è quello della prima famiglia di Francia. Con le sue varie mogli, Nicolas Sarkozy il Natale l’ha sempre celebrato all’estero, nel 2007 in Egitto, nell’8 in Brasile, nel ‘9 e nel ‘10 in Marocco. Quest’anno, con la crisi che imperversa, molto compreso nel ruolo di Presidente che tiene saldo il timone nella tempesta, Sarkò ha deciso di restare a Parigi. Sarkò festeggierà a casa di Carlà con i due figli del primo matrimonio, Pierre e Jean (a sua volta padre di un bimbo e in attesa di un altro), e quello del secondo, Louis, che vive a New York.
Non è chiaro se ci sarà anche il primo figlio di Carlà, Aurélien Enthoven, ma certamente la baby Giulia, al suo primo 25 dicembre. Almeno, ecco qualcuno che del Natale non si è ancora stufato.

Repubblica 23.12.11
Oggi Raul Castro annuncia la riforma migratoria che abolirà il "permesso di uscita" dall´isola Il divieto, in vigore da 50 anni, è fra i più odiati dai cittadini. Più facile anche il ritorno degli esuli
Cade il muro del regime, via libera ai viaggi
La blogger dissidente Yoani Sanchez su Twitter: "Ho la valigia pronta"
di Omero Ciai


Tutto è cominciato con un tweet: «Ho fatto la valigia. Se annunciano la riforma migratoria vado all´aeroporto. Mi lasceranno uscire?». Era Yoani Sanchez, la blogger dissidente cubana, che annunciava quello che numerose fonti non ufficiali segnalano da qualche giorno. Sarebbe sul punto di scomparire una delle più odiate proibizioni imposte dalla rivoluzione del ‘59: il divieto di uscire dall´isola. Non del tutto e con qualche distinguo. Ma ciò che dovrebbe essere cancellato è "il permesso di uscita" quel documento che rilascia il regime e che, oltre al viaggio, garantisce il ritorno in patria. Raul Castro ne ha già parlato all´inizio di agosto quando disse che il suo governo stava «riformulando ed elaborando» una nuova politica per superare restrizioni «non più necessarie». Insieme all´annullamento dell´obbligo del "permesso" per i cubani residenti sull´isola, il presidente cubano dovrebbe annunciare oggi anche la scomparsa del visto d´entrata per gli oltre due milioni di cubani che vivono all´estero, soprattutto negli Stati Uniti. E abolire la figura giuridica dell´emigrato "definitivo" con la quale chi ha lasciato fino ad oggi l´isola senza permesso come i balseros che attraversano sulle zattere le novanta miglia di mare dello Stretto della Florida viene dichiarato "disertore" dal regime che gli confisca i beni, di solito la casa, e gli proibisce il ritorno in patria.
Finora viaggiare all´estero è per molti cubani un sogno assolutamente proibito. E non solo per le ristrettezze dell´economia socialista. Ci sono dei casi emblematici come quello della Sanchez, premiata e invitata in tutto il mondo, che non ha mai ottenuto il famoso "permesso", ma anche quelli di decine di accademici, di sportivi, di musicisti, registi, attori. Tranne una piccola parte di privilegiati, come gli alti funzionari della nomenklatura e le loro famiglie, tutti gli altri sono oggi condannati a lunghe attese o costretti a rinunciare. Nei cinquant´anni dall´avvento di Fidel Castro ad oggi il visto di uscita è stato usato dal regime come arma di ricatto. Chi riusciva ad averlo poteva perderlo se, quando era all´estero, non si comportava come un buon militante della rivoluzione. E chi voleva lasciare definitivamente l´isola non riusciva ad averlo se non dopo numerosi patimenti, scioperi della fame e proteste internazionali come accadde a famosi scrittori, da Reynaldo Arenas (che scappò nel grande esodo del 1980) o a Norberto Fuentes (che lasciò l´isola solo grazie all´intervento di García Márquez). E bypassare il divieto di viaggiare, più che le difficoltà economiche, è spesso la vera ragione per la quale le ragazze cubane danno la caccia al «marito straniero».
Oggi Raul dovrebbe confermare questa ennesima spallata al regime blindato costruito dal suo fratello maggiore. Una svolta storica anche se non sarà così per tutti. È probabile che molti professionisti, soprattutto i medici, dovranno ancora ricorrere al permesso e questo dice il regime per evitare "una fuga di cervelli". L´aggiornamento della politica migratoria di Cuba potrebbe avere effetti anche sugli Stati Uniti che dagli anni Sessanta, ossia dai tempi della crisi dei missili e dell´embargo unilaterale, vietano anch´essi ai propri cittadini di recarsi liberamente sull´isola.

La Stampa 23.12.11
Pound mio padre non abita in Casa Pound
Mary de Rachewiltz, la figlia di Pound, figlia del poeta americano fa causa all’estrema destra che ne utilizza il nome
di Mario Baudino


