giovedì 29 dicembre 2011

l’Unità 29.12.11
La fotografia del 2065: calo demografico, dopo un picco a 64 milioni. Età media di 50 anni
Gli immigrati per fortuna ci «terranno» giovani ma serve un’integrazione «di qualità»
Istat: l’Italia invecchia Un cittadino su quattro sarà di origine straniera
Un Paese che invecchia e rischia di implodere perché la metà della popolazione sarà a carico dello Stato. E che deve ringraziare gli immigrati: fra 50 anni saranno un quarto della popolazione, incrementandone la parte attiva
di Jolanda Bufalini


Se già oggi l’Italia vi sembra un paese di vecchi e di badanti, dovete fare uno sforzo per immaginarvi il paese fra 20, 30, 50 anni. Se nell’anno di grazia 2012 20 persone su 100 hanno più di 65 anni, nel 2040 la percentuale di anziani sale al 32 per cento per stabilizzarsi e cominciare a decrescere nel 2065. E i ragazzi sotto i 14 anni, che oggi sono il 14 per cento della popolazione, nel 2065 saranno poco più del 12 per cento. Mentre lavorerà solo poco più della metà della popolazione, le persone in età lavorativa (15-64 anni) passeranno dall’attuale 65,7 al 54,7% della popolazione nel 2056. Avremo un’età media di 50 anni contro gli attuali 43 e aumenterà l’indice di dipendenza delle persone anziane rispetto a quelle in età lavorativa mentre resterà sostanzialmente stabile il rapporto fra adulti e ragazzi.
È il quadro sconsolante che emerge dalla ricerca sul «futuro demografico del paese» presentata ieri dall’Istat. Gli abitanti dello stivale non saranno, fra 50 anni, molti di più degli attuali, 61milioni di persone, un risultato questo specifica l’Istat derivante da una dinamica negativa, quella delle nascite e delle morti: 40 milioni i decessi contro 28, 5 milioni di nascite che da il saldo negativo di 11,5 milioni di individui in meno. E da una dinamica positiva: ci saranno in Italia 12 milioni di immigrati, anche qui la cifra è un saldo fra 18 milioni di nuovi ingressi e 6 milioni di uscite.
Insomma, se nelle nostre strade, nei giardini, nelle scuole e nei parchi vedremo giocare e studiare bambini, questo lo dovremo ai tanti giovani migranti che hanno raggiunto le nostre città e le nostre campagne e che ancora arriveranno. Circa 300.000 persone ogni anno, ipotizza l’Istat, fino al 2020, quando il fenomeno migratorio in entrata diminuirà per assestarsi intorno a 250.000 ingressi intorno al 2020 e scendere a 175.000 unità annue nel 2065. Ma quei 12 milioni di italiani di origine straniera non saranno solo il risultato dei viaggi della speranza. Nelle coppie giovani che si insediano nel nostro paese la voglia di futuro si esprime anche con una maggiore natalità, saranno calcola l’Istat circa 7 milioni e mezzo i bambini nati in Italia da coppie di origine straniera in tutto il periodo coperto dalla ricerca. E la popolazione di origine straniera costituirà il 22 per cento circa della popolazione totale. Un dato, dice la sottosegretario al welfare Maria Cecilia Guerra, che deve indurre a calibrare le politiche di integrazione: «Non si tratta più di figure ai margini del mercato del lavoro ma di persone che amplieranno il ventaglio delle professionalità, non si tratterà più di persone che fanno le badanti o, in ogni caso, i mestieri con bassa retribuzione che gli italiani non vogliono più fare. Bisognerà costruire un rapporto paritario, fondato sui diritti di cittadinanza e di voto».
IL SUD E LE ISOLE
I movimenti migratori investiranno anche la distribuzione di popolazione nel paese, il Mezzogiorno e le isole, secondo le previsioni dell’Istituto di statistica, si spopoleranno: nel Sud i residenti scenderanno dagli attuali 14 milioni ai 13 del 2040 e gli 11 milioni di abitanti nel 2065. Nelle isole si passerà dagli attuali 6,7 a 5,5 milioni di abitanti.
Ma ciò che è più preoccupante è che saranno i giovani ad andarsene e, soprattutto, a non arrivare dall’estero nelle regioni meridionali e nelle isole. Così mentre oggi, al Sud ci sono 2 milioni di giovani, fra 50 anni ragazzi e ragazze saranno poco più di un milione e nelle isole non ci sarà più di mezzo milione di giovanissimi sino ai 14 anni. A questa vecchiezza contribuisce in particolare il minore flusso di migrazione dall’estero, ne è prova, a contrario, la previsione che si fa per il Nord-est, più dinamico e capace di attrarre i migranti, dove la popolazione con meno di 14 anni dovrebbe crescere da 1,6 a 1,8 milioni.
Il dato più impressionante delle proiezioni elaborate dall’Istat riguarda la contrazione della popolazione attiva. Nonostante il contributo delle migrazioni, nel 2030 la popolazione attiva si attesterebbe sui 39 milioni di persone che lavorano contro quasi 17 miolni di popolazione inattiva. Nel 2065 la popolazione sopra i 65 anni di età raggiungerebbe il traguardo dei 20 milioni. Per fortuna c’è un’incertezza relativa ai flussi migratori, la forchetta relativa ai nuovi arrivi è piuttosto ampia e fa oscillare fra i 30 e i 37 milioni il numero delle persone residenti in età lavorativa.

l’Unità 29.12.11
Cambiamo con loro
di Luigi Manconi


L ’Istat, ricorrendo a numeri inequivocabili, offre un malinconico ritratto della nostra società tra 50 anni. Un’immagine spietata che dovrebbe determinare profonde riflessioni. La rappresentazione che emerge è quella non semplicemente di un Paese invecchiato, cosa che da tempo sappiamo, bensì quella, ancora più inquietante di un’organizzazione sociale destinata alla decadenza.
In questo processo di accelerata senescenza, un solo dato risulta apertamente contraddittorio, ed è così sintetizzabile: tra mezzo secolo quasi un quarto della popolazione presente sul territorio italiano sarà composto da stranieri. Ripeto: non sono dati inediti, ma è la loro consistenza, e la crescita più rapida delle curve tracciate precedentemente, a fare la differenza e a porci davanti a quesiti ineludibili. Non è la Caritas, infatti, a tratteggiare i contorni di una società diventata “multietnica” e di conseguenza “multiculturale” e “multireligiosa” per incoercibili dinamiche demografiche, ma è l’istituto pubblico di statistica, che utilizza indicatori scientifici ed elabora proiezioni sulla base di fattori economico-sociali oggettivi.
Lo scenario disegnato è tale da mettere in discussione o almeno così dovrebbe accadere le due opposte, e speculari, strategie emerse negli ultimi anni in materia di immigrazione. La prima è quella che rimanda ancora all’ideologia propria degli imprenditori politici dell’intolleranza (così definimmo nel lontano 1988 la Lega e gli altri spezzoni della destra che iniziavano a mobilitare le ansie collettive contro “l’invasione straniera”) e che, in buona sostanza, riduce l’immigrazione a problema di ordine pubblico, a questione criminale, a risorsa per l’acquisizione del consenso xenofobo.
Tale concezione si è espressa in una politica che ha oscillato tra contenimento e respingimento e che, quando costrettavi, ha fatto ricorso alle sanatorie per “normalizzare” un fenomeno che si continuava a considerare fonte di disordine sociale. Il prevalere di tale politica nell’arco degli ultimi venticinque anni ha fatalmente indotto nel campo avverso quello del centrosinistra una politica essenzialmente di reazione: alla criminalizzazione dello straniero si è risposto con la sua “umanizzazione”. Dunque, allo straniero stigmatizzato come minaccia sociale si è contrapposta l’immagine dello straniero come vittima, i cui diritti umani andavano tutelati. Impostazione spesso preziosa, sempre necessaria, ma inevitabilmente parziale.
Nell’un caso, come nell’altro, il migrante è stato considerato esclusivamente come un problema. Da respingere o da tollerare, da sanzionare o da assistere, da discriminare o da tutelare. Ma se quella vittima, ostracizzata dalla destra e accettata dalla sinistra, va a costituire un quarto dell’intera popolazione, appare evidente che entrambi quegli atteggiamenti l’uno ripugnante e l’altro condivisibile sono destinati a rivelarsi vani.
Intanto, perché quella popolazione straniera sarà, ancor più di oggi, componente essenziale del nostro sistema economico-sociale: contribuirà in misura rilevante (cosa che fa già oggi in una percentuale di quasi l’undici per cento) al prodotto interno lordo e alla creazione di ricchezza nazionale, sosterrà il nostro sistema previdenziale e la continuità di alcuni settori economici, sarà parte integrante delle nostre strutture di welfare (lavoro di cura e sanità, assistenza agli anziani, educazione dei minori...).
Risulterà davvero una bizzarria, allora, voler conservare per questi “nuovi italiani” la vetusta e irrazionale normativa sulla cittadinanza. Ma questo scenario futuro impone un radicale cambio di mentalità e di strategia già ora. E dovrebbe produrre quella politica per l’immigrazione, che oggi sembra mancare totalmente, se si escludono alcune misure varate dai due governi guidati da Romano Prodi.
Una politica per l’immigrazione dovrebbe tradurre in norme e dispositivi quella verità che, se continuasse a rimanere mera astrazione, finirebbe col risultare una bolsa retorica. Quella, cioè, che parla dell’immigrazione come di “una risorsa”. Ma se davvero vogliamo che così sia, dovremmo immediatamente e finalmente iniziare a conoscerla la popolazione immigrata. Oggi ancora così indistinta e ignota, nonostante sia così articolata e differenziata al proprio interno. Tra gli immigrati ci sono laureati e artigiani, contadini e manovali. Ci sono operai che vogliono specializzarsi e trasferirsi in Scandinavia e letterati che sono qui per studiare il Convivio dantesco. Dobbiamo innanzitutto conoscerli. Dobbiamo, anche noi, non discriminarli quasi fossero una moltitudine anonima e seriale.

