mercoledì 28 dicembre 2011

l’Unità 28.12.11
Emergenza e democrazia
di Michele Ciliberto


Viviamo da tempo in una situazione di crisi della democrazia, sia in Italia che all’estero. Basterebbe riflettere sulle cosiddette primavere nord-africane, e sulle loro grandi difficoltà, per comprendere quanto il cammino della democrazia sia difficile e quali dure prove debbano attraversare per cercare di affermarsi.
In Italia, questa crisi è stata rappresentata dal berlusconismo e dalla configurazione dispotica che esso ha dato al nostro vivere civile: il Parlamento è stato svuotato di ogni potere; l’esecutivo ha prevalso sul legislativo e ha cercato di sottomettere con ogni mezzo il giudiziario; si è messa in discussione la «legittimità» della Corte costituzionale, aprendo contemporaneamente un conflitto sistematico con la Presidenza della Repubblica. In sintesi, si è cercato di trasformare in modo radicale il sistema dei poteri dello Stato, troncando in modo netto ogni rapporto con il fondamento antifascista della Repubblica. E, occorre saperlo, sono stati acquisiti dei risultati: anzitutto con la diffusione di «sensi comuni» autoritari ed anche dispotici. Pensare che con le dimissioni di Berlusconi si sia usciti da questa situazione e che il nostro Paese sia già stato rimesso sui binari della correttezza democratica, è una pura illusione; significa non aver ancora capito cosa è accaduto negli ultimi venti anni e la profondità delle trasformazioni culturali e antropologiche. Oggi si tratta di restaurare l’ordinario vivere democratico.
È un processo difficile perché la democrazia non è un fatto scontato, naturale. Anzi, essa si sviluppa in una permanente condizione di crisi, di pericolo; deve costantemente contrapporsi allo «stato d’eccezione», che si impone per decisione del sovrano effettivo (chiunque egli sia) quando viene meno la legittimazione dei poteri ordinari dello Stato, come avvenne, ad esempio, in Europa dopo la fine dell’ancien règime. Né è immaginabile che il pericolo dello «stato d’eccezione» possa venir meno una volta per tutte: «la tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato d’eccezione’ in cui viviamo è la regola», ha scritto Walter Benjamin. Specie in democrazia si vive sempre nel pericolo dello «stato d’eccezione». In Italia, il problema principale oggi è precisamente questo: uscire dallo «stato d’eccezione» costituito dal berlusconismo. E non è pensabile che un processo di questa profondità, in una situazione internazionale difficile e avversa, possa avvenire in modo lineare e indolore.
Una cosa è però certa: per restaurare la correttezza democratica è necessario restaurare il valore e la funzione autonoma della politica. Democrazia e politica sono unum et idem. Ce lo ha spiegato bene Max Weber: se la burocrazia, e l’amministrazione, prevalgono sulla politica si apre una situazione di crisi, di decadenza, come accadde in Germania con il bismarkismo. La «crisi» si produce quando viene meno la politica e nel vuoto da essa lasciato si inserisce la forza dura e ingovernabile della «burocrazia» pretendendo di assumere la direzione dello Stato, cosa di cui essa è incapace per natura, funzione ed anche cultura. È una considerazione che fatte le debite distinzioni aiuta a comprendere anche caratteri e rischi della nostra situazione. L’Italia oggi sta attraversando un momento di eccezionale difficoltà, caratterizzato da due elementi essenziali, a loro volta strettamente intrecciati: comincia ad uscire, faticosamente, dal lungo «stato d’eccezione» del berlusconismo, mentre combatte, contemporaneamente, una guerra condotta con strumenti diversi, ma non meno violenti, dei cannoni. È in questo contesto che si situa la nascita del governo Monti, ed è in questa luce che ne vanno valutati meriti e limiti. Nato con un forte e positivo sostegno del Presidente della Repubblica, esso ha avuto il merito di ridare subito credibilità e vorrei dire: dignità internazionale all’Italia. Ma lo ha fatto con una nuova finanziaria che ha colpito in modo durissimo gli strati più deboli, senza peraltro riuscire ad ottenere, fino ad ora, risultati significativi nella «guerra» con i mercati. E venendo alla questione della democrazia pur essendo ineccepibile dal punto di vista costituzionale la sua nascita si è configurata come una affermazione del primato della «competenza», della «tecnica» e della sua «obiettività» sulla politica, fino al punto di essere criticato come una diversa, ma altrettanto negativa, forma di «stato d’eccezione». È un giudizio non condivisibile, in questi termini. Battere però sul primato della «tecnica», umiliare la politica non serve, è sbagliato, pone le condizioni dello «stato d’eccezione» perché politica e democrazia sono, appunto, unum et idem.
Certo, sono limiti importanti e vanno detti con schiettezza; ma confermano quanto sia difficile e faticoso il processo di restaurazione della democrazia nel nostro Paese. Non è facile uscire dalla «democrazia dispotica», da un lungo «stato d’eccezione»: si comincerà a farlo quando con le elezioni la parola sarà ridata ai cittadini e se le forze riformatrici, a cominciare dal Pd riusciranno a prevalere. E neppure questo è scontato.

l’Unità 28.12.11
Intervista a Stefano Fassina
«La fase due può nascere in Europa, non in Italia»
Il confronto nel partito. La risposta a Morando e Fioroni
Il responsabile Economia del Pd: «Sosteniamo lealmente Monti ma non è questo il nostro programma. Nessuna doppiezza tra piazza e Parlamento»
di Simone Collini


Come indicano i dati degli ultimi giorni sugli spread, i rischi per l’euro non originano dalla finanza pubblica, ma dalla lunga recessione dovuta a ottuse politiche di austerità. La ragione della manovra approvata dal Parlamento è esclusivamente politica. Dopo la lunga e infelice stagione di Berlusconi, Bossi e Tremonti è una manovra necessaria a dare al governo Monti, quindi all’Italia, la credibilità per contribuire a riorientare di 180 gradi la politica economica suicida imposta dai conservatori tedeschi all’area euro». A parlare è il responsabile per l’Economia del Pd Stefano Fassina, che respinge qualunque critica di “doppiezza” («Non possiamo votare sì e poi andare in piazza», aveva detto ieri Beppe Fioroni in un’intervista all’Unità) e insiste sul fatto (in risposta ad Enrico Morando, che ha chiuso un intervento sul nostro giornale scrivendo «noi dobbiamo dire: questo è il nostro governo») che quello dell’esecutivo Monti «non è il programma del Pd». Però sostenete questo governo.
«È evidente che siamo impegnati affinché abbia successo». Come si misura il successo? «Innanzitutto nella modifica della politica economica imposta dalla Germania all’area euro, che sta portando al naufragio non solo noi, ma la moneta unica e il sogno stesso dei fondatori dell’Unione europea. Il governo Monti per noi è un’opportunità per modificare questa rotta. Lo sosteniamo con la massima determinazione perché la posta in gioco è la ricostruzione delle condizioni di civiltà nel mondo del lavoro nel ventunesimo secolo, nel secolo asiatico».
Non tutto quanto visto e ascoltato fin qui è rassicurante da questo punto di vista... «È chiaro che quello del governo Monti non è il nostro programma. Questo esecutivo è sostenuto dal Pd, ma anche da una forza come il Pdl a noi alternativa in termini di valori, programmi, interessi rappresentati. Ed è inevitabile un bilanciamento degli interventi per tener conto di forze alternative che devono poi approvarli in Parlamento». Nel Pd c’è chi sostiene che la vostra realizzazione come forza riformista dipenderà dal modo in cui sosterrete questo governo.
«Il Pd non nasce col governo Monti. È nato nel 2007 e da allora si è dato un profilo sempre più robusto in termini culturali e programmatici, un profilo che oggi contribuisce alla gestione di questa delicata fase. Noi
non abbiamo bisogno di esami di riformismo. E il nostro tasso di riformismo non si misura in un’accettazione senza se e senza ma di misure che risentono di un’esigenza di bilanciamento».
Pensa sia un’esigenza che condizionerà anche la fase due? «Intanto si può parlare con fondamento di una fase due solo se ci sarà un intervento espansivo a livello di area euro, avendo fatto in Italia manovre che porteranno nel 2012 a una contrazione dell’indebitamento per circa 75 miliardi di euro. La fase due deve passare per Bruxelles, e in particolare per la modifica del trattato intergovernativo lanciata il 9 dicembre al Consiglio europeo, tutta schiacciata sull’austerità e sulla ridimensionata finanza pubblica, senza nulla per la crescita e il lavoro».
C’è chi sostiene, anche nel suo partito, che per generare lavoro vada superato l’articolo 18.
«La priorità, per quel che riguarda il mercato del lavoro, è riformare gli ammortizzatori sociali per arrivare a un’indennità di disoccupazione universale che copra tutti i lavoratori, a prescindere dalla tipologia di contratto applicato. Facilitare i licenziamenti non diminuisce la precarietà. La variabile per migliorare le condizioni di lavoro è la crescita. E l’articolo 18 con la crescita non ha nulla a che vedere».
Il vostro appoggio al governo può influire sulle future coalizioni? «Può influire per ciò che fa il Pd, che ha una missione chiara, ma anche per come si muovono le altre forze. Alcune, come Sel, in questa fase si comportano responsabilmente, altre stanno dimostrando un comportamento opportunistico».
La foto di Vasto si è ingiallita?
«Il punto di fondo è se le forze progressiste, e in particolare il Pd, riescono a intercettare la domanda di cambiamento progressivo crescente in Italia nell’ultimo anno e mezzo, che ha avuto il suo punto massimo con le amministrative e con il referendum sui beni comuni. Il punto è capire se anche grazie al successo del governo Monti il Pd riesce a mettere in campo un’alleanza tra progressisti e moderati che risponda alla domanda di cambiamento progressivo, che se rimane interlocutoria rischia di ripiegare o nella rassegnazione o nell’antipolitica».
Lei e altri dirigenti Pd avete partecipato alle mobilitazioni dei sindacati: cosa risponde alla critica di “doppiezza” di Fioroni?
«Il Pd deve stare nella società, parlare con i lavoratori e le lavoratrici, gli studenti, i pensionati. Non per tentare una ridicola doppiezza ma per spiegare il delicatissimo passaggio di fase ed esplicitare il nostro profilo strategico rispetto a scelte programmatiche contingenti».
Il Parlamento è stato necessariamente coinvolto nell’approvazione della manovra, le parti sociali no: c’è il rischio che l’emergenza economica porti al varo di ulteriori misure senza il coinvolgimento dei sindacati? «Proprio perché c’è un’emergenza economica è necessario che la nostra sia una democrazia attenta al contributo delle rappresentanze sociali. Che non sono black bloc ma organizzazioni che hanno sempre messo al primo posto l’interesse del Paese. Va recuperato il deficit che c’è stato col varo della manovra e vanno coinvolte in modo attivo le rappresentanze dei lavoratori. Questo per noi è un punto fondamentale perché qualifica la nostra democrazia e aiuta a raggiungere gli obiettivi di modernizzazione del Paese che stanno a cuore a noi e alle rappresentanze sociali».

La Stampa 28.12.11
Stefano Fassina
“L’emergenza è lo sviluppo non la finanza pubblica”
intervista di Carlo Bertini


Europa Per il responsabile economico del Pd le «chiavi» della crisi sono comunque nelle mani di Bruxelles

I mercati continuano a mordere perché vogliono una correzione della politica economica suicida che la Germania impone a tutti. Ed è evidente che ora vogliono politiche per la crescita». Il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, a suo tempo alunno della Bocconi e oggi molto critico con le ricette della Bce, ammette di non aver avuto finora un contatto diretto con il suo ex professore Mario Monti. Al quale, se dovesse incontrarlo, suggerirebbe di «provare a correggere la linea di cieca austerità che la Germania porta avanti. Purtroppo le chiavi sono a Bruxelles e fa un po’ tenerezza vedere questa fila di segretari di partito che vanno a Palazzo Chigi come se lì ci fossero le leve per far ripartire l’economia».
Quindi le fa tenerezza vedere sfilare pure Bersani?
«No, lui è stato il primo a dire che la mission fondamentale di Monti è in Europa. Marcando così una differenza rispetto a quelli che insistono sull’articolo 18 o su altre misure improbabili in questa fase. Noi abbiamo collezionato una sequela di manovre che valgono per il 2012 cinque punti di prodotto lordo, con un impatto che non può che portare a una lunga recessione».
Dunque anche quest’ultima manovra ha effetti recessivi?
«Di sicuro accentua una recessione già in atto, ma risponde ad una necessità politica: ricostruire una credibilità che serve all’Italia per poter negoziare una correzione di rotta nell’area euro».
E ora quali sono i prossimi passi che dovrebbe fare Monti?
«Più del consiglio dei ministri di oggi, è importante la scadenza di domani, quando il governo italiano presenterà gli emendamenti alla bozza di trattato intergovernativo del 9 dicembre scorso. Per come verrà confezionato, potrà portare alla correzione di rotta o no. Inserendo i vincoli di bilancio in una strategia per la crescita, oggi assolutamente assente. Ed è questa la vera fase due».
E’ giusto portare avanti in parallelo i cantieri della concorrenza e del mercato del lavoro?
«Certo, ovviamente vanno fatte le riforme delle liberalizzazioni e degli ammortizzatori sociali, mentre l’articolo 18 non ha nulla a che vedere con la crescita e con la precarietà. E’ essenziale procedere in parallelo perché abbiamo accumulato un ritardo che dobbiamo recuperare. Ma senza l’inversione di rotta a Bruxelles, anche questi processi interni hanno il fiato corto».
Si aspettava che dopo il varo di questa manovra lo spread continuasse a volare?
«Assolutamente sì, perché il problema non è la finanza pubblica ma la crescita. Che si può far ripartire anche sostenendo gli investimenti nella logistica e nelle infrastrutture: porti, ferrovie, strade. Facendo partecipare i capitali privati a progetti di questo tipo, con la remunerazione legata alle tariffe, per attivare i cantieri. Con fondi di investimento, in cui il pubblico detenga la quota di maggioranza lasciando gli utili agli azionisti. E bisognerebbe portare fino al 5% la tassa sui capitali scudati per trovare altri 3-4 miliardi, da destinare a investimenti nei comuni e a saldare i debiti della pubblica amministrazione con le piccole imprese».
Dopo lo strappo deciso da Di Pietro, è ancora valida per il futuro la foto dell’alleanza di Vasto?
«Vendola capisce la funzione che sta svolgendo il Pd in questa fase e non parla mai di inciucio con Berlusconi come fa Di Pietro. Che è attento solo a vedere se può rosicchiare qualcosa dal nostro elettorato, con un atteggiamento che renderà molto molto complicato poi costruire una coalizione credibile».

il Riformista 28.12.11
«In piazza l’11 febbraio per difendere i diritti»
Secondo Landini, capo della Fiom, «bisogna rimettere al centro la questione del lavoro e chiedere un nuovo modello di sviluppo da attuare attraverso un piano straordinario di investimenti pubblici e privati».
di Salvo Fallica


La battaglia per i diritti, la libertà sindacale, le questioni della crisi economica e sociale, sono alcuni degli argomenti sui quali il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha colloquiato col Riformista.
Si prepara un inizio del 2012 decisamente caldo?
Sicuramente la situazione è molto difficile, in una fase di crisi epocale in Italia si assiste ad un vero e proprio attacco ai diritti dei lavoratori. Il paradosso è che invece di parlare della crisi economica e sociale, alcuni mettono sotto tiro il contratto nazionale del lavoro. Quello che sta accadendo alla Fiat, gli accordi separati alla Fincantieri, sono il segnale di un grave arretramento sul piano dei diritti e della libertà di scelta nelle fabbriche. Lo dico chiaro, è una questione autentica di democrazia.
La crisi sta toccando tutti i settori, l’industriale dei torroncini Giuseppe Condorelli ha messo in evidenza il fatto che persino il settore dei dolci nel periodo natalizio risente di un leggero calo. Cosa che non avviene all’estero. Cosa sta accadendo?
Credo che stiano emergendo i nodi cruciali che da tempo denunciamo. La redistribuzione della ricchezza è a danno dei lavoratori. Ed è sempre più evidente che oggi si è poveri lavorando, è questo uno degli amari paradossi della condizione italiana. Inoltre assistiamo a livelli di precarietà ed incertezza che non hanno precedenti dal dopoguerra a oggi. Tutto questo porta inevitabilmente al calo dei consumi, alla recessione. Noi abbiamo indetto per l’11 di febbraio una grande manifestazione a Piazza San Giovanni per difendere i diritti, per rimettere al centro la questione del lavoro, e chiedere un nuovo modello di sviluppo da attuare attraverso un piano straordinario di investimenti pubblici e privati.
Emanuele Macaluso ha parlato di una questione sociale, inedita e spietata. Cosa ne pensa?
È la grande emergenza per eccellenza. Penso che bisogna tornare ad assumere la piena occupazione come obiettivo di un nuovo modello di sviluppo. Le risorse vanno ricercate attraverso l’introduzione di una vera patrimoniale, una dura lotta all’evasione fiscale, ed una più efficace battaglia contro la corruzione. Progettualmente serve un piano per la mobilità sostenibile ed un piano straordinario per nuove forme di energia rinnovabile. Questo richiede un rapporto di dialogo fra governo, istituzioni locali, università, lavoro ed imprese, che sperimenti nuovi modelli organizzativi e nuova qualità delle produzioni.
Qual è la sua opinione sulla cosiddetta fase 2 del governo Monti?
Credo che la fase 1 sia stata non positiva, perché si è continuato a fare pagare i soliti noti, il sacrificio delle pensioni d’anzianità è stato l’emblema di queste scelte sbagliate. Serve una crescita equa e sostenibile, fino ad ora non si visto nulla di tutto questo.
Qual è la sua idea sulla riforma del lavoro?
Penso che esiste un problema vero, milioni di persone con contratti precari, debolissimi. Vi è l’esigenza di un sistema di tutela universale. Bisogna ridurre le forme di lavoro precario, e questo lo si fa anche rendendo molto più costosa per le aziende questa tipologia di contratti. Occorre estendere gli ammortizzatori sociali e la cassa integrazione. Occorrono nuove tutele, non nuovi attacchi ai diritti.
Il caso Fiat. Andrete dai magistrati?
Noi riteniamo non accettabile che la Cgil non possa non avere gli stessi diritti di tutti gli altri sindacati italiani. Per questo consideriamo che la scelta della Fiat di uscire dal contratto nazionale ed imporre un proprio regolamento aziendale, violi i principi della nostra Costituzione. Faremo eleggere i rappresentanti sindacali della Fiom, li nomineremo e se la Fiat non li riconoscerà, agiremo per via legale.
In un libro-intervista, a Giancarlo Feliziani dice: «Cambiare la fabbrica per cambiare il mondo». Cosa intende?
Un nuovo modello democratico più avanzato parte dal fatto che nelle fabbriche non prevalga l’autoritarismo, ma la possibilità delle persone di realizzarsi nel lavoro che fanno, nel rispetto delle libertà civili.