Ezra Pound (1885 1972). Ammiratore di Mussolini, durante la Seconda guerra mondiale, quando viveva a Rapallo, si compromise con trasmissioni radiofoniche filofasciste. Processato in America per alto tradimento, fu dichiarato pazzo e internato in un ospedale criminale da cui uscì nel 1957
Devono smetterla. Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, non ne può davvero più. Non ammette che il nome di suo padre, il grande poeta dei Cantos, il «miglior fabbro» come lo chiamò T. S. Eliot dedicandogli La terra desolata, sia usato dal movimento di estrema destra come simbolo dei suoi centri sociali. Basta con «Casa Pound», la chiamino come vogliono, ma non così. Ha intentato una causa per «abuso del nome», che verrà discussa a Roma in gennaio. L’avvocato Felice d’Alfonso del Sardo, che ne tutela gli interessi, spiega l’aspetto tecnico: «Non è un processo di taglio politico. Noi non diciamo che siccome sono fascisti non devono usare il nome di Pound. Diciamo solo che non hanno chiesto l’autorizzazione a farlo».
Fin qui l’aspetto legale. Ma c’è naturalmente molto di più, perché da almeno due anni Mary de Rachewiltz (nata dalla relazione del poeta con la violinista Olga Rudge, e sposata con l’egittologo e principe russo Boris de Rachewiltz) si batte per difendere il nome paterno da quella che ritiene una vera e propria violenza. La strage di Firenze del 13 dicembre, commessa da un fanatico che frequentava Casa Pound, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso? «È stato un orrore, e l’ho sentito come un colpo durissimo anche per quanto mi riguarda. Firenze è la città dove ho studiato, e dove uomini come Giovanni Papini, Mario Luzi o Giorgio La Pira si batterono perché mio padre potesse tornare in Italia», ci dice dal suo castello di Brunnenburg, vicino a Merano, dove Pound trascorse l’ultimo periodo della sua vita.
Era stato infatti processato in America, dopo la guerra, per alto tradimento. Ammiratore di Mussolini (nei suoi versi lo chiama Ben, e parla anche di Claretta Petacci), dell’Italia e della poesia del Duecento, negli anni della guerra, quando viveva a Rapallo, si compromise con trasmissioni propagandistiche, in inglese, dirette agli americani. Gli costarono l’arresto nel ‘45, una detenzione terribile nel campo di Coltano (tre mesi chiuso in una gabbia), e infine il processo in cui fu dichiarato pazzo, mentre in sua difesa intervenivano intellettuali e scrittori da tutto il mondo. L’odissea finì col ritorno in Italia, prima a Venezia e poi a Brunnenburg, per gli anni del silenzio, del «tempus tacendi». Detto questo, «Pound non si è mai immischiato in faccende interne italiane», sottolinea la figlia.
È stato ovviamente un’icona della destra estrema per la sua vena anticapitalista, che però affondava le radici in quella che riteneva l’originaria idea di democrazia americana. Ma «non si usa il nome di una persona solo perché ha ammirato un dittatore, che gli italiani stessi hanno poi trattato nel modo più infame possibile». E per di più in un contesto che nulla ha a che fare con lui. «Il loro slogan, a quanto mi risulta, è “ognuno ha diritto a una casa”. Pound una casa in Italia non l’ha mai avuta. E non si può neanche dire che abbia aderito al fascismo. Ne era interessato, ammirò Mussolini, non gli voltò le spalle. Il suo non è un «pensiero di destra. Si opponeva al capitalismo finanziario, questo sì».
La sua celebre poesia Contro l’usura (peraltro tradotta proprio dalla figlia: «Con Usura nessuno ha una solida casa / di pietra squadrata e liscia / per istoriarne la facciata») è un’altra bandiera della destra extraparlamentare. «E certo non ne hanno colto la profondità». Mary de Rachewiltz si è imbattuta due anni fa in questo mondo, e non le è piaciuto. «È anche una questione di stile. Quando ho sentito che facevano riunioni nei bar o mercatini di Natale, mi sono detta: questo non è lo stile di Pound». E tuttavia «finché si trattava di un edificio occupato a Roma, pensai che potesse non riguardarmi. Ma quando hanno cominciato ad avere ramificazioni in tutta Italia ho capito che bisognava fare qualcosa».
Ha aspettato, fino allo scorso giugno. E si è decisa. Ora Casa Pound dovrà cambiare nome, almeno per quel che la riguarda. «Usano vecchi cliché, dicono delle tali sciocchezze. Spero proprio che in qualche modo la smettano». Pensa di riuscirci? «Guardi, tempo fa un americanista di grande valore mi disse: devi fare qualcosa. Ora lo faccio. Ma dovrebbero essere tutti coloro che hanno studiato Pound, a fare qualcosa».

il Fatto Saturno 23.12.11
Pantheon italiano
San Piero, proteggi i laici
Per Gobetti il Risorgimento fu “senza eroi”, né liberale né rivoluzionario. Si salva solo Cavour
di Emilio Gentile