La Stampa 29.12.11
“2065, stranieri triplicati”
Il nostro futuro multietnico
di Giovanna Zucconi


Bisogna smettere, e pure in fretta, di pensare l’italiano tipo come un individuo dotato di nonni nati in Italia. Questo è un messaggio chiave che trasmette il rapporto dell’Istat sul futuro della popolazione del nostro Paese. Infatti, a vivere in Italia nel prossimo mezzo secolo saranno sempre di più persone e famiglie che hanno origini straniere, più o meno lontane nel tempo. E fin d’ora non sono poche. Già all’inizio del 2011 i residenti stranieri in Italia erano più di 4 milioni e mezzo, cioè il 7,5% del totale. E dal computo sono esclusi gli immigrati e i loro discendenti che hanno ottenuto la cittadinanza. L’Istat prevede, seppure con molte cautele metodologiche, che nel 2065 la percentuale degli stranieri arrivi nell’ipotesi più bassa al 22% e in quella più alta al 24% dell’intera popolazione residente.
Possono sembrare dati impressionanti, ma non è il caso di lasciarsi impressionare. E per una serie di motivi. Come sanno bene i ricercatori dell’Istat, le previsioni sulla popolazione quando si proiettano su tempi molto lunghi possono presentare grosse sorprese. Su un arco di tempo più breve (20 anni), immaginando cioè nel 1987 cosa sarebbe successo nel 2007, l’Istat aveva previsto un impatto quasi irrilevante dell’immigrazione, e lo stesso aveva fatto l’Irp, cercando di prevedere nel 1988 cosa sarebbe successo 20 anni dopo. Insomma, in quegli anni il contributo dell’immigrazione alla popolazione del nostro Paese era stato largamente sottovalutato. Siamo sicuri di non cadere, oggi, nell’eccesso opposto? Probabilmente stiamo rischiando di sopravvalutare il numero dei nuovi arrivi. Non è, infatti, detto che il mercato del lavoro italiano, in futuro, sia ancora capace di attrarre potenti flussi dall’estero. Già con il decreto flussi del 2010 il Governo italiano ha offerto più permessi di soggiorno rispetto a quelli di fatto utilizzati. E il tasso di disoccupazione degli immigrati tra il 2008 e il 2010 è aumentato tre volte e mezzo di più di quello degli italiani. Così come non è detto che potenti esportatori di popolazione verso l’Italia, come la Romania o la Cina, abbiano in futuro condizioni economiche tanto peggiori delle nostre, e tali da spingere a emigrare in massa nel nostro Paese. Emigrare è costoso anche in termini emotivi e, se la differenza di prospettive economiche tra il posto che si lascia e quello verso cui si va non è abbastanza ampia, non si emigra. Non è detto neppure che gli stranieri che si fermano in Italia continuino a fare più figli degli italiani. Insomma, quando guardiamo a un futuro lontano, ci possiamo sbagliare sui numeri. E comunque se i numeri fossero alti sarebbe un bene: vorrebbe dire che nel nostro Paese c’è un’economia attraente.
Quello di sbagliare sui numeri non sarebbe grave. L’Istat, inoltre, guardando al futuro, ha ritenuto opportuno distinguere tra immigrati che restano stranieri e coloro che hanno ottenuto la cittadinanza. Fa le sue previsioni in base alla legge attuale, ma osserva giustamente che la normativa sulla cittadinanza può cambiare. Ed è probabile che cambi. Un recentissimo sondaggio del Centro Italiano di Studi Elettorali dà un 71% di favorevoli a dare subito la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, e conclusioni analoghe vengono da Tti, il sondaggio annuale condotto da Gmf e Compagnia di San Paolo. A maggior ragione potrebbe essere accettata la riforma oggi in cantiere, che la concederebbe ai figli di immigrati che risiedono stabilmente da un certo numero di anni. Quindi, il numero di persone statisticamente straniere potrebbe ridursi parecchio, in seguito a una nuova normativa.
Quest’osservazione apre un’altra questione più importante: basta la cittadinanza a fare il cittadino? L’immigrazione è un fenomeno complicato da interpretare, perché ci interessa non solo la sua accertata capacità di sopperire alle carenze di popolazione e forza lavoro, di aiutarci a tenere i conti pubblici in ordine, ma anche per l’impatto che può avere sulla coesione sociale. Se vogliamo ragionare su quest’aspetto, la distinzione giuridica tra immigrati rimasti stranieri e quelli divenuti cittadini non basta. Si può non essere immigrato ed essere comunque straniero e questo è proprio il caso dei bambini nati in Italia. Ma, se prendiamo in considerazione un altro aspetto, quello dell’identità, della cultura, osserviamo che molti che restano stranieri in base al diritto, sono italiani per identità e per cultura. Un’interessante inchiesta televisiva, che ha fatto incursione in varie scuole piene di bambini in gran parte ancora stranieri, ci ha dato un saggio di quanti di loro parlino un ottimo italiano, magari con un po’ di accento dialettale, di quanti tra loro conoscano la storia del Risorgimento, anche meglio di altri bambini con nonni italiani. Questo vale ovviamente anche per molti immigrati arrivati da adulti e rimasti stranieri, perché non vogliono scegliere o perché preferiscono evitare i lunghi tempi di attesa e le trafile della nostra burocrazia. Se ci sembra opportuno prevenire futuri conflitti tra italiani con nonni italiani e italiani con nonni stranieri, dobbiamo porci due obiettivi. Il primo consiste nel favorire una maggiore integrazione sociale e strutturale. Infatti, non possiamo segregare gli immigrati, specie le seconde generazioni, in percorsi scolastici di minore qualità, in occupazioni scarsamente remunerate e poco considerate socialmente, non possiamo farli vivere in quartieri degradati. Le rivolte delle Banlieue dovrebbero averci insegnato qualcosa. Ma non basta: dobbiamo mirare anche all’integrazione culturale, offrire rispetto, e questo è il secondo obiettivo. Non possiamo accettare che si traccino, come alcune forze politiche stanno facendo, barriere di disprezzo nei confronti degli immigrati in genere e di certe minoranze in particolare. Individui anche benestanti e colti, se si sentono estraniati, possono diventare membri attivi di gruppi eversivi, come dimostrano varie biografie di attentatori. Per tutti questi motivi è bene smettere di pensare all’Italia come un Paese di noi e di loro. Già ora ha poco senso, tra cinquant’anni sarà semplicemente ridicolo. O tragico.

La Stampa 29.12.11
Istat, come cambia il Paese
Anziani e immigrati ecco l’Italia del 2065
La forza lavoro calerà dell’11%, uno su quattro sarà straniero
di Grazia Longo


61,3 milioni. La popolazione Calo nel Sud, crescita nel Centronord
L’indice di dipendenza degli anziani passerà dall’attuale 30,9% al futuro 59,7%
49,7 anni L’età media salirà Al Sud arriverà addirittura a 51 anni
33% gli over 65 Un cittadino su tre sarà anziano, il 12,7% avrà meno di 14 anni"
14,1 milioni Gli stranieri, che oggi sono 4,6 milioni, triplicheranno"