Repubblica 28.12.11
"Quando Giorgio e io attaccammo da soli quel fortino fascista"
Il ricordo dei compagni: era un comandante coraggioso
di Vera Schiavazzi


CUNEO Lino Silvestri, novantuno anni compiuti a luglio, non è un chiacchierone, anzi, quasi si schermisce se gli si chiede di raccontare di quei mesi in Val Varaita quando, insieme a Giorgio Bocca, combatteva con Detto Dalmastro nella seconda divisione partigiana di Giustizia e Libertà. Eppure, di tutti, è proprio lui quello che forse lo ricorda meglio: perché erano insieme fin dalla scuola elementare, a Cuneo, dove Silvestri non ha mai smesso di vivere; perché, come il padre di Bocca, è stato per tutta la vita un insegnante e un preside di scuola. E perché, insieme, loro due soli, un bel giorno decisero di assaltare il distaccamento repubblichino di Frassino. Come andò? «Benone. Una volta fatta fuori la guardia, tutto fu facile… Per arrivare, camminammo tutta la notte, ma attaccammo in pieno giorno. Son passati così tanti anni che non mi so spiegare perché facemmo una cosa del genere in due, senza compagni. Ma ricordo che la decidemmo lì per lì, il giorno prima. E ci andò bene». I Silvestri erano due, Lino e il gemello Luigi, e Bocca li ha ricordati in più pagine dei suoi libri, a partire da "Il provinciale". Ora tocca a Ercole, detto Lino, ricordare lui, nel salotto della sua casa di Cuneo, la moglie e i figli intorno a suggerirgli nomi e date che lui respinge con fermezza («Ce la faccio da me, anche se è tutta la vita che son più vecchio di Bocca di un mese…»).
«Giorgio era capo divisione, io e mio fratello avevamo ognuno un distretto, e sopra tutti c´era Detto Dalmastro, che poi sposò Anna, la sorella di Bocca, e morì giovane, nel 1975 racconta Silvestri Dopo la scuola, lui aveva fatto il liceo e cominciato a fare il giornalista, mentre io studiavo da maestro. Si capiva che sarebbe diventato importante. Bocca alle divisioni di Gl ci arrivò per conto suo, erano quelle che corrispondevano di più alle sue idee. Fu bello ritrovarsi, noi che ci conoscevamo da bambini. E subito si ricominciò a fare scorribande insieme. C´era tanta fame, in montagna, eravamo dei ragazzi con un appetito da lupi e uno dei problemi principali era trovare da mangiare per noi e per gli altri». Un problema che la coppia Bocca-Silvestri risolveva spesso e volentieri scendendo, con un po´ di incoscienza giovanile, fino a Madonna dell´Olmo, alle porte di Cuneo, dove un salumificio pre-industriale continuava a lavorare a dispetto della guerra: «Di lì abbiam preso salami e carne quanto bastava per dar da mangiare a tutti». Sparare, uccidere, restare uccisi: che valore avevano queste cose per un partigiano della Val Varaita? «Non è che potessimo farci scrupoli. Noi sparavamo se ci attaccavano, o quando dovevamo attaccare noi per non finire rinchiusi al fondo della valle. Era la guerra, e in guerra non si può stare troppo a pensare». E dopo? «Dopo, la vita ci ha separati. Io ho fatto il preside e l´ispettore, ho lavorato un po´ in tutta Italia. Lui è diventato il giornalista famoso che tutti conosciamo. Leggevo i suoi articoli, i suoi libri, certo, ma non c´era possibilità di frequentarsi. Ma cosa cambia? Se uno è stato amico in momenti come quelli, è amico per sempre».
E se si insiste, se si cerca per esempio di capire che cosa fece di Giorgio Bocca non solo un partigiano ma un comandante, i suoi vecchi compagni quasi sogghignano: «Non c´è un perché. Era ragazzo, era coraggioso, non si tirava indietro, anzi, si offriva. Ecco il perché», risponde Silvestri. Da Torino, un altro partigiano di allora, Giorgio Diena, aggiunge: «Non c´erano mica le selezioni del personale, in montagna. Giorgio era un capo perché i suoi lo riconoscevano, si fidavano. Nessuno ti diceva: da domani tu fai il capo. Succedeva, e basta». E Diena, che prima della Val Varaita ha combattuto in Val Pellice e in Val Chisone, spiega anche perché poteva capitare a chi era "meno inquadrato" di finire in una formazione autonoma, o tra le fila di Giustizia e Libertà piuttosto che tra i garibaldini: «Non c´erano obblighi politici, tra noi, eravamo più aperti. Aperti, attenzione, non tolleranti. La differenza era tutta lì, noi non avevamo troppo bisogno di commissari politici, gli altri sì. E adesso mi scusi, sono un po´ abbattuto. Anche a novant´anni dispiace quando un amico se ne va».

Repubblica 28.12.11
"Cari ragazzi, non smettete di vigilare la democrazia va difesa in prima persona"
Ha ancora senso oggi dirsi antifascisti perché gli italiani tendono a essere fascisti senza saperlo


Lei quando era ragazzo è stato fascista. Quando e perché ha iniziato ha maturare una coscienza antifascista?
«La questione è fondamentale. Essere fascista in un regime dittatoriale non significa aver aderito al fascismo, vuol dire essere obbligato a iscriversi al fascio. Il mio fascismo consisteva nell´andare a sciare, del fascismo non sapevo assolutamente nulla. Al corso di Allievi Ufficiali ho incontrato dei colleghi giovani antifascisti e insieme avevamo persino pensato di scappare in Svizzera, ma ciò significava disertare ed essere fucilati. Eravamo stanchi del fascismo, come tutti».
Cosa ha significato per lei la resistenza?
«Per me la Resistenza ha significato l´ingresso nella vita politica. Per la prima volta ho potuto far politica sul serio, sapendo cosa facevo e scegliendo per conto mio la libertà».
Molti partigiani hanno vissuto il dopoguerra come un tradimento della resistenza. Fu cosi anche per lei?
«Semplicemente c´è stato un chiarimento: si è capito che la maggior parte degli italiani non erano pronti a fare gli antifascisti. Erano semmai pronti ad obbedire ad un nuovo padrone».
In questi ultimi anni assistiamo a un revisionismo storico riguardo a ciò che è stata la Resistenza partigiana. Crede sia colpa della classe politica o di una parte del popolo italiano?
«La revisione è un fenomeno tipico della cultura italiana: gli italiani rompono sempre le bambole che hanno fabbricato. Tutte le cose buone che vengono fatte in questo paese vengono criticate e distrutte»
Lei ritiene che oggigiorno abbia ancora senso definirsi antifascisti?
«Io penso di sì perché la tendenza di una buona parte dell´opinione pubblica italiana è di essere fascista senza saperlo».
Quindi che cosa significa oggi essere antifascista? Cioè cosa può fare in concreto un antifascista?
«L´antifascista deve pretendere che i diritti civili siano rispettati, pretendere che la libertà di stampa esista, pretendere che la libertà di parola e di voto esita, insomma difendere tutti quei diritti che devono essere garantiti in una democrazia. Un antifascista deve impegnarsi a difendere la democrazia in prima persona. Siccome questi diritti vengono violati continuamente, e la gente non se ne accorge, come la libertà di stampa, bisogna vigilare sempre».
(Il testo completo di quest´intervista a Giorgio Bocca, a cura di Ilo Steffenoni e Francesco Fontanive è stato pubblicato nel marzo 2010 sulla rivista studentesca di Verona "Il Superstite")

il Fatto 28.12.11
“Medici, specializzati e precari, così la regione ci sfrutta”
In scadenza 250 contratti in un grande ospedale romano
di Roberta Zunini


Immaginate di dover essere operati al cervello da precari che nell'ultimo mese abbiano guadagnato 550 euro e che tra qualche giorno perderanno anche il contratto co.co.co con cui lavorano da anni nel reparto più rischioso di uno degli ospedali più importanti d'Italia. Immaginate di dover andare in un ospedale dove buona parte dei medici che vi curano siano costretti a lavorare con contratti rinnovati di sei mesi in sei mesi o al massimo a un anno, lontani da qualsiasi forma di stabilizzazione, costretti a pietire proroghe su proroghe. Immaginate che una delle più grandi realtà ospedaliere del Paese e di Roma abbia in molti reparti un'altissima percentuale di personale medico in stato di precarietà assoluta e, siccome quest'anno le scadenze dei contratti non sono scaglionate, ci sia il rischio di non avere medici a sufficienza nei dipartimenti di emergenza. “Non voglio rivelare il mio cognome nè il nome del nosocomio, tra l'altro ce ne sono tanti in queste condizioni, perché spero mi rinnovino il contratto che il 31 scadrà dice Giovanna, medico anestesista ma non possiamo continuare a lavorare a queste condizioni in silenzio. Almeno vogliamo che l'opinione pubblica se ne renda conto”.
Trentacinque anni, precaria da sempre, l'anestesista che la settimana scorsa andò a Servizio Pubblico per denunciare la fine della “precaria stabilità” di 250 medici del suo ospedale, ci spiega che non si è ancora mosso nulla. Finora non è arrivata la tanto attesa proroga. “La Regione non ci ha mandato alcun avviso di rinnovo e, considerato che ormai mancano solo quattro giorni alla scadenza, questa volta credo proprio rimarremo disoccupati senza appello mentre l'ospedale potrebbe trovarsi senza personale, per giunta nei reparti di urgenza”.
È LOGORANTE aspettare mesi per il rinnovo e nel frattempo continuare a lavorare con serenità. “Abbiamo tutti i doveri ma nessun diritto e dobbiamo assumerci tutti i rischi della professione in un Dea per giunta di secondo livello”. I Dea dipartimenti di emergenza e accettazione di secondo livello posseggono apparecchiature sofisticate e personale altamente specializzato, pertanto hanno un maggior bacino d'utenza e accolgono anche i pazienti più gravi smistati da altri ospedali. “Tra l'altro per i precari come me è ancora più fondamentale avere un'assicurazione contro i rischi del mestiere. Ogni anno sborso la bellezza di 2500 euro, non ci sono sconti per noi che guadagniamo molto meno degli assunti. L'anno scorso ero di turno a Capodanno con una collega assunta: lei alla fine del mese ha guadagnato circa 3mila euro, più la tredicesima, io 1200 euro”.
Il contratto da co.co.co non solo non prevede ferie, tredicesima, scatti di anzianità, maternità e tutti gli altri diritti del contratto a tempo indeterminato e in parte anche determinato ma “se dovessero indire un concorso pubblico l'ultimo è stato circa 10 anni fa chi come me ha lavorato sempre con il co.co.co sarebbe equiparato a un medico che ha appena fatto la specializzazione e dunque con pochissima esperienza. Oltre il danno anche la beffa”. Se questi medici sono precari, non significa che non lavorino. Tutto si può dire ma non che non abbiano maturato un'esperienza sul campo. “Nel reparto siamo 9 quando dovremmo essere 17 e tra poco, se non rinnoveranno i contratti a tempo determinato e i co.co.co, rimarranno 5 medici. Abbiamo due turni di guardia da 12 ore: dalle 8 alle 20 e dalle 20 alle 8 del mattino, in media facciamo due notti a settimana. Se lavoriamo più delle 38 ore mensili previste dal contratto, e accade praticamente sempre, non abbiamo dirittto agli straordinari. Ma la cosa ancora più incredibile è che se ci rifiutiamo di lavorare possiamo essere denunciati per interruzione di pubblico servizio. Evenienza che si viene a creare anche quando veniamo inseriti nei turni di guardia nonostante il nostro contratto sia già scaduto”. Giovanna guadagna in media 2000 euro netti al mese ma a novembre ha percepito 550 euro. “Mi sono state già decurtate le addizionali per il 2012 e il conguaglio fiscale perché il sistema informatico ha percepito l'interruzione del contratto. È pazzesco: non avrò il lavoro e quindi i soldi per mangiare e per l'affitto ma le tasse, proprio per questo, mi vengono fatte pagare in anticipo. Non posso che constatare che la Regione e lo Stato mi vogliono strangolare”.