SE L’ANTIFASCISMO fu, come affermava Carlo Rosselli, una religione laica della libertà, uno dei primi santi laici di questa religione fu Piero Gobetti, che ne diede testimonianza fino a mettere in pericolo per essa la sua stessa vita. Egli morì il 15 febbraio 1926, a soli venticinque anni, nella capitale francese, dove si era recato per proseguire la sua attività di editore, dopo le persecuzioni cui l’aveva sottoposto Mussolini fin da quando aveva conquistato il potere, perché nei confronti del fascismo Gobetti aveva subito manifestato un’opposizione intransigente.
All’intellettuale torinese, allergico alla retorica, la qualifica di “santo laico” forse non sarebbe piaciuta. Eppure, fra i diciotto e i venticinque anni, in un breve ma intenso periodo di indefessa militanza politica, egli fu mosso da un unico proposito: contribuire a «recare alla sua ultima logica il significato rivoluzionario moderno dello Stato e di concludere in una nuova etica e in una nuova religiosità la lotta contro le morte fedi». Questo stesso proposito influì sulla sua interpretazione del Risorgimento, che fu il tema dominante delle sue riflessioni e delle sue ricerche sulla cultura piemontese nel Settecento e nell’Ottocento. In una nota del saggio La Rivoluzione liberale, pubblicato nel marzo 1924, Gobetti scrisse che un «tentativo di storia del Risorgimento (qui ne offro uno schema del tutto inadeguato) è tra le mie speranze», convinto della funzione educativa di «una visione precisa del Risorgimento»,
«per chi voglia capire la vita contemporanea». La morte precoce gli impedì di realizzare la sua speranza. Tuttavia, pochi mesi dopo la sua scomparsa, gli amici pubblicarono una raccolta di saggi, intitolata Risorgimento senza eroi, nei quali Gobetti aveva disegnato «di offrire – scriveva il curatore – la sintesi di quella nuova concezione del Risorgimento a cui si ricongiungeva, come a sua necessaria premessa, la dottrina della “rivoluzione liberale”». Ed era una concezione, quella di Gobetti, che negava risolutamente al Risorgimento carattere rivoluzionario e liberale, perché non era riuscito a realizzare politicamente uno Stato moderno «come Stato-libertà», attraverso un’autentica rivoluzione, che Gobetti concepiva come «perenne creare di realtà sempre nuova, affermazione autonoma di cittadini indipendenti aventi in sé stessi il principio della loro attività e autorità sociale… il nostro Risorgimento non è riuscito a realizzare politicamente questo compito specifico per l’incapacità del popolo a esprimere dal suo seno una classe di Governo». E incapaci di esprimere una moderna classe dirigente furono anche gli uomini che unificarono politicamente l’Italia, perché dello Stato liberale accettarono soltanto «l’ossatura, il meccanismo, senza vivificarlo dall’interno». Essi, affermava Gobetti, hanno costruito uno Stato «a cui il popolo non crede, perché non l’ha creato con il suo sangue». Inoltre, agli uomini del Risorgimento mancò il senso della nuova religiosità laica e lo spirito eroico «inteso come concreta azione di uno spirito per un concreto ideale». Così come mancarono, nella lotta per l’indipendenza e l’unità, «forze e partiti ordinati: si supplì con volontari e avventurieri», con «il nebuloso messianismo di Mazzini, l’entusiasmo di Garibaldi, l’enfasi dei tribuni», insomma con una «materia incomposta», in cui Gobetti vedeva affiorare «i più profondi vizi della razza».
L’unico uomo del Risorgimento che Gobetti salvava dalla sentenza sommaria di fallimento era Cavour, «lo spirito provvidenziale, l’originalità del Risorgimento», che «da una materia ancora informe in dieci anni di diplomazia cerca di trarre gli elementi della vita economica moderna e i quadri dello Stato laico», obbedendo «a una segreta voce della storia e ad un oscuro destino della razza, che sembra annunciarsi durante tutto il Settecento in misteriosi profeti disarmati, sorpresi dalle tenebre, appena indovinano la luce».
Gobetti si era proposto di «guardare il Risorgimento contro luce», per distruggere «il mito che si è foggiato intorno al Risorgimento», ma la sua interpretazione polemica, per quanto eticamente ispirata, non era certo la più adatta a fornire una «visione precisa del Risorgimento». Adolfo Omodeo, storico del Risorgimento e intellettuale antifascista, giudicò molto severamente Risorgimento senza eroi negandogli valore storiografico. Non «propriamente una storia ma una forma polemica per meglio chiarire le ragioni del suo atteggiamento politico attuale» è stata definita la «delineazione storica del Risorgimento» di Gobetti da Nino Valeri, uno storico che fu suo amico personale. Ma se non storico, «ispiratore di studi storici» fu Gobetti, secondo Walter Maturi, un altro storico del Risorgimento. E se non fu un santo laico, certamente diede la testimonianza vissuta di un senso religioso della libertà.
Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero piemontese del Risorgimento, con uno scritto di Carlo Azeglio Ciampi, postfazione di Giancarlo Bergami, Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. 376, • 38,00

il Fatto Saturno 23.12.11
Sapienza antica, palestra di felicità
di Dino Baldi

L’IDEA CHE LA FILOSOFIA antica sia stata prima di tutto una disciplina speculativa impegnata nell’elaborare un sistema di pensieri astratti sul mondo è falsa. Questo, con poche eccezioni e sfumature, è il modo in cui tutti noi abbiamo studiato i filosofi greci e latini a scuola, e che dal medioevo in poi li costringe dentro categorie di verità, certezza e coerenza sostanzialmente a loro estranee. Ponendosi di fronte a Parmenide o Platone come se fossero Leibniz o Hegel, la caccia alle approssimazioni e contraddizioni negli autori antichi ha sempre garantito un ottimo bottino, e in molti casi ha evidenziato nelle loro costruzioni filosofiche crepe talmente profonde da far decretare l’inagibilità dell’intero edificio. Nell’antichità era filosofo non tanto chi praticava il discorso filosofico, quanto colui che viveva filosoficamente. Pur nella specificità di ciascuna scuola e di ciascun periodo, la filosofia era prima di tutto una praxis, un insieme di tecniche e precetti di conoscenza che avevano lo scopo di rendere l’individuo adeguato a se stesso e al mondo, fino a raggiungere quel dominio di sé dal quale sarebbe scaturita la purezza, la saggezza, la felicità. Questo modo di guardare alla filosofia antica, con tutto ciò che ne consegue in termini di giudizio storico e di uso attualizzante, è opera principalmente di Pierre Hadot e di Michel Foucault, che tra gli anni Settanta e Ottanta elaborarono una lettura della filosofia antica che rifiutava programmaticamente l’approccio sistematico. Entrambi sono presenti in questi giorni nelle librerie: di Hadot è uscita per Raffaello Cortina La felicità degli antichi, una raccolta di saggi apparsi fra il 1972 e il 1993 che ripropongono i temi più cari allo studioso da poco scomparso e la sua concezione della filosofia antica come palestra di esercizi spirituali; di Foucault Feltrinelli pubblica Il coraggio della verità, la trascrizione del corso sui cinici greci tenuto al Collège de France nel 1984, l’ultimo prima della morte. Non sono visioni totalmente sovrapponibili, perché diversi sono i punti di partenza e di arrivo: se Foucault riconobbe fin da subito un debito nei confronti di Hadot, quest’ultimo gli rimproverò l’ambiguità di una lettura troppo dipendente dall’individualismo degli anni ’70 (più che di “cultura del sé”, nel caso degli antichi era per lui meglio parlare di trasformazione, superamento del sé nella natura e nel tutto). In ogni caso, al di là delle differenze (e delle degenerazioni modernizzanti: si pensi al mestiere del consulente filosofico, che nasce per certi versi dallo stesso clima culturale), questo modo di avvicinarsi al mondo classico può essere ancora oggi produttivo e stimolante. Forse il maggior successo di Socrate come filosofo non fu, come si crede, il monumentale Platone, che fallì ripetutamente nei suoi tentativi di realizzazione dello stato ideale, bensì l’umile (filosoficamente) Senofonte, che di Socrate inverò l’insegnamento politico nel sapersi rapportare con le strutture del potere, e che dal lògos del maestro ricavò un ethos grazie al quale poté mettersi alla testa dei diecimila soldati di Ciro, e dal cuore della barbarie persiana ricondurli in patria sani e salvi, e, soprattutto, ancora Greci.
Pierre Hadot, La felicità degli antichi, Raffaello Cortina, pagg. 156, • 16,00
Michel Foucault, Il coraggio della verità, Feltrinelli, pagg. 368, • 35,00

