martedì 27 dicembre 2011

l’Unità 27.12.11
La lotta al fascismo restò sempre la sua bussola
di Nicola Tranfaglia


In un periodo storico caratterizzato da una crisi economica e politica difficile e dall’esito incerto, la scomparsa di un grande giornalista quale è stato per più di 50 anni il cuneese Giorgio Bocca, riporta tutti, con il pensiero, alla resistenza contro i nazisti e i fascisti di Salò. Una vicenda dura che ha segnato Bocca più di altre. In quei venti mesi, dal settembre 1943 all’aprile 1945, una parte non piccola dei giovani italiani educati dalla dittatura mussoliniana decisero di prendere le armi, salire sulle montagne e lottare per un’Italia libera. Dopo la battaglia di quasi un secolo prima per conquistare l’unificazione nazionale seguita a molti secoli di divisioni e di servitù dagli stranieri quella fu una seconda grande occasione per gli italiani di mostrare al mondo come esponenti delle nuove generazioni fossero disposti a rischiare la vita per riconquistare una libertà che mancava all’Italia dall’ottobre 1922.
Giorgio Bocca (che pure, fino al 1942, era stato legato alle parole d’ordine del regime) di fronte alle sconfitte militari e alla caduta del dittatore nel luglio 1943, si rese conto con lucidità della nuova fase che si apriva per l’Italia e della necessità di mettersi in gioco. A quella dura ma esaltante esperienza, che lo vide prima comandante di una brigata nel Cuneese e successivamente commissario politico di una divisione di Giustizia e Libertà, Bocca avrebbe poi dedicato uno dei suoi libri più riusciti, «Partigiani della montagna». Un viaggio nel significato storico e culturale della guerra armata che attraversò per quasi due anni l’intera penisola dalla Sicilia alle Alpi.
Quella esperienza compiuta da giovane lo segnò in maniera decisiva. Per tutta la vita rimase fedele agli ideali e alle battaglie che aveva combattuto, sempre vigile contro i rigurgiti di fascismo che in varie occasioni sarebbero riemersi durante la storia tormentata del settantennio repubblicano. Pensando alla sua vita mi viene in mente un altro italiano illustre, l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che ha intitolato qualche anno fa un suo libro di memorie «Non è il Paese che sognavo».
Giorgio Bocca in uno dei suoi ultimi scritti, «Annus horribilis» del 2009, ha esaminato l’epoca del trionfo dei populismi che ha caratterizzato quest’ultima fase della storia repubblicana. Un periodo di crisi per il nostro Paese, nella quale Berlusconi ha svolto, come ci ha sempre ricordato Bocca, un ruolo fondamentale e pericoloso. Insomma, il filo dell’antifascismo e della battaglia democratica restano una costante nel lungo lavoro di un grande giornalista italiano.

il Fatto 27.12.11
Silenzio indecente
di Paolo Flores d’Arcais


Non lo permetteremo”. “Non si può”. “Questo mai più”. Sono solo tre parole. Potrebbero ridursi a due: “Basta profittatori”. Per scandirle con la solennità dovuta non si impiegano più di cinque secondi. Com’è possibile, senatore Monti, che lo spazio per questi cinque secondi Ella non li abbia ancora trovati? Ha forse deciso di lasciare in esclusiva l’onore di questo doveroso e improcrastinabile monito al capo dello Stato, che siamo certi aprirà con questi accenti il suo messaggio di Capodanno?
Perché davvero l’arroganza della Casta ha ormai travolto ogni argine non diciamo della decenza (quell’argine è stato picconato da anni) ma della soglia emetica: le recenti grassazioni legali della Regione Lazio, pronuba la signora Polverini, sono farmacopea da vomito continuo per ogni cittadino ancora degno del nome. E le porcherie analoghe – al centro e alla periferia e in ogni ganglio del potere – hanno nome “legione”. Davvero non si rende conto, signor Presidente del Consiglio, che se di fronte alla Casta che continua a dilapidare il danaro pubblico per prebende e pensioni ai propri amici e amici degli amici, Ella finge di non vedere e di non sentire, si fa complice? Perché si pecca per atti ma anche per omissioni, ce lo insegnano al catechismo fin da bambini, Ella che va a messa ogni domenica lo sa meglio di noi.
Perciò quelle due o tre parole, quei cinque secondi di senso dello Stato, ce li aspettiamo. Sono un atto dovuto. Non certo per equità, di cui non c’è traccia nelle sue misure legislative benché ce ne sia overdose nelle sue porta-a-porta, ma per un più irrinunciabile senso del pudore, che anche in un governo dalla parte dei privilegiati non dovrebbe mancare, sia pure in dosi omeopatiche. Gli uomini e le donne della Casta hanno il potere di imporre sacrifici, tagliare pensioni già di sopravvivenza, tassare tenori di vita non lontani dalla povertà. Lo stanno facendo senza risparmio e con qualche penosa lacrima di coccodrillo. Non possono, nello stesso fiat, con quelle tasse arricchirsi e arricchire sodali devoti, omertosi complici e altri “compagni di merende”. Perché non sarebbero più tasse, sarebbe bottino, sarebbe rapina, sarebbe infamia. Vorrebbe dire giustificare ogni montare della collera nel “terzo Stato”, fino all’odio. Sarebbe istigazione a delinquere, perversa volontà di sciogliere ogni “contratto sociale”, che giustificherebbe ogni eccesso di rivolta.
Quei cinque secondi di verità e di decenza sono il debito minimo che Ella deve onorare con gli italiani onesti.

il Fatto 27.12.11
“I partiti e il professore? Ora comandano i signorotti”
Michele Ainis spiega: “Ogni leader di fazione rivendica il suo diritto di veto”
di Wanda Marra


Il governo Monti per sopravvivere deve tenere conto non solo dei partiti, nella loro totalità, ma dei vari signorotti di partito”. L’analisi è del costituzionalista Mi-chele Ainis, che ricostruisce punti di forza e punti di debolezza dell’esecutivo, proprio a partire dallo “spappolamento” dei partiti.
Professore, La Russa ieri ha lanciato un’ammonizione: “Monti dovrà guadagnarsi ogni settimana, ogni mese il certificato di sopravvivenza”. E anche Berlusconi ha ribadito più volte il concetto. Come valuta queste pressioni?
La temperatura che accompagna la vita di questo governo è un po' sempre la stessa: i partiti si conservano la pallottola in canna. Bisogna vedere chi prima farà fuoco. Anche perché da parte loro si tratta di una situazione più subìta che scelta.
Ma non è normale che un governo dipenda dal voto parlamentare?
Certo, non sta mica lì per investitura divina. E ogni occasione è buona per la revoca della fiducia. Per questo, però, vale ancor di più: in genere quando cade un governo, si tratta sempre di suicidio. In questo caso sarebbe omicidio.
Ma guardando a questa prima fase dell’esecutivo, sembra che non siano solo i partiti a tenere Monti in scacco, ma anche il contrario, visto che questi evidentemente non hanno la forza né di prendersi delle responsabilità in proprio, né di andare al voto. O no?
Probabilmente è vero anche questo. Io penso che i partiti non esistano più in quanto tali: esistono dei notabili, dei signorotti di partito. Ma quelli che erano guidati da Berlinguer, da Moro, da Craxi non ci sono più. In questa situazione governare è più difficile. Pensiamo a questa legislatura, che nasce con un governo con due gambe, che piano piano perde l’appoggio. Prima si stacca la componente di Fini, poi diventano fondamentali i Responsabili, poi cominciano a minacciare anche Scajola e gli scajoliani.
E questo come si incrocia con il discorso sui partiti che faceva prima?
La vicenda politica di quest'ultima parte della Seconda Repubblica è che non ci sono partiti organizzati, ma partiti personali, a destra, come a sinistra (Berlusconi, Bossi, Di Pietro, Vendola). Ai partiti personali ora si sta sostituendo una coabitazione coatta: un aggregato di personalità che formalmente convivono dentro un partito, ma sono in realtà uno contro l'altro. Con dei veto players infiniti. Il governo per sopravvivere deve tenere conto di tutti questi signorotti. Che in questa fase non siedono nel governo, non decidono in prima persona, ma sono costretti a chiedere.
L'altra faccia della medaglia però non è proprio la ricattabilità dei partiti da parte di Monti?
Di certo non è interesse del Pdl andare a votare, perché prenderebbe un bagno. Come non lo è del Pd, né del Terzo polo che si sta riorganizzando.
Dunque, chi è il più forte?
A conti fatti è Monti. Perché siamo in una situazione di emergenza, in questo momento nessun partito è abbastanza forte da potersi sottoporre a una prova elettorale. E questo è un punto di forza per lui. Il fatto che però nei partiti ognuno si muova per il suo tornaconto è un elemento di debolezza.
Il governo Monti è davvero un esecutivo tecnico o in realtà è politico?
Nasce come governo tecnico e poi si imbastardisce. Le nomine dei ministri, Monti le ha fatte da solo, anche se certo le telefonate ci sono state. Ma poi è con la nomina dei sottosegretari e dei vice-ministri che ha dovuto soddisfare di più le richieste dei partiti.
Dopo il primo giro di boa, il professore è stato più deludente o più soddisfacente?
Si è fatta questa manovra, che andava fatta. Si sono corretti i conti. Non si è salvato il Paese. Le liberalizzazioni sono state poche e sicuramente il principio di equità non è stato rispettato. Per sintetizzare, vanno bene i numeri, ma non il modo in cui sono stati raggiunti. Ora bisogna vedere cosa farà Monti in futuro.
Secondo lei da chi è più
condizionato: dal Pdl che, almeno a quel che si vede, ha messo più veti degli altri partiti o dalle lobby?
Non ho un microfono a Palazzo Chigi. Ma certamente siamo di fronte a uno spappolamento, a uno sfarinamento.
Tornando alle parole di La Russa, dunque?
Ogni governo deve guadagnarsi la sopravvivenza giorno per giorno. Ma calata in questa realtà, l’affermazione di La Russa suona come una sorta di altolà. Lui parla come il capo di una fazione, uno che dice: non c’è solo Berlusconi, ci siamo anche noi.
Ma come fa Monti a sopportare tutto questo?
Giulio Cesare ha sopportato di peggio. Credo che chiunque nella sua situazione dovrebbe sopportare lo stesso. E fare il presidente del Consiglio dovrebbe dare una certa soddisfazione.
Quanto durerà?
Difficile dirlo. C’è il passaggio della Consulta sul referendum elettorale a fine gennaio. Oppure a originare un incidente può essere un sondaggio particolarmente favorevole a un partito.

il Riformista 27.12.11
La questione sociale: inedita e spietata
di Emanuele Macaluso


A Roma, giorno di Natale, il tempo era bello, il cielo azzurro e il sole invitavano a godersi la città senza il gran traffico. Insomma, c’erano le condizioni per trascorrere una giornata serena con i familiari. Invece, nell’aria e nell’animo mio c’era qualcosa che non si conciliava con la giornata: un malessere accumulato in un anno in cui l’incerto è diventato ancora più incerto e quel che ci circonda ci inquieta e ci rattrista. La questione sociale appare come insolubile. Ho conosciuto momenti più amari e pesanti di questi, ma c’era una speranza, si intravedeva una via di uscita, anche se lontana. Penso agli anni del fascismo, della guerra, della fame: parlo dei primi anni quaranta. C’era, allora, il convincimento che gli Alleati avrebbero vinto la guerra e si intravedeva un mondo nuovo, il tutto ci dava fiducia. Io, e tanti ragazzi, in quegli anni scegliemmo la lotta antifascista con la certezza di essere nel giusto e di contribuire a fare una società migliore.
La speranza: anche gli anni del dopoguerra, tra crisi e sviluppo, in un clima caratterizzato da lotte sociali, politiche e civili, la speranza che il mondo potesse cambiare in meglio era nella mente di tante persone. C’era certezza pure nel nemico da battere: il capitalismo l’imperialismo, da una parte, il comunismo dall’altra. Anche chi perdeva il lavoro, o era costretto ad emigrare dal Sud al Nord, in Germania, in Svizzera in Belgio, affrontava la vita con la speranza di cambiare il peggio in meglio.
Ora non è così. C’è un nemico, invisibile e globalizzato, di cui tutti parlano male: la grande finanza. Ma nessuno sa come individuarlo e combatterlo. E, in ogni caso, nessuno ha le armi e l’organizzazione globale per farlo. Il giorno di Natale, il Tg3 delle 19, lodevolmente ci ha fatto vedere squarci della società del malessere. Operai licenziati con le famiglie su una torre trascorrevano il loro Natale al freddo per dire a tutti: ci siamo anche noi. Ha parlato anche una giovane operaia di Reggio Emilia licenziata, con tutte le sue compagne e compagni, dato che i padroni della fabbrica Omsa ormai produrranno le calze in Serbia dove la mano d’opera costa meno e il fisco è tenero. Una realtà che non è certo figlia del governo Monti, il quale semmai deve fronteggiarla. Ma molti si chiedono: chi è il nemico che cospira contro i lavoratori italiani? E dov’è la forza che possa opporsi all’internazionale del capitale dato che non c’è l’internazionale del lavoro? La lotta di classe, che alcuni sapienti hanno cancellato, si presenta sotto forme inedite e spietate.
Intanto, per molti la cassa integrazione sta finendo e l’operaia reggiana Angela Cavalli, con due figliolette, rimedia piccoli doni per le bambine ma non sa cosa farà e come vivrà domani. «Levandomi il lavoro, mi hanno annullato», ha detto Angela. Quante sono oggi le persone che si sentono “annullate”. È una domanda che inquieta il Natale, anche perché sembra che le proteste, le lotte, l’opposizione a questo stato di cose non hanno sbocco. Eppure non bisogna arrendersi, occorre cercare lo sbocco, riorganizzando le forze degli “annullati” e degli annullabili. I pionieri del socialismo capirono che bisognava organizzarsi non solo nelle “leghe di miglioramento” e nel partito socialista italiano, ma nel mondo. Cose vecchie! Ma la questione sociale di oggi ripropone i temi che furono in un mondo diverso e con problemi diversi le ragioni dell’Internazionale socialista. È un’utopia? Ma se non si comincia a parlarne, l’operaia di Reggio Emilia o di Termini Imerese si sentirà sempre più sola e annullata. Che fare? Dovrebbe essere il tema di chi capisce che il nemico “invisibile” e visibilissimo qui, in Europa e nel mondo, ma la sinistra così com’è non riesce a renderlo visibile e a combatterlo qui, in Europa e nel mondo. È questo il tema dell’anno che si va ad aprire.

l’Unità 27.12.11
Fuga di massa dal Cie di Torino: scappano in 21


Un gruppo di immigrati rinchiusi nel Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino è riuscito a evadere, domenica sera, e a fare perdere le sue tracce. Si è trattato di un tentativo di fuga di massa: sono stati almeno 35 gli stranieri che, eludendo in qualche modo la sorveglianza e arrampicandosi o danneggiando le reti, hanno varcato il muro di cinta. Quattordici sono stati raggiunti e bloccati dalla polizia in via Lancia, a poche centinaia di metri, degli altri 21 non si hanno notizie. Nel Cie un primo tentativo di evasione si era già verificato la sera di sabato e in quell’occasione, per bloccare gli aspiranti fuggitivi, erano stati impiegati gli idranti.
A favorire il secondo tentativo di evasione è stato il fatto che le serrature delle casette-dormitorio, forzate la sera prima, non erano state ancora riparate. Anche in questa occasione i sorveglianti avrebbero messo in azione gli idranti. Secondo alcune fonti uno degli stranieri si è ferito cadendo dal muro che tentava di scavalcare; è stato raggiunto e medicato.

il Fatto 27.12.11
Torna al Viminale il prefetto che rifiutò di schedare i rom
Carlo Mosca consigliere del ministro Cancellieri
di Silvia D’Onghia


Quando entravi nel suo ufficio, in Prefettura, avvertivi subito il clima di serenità. Carlo Mosca accoglieva i giornalisti col sorriso sulle labbra, il volto disteso e rassicurante anche nelle giornate più intense, la voce ferma ma pacata di chi ha ben chiaro cosa fare e cosa, soprattutto, non fare. Mai una parola di troppo, mai una frase fuori luogo. Un uomo dall’infinita esperienza che sa esprimersi con la chiarezza delle persone semplici. Con quella stessa chiarezza con cui si è opposto, senza mediazioni, alle disposizioni razziste di un Viminale in mano ai leghisti. Non a caso il nome del Prefetto Mosca è circolato nei giorni antecedenti alla formazione del governo Monti, quale possibile ministro dell’Interno. Al suo posto è stato preferito un altro Prefetto, Annamaria Cancellieri. E però Mosca al Viminale tornerà, come uno dei sei consiglieri – senza compenso – dell’ex collega.
MILANESE, classe 1945, laureato in giurisprudenza e scienze politiche a Sassari e Napoli, ha un curriculum di tutto rispetto. Direttore dell’ufficio per il Coordinamento e la Pianificazione generale dei servizi di ordine e sicurezza, Segretario del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, vice Direttore del Sisde, Capo di Gabinetto del Viminale. Solo per citare alcuni suoi incarichi. Ma è a Roma che Mosca ha lasciato un’impronta indelebile. Nominato Prefetto della capitale il 20 luglio 2007, con Veltroni sindaco, ha sempre indirizzato il suo operato alla fermezza, ma anche alla solidarietà, alla sicurezza, ma anche alla diplomazia. Controllo, non stato di polizia, anche quando l’ordine pubblico è diventato terreno fertile per lo scontro elettorale. Letti col senno di poi, fanno sorridere gli auguri dell’allora presidente della federazione romana di An, Gianni Alemanno, il giorno dell’insediamento di Mosca. Alemanno non sapeva che, di lì a un anno, il Prefetto sarebbe diventato il suo nemico numero uno nella battaglia contro l’inesistente “emergenza nomadi”.
Mosca era consapevole che la percezione di insicurezza per le strade della capitale andava aumentando, e certo non la sottovalutava. Ma, anzichè reprimere, dialogava. Così fu in occasione del derby del 31 ottobre 2007, quando decise di far svolgere la gara alle 20.30 e senza alcuna restrizione per le tifoserie, nonostante un clima non proprio pacifico. Uomo dello Stato, fino in fondo. Fino a condannare senza appello, ma con pacatezza, l’idea delle ronde: “Chi pensa di farsi giustizia da solo, è fuori dalla legge” dichiarò il 2 novembre dello stesso anno.
MA È SU STRANIERI e rom che il Prefetto ha giocato la sua battaglia più importante, quella che alla fine gli è costata la poltrona ma gli ha salvato l’anima. In linea più con Veltroni che con Alemanno, ma fermamente convinto che non esista sicurezza senza integrazione. E quindi gli sgomberi firmati a malincuore, quando non c’era la possibilità di garantire alle famiglie rom una sistemazione alternativa dignitosa. Tanto che una volta Mosca chiese anche al cardinal Ruini di mettere a disposizione le strutture della chiesa non occupate. Chi si aspettava un intervento massiccio sulle espulsioni, rimase deluso dalla sua azione “proporzionata”.
Mosca sapeva bene che non ha senso parlare di “nomadi”, quando si tratta di persone stanziali da 40 anni. “La prima emergenza vera di Roma è la casa – spiegava –. Nel momento in cui si avviano percorsi per affrontare la questione abitativa, si evita la contrapposizione fra italiani e gli altri ritenuti diversi”. Casa, scuola, lavoro uguale integrazione. Anche perchè si parlava, all’epoca, di appena 15 mila persone. Quando, il 31 maggio 2008, fu nominato da Alemanno commissario straordinario per l’emergenza rom, mise subito i primi paletti: sì al censimento, no a compiti di polizia. Non voleva gli sgomberi, Mosca, eppure il sindaco continuava a fargliene uno dietro l’altro. Ma soprattutto non voleva che i bambini rom diventassero criminali. La battaglia finale si è giocata su questo. Maroni e Alemanno da una parte, decisi a schedare con le impronte digitali anche i minori di 14 anni; il Prefetto dall’altra, intenzionato a fare solo una “ricognizione”, al limite attraverso le fotografie. Una frattura che si è consumata tra giugno e luglio del 2008 e che ha portato il Consiglio dei Ministri, il 13 novembre, a sostituire Mosca col Prefetto Pecoraro, più vicino alla linea del primo cittadino. “Ho fiducia nei tempi lunghi, nei tempi che danno ragione a chi opera nel giusto”, disse Mosca. Oggi, con il suo posto al Viminale, i tempi sembrano avergli dato ragione.