Corriere della Sera 28.12.11
La carica dei dipendenti di Roma. Sono 62 mila e crescono ancora
Tra Comune e municipalizzate, la Capitale supera Enel o Finmeccanica
di Sergio Rizzo


ROMA — C'è un'azienda locale che quanto a occupati se la gioca con le più grandi imprese nazionali pubbliche e private. È il Comune di Roma. Dall'alto dei suoi 62 mila dipendenti (stima per difetto), non teme confronti con colossi bancari del calibro di Intesa San Paolo, che ne occupa 70 mila entro i confini nazionali, e arriva a guardare dall'alto perfino la Finmeccanica, che tocca i 45 mila. Per non parlare dell'Enel. I 37.383 dipendenti che il gruppo elettrico ha in Italia eguagliano il numero di quelli (37 mila secondo una valutazione contenuta nel sito Internet di Roma Capitale) che lavorano nelle società controllate o partecipate dal Campidoglio. Una cifra già di per sé sbalorditiva, ma che va ad aggiungersi ai 25.141 stipendi pagati direttamente dal Comune. Resta il dubbio se a questa cifra si debbano poi sommare le 1.409 persone che nel 2008 risultavano «fuori ruolo»: in tal caso si andrebbe ben oltre il totale di 62 mila. Che è comunque un numero enorme. Per avere un'idea, sono gli abitanti di una città come Viterbo.
Vero è che in base alla pianta organica il solo Comune dovrebbe retribuire oltre 5 mila persone in più. Ma è altrettanto vero che il numero dei dipendenti del Campidoglio, escludendo ovviamente quelli delle società partecipate, risulta nettamente superiore alla media nazionale. Secondo l'Ifel, il centro studi dell'Associazione dei Comuni, in tutta Italia i dipendenti comunali sono 459.591, con una proporzione di 7,59 per ogni mille abitanti. A Roma ce ne sono invece 9,10.
Si potrà ribattere che stiamo parlando della capitale del Paese, con esigenze certamente non paragonabili a quelle dei piccoli centri. E che, per fare il caso di un'altra grande città, i dipendenti del Comune di Milano non sono meno dei romani, in proporzione agli abitanti. Al 30 settembre del 2010 erano 16.097, cioè 12,15 per ogni mille abitanti. Ma con una differenza, in confronto al Campidoglio. Perché in quattro anni i dipendenti comunali di Milano sono diminuiti di quasi 1.500 unità. Mentre a Roma, al contrario, gli organici hanno continuato a gonfiarsi. Soprattutto nelle municipalizzate.
Il Comune di Roma ha 21 partecipazioni dirette in società e altri organismi. Ma il portafoglio è molto più grosso. Perché attraverso le proprie società il Campidoglio detiene altri 140 pacchetti azionari. In una galassia tanto vasta c'è posto per tutto. Perfino per una compagnia assicurativa: la Adir, Assicurazioni di Roma. Caso unico in tutta Italia, dove anche lo Stato ha abbandonato questo settore da un bel pezzo.
E poteva allora mancare una società costituita appositamente per capire quello che succede nelle municipalizzate? È stata creata nel 2005 (sindaco Walter Veltroni) con il compito di analizzare i documenti e i programmi aziendali. Ragion per cui al suo amministratore Pasquale Formica, già capo dello staff dell'ex assessore al Bilancio Maurizio Leo, difficilmente può essere sfuggito quanto accaduto in questi ultimi anni. Da quando si è insediata l'amministrazione guidata da Gianni Alemanno le assunzioni sono andate avanti a passo di carica. Le cronache dei giornali si sono a lungo soffermate sulla «parentopoli», com'è stata battezzata la stagione che ha visto approdare nelle società della Capitale stuoli di congiunti, amici o colleghi di politici e sindacalisti. Senza che però sia mai stata fatta realmente chiarezza sulle dimensioni di un fenomeno, di cui quella «parentopoli» era solo l'aspetto più patologico, che ha distinto negli anni della crisi il Comune di Roma come l'unica grande azienda italiana che assumeva a quei ritmi. Altro che blocco del turnover nel pubblico impiego: porte sbarrate (o quasi) nei ministeri, porte spalancate nelle società per azioni comunali.
Si può calcolare che il personale delle aziende che fanno comunque capo al Campidoglio sia cresciuto dal 2008 al 2010 di almeno 3.500 unità. Alla fine dello scorso anno l'Atac aveva 12.817 dipendenti: numero paragonabile a quello dell'Alitalia. Rispetto a due anni prima ce n'erano 684 in più, e a dispetto di una situazione economica da far accapponare la pelle. Dal bilancio consolidato 2010 emergeva chiaramente un buco dell'ordine di grandezza di un miliardo di euro. A 701 milioni di perdite «portate a nuovo», cioè accumulate negli anni precedenti e mai ripianate, si sommava una perdita d'esercizio di 319 milioni. E questo a fronte di un capitale sociale di 300 milioni.
I dipendenti dell'Ama, l'azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti, erano invece 7.840. In due anni l'incremento è stato del 24%: fra il 2008 e il 2010 gli organici sono aumentati di 1.518 unità. Nel bilancio dello scorso anno figuravano crediti verso utenti e aziende per la tassa sui rifiuti non pagata per la bellezza di 743 milioni di euro: poi svalutati a «soli» 436 milioni. I debiti con le banche toccavano 620 milioni, che per un'azienda che non si occupa dello smaltimento finale e non ha quindi il problema degli investimenti relativi non è certamente uno scherzo. Sempre al 31 dicembre del 2010 i dipendenti della Roma Multiservizi, quasi tutti operai precari, erano diventati 3.683, ovvero 68 in più del 2008. È una società che ha in appalto alcuni servizi particolari, come la pulizia delle scuole. Il Comune di Roma ne controllava attraverso l'Ama il 36%, in società con due soggetti privati. Si tratta della Manutencoop (Lega delle cooperative) e della Veneta, ciascuna titolare del 32%. Ma secondo il sito della società, consultato ieri, la quota del Campidoglio sarebbe ora salita al 51%.
I posti di lavoro sono aumentati anche all'Acea, l'azienda dell'elettricità e dell'acqua, l'unica quotata in Borsa e ancora controllata dal Comune di Roma. Alla fine del 2010 erano 435 in più a confronto con il 2008. La società amministrata da Marco Staderini, ex presidente dell'Inpdap stimatissimo dal leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini, paga 6.822 stipendi. Non tutti in Italia. Qualcuno a Santo Domingo, dove ha sede l'Acea Dominicana, qualche altro in Colombia, dove si trova il quartier generale di Aguazul Bogotà... Anche se il motivo per cui una municipalizzata controllata dal Comune di Roma debba andare a investire dall'altra parte dell'Oceano Atlantico continua a rimanere uno dei più grandi misteri del nostro tempo. Del resto, anche l'Ama non aveva forse tentato l'avventura internazionale, andando incontro a una disfatta in Senegal, dove la raccolta dei rifiuti nella capitale Dakar è costata svariati milioni ai contribuenti romani?
Soltanto considerando le tre principali aziende del Comune, Atac, Ama e Acea, si totalizzano 27.479 posti di lavoro: 2.637 in più rispetto al dicembre del 2008. La crescita è del 10,6%. Nessuna società, però, ha battuto il record inarrivabile di Risorse per Roma. È l'«advisor», testuale dal sito Internet aziendale, «dell'amministrazione capitolina nelle attività di supporto per la realizzazione dei progetti di pianificazione territoriale urbanistica, rigenerazione urbana e valorizzazione immobiliare, promozione dello sviluppo locale e marketing territoriale...». Ebbene, per svolgere questa missione cruciale ha a libro paga 565 persone. Ben 338 (il 148,9%) più di quante ne avesse nel 2008, quando i dipendenti erano 227.

l’Unità 28.12.11
«Liberazione» a rischio: da gennaio addio «carta» e tutti a casa i lavoratori


Si è rotta la trattativa fra il comitato di redazione del quotidiano Liberazione e la Mrc, società editrice del giornale di Rifondazione Comunista. La proprietà non recede dall’intenzione di partenza: chiudere l’edizione cartacea dal 1 gennaio. Non ha accettato alcuna mediazione, né soluzione «ponte» per non sparire dalle edicole, fino alla ridefinizione del fondo per l’editoria.
«L’azienda ha violato le più elementari regole di un civile confronto fra le parti, presentandosi al tavolo con una posizione precostituita, intransigente e inaccettabile: chiusura dell’edizione cartacea dal primo gennaio, cassa integrazione a zero ore per tutti i lavoratori, giornalisti e poligrafici, passaggio all’online ma senza un progetto definito e con un numero insufficiente di addetti», ha denunciato l’Associazione stampa romana, parlando della «miope arroganza e l’insipienza aziendale di chi, da funzionario di partito, prova a inventarsi editore senza averne la stoffa ne la capacità»; un micidiale mix che peggiora i «guasti causati dagli ultimi governi». I giornalisti sono in assemblea, la proprietà va avanti unilateralmente nel suo progetto: mantenere l’online con due giornalisti, un direttore e un poligrafico. La Federazione nazionale della stampa italiana è dura: «La decisione di chiudere la pubblicazione di Liberazione da parte dell’editore suona come una ingiusta condanna a morte». Una decisione, stigmatizza la Fnsi, che non trova giustificazione neanche nella più grigia e cupa decisione dei tagli dei fondi all’editoria. È la scusa della proprietà Mrc: «Il governo ci tappa la bocca».

La Stampa 28.12.11
Un omicidio al mese. Londra sconvolta dalle gang di teenager
Seydou, 18 anni, ucciso per un paio di scarpe: 11 arresti
di Andrea Malaguti


A Oxford Street Seydou Diarrassouba 18 anni è stato ucciso con una coltellata al cuore in un negozio di Foot Locker vicino all’uscita della metropolitana di Bond Street, dove sono stati trovati cinque coltelli Gli arrestati hanno tra i 16 e i 19 anni

Omicidio a Oxford Street. Il diciottenne Seydou Diarrassouba, da Mitcham, quartiere della periferia Sud della capitale, è morto confuso tra migliaia di persone nell’ombelico di Londra, di fianco all’uscita della metropolitana di Bond Street, a meno di cinquecento metri dall’incrocio tra Regent e Oxford, nel giorno più affollato dell’anno, il 26 dicembre. Gli inglesi lo chiamano Boxing Day. Se lo prendono libero e vanno a fare compere, in teoria per regalare qualcosa ai più poveri. Era questo il senso originario della festa. La Premier League gioca tradizionalmente una giornata del campionato e nel Surrey, all’ippodromo di Kempton Park, si disputa il King George VI Chases. Saturnali britannici. Pallone e cavalli. Un’abbuffata di felicità. I negozi del centro ne approfittano per dare il via ai saldi e abbattono i prezzi fino al 60%. I turisti cinesi sono i primi a precipitarsi nei grandi magazzini. Poi arrivano gli italiani, i giapponesi, gli arabi, i russi e alla fine i londinesi, in questo angolo del pianeta che diventa di tutti. La terra promessa degli acquisti. Niente frontiere, niente passaporti. Solo un fiume straripante di uomini e di soldi. Lunedì, prima che in una lite tra gang ammazzassero il ragazzo di Mitcham per un paio di scarpe, in tre ore di shopping erano stati bruciati quindici milioni di sterline.
Seydou l’hanno accoltellato al cuore all’interno di Foot Locker. I suoi amici, che gli hanno dedicato un’inevitabile pagina su Facebook, dicono che nel suo quartiere «chiunque avrebbe voluto essere come lui. Perché aveva personalità». Era un leader. O, come scrive il suo ex compagno di scuola Yoachim, «un duro». Non abbastanza per evitare che una lama di coltello lo inclinasse come una canna da pesca risucchiata da un pesce troppo grosso e lo facesse precipitare a terra ridotto a uno straccio molle.
A Londra succede una volta al mese. Lo dicono le statistiche del governo. Ogni trenta giorni un teenager viene ucciso con un’arma da taglio. Numeri ufficiali. Le aggressioni con le lame sono aumentate del 18% nel 2011. All’inizio di dicembre ne erano state contate 7231. Ci sono quartieri come Merton, Soutwark, Lambeth o Lewisham, dove l’aumento degli accoltellamenti tra bande è cresciuto tra il 60 e l’85%. Neri, asiatici, pakistani, giamaicani. Un universo fuori controllo.
Seydou Diarrassouba era entrato da Foot Locker con un gruppo di amici. Voleva delle scarpe che non piacevano solo a lui. Così è iniziato un litigio con un altro gruppo che veniva sempre da Londra Sud. Rivali. Gli insulti sono diventati spinte, poi botte. Quindi sono arrivati i coltelli. Una rissa da Far West. C’erano migliaia di persone, ma intervenire era impossibile. Le telecamere hanno ripreso ogni dettaglio e adesso Scotland Yard, che ha arrestato undici ragazzi tra i 16 e i 19 anni, li sta studiando. La scientifica si occupa delle armi. Per terra sono stati trovati cinque coltelli. Uno è quello che ha colpito al petto Seydou, che prima di schiantarsi sul selciato ha fatto tre passi fuori dal negozio. La polizia è intervenuta subito, ma non è stato facile calmare gli amici del ragazzo di Mitcham. Momenti di tensione che hanno ricordato a Scotland Yard la rivolta di agosto. Il fotografo Jules Mattson spiega di avere avuto paura. «C’era una calca assurda. Ho visto i medici che cercavano di rianimare il ragazzo. Poi l’hanno coperto con un telo». L’area è stata isolata e Foot Locker ha chiuso le serrande. Jace Tyrell, che rappresenta i negozi di Oxford Street, con un sorriso sbrigativo che fatica a prendere forma racconta che «anche la Disney ha preferito chiudere». Poi lo shopping è ricominciato come sempre e Seydou è diventato un numero, una statistica, in definitiva il nulla.

Corriere della Sera 28.12.11
Fuga in Germania dei bocciati dalla crisi
Nel 2011 boom di immigrati greci e spagnoli
di P. L.


BERLINO — Fino a oggi l'emigrante greca più famosa in Germania era la cantante Vicky Léandros, venuta qui da Paleokastritsa, nell'isola di Corfù, e protagonista di una lunga carriera che l'ha portata a collaborare tanto con direttori d'orchestra come Herbert von Karajan quanto con la technoband degli Scooter. Un altro greco, meno noto, era una delle nove vittime della cellula neonazista che si è macchiata, nella colpevole indifferenza delle forze dell'ordine, di una serie di terribili delitti contro cittadini stranieri, soprattutto turchi, passati alla storia come gli «omicidi del kebab». Ma sentire parlare la lingua di Kostas Charitos, il commissario creato dalla penna dello scrittore Petros Márkaris, sarà sempre meno strano, in Germania, se è vero che nel primo semestre del 2011 l'immigrazione dalla Grecia è aumentata dall'84 per cento.
Una vera e propria fuga dalla crisi, verso un Paese che è stato certamente critico nei confronti delle politiche economiche decise ad Atene e che ha definito i greci dei pericolosi spendaccioni, ma dove la disoccupazione si attesta solo sul 6,5 per cento e dove non mancano le opportunità di un rapido inserimento nel mercato nel lavoro. La Germania, insomma, attira gli stranieri, soprattutto quegli europei che vivono situazioni di disagio o che rischiano di pagare le conseguenze di scelte disastrose dei loro governi. Lo dimostra anche il fatto che l'immigrazione da un altro membro del club europeo che si trova in cattive acque, la Spagna (e che rischia di non uscirne tanto presto, guidata da un governo che ha abolito il ministero della Cultura) è cresciuta nello stesso periodo del 49 per cento. Tra l'altro, nel pacchetto di misure economiche e fiscali annunciato qualche settimana fa dal governo guidato da Angela Merkel (che comprendeva una limitata riduzione delle imposte) sono contenuti anche provvedimenti per incentivare l'arrivo dall'estero di personale qualificato.
Il caso greco-spagnolo, che fa notizia proprio per il ruolo che questi due Paesi hanno svolto nella crisi dell'euro, è comunque uno degli aspetti di un fenomeno più ampio che non va trascurato. La Germania è ormai un Paese solidamente multietnico, in cui vivono 2,7 milioni di turchi e che ha fatto passi da gigante nella difficile strada dell'integrazione. A ricordarcelo non ci sono solo le star della Nazionale di calcio, dal turco Mesut Özil al tunisino Sami Kedhira. Nel governo federale (si pensi al ministro dell'Economia Philipp Rösler, liberale, nato in Vietnam e adottato da una coppia tedesca), nel gruppo dirigente dei partiti (il co-presidente dei Verdi, Cem Özdemir, è figlio di una famiglia turca), nell'amministrazione dei Länder (a Berlino il sindaco Klaus Wowereit ha affidato la responsabilità di Lavoro, Integrazione e Politiche per le donne a Dilek Kolat, nata in Turchia) i tedeschi «con radici straniere», come si dice qui, si sono fatti largo arrivando a posizioni di vertice. Certo, questo non vuol dire che la situazione vada dipinta in termini esclusivamente positivi. Non sono un caso, per esempio, le parole preoccupate, e spesso lontane nei toni e nei contenuti, pronunciate dalla Merkel e dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan in novembre per il cinquantesimo anniversario dell'accordo bilaterale che aprì la strada all'arrivo della prima grande ondata di lavoratori turchi in Germania.
Ma nelle valutazioni di questo grande nodo epocale che è il problema dell'immigrazione nei Paesi «ricchi», quello che conta sono anche le differenze. Per esempio, secondo un sondaggio della Fondazione Genshagen e dell'Institut Montaigne, citato anche da Le Monde, anche se il 43 per cento degli interpellati in Germania e Francia ha un'opinione negativa sull'integrazione degli immigrati nei rispettivi Paesi, ben il 42 per cento dei tedeschi esprime invece su questo tema un giudizio positivo. I «favorevoli» francesi sono solo il 4 per cento.
Sono numeri, questi, che vanno valutati con attenzione. La vera posta in gioco (e il compito della politica) consiste nell'evitare che in quel 43 per cento di persone convinte che l'integrazione non abbia dato risultati positivi crescano atteggiamenti aggressivi o radicalismi legati al sentimento di esclusione. Una voce molto pessimista, in questo quadro, è quella del direttore dell'Istituto di ricerca sul conflitto e la violenza dell'Università di Bielefeld, Wilhelm Heitmeyer, che denuncia la crescente ostilità contro gli stranieri in una parte della società tedesca. Il discorso di Heitmeyer si lega al problema della presenza sempre più attiva, soprattutto nelle zone più povere del Paese, dei gruppi neonazisti. Una minaccia, questa, che lo stesso presidente Christian Wulff, nel discorso televisivo di Natale, ha voluto ricordare, ammonendo che in Germania non c'è posto per «xenofobia, violenza, ed estremismo politico».