In fondo, è una questione di punti di vista. L’Italia che verrà sarà un Paese per vecchi invaso dagli immigrati? Oppure un potenziale Eden in cui le migliori condizioni allungheranno la vita in un contesto di arricchimento multietnico? La lettura delle proiezioni Istat fino al 2065 è ambivalente.
I numeri, tuttavia, parlano chiaro. Tra poco più di cinquant’anni saremo 61,3 milioni - concentrati per lo più al Nord, con l’età media schizzata dagli attuali 43,5 anni ad un massimo di 49,8 anni nel 2059 -, saranno triplicati gli stranieri, diminuiti invece notevolmente i giovani rispetto agli anziani. E fin qui è normale che sociologi, sindacalisti e politici si confrontino sulla positività o meno dei dati. A preoccupare veramente, però, è la diminuzione della forza lavoro: calerà di ben 11 punti percentuali. La popolazione in età lavorativa (15-64 anni) evidenzia, nel medio termine, una lieve riduzione, passando dall’attuale 65,7% al 62,8% nel 2026. Nel lungo termine, invece, l’Istat si aspetta una riduzione più accentuata, fino al 54,7% nel 2065 (-11%).
Lo scenario di quello che diventeremo è il risultato dello studio dei questionari del censimento 2011 che tanto ci hanno fatto disperare nei mesi scorsi. Quelli già restituiti sono quasi 22 milioni (per l’esattezza 21.790.000) su un totale di 25: il 29,8% è stato compilato online, il 33% è stato consegnato agli uffici predisposti dai Comuni, il 22,4% agli uffici postali. In generale è stato riconsegnato l’85,3% del target considerato. I primi della classe, per velocità nella restituzione dei moduli compilati, sono i cittadini della provincia di Bolzano, della Valle d’Aosta, della provincia di Trento, della Basilicata, delle Marche e della Liguria. Fanalino di coda il Lazio con Roma.
L’aspetto più critico resta l’occupazione: la riduzione della forza lavoro potenziale sarà più marcata al Sud, dove il crollo sarebbe pari a 2,6 milioni di lavoratori tra il 2030 e il 2065. Questo aspetto modificherà anche i rapporti tra le generazioni. Se oggi l’indice di dipendenza degli anziani (cioè il rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e chi ha un’età compresa tra 15 e 64 anni), equivale al 30,9%, nel 2065 lieviterà fino al 59,7%. Nel complesso la popolazione fino a 14 anni di età, oggi pari al 14% del totale, raggiungerebbe un massimo del 12,7% nel 2065. Entro quell’anno i giovani risulterebbero pari a 7,8 milioni. Particolarmente accentuato sarà l’aumento degli anziani: gli over 65, oggi pari al 20,3% del totale, dovrebbero diventare il 32-33% nel 2056. E si invecchierà di più al Sud: l’età media di oggi, 42 anni, salirà a 51 nel 2065. Mentre al Nord si passa dai 44 anni di età media attuali, ai 49 anni.
I cittadini stranieri, invece, che sono oggi pari a 4,6 milioni, arriveranno a 7,3 milioni nel 2020 e 14,1 milioni entro il 2065, residenti soprattutto al CentroNord mentre le acquisizioni di cittadinanza saranno 7,6 milioni. E il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei di palazzo Madama, ribadisce la necessità di leggi che favoriscano gli immigrati «per evitare che siano trattati da cittadini di serie B». Per l’antropologo Luigi Lombardi Satriani «la crisi è spaventosa. Ma bisogna confidare nelle generazioni future, credere nella loro capacità di trovare nuove forme di approvvigionamento delle risorse».
Fin qui le proiezioni. Ma interessante è anche la fotografia dell’esistente. Nella gestione familiare, ad esempio, è confermato il ruolo preminente della donna. Con tutte le difficoltà che ne possono derivare. A fronte del 37,5% delle madri che, con figli con meno di 8 anni, hanno smesso di lavorare per almeno un mese, la percentuale dei padri si abbatte fino all’1,8%. Le mamme più penalizzate sono quello con titolo di studio meno elevato: sono rimaste a casa circa quattro madri ogni dieci in possesso di una laurea o di un diploma di scuola superiore e meno di tre madri ogni dieci con un livello di istruzione più basso.

Corriere della Sera 29.12.11
Italia 2065 11 Milioni di immigrati o cittadini?
La storia insegna che il figlio di un migrante può amare la Patria più di un locale
di Gian Antonio Stella


«Siete vecchi! Vecchi! Vecchi!». Il tormentone di Oliviero Toscani è ripreso nei dati Istat: l'età media degli italiani, che è già a 43,5 anni, è destinata a salire quasi a 50.
E andrebbe ancora più su senza gli immigrati. Che in mezzo secolo dovrebbero triplicare.
C'è chi si sentirà gelare il sangue.
Ma mai come in questo caso i numeri vanno presi con le pinze. E possono aiutare a capire.
Gli anziani con oltre 65 anni che sono un quinto (20,3%) della popolazione, dovrebbero nel 2043, cioè fra poco più di tre decenni (il tempo che ci separa, per dire, dal festival di Sanremo segnato dal «Wojtilaccio» di Benigni) passare il 32%. Uno su tre.
Il numero dei bambini e dei ragazzi sotto i 14 anni dovrebbe scendere parallelamente nel 2037 al 12,4%: uno su otto. Mentre cresceranno i pensionati, caleranno gli italiani al lavoro per pagare quelle pensioni e accantonare le proprie: la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) scenderà in tre lustri dal 65,7% al 62,8% per precipitare infine nel 2056 a un minimo del 54,3%.
Non c'è Paese al mondo che possa reggere con numeri così. Impossibile.
Men che meno un Paese industriale che tale voglia restare. Ed è in questo contesto che vanno letti i dati sull'immigrazione. Dice dunque l'Istituto di statistica che, sulla base delle tendenze attuali (da prendere con le molle perché la storia prende spesso pieghe inattese), gli arrivi dovrebbero proseguire incessanti con un aumento dei residenti con cognome estero dai 4,6 milioni di oggi a 14,1 milioni nel 2065. Per capirci: «L'incidenza della popolazione straniera passerà dall'attuale 7,5% a valori compresi tra il 22% e il 24% nel 2065».
Ma qui, appunto, bisogna capirci. Partiamo dall'età media: spiega una tabella Istat che gli italiani sono mediamente, in realtà, ancora più vecchi (44,4 anni) e portano sul groppo 12 anni e mezzo in più rispetto agli stranieri, che stanno sotto i 32.
Peggio ancora andrà in futuro se è vero che in quel 2065 preso a riferimento l'età media degli italiani arriverà a 51 anni e otto mesi.
Contro i 43 scarsi dei nostri «ospiti». Insomma, piaccia o non piaccia saranno gli immigrati e i loro figli a pagare in modo determinante le nostre pensioni. Andassero via tutti, saremmo nei guai fino al collo.
Bruno Anastasia, a capo dell'Osservatorio immigrazione di Veneto Lavoro, ha fatto due conti prendendo ad esempio la sua regione, una di quelle che tirano. La popolazione veneta aumenterà nei prossimi vent'anni di circa mezzo milione di abitanti grazie in gran parte ai nuovi arrivi: «È evidente che gli italiani rimarranno costanti solo grazie ai naturalizzati». Di più: se passeranno dal 10% di oggi al 18% fra vent'anni, gli immigrati «nelle classi di età centrali (trentenni-quarantenni) sfioreranno il 30%». Un terzo della forza lavoro. Nonostante il fatto che molti, appena possibile, torneranno a casa andando a coprire circa il 95% di quanti (5,9 milioni a livello nazionale) lasceranno l'Italia.
C'è chi pensa sul serio che possiamo «prendere in affitto» milioni di persone tenendoli qui «appesi» per decenni? «Se io fossi uno xenofobo me lo chiederei», dice il demografo Massimo Livi Bacci: «Se il saldo positivo sarà davvero di 11 milioni di persone mi spaventerebbe meno avere 11 milioni di immigrati emarginati, senza casa, senza diritti, ignari della lingua, senza una famiglia che come in tutte le emigrazioni è quella che aiuta l'inserimento? Non credo proprio. L'inserimento non è solo un interesse loro: è anche interesse nostro».
Giorgio Napolitano l'ha detto bene invitando le Camere ad affrontare il tema della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati: «Negarla è un'autentica follia, un'assurdità». Sia chiaro, in un'epoca in cui per il Cestim «il 16,6% degli abitanti del pianeta vive in una regione diversa da quella di nascita», passare dallo «ius sanguinis» (la cittadinanza dipende dai genitori) allo «ius soli» (chi nasce sul suolo di uno Stato è cittadino di quello Stato) impone massima cautela. Perfino gli studiosi più aperti invitano a procedere coi piedi di piombo. Come non ha senso che Leonardo DiCaprio, un americano che a dispetto del nome non sa quasi nulla dell'Italia, possa rivendicare il passaporto e votare un «suo» deputato, non ha senso che quel documento possa chiederlo il figlio di una turista nato casualmente a Capri.
Del resto, spiegano Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio L'evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale, proprio gli epocali esodi migratori hanno spinto nel dopoguerra molti Paesi a cambiare le loro leggi. Lo «ius soli» integrale applicato mezzo secolo fa dalla metà dei 162 Paesi studiati è integralmente conservato oggi solo da 36. Altri 31 (soprattutto colonie africane che si sono radicalizzate con l'indipendenza) sono passati allo «ius sanguinis». Ma in gran parte, sia che venissero dal primo (l'Irlanda) sia dal secondo sistema (la Germania), hanno finito per scegliere un mix. Che cerchi di tutelare insieme la maggior integrità possibile delle etnie nazionali e la maggiore integrazione possibile dei nuovi cittadini.
Come può l'Italia non rivedere le leggi che hanno permesso a Mario Balotelli, nato a Palermo e cresciuto da genitori bresciani, di diventare italiano solo al compimento dei 18 anni? Anche perché la storia dimostra che il figlio di un immigrato, se accettato e inserito secondo regole chiare, può amare la Patria più di un compaesano con mille anni di «cromosomi» locali.
Valga per tutti il caso di Leon Gambetta. Era figlio di un immigrato savonese e scriveva con amore della chiesa di San Michele, «diamante incastonato in una foresta d'ulivi». Ma era più francese dei francesi, e quando dopo la disfatta di Sedan Napoleone III si consegnò al kaiser Guglielmo, fu lui a dire «No, la Francia non si arrende». E restituì lui l'onore alla Patria che aveva scelto e amato. Se fosse rimasto appeso per decenni al rinnovo del permesso di soggiorno sarebbe stato lo stesso uomo?