Corriere della Sera 23.12.11
La Londra di Dickens, favola nera
La città «più prodigiosa e malvagia» attraverso i romanzi
di Giorgio Montefoschi


Nel Museum of London, a due passi dal Tamigi — lungo il quale i vetri e gli acciai della moderna architettura paiono diamanti nel sole e nel vento che sferza l'acqua — la mostra appena inaugurata, intitolata «Dickens e Londra», con la quale si aprono le celebrazioni del bicentenario della nascita (1812) dello scrittore inglese più famoso e più amato del suo tempo, esibisce quadri, ritratti, modellini di carrozze e di treni, programmi teatrali, pagine manoscritte (arruffate: chi lo avrebbe mai detto), porte di antiche taverne, abitacoli in legno che un tempo erano a un angolo di Trafalgar Square, e soprattutto Londra: la città governata dalla regina Vittoria, che Dickens, di notte, per raccogliere voci e dialetti, volti e maschere, percorreva in lungo e in largo come un folle.
Emerge, in tre grandi schermi, da fotografie ammantate di nebbia, la Londra delle carrozze che percorrono Regent Street e lo Strand; la Londra delle vecchie locande, descritte nel Circolo Pickwick, un tempo punto d'approdo delle diligenze provenienti dal Dorset o dal Surrey (quando le «diligenze percorrevano solennemente la campagna inglese»), poi diventate catapecchie sordide nelle quali gli incontri potevano essere anche più pericolosi che nel passato; la Londra dei mercati per le case dei ricchi come il Covent Garden, con i banchi delle verdure e della carne, i banchi delle aragoste e dei pesci appena pescati nel Mare del Nord o a Brighton, e quella dei mercati poveri, con carretti miseri e miseria umana intorno; la Londra delle belle botteghe con le vetrine in Soho o Drury Lane; la Londra fumosa e oscura dei grandi capannoni industriali nei quali si producevano le stoffe o le caldaie per le navi; la Londra delle taverne e dei pub; la Londra degli slum, i bassifondi, con i vicoli fangosi e maleodoranti; la Londra sventrata dalla ferrovia metropolitana; la Londra imperiale del fiume, con i bastimenti che arrivavano dall'altro capo del mondo, i magazzini del grano e delle spezie, e le dogane, e quella tenebrosa della foce dove vagavano le barche dei cercatori di cadaveri, come accade nell'inizio del più tenebroso romanzo occidentale, vale a dire nel Nostro comune amico; la Londra delle case sontuose di St. James, dietro alle quali brillano le candele, splendono le tovaglie e gli argenti, i camini scoppiettano, i camerieri sono impettiti, e quattordici persone (sempre nel Nostro comune amico e subito dopo quel crepuscolo intinto di sangue e di morte) sono seduti attorno a una tavola in una casa in cui tutto, compresi i proprietari, è «in ordine», e lucido, e si parla bene e male di chiunque — e quella delle case, sì, ricche, dietro alle quali però, come in Dombey e figlio, dominano il silenzio e il gelo; la Londra delle prigioni tetre nelle quali finiscono i truffatori e gli assassini, ma anche i poveri derelitti, come il povero Dorrit in La piccola Dorrit, per non aver pagato un debito (e una volta il padre di Dickens, maggiordomo, nella vita); la Londra che da lontano vede David Copperfield, nel 1849, quando per la prima volta arriva a Londra e gli fa dire: «Che meraviglia fu Londra quando mi apparve dalla distanza; pensai che ogni tipo di avventura possibile dei miei favoriti eroi si svolgesse lì dentro, e che fosse la città più piena di prodigi e di male di tutte le città della terra…»; la Londra verso la quale i viaggiatori sembravano misteriosamente attratti, «come sospinti da una disperata fascinazione»: il mostro ruggente che li inghiottiva, e nel quale si perdevano incapaci di tornare indietro…
Con Dickens è impossibile non fare i conti, anche se oggi, incredibilmente, in Italia per esempio, non lo legge quasi più nessuno (mentre un tempo, quando le navi provenienti dall'Inghilterra arrivavano a New York con l'ultima puntata di un suo romanzo, la gente si affollava sulla banchina, impaziente, e chiedeva ai marinai cos'era capitato a questo e a quello). La sua visionarietà, la sua capacità di invenzione nella trama, la sua perfezione nel descrivere gli esseri umani e la sua galleria sterminata di esseri umani, la forza necessaria a tenere insieme la tragedia e il riso, il Bene e il Male, la speranza e l'ineluttabilità, non hanno uguali nel romanzo ottocentesco.
Ma per leggere Dickens, bisogna veramente abbandonare sé stessi ed entrare nella porta che introduce al suo mondo. Questo — è il paradosso, per uno scrittore che più di ogni altro ha descritto la società in cui viveva con tutte le sue contraddizioni — è un mondo alla fine teatrale, o per meglio dire, forse, fiabesco. Un mondo nel quale i maestri di scuola sono cattivi, ma cattivi come nelle favole; i delinquenti sono efferati, ma come nelle favole; le fanciulle sono infelici o innocenti come nelle favole; l'amore esiste, ma i corpi non si sfiorano, come nelle favole; tutto esiste come nelle favole; tutto è vero e finto, come nelle favole. O come nella proiezione di un gigantesco, prodigioso, sogno.