La Stampa 28.12.11
Grecia
Le vittime collaterali: raddoppiano i suicidi
Un’epidemia fra i licenziati e gli imprenditori falliti
5,5 su 100 mila, è il tasso annuo di suicidi per numero di abitanti della Grecia. Tre anni fa era di soli 2,8
di Luigi Grassia

I disastri causati dalle crisi economiche non si misurano solo con i bilanci in rosso e con i soldi perduti dalle persone, dalle aziende e dagli Stati. Il computo dei morti e dei feriti comprende anche migliaia di casi di depressione psicologica, alcolismo, famiglie distrutte, disordini mentali, e anche suicidi, a seguito di perdita del posto di lavoro, fallimento d’impresa o un altro peggioramento traumatico delle prospettive di vita. Il suicidio, in prima battuta, sembra l’atto più individuale che ci sia; ma se in un anno di recessione economica in Grecia il tasso di suicidi è aumentato del 40% (il 40% in un solo anno!) è difficile negare che ci sia una relazione fra i due fenomeni, per quanto impossibile sia esaminare uno per uno i singoli casi e dire con certezza che sì, quella determinata persona si è tolta la vita per cause economiche e non per altro. Le vicende individuali si possono discutere all’infinito senza arrivare mai a conclusioni, ma i numeri aggregati, nella loro tragica freddezza, non ingannano.
La Grecia storicamente è stata fra i Paesi più felici d’Europa. Come si fa a misurare la felicità? Ovviamente non si può, a voler essere rigorosi, però gli scienziati sociali quando c’è da misurare qualcosa che di per sé non è misurabile sono abituati ad avvicinarsi all’obiettivo conteggiando alcuni indicatori correlati; nel caso della felicità, uno di questi indicatori è il tasso dei suicidi, che (appunto) nell’Ellade è sempre stato molto basso. Tre anni fa era di 2,8 casi all’anno ogni centomila abitanti. Ed è basso persino oggi, nella media europea, ma purtroppo in tre anni è raddoppiato a circa 5,5. Sarà un puro caso, una mera fluttuazione statistica? Non ci crederebbe nessuno.
Dice la psichiatra Eleni Beikari, responsabile in Grecia di un centralino di aiuto (Klimaka) che risponde 24 ore su 24: «Non è mai una causa singola a scatenare pensieri suicidi, ma quasi sempre le persone che ci telefonano e dicono che stanno pensando di togliersi la vita parlano di debiti o di lavoro che manca o che si teme di perdere». Klimaka prima della crisi riceveva in media 10 richieste telefoniche di aiuto al giorno, adesso il numero è decuplicato a cento.
A uccidersi o a tentare di farlo sono tanto i lavoratori disoccupati quanto gli imprenditori che non riescono a pagare i debiti. Quasi ci fosse una dolorosa equità nella distribuzione dei sacrifici.

l’Unità 28.12.11
Il crollo dell’Urss era inevitabile?
di Bruno Gravagnuolo


Il 25 dicembre 1991 la bandiera rossa dell’Urss veniva ammainata e sostituita da quella russa. Alle 19,30 in punto. E l’Unione Sovietica cesserà di esistere il 31 dicembre. Due decenni fa, la grande implosione. Decisiva per la geopolitica mondiale. Una data persino più importante del fatidico 1989, anno del crollo del Muro di Berlino. Distratti i giornali nell’anniversario. Salvo due commenti. Uno, orrorifico e funereamente pirotecnico di Enzo Bettiza su La Stampa («Non poteva che finire così, Gorbaciov era solo un inutile ectoplasma»). L’altro di Gianni Cervetti sul Riformista, che distingue tra crisi del Pcus e crisi dell’Urss, rilevando sfasature temporali e istituzionali tra le due.
Ma non è vero che l’epilogo era scontato. Né si può distinguere tra crollo del Pcus e crollo dell’Urss. Infatti, il destino fu in bilico fino al 19 agosto 1991, giorno in cui fu messo in atto il golpe fallito. E in ballo c’era il Trattato dell’Unione: una nuova struttura federale. Con esercito, giustizia, moneta e politica estera in comune. E il «russo» come lingua «veicolare». Le Repubbliche Baltiche erano già perse. E solo 7 repubbliche volevano firmare su 15. Gorbaciov sperò di arrivare almeno a 12, fino all’ultimo. Ma commette l’errore di promettere ai congiurati anche gorbacioviani misure speciali in caso di mancata firma del trattato. Era seduto su un vulcano: le nazionalità in rivolta, eccitate da mercato e indipendentismo. Con il golpe, salta il patto inter-etnico, zarista e bolscevico. E vince la Disunione sovietica, prima liberista poi fatta di satrapi e boiari di stato. Con gli ex burocrati che diventano capitalisti privati. Sbagliò Gorbaciov a non combattere in tempo dentro il Pcus, i centralisti nostalgici, e i liberisti autoritari alla Eltsin. Infatti, fallito il golpe, il Pcus è dichiarato illegale e l’Urss si polverizza con esso. Polverizzando anche Gorbaciov, gigante inerme e generoso.

Repubblica 28.12.11
Israele, in piazza contro la segregazione delle donne

Migliaia di israeliani laici e religiosi moderati sono confluiti a Beit Shemesh (fra Tel Aviv e Gerusalemme) per dimostrare contro una serie di misure che rabbini estremisti cercano di imporre nell'intento di limitare la presenza femminile in diversi rioni della città.  In piazza anche il leader dell'opposizione Tsipi Livni: "E' una battaglia per tutto il paese e non solo per l'esclusione delle donne ma una manifestazione contro tutti gli estremisti che cercano di imporre la propria visione del mondo''
UN VIDEO QUI

l’Unità 28.12.11
Corteo a sostegno di una bimba oltraggiata dagli ebrei ultraortodossi
L’appello del presidente Peres: «Mobilitiamoci contro gli intolleranti»
Israele, in migliaia in piazza «Siamo con te, piccola Naama»
L’Israele che non vuole trasformarsi nel regno della segregazione è sceso in strada a fianco della piccola Naama, la bambina insultata e presa a sputi da zeloti ultraortodossi. «Non vogliamo essere come l’Iran».
di U.D.G.


Migliaia in corteo. A fianco della piccola Naamà. Per dire basta alla violenza degli ultraortodossi. Migliaia di israeliani si sono riuniti a Beit Shemesh, cittadina fuori Gerusalemme, per manifestare contro una setta ebraica radicale che sta cercando di imporre il suo rigido stile di vita agli altri. La cittadina è stata al centro dell'attenzione nazionale da quando una bambina di otto anni la scorsa settimana ha detto in tv di essere troppo spaventata per andare a scuola, perché gli appartenenti alla setta ultra-ortodossa le sputano addosso e la maledicono.
Con un gesto di sfida molto insolito, il capo dello Stato israeliano Shimon Peres ha sollecitato la popolazione a partecipare alla manifestazione indetta a Beit Shemesh (fra Tel Aviv e Gerusalemme) per protestare contro i soprusi imposti alle donne da ambienti rabbinici estremisti locali. «Costoro ha detto Peres non sono i padroni di questa terra. Nessuno ha il diritto di colpire o di minacciare alcuna bambina o alcuna donna». «Noi combattiamo oggi ha proseguito Peres per lo spirito di questa nazione, per il carattere dello Stato. Tutti devono mobilitarsi per salvare la maggioranza dalle grinfie di una minoranza esigua, che graffia quanto a noi sta più caro».
A rispondere all’appello sono stati più di diecimila cittadini. I dimostranti portavano cartelli con le scritte: «Liberiamo Israele dalla coercizione religiosa» e «Impediamo che Israele diventi come l’Iran». Il caso di Naama è particolarmente sconvolgente perché si tratta di una bambina che frequenta una scuola religiosa e indossa gonne e maglie a maniche lunghe. «La polizia israeliana intraprende e intraprenderà azioni per arrestare e fermare chi sputa, molesta o alza un dito», ha dichiarato nei giorni scorsi il primo ministro Benjamin Netanyahu. «Non c'è spazio per cose del genere in uno Stato libero e democratico», ha aggiunto. Gli abusi e la segregazione delle donne non sono una novità e i critici accusano l’esecutivo di chiudere un occhio, visto che due partiti ultraortodossi fanno parte della coalizione di governo. Le comunità ultraortodosse, che costituiscono il 10% della popolazione dello Stato ebraico, ricevono sussidi statali e la polizia raramente entra nelle zone abitate da estremisti.
LA STORIA DELLA BAMBINA
«Mi hanno dato della svergognata, della spudorata... Mi hanno perfino sputato addosso». La magrolina Naama Margolis, otto anni non ancora compiuti, protetta da occhialetti da miope, davanti alle telecamere confessa di avere paura anche a percorrere i 300 metri che separano la sua abitazione a Beit Shemesh dalla scuola. Perchè lungo il percorso la attendono al varco i temibili «Sikarikim»: gli autoproclamati «guardiani della modestia» che hanno stabilito che la famiglia Margolis che pure mantiene uno stile di vita religioso rappresenta un affronto al pubblico pudore. Due minuti al telegiornale della tv commerciale Canale 2 sono bastati alla piccola Naamà a fare da fiammifero per la «polveriera» Beit Shemesh. Già da tempo ma non si sapeva a Beit Shemesh sono stati istituiti marciapiedi separati per sessi, per impedire che donne passino accanto alle sinagoghe degli estremisti. Già da tempo ma non si sapeva rabbini estremisti della città hanno impartito ordini espliciti affinchè le donne non si attardino per strada più del tempo dovuto per le incombenze familiari, e che non facciano capannello agli ingressi della case. Probabilmente, non c'è in Israele alcun'altra località dove rabbini massimalisti siano in grado in questa misura di imporre il loro volere. Questa settimana, la breve apparizione televisiva di Naama ha fatto esplodere la situazione. Scatenando l’indignazione dei tanti che in Israele non vogliono soggiacere alla dittatura dei zeloti.

La Stampa 28.12.11
La solidarietà del presidente Peres
Israele, laici in corteo contro la repubblica degli ultraortodossi
I rabbini di Beit Shemesh pretendono che le donne siano coperte e segregate
di Aldo Baquis


TEL AVIV. Israele non vuole diventare un Iran: questo il messaggio declamato ieri da migliaia di dimostranti laici convenuti a Beit Shemesh, cittadina a metà strada fra l’esuberante Tel Aviv e la moralistica Gerusalemme, nel tentativo di soffocare sul nascere l’embrione di una entità rabbinica totalitaria che sta prendendo forma in alcuni rioni. «Dobbiamo difendere il carattere del Paese ha detto il Capo dello Stato Shimon Peres, riferendosi agli zeloti di quella città -. Non sono i padroni di questa terra. Dobbiamo mobilitarci per difenderci dalle grinfie di una minoranza che vorrebbe lacerare quanto ci è più caro».
In passato Beit Shemesh aveva divertito gli israeliani per gli eccessi bizzarri di un manipolo di donne ultra-ortodosse (le «talebane») che per pudore si ammantano di scialli dalla testa ai piedi per dissimulare le forme del corpo. Nell’embrione di questa repubblica rabbinica le donne dovrebbero scomparire quasi del tutto. Vietato loro passare in prossimità di sinagoghe. Certi marciapiedi sono a loro preclusi, sugli altri possono transitare veloci, senza indugiare.
Donne ribelli vengono ruvidamente redarguite dai Sikarikim, i «custodi della modestia», bruschi guardiani della morale rabbinica che si ispirano agli zeloti di duemila anni fa. La settimana scorsa Israele si è indignato quando ha appreso che con sputi e parole offensive i Sikarikim avevano attaccato perfino una bambina «scostumata», di nemmeno otto anni. Secondo loro la sua famiglia che pure mantiene uno stile di vita religioso rappresentava un affronto al pubblico pudore.
«Siamo in guerra» ha ammesso ieri l’ideologo delle «talebane», il rabbino Aharon Zvi Rumpler. In guerra contro l’Israele laico, «emissione del Maligno», che lotta contro i timorati «come gli ellenizzanti» che profanarono il Tempio di Gerusalemme 2.200 anni fa. Nelle vene del rabbino Rumpler il sangue ribolle ancora. «Bet Shemesh assicura sarà la prima linea contro la dissolutezza».
Vicina ad altri popolosi agglomerati ortodossi, l’enclave rabbinica di Beit Shemesh rischia di fare scuola. Un pericolo che ormai allarma i maggiori partiti e il novantenne Peres che, con la grinta di sempre, ha esortato i laici a mobilitarsi. Gli zeloti, ha promesso, «non passeranno».

Repubblica 28.12.11
Israele, migliaia contro gli ultrà religiosi "No alla segregazione delle donne"
L’appello di Peres: "Salviamo l´anima della nazione"
di Rosalba Castelletti


BET SHEMESH (Israele) – Arrivano alla spicciolata. Coppie di anziani, famiglie e frotte di ragazzini. Si inerpicano su una collina a passi spediti finché non raggiungono il piazzale antistante la scuola femminile religiosa Orot. Na´ama Margolis, il nuovo simbolo della lotta israeliana contro la segregazione delle donne negli ambienti ultraortodossi, abita solo trecento metri più in là. Ha poco più di sette anni. Venerdì scorso ha raccontato tra le lacrime a una tv israeliana di non volere più andare a scuola per paura degli insulti e degli sputi degli zeloti che giudicano i suoi abitini colorati o le sue maniche corte "immodesti". C´è voluto quel pianto per mobilitare media e politici contro le molestie subite dalle donne non osservanti nei quartieri di Bet Shemesh popolati dagli haredim, ebrei ortodossi, più estremisti. «Salviamo l´anima della nazione. Tutti dobbiamo mobilitarci per liberare la maggioranza dalle grinfie di una minoranza esigua. Non sono loro i padroni» ha detto il presidente israeliano Shimon Peres. E all´appello del premio Nobel per la pace hanno risposto a migliaia. Lo slogan scandito o stampato su magliette e adesivi è sempre lo stesso: "Bet Shemesh non è una città violenta".
A metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, Bet Shemesh sembrerebbe una sonnolenta cittadina di provincia. Lo scenario cambia solo se ci si inoltra su una collinetta nei quartieri chiamati Ramat Bet Shemesh Alef e Bet. Qui donne e uomini camminano su marciapiedi diversi e siedono su lati opposti degli autobus: gli uomini avvolti da lunghi paltò neri e i boccoli – le peot –raccolti dietro le orecchie; le donne con gonne lunghe sin sotto le ginocchia. «Dieci anni fa questi quartieri non esistevano. Hanno cambiato il volto della città. Oggi quasi metà della sua popolazione è costituita da haredim», dice David che è nato qui 55 anni fa. «A irritarli basta davvero poco», aggiunge Richard. «Hanno sputato più volte anche addosso a mia figlia che ha vent´anni. Ma ora ne abbiamo abbastanza».
A inveire contro le donne meno tradizionaliste sono però i rappresentanti di una frangia più estremista degli ultraortodossi: vengono chiamati Sikrikim, dal latino "sicari", come i zeloti che, duemila anni prima sotto l´occupazione romana, brandivano pugnali, "sica", contro gli altri ebrei. Vivono proprio alle spalle della scuola Orot e ascoltano i politici che si succedono sul palco della manifestazione assiepati davanti al portone delle loro abitazioni. Un ragazzo lancia una provocazione. L´atmosfera si riscalda. Ma a evitare tafferugli intervengono le forze speciali della polizia. Solo il giorno prima i Sikrikim avevano preso a sassate gli agenti chiamati a rimuovere i cartelli stradali discriminatori e i giornalisti televisivi giunti a riprendere la scena. Oggi in minoranza sono loro.
Un giovane haredi dal grande cappello nero a falda larga osa comunque avventurarsi tra la folla: «Odiano tutti gli haredim, ma i violenti sono una minoranza nella nostra comunità», commenta. Un altro gruppo si unisce alla manifestazione brandendo cartelloni colorati che recitano: "Non siamo tutti Sikrikim". «Siamo qui – spiega Yehuda Kotkas – perché non crediamo nella violenza e non vogliamo essere assimilati con i violenti. Anzi vogliamo che la polizia intervenga per isolarli». Lo scrittore israeliano Etgar Keret, raggiunto al telefono, è pessimista: «Non cambierà molto. Gli haredim estremisti non vivono secondo la legge, ma secondo la Bibbia. Se sputano o malmenano la gente è perché non temono di venire portati davanti alla giustizia. E la colpa è del nostro debole governo che condanna la violenza solo a parole senza mai perseguirla».