Corriere della Sera 29.12.11
Stranieri triplicati, pochi ragazzi Ecco l'Italia fra mezzo secolo
Le previsioni demografiche: saremo 61,3 milioni nel 2065
di Alessandra Arachi


ROMA — Immaginate di essere in una macchina del tempo e di andare avanti di cinquant'anni. Guardate l'Italia: il vostro Paese è profondamente cambiato. Quasi una persona su quattro fra quelle che girano per le strade è un immigrato. E quelle strade sono piene di persone anziane: una persona su tre ha più di 65 anni. Pochi i ragazzini in giro: soltanto uno su dieci, o poco più, ha meno di 14 anni. Non è un sogno: sono le previsioni dell'Istat.
Un lavoro statistico realizzato mettendo in campo variabili scientifiche per disegnare l'Italia nel 2065. Saremo un po' di più, 61,3 milioni di persone (una media ponderata calcolata fra un minimo di 53,5 e un massimo di 69,1 milioni) e lo saremo grazie al flusso migratorio, costante. Nel 2065 gli immigrati in Italia triplicheranno, passando dall'attuale 7,5% a un totale di 22-24% della popolazione.
Fosse per gli italiani, invece, il numero degli abitanti continuerebbe a diminuire, e anche velocemente: l'evoluzione della popolazione naturale per il 2065 ha infatti una dinamica negativa pari a 11,5 milioni (ovvero la differenza fra 28,5 milioni di nascite e 40 milioni di morti). Positivo, invece, il saldo degli stranieri immigrati in Italia: per 7,5 milioni di nuovi nati ci saranno nel 2065 2,3 milioni di morti. Ed ecco che la presenza degli immigrati in Italia passerà dagli attuali 4,6 milioni a 14,1 milioni (con una forchetta statistica di previsione che oscilla tra un minimo di 12,6 e un massimo di 15,5 milioni).
Saremo di più, saremo più multietnici. E, soprattutto, in Italia saremo sempre più vecchi. Non basta per questo dire che l'età media della popolazione aumenterà un po' ovunque (49,7 anni la media nazionale contro gli attuali 43,5) con punte nel Sud dell'Italia dove la popolazione invecchierà più che altrove, nove anni in cinquant'anni, e nel 2065 si arriverà a una popolazione con età media 51 anni contro gli attuali 42. Molto meno variabile la situazione demografica del Nord dell'Italia dove si arriverà a un'età media di 49 anni contro gli attuali 44.
Non rende nemmeno al meglio l'idea dire che da qui al 2065 gli ultrasessantacinquenni diventeranno il 33 per cento della popolazione. Il punto nodale per capire l'effetto pratico di questo invecchiamento della popolazione è un altro.
È una cifra, una percentuale che l'Istat chiama l'indice di dipendenza degli anziani, ovvero il rapporto tra la popolazione di ultrasessantacinquenni e la popolazione in età attiva, cioè fra i 15 e i 64 anni.
Oggi questo rapporto è pari al 30,9%. Raddoppierà nel 2065, arrivando al 59,7%. Tradotto vuole dire che se oggi c'è un ultrasessantacinquenne ogni due cittadini cosidetti attivi, cioè in età lavorativa, fra cinquant'anni la proporzione si invertirà e due anziani potranno far conto soltanto su un cittadino attivo.
Del resto i saldi troppo sbilanciati fra le nascite e i decessi nel nostro Paese (nonostante i saldi attivi degli immigrati) non possono che dare questi risultati demografici. Ecco quindi che crollerà la presenza dei ragazzini.
Se le previsioni dell'Istat verranno rispettate non ci sarà che il 12,7 per cento di abitanti con meno di 14 anni nel 2065, ovvero poco più di 7 milioni in totale. A trascinare al ribasso queste percentuali saranno i bambini del Mezzogiorno d'Italia dove la loro presenza va a picco, passando dagli attuali 2,1 a 1,3 milioni. Stesso crollo nelle isole: da 1 milione di oggi a 600 mila nel 2065.
Inevitabili, viste le cifre, le ricadute che si avranno nelle percentuali della forza lavoro. Lo abbiamo già detto: il rapporto fra i cittadini attivi e gli anziani invertirà le sue proporzioni. Ma anche in numero assoluto diminuirà notevolmente la percentuale di cittadini in età di lavoro, almeno per quella che oggi viene considerata l'età attiva del lavoro, ovvero fra i 15 e i 64 anni.
Oggi i cittadini attivi sono il 65,7% del totale. Secondo l'Istat ci sarà una riduzione di questa fascia di età contenuta in un medio termine, mentre sarà ben più accentuata nel lungo periodo. Per capire: nel 2026 i cittadini con età compresa fra i 15 e i 64 anni saranno il 62,8%, ma nel 2065 toccheranno il picco negativo del 54,7%, ovvero meno 11% rispetto agli attuali.

l’Unità 29.12.11
Investire sul lavoro
L’Europa torni a scoprire l’attualità di Keynes
di Laura Pennacchi


È stupefacente che l’Italia e l’Europa stiano precipitando in una gravissima recessione senza fare niente per arrestarla e, anzi, aggravandola con politiche restrittive draconiane, irrimediabilmente destinate a comprimere i consumi e gli investimenti. Questo è accaduto al vertice europeo dell’8-9 dicembre, sotto l’imperio del duo Merkel-Sarkozy.
In quella sede l’ortodossia mirata a un’austerità fiscale generalizzata è risultata addirittura rafforzata, spingendo l’Europa nel «vicolo cieco» di cui parla Giuliano Amato. E ciò mentre indicatori tutti al negativo la disoccupazione esplosiva, la decrescita del commercio internazionale, lo sgonfiamento del boom dei paesi emergenti compresa la Cina, la moltiplicazione delle misure protezionistiche inducono il Fondo Monetario Internazionale ad evocare il rischio che si ripeta qualcosa di molto simile alla Grande Depressione degli anni 30, con il suo corredo di congiunzione tra recessione e tragedie totalitarie.
In questa situazione non dovrebbe sfuggire a nessuno la rinnovata centralità della questione del lavoro, non come ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro (come vorrebbero i sostenitori dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), ma come riattivazione di «piena e buona occupazione» con un Piano straordinario di creazione di lavoro per giovani e donne. Puntare sulla «piena» occupazione, infatti, è oggi il solo modo per far ripartire la crescita, così come generare «buona» occupazione è il solo modo per avere non una crescita quale che sia ma un nuovo modello di sviluppo. Non a caso furono politiche occupazionali su larga scala e di taglio non tradizionale quelle con cui il New Deal di Roosevelt sconfisse la depressione degli anni 30.
Vi sono, dunque molte buone ragioni per compiere un salto culturale e riscoprire l’attualità di Keynes, il quale giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento» e di «socializzazione dell’occupazione». Oggi, mentre la crisi globale scoppiata nel 2007-2008 sposta la sua carica distruttiva sull’Europa aggredendo direttamente il debito sovrano dei Paesi europei e mettendo in forse la stessa sopravvivenza dell’euro, si riproducono condizioni impressionantemente analoghe a quelle studiate da Keynes: la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono tutti gli operatori, gli investimenti crollano e i profitti flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito.
Per evitare che le forze destabilizzanti prendano il sopravvento l’ipotesi keynesiana dell’intrinseca instabilità del capitalismo prevede, anziché solo nuove regolazioni e liberalizzazioni pur opportune, la necessità di uno stimolo fiscale pubblico di grandi dimensioni, del tipo di quello tentato da Obama negli Usa. Quell’intervento diretto dello Stato (che oggi dovrebbe configurarsi alla scala di una statualità europea) che, preteso anche e soprattutto dai neoliberisti quando si tratta di salvare le banche e gli operatori finanziari, per altre finalità si vorrebbe far «arretrare» con tagli di spesa e privatizzazioni. Keynes, invece, consiglierebbe piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti, finanziati in disavanzo con nuova moneta, distinguendo tra debito «buono» (quello, per l’appunto, per nuovi investimenti) e debito «cattivo» (quello per spesa pubblica corrente improduttiva) e tenendo congiunti il lato della domanda e quello dell’offerta, tanto più in una fase di squilibri nelle capacità produttiva tra eccessi in alcuni settori e deficit in altri. Per Keynes solo un regime di pieno impiego dei fattori della produzione giustifica il principio del pareggio di bilancio, che in ogni caso non può valere per gli investimenti pubblici, vero traino dello sviluppo economico in una fase in cui si tratta non solo di rilanciare la crescita ma di cambiarne la qualità e la natura.
La «socializzazione degli investimenti», destinata a riqualificare l’offerta e ad aumentarne la produttività, al tempo stesso sostiene la domanda contenendo l’inflazione e riducendo nel tempo il rapporto debito/pil. La «socializzazione dell’occupazione» fa sì che l’operatore pubblico si doti di un «piano del lavoro» per la miriade di obiettivi che attendono solo agenzie e strutture che se ne prendano cura: tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali.
Per tutto ciò a un ripensamento strategicamente innovativo delle problematiche del lavoro e dell’occupazione deve essere orientato un armamentario in grado di sottrarre il «riformismo» a un tardo blairismo e a un veteroliberismo e di interpretarlo alla luce delle altissime sfide del presente e del futuro: una Tobin tax che punti alla definanziarizzazione di economie eccessivamente finanziarizzate, la tassazione dei patrimoni, il ripristino di un controllo sui movimenti di capitale volto a rendere «intelligente» la globalizzazione sregolata e iniqua che abbiamo avuto fin qui, la mutualizzazione del debito europeo, la riaffermazione in Europa del ruolo degli organismi comunitari e la ripartenza dell’unificazione politica.