Repubblica 23.12.11
Ecco perché viviamo nell'era meno violenta di tutta la storia

di Steven Pinker

Nel libro spiega come dal Medioevo a oggi l´umanità abbia visto diminuire barbarie e guerre
Il professore di Harvard, studioso di scienze cognitive, ha pubblicato un saggio acclamato in America
Si è trattato di un progresso costante, quantificabile nell´ordine dei millenni
La più ovvia di queste forze positive è stata lo Stato, col suo monopolio sull´uso legittimo della forza

Il giorno in cui leggerete questo articolo, verrete a conoscenza di uno sconvolgente atto di violenza. Da qualche parte nel mondo ci sarà stato un attentato terroristico, un omicidio insensato, una sanguinosa rivolta. Venire a conoscenza di queste atrocità e non pensare "fino a che punto arriveremo?" è impossibile. Una domanda più appropriata, in realtà, potrebbe essere: "Quanto atroce è stato il mondo in passato?". Che lo si creda o no, in passato la vita su questa Terra è stata di gran lunga peggiore. La violenza è in calo da migliaia di anni a questa parte e oggi molto probabilmente viviamo nell´epoca più pacifica nella storia della nostra specie. Certo, il calo della violenza non è stato omogeneo. In ogni caso si è trattato di un progresso storico costante, quantificabile nell´ordine dei millenni e visibile negli anni, dalla dichiarazione delle guerre alle sculacciate ai bambini. Sono consapevole che questa mia affermazione susciterà scetticismo, incredulità, e in qualche caso collera. Noi siamo portati a valutare la probabilità di un evento dalla facilità con la quale possiamo richiamare alla mente esempi analoghi e senza dubbio le scene di massacro hanno maggiori probabilità di entrare nelle nostre case e di restare impresse nella nostra memoria di gran lunga più delle immagini di gente che muore normalmente di vecchiaia. Ci saranno sempre abbastanza morti violente da riempire i telegiornali.
Non è difficile trovare le prove del nostro sanguinario passato. Basti pensare ai genocidi del Vecchio Testamento e alle crocifissioni del Nuovo, alle mutilazioni cruente delle tragedie di Shakespeare e alle fiabe dei fratelli Grimm, ai monarchi britannici che decapitavano i loro parenti e ai primi coloni americani che sfidavano a duello i loro nemici. Oggi la drastica riduzione di queste pratiche violente può essere quantificata: dando un´occhiata ai numeri si evince che nel corso della Storia il genere umano è stato benedetto da sei significative fasi di diminuzione della violenza. La prima fu un iter di pacificazione: la transizione dall´anarchia delle società dedite alla caccia, alla raccolta e all´orticultura alle prime civiltà agricole, con città e governi, iniziata circa cinquemila anni fa.
Per secoli, sociologi come Hobbes e Rousseau hanno formulato varie ipotesi dalle loro comode poltrone su come dovesse essere la vita allo "stato di natura". Oggi possiamo fare di meglio: l´archeologia forense – una sorta di "CSI Paleolitico" – può desumere il tasso di incidenza della violenza dalla percentuale di scheletri reperiti nei siti archeologici che presentano crani spaccati, decapitati o frecce ancora conficcate nelle ossa. Gli etnografi possono appurare le cause di morte nelle popolazioni tribali che hanno vissuto in tempi recenti fuori dal controllo statale. Da queste indagini risulta che in media il 15 per cento circa delle persone vissute in epoche antecedenti alla nascita degli Stati moriva di morte violenta rispetto al 3 per cento circa delle persone vissute dopo la nascita degli stati. Il secondo calo della violenza fu un processo di civilizzazione molto evidente in Europa. Dagli archivi storici risulta che tra la fine del Medioevo e il XX secolo i paesi europei assistettero a una contrazione del tasso degli omicidi da dieci a cinquanta volte. Tali cifre sono compatibili con ciò che ci è raccontato dei bui e spietati tempi medievali. C´erano così tante persone alle quali era mutilato il naso che nei testi medici dell´epoca si facevano congetture varie sui metodi e sulle tecniche più adatte a farlo ricrescere. Gli storici attribuiscono il calo della violenza al consolidarsi di un insieme variegato di territori feudali in grandi regni dotati di un´autorità centralizzata e infrastrutture di commercio. La giustizia penale divenne di competenza dello Stato e i saccheggi a somma zero cedettero il posto a redditizi commerci. La terza transizione, denominata talora Rivoluzione umanitaria, fu innescata infine dall´Illuminismo. Nel XVIII secolo si andò diffondendo l´abolizione della tortura giudiziaria. Al tempo stesso molte nazioni iniziarono a sfoltire la lista dei reati passibili della pena capitale. Sempre più paesi cominciarono altresì ad abolire passatempi sanguinari quali i duelli, la caccia alle streghe, le persecuzioni religiose e la schiavitù.
La quarta transizione verso una sensibile riduzione della violenza è l´astensione dai conflitti internazionali alla quale stiamo assistendo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Gli storici chiamano talvolta questo periodo "la Lunga Pace". Il luogo comune secondo il quale il XX secolo è stato "il più violento della Storia", pertanto, non tiene affatto conto della seconda metà del secolo (e in ogni caso l´assunto potrebbe non essere vero neppure in relazione alla prima metà, se si calcolano le morti violente in rapporto all´intera popolazione terrestre). Il quinto trend, che mi piace definire "la Nuova Pace", interessa la guerra nel mondo inteso nel suo insieme, comprese quindi le nazioni in via di sviluppo. Dal 1946 parecchi organizzazioni hanno tenuto conto del numero dei conflitti armati e soprattutto del bilancio complessivo delle vittime in tutto il pianeta. La cattiva notizia è che per svariati decenni al calo di guerre tra nazioni diverse si è accompagnato un aumento delle guerre civili. La notizia un po´ meno cattiva è che le guerre civili tendono in genere a falciare meno vittime tra la popolazione rispetto alle guerre tra Stati. La notizia positiva, invece, è che dal picco raggiunto durante la guerra fredda negli anni Settanta e Ottanta i conflitti organizzati di ogni possibile tipo sono in costante diminuzione a ogni latitudine e il bilancio delle vittime è ancor più sensibilmente in calo.
Forse che la violenza è stata letteralmente estirpata da noi, lasciandoci più pacifici per natura? È molto più probabile che della natura umana abbiano sempre fatto parte una certa propensione alla violenza e altre propensioni a controbilanciarla – tramite l´autocontrollo, l´empatia, l´onestà e la ragione – quelle che Abraham Lincoln aveva definito "i migliori angeli della nostra natura". La violenza è in calo perché le circostanze storiche hanno salvaguardato sempre più i nostri angeli migliori. La più ovvia di queste forze pacificanti è stata lo Stato, col suo monopolio sul legittimo uso della forza. Altra forza pacificante sono stati i commerci, attività dalla quale tutti possono trarre profitto. Una terza forza profondamente pacificante è stata il cosmopolitismo, l´espandersi dei piccoli mondi campanilistici delle varie popolazioni attuato tramite l´istruzione, la mobilità, la cultura, la scienza, la storia, il giornalismo e i mezzi di comunicazione. Queste tecnologie hanno altresì alimentato un´espansione della razionalità e dell´oggettività nelle questioni umane. Gli esseri umani hanno sempre meno probabilità di privilegiare i propri interessi a discapito di quelli altrui.
Quando si diventa consapevoli del calo storico della violenza, il mondo inizia ad apparire diverso. Il passato sembra meno innocente, il presente meno sinistro. Si iniziano ad apprezzare i piccoli doni della coesistenza che sarebbero sembrati utopistici ai nostri antenati: la famiglia interraziale che gioca al parco, il comico che fa una battuta di spirito sul capo del governo, i paesi che con calma fanno passi indietro rispetto al deflagrare di una crisi invece di lanciarsi in un´escalation bellica. Malgrado tutte le difficoltà del nostro vivere, e tutti i problemi che restano ancora irrisolti nel mondo, il calo della violenza è un risultato che possiamo apprezzare e che deve essere di incitamento ad aver care le forze della civiltà e dell´Illuminismo che l´hanno reso possibile.
(Traduzione di Anna Bissanti)
© 2011 Dow Jones & Company, Inc. All Rights Reserved. Questo articolo è stato pubblicato sul Wall Street Journal