il Riformista 28.12.11
Peres guida la protesta in nome di Na’ama
Segregazione sessuale. Il presidente vuole «l’intera nazione» in piazza contro l’estremismo, dopo il caso della bambina entrata nel mirino degli ultra-ortodossi per i suoi vestiti «poco modesti».
di Luigi Spinola


Si sono presentati a    migliaia ieri sera davanti alla scuola elementare religiosa per sole bambine di Beit Shemesh, diventata negli ultimi giorni il fronte più caldo del conflitto identitario isrealiano. Il presidente Shimon Peres si è assunto personalmente la responsabilità del «reclutamento dell’intera nazione». E così la manifestazione lanciata dall’attore Tsviki Levin, che su Facebook aveva aperto un gruppo chiamato «Mille israeliani vanno a Beit Shemesh per proteggere la piccola Na’ama» si è trasformata, nelle parole del Nobel della Pace «in un test per tutti noi, religiosi, laici, tradizionalisti (...) chiamati come un solo uomo a difendere il carattere dello Stato d’Israele contro la minoranza che minaccia la solidarietà nazionale».
In questa cittadina a pochi chilometri di Gerusalemme, la televisione israeliana ha raccontato pochi giorni fa le paure di una bambina di otto anni, Na’ama Margolese, presa di mira dal bullismo di alcuni estremisti ultra-ortodossi perché accusata di scarsa modestia nel vestire.
Il tormento di Na’ama peraltro è condiviso dall’inizio dell’anno da diverse sue compagne di classe e dalle loro famiglie: insultate, a volte prese a sassate o denigrate con escrementi lasciati sulla porta di casa per una manica troppo corta o per aver avuto l’impudenza di camminare sul marciapiede sbagliato, quello riservato agli uomini. Da tre giorni gli stessi uomini, i più agguerriti sono due-trecento, si scontrano con la polizia mandata da Netanyahu a rimuovere i cartelli stradali che regolano la discriminazione tra i generi. E come nel recente assalto di un pugno di coloni a una postazione militare in Cisgiordania, i servitori dello Stato laico vengono definiti “nazisti” dagli zeloti in rivolta.
Beit Shemesh è un microcosmo della più ampia società israeliana, turbata dall’ascesa di una nuova forma di oscuratismo che vuole (anche) instaurare una rigida “segregazione sessuale” nella sfera pubblica. A settembre ad esempio alcuni soldati si erano rifiutati di assistere a cerimonie dove le soldatesse cantavano, dando così il via a un contenzioso tra vertici religiosi e militari. Ieri il capo di Stato Maggiore Benny Gantz (pizzicato a inizio dicembre mentre sul tema scambiava battute maschiliste col ministro della difesa Ehud Barak) ha fatto sapere che l’esercito non intende in alcun modo limitare il canto delle donne durante le cerimonie, né riconoscerà alcuna assenza motivata da “obiezioni di coscienza”.
La storia di Na’ama impone a tutti, come richiesto da Shimon Peres, una chiara assunzione di responsabilità. E il premier Bibi Netanyahu ha annunciato lunedì la linea dura delle autorità in difesa della «democrazia liberale». Ma l’impegno governativo è minato dall’inclusione di due partiti ultra-ortodossi nella maggioranza (i sefarditi di Shas e Giudaismo Unito nella Torah). I “segregazionisti” sono presenti perfino nell’esecutivo, come il vice ministro della sanità Ya’kov Litzman, che tempo fa aveva vietato la presenza di una donna sul palco durante l’assegnazione di onorificenze.
La questione è anche politica. Non a caso il leader di Kadima Tzipi Livni, scagliandosi contro «l’ondata ideologica che vuole imporre alla maggioranza laica una visione del mondo che non ha nulla a che vedere con la tradizione ebraica» accusava fino a poco fa il «silenzio governativo» di «sponsorizzare la lotta per ridefinire l’identità nazionale». E simmetricamente politici e quotidiani ultra-conservatori (come Yated Ne’eman) sospettano che la campagna contro la deriva integralista punti a far saltare l’alleanza di governo.
La complessità della società israeliana (e la sua palude politica, paragonabile alla quella italiana) impedisce eccessive semplificazioni riguardo alla “guerra culturale” in corso. Perché c’è un’anima laica contro un’anima ultrareligiosa, ma anche un conflitto interno alla comunità haredi, la forma più conservatrice dell’ortodossia storicamente avversa al sionismo nella quale si riconosce oggi circa il dieci per cento della popolazione israeliana.
Il quotidiano di sinistra Ha’aretz raccontava ieri che molti haredim residenti a Beit Shemesh si rivolgono in queste ore ai media “laici” affinché aiutino a isolare e combattere l’ala più estremista. E se i rabbini ultra-ortodossi più ascoltati fin qui non sono intervenuti sul caso Na’ama, si fanno invece sentire due gruppi politici “dissidenti”, presenti anche ieri davanti alla scuola Orot.
Tov e Am Shalem sfidano i tradizionali punti di riferimento della comunità (inclusi i partiti al governo) in nome di un diverso modello ultra-ortodosso che sostiene, per esempio, la necessità di lavorare oltre che studiare la Torah. Una raccomandazione suscettibile di riscuotere una certa popolarità anche tra altri laici, visto che la maggioranza della comunità haredi vive grazie ai sussidi statali. E il tasso di natalità delle donne è talmente alto che da qui a dieci anni un israeliano su cinque potrebbe essere un ultraortodosso.

il Riformista 28.12.11
Egitto. La rivolta delle donne
I giudici vietano i test di verginità
di Azzurra Meringolo


Ride Samira, dopo mesi di pianti composti e nascosti mentre portava avanti la sua lotta contro i militari. I soldati l’avevano arrestata insieme ad altre donne mentre manifestava a piazza Tahrir, poi picchiata, torturata con scariche elettriche, accusata di essere una prostituta. E quando lei si era rifiutata di confessare le sue presunte colpe, l’avevano obbligata a sottoporsi a un test di verginità.
Per Samira Ibrahim Mohammed ieri è arrivato il momento della vittoria. A comunicargliela è stato Aly Fekry, giudice a capo della corte amministrativa del Cairo che ha annunciato che «non ci saranno più test di verginità per le donne che verranno arrestate». «Quello che è successo a me è accaduto a centinaia di donne egiziane» aveva detto Samira in un’intervista circolata su YouTube nella quale raccontava per filo e per segno le violenze subite. «In molti mi hanno suggerito di ritirare la denuncia che avevo presentato contro le forze dell’ordine. E ho ricevuto telefonate anonime e minacce. Mi hanno detto che la mia vita sarebbe stata un inferno, ma io sono voluta andare fino in fondo» spiegava nel video la venticinquenne.
La vittoria di Samira arriva due giorni dopo il rilascio di Alaa Abdel Fattah, il blogger attivista che era stato arrestato il 30 ottobre scorso dai militari con l’accusa di aver istigato la violenza di Maspero, dove il 9 ottobre venticinque egiziani avevano perso la vita nel corso di durissimi scontri. L’esercito è accusato da molti di essere il responsabile delle violenze, ma i militari hanno cercato di scaricare la colpa su attivisti che, come Alaa, quella notte hanno girato per il Cairo alla ricerca del ghiaccio necessario per conservare i cadaveri. L’obiettivo di Alaa era chiaro: convincere i familiari delle vittime a chiedere l’autopsia sulla salma dei loro cari per fare luce sui veri responsabili della mattanza.
E dopo la sentenza sul caso Samira e la scarcerazione
di Alaa, oggi i giudici cairoti riprendono il processo nei confronti del deposto presidente Hosni Mubarak e dei suoi due figli, Gamal e Alaa. Dopo tre mesi di assenza dal tribunale, gli imputati saranno accompagnati in aula da venti auto blindate e trenta veicoli militari.
Per difendere il suo assistito, lunedì l’avvocato Yasser Abd El-Razeq ha dichiarato che i violenti scontri di piazza delle scorse settimane provano l’innocenza del vecchio raìs, visto che le armi con le quali sono stati uccisi i manifestanti in questi ultimi scontri sono le stesse utilizzate contro gli attivisti scesi in strada a gennaio. Secondo El-Razeq, questa sarebbe la prova di una cospirazione portata avanti da fazioni islamiste che hanno relazioni con i libanesi di Hezbollah, i palestinesi di Hamas e i Fratelli Musulmani egiziani che lo scorso gennaio avrebbero rubato armi della polizia per sparare sui manifestanti facendo ricadere la colpa sul vecchio regime.
A parlare di un’altra teoria cospirativa sono proprio i Fratelli Musulmani, che puntano il dito contro tre membri del movimento dei socialisti rivoluzionari, accusati di istigare i manifestanti scesi ultimamente a piazza Tahrir a occupare e bruciare gli edifici che ospitano le sedi del governo egiziano, rischiando di far crollare il Paese nel caos più totale.
E per uscire dal muro contro muro tra militari e manifestanti sono intervenuti anche Alaa al Aswani, intellettuale ed autore del best seller “Palazzo Yacoubian”, e Georges Ishaq, fondatore di Kifaya, il movimento che già dal 2004 aveva organizzato manifestazioni contro il regime di Mubarak. I due sono tra i firmatari di una petizione con la quale si chiede all’esercito di anticipare le elezioni presidenziali previste a giugno per porre fine al periodo di transizione gestito dai militari e trasferire il potere a istituzioni civili. La data proposta è il 25 gennaio 2012, primo anniversario della rivoluzione.

Corriere della Sera 28.12.11
La mia gente di Siria resisterà al martirio
Solidarietà, coraggio e ironia, le armi segrete della mia gente
d Khaled Khalifa


Entrata nel suo decimo mese e in seguito a decine di migliaia di martiri (seimila secondo alcune organizzazioni di diritti umani) e decine di migliaia di feriti e arrestati, la rivoluzione siriana è giunta alla certezza di essere orfana.
La rivoluzione siriana deve abituarsi a contare soltanto sul coraggio di questo popolo, che ha intravisto nella rivoluzione l'occasione vera per scoprire se stesso, la propria identità e le sue energie nascoste.
Questa rivoluzione è stata anche un'occasione per riproporre domande a lungo ignorate sulla società siriana, dalla questione delle minoranze alle diversità culturali, religiose ed etniche che l'hanno caratterizzata da millenni. Questi interrogativi non avrebbero mai rappresentato un nodo problematico da affrontare, come non lo sono mai stati in passato, se non ci fosse stato il ruolo nefasto del regime che ha sfruttato questi temi, mettendo in pericolo una convivenza pacifica millenaria. Questo deludente atteggiamento del regime ha connotato la scena siriana di uno strano surrealismo.
L'osservatore esterno ha la sensazione di rileggere un lungo e ripetitivo romanzo nel quale si ripropongono le stesse meccaniche e stolte scene e azioni del regime. Dall'altra parte, invece, troviamo i thuwar (i rivoluzionari, ndr) comporre le parti più luminose, con canzoni e balli presi a prestito dalla ricca tradizione siriana. Il popolo siriano ha alimentato questa rivoluzione con un fiume di sangue versato da stormi quotidiani di caduti, tra i migliori figli della Siria, e continua a pagare questo altissimo prezzo, dopo aver atteso inutilmente un soccorso internazionale.
Questa rivoluzione è iniziata a metà marzo, dopo l'arresto e la tortura di 15 ragazzi, e non passa un giorno che non vi siano altri ragazzi e bambini vittime degli agenti dei servizi di sicurezza e dei soldati, che hanno usato pallottole militari e non hanno lesinato nulla del loro armamentario repressivo. Ma la rivoluzione non è stata fermata; è giunta nel cuore delle grandi città come la capitale Damasco e Aleppo e ha toccato l'80% dei villaggi e cittadine siriane. Si è estesa orizzontalmente (geograficamente, ndt) e verticalmente (negli strati sociali, ndt), malgrado gli spaventosi assedi di città come Deraa, Idlib e Homs che hanno subito repressioni, uccisioni e distruzioni.
Paradossalmente la città di Homs, il cuore vibrante della rivoluzione siriana, è anche — da secoli — la capitale dell'ironia e della facile battuta sarcastica e pungente. Questa è una delle armi che hanno alimentato la capacità di resistenza, mobilitando nuove energie; siamo coscienti che non abbiamo altra scelta se non quella della vittoria, perché conosciamo bene il carattere vendicativo di questo regime.
I siriani proseguono, nel mondo virtuale di Internet, questo loro atteggiamento spontaneo e leggero proprio della vita quotidiana. Sorridono a crepapelle nei siti ironici come «Lavaggio internazionale di Homs per carri armati» e altri. Oggi, i siriani condividono le file per acquistare carburanti e gas, il blocco dell'elettricità e devono far fronte a dure condizioni di vita e una repressione brutale, ma non mancano di inventiva per creare nuove forme di proteste come quelle notturne e per comunicarle al mondo tramite video ripresi dai cellulari e trasferiti alle reti tv internazionali, dribblando la censura del regime. Un aspetto nascosto della rivoluzione siriana è la dimensione della solidarietà sociale, con la cura dei feriti nelle case e in ospedali da campo, per sottrarli all'arresto. Solidarietà sociale che ha dovuto inventarsi linguaggi cifrati comprensibili soltanto agli uomini della rivolta e dei loro sostenitori, per impedire che il maglio del potere distrugga la tela della solidarietà faticosamente tessuta.
La verità lampante che viviamo oggi è che i siriani non torneranno indietro nelle loro case, fino al momento della vittoria e non aspetteranno l'aiuto di nessuno; sanno di pagare un alto prezzo per il ruolo storico e geopolitico, passato e presente, ma si batteranno per il loro futuro, nel quadro di uno Stato moderno dove troviamo alla base della convivenza civile il diritto di cittadinanza e i diritti umani. Ecco perché quando giorni fa, alla notizia, battuta dalle agenzie d'informazione, sul massacro di oltre un centinaio di persone in uno dei villaggi del Nord, molti siriani hanno risposto con fare innocente: «Un'altra carneficina? E dov'è la notizia?».

il Fatto 28.12.11
Natale in Cina. Repressione nel silenzio del mondo
di Simone Pieranni


È Natale, panico tra i dissidenti cinesi. Come nel 2009, quando il giorno di Natale Liu Xiaobo, futuro Nobel, venne condannato a undici anni di prigione, nell’indifferenza generale dell’Occidente, anche nel 2011 arrivano altre due condanne a dissidenti cinesi. Il primo Chen Wei è stato condannato a nove anni di carcere il 23 dicembre. Il secondo Chen Xi, dieci anni, il 26 dicembre. Entrambi, sebbene non abbiano relazioni tra loro, sono considerati tra i veterani dei dissidenti cinesi, dentro e fuori il carcere dal 1989 in avanti: due vite fatte appassire tra celle e sorveglianze, perfino impedite a comunicare con le proprie famiglie. Come per Liu Xiaobo la giustizia cinese sceglie date particolari per condannare i suoi dissidenti con il reato più grave, la sovversione di Stato, ovvero quando l’Occidente è impegnato a oziare intorno alle tante cene natalizie, con o senza la crisi. “La scelta delle date non è casuale, rispecchia la volontà cinese di non volere i riflettori internazionali di fronte a severe violazioni dei diritti umani”, ha spiegato alla stampa Renee Xia, direttore di un’associazione con sede ad Hong Kong. Si tratta di due condanne che chiudono un anno orribile dal punto di vista della repressione in Cina: dalla diffusione on line di un appello che incitava ad una rivoluzione del gelsomino, nella primavera del 2011, sono centinaia gli arresti di attivisti, dissidenti o semplici blogger che sono stati fermati, quando non sono spariti senza lasciare traccia. Il reato: avere diffuso il comunicato che invitava ad una rivolta (per altro mancata in pieno).
Nell’ambito di questa campagna repressiva venne arrestato anche il celebre artista e attivista cinese Ai Wei Wei. Con queste due sentenze la Cina conferma la propria vocazione rituale: se in Occidente c’è indifferenza, in Cina certi messaggi passano.
Si dice che il governo uccida la gallina per spaventare la scimmia, ovvero segnalare ai potenziali attivisti che la fine è sempre la stessa. In secondo luogo le decisioni dei tribunali cinesi potrebbero equilibrare la recente vicenda di Wukan in cui la popolazione ha ottenuto dalle autorità quanto chiedeva, la restituzione dei terreni agricoli requisiti. Il 2012 si preannuncia come un anno sul filo della tensione: cambieranno i vertici politici e Pechino si sta preparando. Sul web ad esempio si sta passando alla registrazione obbligatoria con i dati reali per aprire un microblog, recente strumento utilizzato anche dalle voci di protesta in Cina.