Repubblica 29.12.11
Contratto unico sì, licenziamenti facili no
di Luciano Gallino


Nella discussione sullo stato del mercato del lavoro circolano da anni varie proposte di un contratto unico a tempo indeterminato per le nuove assunzioni di lavoratori alle dipendenze. Proverò a spiegare perché l´idea di un contratto unico, presa a sé, è una buona idea. Che però diventa pessima quando la proposta sia corredata da dispositivi i quali, in sintesi, rendono più facili i licenziamenti. La discussione tra le parti sociali e il governo potrebbe fare qualche passo avanti se si riuscisse a concentrare l´attenzione sul meglio delle proposte in parola, lasciando da parte il peggio.
1. In Italia il problema dell´occupazione è ormai drammatico. Si riassume in due cifre: 3,5 milioni di disoccupati, e 2,5 milioni di precari con contratti di breve durata dal rinnovo incerto, mal pagati anche perché di rado lavorano per dodici mesi filati, privi di effettive tutele sindacali, e un futuro previdenziale da fame. Inoltre stanno invecchiando: il 60 per cento supera i trent´anni e oltre il 20 ha passato i quaranta (dati Ires-Cgil). Sebbene siano due facce dello stesso problema occupazionale, le soluzioni prefigurabili per ciascuna sono differenti. La disoccupazione avrebbe bisogno di interventi diretti, i quali richiedono un discorso a parte. Qui toccherò solo i modi in cui si potrebbe dare un´occupazione stabile ai lavoratori precari.
2. L´introduzione di un contratto unico da lavoratore dipendente per i nuovi assunti potrebbe condurre a stabilizzare una grossa quota di precari in un tempo relativamente breve. I contratti atipici hanno in prevalenza una durata compresa tra i sei mesi e un anno. Giacché non si potrebbero rinnovare se non in forma di assunzione alle dipendenze, tolti i pochi di cui si possa dimostrare che il contratto di collaborazione o la partita Iva corrispondono davvero a un lavoro autonomo, nel volgere di un paio d´anni il loro numero sarebbe ridotto di molto: si può ipotizzare di almeno un milione. Il nuovo contratto avrebbe pure il vantaggio di non richiedere la cancellazione della legge 30/2003, che sarebbe per più motivi complicata, né del suo decreto attuativo numero 276 dello stesso anno, pur con i suoi devastanti dispositivi. Essi andrebbero gradualmente ad esaurimento.
3. C´è un´obiezione ovvia a un contratto unico non corredato da licenziamenti facili: se non possono fruire della prospettiva di questi le imprese non assumeranno nessun precario. La risposta non può che essere duplice. In primo luogo il contratto unico cum licenziamento facile avrebbe, in realtà, l´effetto di trasferire in blocco la precarietà dagli attuali lavori atipici ai titolari del nuovo contratto. In secondo luogo le proposte in oggetto prevedono che l´introduzione di quest´ultimo abbia comunque un costo, ad esempio in forma di assicurazione contro la disoccupazione. Invece di questa si potrebbe pensare a forme di incentivo, mirate e temporanee, per le imprese che assumono con il nuovo contratto, privato però della coda che agevola i licenziamenti. Vediamo i due punti nell´ordine.
4. I fautori del contratto unico con libertà di licenziamento incorporata guardano in genere al modello Danimarca. Il guaio è che dalla flessicurezza alla danese, il famoso "triangolo d´oro" costituito da massima libertà di licenziare, elevati sussidi di disoccupazione e politiche attive del lavoro, c´è poco da imparare. Il suo vanto principale, il più basso tasso di disoccupazione d´Europa, si fonda su un dato fittizio. Infatti le statistiche danesi non includono tra i disoccupati i pre-pensionati, che in quel paese sono eccezionalmente numerosi, né coloro che sono privi di occupazione ma stanno seguendo un programma che rientra nelle suddette politiche. Ove si tenesse conto di tale disoccupazione nascosta, i disoccupati in Danimarca non sarebbero il 4,2 per cento (al 2010), ma superebbero di parecchio il 10 per cento.
È vero che chi perde un lavoro laggiù ne trova presto un altro. Oltre il 40 per cento entro un mese. Ma qui s´incontra un altro inconveniente del modello danese. Una larga libertà di licenziare combinata con un rapido ritorno al lavoro fa sì che il 30 per cento dei lavoratori danesi cambi posto di lavoro ogni anno. Questa sorta di migrazione interna è facilitata dalle ridotte dimensioni del paese: il posto trovato è spesso a poca distanza da quello perso. Qualora in Italia prendesse piede il modello danese, i lavoratori in transito annuale da un´azienda all´altra, su e giù per il paese, sarebbero circa sei milioni, circa tre volte più di oggi. Sarebbe interessante conoscere al riguardo l´opinione di imprenditori e direttori del personale.
5. La domanda chiave è: perché mai le imprese dovrebbero avere una maggior libertà di licenziare quale premio di consolazione per assumere i nuovi entranti con un contratto unico a tempo indeterminato? In caso di difficoltà economiche non c´è bisogno di cambiare niente: valgono le norme circa i licenziamenti collettivi, di cui le imprese hanno fatto ampio uso negli ultimi anni, cui si aggiungono i pre-pensionamenti obbligatori, i piani di mobilità ecc. Restano i licenziamenti individuali. Per avallare la necessità di facilitarli in un primo (lungo) periodo viene affermato da un lato che un´impresa ha bisogno di anni per valutare le capacità professionali di un neo-assunto; dall´altro, che dopo anni di investimenti in formazione un´impresa non ha più interesse a licenziare un lavoratore perché perderebbe il capitale così investito. Ambedue le asserzioni sono prive di fondamento. Negli ultimi anni le professioni che hanno registrato il maggior aumento tra gli occupati riguardano il personale non qualificato, gli addetti alle vendite e ai servizi alle famiglie, e gli impiegati esecutivi: tutti lavori che si imparano in pochi giorni. Quanto all´investimento in formazione, le ricerche dicono che in settori dove esso avrebbe la massima importanza, vedi il metalmeccanico, esso si concreta, e solo in poche aziende, in dieci-venti ore l´anno: poco per rappresentare un investimento che un datore di lavoro non può perdere.
6. Alla fine, delle due l´una: o si introduce il contratto unico insieme con i licenziamenti facili, e si può star certi che la precarietà si diffonde anche nelle aziende dove prima non c´era o era marginale perché il datore di lavoro, privato della possibilità di ricorrere ai contratti a progetto, alle finte partite Iva ecc. sostituisce quei contratti di breve durata con il licenziamento. Prima che scatti, dopo anni, il vincolo dell´articolo 18. Oppure si trovano i modi per indurre le imprese ad assumere con il contratto unico lavoratori e lavoratrici mano a mano che scadono i loro contratti precari. È possibile che ciò comporti un costo. Ma il tentativo di imitare la non imitabile flessicurezza alla danese, fatti i conti, presumibilmente costerebbe di più. Quanto ad occupare i disoccupati di oggi e di domani, la via dovrebbe essere diversa rispetto a quella volta a disboscare la giungla della precarietà. Un tema su cui bisognerà ritornare.


l’Unità 29.12.11
Crisi dell’editoria
Liberazione occupata contro la chiusura


I lavoratori di Liberazione hanno occupato la redazione, perché il quotidiano continui a vivere, contro la decisione «unilaterale» dell’editore, l’Mrca spa (socio unico Rifondazione Comunista) di chiudere l’edizione cartacea dal 1 gennaio. Lo ha deciso ieri l’assemblea permanente di Liberazione, «per difendere la vita della testata e l’occupazione dei 50 lavoratori», tra giornalisti e poligrafici, che, sacchi a pelo srotolati nei corridoi, hanno dato il via all’occupazione aperta, per «continuare a fare il giornale e a lavorare tutti, come previsto dai contratti di solidarietà firmati a luglio».