Repubblica 23.12.11
Quando l´arte vuole ingannare lo spettatore
"La riproduzione realistica è stata demolita dalle avanguardie che la ritenevano un limite"
"L´effetto meraviglia tipico del barocco è coerente con le leggi dello spettacolo e della comunicazione"
Intervista al semiologo Calabrese che in un libro racconta una tecnica pittorica nata per stupire e oggi strumento di critica sociale
di Anais Ginori


Niente è più attuale dell´inganno visivo, della simulazione al servizio della dissimulazione, della spettacolarizzazione che nasconde l´impoverimento dei contenuti. Così il trompe l´oeil può essere metafora del presente, l´esaltazione di una percezione soggettiva che rischia di diventare "trompe l´intelligence", come ci ricorda il semiologo Omar Calabrese in un raffinato volume appena pubblicato da Jaca Book, alla riscoperta di una delle sfide primordiali degli artisti: riuscire a catturare la prospettiva del reale, la tridimensionalità di un´opera molto tempo prima di quel che oggi chiamiamo 3D. «Ho allargato il concetto di trompe l´oeil, estendendolo alla tecnica rappresentativa e non al più famoso genere da cavalletto. Una lettura che ci porta a risalire fino all´VIII secolo a. C., ad alcuni affreschi murali sulle tombe vicino all´antica Troia», spiega il docente di semiotica presso la facoltà di Lettere e filosofia dell´università di Siena. L´arte del trompe l´oeil, insignito dall´Académie des Beaux-Arts del prestigioso Prix Bernier, rivisita opere di Giotto, Cimabue, Raffaello, Michelangelo, ma anche di artisti moderni e contemporanei come Manet, Magritte, Dalí, fino ad arrivare ai graffiti delle metropoli del XXI secolo. Mentre la critica d´arte si è sempre concentrata sul prodigio esecutivo, Calabrese vuole riscoprire la forza estetica di quest´espressione visiva paradossale, che fa vedere proprio mentre nasconde.
Questa tecnica è tornata a vivere sotto nuove forme contemporanee?
«L´arte del trompe l´oeil è diventata totale. Ha invaso spazi urbani, facciate, luoghi pubblici, è metafora della vita metropolitana. La meraviglia, effetto barocco di ritorno, è coerente con le leggi dello spettacolo e delle comunicazioni di massa. Questo antico genere assume adesso una funzione eminentemente spettacolare, in linea con la sensibilità della nostra epoca che tenta di rendere lo spettatore complice di ogni opera, basti pensare alla moda del 3D nel cinema».
Per alcuni artisti è diventato uno strumento di critica sociale.
«Il trompe l´oeil può servire a riflettere sul consumismo e il capitalismo avanzato, come capita con la Pop Art che imita i manifesti commerciali e i contenitori di merci. È il filone della critica sociale che si sviluppa oggi con la Street Art e alcuni noti graffitari, ad esempio i disegni di Banksy che ha dipinto sul muro eretto fra Israele e Palestina, immaginando un mondo meraviglioso da una parte e dall´altra. Dall´invenzione scenografica, teatrale, architettonica dell´antichità, il trompe l´oeil ha attraversato la sua autodistruzione, con l´iperrealismo, per tornare oggi a una funzione più ludica e critica. Per due millenni è stata un´arte destinata essenzialmente a un consumo di lusso, ora si ribella al lusso stesso».
La definizione del genere è avvenuta solo nell´Ottocento.
«Nel ´600, si è incominciato a parlare in Italia di "inganno degli occhi", anche se poi la definizione che si è affermata è quella francese di trompe l´oeil, utilizzata le prime volte nella critica d´arte ottocentesca. Il concetto comunque è antichissimo. L´illusione pittorica già compare nella pittura greca e romana, per poi svilupparsi con il Rinascimento e diventare un genere autonomo in epoca barocca».
È soprattutto un virtuosismo tecnico?
«L´espressione più famosa è il quadro da cavalletto che si diffonde nel ´600 e coincide con la natura morta, sviluppando all´estremo gli elementi fondamentali. In verità, è un tipo di comunicazione visiva universale, conosciuto per la simulazione dei materiali in rilievo, l´apertura di vedute fittizie sulle pareti piane, lo sfondamento dello spazio verso l´esterno, la distanza ravvicinata per imitare gli oggetti d´uso comune, l´imitazione di cupole e volte, fino a giungere oggi alla trasformazione illusoria delle strade o dei muri esterni nelle città».
La rappresentazione illusoria ha avuto una connotazione positiva o negativa a seconda delle epoche.