il Fatto 28.12.11
Giappone.  Veranda con vista sugli harakiri evitati
Yukio, l’uomo che convince a non suicidarsi
di Mimmo Lombezzi


Ogni mattina, quando apre il suo caffè, a Tojimbo, sulla costa orientale del Giappone, il signor Yukio Shige dispone i tavolini e dà da mangiare ai gatti badando che i corvi non li attacchino. Cupi come “Gli uccelli” di Alfred Hitchcock, pattugliano senza sosta le scogliere che fronteggiano le coste della Corea come se aspettassero qualcosa. Le rocce, spettacolari, attirano centinaia di turisti, ma se uno si affaccia sull’abisso si sente risucchiato dalle onde nere che brontolano 20 o 30 metri più in basso. “Fantasmi? – risponde il signor Shige camminando tranquillamente sull’orlo dal baratro – “Sì, dicono che qui sia pieno e anch’io li ho visti. Ricordo quello di una bambina, proprio lì su quella roccia”. Itsuo Tsuda, un “filosophe” giapponese che visse a Parigi negli anni 80, scriveva che i fantasmi condensano l’energia residua di persone morte prematuramente. Questo spiega le ombre di Tojimbo.
DA MEZZO secolo, infatti, è la meta dei giapponesi che vogliono togliersi la vita. “Di solito si siedono laggiù”, racconta il signor Shige indicando una panchina solitaria, “contemplano il mare per un po’, poi, al tramonto, raggiungono le rocce e si gettano di sotto. Lo scorso ottobre da quel picco si sono lanciati una mamma e il figlio. Lei è morta all’istante mentre il figlio è finito in mare e ha riportato gravi lesioni. Ho chiamato l’elicottero e sono riusciti a salvarlo”. Tojimbo potrebbe essere definita “la scogliera dei ricordi”, quelli effimeri dei turisti che posano per una foto e quelli, densi di bilanci, dei suicidi che li passano in rassegna prima di consegnarli al mare. “Quando saltano, i giovani prendono lo slancio e a volte sopravvivono perché cadono fra le onde – racconta Shige – gli anziani invece muoiono subito perché cadono direttamente sugli scogli”.
Sulle spiagge intorno a Tojimbo è facile trovare vecchi cartelli che mettono in guardia i bagnanti dal rischio di sequestro. I disegni mostrano imbarcazioni gremite di facce minacciose. Sino a poco tempo fa, infatti, i marines nord-coreani sbarcavano per catturare giapponesi da usare come cavie linguistiche per migliorare la pronuncia delle spie di Pyongyang usate contro Tokyo. Nello stesso posto, l’ex-poliziotto Yukio Shige, ha inaugurato un’altra serie di ‘sequestri’, derubando la Morte.
Armato solo di un binocolo, pedina coloro che si attardano un po’ troppo a guardare il vuoto, poi li avvicina e gli parla. “Vede quella roccia? ” dice, mentre i corvi gli urlano insulti incomprensibili, “Soltanto lì ne ho salvati venti. Le ragioni dei suicidi sono varie: difficoltà a tirare avanti, debiti, malattie, depressioni, contrasti fra genitori e figli, ma quella che sta diventando sempre più frequente ora è il fatto di perdere il lavoro”.
In una piccola casa a mezz’ora dalla scogliera, il signor Shige ha raccolto alcuni dei disperati che è riuscito a salvare. Vivono insieme senza mai parlare delle ragioni che li hanno spinti sull’orlo dell’abisso e cercano, faticosamente, di ricominciare a vivere. L’unico che accetta di parlare ha 50 anni. “Ero stanco” dice, “ho vissuto in solitudine per 15 anni. Ma adesso è cambiato tutto. Mi interessa la vita degli altri e mi interessa la mia”. Yukio Shige, il poliziotto che deruba la morte, è riuscito a salvare centinaia di persone soltanto parlandogli. “Quando li avvicino si mettono a piangere”, dice, “è come se aspettassero solo che qualcuno gli parli”.
PAROLE che fanno pensare a Giovanni Schiavon, l’ultimo degli imprenditori suicidi e alle centinaia di operai, precari e disoccupati “over-40” che si sono tolti la vita dall’inizio della crisi, senza che nessuno gli rivolgesse una parola. Mentre si buttavano miliardi per finanziare gli appalti del terremoto o il ‘progetto-capestro’ del ponte di Messina, nessuno ha pensato a un fondo di emergenza, per salvare chi stava per farla finita. Luca Peotta e quelli di “Imprese che resistono” lo hanno fatto, di tasca loro, inventandosi dei prestiti a tasso zero, ma per tutti gli altri c’è stato solo il silenzio, riempito dal mantra a reti unificate che “la crisi non esiste”.
articolo tratto da “Storie di confine” in onda su retequattro il 13 gennaio 2012

La Stampa 28.12.11
Cancellare Fidel al ritmo lento dell’altro Castro
di Yoani Sanchez


Viviamo un fine anno senza freddo, un Natale di maniche corte e un po' di sudore, con degli alberelli pieni dappertutto di festoni. A Cuba, con molti alti e bassi, sono trascorsi i dodici mesi di questo 2011, incorniciati da avvenimenti che come due parentesi hanno rinchiuso la realtà nazionale tra le scarcerazioni e gli arresti, i controlli e la flessibilità. Ancora a gennaio sono stati liberati con il contagocce i prigionieri della «Primavera Nera» del 2003 e proprio in questi giorni hanno ricevuto l'indulto 2900 prigionieri per diversi reati. Quello che è cominciato con la discussione delle linee guida del Sesto Convegno del Partito Comunista, celebrato ad aprile, si conclude ora con i preparativi per una Conferenza Nazionale nella quale pochissimi sperano. Forse è stato questo il periodo durante il quale le nostre autorità hanno avviato il maggior numero di cambiamenti economici e, tuttavia, mai come ora l'impazienza dei cittadini è arrivata a un livello così alto. Sono stati fatti molti passi, ma la strada, come un tapis roulant, procede all'indietro e ci ha lasciati a pochi centimetri del punto di partenza.
Raúl Castro ha intrapreso l'arduo compito di smantellare il fidelismo, di sotterrare in vita il Comandante in Capo. Senza confessarlo, senza neanche fare la critica che ci vuole verso il governo del fratello, il Generale Presidente ha fatto crollare parte dei programmi concepiti dal suo predecessore. Ha cancellato completamente le cosiddette «scuole in campagna», ha aumentato il numero di terreni consegnati in usufrutto ai contadini e ha dato il via al lavoro in proprio. Ha anche cancellato altri deliri come il gigantesco esercito dei «lavoratori sociali», ha messo fine all'«Operazione Miracolo» che importava pazienti da tutta l'America Latina per praticare interventi a Cuba e ha anche smantellato il ministero dello Zucchero, il cui bilancio presenta numeri ogni volta più ridicoli. In una mossa audace e a colpi di decreto, ha permesso la compravendita di automobili e ha aperto il mercato immobiliare in un Paese con decenni d'immobilità in entrambi i settori. Si è addirittura vestito con abiti civili per assistere al vertice della Comunità di Stati Latinoamericani e Caraibici (Celac) e ha firmato la lettera finale dell'evento con un paio di punti sulla democrazia e il rispetto dei diritti umani. L'erede al trono della Rivoluzione ha cercato in tutti modi di ottenere legittimità nell'ambito regionale durante tutto questo 2011.
Ma il raulismo e le sue mosse economiche non hanno dato gli esiti attesi. Un kilogrammo di fagioli continua a costare il salario di tre giorni e per il 2012 il Paese dovrà spendere 1700 milioni di pesos per importare cibo. Nonostante il silenzio della stampa ufficiale, in questi ultimi mesi alcuni casi di corruzione hanno alimentato le voci popolari. Nel suo discorso all'ultima sessione dell'Assemblea Nazionale, il primo segretario del Pcc ha anche affermato che «la corruzione è oggi uno dei nemici principali della Rivoluzione, molto più pericoloso dell'attività sovversiva». Ha indicato l'alto profilo di coloro coinvolti nelle rapine, definendoli «reati commessi dai "colletti bianchi"», ma in realtà sembrerebbero «reati imputabili ai colletti verde militare».
Ogni ispezione ha portato alla luce deviazioni e sottrazioni per cifre allucinanti. Se continua a scavare in quella direzione, Raúl Castro potrebbe guadagnarsi molti nemici nelle proprie file. Come se non bastasse già la fibrillazione e la crescita che si registra tra i dissidenti e altri movimenti civili molto critici con la sua gestione.
Ottobre ha portato una prova difficile sia per gli oppressi che per gli oppressori, con la morte di Laura Pollán, leader delle «Damas de Blanco», e l'agitazione scatenatasi. In quei giorni, la polizia politica ha messo a punto quello che sarebbe stato il suo marchio sul terreno della repressione dell'attuale governo. Arresti brevi, a scopo «pedagogico», senza tracce legali, diversi dai grandi show giudiziari che tanto amava Fidel Castro. Gli attivisti hanno dovuto lottare anche con l'intensificarsi delle campagne mediatiche contro di loro e con la paramilitarizzazione degli organi della Sicurezza di Stato. Di notte, in un angolo, tre sconosciuti si lasciano cadere su un oppositore e lo fanno salire con la forza su una vettura, senza identificarsi, senza portare una divisa, senza indicare il reato che si sta commettendo. La Cuba raulista, pertanto, è più imprevedibile per quanto riguarda le punizioni, perché l'incertezza della pena si erge come il suo miglior metodo di coazione.
L'insicurezza è anche generata dalla lentezza e dall'esitazione nell'avvio di certe riforme sociali e politiche. La cancellazione delle restrizioni migratorie è rimasta fuori del bilancio annuale, con la conseguente frustrazione di tutti coloro che la aspettavano. Il Generale non ha avuto neanche il coraggio di autorizzare la creazione di altri partiti e, invece di aprire il dibattito nazionale, continua a ripetere che si tratta di un tema «tra rivoluzionari». Per lui, questo 2011 è stato una prova dura, perché ha dovuto fare dei cambiamenti che irrimediabilmente gli toglieranno del potere e, tuttavia, percepisce che la sua popolarità diminuisce giorno dopo giorno. Questo non è stato per niente l'anno di Raúl Castro: la sua testardaggine e la propria salute glielo hanno rovinato.

il Riformista 28.12.11
La fuga dal matrimonio inquieta gli Stati Uniti (e non è solo la crisi)
Non si erano mai sposate così poco. Una polemista spiega perché è una buona notizia
di Pierluigi Smith


Chicago. Gli americani non si sposano più. O meglio, non si sono mai sposati così di rado come adesso. Secondo l’ultimo rapporto del Pew Research center, tra i maggiori centri studi statunitensi, nel 2011 il numero è sceso ai minimi storici: oggi soltanto il 51 per cento della popolazione contrae il vincolo matrimoniale.
Sono cifre che hanno innescato negli Stati Uniti un intenso dibattito. Rispetto al 2010 il numero degli sposi è diminuito di un brusco cinque per cento e allo stesso tempo l’età dei neo-sposi è salita di tre anni: mediamente è di ventinove anni per gli uomini e di ventisei anni per le donne.
Oltre alle statistiche che di per sé hanno fatto preoccupare gli americani conservatori, c’è la minaccia all’istituzione stessa del matrimonio. Se le persone sposate diventassero meno del 51 per cento del totale, l’idea della famiglia come perno centrale della società sarebbe messa in seria discussione.
In America, come del resto in Europa e in Italia, le coppie sposate possono beneficiare di una serie di vantaggi legislativi a cui i single e i non sposati non hanno diritto. Nel caso che nel 2012 il numero degli sposi fosse inferiore al 50 per cento, sarebbe assai difficile giustificare le attuali agevolazioni. E la porta si aprirebbe a tutta una serie di altre domande. Una fra tutte: perché le coppie non sposate e con uno o più figli a carico non possono usufruire delle stesse leggi?
Dopo tutto, come riporta lo stesso rapporto del Pew Center, nel 2011 i bambini nati fuori dal matrimonio sono diventati circa il quaranta per cento – una realtà che non può essere più trattata come una semplice eccezione alla regola. «Oggi è necessario riconsiderare i diversi tipi di relazioni in cui le persone decidono di impegnarsi», ha commentato Stephanie Coontz, una delle più rinomate storiche della famiglia e docente all’Evergreen State College nello stato di Washington.
Sono in pochi a non additare come causa precipua del calo dei matrimoni lo stato di crisi economica. Sposarsi è indubbiamente costoso. Dunque chi può, per il momento, bada a se stesso e aspetta di aver capitale sufficiente per poterselo permettere. Perché se il 40 per cento degli americani pensa che ormai il matrimonio sia un’istituzione obsoleta, tra il rimanente 60 per cento, alla domanda «vorresti sposarti?», risponde con un deciso «sì».
La crisi ha anche il suo rovescio: le coppie che avevano intenzione di separarsi hanno dovuto ricredersi perché i divorzi, come i matrimoni, sono altrettanto dispendiosi. Dati alla mano, Il ventinove per cento degli intervistati ha dichiarato che la crisi ha reso più saldo il proprio matrimonio, mentre il trentotto per cento di quelli che pensavano alla separazione hanno fatto marcia indietro.
I numeri pubblicati dal Pew Reaserch center hanno trovato terreno fertile in America perché il dibattito sul matrimonio era già ricominciato dopo la pubblicazione sull’Atlantic del controverso saggio “All the Single Ladies” (Tutte le ragazze nubili) firmato da Kate Bolick.
L’articolo, partendo dall’esperienza personale della giornalista una donna di 39 anni non sposata tra amori, numerosi fidanzati e quasi-matrimoni, si chiede come abbiamo fatto storicamente a innamorarci dell’idea di un matrimonio in cui l’uomo è sempre quello stipendiato e la donna la casalinga.
Secondo la Bolick, prima del 19esimo secolo, le donne contribuivano alle entrate familiari tanto quanto gli uomini. Dunque è ingenuo parlare di declino del matrimonio, quando ciò che vediamo è un involuzione di un’idea relativamente nuova, sviluppatasi negli ultimi duecento anni e che da decenni ormai si cerca di combattere con le quote rosa. Sarebbe meglio considerare la nuova tendenza come uno dei tanti cambiamenti che sono sempre accaduti nella storia, suggerisce l’autrice.
Bolick non nega certo che le donne oggi si sposino di meno. Ma lo considera un fenomeno legato all’ascesa delle donne: più numerose nelle università, e stando a un studio da lei citato anche meglio remunerate a parità di lavoro. In sintesi, va scomparendo la necessità di sposarsi per motivi economici. Per la Bolick – e questo è quello che ha fatto parlare tanto la gente questo non è un declino del matrimonio, ma al contrario apre alla possibilità che «l’amore riconquisti il matrimonio».