il Fatto 29.12.11
In galera? Non ci si finisce più
di Bruno Tinti


Di come sia sbagliato utilizzare le risorse della giustizia penale per fare i processi di microcriminalità ho già scritto: mentre giudici e pm vagano per le camere di sicurezza sparse tra caserme e questure e si dannano per fare decine di direttissime ogni giorno per furticiattoli e piccolo spaccio, i processi importanti restano sulla scrivania; e la prescrizione galoppa. Qui voglio trattare di un’altra riforma del nuovo ministro della Giustizia, l’aumento da un anno a 18 mesi per la libertà controllata o detenzione domiciliare: per pene che non superino l’anno e mezzo non si entra in prigione, si sta a casa propria. Il ministro Severino queste cose le sa. Ma chi legge no. La pena inflitta dal giudice è finta, se ne fa davvero circa la metà, con l’eccezione degli ultimi quattro anni: questi non si fanno per niente. Non ci si crede, vero? Invece...
Art. 48 dell’ordinamento penitenziario: dopo aver scontato metà della pena si è ammessi alla semilibertà. Significa che di giorno si va in giro a lavorare; e di notte si torna in prigione a dormire. Trent’anni? Fatti 15, te ne vai la mattina e torni la sera. Già sembra incredibile ma, in realtà, è ancora peggio di così perché…
Art. 54: ogni anno di prigione vale nove mesi. Se non hai fatto casino (non se ti sei comportato bene, se hai prestato servizio gratuito in infermeria, se hai aiutato le guardie carcerarie a domare una rivolta, no, questo sarebbe troppo; basta che non hai combinato guai) ogni anno ti abbuonano tre mesi. Quindi i 15 anni teorici (la metà dei 30 che ti hanno dato) sono in realtà undici anni e 25 giorni, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera. Ma non è vero nemmeno questo perché …
Art. 30 ter: ogni anno hai diritto a 45 giorni di permesso (con qualche eccezione). Quindi gli undici anni sono in realtà (più o meno) nove anni e due mesi, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera.
NATURALMENTE questi calcoli variano a seconda della pena che il giudice ti ha inflitto: più o meno in prigione ci si passa davvero meno di un terzo della pena originaria. Ma non è vero nemmeno questo perché…
Art. 47 ter: arrivati a quattro anni dal fine pena teorico si concede la detenzione domiciliare, la pena si sconta in casa propria o in qualsiasi altro luogo che il detenuto richieda. Avete capito bene: quando mancano quattro anni al fine pena, si può stare a casa propria. O all’Hotel Excelsior, se si hanno abbastanza soldi. Quello a cui forse non avete pensato è che, se uno è stato condannato a quattro anni tondi ha diritto alla detenzione domiciliare da subito. C’è il fastidio di entrare in carcere, aspettare che l’avvocato abbia fatto richiesta al giudice di sorveglianza e che questi abbia emesso il provvedimento; poi però detenzione domiciliare: più o meno 15 giorni e se ne torna a casa. Ma attenzione, anche qui il tempo vola e la legge Gozzini (l’art. 54) continua a operare: ogni anno vale nove mesi, vi ricordate? Sicché, fatti nove mesi di detenzione domiciliare (il primo anno), quando mancano teorici tre anni al fine pena… Art. 47: affidamento in prova al servizio sociale. Liberi come l’aria, salvo l’obbligo di fare qualcosa di utile per la società. Per dire, Previti (per via dell’indulto che gli abbuonava tre anni, doveva farsi ancora un paio d’anni) andò a lavorare presso il Centro Italiano di Solidarietà di Castel Gandolfo; luogo ameno se mai ce n’è stato uno: ci va anche il Papa.
Riassunto: il condannato a quattro anni di prigione fa nove mesi di detenzione domiciliare; quello condannato a cinque fa un anno e mezzo e via così; poi affidamento in prova al servizio sociale. Non è azzardato concludere che delinquere conviene. Tanto più che nessuno che abbia commesso i reati che ti fanno guadagnare soldi (soldi veri) è mai condannato a più di quattro anni di reclusione. Frode fiscale, falso in bilancio, corruzione, riciclaggio, insider trading etc ‘costano’ da uno a tre anni a dire tanto.
SICCHÉ, se gli va male, affidamento in prova; e se gli va bene, (cioè quasi sempre, questa è la realtà nelle aule giudiziarie e il ministro lo sa benissimo) sospensione condizionale della pena (per condanne fino a due anni) o pena sostituita (per condanne fino a sei mesi, 7000 euro di multa). A tutto questo si deve aggiungere l’indulto per cui, per i reati commessi fino al maggio 2006, oltre a tutti i regali che ho descritto fino ad ora la pena concreta è comunque più corta di tre anni; e la prossima amnistia, alla quale il ministro Severino “non è contrario”. Adesso, a parte che tutte queste semi-libertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova, permessi e compagnia cantando costano un sacco di lavoro a Polizia e Carabinieri perché qualcuno dovrà pur controllare che questi delinquenti (sono stati condannati, no?) non vadano a delinquere di nuovo, il che è quasi sempre quello che capita. Ma si sentiva proprio il bisogno di non far fare nemmeno un po’ di galera a chi comunque ne sconterebbe pochissima di quella che gli tocca?
Il ministro Severino ci ha pensato che la detenzione domiciliare si applica a quelli che non possono usufruire della sospensione condizionale della pena? Quindi stiamo parlando di gente che almeno un altro reato, probabilmente due (la sospensione condizionale ‘copre’ due anni e condanne di tale livello non sono frequentissime) lo ha già commesso. E che diavolo, ma cosa bisogna fare per finire in galera?

il Fatto 29.1211
Profumo al primo giorno di scuola
di Marina Boscaino


Il 16 dicembre l’Istat ci informa che gli studenti iscritti alla nostra scuola sono 8.968.063. Numero in costante aumento, per via dello spostamento in Italia di migranti. Un dato da tener presente, coniugandolo da una parte con i risultati delle manovre economiche degli ultimi anni – che hanno abbattuto costi ma anche investimenti sulla scuola, oltre a innalzare il rapporto tra alunni e docenti nelle classi – e dall’altra con la mancanza di una formazione diffusa e approfondita per il personale. Accogliere quei ragazzi vuol dire creare anche per loro le condizioni di spendere la propria cittadinanza consapevolmente, una volta usciti da una scuola che li abbia integrati in un ambiente davvero interculturale. Vuol dire gettare le basi affinché l’Italia divenga un Paese più civile, coeso, in cui la convivenza democratica non sia tolleranza e tanto meno omologazione. Scommettere su questa opportunità è l’investimento per il futuro.
D’altro canto, che la scuola italiana soffra di problemi profondi e trascurati da tempo lo dimostra la varietà di interventi e di priorità stabilite da Profumo in un solo mese di mandato. Aspettando che il ministro ci informi – nella logica di rendicontazione e trasparenza che tanto gli sta a cuore – delle conseguenze della ‘riforma’ Gelmini: livello degli apprendimenti degli studenti, professionalità dei docenti, efficacia ed efficienza dei risultati, apprezziamo che sia stata resa pubblica la banca-dati del MIUR (La scuola in cifre), oscurata per tre anni da chi l’ha preceduto e dai suoi strateghi della comunicazione.
PROFUMO È INTERVENUTO la più riprese – non ultimo il Forum di Repubblica – a definire la propria linea di intervento. Idee precise, un ‘progetto’ che entra nel merito della scuola e che conforta, dopo anni di orientamento a senso unico: tagliare. A cominciare dalla gestione di un miliardo e trecento milioni di fondi europei per le scuole del Sud. Annunciando la prossima pubblicazione della sempre promessa e mai realizzata Anagrafe dell’Edilizia Scolastica, il ministro ha insistito sulla necessità di riqualificare almeno 1.620 edifici bisognosi di interventi (il 54% di quelli nella lista nera). Oltre il 60% degli edifici è stato costruito prima del 1974, il 36,5% necessita di manutenzione urgente, un misero 10% è costruito con criteri antisismici e solo il 54% possiede il certificato di agibilità. Si tratta senza dubbio di una priorità assoluta: la sicurezza di studenti e lavoratori. Poi innovazione e scuola 2.0: classi digitali e banda larga negli istituti, con incremento delle Lavagne Interattive Multimediali. Matematica e laboratori di scienze, materie nelle quali gli studenti italiani si rivelano deboli anche nei risultati dei test internazionali. È vero, come dice il ministro, che dal punto di vista tecnologico la scuola nel nostro Paese è rimasta vecchia di un secolo. Ma considerare prioritaria questa arretratezza rischia di essere un’opzione ottimistica e velleitaria, che poco tiene conto di altri gap, ben più drammatici. Gli esempi virtuosi di alcune scuole italiane non possono far dimenticare le condizioni generali della maggior parte degli istituti, che – come gli apprendimenti di lingua italiana e di letto-scrittura a loro volta testati in Europa – sono ridotte ai minimi termini.
Ha senso occuparsi di ottimizzare condizioni già positive e trascurare l’ordinaria amministrazione, la quotidianità che regge la crisi solo grazie alla buona volontà di molti operatori della scuola? “La scuola tagliata” di Iacona, solo nel 2010, attirò per qualche giorno l’attenzione sulle condizioni di tante realtà. Tutto dimenticato. Eppure quelle scuole sono là, rimaste come furono riprese. La valutazione, altra significativa priorità del ministro, svincolata da criteri di premialità arbitraria e invece legata alla definizione di interventi costruttivi di miglioramento, deve diventare cultura della scuola. Ma di una scuola messa tutta nelle condizioni di essere valutata, dal Friuli alla Calabria: sradicando abitudini negative, dissuadendo comportamenti non professionali, e quindi creando condizioni di autentica omogeneità del sistema. Largo ai giovani e nuovi concorsi: siamo tutti d’accordo. Ma ancora non si capisce quale relazione vi sia tra gli 80 mila posti tagliati negli ultimi tre anni, l’aumento degli alunni per classe, i pensionamenti posticipati e la preventivata ondata di selezioni pubbliche. Insomma, pur non volendo cavalcare il disfattismo di professione e avendo – reduci dai fasti gelminiani – la certezza che “cchiù nero d’a notte nun po’ venì”, la sequenza di annunci degli ultimi giorni lascia un po’ disorientati.