«Esiste un nutrito dibattito filosofico in proposito. Platone condannava la produzione di immagini come attività sofistica, che quindi allontanava l´individuo dall´aspirazione alla verità presente nel mondo delle idee. Definiva la pittura "skiagraphia", con il significato di apparenza, illusione. In altri periodi, si sono sviluppate invece polemiche contro l´esattezza pittorica, considerata ostacolo all´espressione stilistica, ed è quello che si è visto nell´arte moderna, in cui addirittura il concetto di rappresentazione è stato demolito da avanguardie come il surrealismo o il cubismo. D´altra parte ci sono i problemi riguardanti le tecniche figurative necessarie per ottenere l´inganno che variano a seconda delle epoche, in un percorso che va dagli antichi mosaici fino alla fotografia e al cinema».
Eppure lei sostiene che non si può dire che lo spettatore sia davvero ingannato.
«Il trompe l´oeil è piuttosto un procedimento virtuoso, dal punto di vista prospettico, per coinvolgere lo spettatore in un´illusione di realtà. Lo spettatore non confonde le figure e le cose, ammira l´efficacia della rappresentazione. Se la capacità tecnica è al servizio del contenuto, s´inserisce in un certo orientamento dell´arte. Quando si elimina drasticamente il contenuto, diventa stupore spettacolare fine a se stesso, e assume probabilmente una connotazione negativa».

Repubblica 23.12.11
Il principe arabo di monsieur Annaud tra Corano e oro nero
di Roberto Nepoti


Innanzitutto, resistere alla tentazione di ribattezzarlo "il Lawrence d´Arabia dei poveri". Intanto, perché povero non è affatto: prodotto da Tarak Ben Ammar (proprio l´ex socio in affari di Silvio Berlusconi), è un kolossal da quaranta milioni di dollari. In secondo luogo perché, se è vero che Jean-Jacques Annaud resta molte lunghezze dietro il suo modello, David Lean, pure Il principe del deserto ha un respiro epico non da tutti i giorni, assortito a momenti di lirismo. Più che abbastanza, insomma, per passar sopra ad alcuni difetti da prodotto "globalizzato": semplificazioni in sceneggiatura, un cast più bello a vedersi che omogeneo, qualche folklorismo arabeggiante.
La storia si svolge agli inizi del secolo scorso, quando due principi, il sultano Nessib (Antonio Banderas) e l´emiro Amar (il carismatico Mark Strong) si contendono una striscia di sabbia nel deserto, la striscia gialla, apparentemente di nessun valore. Il che non impedisce loro di combattersi; il pegno della tregua sarà una dorata prigionia dei figli del secondo, ancora bambini, alla corte del primo. I ragazzi crescono e il minore, Auda (lo interpreta Tahar Rahim, il protagonista del "Profeta"), diventa un giovane apparentemente mite e imbelle, innamorato dei libri e della figlia del sultano (Freida Pinto). A far precipitare le cose arriva un americano, ebbro del petrolio che ha scoperto sonnecchiare sotto la sabbia della striscia gialla. Nessib è prontissimo a vendersi agli stranieri; non così il suo nemico, convinto che le cose che contano si possano conquistare solo "con l´amore o col sangue", mai col denaro. La guerra è inevitabile e l´eroe ne sarà proprio lo spaurito topo di biblioteca Auda, inizialmente disprezzato dai suoi quanto dai nemici e, invece, pronto a rivelarsi un cucciolo di leone, nato "imparato" in strategia militare e capace di unificare tribù da sempre in guerra tra loro. Unica ambascia, la separazione dalla moglie, principessa da mille e una notte.
Girato tra i deserti del Qatar e della Tunisia (proprio nei giorni della Rivoluzione dei Gelsomini), il film conferma quel talento del globe-trotter Annaud per i paesaggi e le storie straordinarie che lo ha sempre portato a spasso per il mondo (l´Indocina, il Tibet...) e per il tempo ("Il nome della rosa", "La guerra del fuoco"...). Tratto dal romanzo "La seta nera" di Hans Ruesch, scrittore svizzero un po´ modello Hemingway, il film è disseminato di battute polemiche contro il culto occidentale della ricchezza (lo sfruttamento dell´"oro nero") e a favore dei valori tradizionali (o, piuttosto, tribali). La sua ambizione vera, però, è di essere un "epic" eroico e romantico, pieno di caratteri forti e di belle facce, di pericoli e di trepidazioni. Come ai tempi del suo modello, il Lean di "Lawrence d´Arabia", il regista francese preferisce muovere masse di comparse in carne e ossa piuttosto che ricorrere alle facilitazioni degli effetti speciali. Ne ricava alcune sequenze assai belle: quella, soprattutto, della battaglia fra i cavalieri di Auda e i mezzi blindati del sultano; in apparenza la sfida di Davide contro Golia, ma non per il principe coraggioso impegnato nel suo romanzo di formazione.
Superato il pregiudizio che un robusto film d´avventure sia qualcosa di démodé, abbandonarsi alle immagini è facile.