Corriere della Sera 28.12.11
Quando gli dei classici aiutano a capire l'oggi
Viaggio artistico ed etico fra Marte e Venere: così i miti governano le nostre vite
di Arturo Pérez-Reverte


«Tutto può accadere se un dio usa le sue arti», afferma Sofocle nella tragedia Aiace. Ed è vero. Gianluigi Colin è un artista lucido, ne è consapevole e lo dimostra con prove documentarie, sorprendenti, tratte dal mondo quotidiano. Un mondo questo, retto da dei che osservano e tramano, appostati come cecchini, l'ogni giorno dell'esistenza dell'essere umano. Architettando il nostro presente e il nostro futuro sotto gli occhi imperturbabili dell'Olimpo, una Umanità di formiche obbedienti, disciplinate sotto il suo calzare — solo gli stupidi e gli inetti ignorano che il caos risponde a regole ben precise —, continua da molto tempo a costruire con tenacità suicida. La crudeltà implacabile di Crono-Saturno, manifestata in un Universo sprovvisto di sentimenti. Ermes-Mercurio venale, messaggero equivoco, simbolo del denaro e del potere economico, ma anche rifugio di impostori e ladri. Il furore omicida del guerriero Ares-Marte, la cui presenza continua, routinaria, nei mezzi di comunicazione finisce per avere meno interesse del calcio o della politica. E l'onnipresente Afrodite-Venere, che regnando più che mai sulle copertine delle riviste, nella pubblicità, nel cinema e nella moda, idealizzata dal culto moderno fino a toccare ciò che c'è di sacro o di fanatico, è l'indiscussa erede, trionfante, delle dee pagane e delle vergini cristiane.
Gianluigi Colin è un artista onesto. Non si limita al taglia e incolla di chi accumula elementi preesistenti di maggior o minore interesse formale o concettuale, come certi artisti a cui bisogna credere sulla parola dopo aver letto il cartello che accompagna l'opera. Lui coniuga, doma e trasfigura questa materia originariamente povera e inanimata, apparentemente morta dopo aver chiuso le pagine del giornale o della rivista corrispondente, dandole una vita nuova, distinta o più significativa di quella con cui originariamente fu ordinata. Lottando con questo materiale solo presumibilmente trouvé fino a riuscire a estrarne l'essenza, a mettere tutto quanto simbolizza al servizio del suo impegno e improntandolo con il viso di Dio che gli corrisponde. Così sfilano davanti ai nostri occhi, con una seconda e più intensa lettura, banconote, cellulari, carte di credito, titoli di stampa, fotografie, corpi di donna, armi, mappe, bandiere, simboli di potere, bellezza, violenza, denaro o sesso, senza che in nessun momento l'artista pretenda cancellarne le tracce, né dissimularne le fonti. Tutte le carte sono in tavola, sotto la luce diafana della sua lucidità e del suo talento.
Saturno, Marte, Mercurio, Venere. Nuovamente è palese che solo i vecchi miti, la memoria colta dell'uomo occidentale, permette di decifrarne dei nuovi. Facendo ricorso a questi quattro potenti simboli e al loro impatto sulla vita dell'uomo attuale e ai suoi comportamenti sociali, culturali e politici, Gianluigi Colin rappresenta in un modo incredibilmente sereno, con chiari messaggi di forte impatto visivo, il nostro confuso presente. I vecchi simboli e l'interpretazione del mondo che, attraverso questi, rinasce in ogni nuova generazione e in ogni essere umano. E la sua rappresentazione di questi grandi miti contemporanei dimostra due cose: che non smisero mai di esserlo e che la potenza dei mezzi di globalizzazione fa che superino in modo irreversibile confini, religioni e ideologie. Tutti loro hanno essenzialmente la stessa vigenza per l'impiegato di un'agenzia finanziaria di Wall Street che per il miliziano che vede la Cnn, via satellite, a Mogadiscio con un arrugginito kalashnikov sulle ginocchia. Per questo, terminata l'epoca delle rivoluzioni mosse da ideologie che cercavano un mondo migliore e più giusto, osservando la ricreazione attualizzata di questi miti attraverso le mani di Gianluigi Colin, si intuisce che è sopraggiunto il secolo della collera. Un tempo di rivolte e grandi scricchiolamenti storici, adesso meno animati dalla fede nel futuro del mondo che dalla cupidigia, dalle frustrazioni e dalle rivincite. È inquietante considerare che se questi quattro dei, o ciò che simbolizzano, prima aspiravano a cambiare il destino dell'Umanità, adesso serviranno, probabilmente, a fissare nel Gps della Storia il momento e il luogo dei prossimi spietati regolamenti dei conti.

Repubblica 28.12.11
Noi cercatori di parole che non usiamo
di Friedrich Durrenmatt


Il mio francese non è buono. Sono troppo occupato con la mia scrittura per cercare di migliorarlo
Una madre va sempre amata. Spesso la sua bellezza si manifesta solo al figlio. Questo per me è il bernese
Un inedito del celebre autore esce sul nuovo numero di "Limes" Qui Dürrenmatt spiega perché i testi devono essere diversi dal parlato

Io parlo in bernese e scrivo in tedesco. Non potrei vivere in Germania perché lì le persone parlano la lingua in cui scrivo, e non vivo in Svizzera tedesca perché lì le persone parlano la lingua che parlo anch´io. Vivo in Svizzera francese perché qui le persone non parlano né la lingua in cui scrivo né quella che parlo.
Queste frasi non sono del tutto vere. In Germania non si parla affatto un tedesco ideale, in Svizzera tedesca la lingua che parlo si parla solo nell´Emmental, e in Svizzera francese ci sono molti svizzeri tedeschi che parlano come parlo io, e soprattutto molti che parlano francese come io parlo francese quando parlo francese.
Con mia moglie e i miei figli parlo solo in bernese, e quando me ne sto coi miei amici svizzeri, per esempio con Frisch o con Bichsel, io parlo in bernese, Bichsel nel dialetto di Solothurn (quasi bernese) e Frisch in zurighese. Prima i miei figli rispondevano a Frisch in tedesco quando lui parlava con loro, perché credevano che lo zurighese fosse già tedesco, una battuta che né un tedesco né uno svizzero francese capisce. Se c´è anche un tedesco parliamo tutti in tedesco perché diamo per scontato che il tedesco non capisca lo svizzero-tedesco, anche se ci sono molti tedeschi che lo capiscono, se non sono proprio del nord.
In tribunale i separatisti sfottevano il contadino al quale avevano bruciato la casa, che in quanto bernese parlava un cattivo francese, per dimostrare il loro più elevato livello culturale. Potrebbero sfottere anche me, anche il mio francese è cattivo. Sono troppo occupato con la mia lingua per migliorare ancora il mio francese.
Ogni cultura si fonda più su pregiudizi che su verità, anche quella svizzero-francese. Uno dei suoi pregiudizi consiste nella convinzione che gli svizzeri tedeschi parlino una lingua primitiva. Su questo pregiudizio si fonda la fantasia svizzero-francese di essere a un più elevato livello culturale. Personalmente ho un´alta considerazione degli svizzeri francesi, solo che non potrei sottoscrivere la frase: Delémont è a un livello culturale più elevato rispetto a Burgdorf. In Europa i contadini possiedono ovunque una cultura simile, così gli insegnanti, e ciò che caratterizza gli agitatori politici, sono le idee fisse, che sono assai simili tra loro; l´eventuale bagaglio d´istruzione o di cultura che essi pretendono di esibire è irrilevante.
Eppure il pregiudizio svizzero-francese è comprensibile. La lingua francese è il prodotto più alto della cultura francese, degna di ammirazione per la sua chiarezza, una lingua essenzialmente chiusa, e poiché il francese è un´opera della comunità, ciascuno si adopera per prendere parte a quest´opera d´arte comune e per reprimere i propri tratti linguistici individuali e provinciali.
Per il tedesco è diverso. Qui i dialetti sono rimasti più vitali e continuano ad agire vivacemente sul subconscio linguistico. Tra il tedesco che si parla e il tedesco che si scrive c´è più differenza. Manca un´accademia, manca una capitale culturale, mancano le province: senza un centro culturale non ha senso parlare di province. Il tedesco è più individuale del francese. Il tedesco è una lingua aperta.
Per molti aspetti il rapporto degli svizzeri tedeschi col tedesco è simile a quello degli olandesi col tedesco. Solo che l´olandese è diventato una lingua scritta, lo svizzero-tedesco no. Quanto agli scrittori: lo scrittore svizzero tedesco resta nella tensione di colui che parla diversamente da come scrive. Alla lingua madre si affianca, per così dire, una «lingua padre». In quanto lingua madre lo svizzero-tedesco è la lingua dei suoi sentimenti, in quanto «lingua padre» il tedesco è la lingua della sua ragione, della sua volontà, della sua avventura. Egli l´affronta, la lingua che scrive. Ma affronta una lingua che in virtù dei suoi dialetti è maggiormente plasmabile del francese. Al francese ci si deve adeguare, al tedesco si può dare forma (...).
Anch´io, ogni giorno, devo trovare il mio tedesco.
Ogni giorno devo abbandonare la lingua che parlo per trovare una lingua che non so parlare, perché quando parlo tedesco lo parlo con accento bernese, così come un tedesco di Vienna parla con accento viennese o un tedesco di Monaco con accento bavarese. Io parlo lentamente. Sono cresciuto in campagna, e anche i contadini parlano lentamente. Il mio accento non mi dà fastidio. Sono in buona compagnia. Quando Schiller leggeva ad alta voce gli attori lasciavano la sala per le risate, tanto era forte il suo accento svevo.
Ci sono svizzeri che si sforzano di parlare un tedesco puro. Amano allora parlare un tedesco troppo bello. È come se, mentre parlano, si compiacessero di come parlano.
Anche alcuni svizzeri francesi parlano un francese troppo bello.
Chi parla una lingua troppo bella ha un che di provinciale.
La lingua che si parla è spontanea.
La lingua che si scrive sembra spontanea.
In questo "sembra" sta tutto il lavoro dello scrittore.
Ci sono critici che mi rimproverano perché nel mio tedesco si sentirebbe il bernese. Io spero che si senta. Io scrivo un tedesco che è cresciuto sul terreno del bernese. Sono felice se gli attori amano il mio tedesco.
Io però amo il bernese, una lingua che per molti aspetti è superiore al tedesco. È la mia lingua madre e la amo anche perché una madre va amata. Un figlio vede sua madre con un altro sguardo: spesso la sua bellezza si manifesta soltanto a lui.
Il francese lo si sa, il tedesco si cerca di saperlo.
Se sapessi il tedesco, scriverei in bernese.
Nell´esporre queste considerazioni personali, mi pare tuttavia di aver detto cose che valgono in generale: quale scrittore al mondo vive dove si parla la lingua che scrive? La lingua che scrive parla solo attraverso le sue opere.

il Riformista 28.12.11
Borges, da cieco rimpiangeva il cinema muto
Pubblicato il quarto e ultimo volume dei dialoghi di Osvaldo Ferrari con lo scrittore argentino per la Radio Municipal di Buenos Aires
di Andrea di Consoli


È stato finalmente pubblicato il quarto e ultimo volume dei dialoghi di Osvaldo Ferrari (Buenos Aires, 1948) con lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986). I dialoghi in principio radiofonici, per la Radio Municipal di Buenos Aires furono poi trascritti e pubblicati in tre volumi tra il 1985 e il 1987. Quest’ultimo volume, intitolato Reencuentro. Dialoghi inediti (Bompiani, 230 pagine, 10,90 euro, traduzione di Beatrice Gatti), fu pubblicato in Argentina nel 1999, e ora è approdato sia pure con qualche refuso di troppo nelle librerie italiane.
Di cosa conversano in questo libro Ferrari e Borges? Anzitutto bisogna sottolineare che non di interviste si tratta, ma di chiacchierate, di cordiali e amabili dialoghi tra un grande scrittore e un poeta e giornalista colto e preparato. Il tema principale è ovviamente la letteratura (la “Weltliteratur”), che Borges sa leggere e interpretare con grande acume e originalità, ben supportato in questo percorso critico da una prodigiosa memoria, da un raro senso dell’orientamento e da una straordinaria capacità di proporre accostamenti, riferimenti e ribaltamenti del gusto diffuso (è il caso, tanto per dire, della Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, sulla quale Borges dice quanto segue: «(...) La ballata non sono certo che sia buona. La paragoni a una ballata di Coleridge o di Kipling e non è niente, o anche con le autentiche ballate del popolo. No, si nota che è tutto falso». E aggiunge, con il solito puntiglio enciclopedico: «Ad esempio, nei primi versi ci dice che sia il vino che il sangue sono rossi. Kipling avrebbe saputo, e anche Wilde lo doveva sapere, che un soldato inglese non beve vino: chi beveva, beveva gin»).
Ma in questo libro, oltre a Wilde, si parla di grandi scrittori di tutti i tempi quali Pascal, Stevenson, Dickens, Shaw, Emerson, Whitman, Yeats, Joyce, Bioy Casares, tutti raccontati e discussi nell’immediatezza occasionale di un dialogo, eppure tutti colti e interpretati come fossero stati appena letti. Come i suoi lettori sanno bene, Borges fu un lettore enciclopedico (dice a un certo punto a Ferrari: «È che, dopotutto, credo non ci sia nessun film paragonabile all’Enciclopedia Britannica, o a quella di Brokhaus, o all’enciclopedia europea di Garzanti, no? Non credo esistano storie paragonabili alla storia della filosofia»), un eccellente poeta, un a nostro avviso secondario narratore (troppo evidente è l’ideologia del labirinto e dell’aleph), ma soprattutto uno straordinario costruttore di riferimenti e di trame romanzesche di ogni epoca e luogo, raccontate e interpretate come un’intelligente avventura narrativa e critica (dice dell’Ulisse di Joyce: «È probabile che sia stato scritto per essere indecifrabile. Fu scritto per essere commentato. Credo che venne realizzato come un esperimento, destinato a restare piuttosto segreto, o comunque a lasciare che la cosa più importante fosse il meccanismo che lo governa”).
Nel suo trasognato dialogare (“scrivere è un modo di sognare”, afferma), sempre cordiale e modesto, e solo in apparenza privo di punte polemiche, Borges è costantemente supportato dalla convinzione che le parole e le memorie del mondo siano tutte segretamente legate tra di loro. Senza scomodare l’inconscio collettivo di Jung, Borges porta a supporto di tale convinzione (anche perché dà fondamento, senza mai esplicitarlo, a un’evidente opzione del “disimpegno”) un pensiero di Yeats, che così sintetizza: “Allora Yeats s’inventò che le esperienze immediate, le esperienze personali, non sono necessarie, perché tutti gli individui ereditano ‘la grande memoria’, che poi sarebbe la memoria della specie; o, più in concreto, la memoria che si eredita di tutto quello che hanno vissuto i genitori, i nonni, i bisnonni; e così fino all’infinito, in una progressione geometrica”.
Uno dei dialoghi affronta anche la nota passione di Borges per il cinema (scrisse di critica cinematografica sulla rivista Sur dal 1931 al 1944) e, all’interno di questa, per il cinema muto: «Ci andavo almeno due volte a settimana. Ricordo, quando iniziò il cinema sonoro, che tutti pensavamo fosse un peccato, perché i film vennero subito rimpiazzati da opere e da personaggi felicemente dimenticati, come Ginette Mac Donald e Maurice Chevalier, che presero il posto dei grandi attori del periodo precedente. Tutti noi pensavamo: che peccato, il cinema, che è arrivato a picchi di perfezione con Joseph Von Sternberg, Stroheim, King Vidor; tutto questo con l’opera si è perso. Sì, fu davvero un peccato».
Che uno scrittore ormai da molti anni cieco rimpiangesse il cinema muto è un’altra testimonianza ancora di quanto i ricordi, il vasto sapere e le fantasie gli bastassero per avere tutto l’occorrente per vivere.

Repubblica 28.12.11
La sfida della solidarietà ultima carta per evitare la fine del sogno europeo
di Giorgio Ruffolo


Il primo di gennaio 1999 è nato l´euro e tre anni dopo ha cominciato a circolare. Ora rischia di morire. Ciò che oggi stupisce di quella sua nascita è la relativa facilità. Certo ci furono tensioni e conflitti, specie da noi. Ma tutto sommato molto meno pesanti di quelli che si sarebbe potuto attendere da una decisione che cambiava, per i Paesi implicati, il corso della loro storia. Un´operazione anche materialmente complessa, fu portata a termine nel giro di pochi anni con efficacia, starei per dire con eleganza.
Oggi quella operazione è in pericolo. Ciò che ha colpito l´euro è una crisi mondiale sorta non nei suoi confini ma all´esterno, in America, generata da una inflazione finanziaria a sua volta promossa da un gigantesco indebitamento che ha minacciato di travolgere le banche americane, coinvolgendo quelle dei Paesi europei attraverso gli stretti legami dell´interdipendenza. Le conseguenze sembrano addirittura più gravi per l´Europa che per gli Stati Uniti, e ciò per ragioni evidenti. Il governo americano ha affrontato la crisi con un piglio drastico: un salvataggio "governativo" in grande stile che ha consentito di sostituire l´indebitamento privato con l´indebitamento pubblico. Il peso della crisi è ricaduto sul contribuente, con conseguenze gravi per la finanza pubblica (paradossalmente "punita" dalle agenzie di rating) ma non tanto da costituire una minaccia di fallimento per lo Stato. Il lato oscuro del modo in cui si è affrontata la crisi americana sta nel fatto che esso non ne ha minimamente rimosso le cause.
Le condizioni dell´Europa sono diverse. In America dietro il dollaro c´è uno Stato. Nell´Unione Europea ce ne sono ventisette. L´impatto della crisi, in Europa , è stato del tutto diverso per gli Stati che presentavano già finanze pubbliche deficitarie e per quelli più o meno in ordine. Ciò ha determinato contrasti di visione e di azione. Teoricamente erano possibili, al limite, due posizioni. Una solidale che coinvolgesse i deboli e i forti in una unica strategia di difesa. L´altra, "egoista", che lasciasse del tutto sulle spalle dei deboli i costi dell´aggiustamento. L´Unione sembra aver scelto una via di mezzo, esitante e riluttante. Per esempio, sembra disposta ad approvare l´intervento della Bce a sostegno dei titoli deboli, purchè non sia illimitato: il che lo rende inutile, perché sfida la speculazione proprio a "saggiare" quei limiti. Inoltre, sembra approvare la decisione della Banca Centrale di rifinanziare massicciamente le banche per indurle a riattivare il credito all´economia. Ma se la domanda di credito non è stimolata dalla crescita le banche finiranno per ridepositare quelle somme nella Bce.
L´attuale "leadership" franco-tedesca sembra consapevole che la sola politica monetaria non è in grado al tempo stesso di garantire la disciplina e di promuovere la crescita. Ma, quando si sposta giustamente sul fronte delle politiche di bilancio, adotta una scelta di rigorosa austerità che, mentre risponde alle esigenze della disciplina, manca totalmente l´obiettivo essenziale della crescita. E´ così che nel più recente progetto di risoluzione ("international agreement") che sarà, pare, sottoposto al prossimo Consiglio Europeo, non ci si limita a ribadire i vincoli del "patto di stabilità", ma li si aggrava pesantemente con ulteriori norme restrittive, alcune delle quali persino ridicole: come quando si minaccia di trascinare di fronte alla Corte di giustizia gli Stati che stanno rischiando niente di meno del fallimento economico. Se questo è il senso della leadership franco tedesca (una leadership minata da forti contrasti interni) c´è da rimpiangere amaramente i tempi di Mitterrand e di Kohl come quelli dell´età di Pericle. Un governo economico dell´Europa degno di questo nome, anzichè infierire sadicamente sui governi in corso di fallimento, dovrebbe rilanciare il cosiddetto Fondo Salva Stati in un ruolo di "tesoro europeo" precursore di un vero bilancio federale, e finanziare progetti di investimento comuni miranti a promuovere la crescita, lasciando in pace la Corte di Giustizia. E soprattutto, non dovrebbe dimenticare che l´euro non è soltanto un accordo monetario. E´ parte integrante di un grande disegno politico. E´ l´istituzione più coerente con un approccio federalista al grande obiettivo dell´unità politica europea. Quell´obiettivo è stato più volte ribadito dai governi italiani (tranne quello berlusconiano, provincialmente leghista). Aspettiamo di sapere se il governo Monti lo riassumerà come suo, oppure si farà intimidire dal duo carolingio. Se, promuovendo un diverso approccio condiviso da altri Paesi "solidali", sarà all´altezza di quella formidabile impresa che, dodici anni fa, consentì all´Italia di Prodi e di Ciampi l´orgoglioso ingresso nell´avanguardia della moneta unica. Una decisa svolta: questo consentirebbe all´Europa di sperare per non sparire.