il Fatto 27.12.11
Manifesto e Unità protestano
Milleproroghe, i 7 milioni che imbarazzano Radio  Radicale
di Stefano Caselli


No, non siamo affatto contenti. L’idea di passare per quelli che tolgono il pane ai colleghi della carta stampata non ci piace affatto”. Paolo Martini, direttore di Radio Radicale, non nasconde l’imbarazzo. Come da tradizione ormai quasi ventennale, lo Stato italiano ha deciso di rinnovare la convezione con la storica emittente romana per il servizio di copertura dei lavori parlamentari, stanziando 7 milioni di euro per il 2012, ma le modalità scontentano tutti. La bozza del decreto Milleproroghe, infatti, dirotta il contributo a favore di Radio Radicale dal ministero dello Sviluppo economico (ex ministero delle Comunicazioni) a una “riduzione dell’autorizzazione di spesa prevista dalla legge 416 sull’editoria”, ossia il già falcidiato fondo di Palazzo Chigi per la carta stampata che, causa Radio Radicale, subirà un ulteriore taglio.
UNA SCELTA che il manifesto e l’Unità, due tra le molte testate in difficoltà per il taglio dei contributi all’editoria, non mancano di stigmatizzare: “Un decreto molto radicale”, titola il manifesto sotto l’eloquente testatina “il pacco è per noi”: “La radio di Pannella – si legge sul quotidiano comunista – al fondo editoria già attinge in quanto organo di partito per le trasmissioni non in convenzione. Due vesti, un unico fondo. Una condizione assolutamente unica nel già disomogeneo mondo dell’informazione italiana”. L’Unità (che sabato 24 dicembre ha inaugurato una prima pagina totalmente di pubblicità) definisce il Milleproroghe “un bel regalo di Natale per Radio Radicale” .
“Un regalo non richiesto – ribatte Martino – anche perché destinare 7 milioni dal fondo per l’editoria significa vedere i soldi con molti mesi di ritardo. In questi giorni, per esempio, vengono erogati i finanziamenti del 2010. Il Milleproroghe sa tanto di tappabuchi. Visto che la nostra convenzione è scaduta a novembre, il governo ha pensato di risolvere la questione distraendo una cifra inferiore a quella richiesta dal fondo per l’editoria, il che significa ricevere il finanziamento con molto ritardo. In questi giorni, per esempio, Palazzo Chigi sta pagando i rimborsi del 2010. Francamente da un esecutivo tecnico ci saremmo aspettati meno ambiguità e più trasparenza, invece ci sembra che sia stata semplicemente tappata una falla, garantendo un finanziamento che non si sa se e quando potrà essere erogato. In pratica si è lasciata la decisione definitiva a chi verrà dopo. E ci hanno messo in imbarazzo con i colleghi della carta stampata”.
RADIO RADICALE – e su questo sono quasi tutti d’accordo – fornisce un servizio unico nel panorama italiano. Tuttavia l’interrogativo sul perché mai, in tempi di crisi, il rinnovo della convenzione sia puntuale come il Natale, rimane: “Non lo consideriamo affatto un diritto acquisito – risponde Martini – non vogliamo l’esclusiva per i servizi parlamentari. Se allo Stato interessa il servizio, noi siamo in grado di fornirlo. Abbiamo cominciato nel 1979 rubando il segnale della Camera, poi abbiamo chiesto che fosse bandita una gara. Bene, nel 1994, quando è stata indetta, siamo stati gli unici a presentarci”.
Ma per il servizio pubblico non esiste già la Rai? “Certo – dice ancora il direttore dell’emittente pannelliana – c’è Gr Parlamento, ma costa molto di più di Radio Radicale per 12 ore di trasmissione al giorno contro 24. In più noi abbiamo un archivio on line che, senza falsa modestia, non ha eguali. Ripeto, se allo Stato interessa il nostro servizio, noi siamo in grado di fornirlo. Altrimenti ne possiamo fare a meno”.

l’Unità 27.12.11
«Quegli attacchi sono il prodotto di un odio diffuso»
Lo storico: «Nel Paese due comunità antitetiche I qaedisti soffiano sul fuoco di un’ostilità
che si nutre anche di un forte malessere sociale»
di Umberto De Giovannangeli


Sarebbe riduttivo leggere il “Natale di sangue” in Nigeria come l’azione di un gruppo legato alla nebulosa qaedista. L’attacco alle Chiese ha dietro di sé qualcosa di più vasto e radicato che chiama in causa una radicale inconciliabilità tra la maggioranza musulmana e la vasta minoranza cristiana». A sostenerlo è uno dei più autorevoli e affermati storici dell’Africa italiani: Angelo Del Boca.
La comunità internazionale ha avuto parole di ferma condanna dei sanguinosi attentati di Natale in Nigeria contro Chiese cristiane, rivendicati dal gruppo terrorista di matrice islamica Boko Haram, che hanno fatto almeno 40 morti, e circa 110 complessivamente se si contano altri attentati compiuti nell’ultima settimana. Come leggere questo «Natale di sangue»?
«Non mi convince una lettura che riduce i sanguinosi attacchi contro le Chiese cristiane come la guerra scatenata da un gruppo qaedista i cristiani in Nigeria. Quelli di Boko Haram saranno stati gli esecutori materiali degli attentati ma ciò che dovrebbe preoccupare è l’humus culturale, il retroterra molto più vasto e pervasivo che sottende a questa campagna di odio che non nasce certo in questo Natale 2011...».
A cosa si riferisce in particolare?
«Per inquadrare questi tragici eventi occorre tenere ben presente la composizione etnico-religiosa del Paese. La Nigeria è a maggioranza islamica ma con una importante minoranza cristiana importante non solo per le sue dimensioni ma anche per essere parte delle classi più abbienti che abbraccia tutte le Chiese. Questa volta hanno attaccato i protestanti, altre volte i cattolici, e alla fine tocca sempre al Papa lanciare l’allarme e pregare per la pace. I gruppi legati alla nebulosa qaedista, i cosiddette “Talebani nigeriani” portano all’estremo una ostilità che va ben oltre i confini dell’Islam radicale armato. In Nigeria l’ostilità verso la comunità cristiana è vasta e radicata nella maggioranza islamica. Si tratta di due comunità antitetiche. Ciò che meraviglia è che la polizia arrivi sempre in ritardo, ma è una meraviglia spiegabile, visto che la polizia è composta in gran parte da musulmani».
Di fronte a questi sanguinosi attacchi, da più parti si invoca una protezione internazionale nei confronti della comunità cristiana. Cosa ne pensa? «Penso che in linea di principio sarebbe una iniziativa condivisibile, ma nei fatti irrealizzabile...». Perchè irrealizzabile?
«A parte l’opposizione prevedibile del governo nigeriano, si tratterebbe di organizzare una protezione su un territorio di quelle dimensioni. La Nigeria è il Paese più vasto, oltre che il più ricco, dell’Africa. Stiamo parlando della protezione di milioni di persone, non di piccoli gruppi che sarebbe facile selezionare e proteggere...».
La Nigeria, lei ha sottolineato, non è solo il Paese più vasto ma anche il più ricco dell’Africa. Questo secondo aspetto può influire su questa «guerra di religione»?
«La comunità cristiana si colloca nella fascia alta della società nigeriana. Questo può aver accresciuto l’ostilità della comunità musulmana meno abbiente e su questa ostilità sociale i gruppi più radicali hanno costruito al loro propaganda armata. Gli attacchi avvengono sempre verso Chiese che hanno le carretteristiche di cattedrali, con la loro ricchezza manifesta. Per questo diventano simboli di una opulenza negata alle masse musulmane».
C’è il rischio che il caso nigeriano, in termini di attacco alle comunità cristiane, possa attecchire anche in altri Paesi del continente africano? «Direi di no. E penso di poterlo affermare con cognizione di causa, visto che l’Africa oltre ad averla studiata l’ho anche frequentata in lungo e largo...La Nigeria ha ua sua specificità no riproducibile, comunque non con quei caratteri e radicalità, nel resto dell’Africa». Questi sono giorni di bilanci. Che anno è stato il 2011 per l’Africa?
«È stato l’anno del grande balzo in avanti in termini di crescita economica. Per molti decenni si è detto e scritto , spesso a sproposito, dell’Africa come di un continente alla deriva, marginale e marginalizzato. Un continente senza futuro, incapace a definire una propria via alla crescita economica e politica. Da qualche anno la storia è cambiata, e il 2011 lo ha sancito evidenziando una svolta imperiosa. Diversi Paesi africani, soprattutto dell’Africa sub-sahariana, hanno avuto un tasso di crescita del 6-7%, che si avvicina a quello dei Paesi asiatici più in vista. E questo balzo in avanti, è bene rimarcarlo, è avvenuto, sia nell’agricoltura che nelle politiche industriali, da scelte locali e non da demiurgici piani della Banca Mondiale o del Fmi. Di questa Africa in crescita si è dovuta accorgere l’America , con questa Africa gli Usa di Barack Obama hanno inteso stabilire relazioni nuove, poco solidaristiche e molto di partnership. L’Africa intende essere protagonista di una nuova governance mondiale. Ha alzato la testa e tutti devono tenerne conto».

l’Unità 27.12.11
Intervista a Michel Kilo
«Assad punta sul caos ma la lotta armata non salverà la Siria»
Parla lo scrittore simbolo della resistenza al regime baathista: «Non credo a un intervento militare esterno, mi batto per una soluzione politica»
di Umberto De Giovannangeli


È una delle figure storiche dell’opposizione al regime del «clan Assad». Il suo nome è Michel Kilo. Scrittore e attivista per i diritti umani, Kilo è stato uno dei promotori della «Dichiarazione di Damasco» del 2005 che chiedeva riforme politiche e democratiche. A causa di questa iniziativa, Kilo è stato condannato a tre anni di prigione dal 2006 al 2009 con l’accusa di aver «indebolito il morale della nazione».
Il nostro colloquio parte dalla sua valutazione del duplice attacco del 23 dicembre a Damasco: «Resto convinto afferma lo scrittore che l’obiettivo del regime sia quello di mostrarsi vittima del terrorismo e di sabotare la missione degli osservatori della Lega Araba. Il duplice attentato non è che una delle fasi della creazione del caos». Una cosa è certa: qualunque sia stata la matrice dell’attacco del 23 dicembre, esso ha determinato un salto di qualità nello scontro in atto da dieci mesi in Siria: «Noi viviamo un dilemma dice Michel Kilo perché da un lato c’è la violenza senza fine del regime che però non ha scoraggiato i movimenti di protesta, dall’altro c’è una sollevazione popolare senza precedenti che però fino ad ora non è riuscita ad avere la meglio sul regime».
Il 12 ottobre scorso, nel corso di una conferenza stampa organizzata da Le Monde Diplomatique presso la sede centrale del quotidiano Le Monde di Parigi, Kilo delineò uno scenario che i fatti di questi ultimi mesi e giorni stanno drammaticamente confermando: «Se il regime continua a spedire l’esercito contro i manifestanti, il movimento che si oppone a Bashar al-Assad si militarizzerà progressivamente. Questo significa che in Siria potrebbe scoppiare una vera e propria guerra civile».
Lo scrittore difende con forza i principi che sono stati alla base della rivolta contro il regime degli Assad, sottolineando che la sollevazione popolare dimostra la grande maturità delle organizzazioni civiche ed in generale della società civile siriana che con questa rivoluzione si fa portatrice di valori nobili quali quelli di libertà e dignità. «Dei valori rimarca Kilo che permetterebbero al nostro mondo, ed in generale a quello musulmano, di uscire dal passato e di proiettarsi verso il futuro».
Per il regime di Bashar al-Assad dietro il duplice attacco di venerdì, che ha provocato almeno 44 morti, c’è la mano di Al Qaeda. Qual è la sua opinione in proposito?
«Resto convinto che il regime cerchi di mostrarsi vittima del terrorismo e che il suo obiettivo sia quello di fomentare il caos. In questo scenario, tutto è possibile. Purtroppo si sta avverando quanto paventai alcuni mesi fa: se il regime continua a spedire l’esercito contro i manifestanti, il movimento che si oppone a Bashar al-Assad si militarizzerà progressivamente. Questo significa che in Siria potrebbe scoppiare una vera e propria guerra civile...È il caos a cui parlavo in precedenza. Un caos nel quale possono inserirsi anche bande armate e gruppi che nulla hanno a che fare con le ragioni della rivolta e cercano di stavolgerne contenuti e forme di lotta. Sono in molti a congiurare contro la “Primavera siriana”».
In passato si è pronunciato per un dialogo con il regime del presidente Assad...
«Non rinnego questa posizione, ma il dialogo partiva dal presupposto che il regime riconoscesse la legittimità delle istanze di cui la stragrande maggioranza dei manifestanti si è fatta portatrice, e ponesse fine alla repressione nelle piazze. Così non è stato: la repressione non si è fermata e piuttosto che aprire alle opposizioni democratiche, il regime continua a gridare al complotto esterno e ora all’attacco terroristico. Alla ricerca del dialogo si risponde con il caos: una scelta sciagurata».
Lei si è detto contrario un intervento militare della comunità internazionale in Siria ed anche contro una deriva militarista della resistenza. È ancora di questo avviso?
«Mi rendo conto che la repressione messa in atto dal regime e il rifiuto a un dialogo possano portare alla conclusione che per abbattere il regime non esistano altre strade che la lotta armata o l’intervento militare internazionale. Ambedue queste opzioni mi sembrano non solo impraticabili ma dannose. Non solo perché alimenterebbero ulteriormente la spirale di violenza, ma anche perché renderebbero improponibile l’obiettivo che è stato alla base della rivolta siriana, accomunandola alle rivolte in Tunisia e in Egitto: l’obiettivo di realizzare uno Stato democratico, pluralista. Questo Stato non può nascere sulle macerie di una guerra “modello Libia” né sul trionfo di forze che vedono nell’insurrezione armata in Siria una tappa del Jihad globalizzato. No, la Libia non può essere un nostro punto di riferimento, semmai porci seri interrogativi anche sul dopo-Gheddafi. Ho sempre concepito il dialogo come lo strumento per aprire contraddizioni all’interno del regime, indebolendolo. Altro che cedimento o resa».
Quale segnale emerso dall’interno del regime le appare più significativo?
«Direi senz’altro le defezioni militari. Un fenomeno crescente che investe tutti i livelli delle Forze Armate siriane. Quello che sembrava una entità compatta ha mostrato profonde incrinature. L’Esercito non intende cadere assieme a Bashar al-Assad, ma cerca di garantirsi un futuro nella Siria post-baathista. In questo, il punto di riferimento è l’Egitto».
È ancora convinto che esista una soluzione politica alla crisi siriana? «Voglio crederlo e per questo continuo a battermi. La guerra non è un’alternativa. È il disastro».
A Damasco sono arrivati gli osservatori della Lega Araba. Cosa si attende da loro?
«Un’operazione di verità. La verità su questi nove mesi di brutale repressione. Per poterlo fare, gli osservatori devono avere una completa libertà di azione, parlare con chi vogliono, andare dove vogliono. La loro non può essere una missione “vigilata”. La verità non va oscurata».

La Stampa 27.12.11
Putin: alla Russia serve una psicoterapia
Nuove proteste per liberare Udaltsov l’attivista arrestato per la terza volta
di Anna Zafesova


La Russia ha bisogno di una «psicoterapia nazionale», che lo Stato deve praticare via Internet e in televisione, per infondere ai russi «certezza nel domani». E’ la risposta, per quanto indiretta, che Vladimir Putin ha dato ieri alla manifestazione di 100 mila persone che sabato l’ha sfidato dalla piazza, al grido di «Nemmeno un voto per Putin» nel marzo 2012. Alla «rivoluzione» nata in Rete il premier propone di rispondere con la propaganda, dopo aver affidato il giorno prima al suo portavoce un altro commento, «abbiamo ascoltato le persone in piazza, con rispetto, ma sono una minoranza».
Il premier è stato contestato sabato da almeno 100 mila persone, il doppio di due settimane fa, e gli slogan, oltre a denunciare i brogli e chiedere nuove elezioni alla Duma, stavolta erano diretti contro l’uomo che il 4 marzo vorrebbe ritornare al Cremlino. E’ la manifestazione più numerosa nei 12 anni di Putin, e ieri il blogger Alexey Navalny, la star della protesta, ha risposto promettendo di far scendere in piazza a febbraio un milione di persone, «se il potere non ci darà ascolto». Considerato da molti l’esponente dell’opposizione con più chances, il giovane (35 anni) attivista ha però insistito di non voler appoggiare un candidato unico che sfidi Putin.
E almeno 200 attivisti dell’opposizione intanto sono tornati a manifestare ieri, per protestare davanti a un tribunale nel centro di Mosca nonostante il Comune gli avesse negato l’autorizzazione contro l’ennesima proroga dell’arresto di Serghei Udaltsov, l’oppositore del «Fronte di sinistra» fermato durante i primi spontanei cortei contro i brogli, e che da 20 giorni non riesce a uscire dal carcere. Nonostante avesse dichiarato uno sciopero della fame che l’ha fatto finire in ospedale, Udaltsov è stato ieri condannato per la terza volta, a 10 giorni.