l’Unità 23.12.11
«A Bersani dico: non sacrificare il futuro del centrosinistra»
Il leader di Sel: «La foto di Vasto non esiste più. E ora temo che per il Pd
il governo Monti da esecutivo d’emergenza diventi base per altre alleanze»
intervista di Vladimiro Frulletti


La foto di Vasto oramai è strappata, ma Bersani non faccia morire sull’altare del governo Monti quel «nuovo centrosinistra» che non solo era dato vincente da tutti i sondaggi, ma aveva ridato speranza a milioni di italiani. Il leader di Sel e presidente della Puglia Nichi Vendola appare preoccupato e mette in guardia il Pd dal pericolo di considerare il governo dei tecnici non come strumento d’emergenza, ma come propedeutico per nuove alleanze.
Presidente, la manovra Monti è legge. Servirà?
«È sbagliata socialmente e probabilmente inutile dal punto di vista del contenimento del debito pubblico perché non è in grado neppure di evocare il tema dirimente della crescita. Viceversa spinge il paese dentro la voragine recessiva». Il premier dice che ora comincia la fase due?
«La logica dei due tempi non ha mai funzionato. Sono ancora in attesa di vedere la fase uno, quella che aggredisce alle radice le ragioni della crisi, che pone il tema della ridistribuzione della ricchezza. Dov’è l’ossigeno che può consentirci di tornare a respirare a pieni polmoni se milioni famiglie subiranno contemporaneamente gli effetti del sadismo sociale di Tremonti e le conseguenze di questa manovra sbagliata?»
Lei che cosa proporrebbe?
«Chiederei di ripartire dalla reintroduzione di una patrimoniale pesante per affrontare i nodi di fondo di questa crisi che è figlia della più grande rapina che il lavoro subordinato ha subito col trasferimento della ricchezza dalle tasche dei lavoratori ai portafogli dei fondi di investimento e delle banche. E poi li inviterei a non dire più la parola crescita senza metterci l’aggettivo sostenibile e a imitare Germania e Inghilterra per fare un protocollo di intesa con la Svizzera per la tassazione dei capitali depositati nelle banche elvetiche. E infine a toccare anche le spese militari. Un sommergibile può contare di più della vita delle persone?» Sarà riformato anche il mercato del lavoro. Sull’articolo 18, anche grazie ai paletti di Bersani come lei ha riconosciuto, il governo ha fatto marcia indietro. Ma l’articolo 18 è un tabù? «Sì, perché è il simbolo di un secolo di lotte operaie che da pietra di scarto ha fatto diventare il lavoro pietra
angolare della democrazia come testimonia il primo articolo della nostra Costituzione. A Bersani e al sindacato dico: bene questa capacità di tenere saldamente in mano la bandiera dell’articolo 18, ma attenzione perché le relazioni industriali a partire da Pomigliano conoscono un crescente stravolgimento. Ciò che ha animato il Pd e Bersani nei confronti del governo Monti è un sentimento di assoluta generosità nei confronti del Paese, ma ora corre da due pericoli».
Quali?
«Che appunto il mercato del lavoro possa essere stravolto non dalla porta principale, ma da una miriade di microscopiche controrivoluzioni. E po dall’immagine, coltivata anche da esponenti del Pd, del governo Monti non come governo d’emergenza che gestisce questa fase eccezionale con un timbro palesemente conservatore, ma come governo con un carattere costituente che allude al sistema politico e sociale del futuro. Perché su questo terreno non esisterebbe più il centrosinistra e io sarei all’opposizione».
Con l’Idv che vota no a Monti la foto di Vasto si sta sbiadendo?
«Non c’è più la foto di Vasto, ma a Bersani chiedo se davvero non ci interessa più definire un’orizzonte di cambiamento, un’alternativa di governo per oltrepassare il berlusconismo. Non ci interessa più quell’elettorato di Di Pietro che è un pezzo di centrosinistra e confrontarci con la rete dei sindaci che sta nascendo attorno a De Magistris? Nell’evo che ha preceduto il governo Monti non solo il centrosinistra era dato vincente nei sondaggi, ma aveva vinto a nelle sfide più importanti come Milano. Ma era il centrosinistra del cambiamento, non genuflesso che si comporta come un chierichetto nei confronti dei poteri costituiti. Voglio dedicare le mie energie a costruire quel nuovo centrosinistra, c’è bisogno di uscire dall’ambiguità e di aprirne il cantiere. Serve all’Italia perché vedo montare un’onda nera in questo Paese di cui sono fatti evocativi la strage dei senegalesi di Firenze e la luce livida dei pogrom anti-rom di Torino».
Ferrero la invita a unirsi a Rifondazione per ricostruire la sinistra?
«Mi spiace che alla mia sinistra invochino l’unità delle sinistre radicali sul terreno dell’opposizione. Questa richiede un’alternativa di governo. Ma ha bisogno di essere alimentata. Bersani rompa questa specie di autoipnosi per cui col governo tecnico la politica vive una crisi di afasia. Anche perché capisco la situazione d’emergenza, ma non capisco come si possa sopportare il sorgere di alleanze spurie fra Pd e Pdl come a Ischia. C’è da dare un segnale. Quella non è alta politica dettata da senso di responsabilità, ma pessima politica nata sul terreno dell’affarismo e della corruzione».