Corriere della Sera 28.12.11
L'anno delle profezie. Perché il 2012 eccita i catastrofisti
Le strambe teorie dai Maya ai film
di Armando Torno


Mancava soltanto la profezia dei Maya, o quella che viene loro attribuita. Il bisestile 2012 oltre crisi, recessione e tasse rischia di regalarci un tormentone sulla fine del mondo. Il 21 dicembre prossimo, secondo una predizione ricavata dal computo del tempo maya, si dovrebbe verificare un evento radicale di proporzioni planetarie. Di cosa si tratta? Alcuni parlano di una trasformazione spirituale dell'umanità mai avvenuta, altri evocano gli scenari dell'Apocalisse, altri ancora trovano nessi con la scomparsa della mitica Atlantide e vedono segni lasciati dagli Egizi oltre che dalla civiltà precolombiana. Qualcosa accadrà, ma non si sa di quale natura. Si può soltanto osservare che il 2012 è collegato alla fine di uno dei cicli (b'ak'tun) del calendario maya. E tra gli episodi della serie televisiva di fantascienza X-Files si narra che il 22-12-2012, giorno successivo alla fatidica data, degli alieni invaderanno la Terra. Tre adattamenti cinematografici hanno preparato il terreno. Già nel 2001 uscì 2012. L'avvento del male; nel 2008 fu la volta di 2012. Doomsday del regista Nick Everhart; nel 2009 Roland Emmerich, noto per film catastrofici, ci ha fatto meditare con 2012. Ormai il numero bastava.
Ma tali previsioni non hanno alcun fondamento scientifico. Come nasce codesta faccenda? Abbiamo rivolto la domanda a Leandro Cantamessa, uno dei massimi esperti di diritto sportivo (è l'avvocato del Milan) e al tempo stesso un'autorità per le ricerche astrologiche. La sua vastissima opera in quattro ponderosi tomi Astrologia ins & outs (appena uscita per le Edizioni Otto/Novecento) è il repertorio per eccellenza sull'argomento. Risponde con un sorriso: «Probabilmente la causa è nelle due combinazioni numeriche dei calendari; né va dimenticato che il giorno 21 dicembre diventa suggestivo, anche se ha uno zero di troppo e il tre volte 2 allontana dalla matematica binaria». «Del resto — aggiunge — la numerologia è stata dall'antichità una disciplina divinatoria minore e ha sempre avuto successo». Cantamessa fa spallucce della profezia maya. E rincara la dose confidandoci che a suo giudizio assomiglia a una patacca. Un po' come talune previsioni di Nostradamus. Qui conviene ridargli la parola: «Non dimentichiamo che il celebre francese, ancora con molto credito, è stato pessimo astrologo e maestro di ambiguità. Purtroppo è passato alla storia, ma nessuno ricorda un signore chiamato Laurent Videl, che nel 1558 l'ha smascherato dimostrando che dal punto di vista tecnico, quello inerente all'astrologia, commise grossolani errori di calcolo sia riguardo ai profili matematico-astronomici, sia per quanto concerne le regole astrologiche».
Cantamessa puntualizza: «Questa storia che viene dai Maya ricorda il 20-21 febbraio del 1524, quando una massiccia concentrazione di pianeti nel segno dei Pesci fece temere l'avvento di un secondo diluvio universale, in base all'assurda equazione Pesci uguale a segno d'acqua, uguale a tanta acqua. Si narra che il sindaco di Tolosa, per sfuggire all'inondazione, si facesse costruire un'arca su una montagna; di certo un centinaio di astrologi e astronomi si dedicarono all'evento scrivendo piccoli e grandi libri. La maggior parte ebbe quale obiettivo la quiete sociale più che la tecnica, impegnandosi a chetare gli animi». Un altro sorriso, una pausa e la conclusione: «Non successe alcunché». Un'analoga paura del diluvio universale percorse l'Europa nel 1179. Anche in tal caso, la catastrofe si evinceva dalla solita concentrazione di pianeti.
Dopo le tranquillizzanti parole di Cantamessa, si potrebbe aprire il libro di Saverio Gaeta e Andrea Tornielli, A.D. 2012 La Donna, il drago e l'Apocalisse (Piemme) per riproporre la domanda. Tra queste pagine c'è un invito a orientarsi tra gli annunci di sventure utilizzando le profezie dei tempi moderni, vale a dire le apparizioni della Madonna. Riprendere, insomma, le ricerche da quanto avvenne dal 1830 in rue de Bac a Parigi sino a Medjugorje. Le manifestazioni mariane, notano gli autori, svelano quel che accadrà e rammentano che il rischio dell'autodistruzione è reale. Da Lourdes a Fatima, dalle lacrime versate nel 1846 a La Salette dalla «bella signora» (così i ragazzi che la videro) a quelle del febbraio 1995 a Civitavecchia da una statuina di gesso di Maria (dinanzi alla quale pregò Giovanni Paolo II, si precisa a pagina 179) ci sono indicazioni per i tempi a venire. Un'indagine mariana contro le ipotesi nate dai Maya.
C'è altro? Tra i mille casi ricordiamo quello di Nancy Lieder, che sarebbe stata in contatto con gli «alieni della stella Zeta Reticuli». Previde un cataclisma per il maggio 2003. Nulla accadde. E allora la sventura è stata procrastinata al 21-12-2012. Lì è in buona compagnia.

Repubblica 28.12.11
"Aiuto, mio figlio è un tiranno" come difendersi da vizi e capricci
Allarme in una famiglia su tre. E tutto si decide nei primi 36 mesi
Accogliere ogni richiesta significa trasformarli in potenziali adulti infelici
Non è possibile tornare indietro: i segnali si vedono già poco dopo la nascita
di Vera Schiavazzi


Gli spettatori di "Caro Diario", il film del 1993 nel quale Nanni Moretti racconta l´impossibile telefonata dalle isole Eolie di un adulto che tenta di parlare a un altro adulto mentre i bambini di casa glielo impediscono, ridevano tutti. Quei piccoli despoti pronti a strappare, e a tenere, la cornetta del telefono sembravano marziani. Ora non ride più nessuno. In meno di vent´anni, il problema del "bambino tiranno" ha investito una famiglia su tre (single e coppie senza figli sono escluse dalla statistica), fatto esplodere matrimoni, costretto schiere di madri (e qualche padre) a ricorrere alle cure di uno psicoterapeuta.
Un nuovo manuale, "In famiglia comando io!", firmato dallo psicologo clinico francese Didier Pleux (Urra Feltrinelli, in libreria dall´11 gennaio) fa il punto della situazione e offre ricette più accessibili di quelle suggerite finora da studiosi pure autorevolissimi come Aldo Naouri. La prima cosa da sapere è che tutto si compie tra la nascita del bambino e il suo terzo compleanno: dopo i fatali 36 mesi, tutto, o quasi, si rivela inutile. La seconda è che non ci sono scuse, dato che i piccoli prepotenti ai quali tutto è concesso non sono neppure felici. Anzi. Arrendendosi ai loro capricci, accogliendo ogni richiesta strampalata, accettando che rovinino ogni forma di vita sociale della famiglia li trasformiamo in futuri adulti infelici. «L´educazione – sostiene Aldo Naouri, guru dei pediatri e degli analisti francesi, tradotto in Italia da Codice edizioni – è compiuta a 3 anni. E quindi deve essere presa in mano precocemente dai genitori. Dopo, la scuola farà il resto, ma solo se il piccolo non è diventato un tiranno».
Qualche esempio condiviso è riportato nel nuovo manuale di Pleux: è normale che un bambino voglia alzarsi da tavola, non è normale che sia lui a stabilire quando deve finire la serata; è normale che non apprezzi un nuovo cibo, non che affermi «fa schifo!»; è normale che non abbia voglia di preparare la tavola, non che imponga ai genitori di fargli da camerieri. Prevenire è meglio. È possibile riconoscere il tiranno in erba già a sei mesi, quando strilla senza prendere fiato perché vuole o non vuole il seno materno o il biberon, piuttosto che il cambio di pannolino o il bagnetto. Nelle stagioni successive, i segnali diventano ancora più chiari, mentre papà e mamma, disperati, raccontano al pediatria: «Nostra figlia di due anni guarda troppi cartoni animati. Impedirglielo? Non sappiamo come fare, perché si metterebbe a piangere. E, comunque, è lei che tiene il telecomando». Influenzate da una cultura permissiva e da una bassa natalità che (proprio come in Cina) fa di ogni nuovo nato un "piccolo re", le madri italiane credono di proteggere le proprie creature ricostruendo intorno a loro un "utero virtuale". E i padri, peggio ancora se separati, fanno a gara nel rendersi più graditi con doni, "permessi speciali" e complicità fuori luogo basate su un codice comune tra adulti. Tornare indietro non è possibile, avverte Pleux, ma riconoscere i segnali è invece doveroso. E se proprio le notti insonni, le cene rovinate, gli imbarazzanti colloqui scolastici con insegnanti che ci raccontano come il nostro delizioso primogenito abbia funestato la vita della classe non sono sufficienti, forse sarà d´aiuto riflettere sui dati demografici: la natalità europea, e italiana, è precipitata ormai da più di vent´anni. Ne deriva che il nostro "bambino tiranno" incontrerà molti suoi colleghi nel corso della sua vita, seduti alla scrivania di capufficio.

Repubblica 28.12.11
La psicologa Tilde Giani Gallino: la sindrome si contagia anche ai fratelli più piccoli
"I genitori sono diventati troppo permissivi ecco perché i bimbi vanno fuori controllo"


«Viviamo in una società permissiva. Non c´è da stupirsi se ai bambini, specie se figli unici, viene concesso troppo. E se questo "troppo" viene copiato se e quando arriva un secondo fratello». Tilde Giani Gallino, psicologa dell´età evolutiva, mette in guardia sull´aspetto "contagioso" della sindrome del bambino tiranno (e dei genitori prigionieri).
La colpa è dei genitori?
«Non solo, poiché gli stessi adulti sono stati educati in modo permissivo. Oggi è normale che i piccoli non ascoltino quando si chiede loro di fare o non fare una cosa, per esempio aprire armadi o cassetti a casa di amici. I bambini sanno che questo comportamento verrà tollerato e diventano ancora più prepotenti».
Il problema persiste anche quando ci sono dei fratelli?
«Se abbiamo concesso tutto al primogenito, sarà lui stesso a "insegnare" agli altri come fare per ottenerlo».
Ma i "bambini viziati" non esistevano già cinquanta o cento anni fa? Perché oggi li chiamiamo tiranni?
«Esistevano, ma un tempo c´era una figura permissiva, la madre, e un´altra severa, il padre, che riequilibrava le cose. Oggi giustamente nessuna mamma minaccia i figli dicendo che papà li picchierà quando tornerà a casa…». (v.sch.)

Repubblica 28.12.11
Da domani in edicola con Repubblica e l’Espresso
Da Leonardo a Picasso ecco i maestri della pittura
Una nuova collana di venti dvd per conoscere i grandi autori. Critici e curatori svelano vite e opere che hanno fatto la storia
Si raccontano gli artisti e le opere ma anche i luoghi dove i capolavori sono esposti
di Dario Pappalardo


L’anno scorso le file ai musei italiani erano tutte per Caravaggio. In questa fine 2011 Leonardo mette in coda gli inglesi, mentre una sola tavola di Giotto attrae i russi all’Ermitage. Van Gogh, ormai, è una moda che non passa più. Per non parlare di Monet e degli Impressionisti. Di Michelangelo affascina ancora tutto: dai dipinti ai disegni. Eppure conosciamo davvero quelli che una ormai storica collana degli anni Sessanta definiva i "maestri del colore"? I quadri parlano da soli? A queste e ad altre domande vuole rispondere una nuova serie di dvd in uscita ogni settimana da domani 29 dicembre con Repubblica e L´Espresso. Dopo Il Caffè filosofico, Beautiful Minds e Il Caffè letterario, ecco Il Caffè dell´arte, dove i protagonisti non sono filosofi, scienziati o scrittori, ma per la prima volta gli artisti, raccontati da chi li studia da sempre: alcuni tra i più autorevoli storici dell´arte, curatori e critici (con la regia di Michele Calvano).
Si parte (la prima uscita è a solo un euro, le successive a 7, oltre il costo dei giornali) proprio con il campione di incassi Caravaggio, descritto attraverso una selezione dei suoi dipinti da Claudio Strinati. Per continuare poi con il Van Gogh illustrato da Flavio Caroli (anche curatore del dvd dedicato a Piero della Francesca), il Leonardo di Antonio Natali, direttore degli Uffizi, il Giotto di Francesca Flores d´Arcais, il Dürer di Philippe Daverio, il Masaccio della soprintendente al Polo museale fiorentino Cristina Acidini (voce anche di Michelangelo), il Van Eyck di Stefano Zuffi (suo anche il dvd su Rembrandt), l´Antonello da Messina di Mauro Lucco (che spiega anche Tiziano), il Cézanne di Luca Massimo Barbero, il Raffaello di Vincenzo Farinella e il Goya di Tosini Pizzetti. Un elenco lungo venti nomi che, dal Medioevo al XX secolo (il più contemporaneo è Pablo Picasso, qui introdotto da Marina Pugliese), hanno cambiato l´arte figurativa occidentale. Quel che li accomuna è l´aver ogni volta, nel proprio secolo, rovesciato uno schema e imposto un nuovo canone: un artista è prima di tutto un irregolare. Velázquez (raccontato da Strinati) gioca con la realtà e la finzione molto prima di Borges. Monet (di Maria Vittoria Marini Clarelli, direttrice della Gnam di Roma) fa sua la luce e trasfigura il paesaggio. Kandinsky (spiegato da Phyllis Rylands) lascia esplodere le sue sinfonie di segni e colori sulla tela. Duchamp (descritto da Achille Bonito Oliva) svela, attraverso le provocazioni, l´inganno del mercato dell´arte.
Dietro ogni opera ci sono una storia e un contesto da raccontare. I libretti di sedici pagine che accompagnano i dvd riassumono le biografie dei pittori e danno informazioni sui luoghi d´arte in cui sono stati registrati i filmati, dalla Galleria Borghese di Roma al Guggenheim di Venezia. Ma stavolta a parlare davvero saranno i capolavori, attraverso le voci di chi li conosce bene.