Corriere della Sera 27.12.11
I figli arrabbiati di Putin che salveranno la Russia

Negli anni ‘90 si è dovuto improvvisare tutto, dalle leggi al mercato, sulle rovine di un colossale esperimento fallito Oggi in piazza vanno i giovani trentenni di successo della nuova classe media, che si sentono ingannati
di Bill Keller


NEI giorni del declino dell´Unione Sovietica, trascorsi molto tempo in un complesso di alti palazzoni lungo la Moscova a sviscerare una questione che mi pareva di importanza cruciale in relazione al futuro: la Russia avrebbe mai saputo dar vita a un´autentica classe media? Non intendevo una categoria di privilegiati, agevolati dallo Stato.
Bensì persone indipendenti e realizzate, in grado di diventare il motore trainante e la prova vivente della mobilità verso l´alto.
Quel complesso di condominii sul fiume era il prodotto di un classico progetto scervellato della Lega comunista giovanile, destinato ad alleviare la penuria di alloggi. Giovani e promettenti professionisti presso importanti aziende statali nel caso specifico erano in buona parte scienziati nucleari e ingegneri spaziali ricevevano permessi per assentarsi per mesi dal lavoro e partecipare a una squadra di operai edili ultra-istruiti. Ogni famiglia doveva investire centinaia di ore del proprio lavoro per preparare il cemento e tirar su muri a secco, per poi trasferirsi nei nuovi e preziosi alloggi. La teoria era che una volta affrancati dalla necessità di condividere i sovraffollati appartamenti dei genitori, ed entrati a far parte di una nuova comunità soddisfatta, gli inquilini del complesso si sarebbero dedicati con ancor più impegno e fedeltà al lavoro, che aveva la massima priorità.
Tutto ciò accadeva nel 1991, epoca di grandi possibilità. Molte mie conoscenze si trasferirono nel nuovo complesso residenziale giovanile "Atom" e di lì a poco si lanciarono nel settore privato. Il più simpatico era Igor: mentre la maggior parte dei nuovi capitalisti si dedicava a intrallazzi e traffici commerciali importando jeans, computer, album di musica rock Igor aveva fondato una propria azienda, con un´idea brillante: dato che la popolazione iniziava a guadagnare ma guardava con sospetto le nuove banche private, Igor si era messo a produrre casseforti di alta qualità in una vecchia fabbrica.
Quelli, in Russia, erano tempi di desideri confusi. La gente voleva essere "normalniye lyudi", gente normale. A migliaia compresi i residenti di Atom i russi si erano riversati per le strade per sventare un colpo di Stato e festeggiare il potere da poco scoperto. E poi? Cos´è successo? È stato necessario improvvisare tutto, dalle leggi al mercato al significato dell´esistenza, sulle rovine fumanti di un colossale esperimento fallito. I racket si sono moltiplicati. Mistici, guaritori, ipnotizzatori hanno attirato le masse. Nella ricerca di qualcosa in cui credere, i residenti di Atom invitarono persino un prete a impartire insegnamenti settimanali attraverso la loro tv a circuito chiuso. Altri, più profani, ospitarono a casa propria una comune del libero amore.
Saltiamo in avanti di un decennio, la metà del tempo necessario ad arrivare ai giorni nostri. La nuova Russia era un progetto ancora in corso di realizzazione. Vladimir Putin, l´oscuro colonnello del Kgb, era diventato un popolare presidente. Putin forniva sufficiente benessere, un senso dell´ordine, un´immagine rassicurante dell´orgoglio nazionale. Il prezzo da pagare era tollerabile: accettare che le cose stavano così. Una minuscola rinuncia della propria dignità. Sta´ zitto e arricchisciti.
In molti all´accattivante confusione dei primi anni Novanta è subentrata la delusione. Lo splendido documentario di Robin Hessman My Perestroika narra le vicende di cinque amici moscoviti poco più giovani che i miei amici di Atom. Il film coglie l´ambivalenza nello scorcio tra l´epoca sovietica e la nuova libertà. Il film raffigura russi che vivono ragionevolmente bene, liberi di esprimere le proprie idee, anche se qualcosa è assente: una sorta di finalità superiore. «Sai», dice Borya, insegnante di storia, «gli ideali che infuocavano il cuore dei russi all´inizio degli anni Novanta sono stati profanati. Non è rimasto niente per cui combattere».
Ad Atom il prete è sparito. Hanno aperto un nuovo centro benessere per migliorare la forma fisica in una terra in cui le statistiche della mortalità sono da sempre legate all´eccessivo consumo di vodka e tabacco. La scuola elementare di Atom ha eliminato i programmi sperimentali (e il preside libero-pensatore), a favore di un curriculum di studi molto impegnativo a successo garantito. Il mio microcosmo, quello che seguivo nel tempo, si è disintegrato e sparpagliato qua e là. Alcuni sono partiti per il Canada o Israele o gli Stati Uniti. Un ex apparatchik della Lega comunista giovanile ha trovato la sua vocazione naturale nel cinico mondo del traffico di armi.
Igor, il costruttore di casseforti, e la moglie Tanya stavano lottando per apprendere come gestire un´impresa, e la loro azienda si è espansa e ha prosperato. Igor si è trasferito con la famiglia in un appartamento più grande, ha acquistato un Suv della Mercedes. Eppure non è a suo agio con il consumismo che logora l´anima, e la corruzione che li circonda. La più grande consolazione è che le due figlie hanno preferito un traguardo culturale che l´ambizione commerciale: Maria dipinge icone religiose, Katya è una pianista.
Ma acceleriamo di un altro decennio, e arriviamo ai giorni nostri. Quando decine di migliaia di persone si sono date appuntamento a Mosca questo mese per protestare contro le elezioni parlamentari e la mano pesante di Putin, i telegiornali hanno dipinto una rivolta della classe media. Il mio primo pensiero a questa notizia è stato di cercare Igor, il mio modello.
Igor e Tanya oggi abitano a Londra. Dopo vent´anni di battaglie contro la burocrazia, la corruzione, la mentalità degli impiegati, Igor ha rinunciato alla Russia, ha venduto la sua azienda e oggi, a 55 anni, sta studiando per un master in design. Ha poca stima della politica o dei politici non ne ha mai avuta ma ha seguito le proteste di Mosca su Internet e se n´è rallegrato. In mezzo alla folla, insieme ad alcuni irriducibili favorevoli al dispotismo, e ad alcuni liberal le cui speranze di vent´anni fa si sono riaccese, Igor ha visto qualcosa che lo ha inorgoglito: giovani professionisti istruiti, all´apparenza normalniye laudi, e tra questi sua figlia Maria.
Un giornalista russo li ha soprannominati "i nuovi arrabbiati": giovani trentenni di successo, abitanti delle grandi città, grandi abbastanza da aver conosciuto qualche parte di mondo, troppo giovani però per provare nostalgia per la confortante uniformità dell´esperienza sovietica, e troppo, troppo giovani per aver paura. Si sentono ingannati e offesi dal "diritto divino" di Putin. Credono che la gente normale meriti leader normali.
Scopriamo così che in effetti la Russia è stata capace di dare vita a una classe media, ma che questo non basta a far nascere la democrazia. Occorre una generazione nata nell´innocenza. Borya, l´insegnante deluso di "My Perestroika" ha detto l´altro giorno al regista che no, lui non ha preso parte alle ultime manifestazioni, ma i suoi studenti sì.
Putin pare inetto nel suo sdegno. Liquida i manifestanti come strumenti dell´America. È ancora difficile intravedere una chiara alternativa a Putin. Tra gli aspiranti leader ci sono un oligarca miliardario proprietario di maggioranza dei New Jersey Nets, una squadra di pallacanestro; il deluso ex ministro delle Finanze di Putin, qualche faccia di una ventina d´anni fa, comunisti, ultranazionalisti, riformisti. Poiché non c´è un leader dell´opposizione, i pronostici danno Putin vincente alle prossime elezioni. Ma la figlia di Igor e gli studenti di Borya, i figli della generazione stessa di Putin, rappresentano la luce in fondo al lungo tunnel sovietico. La lezione per le altre nuove democrazie che nascono sul pianeta forse è questa: occorre tempo. Infatti, si può tirare fuori la gente dal sistema, ma non è così facile togliere il sistema dalla gente.
(© 2011 The New York Times/la Repubblica traduzione di Anna Bissanti)

l’Unità 27.12.11
Palestinese esclusa da premio


La nota marca Lacoste ha ritirato il proprio sostegno finanziario al premio Elysée-Lacoste per i giovani fotografi, dopo una polemica scoppiata sull’esclusione di una partecipante palestinese. Il premio, creato nel 2010 dal Musée de l’Elysée di Losanna quest’anno aveva come tema «La gioia di vivere». La giovane fotografa palestinese Larissa Sansour aveva optato per una rilettura ironica, rappresentando il popolo palestinese vivere in un grattacielo. All’inizio di dicembre, però, il suo nome è misteriosamente
sparito dalla lista dei candidati: come riportato su Le monde l’esclusione sarebbe stata voluta dai dirigenti Lacoste che avrebbero ritenevano l’opera troppo filopalestinese. Immediata la smentita della casa di moda: «l’opera era fuori tema», hanno ribattuto. Inutili i tentativi di mediazione della direzione del museo svizzero. Alla fine la Lacoste ha deciso di ritirare il suo marchio e quindi la sponsorizzazione.

Corriere della Sera 27.12.11
Le maniche corte di una bimba agitano Israele
di Elisabetta Rosaspina


GERUSALEMME — Nemmeno le critiche di Hillary Clinton, segretario di Stato americano, poco più di tre settimane fa a Washington, sulla condizione femminile in Israele, avevano suscitato un tale putiferio: a poco più di 7 anni, Na'ama Margolese ha messo in questi giorni israeliani contro israeliani. Zeloti ortodossi contro laici, ma anche religiosi contro religiosi, polizia e troupe televisive contro integerrimi tutori della Torah, la legge ebraica.
Non c'era riuscita dieci giorni fa nemmeno la 28enne Tanya Rosenblit, subito soprannominata la Rosa Parks israeliana e promossa a paladina dei diritti civili per aver rifiutato di sedersi in fondo a un autobus «mehadrin», quelli dove tuttora gli uomini viaggiano seduti nella metà anteriore e le donne in quella posteriore. Sebbene il 6 gennaio scorso l'Alta Corte israeliana abbia stabilito che la segregazione è illegale, dando un anno di tempo alle società di trasporti per mescolare i passeggeri.
Il posto delle donne, non solamente sui mezzi pubblici, ma nella società israeliana più tradizionale e osservante, è una questione ricorrente e non troppo stuzzicata dal governo conservatore di Benjamin Netanyahu, che, però, domenica scorsa non ha potuto ignorare l'ondata di polemiche sollevata dalla questione: può l'abbigliamento di una bambina di nemmeno 8 anni rappresentare un oltraggio al pudore?
Può, come ha documentato un servizio del secondo canale televisivo israeliano nella cittadina di Beit Shemesh, 80 mila anime, delle quali il 35% rigorosamente ortodosse, a nord ovest di Gerusalemme. Può, come ha urlato nel microfono dell'esterrefatto reporter, un automobilista sinceramente convinto che sia giusto e addirittura «sano» punire una femmina abbigliata in modo «immodesto», a 7 come a 70 anni. E Na'ama era stata punita con sputi, spintoni, insulti e qualche sassata, lungo il tragitto di 300 metri fra casa e scuola. Scuola religiosa, fra l'altro, come la famiglia di immigrati americani in cui è nata, come il guardaroba materno e come il suo, che in Europa sarebbe molto probabilmente giudicato da educanda.
Una maglietta dalle maniche troppo corte, una gonna colorata che non ha coperto a sufficienza le ginocchia, un errore nello scegliere il marciapiede (la strada principale di Beit Shemesh è riservata su un lato agli uomini e sull'altro alle donne), hanno trasformato una scolaretta in una provocante «scostumata», agli occhi di alcuni zeloti, che hanno deciso di rimetterla al suo posto. Tanto che Na'ama ora non vuole più tornare a scuola, nemmeno scortata dalla mamma.
Netanyahu ha alzato la voce, domenica: «Israele è uno Stato democratico, occidentale e liberale. La sfera pubblica è aperta e sicura per tutti, uomini e donne. Non c'è spazio per persecuzioni o discriminazioni». Il ministro dell'Interno, Eli Yishai, a una riunione del suo partito, Shas, il partito dei religiosi ultraortodossi, si è dichiarato «nauseato e disgustato»: «Aggredire una bambina è un atto contrario alla Torah» ha stabilito. Senza poter impedire che ieri, a Beit Shemesh, fossero accolti con lanci di pietre anche i poliziotti inviati a togliere la segnaletica stradale discriminatoria.
Per l'amministrazione israeliana, già provata dallo scandalo di un presidente, Moshe Katsav, costretto alle dimissioni e condannato a 7 anni per violenza sessuale, le barricate misogine degli integralisti sono la risposta meno appropriata ai dubbi di Hillary Clinton. Inquietata dalle direttive dei rabbini più estremisti, che aborriscono perfino il canto femminile nelle cerimonie militari, il segretario di Stato americano aveva commentato: «Sembra di stare a Teheran». Ma le sue parole non avevano fatto breccia quanto le lacrime di Na'ama.

il Riformista 27.12.11
Se anche la Cina è alle prese con i subprime
di Mauro Bottarelli


La Cina, per la quarta volta quest’anno, si è detta pronta ad aiutare l’eurozona: ma Pechino è ancora il grande e credibile player mondiale che ha trascinato la crescita degli ultimi anni? Il ministro per il Commercio cinese ha reso noto che gli investimenti diretti stranieri in Cina a novembre sono calati per la prima volta dal 2009: gli 8,8 miliardi di dollari totali rappresentano infatti una diminuzione del 9,8 per cento rispetto all’anno precedente. In particolare, quelli dagli Stati Uniti sono scesi del 23 per cento a 2,74 miliardi di dollari.
Di più, sempre dati governativi parlano di un trend tutt’altro che ottimistico per l’export cinese nel 2012, della diminuzione del margine di crescita commerciale in dicembre, del calo del 2 per cento dell’export cinese in ognuno degli ultimi tre mesi di quest’anno, a fronte di un aumento delle importazioni del 5 per cento rispetto all’export. Quindi, il deficit commerciale comincia a fare capolino anche in Cina, la locomotiva del mondo rallenta e rimanda sinistri scricchiolii.
Sempre in novembre, la massa monetaria M2 è calata del 12,7 per cento, il peggior arretramento da dieci anni a questa parte. I nuovi prestiti sono calati del 5 per cento sulla basa mese-su-mese e la Banca centrale ha allentato di molto la cinghia, tagliando nettamente le richieste di riserva per le banche per la prima volta dal 2008. Insomma, anche in Cina comincia a scarseggiare la liquidità. Lo confermava ieri il China Daily, che dava notizia del fatto che i due principali creditori provinciali del paese, la Hunan Provincial Expressway Construction Group e la Guangdong Provincial Communications Group stanno ritardando i pagamenti di 3,11 miliardi di yuan di interessi, mentre il totale accumulato da parte dei principali 11 debitori del paese è di 30,16 miliardi, nonostante all’inizio di novembre 55 province cinesi fossero tornate sui mercati di capitale per racimolare fondi. La Borsa di Shanghai ha perso il 30 per cento da maggio ad oggi e addirittura il 60 per cento dai picchi del 2008, in termini reali più o meno quanto perso da Wall Street tra il 1929 e il 1933.
Insomma, il grande capo dei Brics non scoppia affatto di salute ma il mercato non sembra prezzare in maniera seria questa situazione e sottovaluta la probabile reazione dei Brics all’avvitarsi della crisi: ovvero, scaricare merci e innescare uno shock deflazionario per il resto del mondo. Tanto più che, a dispetto delle richieste statunitensi, Pechino sta pensando a una svalutazione dello yuan il prossimo anno, a fronte del continuo apprezzamento in area 4 per cento di quest’ultimo trimestre. E, in effetti, a fronte di riserve per 3,2 triliardi di dollari, la Cina conosce da tre mesi un continuo calo, nonostante il surplus commerciale: insomma, i soldi cominciano a prendere il volo verso l’estero. E le riserve non possono essere reintegrate per stabilizzare il sistema bancario interno, poiché significherebbe rimpatriare denaro ora investito in debito Usa e dell’eurozona e così spingere ulteriormente al rialzo lo yuan. I consumi sono scesi dal 48 al 36 per cento del Pil dalla fine degli anni Novanta, mentre gli investimenti sono cresciuti del 50 per cento: un tasso insostenibile che ora reclama il conto. I ricchi cinesi, non potendo investire all’estero e con gli interessi bancari al -3 per cento in termini reali, compravano due, tre appartementi come investimento per immobilizzare il loro capitale.
Ora però, a fronte di una ratio tra stipendi e costo delle vita al livello mortale di 1:18, molti di quegli appartamenti, quasi sempre sfitti, stanno gonfiando una bolla interconnessa direttamente con il sistema bancario. Si svende quindi, soprattutto nelle città costiere. Per l’Fmi i prestiti sono raddoppiati raggiungendo il 200 per cento del Pil negli ultimi cinque anni, inclusi quelli fuori bilancio: stiamo parlando di un intensità di crescita del credito doppia rispetto a quella dei cinque anni che precedettero la bolla dell’indice Nikkei a fine anni Ottanta o quella legata ai subprime tra il 2002 e il 2007 negli Stati Uniti.
E, infatti, nella nuova classifica mondiale degli istituti bancari in base al loro market cap, si scopre che le prime tre sono cinesi: ICBC, CCB e Agricoltural Bank of China hanno surclassato tutti, con i due giganti Usa Wells Fargo e JP Morgan rispettivamente al quarto e sesto posto.
Accadde così anche al Giappone nel 1991, poi fu crisi nera.

Corriere della Sera 27.12.11
E l’ateniese Isocrate plaudì al re macedone
Deluso dalla democrazia, si assoggettò a Filippo
di Paolo Mieli