Repubblica 29.12.11
Per scuola e ricerca incroci con le aziende ma servono risparmi


Accelerare sui brevetti e coinvolgere le aziende: scuola e ricerca sono i punti forti esposti da Francesco Profumo, rettore del Politecnico di Torino, presidente del Cnr e ministro per l´Università. Obiettivo: produrre più brevetti, riuscire a far sbocciare dal rapporto tra università e centri di ricerca nuove iniziative imprenditoriali. L´idea è quella di aprire il Cnr e le Facoltà a parteniariati con Fondazioni bancarie e imprese. Quanto di questo si tradurrà in norma non è ancora noto, tuttavia queste sono le intenzioni del ministro.
L´altro punto sul quale si conta, i cosiddetti «semi» per lo sviluppo, è costituito dal già varato taglio dell´Irap per chi assume giovani e donne e dall´introduzione dell´Ace (defiscalizzazione degli investimenti delle imprese). Niente per ora c´è sul fronte dello stimolo dei consumi: la filosofia del governo è che al massimo si possono dare aiuti al reddito e alle famiglie disagiate.
L´unica possibilità di recuperare denaro sta nel taglio delle agevolazioni fiscali (alternativo all´aumento dell´Iva da ottobre) e dalla spending review ma sarà un lavoro lungo e difficile. Il governo pensa di poterlo portare a termine entro giugno: si dovranno consolidare i tagli lineari dove sono stati efficaci e sostituirli con azioni mirate dove hanno prodotto vere e proprie strozzature nelle amministrazioni dello Stato. L´obiettivo è comunque quello di aggredire i 480 miliardi di spesa dello Stato e delle amministrazioni periferiche.

Repubblica 29.12.11
I beni artistici restano a secco i 57 milioni dell’8 per mille vanno all’emergenza carceri
Il governo dirotta i fondi, saltano 1600 restauri
di Carlo Alberto Bucci


Negli anni passati circa il 70 per cento dei contributi era andato a palazzi, monumenti e pievi
I soldi saranno utilizzati per l´adeguamento dei penitenziari che ormai scoppiano

ROMA - Le carceri sono più urgenti. I beni culturali possono aspettare. La boccata d´ossigeno di 57 milioni per tamponare l´emergenza detenuti lascia a mani vuote i monumenti, i palazzi storici, le biblioteche, le chiese, gli affreschi italiani che hanno bisogno di restauri. Nel 2004 era stata la guerra in Iraq a scippare il contributo. Ora è il sistema carcerario ad assorbire i fondi indirizzati verso l´architettura e l´archeologia italiane dall´otto per mille. È una lotta tra poveri che si tirano una coperta sempre più corta. E che lascia praticamente a secco il patrimonio artistico più nascosto e prezioso del Belpaese.
«Dobbiamo completare l´edilizia carceraria per permettere la detenzione salvando i diritti fondamentali dell´uomo e per il nuovo anno abbiamo stanziato 57 milioni di euro» aveva annunciato il ministro della Giustizia, Paola Severino, al termine del Consiglio dei ministri del 16 dicembre. Sei giorni dopo, ecco il decreto legge n. 211 che, "per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri", all´articolo 4 autorizza, "per l´anno 2011", la spesa "di euro 57.277.063 per le esigenze connesse all´adeguamento, potenziamento e alla messa a norma delle infrastrutture penitenziarie". E i finanziamenti come arrivano? "Mediante - recita il comma 2 - corrispondente riduzione dell´autorizzazione di spesa. .. relativamente alla quota destinata dallo Stato all´otto per mille".
Quest´anno erano state ben 1600 le domande di contributo, circa il 30% in più rispetto al 2010, arrivate alla presidenza del Consiglio. Che, coinvolgendo le commissioni di architetti e storici dell´arte del ministero Beni culturali, da aprile a ottobre aveva scremato le richieste di finanziamento per interventi urgenti. I fondi dell´8 per mille destinati allo Stato servono, in realtà, anche alla lotta alla fame nel mondo, all´assistenza ai rifugiati e alle calamità naturali. E anche queste aspettative saranno disattese. Ma negli anni passati circa il 70% dei 140 milioni arrivati dalla denuncia dei redditi erano andati a foraggiare la quarta voce del programma: la conservazione dei beni culturali. Ora invece neanche più quel budget risicato, già ridotto dal Tesoro a 57 milioni.
Non solo le bellezze sotto la protezione statale godono dell´aiuto dell´otto per mille. Ma anche il patrimonio ecclesiastico e comunale. E, visto il taglio draconiano delle ultime manovre economiche ai fondi ordinari del ministero e degli enti locali, quei 57 milioni dirottati verso l´edilizia carceraria erano linfa vitale per un tesoro distribuito lungo tutto il Paese che, secondo i dati del Touring Club, annovera 7282 tra chiese, basiliche, monasteri, pievi sperdute; 4.109 palazzi; 2.054 castelli; 1.034 monumenti antichi.
«Il grosso va all´architettura e ai beni storico-artistici. Dall´otto per mille all´archeologia in realtà arriva poco, diciamo 1-2 milioni» spiega il direttore generale per l´archeologia del ministero Beni culturali, Luigi Malnati. «Ma certo anche per noi - aggiunge - questo è una decurtazione pesante. Il museo delle navi di Grado, ad esempio, stava rinascendo grazie ai soldi delle denunce dei redditi». Il ministero destina 80 milioni del suo bilancio di un miliardo e quattro (nel 2007 era uno e nove) ai lavori ordinari. In più, negli anni passati hanno beneficiato del sostegno aggiuntivo dell´otto per mille la Certosa di Padula e la biblioteca dell´Istituto di studi storici in palazzo Filomarino a Napoli, la Madonna con il Bambino affrescata nel Cinquecento su una casa a Sedegliano, in Friuli, ma anche le antiche mura di Lomello, nel Pavese, o l´organo della parrocchiale di San Biagio in Casanova Lanza, vicino Como. Il Colosseo e Pompei i soldi li trovano al botteghino e dagli sponsor. Le migliaia di realtà minute dello straordinario patrimonio italiano, e le miriadi di aziende di restauro che lo curano, hanno bisogno del "popolo del 730" per continuare a vivere.

Repubblica 29.12.11
A Udine 30 consiglieri regionali si oppongono al contributo. Englaro: assurdo
Niente soldi al film di Bellocchio "Su Eluana meglio il silenzio"
di Piero Colaprico


Nella casa di Lecco, Beppino Englaro riceve qualche telefonata dai suoi amici di Udine e piombano altre polemiche sulla storia di sua figlia Eluana. E a quasi tre anni dalla morte, dopo oltre 17 anni di stato vegetativo.
È accaduto poco prima di Natale che una trentina di consiglieri regionali abbiano sollevato a Udine la questione sui fondi pubblici che il Friuli Venezia Giulia può destinare ai film che si svolgono, almeno in parte, sul suo territorio. In un ordine del giorno, primo firmatario il capogruppo dell´Udc, Edoardo Sasco, si è gridato il no alla sovvenzione di «un film sulla storia di Eluana Englaro», firmato da Marco Bellocchio.
Purtroppo per l´ordine del giorno, la realtà è diversa. Nel cast, con Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Piergiorgio Bellocchio e Michele Riondino, «non esiste nessuno che interpreta il personaggio Eluana». E lo dice papà Beppino: «Come non esiste - aggiunge - nemmeno il personaggio Beppino. Ho incontrato il regista a Roma, tempo fa, un uomo con la semplicità che possiedono i grandi uomini, e che aveva letto tutto».
Non come il presidente della Commissione cultura in Consiglio regionale, Piero Camber (Pdl): «Che il Friuli Venezia Giulia venga etichettata come la regione del caso Englaro non porta nulla. Sarebbe corretto - dice Camber - rispettare in silenzio quanto è accaduto. Qualsiasi film venga realizzato su questo caso finirebbe per prendere una piega in un senso o nell´altro, e non sarebbe giusto». Di fronte a una simile impostazione culturale, anche Beppino non s´impedisce un sorriso sconcertato: «Che un regista come Bellocchio si ispiri - attenzione, ispiri - alla nostra vicenda, che è così delicata, è il massimo che mi potessi attendere. Anzi, quando ci siamo parlati, ho avvertito che temesse la mia emotività, ma sia per come sono fatto io, sia perché credo nella libertà delle persone, s´è rilassato subito, come non capire che per uno come lui la libertà di immaginare è preziosa?».
Quello che è accaduto tra Beppino e Bellocchio è lineare, come spesso accade intorno a questo papà poco diplomatico: «Mi ha detto che l´aveva colpito la lettera di mia figlia sulla libertà e su noi genitori, una lettera sul rispetto verso se stessi e gli altri. E che nel suo film c´è un politico, un ex socialista, entrato nella maggioranza, alle prese con i problemi della religione. Ora, se uno come Bellocchio fa un film sulle persone in stato vegetativo, io come cittadino non me la sentirei né di imbavagliarlo, né di mettergli i bastoni tra le ruote, né di non fargli avere un contributo, se è previsto. Viceversa, se esistono altri registi che vogliono raccontare la stessa storia sotto una luce diversa, si esprimano pure. È il mercato, sono i critici, è il pubblico a stabilire i valori in campo. Non c´è bisogno di contorcere, e storcere la realtà. Mi ricordo - conclude Beppino - di aver letto di un film su Alberto da Giussano, superfinanziato dal governo, che è stato un flop pazzesco. E se il film di Bellocchio ispirato a Eluana non fosse un flop, è questo che temono?». Riparlare di una ragazza diventata donna sempre in un letto, nutrita a forza con il sondino, con il cervello rattrappito - lo dice l´autopsia - e senza connessioni con il mondo esterno: la non-vita, o la non-morte, è questo che fa paura?
Nel frattempo, Federico Poillucci, presidente della «Friuli Venezia Giulia Film Commission», con un comunicato «in merito al film "Bella addormentata"» tenta di ristabilire - fatica improba - i fatti. Dicendo che al momento non è stata avanzata dai produttori di Cattleya alcuna «richiesta di finanziamento». Ma, se avvenisse, i criteri stabiliti per legge per valutare l´opera non sono «politici», come sottintendeva l´ordine del giorno, ma si basano su altro: «attrazione», «incentivazione dell´occupazione di maestranze locali», «qualità del soggetto, della sceneggiatura e di ogni altra caratteristica dell´opera», i «curricula del regista e del produttore». Cioè: può accadere che un film di Bellocchio sia ostacolato sul nascere da tali Camber e Sasco? Da non credere.