Isocrate nacque ad Atene (436 a.C.) nell'epoca d'oro della città, il V secolo della democrazia, di Pericle, della costruzione del Partenone. Aveva cinque anni Isocrate quando, con l'invasione spartana dell'Attica (431), iniziò la guerra del Peloponneso; ne aveva 32 nel momento in cui la città fu sconfitta (404) e fu instaurato il cosiddetto governo dei Trenta Tiranni. Visse, Isocrate, 98 anni, fino al 338, allorché la sconfitta di Atene nella battaglia di Cheronea segnò la definitiva affermazione della dinastia macedone: dapprima Filippo II e, dopo il suo assassinio (336), Alessandro Magno, quell'Alessandro che diede alla Grecia il più grande impero che si sia visto nel mondo antico. È quasi incredibile che un uomo abbia vissuto per un periodo così esteso, lungo l'intero arco di quella che i manuali di storia liquidano più o meno sbrigativamente come la «transizione» dall'età di Pericle a quella di Alessandro. Ed è sicuramente per questo motivo che a Isocrate è dedicato il capitolo introduttivo del libro di Michael Scott, Dalla democrazia ai re. La caduta di Atene e il trionfo di Alessandro Magno, che l'editore Laterza si accinge a dare alle stampe.
Quando aveva cinquant'anni, Isocrate, che pure non occupò mai una posizione ufficiale, aprì ad Atene una scuola con cui influenzò il pensiero di un'intera generazione di uomini politici di primo piano. Ai quali indirizzò dei piccoli trattati che furono presi in grande considerazione. I primi di questi «opuscoli» riproponevano i modelli dell'Atene del V secolo. L'ultimo, una lettera aperta scritta a Filippo il macedone scritta poco tempo prima di morire, auspicava che fosse quel re a realizzare le idee che Isocrate aveva «da giovane». Idee che, a suo avviso, in parte vedeva come già realizzate. Con il che, scrive Scott, venivano a congiungersi, lungo l'arco della vita di Isocrate, «i due estremi della politica, la democrazia e la monarchia assoluta, le società e i mondi diametralmente opposti definiti da quei due estremi». Ma furono davvero due estremi?
È su questo che si interroga Michael Scott. Gli studiosi del mondo antico «hanno rivolto con entusiasmo l'attenzione alla democrazia ateniese per poi saltare a piè pari ad Alessandro Magno, senza comprendere in qual modo si sia verificato il passaggio da una situazione all'altra». Anche quando «hanno preso in considerazione il periodo intermedio, lo hanno spesso bollato come una lunga stagione di decadenza e di declino, seguita ai giorni di gloria del secolo precedente». Ma, se la si studia a fondo, la storia del declino e della decadenza non sta in piedi. E questo ci induce a ritenere «che capire questo drammatico periodo di transizione potrebbe essere essenziale per una migliore comprensione del mondo antico nel suo complesso». Solo del mondo antico? No. Anche di quello attuale.
Secondo l'autore «ci troviamo oggi nel momento più adatto per portare all'attenzione universale questo periodo di turbolenta transizione» È una storia «di trasformazioni mondiali, di disordini politici ed economici (anche nell'antica Grecia vi fu un momento in cui furono sospesi i prestiti), di democrazie schiacciate e risorte, di antiche e nuove democrazie sull'orlo di ambizioni imperialiste, di imperi vacillanti e di Stati arretrati che balzano alla ribalta e diventano d'un tratto le più forti potenze del mondo antico». Si intravede, nell'arco di tempo vissuto da Isocrate, «la storia di una lotta disperata e sostanzialmente folle per conservare lo status quo; e del trionfo di nuove strategie rispetto a tattiche paralizzanti». «Credo», afferma Scott, «che ben pochi mancheranno di riconoscere in tutto questo qualcosa che li riguarda e investe il mondo in cui viviamo; se è vero che la storia può fornirci una mappa del nostro passato, uno specchio del presente e forse anche fungere da guida all'azione futura, la storia del passaggio "dalla democrazia ai re" è la più adatta a svolgere queste funzioni nel tempo attuale». In che senso? La ragione principale per la quale dovremmo interessarci di questo particolare periodo della storia greca è che, «ci piaccia o no, gran parte del mondo attuale è strettamente legato alle storie, ai valori e ai modelli della Grecia antica».
Certo, dobbiamo essere consapevoli dell'abissale differenza che divide il mondo antico da quello di oggi. Allo stesso tempo, tuttavia, «non possiamo ignorare quanto poco le cose siano mutate, come gli antichi si siano trovati davanti a battaglie e sfide che sono le stesse che noi ci troviamo ad affrontare, e quanto ancora possiamo imparare da loro». Se il mondo contemporaneo volesse avere un atteggiamento più consapevole nei confronti dell'antica Grecia e, «senza snaturare la storia antica con adattamenti distorti», ne volesse trarre «un insegnamento utile per il presente e per il futuro», mai come adesso dovrebbe interrogarsi su come fu possibile passare «dalla democrazia ai re» lungo un itinerario che a uno dei principali intellettuali dell'epoca, Isocrate appunto, apparve in tutto e per tutto coerente.
Ma torniamo al V secolo, al 480 a.C. quando con la vittoria di Salamina iniziò la stagione di grande fioritura di Atene. Nel capitolo conclusivo del bellissimo Il mondo di Atene (Laterza), Luciano Canfora osserva che «la democrazia e l'impero erano nati insieme». Proprio la vittoria di Temistocle a Salamina aveva generato l'una e l'altro, «e la sua intuizione di munire immediatamente la città di un imponente sistema di mura, superando con l'inganno le resistenze e l'opposizione spartana, suggella, col necessario strumento difensivo, il successo conseguito e pone le premesse per il futuro conflitto con Sparta». Quelle mura costituiscono il «palladio» tanto della democrazia quanto dell'impero «e formalizzano la rottura degli equilibri fino ad allora incentrati sulla indiscussa egemonia spartana sull'intero mondo greco».
La stessa pretesa spartana di impedire ad un'altra città di munirsi di mura denota di per sé che di fatto la prevalenza di Sparta «interferiva fin nella vita interna delle altre comunità». Sicché a Canfora appare «formalistico» delimitare il periodo di guerra tra Atene e Sparta agli ultimi trent'anni del V secolo: «In un crescendo», scrive, «quel conflitto ha inizio con la nascita stessa delle mura». E le mura saranno nel momento della capitolazione di Atene (404) «il principale bersaglio dei vincitori nonché l'oggetto di disperata e vana difesa da parte dei vinti». Dopodiché la riedificazione di quelle stesse mura nel 394 «segnerà l'inizio di una seconda, e meno durevole ma a suo modo produttiva, nuova avventura imperiale». «Impero, dunque, e democrazia procedono insieme», ribadisce Canfora, «è l'impero che consente la condivisione, da parte del demo, di sostanziali benefici materiali… la democrazia funziona perché "si spartisce il bottino" cioè le entrate imperiali».
Allo stesso modo saranno intrecciate, nel secolo successivo, la crisi dell'impero e quella della democrazia. Sarà la lunga stagione dell'impoverimento. E quando verrà il momento della contrapposizione a Filippo il macedone, protagonista di tale scontro in Atene sarà Demostene, figlio di un industriale, ma ridotto «a fare l'avvocato perché depredato, orfano anzitempo, dai suoi tutori».
Demostene sa bene come funziona il meccanismo della contrapposizione tra ricchi e non possidenti. Perciò, scrive Canfora, di fronte al classico e collaudato strumento di una patrimoniale sulla ricchezza, obietta: «Ateniesi! In città ci sono ricchezze, oserei dire, quante in tutte le altre città messe insieme. Ma se anche tutti gli oratori si sforzassero di impaurire i ricchi dicendo che sta per arrivare il re di Persia, anzi che è già arrivato e se con gli oratori ci si mettessero anche gli indovini a fare la stessa previsione, i ricchi non solo non verserebbero un bel niente, ma non farebbero nemmeno vedere le loro ricchezze, anzi non riconoscerebbero nemmeno di possederle». Ragion per cui, afferma ancora Demostene, «il denaro per il momento lasciamolo nelle mani di chi lo possiede: è il migliore forziere per la città».
La questione sociale, scrive Canfora, domina il IV secolo come domina l'oratoria di Demostene «anche quando l'oratore sembra parlare d'altro». Quando c'era l'impero il conflitto «aveva come posta in gioco la redistribuzione del bottino». Negli anni che intercorrono tra l'inizio dell'avventura politica di Demostene, «proteso a trovare per la sua città spazio per una terza egemonia (magari nell'orbita della Persia)», e la disfatta del 322, l'anno della definitiva vittoria macedone, vale a dire nel corso di un trentennio «si consuma ancora una volta uno scontro sociale che non conosce soste». E quando «i benestanti e i benpensanti avranno i macedoni come garanti della sconfitta dell'ultima reincarnazione della democrazia imperiale, per prima cosa ridurranno il corpo civico a novemila cittadini». È l'Atene di Focione «a sovranità limitata» ed è «l'inizio di un declino che non conoscerà soste».
Altro elemento che, dopo la sconfitta di Atene, caratterizzò quella lunga transizione «dalla democrazia ai re» fu «ciò che mancò a Sparta». Michael Scott è un evidente estimatore dell'esperienza politica spartana. Ma ciò non gli impedisce di vederne i difetti: «Se è vero, come si dice, che la prova suprema per un uomo è saper gestire il successo, dobbiamo dire che gli spartani, all'alba del IV secolo, non se la cavarono molto bene». I primi segni della loro «grossolanità» si percepirono quando rifiutarono di costruire a Delfi o a Olimpia un monumento che celebrasse la loro vittoria. Per di più il grande generale spartano Lisandro dopo la vittoria su Atene continuò a navigare nell'Egeo e dovunque trovava una colonia ateniese interveniva per imporre un proprio governo: come avrebbe detto Plutarco, «Lisandro divenne più potente di qualsiasi greco prima di lui». Ma — sempre secondo Plutarco — divenne anche «superbo e crudelmente intransigente, tanto che non esitava a conferire potere assoluto nelle città ai suoi amici e a condannare a morte i suoi nemici». Sparta, a disagio per questa aspirazione a un impero personale, presto richiamò Lisandro in patria. Ormai però il danno era fatto. Sparta si alienò persino le simpatie di Tebe che pure nel 404 aveva combattuto al suo fianco contro Atene. E rese oltremodo ostile la Persia. Plutarco commentò la situazione scrivendo che Sparta era come una donna da taverna, la quale, dopo aver fatto gustare alla Grecia il buon vino della libertà, l'aveva mischiato poi «con tanto aceto che sarebbe stato meglio non averlo mai bevuto».
Si potrebbe pensare, scrive Scott, «che dopo un conflitto recente — quello del V secolo — durato trent'anni, quale era stato quello del Peloponneso, nessuna città greca avrebbe desiderato una nuova guerra; ma il governo spartano raggiunse tali limiti di brutalità che molte città greche, così sensibili alla propria libertà e a tutto ciò che la poteva minacciare, tornarono sul campo di battaglia». Per una guerra «che Sparta non avrebbe mai potuto vincere, se non altro perché condotta simultaneamente su due fronti: la costa dell'Asia Minore e il cuore della Grecia centrale… Per passare da un fronte all'altro si doveva navigare, remare o marciare; e il tragitto non era breve, all'incirca cinquecento chilometri (in linea d'aria)». Sulla costa dell'Asia Minore, gli Spartani dovevano affrontare le forze radunate dal persiano Tissaferne che in caso di necessità sarebbero state appoggiate dall'esercito guidato dal re in persona. Nella Grecia centrale doveva combattere contro Beoti, Tebani, Corinzi, Ateniesi e Argivi sostenuti dall'oro persiano. Oro persiano che era affluito a Sparta per aiutarla nella Guerra del Peloponneso e che pochi anni dopo si disseminava tra i nemici di Sparta stessa. La Persia, poi, affidò la propria marina ad un ammiraglio ateniese, Conone, che sconfisse la flotta spartana. Finché nel 391 la Persia propose un trattato di pace. Tebe e Sparta erano favorevoli, Argo e Corinto contrarie, Atene, città arbitro, decise non solo di respingere l'offerta, ma di incriminare tutti quelli che avevano condotto i negoziati. «Ancora una volta», è il commento di Scott, «Atene si attribuiva un po' troppa importanza».
Il fatto è che «ad Atene tutto veniva dibattuto in pubblico, tutti potevano esprimere un'opinione, tutti votavano durante i lavori e ognuno poteva conoscere le decisioni degli altri». Mentre «alla corte persiana tutto si svolgeva dietro porte chiuse, le decisioni erano prese con un cenno del capo del re, un sussurro al suo orecchio, in un discreto andirivieni di cortigiani e ambasciatori; l'intrigo, il clientelismo e la piaggeria erano le armi nella lotta per decidere». E risultarono armi vincenti. Il ruolo che era stato dell'ateniese Conone, fu adesso dello spartano Antalcida che «versò odio per le azioni degli Ateniesi nelle orecchie del re di Persia». E che, al momento decisivo, costrinse alla resa la flotta ateniese. In questo contesto iniziò a crescere il ruolo di Tebe sotto la guida di Pelopida (già esponente del partito antispartano) ed Epaminonda. E si giunse alla battaglia di Tegira (375) quando un contingente di trecento tebani sconfisse una forza spartana assai più grande. Quattro anni dopo, una nuova vittoria tebana a Leuttra (371) segnò la fine della supremazia di Sparta. Anche in questa occasione Atene si distinse per il suo opportunismo: pur essendo alleata di Tebe, non le inviò alcun aiuto in vista dello scontro di Leuttra e anzi, di nascosto, parteggiò per Sparta. Nel frattempo nella Tessaglia dominata da Giasone, all'uccisione di quest'ultimo (370) si sviluppò una guerra civile tra la città di Fere e la più debole Larissa. Larissa chiese aiuto alla Macedonia che glielo concesse entrando così, per una porta laterale, in una scena di cui di lì a trent'anni sarebbe diventata la dominatrice. Tebe si schierò con Fere, sconfisse Larissa e i macedoni e ottenne che la Macedonia le assegnasse come ostaggi da rieducare alcuni giovani nobili. Tra loro c'era Filippo il futuro re, padre di Alessandro.
Nel frattempo ad Atene andava sviluppandosi il regime democratico. È curioso, osserva Scott, che gli ammiratori della democrazia ateniese ne individuino quasi sempre l'apice nel «glorioso» V secolo. Entro certi limiti, prosegue, «il successo (e naturalmente la nascita) della democrazia nel V secolo sono innegabili». Atene si sviluppò fino a dominare un grande impero e costruì meraviglie, come il Partenone. «Ma non è tutto qui», precisa, «non soltanto buona parte delle testimonianze in nostro possesso, riguardo ai meccanismi interni della democrazia, provengono dalla metà del IV secolo (cui ci ha fatto comodo spesso riferirci, benché impropriamente, per parlare della natura della democrazia di cento anni prima), ma è in questo periodo che cominciò a svilupparsi un vivace dibattito filosofico sulla natura stessa della democrazia». Così, mentre continuiamo a fare riferimento al V secolo come a un'età dell'oro, «è stato durante il momento di instabilità economica, militare e diplomatica alla metà del IV secolo che il sistema democratico fu sottoposto alla più elaborata e profonda riflessione». Ed è questa stagione che secondo l'autore si presta a numerose analogie con i tempi attuali. La stagione in cui un campione della democrazia quale è Isocrate «si consegna» sotto il profilo intellettuale a Filippo di Macedonia.
Platone, dopo una lunga esperienza — alla quale sono dedicate pagine assai interessanti del libro — a fianco dei Dionisio di Siracusa, primo e secondo (il padre e poi il figlio), in uno dei suoi ultimi scritti, Il politico, mette in burla la democrazia e propone ad Atene «un uomo di grande saggezza» che avrebbe dovuto governare in armonia con la legge. «Così alla fine degli anni Cinquanta del 300 a.C. anche Atene — che fino a quel momento, a differenza di altre città e Stati della Grecia, aveva tenuto a bada il potere individuale nei suoi confini, sebbene costretta ad avere rapporti con i potenti di altri Stati — cominciò a tentennare», scrive Scott. «Nei trenta anni seguenti, la politica ateniese nei confronti dei potenti governanti del mondo sarebbe stata stabilita e dominata da un gruppetto di cittadini che avrebbero deciso il futuro e, in definitiva, la sopravvivenza stessa di Atene». A campione di questa generazione di ateniesi si pose Demostene che dedicò la vita e l'oratoria a mettere in guardia la sua città da Filippo il macedone. A lui si contrappose Eschine, l'oratore che esortava i suoi concittadini a fidarsi di Filippo. Ma fu Demostene il protagonista (perdente) di questa stagione politica.
Nel già citato libro di Canfora ci sono alcune belle pagine dedicate a Demostene, in cui l'autore spiega come «l'eliminazione dell'avversario politico (dalla violenza fisica all'ostracismo, esilio, uccisione in una specie di gradatio: la scena politica ateniese offre esempi di tutti e tre i generi) appariva prassi non sconcertante, ma, piuttosto, drammatica prosecuzione della lotta politica». Canfora è colpito da «una tremenda uscita demostenica» che risale al 341, quando ormai la resa dei conti con la Macedonia si avvicinava e l'ossessione di Demostene era la «quinta colonna» del sovrano macedone all'interno della città: «La lotta è per la vita o per la morte, questo bisogna capire; e quelli che si sono venduti a Filippo bisogna odiarli e ammazzarli». L'eliminazione fisica dell'avversario come esito del conflitto, puntualizza Canfora, «è una eventualità messa in conto, non è una situazione estranea — almeno potenzialmente — alla prassi del quotidiano scontro politico».
«È scandaloso», dice Demostene, «che in Atene si possa parlare impunemente in favore di Filippo!». La sua ossessione sono «quelli che si sono venduti a Filippo», persone da «bastonare a morte». A suo avviso «non si possono vincere i nemici esterni prima di aver sterminato quelli interni». Ed è probabilmente a questo tipo di «politica terroristica», scrive Canfora, «che pensava Platone quando equiparava i retori ai tiranni, perché mandano a morte, esiliano, spogliano dei beni chi vogliono». Nel contempo Demostene non fa mistero della sua «avversione verso la propaganda ed i programmi della democrazia radicale». Né gli piace il governo popolare, «alle cui lungaggini e alla cui pubblicità non esita a contrapporre la libertà d'azione e la prontezza di cui gode un Filippo». Tra le righe delle sue orazioni si può ritrovare una sorta di ammirazione nei confronti del nemico «per la sua fulminea carriera, per l'elemento volontaristico della sua prassi politico-militare».
Fu in questa situazione, riprende Scott, che si fece avanti ancora una volta Isocrate «il commentatore politico e la voce della coscienza della Grecia negli ultimi cinquant'anni». Isocrate, «che aveva amato Atene per tutta la vita, cominciava a fare un discorso molto diverso da quello di Demostene». Testimone dei capovolgimenti avvenuti nella storia greca durante l'amara guerra civile della fine del secolo precedente, durante il conflitto interno che aveva afflitto la Grecia centrale nella prima metà del nuovo secolo e durante i grandi mutamenti culturali, geopolitici ed economici avvenuti in tutto il mondo greco, infine, durante il brutale rovesciamento degli equilibri di potere negli ultimi dieci anni», Isocrate cominciava oramai a «credere che Atene non fosse più in grado di offrire alla Grecia ciò di cui aveva estremo bisogno». Nella ricerca del suo ideale di un capo giusto e forte, capace di unire la Grecia e restituirla al suo splendore, Isocrate, scrisse una lettera aperta alla quale diede un titolo semplice: A Filippo. Altrettanto semplice era il suo suggerimento: «Spetta a un uomo dalle grandi e nobili ambizioni, amico dei Greci e che vede con la sua mente più lontano degli altri, utilizzare tali uomini (i Greci) contro i barbari… e creare per loro delle città facendo di queste il confine ultimo del mondo greco, in prima linea a difesa di noi tutti».
E venne il 338, l'anno della feroce battaglia di Cheronea, dalla quale Filippo uscì vincitore. Isocrate, riferisce Scott, «era passato totalmente dalla parte di Filippo, che oramai a suo vedere rappresentava per la Grecia l'occasione migliore per raggiungere l'unificazione e la gloria nella lotta contro la Persia». All'età di 98 anni, Isocrate «ne aveva abbastanza di Atene e della sua democrazia tentennante». Così scrisse per ringraziare Filippo di «avergli permesso, nei suoi ultimi giorni, di veder realizzati alcuni dei suoi sogni» e aggiunse che «sperava che presto avrebbe realizzato anche gli altri». Dopodiché decise di lasciarsi morire: rifiutò il cibo per quattro giorni consecutivi e spirò. E venne l'ora di Filippo. Poi quella di Alessandro che morì nel 323. Un anno dopo le città greche provarono a ribellarsi un'ultima volta ma furono sconfitte da Antipatro, il generale che Alessandro, partendo per la spedizione in Asia, aveva lasciato a difesa della Grecia. A questo punto — probabilmente per sfuggire ai sicari di Antipatro — anche Demostene decise di darsi la morte. Morte che suggellò la lunga transizione ateniese.

il Riformista 27.12.11
Nella città del Polar Express
Babbo Natale fa strage in Texas


Il giorno di Natale, tra cucina e soggiorno, a Grapevine, Texas, non lontano da Dallas, in un tranquillo quartiere residenziale, tra tinello e soggiorno, sono stati trovati sette cadaveri, quattro donne e tre uomini tra i 18 e i 60 anni: una strage. Avevano appena scartato i regali, poi la furia omicida scoperta grazie a una chiamata anonima alla polizia, partita dall’appartamento.
La polizia è a caccia di un uomo travestito da babbo Natale. Un compito difficile visto che Grapevine è la capitale natalizia del Texas, una sorta di Polo Nord del Sud, famosa per le parate di luci, le sculture di ghiaccio, i Babbo Natale sempre disponibili per le foto e il tour su un treno storico: il Polar Express.
Il Natale è il brand di Grapevine o la sua maledizione? Se fosse un giallo di Agatha Christie l’assassino sarebbe il maggiordomo, ma a Grapevine è più facile che sia Babbo Natale. Il difficile è trovarlo: ce ne sono troppi in circolazione.

l’Unità 27.12.11
Una bicicletta salva la città
di Flore Murard-Yovanovitch


Q uelli che scelgono la bicicletta a Roma sfidano il traffico-macchina in una acrobatica danza dei corpi; spesso rischiosa. Nella capitale d’Italia, ci sono quasi sette persone investite al giorno e un morto ogni settimana. Per il solo anno scorso, 61 pedoni sono stati uccisi, 2139 feriti e 2204 investiti. Una strage continua, nel silenzio generale. Eppure, questi dati dell’Ania non sono mera morbosa cronaca, riguardano profondamente chi siamo e il nostro stile di vita. Per molti automobilisti, anche se sei sulle strisce, la tua esistenza di pedone è un “ostacolo” da rimuovere. Non sono ciechi, è come se tu “non ci fossi”: annullamento... Chi non li vede i mille segni di impazzimento per la città? Motorini rovesciati tra le sirene delle ambulanze, ogni giorno; insulti e violenza diffusa. Parlano di un malato e saturato traffico, ormai insostenibile.
Come soluzione, i municipi preparano cartelli per le vie pericolose: «Attenzione strada ad alto rischio di incidenti», a uso dei pedoni che volessero azzardarsi rischiare la vita. Mai avvertimenti e multe salate agli automobilisti padroni incontestati della città. Limitarsi ad indicare i pericoli invece che educare i comportamenti e soprattutto cambiare radicalmente la mobilità, sfruttando il tempo della crisi e il caro prezzo della benzina. Nessuna idea, nessuna proposta; regna il “Si salvi chi può” da chi corre veloce dimenticandosi di anziani e bimbi. Come se in questa società suicida fosse latentemente “accettato” che le strade sono mortali. Inoltre, solo una paralisi mentale può spiegare il nostro invivibile urbanismo, quando intere megalopoli d’America latina hanno rivoluzionato la loro mobilità facendo transitare milioni di pendolari dalle loro periferie in tram, treni sospesi e piste ciclabili.
Perché da noi no? E, peggio, perché non se ne parla, in un’assurda rimozione, o si confina l’argomento alle pagine di cronaca? Con le piazze assenti, la strada è ormai la nostra vera agorà. Quale città vogliamo? Che tipo di cambiamento è necessario per inventare una mobilità nonviolenta, che ridia alla città il volto di una “deambulanza” possibile, dove passeggiare spensieratamente, con la testa tra le nuvole? Basterebbe un salto di pensiero. Vedere la città come bene comune, come rapporto e convivenza, dove, come suggerisce Marc Augé, pedalare lentamente verso la riscoperta dell’altro. Inventiamo una città-respiro, una città-incontro, una città-bambina. In bicicletta, mi raccomando.

sabato 24 dicembre 2011

l’Unità 24.12.11
Il segretario Cgil
Non si salva l’Italia se non si fa crescere il lavoro
di Susanna Camusso


Una vigilia di Natale in piazza, dove abbiamo allestito un grande albero, l’Albero del lavoro, delle storie del lavoro. Per dire che la nostra mobilitazione continua, e continuerà ancora, per chiedere di cambiare le scelte più inique contenute nella manovra e per ridare un futuro al Paese ripartendo dai giovani e dal lavoro.
La manovra economica approvata, l’ennesima nel corso di questo travagliato anno, ha tratti forti di iniquità, pesa soprattutto sul reddito da lavoro dipendente e su chi ha di meno ed è troppo timida verso gli alti redditi. Una manovra con un segno di profonda ingiustizia sociale determinato da scelte che, ancora una volta, ricadono sui soliti noti. Il presidente del Consiglio ha attribuito alla pesante correzione di bilancio il nome di «salva Italia». Noi abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere che non si salva l’Italia se si impoverisce la gran parte della sua popolazione. Possiamo dire che il criterio, così come enunciato dallo stesso Monti nel suo primo discorso alle Camere, ovvero «rigore equità crescita», ha un anello mancante: l'equità, mentre per la crescita siamo ancora in attesa.
Di certo non dimentichiamo che se ci troviamo qui, in questa situazione difficile, il carico maggiore di responsabilità è da imputare alle politiche del governo precedente, con il suo aver negato la crisi, praticato la divisione nel Paese, fatto crescere le diseguaglianze, svilito il lavoro pubblico, alimentato il populismo. Abbiamo salutato positivamente l'uscita di scena dell'ex governo. Abbiamo compreso la credibilità nazionale ed europea del nuovo governo, ma ciò non deve impedire il giudizio sulle scelte fatte e di criticare le continuità con le passate manovre. In particolare, pur apprezzando il risultato sulla deindicizzazione delle pensioni, sottolineiamo l’iniquità della cosiddetta «riforma delle pensioni». Una decisione sbagliata che penalizza i lavoratori con 40 anni di contributi e scollega la previdenza dal lavoro. Inoltre, in una stagione già così difficile per il lavoro, sottrae possibilità ai giovani, taglia risorse al sistema invece di trasferirle sulle pensioni dei giovani. Così come per la tassazione sulla casa, modifiche ne abbiamo ottenute, ma la misura chiedeva una progressività, perché non possiamo mettere sullo stesso piano chi ha ricevuto dai nonni una casa in eredità e chi magari ne possiede venti.
Per questo la mobilitazione unitaria per cambiare il segno di queste scelte continuerà. La fase due annunciata da Monti dovrà mettere in agenda la correzione dei punti più ingiusti della manovra e guardare alla crescita, ai giovani ed al lavoro. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, l'articolo 18 deve considerarsi capitolo chiuso: si fa sempre più strada nel Paese l'idea che il tema non sia la flessibilità in uscita ma la riduzione drastica delle troppe forme contrattuali atipiche e una riforma degli ammortizzatori sociali per la continuità del reddito. Apriremo, inoltre, una vertenza fiscale che parta dall'introduzione di un'imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze per recuperare risorse da destinare non solo alla crescita ma anche ad un urgente riequilibrio: c'è un sovraccarico insopportabile di tassazione sul lavoro dipendente che deve essere urgentemente risolto.

il Riformista 24.12.11
La deriva del partito persionale
di Emanuele Macaluso


Ieri l’Unità ha pubblicato un’intervista a Nichi Vendola che sembra una pietra tombale sull’alleanza che aveva preso il nome dalla città di Vasto: Pd-Idv-Sel. Preliminarmente vorrei fare una osservazione che a mio avviso ha un senso molto politico: l’intervista è corredata da una grande foto di Niki circondato da manifesti con il simbolo del Sel e anche il nome di “Vendola”. Insomma come quelli del Pdl con Berlusconi, dell’Idv con Di Pietro e dell’Udc con Casini: il partito personale. Una deriva a cui non resiste nemmeno la sinistra. Ma veniamo al dunque. Il giudizio di Vendola sulla manovra somiglia a quello di Di Pietro: «Socialmente sbagliata, inutile per il contenimento del debito pubblico, spinge il paese dentro una voragine recessiva». Non ha votato contro perché Sel non ha parlamentari. Sappiamo bene che questa manovra non è quella che avrebbe fatto un governo di sinistra (che non c’è), e per essere varata occorre che sia votata (con grandi mal di pancia e diserzioni) anche dalla destra. Vendola invece chiede «una patrimoniale pesante» che nemmeno un governo di centrosinistra sarebbe in grado di varare. E con questa linea il segretario di Sel pensa che, se si fosse votato, il centrosinistra di Vasto avrebbe vinto le elezioni. Infatti, per il futuro, insiste nel dire che non si può fare a meno di Di Petro.
Scrivo questa nota perché ritengo che nel partito di Vendola ci sia un pezzo della sinistra che ha una storia in comune con quella che si ritrova nel Pd e fuori dai partiti. L’orientamento politico di questa forza ha quindi un rilievo e occorre discutere con rigore sul domani.
Vendola teme che il Pd, consideri «il governo conservatore di Monti, propedeutico per nuove alleanze». Cioè teme un’alleanza tra il Pd e il Centro, come sbocco della crisi politica che attraversa tutti gli schieramenti politici.
A questo punto vorrei fare io una domanda a Vendola: la collocazione del Centro di Casini, Fini e Rutelli, con la sinistra o con la destra è un tema che non interessa Sel?
E interessa saperlo perché le alleanze di domani sono condizionate dall’azione politica di oggi. La posizione nei confronti dell’emergenza che vive il paese, e quindi del governo chiamato a uscirne, è il terreno di questa verifica. E se questo è il terreno, il giudizio radicalmente negativo di Vendola pone al Pd un problema. Anche perché il segretario del Sel vede oggi «un centrosinistra genuflesso che si comporta come un chierichetto nei confronti dei poteri costituiti». Cosa fare? Io penso che il centrosinistra dovrebbe mantenere una sua autonomia e un suo punto di vista sulla situazione politica e sui contenuti stessi della manovra. Ma oggi occorre fare una scelta di fondo che attiene alle sorti stesse del paese. E proprio in nome di un autonomo giudizio, il centrosinistra deve contribuire decisamente e anche criticamente al successo del governo Monti.
La sua sconfitta sarebbe la vittoria della destra reazionaria, tra cui c’è la Lega. Ma non solo la Lega.

il Riformista 24.12.11
Se il partito di Bersani perde i deputati-operai
QUI PD. Dopo l’annuncio delle dimissioni della Codurelli («ho l’impressione di non riuscire a rappresentare le lavoratrici alla catena di montaggio») parla Boccuzzi, l’onorevole democrat ex dipendente della Thyssen Krupp
di Ettore Maria Colombo


«Soffro troppo a sostenere le politiche di Monti. Mi dimetto da deputata». Così ha detto, ieri, in un’intervista all’Unità rilasciata ad Andrea Carugati, Lucia Codurelli. Lecchese, 61 anni, ex operaia, già delegata di fabbrica per la Cgil, poi a lungo dirigente dei Ds, la Codurelli dice addio al Parlamento con una lettera inviata già da giorni al presidente della Camera: «Ho l’impressione di non contare niente, di non riuscire a rappresentare le operaie alla catena di montaggio, la parte del Paese sul quale più si accanisce la manovra varata dal governo Monti». Per diventare effettive le dimissioni andranno, in ogni caso, votate dall’Aula di Montecitorio, la quale, per norma e per prassi, le respinge, almeno la prima volta. Vedremo se la Codurelli ci ripenserà, ma certo è che, per quanto ne abbia parlato a lungo con il segretario del Pd, che l’ha invitata a recedere («Lucia, non sei mica solo tu a soffrire», gli avrebbe confidato il segretario, stando all’Unità, che è come dire: «Stiamo soffrendo pure noi») la deputata ex-operaia non appare intenzionata a recedere. «Non sono l’unica. Siamo in tanti, nel grup-
po del Pd, a essere in sofferenza», spiega la Codurelli. Tra di loro c’è, di sicuro, Antonio Boccuzzi. Classe 1973, torinese, ex operaio della Thyssen Krupp («è solo da pochi mesi che non lo sono più»), ex delegato Uil, carattere mite, ma codino da rasta, Boccuzzi ha visto la morte in fac-
cia, in quel rogo maledetto. Se la Codurelli si dimetterà davvero, resterà lui solo a potersi fregiare della qualifica di “ex operaio”, nel gruppo parlamentare del Pd.
Vorrebbe chiedere alla Codurelli di ripensaci?
Sì, ma prima voglio parlarle in privato. Avevo percepito il suo disagio, ma non credevo si sarebbe dimessa. Vede, abbiamo lavorato tanto, io e lei, in commissione Lavoro e anche tutti gli altri, come il mio amico torinese Stefano Esposito, per portare a casa dei risultati. E qualcosa abbiamo ottenuto. Io ed Esposito ci volevano astenere, per dare un segnale, almeno, di malessere, poi Bersani ci ha convinto. Non tutto è chiuso, c’è il decreto Milleproroghe dentro il quale vanno inseriti, assolutamente, i provvedimenti che non siamo riusciti a mettere dentro la manovra economica: norme a favore dei lavoratori più deboli, quelli più penalizzati. La battaglia, per me, è appena cominciata. E intendo portarla avanti, in Parlamento e fuori, con la Cgil e con tutti gli altri sindacati confederali. Che sono casa mia, a differenza di altri che stanno nel Pd.
Soddisfatto, allora?
Guardi, questa manovra manca di equità, e in modo pesante, questo è sotto gli occhi di tutti. C’è molto poco sulle pensioni d’oro, che poteva essere tassate molto di più del livello attuale, il 15%. Anche i capitali scudati potevano essere tassati di più. Non c’è la patrimoniale e molto altro ancora. E anche dire, come stanno dicendo Monti e Fornero, che poi ci sarà il secondo tempo non va bene.
Dunque?
Il Pdl ha posto veti grandi come una casa su questo e su altro. Non si poteva fare di più. Vede, nelle assemblee che faccio in giro per l’Italia o dalle mie parti, con l’eccezione di quelli davvero in difficoltà,
la gente normale è pronta a fare sacrifici, però chiede che li facciano anche gli altri, specie i più ricchi, non da soli. Bere la pillola amara va bene, è necessario, ma insomma, che la bevano tutti, almeno è
meno amara.
Parliamo di Pd, uno vede in tv Sergio Cofferati e Pietro Ichino e pensa: stanno in due partiti diversi?
Guardi, anch’io, quando vedo queste scene, vivo un senso di spaesamento e, anche, di confusione. Non
va bene. Non è che io neghi il principio democratico, ma se c’è una linea, votata a larga maggioranza, come quella stabilita dalla Conferenza nazionale sul Lavoro del Pd tenuta a Genova, tutti dovrebbero attenersi a quella. E alla voce del segretario. Sento, invece, troppe voci discordanti e che stonano, a partire dall’articolo 18. Licenziare, già oggi, è molto facile, glielo posso garantire io, e pensare di stravolgere lo Statuto dei Lavoratori è assurdo. Il Pd deve parlare con una voce sola.

La Stampa 24.12.11
Sette milioni per Radio Radicale

Anche stavolta Radio Radicale riesce ad acchiappare i finanziamenti che le sono necessari. Stavolta il «poche-proroghe» concede per il 2012 sette milioni di euro, presi dai fondi (certo non abbondanti) disponibili a sostegno dell’editoria. Scelta che solleva le proteste di Franco Siddi, segretario della Fnsi.

l’Unità 24.12.11
Con il Milleproroghe soldi a Radio radicale, tagli al Fondo editoria
di Roberto Monteforte


Bel regalo per Natale a Radio Radicale. Viene confermata la convenzione con lo Stato ed anche lo stanziamento di oltre sette milioni di euro. Lo indica la bozza del «Milleproroghe». Che però prevede che la copertura per la spesa sia garantita da una «riduzione dell’autorizzazione di spesa» degli stanziamenti previsti nella
legge del 25 febbraio del 1987 che rinnova la legge 416 sull’editoria.
Tradotto vuole dire che quei sette milioni di euro saranno sottratti al già brutalmente tagliato Fondo per l’editoria. Un vero paradosso, visto che sono molte le testate a rischio chiusura proprio per l’eseguità del Fondo. Lo denuncia con energia il segretario della Fnsi, Franco Siddi. «Il ripristino dei fondi a Radio Radicale affermanon sia a scapito degli obblighi verso la carta stampata, il cui fondo è stato ingiustamente impoverito mentre è indispensabile che sia al più presto ripristinato». «Se esiste un problema di recupero di Radio Radicale continua non può passare su una legislazione destinata al sostegno della carta stampata già oltremodo mortificata e con oggi molte testate a rischio moria e centinaia di posti di lavoro in bilico. Non si può applicare il principio vita tua, mors mea. Si trovino per Radio Radicale conclude vie giuste e non improprie».
Quanto la crisi sia pesante lo testimonia Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista. Proprio a causa dei tagli al «finanziamento diretto» l’edizione cartacea chiuderà i battenti dal prossimo 1 ̊ gennaio. La redazione ha avuto un incontro con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Carlo Malinconico che ha riconosciu-
to riferendosi a Liberazione come «siano da tutelare e valorizzare realtà editoriali di particolare rilievo». Oltre alla «sua profonda preoccupazione», Malinconico che ieri è stato ricevuto da Napolitano al Quirinale ha auspicato «una soluzione che consenta la continuità editoriale ed occupazionale». Ma in quali tempi? È quello che Siddi gli ha chiesto, invocando «un esito concreto e rapido» per quella testata e per le altre che rischiano la chiusura». L’altra richiesta al Governo è stata quelle di «far conoscere rapidamente l’ammontare reale delle risorse disponibili con l’integrazione delle quote del cosiddetto “Fondo Letta” al fine «di consentire alle imprese in difficoltà di poter fornire idonee rassicurazioni alle banche ed avere così accesso al credito».
Ora senza correzioni al Milleproroghe, la situazione sarà ancora più drammatica.

il Fatto 24.12.11
La Casta ingrassa sulla nostra pelle
Si allarga lo scandalo alla Regione Lazio Non solo pensioni e vitalizi ad assessori “esterni” e decaduti: anche ricchi incarichi a candidati Pdl trombati. Ma chi li ferma?
di Carlo Tecce


La manovra Polverini prevede 1,4 miliardi di tagli e aumenti di imposte, con il bollo auto che sale del 10 per cento e la benzina di 20 centesimi
POLVERINICRAZIA Oltre ai nuovi vitalizi, i posti d’oro nelle aziende esterne alla Regione

Il pacco firmato Regione La-zio è complicato. La manovra dei vitalizi per assessori esterni e consiglieri decaduti nasconde tagli e tasse per 1,4 miliardi di euro. Come incartare i sacrifici (per i cittadini) con i privilegi (per i politici). Eppure il governatore Re-nata Polverini mette su il viso del dispiacere, quel senso di pudore nel chiedere euro ai cittadini, sempre e comunque ai cittadini: “Era l'unica possibile”.
GIÀ, MICA poteva lasciare senza pensione la Giunta oppure i tre consiglieri del centrodestra transitati per sbaglio in Regione? Il regalo farà contento il sindaco Giovanni Di Giorgi che, nervosamente, deve scegliere la poltrona giusta: resta nel Consiglio laziale o si dedica al comune di Latina? Un dilemma e un sollievo: qualsiasi decisione prenda Di Giorgi, il vitalizio è garantito a 50 anni con una riduzione del 5 per cento, a 55 al 100 per cento. Nessun dubbio, però, sui rincari: aumentano le imposte (+0,33% Irpef), la benzina con un'accisa inedita (20 centesimi al litro), il bollo per l'automobile (+10%). Mentre calano i fondi per il sociale e le opere pubbliche (-100 milioni di euro). Com'era? “L'unica manovra possibile”. Peccato che il centrosinistra suggeriva al Governatore di vietare un mal costume tipico di una regione grossa, indebitata e spendacciona: un dirigente pubblico deve rispettare un tetto massimo di stipendio senza cumulare l'incarico in corso con il vitalizio regionale.
NON CONOSCIAMO la risposta perché l'ex sindacalista si è rifiutata di rispondere ai partiti di opposizione: rischiava di bombardare l'alleanza con il Pdl che si regge sui favori reciproci e il potere condiviso. Il mandato Polverini ha un difetto di nascita: la lista dei berlusconiani rimase fuori perché presentata in ritardo, e dunque i cacicchi locali, non eletti, andavano sistemati. Quelli che sommano lo stipendio pubblico con il vitalizio già maturato in banca o in tasca. Ecco i sei candidati trombati in partenza e ora, momentaneamente, occupati in aziende satelliti della Regione Lazio. C'è l'imprenditore Luigi Celori, 54 anni, a spasso con una rendita di tre legislature: è stato nominato presidente di Autostrade del Lazio, superati mesi di inattività politica. C'è Tommaso Luzzi, 61 anni, per 15 anni in Regione: si è accontentato di Astral, una società che pulisce e asfalta le tangenziali e i raccordi. C'è il socialista Donato Robilotta, 56 anni, commissario straordinario di Ipab Sant'Alessio, un centro per ciechi che gestiva un imponente patrimonio immobiliare. C'è Bruno Prestagiovanni, 54 anni, commissario straordinario di Ater Roma, un carrozzone che assegna le case pubbliche. C'è Massimiliano Maselli, 44 anni, presidente di Sviluppo Lazio, dove transitano bandi di gara e studi scientifici. C'è Erder Mazzocchi, 43 anni, commissario straordinario di Arsial, l'agenzia regionale per l'agricoltura. I magnifici sei incassano un degno e meritato stipendio pubblico, servono serenamente le istituzioni sapendo di incassare (in futuro o adesso) un sostanzioso vitalizio. I magnifici sei, soprattutto, assicurano l'esistenza politica di Re-nata Polverini.
AL TRAGUARDO di una serie di nomi e scrivanie, fra le proteste cestinate e negate, c'è un'ultima idea che i partiti di opposizione hanno presentato al governatore: perché confermare il rimborso chilometrico per i consiglieri? Vi può suonare stonato, ma i rappresentanti laziali, se abitano a 15 chilometri dal palazzo regionale, recuperano un quinto di un pieno di benzina. I 71 consiglieri laziali vengono pagati per il mandato in Regione (indennità), per essere presenti in aula (diaria), per raggiungere il palazzo (rimborso), per presiedere o partecipare in commissione (e sono venti). Però, va detto che la Polverini ci ha provato. Voleva fare una manovra con meno tasse ai cittadini e più tagli ai politici. Il Governatore ha deluso i cronisti che speravano in un ripensamento sui vitalizi: “Niente passo indietro. Da due giorni siamo in linea con le altre Regioni. Avevamo una discriminazione che colpiva solo i nostri assessori esterni, abbiamo messo le cose a posto”. E il Codacons che fa ricorso contro la manovra? “Che devo fare? ”, ha risposto la Polverini. Se sapesse cosa fare, sarebbe il governatore del Lazio che toglie ai ricchi e dà ai poveri, non viceversa. O forse, caspita, è proprio lei?

il Fatto 24.12.11
Dalle tessere dell’Ugl all’elicottero per la “sagra del peperoncino”


Lei, Renata Polverini, ha anche parlato di accanimento. Troppe cose e tutte insieme, specialmente a partire dalla sua candidatura alla presidenza del Lazio, nell’era post-Marrazzo. Si è parlato di presunto “tesseramento gonfiato all’Ugl”, il sindacato di destra che per anni l’ha vista protagonista. “colpevole”, in primis, la redazione di Report, poi alcuni articoli di Libero ed Europa. In sostanza, i numeri di iscritti venivano alterati in modo tale da avere un maggiore peso negoziale al tavolo con gli altri sindacati e negli organismi ed enti previdenziali. La Polverini, alla fine, si è giustificata e ha spiegato che l’Ugl non si sarebbe comportata in modo diverso dagli altri sindacati. Quindi la vicenda legata a un appartamento: abitava in una casa dell’Ater (Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica) sull’Aventino, zona molto chic di Roma, con affitto a prezzi popolari. La giustificazione? “Da tre generazioni ci abita la famiglia di mio marito”. Peccato che le case degli enti non si possono ereditare: l’assegnazione varia al variare del reddito. E ancora il 22 luglio del 2011, quando il Fatto Quotidiano scopre che il presidente del Lazio raggiunge Rieti (un’ora d’auto da Roma) con un elicottero messo a disposizione dalla Protezione civile. L’evento imperdibile era la “Sagra del peperoncino”. Al cronista che le chiede spiegazioni specifiche non risponde. Poi sibila: “Non ho nulla da spiegare. Pago tutte le spese che faccio, non scoprirai nemmeno una cena a mio carico. L’importante è che non vado con i soldi pubblici, vai tranquillo caro”. L’affettuoso “caro” del presidente regionale è anche accompagnato da spintoni e insulti di Rositani: “Vada via, cretino, altrimenti la prendo a schiaffi. Non ha capito? Le do uno schiaffo”. Ma sulla vicenda Renata Polverini ha poi proseguito assicurando che l’elicottero: “Lo userò ancora se avrò bisogno di conciliare, da presidente, la mia presenza in più contesti”. Ora si riapre un nuovo capitolo della Polverineide, lo scandalo dei vitalizi.

il Fatto 24.12.11
Insulti anche a Riccardi
Nuovo attacco on line contro gli ebrei romani
di Federico Mello


É il caso di cominciare a riflettere seriamente su ciò che sta avvenendo su Internet in questi giorni. Dopo il caso del forum nazista Stormfront, un altri gravi atti di odio antisemita è stato denunciato ieri. “Ecco i nazisti-ebrei, membri della cupola mafiosa ebraica”. Questo il titolo che sovrasta un poster di propaganda apparso sul sito antisemita Holywar nel quale sono riportati nomi, cognomi e fotografie di collaboratori del sito della capitale Romaebraica.it . La denuncia è arrivata da Giacomo Kahn, direttore del mensile “Shalom” sul sito stesso della Comunità ebraica romana. Nel poster – ripubblicato proprio da Romaebraica.it   –, in mezzo a numerosi deliri che fanno il verso a una sorta di integralismo cattolico di stampo razzista e violento, si invitano i cattolici a un maggior impegno “contro l’intolleranza ebraica”. “Questi schiavi di Satana – prosegue il poster che mette in effigie una Stella di Davide con al centro una svastica – vogliono la distruzione della Chiesa cattolica”. Segue poi una lunga lista di personaggi – ebrei e non – indicati come appartenenti alla “cupola”.
Kahn denuncia una vera e propria campagna antiebraica: “Ogni volta che si affrontano temi che riguardano la Comunità ebraica – le sue parole –, ogni volta che denunciamo derive antisemite della società italiana, ogni volta che denunciamo tentativi negazionisti e interpretazioni riduttive della storia della Shoà, i nostri nemici vengono allo scoperto e si scatenano, organizzando campagne antiebraiche che diventano vere e proprie istigazioni alla caccia all’uomo”. Non solo: “Da tempo l’antiebraismo, specie quello che si esprime attraverso la rete, ha assunto toni sempre più aggressivi nei confronti degli ebrei, ne abbiamo data ampia testimonianza sul sito della Comunità Ebraica, ricordando le recenti liste nere e le minacce di Militia”. Anche questa volta il sito pubblica foto degli esponenti della comunità ebraica e redattori del sito come se fossero bersagli. Sono in atto, conclude Kahn, “le procedure per la denuncia, presso la Polizia postale, di questo attacco antisemita che attraverso la diffamazione e la menzogna vorrebbe spegnere la voce della comunità ebraica italiana”.
Sempre ieri, inoltre, è stato utilizzato un articolo de Il Giornale per attaccare il ministro per l’Integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi: lo ha usato un partecipante al forum sulle pagine italiane del sito neonazista Stormfront.
L’articolo è di Paolo Granzotto ed è stato pubblicato sul quotidiano milanese il 18 dicembre scorso. Il ministro viene criticato per aver avanzato, dopo i gravi fatti di Torino, l’idea di dare case ai Rom e di mandare a scuola i loro figli. Non solo. Il forum pubblica un altro articolo, questa volta del giornalista Maurizio Blondet, che definisce Riccardi “cripto-giudeo” e “cattolico noachide” (il noachismo è un sistema morale nella tradizione ebraica) e mostra la foto del ministro a Torino, in visita presso la comunità ebraica.
Questa nuova ondata di antisemitismo digitale, suscita la reazione del Pd: “Preoccupa l’aumento in questi giorni di aggressioni antiebraiche sulle pagine dei più conosciuti siti antinazisti e antisemitì” dicono i responsabili sicurezza e giustizia del Pd, Emanuele Fiano e Andrea Orlando. “Ci auguriamo che la magistratura, come nel caso del sito Stormfront voglia procedere rapidamente per istigazione all’odio razziale e diffusione di idee diffamatorie. Rimane tuttavia ancora la sensazione che in un periodo di grave crisi sociale, lo stereotipo antisemita riemerge sempre con rinnovata forza come nel caso del sito Holywar con i volti e i nomi di appartenenti alla comunità ebraica di Roma a cui va la nostra solidarietà”. I democratici si stringono anche intorno al ministro Riccardi “oggetto anche lui di ingiurie e offese che certamente non fermeranno il suo impegno per l’integrazione e la tolleranza”.
Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, condanna “ogni forma di antisemitismo e di incitamento alla violenza razziale”, ed “esprime solidarietà alla comunità ebraica di Roma e a tutti coloro che il sito antisemita Holywar cita nel suo delirio diffamante”.

il Fatto 24.12.11
Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg
Tv: l’Italia non è libera
di Marina Castellaneta


Rafforzare il pluralismo nel segno della libertà di stampa. Lo chiede il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg che nello studio del 6 dicembre sul pluralismo nei media e i diritti umani (CommDH (2011) 43) disegna la mappa della situazione dei media tradizionali in Europa e dei rischi per la democrazia provocati da situazioni di monopolio, tutt’altro che scomparsi malgrado l’avvento di nuovi strumenti di comunicazione.
Un posto di primo piano tra gli Stati che subiscono effetti negativi proprio per la presenza di situazioni monopolistiche lo conquistano le nuove democrazie sorte dalle ceneri dell’ex Unione sovietica e l’Italia. L’ex Rappresentante dell’OSCE sulla libertà dei media Miklos Haraszti, che ha curato lo studio, mette l’accento sull’anomalia italiana che mostra come il monopolio possa “provocare rischi gravi anche nelle più antiche democrazie”. La libertà di stampa e di espressione godono buona salute in Italia, ma – si precisa nello studio – questo non vale per il settore televisivo dominato da un duopolio Rai e Mediaset che, tra l’altro, si trova in una situazione di monopolio tra le televisioni commerciali e nel mercato pubblicitario. Tutto aggravato dal fatto che l’ex premier Silvio Berlusconi non sono solo è comproprietario di Media-set, ma è stato anche capo del governo con forti controlli sul sistema televisivo pubblico. In barba agli standard europei che vietano a politici la proprietà e il controllo di emittenti televisive per evitare interferenze politiche o di governo sulla libertà di stampa. “La Germania e il Regno Unito – scrive Haraszti – impongono restrizioni sulla diretta proprietà o controllo delle emittenti da parte di attori politici; i Paesi Ue richiedono indipendenza dai partiti e dai politici. L’Italia, a dispetto della legge Frattini, non ha fatto niente”.
A nulla è servita le leggi Gasparri e Frattini del 2004. Scarsi anche i risultati dal passaggio dall’analogico al digitale che, malgrado la novità, consentono ai due soggetti che controllano la televisione (Rai e Mediaset) di usare la propria forza economica anche nel mercato digitale.
In tutta Europa, poi, spirano venti di monopolio. Troppi i segnali che mostrano una tendenza a forme di concentrazione tra i media tradizionali. Con difficoltà sia per le televisioni indipendenti che non riescono a ottenere licenze e sia per i giornali nella distribuzione delle copie. Non mancano mezzi anche più sottili con grandi gruppi che comprano pubblicità unicamente nei media fedeli. In Europa, poi, c’è ancora una concentrazione dei mass media nelle mani di pochi gruppi editoriali con maggiori rischi di interferenze con la linea editoriale di stampa e televisione.
NON BASTA QUINDI l’avvento del digitale per raggiungere, almeno sul fronte televisivo, maggiore pluralismo. Certo, è risolto il problema della scarsità delle frequenze, ma non automaticamente quello provocato da situazioni di monopolio. La Commissione europea dovrebbe intervenire con maggiore forza. L’impero editoriale di Murdoch è stato oggetto di poca attenzione da parte di Bruxelles sul fronte del rispetto delle regole di concorrenza, mentre la Commissione ha riservato maggiore attenzione a Spagna e Francia che stanno provando a cambiare il sistema televisivo pubblico “decommercializzando” e provando ad attingere risorse in altro modo. Un intervento visto con favore nello studio perché mettere a disposizione della collettività un canale libero da annunci commerciali incrementa la qualità della televisione e permette la diffusione di programmi funzionali alla diversità culturale. È vero che la concorrenza è essenziale, ma i media non possono essere considerati semplicemente come un altro mercato. Non vanno esclusi, quindi, sgravi fiscali e aiuti a patto che la loro concessione sia indipendente da ogni valutazione sui contenuti. Un trattamento particolare deve poi essere riservato al servizio pubblico considerato dal Consiglio d’Europa, in molti documenti, come uno strumento per la costruzione della democrazia, per la tutela dei diritti umani e per la salvaguardia delle diversità culturali (si veda lo studio specifico sul servizio pubblico, CommDH (2011) 41).
Nessun dubbio, poi, che i nuovi media grazie a Internet cambiano gli scenari e consentono maggiore pluralismo, ma c’è un rischio perché lo sviluppo delle reti ha spinto alcuni governi a intervenire così come era accaduto con l’avvento della televisione, ossia con un eccessivo controllo statale.

l’Unità 24.12.11
Città satelliti fantasma
La bolla immobiliare spaventa il colosso Cina
Grattacieli semivuoti, scuole senza bambini, vigili urbani lungo strade deserte L’edilizia sembrava un settore trainante dell’economia e si costruisce ancora ma Pechino ora annuncia una frenata e impone tasse più alte sulla casa
di Gabriel Bertinetto


Gengis Khan, imperatore a corto di sudditi. Nella grande piazza di Kangbashi la sua statua troneggia in solitudine. Una città progettata e costruita per ospitare almeno un milione di persone mostra tutto il suo spettrale splendore di palazzi disabitati, cinema senza spettatori, scuole a frequenza zero, negozi che non si sono mai riempiti né di merci né di compratori, larghe arterie stradali dove scorre lentissimo solo il tempo e il traffico è assente. Un’immensa e ordinata colata di cemento e asfalto spicca nel cuore desertico della Mongolia interna cinese. Attorno al luogo in cui sino a sei anni fa non c’era che un minuscolo villaggio, si estende su una superficie di 35 chilometri quadri il nuovo, e assai ipotetico, capoluogo della prefettura di Ordos.
Fenomenale investimento edilizio basato sul pronostico di eventi che non si sono materializzati. Grazie al sottosuolo zeppo di carbone e gas naturale (rispettivamente un sesto e un terzo delle risorse nazionali), il reddito medio degli abitanti del luogo è uno dei più alti di tutta la Cina. C’erano le premesse perché i nuovi ricchi locali investissero in quello che si prospettava come un grosso affare. Ed effettivamente quasi tutti gli appartamenti sono stati comprati subito, sulla carta. Acquisti speculativi, effettuati nella previsione di rivendere a breve scadenza o affittare a caro prezzo. Ma in quelle case ad abitare non ci vuole andare nessuno. A tutt’oggi a Kangbashi vivono poco più di 20mila persone, sperdute, pressoché invisibili.
Follie del deserto mongolo? Spostiamoci duemila chilometri a sudest, alle porte di Shanghai, capitale del miracolo economico cinese.
Sembra Kangbashi, ma si chiama Lingang.
Città satellite sorta in espansione circolare attorno a un rotondo lago artificiale largo tre chilometri. In sei anni a partire dal 2005 sono stati spesi complessivamente oltre 16 miliardi di euro. Quaranta chilometri di strade. Ventiquattro ponti. Canali e giardini. Condomini, uffici, e centri commerciali. C’è davvero tutto quello che serve a una articolata e funzionante convivenza urbana. Mancano solo i fruitori. Chi l’ha visitata di recente, ha notato netturbini e vigili urbani al lavoro per ripulire marciapiedi che nessuno sporca e garantire l’ordinata circolazione di vetture che non passano mai. Degli 800mila abitanti previsti entro il 2020, a Lingang per ora non si vede l’ombra.
Kangbashi, Lingang. Non sono casi isolati. Il territorio della Repubblica popolare è costellato di città o quartieri tirati su in gran fretta nell’entusiastica illusione di uno sviluppo illimitato. Le banche hanno imprestato senza freni a imprese e individui accecati dal miraggio di un arricchimento facile e quasi inevitabile. I prezzi sono saliti vertiginosamente. Parte di coloro che si erano indebitati per inseguire il miraggio edilizio, non riescono più a pagare le rate. Parte di coloro che hanno investito nel mattone, si ritrovano proprietari di un bene di cui non possono disporre perché scarseggiano ormai gli acquirenti. Tanto che i prezzi stanno ora scendendo altrettanto precipitosamente di quanto erano cresciuti.
In altre parole in Cina si sta passando dal boom alla bolla. All’orizzonte del miracolo economico cinese si profila l’incubo vissuto negli ultimi anni da centinaia di migliaia di persone in Occidente, tra case requisite a debitori insolventi, imprese costrette a chiudere, banche sull’orlo della bancarotta.
Pechino annusa il pericolo. E vara misure per contenere la spirale inflazionistica, ad esempio imponendo limiti all’erogazione del credito, mentre viene allo scoperto la «fragilità» del sistema bancario cinese.
Secondo il Fondo monetario internazionale, le banche locali sono abbastanza robuste da sostenere crisi isolate, ma verrebbero travolte dal cumulo fra eccesso di emissioni creditizie ed esplosione della bolla immobiliare. «Sembrano costruite sulla sabbia», commenta Jim Chanos, presidente del fondo di investimento Kynikos, che ha deciso di vendere le proprie quote nella Banca dell’Agricoltura, una delle più grandi in Cina, proprio mentre lo Stato, attraverso il Fondo governativo di sicurezza ha iniziato a comprare azioni delle quattro maggiori banche nazionali, per proteggerle dal rischio di un ulteriore indebolimento.
Recentemente il vice premier Li Keqiang ha dichiarato che «la Cina manterrà le restrizioni vigenti nel mercato». Vale a dire sono confermate le misure varate un anno fa per correggere gli squilibri nel settore edilizio. Fra i provvedimenti per impedire lo scoppio della bolla, tasse più alte sulla casa, e in alcune città il divieto di possederne più di una. In pratica le autorità stanno tentando di rimediare ai guai provocati da loro stesse con l’immissione selvaggia di capitali agli inizi del decennio.
Insomma è tempo di rivedere alcuni luoghi comuni diffusi da qualche tempo in Occidente sulla Cina. Ciambella di salvataggio per i Paesi del Vecchio e Nuovo continente che affogano nei debiti. Inesauribile fucina di prodotti destinati ai mercati esteri. Immenso bacino d’acquisto per le merci in arrivo dall’Occidente. Questo era diventato a poco a poco la Cina nell’immaginario collettivo grazie alla straordinaria crescita degli ultimi anni, lo sviluppo edilizio, la modernizzazione tecnologica. Una foto troppo nitida, cui necessita più di un ritocco per assomigliare di più al vero.

La Stampa 24.12.11
Wall Street manda gli 007 a studiare la crisi cinese
I grandi investitori non hanno dubbi: il Dragone è a rischio
di Francesco Semprini


ROMA Natale Anche a Wall Street gli addobbi natalizi la fanno da padroni Quest’anno la Borsa Usa ha sofferto con tutte le piazze mondiali Ora punta il dito sul rischio cinese: e prepara le sue contromisure
Sono al lavoro da mesi, impegnati a raccogliere ogni indizio utile, a visionare ogni giuntura della mastodontica ossatura del Dragone. Sono gli 007 arruolati dai fondi speculativi, «task force» inviate sul territorio cinese con l’obiettivo di raccogliere dati, filtrarli, ed elaborarli per consentire la formulazione di strategie a prova di crisi.
Sempre più spesso basate su scommesse al ribasso. Perché lo tsunami finanziario dopo aver travolto Stati Uniti ed Europa, farà rotta verso l’Estremo oriente. Ne sono convinti molti hedge fund che da mesi inviano i loro 007 a Shenzen, Guangzhou o Pechino per capire di che magnitudo possa essere il rischio cinese. Emerging Sovereign Group, il fondo controllato per il 50% dal private equity Carlyle, ha spiegato al Financial Times di aver parlato chiaro ai propri clienti: «Pensiamo che il prossimo atto della crisi andrà in scena in Oriente», nonostante le misure aggressive varate dal governo cinese per far fronte alla recessione. C’è da temere, commentano gli analisti, non solo perché Esg è un’autorità in materia (ha fiutato prima di altri la crisi in casa euro). Ma anche per la volatilità degli indicatori: l’indice Shanghai Composite da aprile ha registrato una contrazione del 27%, il Pil cinese ha rallentato la corsa dal 10,4% del 2010 al 9,2% del 2011, e le previsioni per il 2012 lo danno a +8,3%.
Si è contratto il rapporto tra consumi privati e crescita, mentre le fonti di finanziamento si sono ridotte, per non parlare delle perdite di novembre registrate dal manifatturiero. «Questo può dare un’idea delle dimensioni della debolezza», dicono gli strateghi di Brevan Howard, hedge fund con 32 miliardi di asset gestiti, secondo cui il problema è costituito anche dai dati governativi che offrono solo una visione parziale. Ecco così che per far fronte ai lati oscuri della comunicazione pechinese spiega Ft alcuni fondi come Glg Partners hanno arruolato squadre di 007 da inviare sul territorio.
A pensar male del resto non si sbaglia del tutto: c’è chi a scommettere contro la Cina ci ha guadagnato e come, specie nell’ultimo anno. Ariose China Growth Fund, ad esempio, ha registrato un rimbalzo del 35% nei ricavi, mentre Hugh Hendry, il guru scozzese di Eclectica Asset Management che con il suo «China Short» ha messo a segno un +52%. Come? Puntando al ribasso su titoli del settore automobilistico ma soprattutto immobiliare. Il «real estate» sembra essere il tallone d’Achille della seconda economia mondiale, anche perché rispetto agli Usa, dove sono stati privilegiati i consumi, le risorse finanziarie liberate dal governo cinese sono confluite per la gran parte in infrastrutture e mattone, generando effetti inflattivi. Da qualche tempo però si sta registrando un calo nel valore degli immobili, un’ombra sull’orizzonte economico nazionale e non solo. Tanto da permettere ad Hendry di conquistare l’appellativo di nuova Cassandra per il video girato nel 2009 in un distretto finanziario di Guangzhou desolato, tra grattacieli quasi vuoti e palazzi semideserti. La sua clip è cliccatissima su YouTube. Nel 2011 degli spazi adibiti ad uso ufficio risultano vuoti il 14% a Shanghai e il 9% a Pechino, mentre «le vendite immobiliari a settembre e ottobre, i mesi di maggior fermento, sono calate dal 40 al 60% su base annuale», avverte James Chanos, fondatore del fondo Kynikos Associates. Il gestore di origini elleniche è convinto che la bomba cinese sarà mille volte più potente di quella di Dubai e per questo ammonisce le agenzie di rating per i «giudizi rosei» elargiti al Dragone: «Attenti l’hard landing della Cina è già cominciato».
E questa volta Pechino sembra poter far poco rispetto al 2008, spiega Gordon Chang, autore de «Il prossimo collasso della Cina». Il paese sta andando incontro a una transizione politica come ne avvengono una ogni dieci anni, «destinata a proseguire sino al 2014 quando la nuova leadership si sarà stabilmente insediata». Questo secondo Chang crea una semiparalisi ai vertici di Pechino per la quale i «tecnocrati possono adottare solo modeste misure destinate a rivelarsi inadeguate».

La Stampa 24.12.11
Continua la repressione della “rivoluzione dei gelsomini”
Cina, Chen Wei condannato a 9 anni per quattro articoli pubblicati sul Web
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG Giro di vite
Protesta in Cina Sono sempre più limitate le possibilità di espressione dei dissidenti anche su Internet

Finisce con una sentenza durissima il tentativo di portare in Cina una ventata di gelsomini: l’attivista per i diritti umani Chen Wei, 42 anni, detenuto da 10 mesi, è stato condannato ieri a 9 anni di prigione per aver scritto quattro articoli su Internet, inneggiando alla nascita della società civile in Cina, nello scorso febbraio, quando alcuni dissidenti cinesi avevano auspicato delle proteste che si ispirassero alle rivolte mediorientali.
Gli articoli, alcuni dei quali ospitati da siti esteri quali Human Rights in China, un’organizzazione di dissidenti in esilio, chiedevano il diritto alla libertà di espressione, e sono costati a Chen la condanna per «incitamento alla sovversione del potere di Stato». Uno dei più letti si intitola semplicemente «Le malattie del sistema, e la democrazia costituzionale come medicina»: ma evidentemente già questo è stato troppo per le autorità cinesi.
Il processo si è tenuto nella città di Suining, nel Sichuan, ed è durato meno di due ore. Secondo quanto dichiarato dall’avvocato di Chen, Zhen Jianwei, l’attivista non ha nemmeno potuto rilasciare una dichiarazione, ed ha potuto consultarsi con il suo legale appena due volte da febbraio. La pena è di gran lunga la più severa comminata alle più di 130 persone arrestate dall’inizio dell’anno dopo il tentativo di «rivolta dei gelsomini», ed è paragonabile solo alle pene durissime subite dal Nobel per la Pace Liu Xiaobo, condannato a Natale del 2009 a 11 anni, e da Liu Xianbin, condannato a 10 anni per aver scritto articoli pro-democrazia.
In tutti e tre i casi, si tratta di attivisti che hanno avuto un ruolo importante nelle proteste di Tiananmen del 1989, e che hanno già scontato pene detentive per la loro partecipazione a quel movimento. Chen Wei torna in prigione per la terza volta, sempre per reati d’opinione: dopo due anni di carcere per il suo ruolo a Tiananmen, infatti, Chen venne nuovamente condannato nel 1992 per aver cercato di organizzare una commemorazione pubblica del massacro di Pechino che mise fine alle proteste del 1989, e trascorse cinque anni dietro le sbarre. Inoltre, tutti e tre gli attivisti sono fra le centinaia di firmatari della Carta 08, un testo prodemocrazia ispiratosi alla Carta 07 cecoslovacca, in parte scritto da Liu Xiaobo, che chiedeva alle autorità cinesi vaste riforme politiche.
Chen, ha fatto sapere l’avvocato, avrebbe deciso di non richiedere un processo d’appello, ma ha ribadito la sua innocenza, e dichiarato che «la democrazia prevarrà». Oltre ai nove anni di prigione, Chen dovrà anche scontare due anni aggiuntivi di interdizione dai pubblici uffici.
Immediatamente, numerosi gruppi per i diritti umani, da Amnesty International e Pen International all’organizzazione cinese in esilio Chinese Human Rights Defenders hanno condannato la sentenza, chiedendo l’immediata liberazione di Chen.
La Primavera dei Gelsomini cinese, prima ancora di essere riuscita a sbocciare, si conclude con un pesante inverno. "Il processo è durato due ore. Il dissidente era stato già in prigione per Tiananmen"

l’Unità 24.12.11
Dura condanna per il dissidente Chen leader di Tienanmen


Chen Wei, attivista dei diritti umani in Cina ed ex leader delle proteste di piazza Tienanmen nel 1989 e firmatario di Charta 08, la petizione che chiedeva riforme al regime, è stato condannato a 9 anni di carcere per «sovversione». Chen era stato arrestato lo scorso febbraio insieme ad altri dopo aver cercato di organizzare manifestazioni contro il regime
sull’onda delle rivolte arabe. La corte di Suining nella provincia di Sichuan ha condannato il 42enne dissidente dopo un processo durato tre ore nel quale gli sono stati contestati alcuni scritti critici nei confronti del partito comunista cinese. La condanna «per incitamento alla sovversione del potere dello stato» è stata una delle più dure comminate agli attivisti arrestati nell’ultimo anno. Chen ha ribadito in aula la sua innocenza aggiungendo: «La democrazia alla fine prevarrà e i dittatori cadranno». I suoi legali hanno riferito che non presenterà appello.

il Riformista 24.12.11
E la Cina (in Usa) scopre il fascino della religione
I giovani mandati a studiare nelle scuole private della “bible belt” si convertono sempre più spesso al cristianesimo. E il risveglio religioso spaventa anche il Partito, che si arrocca in difesa dell’ateismo
di Andrea Pira


Attraversano l’oceano, studiano e si convertono. I giovani cinesi scoprono la religione seduti tra i banchi delle scuole private confessionali della Bible belt americana, nel sudovest degli Stati Uniti. Se il proselitismo è vietato oltre la grande Muraglia, ha rivelato un’inchiesta di Bloomberg Businessweek, sempre più scuole protestanti, e in misura minore cattolica, svolgono opera missionaria in cattedra.
«In Cina non sarei potuta diventare cristiana» ha raccontato al settimanale Wu Haiying, 21 anni, ex studentessa alla Ben Lippen High School in South Carolina, dove arrivò su consiglio di un suo insegnante di inglese in Cina, un cristiano rinato. «Affinché una persona decida di convertirsi occorre tempo. Il forte spirito religioso che pervade la Ben Lippen ti fa quasi sentireindoverediavvicinartial cristianesimo».
Dei 108 studenti stranieri dell’istituto, 80 sono cinesi. Una «larga minoranza» si avvicina alla religione, ha spiegato il direttore del programma di inserimento, Emery Nickerson, convinto che il governo di Pechino non sarebbe contento quanto lui delle conversioni. Superato lo smarrimento iniziale, i ragazzi, catapultati senza preparazione in un ambiente di ferventi cristiani, fanno una scelta gradita ai dirigenti scolastici ma che lascia senza parole i genitori.
Gli insegnanti, i compagni di scuola, le famiglie che li ospitano, sono coinvolti nell’opera di proselitismo. «Persone che tengono talmente agli studenti cinesi tanto da volere che conoscano Gesù Cristo come lo conosciamo noi», ha sottolineato un ex direttore della scuola. Per i genitori cinesi, spiegano i consulenti, gli istituti confessionali garantiscano solidi valori morali, una preparazione adeguata e rette più economiche.
Gli Usa sono inoltre considerati una nazione cristiana, dunque questo tipo di scuole sono percepite come parte della cultura statunitense. Oltre ai corsi d’inglese, indispensabili per molti ragazzi che spesso mentono sulla loro reale conoscenza della lingua, si affiancano letture della Bibbia e partecipazione ai culti.
«Pechino è confusa ha detto al settimanale Daniel Bays, esperto di cristianità in Cina Il governo non può impedire ai genitori di mandare i figli a studiare all’estero. Teme il loro rientro in patria, ma non può farci molto». I cristiani in Cina oscillano tra gli 80 milioni e 125 milioni. Di questi, 12 milioni sono cattolici, divisi tra i 5 milioni di affiliati all’Associazione patriottica legata al Partito comunista e i fedeli delle chiesa sotterranea allineati al papa. Sebbene dal 1949 la Repubblica popolare sia uno Stato ufficialmente ateo, nel Paese convivono diverse religioni, dal buddhismo al taoismo, dal cristianesimo all’islam, sia nella sua versione uigura, sia tra i cinesi Hui, l’unica minoranza a distinguersi esclusivamente su base religiosa dal resto della popolazione.
Il risveglio religioso sembra non aver risparmiato neppure il Partito. Ne è una prova l’intervento del vice presidente del dipartimento per il Fronte unito, Zhu Weiquan, sulle pagine di Cercare la verità, rivista teorica del Comitato centrale del Pcc.
L’alto funzionario, incaricato di gestire il fascicolo Tibet, ha messo in guardia i suoi compagni dal diffondersi di pratiche religiose tra i membri del Partito. Gli oltre 80 milioni di iscritti devono essere atei, ha detto Zhu. «All’internodelPartitoc’èchi spinge per la revoca del divieto a professare una qualche fede. Sostengono che possa essere di aiuto ai quadri e alcuni, addirittura, che il divieto sia anticostituzionale ha aggiunto Ma la nostra politica verso la religione non è cambiata di una virgola».
Frasi pronunciate in chiusura di un anno che ha visto Pechino aprire uno scontro diplomatico con il Vaticano per le ordinazioni episcopali senza l’assenso papale con conseguente scomunica dei vescovi coinvolti; l’assedio al monastero buddhista di Kirti e le autoimmolazioni dei monaci in segno di protesta, e un’attenzione particolare al taoismo come tassello della strategia di soft power cinese.

Corriere della Sera 24.12.11
Anche la Paris Hilton russa scende in piazza contro Putin
Batosta alle urne e molti sospetti
Oggi nuova manifestazione con politici, blogger e star Il popolo scende in strada


MOSCA — Saranno in tanti e tra loro non mancheranno politici di lungo corso, intellettuali famosi, scrittori e vippume vario. Compresa Ksenia Sobchak, nota come Paris Hilton russa, che appena un anno fa si presentava a un'intervista col presidente georgiano Saakashvili (dopo la guerra del 2008) indossando una maglietta col ritratto di Putin, «l'amato premier».
La grande manifestazione di oggi degli indignati russi ha messo in fibrillazione il Paese. Quarantacinquemila persone si sono già impegnate a partecipare sulla pagina di Facebook. Registi, attori e altri personaggi di spettacolo hanno realizzato filmati in cui compaiono con un nastro bianco (come quelli della precedente dimostrazione che Vladimir Putin aveva scambiato per profilattici) con su il proprio nome e l'invito a scendere in piazza. La blogosfera è in fermento e ogni metodo appare buono per convincere la gente a non starsene a casa. Compreso quello escogitato da un sito che esorta le ragazze a non farsi scappare l'occasione di incontrare migliaia di maschi giovani, benestanti e intelligenti. Si, perché secondo tutte le rilevazioni, coloro che protestano sono soprattutto professionisti e intellettuali che vivono nelle grandi città, in particolare la capitale e San Pietroburgo. I membri di quelle che lo stratega del Cremlino Vladislav Surkov aveva bollato come «comunità urbane annoiate». Ma delle quali oggi Putin e il presidente Dmitrij Medvedev hanno deciso di tenere conto, per cercare di evitare danni peggiori.
E l'annuncio di una serie di misure per allentare la «democrazia guidata» è stato accolto con favore dal Consiglio d'Europa: «passi importanti per rafforzare la democrazia in Russia». Un giudizio che certamente ha fatto molto piacere al Cremlino, dove si sta cercando in tutti i modi di riportare la protesta sotto controllo, incanalandola verso lidi diversi da quelli dove sono approdate tutte le varie rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina, eccetera).
Così lo stesso Surkov, del quale peraltro Putin si starebbe per liberare, ha affermato in un'intervista che «il sistema è già cambiato». Le istanze della protesta, sarebbe il messaggio, sono già state accolte dal potere. Anche il capo della chiesa Kirill, che nei giorni scorsi si era lasciato andare a dichiarazioni che parevano incoraggiare i manifestanti, ieri ha espresso grande cautela: l'informazione che proviene dai network sociali rende i russi «particolarmente vulnerabili di fronte a manipolazioni». Il popolo farebbe bene a non farsi corrompere da questi siti. Il timore, ovviamente, è che agenti stranieri stiano operando nell'ombra per organizzare una rivoluzione, come ha più volte detto lo stesso Putin.
Intanto i manifestanti vanno avanti. Dopo il rifiuto di due strade vicino al Cremlino, hanno ottenuto dalle autorità la via intitolata ad Andrej Sakharov. Ci saranno praticamente tutte le opposizioni democratiche. Per non scontentare nessuno, gli oratori saranno 19, compresi famosi scrittori come B. Akunin e Dmitrij Bykov. Interverrà anche il blogger Aleksej Navalny, che ha scontato 15 giorni di carcere per la precedente dimostrazione.
Probabilmente salirà sul palco anche Mikhail Gorbaciov, che all'inizio aveva appoggiato in pieno Putin. «Mi sentivo veramente legato a lui, ma ora?» si è chiesto l'ex presidente sovietico. Le cose dette dal premier dopo le precedenti proteste (i profilattici e il resto) lo hanno veramente colpito: «Sono dispiaciuto. E provo veramente vergogna».
Come la Sobchak, anche altri personaggi famosi hanno deciso di cambiare fronte. La piazza sta diventando un luogo cool dove essere. E poi sono già migliaia gli utenti che hanno visto il filmato che si richiama al sito di relazioni sociali «teamo» (http://www.newsru.com/russia/23dec2011/kanun.html). Il messaggio è esplicito. All'ultima manifestazione c'erano tra 25 e 60 mila persone, per il 70% maschi. Il 65% aveva meno di 35 anni e l'80% disponeva di un reddito superiore alla media. Il 50% non era sposato. «Tiriamo le somme: migliaia di uomini perfetti e liberi; andiamo in piazza!».
Fabrizio Dragosei

Corriere della Sera 24.12.11
«Brogli in serie, a Mosca una democrazia da preistoria»
di Virginia Piccolillo


ROMA — Non c'è solo la piazza a chiedere conto a Vladimir Putin dei brogli. Il bureau dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha preso una decisione senza precedenti in Russia: inviare per la terza volta gli osservatori. Andrea Rigoni, deputato italiano che farà parte della missione di post-monitoraggio, spiega perché: «Ci sono evidenze di irregolarità, per giunta "poco professionali"».
Poco professionali?
«Già, non sono avvenuti come al solito nei paesini, ma persino nella capitale. Segno del grande nervosismo che ha preso il governo di fronte alla protesta. Per la prima volta Putin ha sentito un brivido: qualcosa potrebbe cambiare».
Quali evidenze ci sono del voto truccato?
«Ci sono video girati con i telefonini di cui blog come Golos sono pieni. Ci sono testimonianze: anche di fronte a uno di noi c'è chi ha inserito più di una scheda nell'urna».
E lui cosa ha fatto?
«Nulla. Il problema è che noi possiamo solo osservare».
Quali sono le tecniche di broglio?
«Oltre allo stuffing vote con pacchi di schede precompilate inserite nell'urna, c'è l'home vote, basta telefonare e dire che si è malati e il seggio viene a casa tua. E il bussing vote: blocchi di persone trasferite in pullman da un seggio a un altro per votare più volte».
E come viene consentito?
«Esiste il certificato di assenza dal proprio luogo di residenza, per chi lavora in un'altra città, che consente di votare altrove. Al seggio non c'è possibilità di controllare se lo ha già fatto e lo si lascia votare. Sono state verificate firme assimilabili alla stessa persona. Interi uffici hanno fatto il tour del voto».
Ma chi li portava a votare?
«Tutte le autorità statali hanno fatto propaganda per il partito di governo. In più c'è stata una fase pre-elettorale molto burocratizzata e controllata che ha fatto da sbarramento. Molte forze politiche non sono state registrate dal ministero della Giustizia (dunque dal governo) e non hanno potuto candidarsi. Quando sono andato alla commissione centrale elettorale, per verificare il trasferimento dei dati, io sono passato, ma il mio interprete no. Delle centinaia di contestazioni documentate solo 23 sono state accolte. Si dà per scontato che un margine di brogli esista sempre. Però la Russia non può rimanere all'età della pietra della democrazia».
Cosa accadrà al termine della vostra missione a Mosca?
«Il plenum dell'assemblea deciderà, se la situazione resta questa potrebbero scattare censure o sanzioni».
Putin è caustico con la protesta.
«È molto preoccupato. Con queste percentuali di voto alle presidenziali potrebbe essere costretto ad andare al ballottaggio. Sente che c'è una frattura interna. Non è più lo zar».

Repubblica 24.12.11
Mosca torna in piazza contro Putin Anche Gorbaciov sale sul palco


MOSCA La Russia torna in piazza contro Putin e prepara nuove cifre da record. Se l´8 dicembre i centomila di piazza Bolotnaja hanno messo in allarme il governo urlando contro i brogli e le censure, adesso si prepara una scossa ancora più forte. Nel grande raduno previsto per oggi sulla piazza delle Tre Stazioni, ci sarà una folla ancora più grande. E sul palco, a godersi dopo vent´anni una platea così vasta, ci sarò anche Mikhail Gorbaciov, il padre della perestrojka. L´annuncio della sua partecipazione convincerà altre migliaia di cosiddetti moderati a partecipare alla protesta. In un´intervista a Novaja Gazeta, il giornale della giornalista assassinata Anna Politkvoskaja, Gorbaciov ha ammesso di «provare profonda vergogna» per aver appoggiato inizialmente la presa di potere di Putin e dei suoi. Con Gorbaciov ci saranno lo scrittore Boris Akunin, che ha scoperto la politica dopo il voto palesemente truccato del 4 dicembre. Il titubante leader del partito democratico Jabloko. Il cantante rock Jurij Shevciuk, leader del gruppo Ddt entrato quasi per caso tra le fila dei ribelli dopo un diverbio pubblico con Putin. Daranno forza ai leader naturali delle proteste: l´ex vicepremier eltsiniano Boris Nemtsov, l´ecologista Evgenja Chirikova e il blogger anticorruzione Aleksej Navalnjy, atteso da decine di migliaia di fans dopo il suo arresto e 15 giorni di carcere. Pensata come un grande evento, più un concerto che un comizio, la manifestazione costerà tutti i centomila euro raccolti nel porta a porta. Previsto il nastro bianco come segno di protesta, le foto di Vaclav Havel per onorare la memoria dell´intellettuale ceco ignorato dal Cremlino e il solito slogan: «Via il partito dei ladri».
(n. l.)

Repubblica 24.12.11
Sangue a piazza Tahrir, il furo di una rivoluzione
di Tahar Ben Jelloun


Gli avvenimenti in atto a piazza Tahrir, in Egitto, ci obbligano a rettificare alcuni dati divulgati da tutti noi, che però sono errati. Ciò che è accaduto un anno fa in Egitto non era una rivoluzione, bensì un colpo di stato militare. Mubarak non ha lasciato il Paese sotto la spinta dei manifestanti, per quanto numerosi e decisi, ma per volontà di una giunta militare che non gli ha lasciato altra scelta.
Questo punto è essenziale per comprendere la violenza della repressione scatenata dall´ottobre scorso contro gli egiziani e le egiziane. L´esercito ha preso il potere, facendo credere che sarà il popolo a governare il Paese. Grave errore. Il popolo è rimasto per le vie e sulle piazze, e ha creduto di essersi sbarazzato dalla dittatura di un capo corrotto. Ma purtroppo la verità è un´altra: l´esercito ha mantenuto lo stato d´emergenza decretato 50 anni fa. Il 9 ottobre scorso, alcune auto blindate hanno investito 27 manifestanti che si ribellavano contro le aggressioni ai danni dei copti; e il 19 novembre lo stesso esercito ha ucciso 50 manifestanti e tradotto davanti a tribunali speciali migliaia di insorti, condannati a pene pesanti. L´esercito non intende cedere neppure un grammo del suo potere, e soprattutto dei suoi privilegi. Come già Sadat, Mubarak aveva colmato i militari di favori: sapeva che in questo modo li avrebbe placati, evitando un colpo di stato. Ma nel gennaio scorso, quando tra il clamore popolare milioni di persone hanno occupato piazza Tahrir, così come i rivoluzionari francesi avevano preso Place de la Bastille, i militari non potevano contrapporsi a quella forza popolare, quando già si contavano centinaia di morti e di dispersi. Hanno dunque giocato il gioco della rivolta, mentre in segreto si preparavano a prendere il potere.
Il 20 dicembre migliaia di donne hanno manifestato specificamente contro le violenze dei soldati ai danni delle manifestanti arrestate. Ieri una di loro ha dichiarato davanti alle telecamere: «Mi hanno pestata, mi hanno strappato i vestiti di dosso. Ero nuda, ma nei miei occhi non c´era paura». Un´altra manifestante brandiva un giornale con la fotografia di tre soldati mentre trascinano a terra, come un animale, una donna a metà denudata, gridando: «L´Egitto senza dignità è un Egitto senza vita!».
I militari invitano le donne a restarsene a casa. Ma il 25 gennaio scorso queste donne hanno dato il via alla rivolta. Come chiedere loro di tornare in silenzio a fare le casalinghe? In ogni epoca, l´Egitto ha avuto le sue combattenti: non sono donne sottomesse né rassegnate. Se oggi Hillary Clinton dichiara che quanto avviene in Egitto è una vergogna per lo Stato, dimentica però di dire che il governo americano era stato messo al corrente del modo in cui i militari hanno destituito Mubarak per prendere il potere. Nessuno lo rimpiange, ma tutti esigono che sia giudicato, e soprattutto che riporti nel Paese i miliardi di dollari da lui rubati e depositati presso banche straniere. I militari non seguono questa via. Stanno rubando la rivoluzione del popolo, mentre le elezioni danno favoriti i fratelli musulmani.
Ora queste elezioni non sono democratiche, nella misura in cui si intende la democrazia come una cultura, una tradizione radicata nelle mentalità. In Egitto, come in Marocco e in Tunisia, la democrazia ha funzionato in quanto tecnica. Ma votare non basta per essere democratici: occorre difendere i valori fondamentali che sono alla base di un sistema democratico. Ora, la religione è incompatibile con la democrazia (si è ben visto ciò che ha dato la democrazia cristiana in Italia).
Quella che aveva preso il nome di "primavera araba" sta perdendo i suoi colori, e trascolora oramai verso il rosso: rosso sangue.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Corriere della Sera 24.12.11
Cuba, amnistia anche per reati politici


Cuba a sorpresa annuncia la liberazione di circa tremila prigionieri, alcuni dei quali condannati per crimini contro la nazione. Ossia prigionieri politici. Il presidente Raul Castro ha comunicato ieri un'amnistia senza precedenti per «ragioni umanitarie». Tra i prigionieri vi sarebbero anche 86 stranieri di 25 Paesi diversi. L'amnistia dovrebbe divenire effettiva nei prossimi giorni, come ha dichiarato il presidente Castro in chiusura della seconda sessione annuale dell'assemblea nazionale cubana. Non ha, però, precisato se verrà scarcerato anche l'americano Alan Gross, condannato nel mese di marzo a 15 anni di carcere con l'accusa di spionaggio. Il governo cubano aveva già liberato più di 100 prigionieri politici nel 2010, dopo l'intercessione della Chiesa cattolica. E forse dietro quest'ultimo annuncio potrebbe esserci la prossima visita di Benedetto XVI il prossimo aprile.

Repubblica 24.12.11
Eros e Amore
Il senso della vita secondo Gesù
di Eugenio Scalfari


SCALFARI "Noi abbiamo una mente riflessiva che ci consente di pensare noi stessi e di vedere le nostre azioni Ma nell´economia dell´Universo siamo solo un piccolo evento"
MARTINI "Il Vangelo dice: ama il tuo prossimo come ami te stesso. Lei ama gli altri?" SCALFARI "I diversi da me li tollero, in qualche caso li amo. Ma gli ingiusti no"
Due punti di vista partiti da premesse diverse cercano nella giustizia nella carità e nel perdono una prospettiva comune
Eugenio Scalfari e il cardinale Martini ragionano sui nodi che stringono fede ed esistenza terrena
MARTINI "Il dubbio mi tormenta spesso, fa parte della nostra condizione di uomini e non di angeli Chi non si cimenta con esso, crede in maniera poco intensa"

In fondo ad un lungo corridoio una porta a vetri si apre su una piccola stanza dove scorre il tempo di Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, biblista, pastore di anime e di coscienze, cardinale di Santa Romana Chiesa. Siede su una poltrona accanto ad una finestra dalla quale si vedono un pezzo di cielo e un cipresso.
Accanto a lui c´è il suo assistente, don Damiano, che è quasi la sua ombra, lo aiuta a muoversi, gli somministra le medicine alle ore stabilite, lo accompagna nei suoi spostamenti ormai rari. Non è frequente che un gesuita diventi cardinale e ancor meno frequente che sia stato alla guida della diocesi più importante d´Europa, ma Martini è un´eccezione per tante cose ed anche per la sua carriera ecclesiastica.
A me è capitato di vedere molto da vicino i gesuiti in una fase particolare della mia vita: avevo vent´anni, era il 1944, Roma era occupata dai nazisti; i giovani di leva e gli ebrei erano ricercati dalle SS, la polizia militare del Reich, ed io trovai rifugio insieme ad un centinaio di altri giovani nella Casa del Sacro Cuore dove i gesuiti gestivano i cosiddetti "esercizi spirituali". Duravano al massimo una settimana, ma nel nostro caso durarono più d´un mese. La Casa era extra-territoriale, con bandiera del Vaticano alla finestra e guardie palatine al portone.
Poiché, come ci disse il padre rettore, i gesuiti non dicono bugie, gli esercizi spirituali dovemmo farli in piena regola sebbene tra di noi ci fossero molti ebrei e alcuni non credenti.
Per me fu una preziosa esperienza anche perché il rettore era padre Lombardi, un prete di notevole personalità e grande finezza intellettuale cui in seguito fu dato il soprannome di "microfono di Dio" per le sue attività che a dire il vero erano più politiche che pastorali.
I gesuiti che conobbi in quell´occasione e che guidavano le "meditazioni", celebravano la messa e le altre funzioni religiose che costellavano la nostra giornata, li osservai con molta attenzione; il rettore, quando ci separammo, mi propose addirittura di iscrivermi all´Università Gregoriana, eravamo entrati in confidenza ed anche in polemica durante una serie di dibattiti su Sant´Agostino e su San Tommaso.
Ricordo queste vicende personali per dire che i gesuiti che conobbi allora non somigliavano in nulla a Carlo Maria Martini. Erano molto accoglienti e amichevoli, ma piuttosto arcaici nel loro modo di considerare la religione; Martini invece è pienamente coinvolto nella modernità di pensiero. Quanto all´intensità della fede, non sta certo a me misurarla; dico solo che la fede di Martini ti fa pensare perché emerge dal suo profondo; quella che si respirava al Sacro Cuore aveva invece un sentore di sacrestia piuttosto sgradevole per chi come me la fede non ce l´ha e neppure sente il bisogno di cercarla.
Vi domanderete allora quale sia la ragione per la quale io frequenti Martini e lui accetti di buon grado questa frequentazione. La mia risposta è che siamo sulla stessa lunghezza d´onda, ci sentiamo in sintonia l´uno con l´altro e il motivo probabilmente è questo: ci poniamo tutti e due le stesse domande: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Sembrano essere diventante un luogo comune queste domande e forse lo sono, ma continuano a costituire la base d´ogni filosofia e d´ogni conoscenza. Le nostre risposte spesso differiscono ma talvolta coincidono e quando questo avviene per me è una festa e spero anche per lui.
Il nostro di oggi è il quarto incontro che ho avuto con lui; è il 6 dicembre, fuori piove, siamo nella casa di riposo della Compagnia di Gesù a Gallarate in un edificio che fu donato alla Compagnia una cinquantina d´anni fa dalla famiglia Bassetti. Gli incontri precedenti sono avvenuti nel 2009 e nel 2010, ma il primo fu un dibattito che avvenne a Roma alla fine degli anni Ottanta a palazzo della Cancelleria, organizzato da don Vincenzo Paglia, della comunità di Sant´Egidio.
Il cardinale è ammalato di Parkinson, è lucidissimo, ma cammina con difficoltà. Da qualche tempo il male gli ha molto affievolito la voce che è diventata quasi un soffio, ma don Damiano ha imparato a leggere dal movimento delle sue labbra le parole senza voce e le traduce per renderle comprensibili.
Il nostro colloquio qui trascritto è stato rivisto dal cardinale: le difficoltà della comunicazione rendevano necessario il suo "imprimatur".
[* * *]
Scalfari Vorrei cominciare il nostro dialogo da un nome e dalla persona che lo portava: Gesù. Per me quella persona è un uomo nato a Betlemme, dove i suoi genitori Giuseppe e Maria che vivevano a Nazareth si trovavano occasionalmente il giorno e la notte del parto. Per lei, eminenza, quel bambino è il figlio di Dio. Sembrerebbe che la differenza tra noi su questo punto sia dunque incolmabile. Eppure è proprio quel nome che ci unisce. Lei lo chiama Gesù Cristo, io lo chiamo Gesù di Nazareth; per lei è Dio che si è incarnato nel Figlio, per me è un uomo che è creduto essere il Figlio e in quella convinzione ha vissuto gli ultimi tre anni della sua vita, gli anni della predicazione e poi della "passione" e del sacrificio. Ma la predicazione è appunto quel tratto della sua vita che ci unisce. Ho pensato molto all´incontro di due persone già avanti negli anni che vengono da educazioni, culture e percorsi di vita così diversi che sono desiderosi di conoscersi sempre più e sempre meglio. Ha un senso tutto questo? Qualche volta penso che lei speri di convertirmi, di farmi trovare la fede. Questo rientrerebbe nei suoi compiti di padre di anime. È questo che lei si propone?
Martini No, non penso di convertirla anche se non possiamo escludere né io né lei che ad un certo punto della sua vita la luce della fede possa illuminarla. Ma questa è un´eventualità che riguarda solo lei. Lei cerca il senso della vita. Lo cerco anch´io. La fede mi dà questo senso, ma non elimina il dubbio. Il dubbio tormenta spesso la mia fede. È un dono, la fede, ma è anche una conquista che si può perdere ogni giorno e ogni giorno si può riconquistare. Il dubbio fa parte della nostra umana condizione, saremmo angeli e non uomini se avessimo fugato per sempre il dubbio. Quelli che non si cimentano con questo rovello hanno una fede poco intensa, la mettono spesso da parte e non ne vivono l´essenza.
La fede intensa non lascia questo spazio grigio e vuoto. La fede intensa è una passione, è gioia, è amore per gli altri ed anche per se stessi, per la propria individualità al servizio del Signore. Il Vangelo dice: ama il tuo prossimo come ami te stesso. Non c´è in questo messaggio la negazione dell´amore anche per sé, l´amore – se è vera passione – opera in tutte le direzioni, è trasversale, è allo stesso tempo verticale verso Dio e orizzontale verso gli altri. L´amore per gli altri contiene già l´amore verso Dio. Lei ama gli altri?
Scalfari Non sempre, non del tutto. Mentirei se dicessi che amo gli altri con passione come amo alcune persone a me vicine e mentirei se dicessi che l´odio è un sentimento a me ignoto. Detesto l´ingiustizia e odio gli ingiusti. I diversi da me li tollero e in qualche caso li amo pensando che la loro diversità sia ricchezza. Ma gli ingiusti no.
Martini Forse lei ricorderà che sul tema dell´ingiustizia abbiamo molto discusso nel nostro precedente incontro.
Scalfari Lo ricordo benissimo. Io le domandai quali fossero i peccati più gravi e lei mi rispose che la precettistica della Chiesa enumera una serie di peccati numerosa. In realtà – mi disse e io l´ho trascritto fedelmente nell´articolo che feci dopo quel nostro incontro – il vero peccato del mondo è l´ingiustizia, dal quale gli altri discendono.
Martini Sì, lei ricorda bene, dissi così. Ma forse non approfondimmo abbastanza che cosa intendevo con la parola ingiustizia.
Scalfari Può spiegarlo adesso.
Martini Ebbene l´ingiustizia è la mancanza di amore, la mancanza di perdono, la mancanza di carità e il sentimento di vendetta.
Scalfari Lei mi disse anche che il sacramento della confessione e della penitenza, fondamentale per i cristiani, non è più vissuto e praticato come dovrebbe essere.
Martini La penitenza non è quella di recitare dieci "paternostri" ma scoprire la bellezza della carità e metterla in pratica.
Scalfari Mi ricorda il pentimento dell´Innominato del Manzoni nei Promessi sposi....
Martini La lotta contro l´egoismo è molto lunga.
Scalfari Ne deduco che il Creatore ha creato un mondo ingiusto.
Martini Il Creatore ha donato agli uomini la libertà. Essa può generare la solidarietà verso gli altri, ma anche l´egoismo, la sopraffazione, l´amore verso il potere. Ho letto il suo ultimo libro, lei parla di queste cose.
Scalfari Sì, anch´io penso che l´istinto d´amore pervada la vita delle persone ma abbia diverse dimensioni e direzioni. Lei lo chiama amore, io lo chiamo eros, lei chiama il bene carità ed io lo chiamo sopravvivenza della specie, cioè umanesimo. Mi sembra che con parole diverse diciamo la stessa cosa. Gesù, per quanto capisco, tentò il miracolo di cancellare l´amore per se stessi, ma quel miracolo non riuscì.
Martini Gesù non tentò di cancellare l´amore per se stessi, anzi lo mise come misura per l´amore degli altri.
Scalfari Io penso che la vita sia cominciata da un essere monocellulare e poi sia andata vertiginosamente avanti secondo l´evoluzione naturale. Noi abbiamo una mente riflessiva che ci consente di pensare noi stessi e di vedere le nostre azioni, ma nell´economia dell´Universo siamo un piccolo evento: così è nato il mondo e noi tutti e così scomparirà. A quel punto nessun´altra specie sarà in grado di pensare Dio e Dio morirà se nessun essere vivente sarà in grado di pensarlo. Noi non siamo una regola, noi siamo un caso, una specie creata dalla natura, come credo io, o da un dio trascendente come crede lei. Spinoza dice: Deus sive Natura, oppure anche Natura sive Deus. Lei sa che questa concezione della divinità, così intensa come lei ha, sconfina nell´immanenza? Una scintilla di Divinità sta dunque in tutte le creature viventi ed è appunto la vita.
Martini Lei mi domandò nel nostro precedente incontro che cosa io pensassi dell´affermazione del teologo Hans Küng che sostiene la fede verso la vita come la condizione preliminare e necessaria per arrivare alla fede in Dio. Lo ricorda?
Scalfari Sì, ricordo anche che lei era d´accordo con quell´affermazione.
Martini È vero e lo si vede osservando un bimbo appena nato il quale si affida nelle mani dei genitori totalmente. Anche lei è venuto qui nella fiducia che non avrebbe trovato nessuno con un fucile spianato. Questa è una forma primaria di fede.
Scalfari Chiaro. Lei ha detto in un suo scritto che è un errore affermare che Dio sia cattolico.
Martini Sì, l´ho detto. Dio è il Padre di tutte le genti, quindi apporgli l´aggettivo cattolico è limitante.
Scalfari Ammetterà tuttavia che il monoteismo cristiano è assai diverso da quello ebraico e anche da quello dell´islam. In quelle religioni la Trinità sarebbe considerata eresia inconciliabile con il Dio unico. In quelle religioni il Dio unico è innominabile e non raffigurabile, per i cristiani invece ha il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed è stato dipinto e scolpito per millenni. La storia dell´arte occidentale è in gran parte la storia di Dio, del Figlio, della madre del Figlio, dei Santi. Si può dire che il cristianesimo è una religione monoteista? Oppure storicamente è una religione ellenistica?
Martini La Trinità è Dio-comunione. Il Figlio è la Persona con cui il Padre si manifesta agli uomini. Forse il modello "ontologico" con cui si è pensata la Trinità fino ad oggi dovrebbe cedere il passo al modello "relazionale" che aiuterebbe meglio anche il dialogo orizzontale. Quanto ai Santi, non sono solo intermediari tra noi e Dio ma anche testimoni del bene e forse la Chiesa ne ha canonizzati troppi.
Scalfari Dunque quando la nostra specie scomparirà e quando il giudizio universale sarà avvenuto il Figlio non avrà più ragion d´essere e lo Spirito santo neppure.
Martini Non esattamente, il Figlio sarà la beatitudine delle anime che vivranno nella luce.
Scalfari Senza memoria del sé terrestre che hanno abbandonato?
Martini Noi uomini non siamo in grado di sapere queste cose, di conoscere l´aldilà. Sappiamo però che Paolo dice che la Carità non avrà mai fine. Quindi supponiamo che riconosceremo ciò che abbiamo vissuto nell´amore.
Scalfari Dio è il padre di tutte le genti, ma la Chiesa ha fatto del Dio cattolico anche una bandiera d´identità, di guerra e di stragi.
Martini Quando ha fatto questo ha sbagliato. La Chiesa, come tutte le istituzioni terrene, contiene il bene ed il male ma è depositaria di una fede e di una carità molto grandi. Anche Pietro rinnegò.
Scalfari Forse è troppo istituzione.
Martini Forse è troppo istituzione.
Scalfari Forse è troppo dogmatica.
Martini Direi in un altro modo: l´aspetto collegiale della Chiesa è stato troppo trascurato. Secondo me questo punto andrebbe profondamente rivisto.
La conversazione dura ormai da oltre un´ora. Guardo don Damiano in modo interrogativo e lui mi fa di sì con la testa. Dico al cardinale che è arrivata l´ora di congedarmi. «Ma le faccio un´ultima domanda: che cosa pensa dei fatti politici italiani di questi ultimi mesi? La Chiesa, dopo un silenzio troppo lungo, mescolato con alleanze oltremodo discutibili, ha infine chiesto con il cardinale Bagnasco che venisse ripulito il fango che ha imbrattato l´etica pubblica. È d´accordo con questa posizione?».
Martini Sono d´accordo. In Italia esiste una cattolicità avvertita e consapevole e ci sono anticorpi preziosi che alla fine si manifestano contribuendo a recuperare il bene anche nella sfera dove si amministra il potere.
Mi alzo. Anche lui si alza aiutato da don Damiano. Ci abbracciamo. Lui mormora qualcosa e don Damiano traduce: «Ha detto che prega spesso per lei». Io rivolgendomi a lui gli dico: «Io la penso molto spesso, è il mio modo di pregare». Lui si avvicina al mio orecchio e con un filo di voce dice: «Prego per lei, e anch´io la penso spesso», sorride e mi stringe la mano. Forse voleva dire che pensare l´altro è più che pregare. Io almeno ho capito così.