Repubblica 29.12.11
Riccardo Tozzi, produttore della pellicola: ritorneranno sui propri passi, conta solo il parere della Film commission
"Una decisione politica e anticostituzionale"
 La vicenda della ragazza fa solo da sfondo a tre storie di fantasia. E sul valore artistico non ci possono essere dubbi
di Maria Pia Fusco


ROMA - «Negare il finanziamento al film di Marco Bellocchio La bella addormentata significherebbe andare contro la legge e forse anche contro la Costituzione»: Riccardo Tozzi, che con la Catrtleya produrrà il film – l´inizio delle riprese è previsto per la fine di gennaio – ha le idee chiare rispetto all´ordine del giorno del Consiglio regionale sul rifiuto di concedere finanziamenti "ad un film sulla storia di Eluana Englaro". In realtà Tozzi è ottimista: «Quella della giunta è stata una presa di posizione preventiva su un film di cui nessuno dei partecipanti sa nulla, sono sicuro che si ricrederanno. Quello che conta è il parere della Film Commission».
La Film Commission ha avuto la sceneggiatura?
«L´abbiamo inviata insieme alla richiesta di finanziamento, è la procedura. Il compito della Film Commission è di controllare la natura tecnica nel rispetto dei requisiti previsti dalla legge».
Che sono?
«Il film deve portare lavoro in Friuli e quindi occupazione, deve avere un effetto promozionale nel senso di valorizzare l´immagine della regione nel mondo, e una storia su un tema spirituale andrà certamente nei festival internazionali. Quanto al requisito della qualità artistica, penso che un film di Bellocchio scritto da Rulli e Petraglia, abbia le garanzie necessarie. Penso che, con questi requisiti, anche chi volesse fare davvero un film sul caso Englaro, avrebbe tutto il diritto».
E "La bella addormentata" non è sul caso Englaro?
«No e non sarebbe neanche esatto dire che è ispirato. Il film racconta tre diverse storie di fantasia che si svolgono nel clima degli ultimi giorni di vita di Eluana. La sua vicenda resta di sfondo attraverso notiziari e materiale documentario. Alba Rohrwacher ad esempio interpreta una giovane militante cattolica che in quel periodo sta con un gruppo di sostegno alla vita di Eluana. Suo padre è Toni Servillo. Nel cast delle altre storie – una è su un ragazzo e una ragazza che non hanno nulla a che vedere con il caso – ci sono Piergiorgio Bellocchio e Michele Riondino».
Può definire il tema del film?
«Non vorrei sostituirmi a Bellocchio, ma posso dire che il tema è sulla vita e sulla morte, al centro e predominante è il tema dell´importanza della vita. È un film di grande intensità spirituale, senza nessuna irrisione nei confronti delle posizioni cattoliche».

l’Unità 29.12.11
Intervista a Vanni Codeluppi
«La televisione? Assassinata dal populismo»
Il sociologo della comunicazione parla della possibile salvezza della Rai: «Va liberata dalla politica che la sfrutta come organo di consenso. Rinascerà se sarà in grado di raccontare la realtà con i linguaggi contemporanei»
di Paolo Calcagno


Da Mike Bongiorno a Youtube. In Italia, sono questi gli estremi della forbice della televisione legata a doppio filo con il suo pubblico. In mezzo, c’è il declino, lo svuotamento progressivo dei contenuti-tv, perfino il tentato assassinio del più popolare ed efficace mezzo di comunicazione. A sostenerlo è il sociologo Vanni Codeluppi, studioso dei messaggi televisivi e pubblicitari, autore di vari libri su questi temi, compreso il più recente Stanno uccidendo la tv (pagine 97, euro 13,00), pubblicato da Bollati Boringhieri. Dopo aver sentito Carlo Freccero e Paolo Ruffini sullo stesso tema, è con lui ora che parliamo del futuro (possibile) della televisione italiana.
Codeluppi, il 12 settembre 2009, su Raiuno, andarono in onda, in diretta, dal Duomo di Milano, i funerali di Stato di Mike Bongiorno: perché lei associa a questo evento la fine del modello «classico» della tv italiana?
«In realtà, quel modello di tv generalista, prodotto su domanda di un pubblico di massa, era già morto da tempo. Mike Bongiorno era il personaggio-simbolo della storia della nostra televisione: fu lui a tenerla a battesimo, negli anni 50, con la prima trasmissione della Rai; e, da Lascia o raddoppia? in poi, i suoi programmi avevano accompagnato l’evoluzione della tv; inoltre, negli anni ’80, passò senza problemi alla nascente tv commerciale di Berlusconi, intuendone subito la grande importanza. Con Mike il pubblico identificava l’intero modello-tv di allora: la sua scomparsa ha rappresentato per la gente anche la scomparsa della televisione, benché essa continui a vivere. Successivamente, trafugata da ignoti. È scomparsa anche la salma del principale personaggio del video, a significare così la sparizione simbolica e fisica della nostra tv». Tuttavia, gli straordinari successi targati Rai di Roberto Saviano, con «Vieni via con me», e di Fiorello, con «Il più grande spettacolo dopo il week-end», dimostrano che la tv è viva e vegeta: come lo spiega? «Saviano e Fiorello sono delle eccezioni: in realtà, si canta vittoria se un programma raggiunge i 3 milioni di telespettatori, cioè un’audience ridicola se si pensa che Facebook, in Italia, conta 20 milioni di iscritti. Il segnale più determinante è dato dal fatto che il pubblico televisivo non conta più nulla nelle dinamiche sociali: è vecchio, marginale e non ha poteri. Il pubblico più avanzato fa altre cose: guarda la pay-tv, naviga su Internet, o esce e fa tutt’altro che starsene passivo a intontirsi con le proposte della tv generalista. È un fenomeno che si verifica dappertutto, ma in Italia è più grave perché la politica ha occupato la tv, davanti alle telecamere con i soliti “talk” in cui i politici si parlano addosso e sfruttano la televisione come organo di consenso; e in sede gestionale bloccando la Rai con una serie di poteri incrociati che le hanno tolto linfa vitale. I teatrini televisivi dei politici sono lontani dalla realtà e fanno parte dello strumento con cui si sta uccidendo la tv. Infine, la Rai si è appiattita sul modello della tv commerciale smantellando progressivamente il suo patrimonio professionale e affidandosi agli stessi format della concorrenza, ovviamente di provenienza esterna. Il risultato è la riduzione della libertà di espressione, la marginalizzazione della cultura e l’abdicazione al ruolo formativo della massa-popolazione per scelte continuamente inadeguate».
Quanto a audience, nemmeno la tv commerciale se la passa troppo bene. «Ai tempi di Freccero, in Mediaset si praticava la strada dell’innovazione. Oggi, invece, la principale tv commerciale continua a ripetere stancamente i modelli di sempre: il Grande Fratello, La Corrida, eccetera. Così, i giovani si spostano su Mtv, Sky, La 7, o addirittura su altri media».
I nuovi media sono una minaccia per la tv? Privatizzare la Rai, generare una forte concorrenza con nuovi soggetti della tv commerciale, potrebbe arginare il processo di livellamento in basso della tv generalista?
«Il cinema non ha ucciso il teatro, la tv non ha eliminato la radio: allo stesso modo Internet non farà scomparire la tv, che rimane il mezzo di comunicazione più potente. Privatizzare la Rai? Non è necessario. L’importante è liberarla dalla politica e seguire quei modelli di tv pubblica che altrove funzionano, come l’inglese Bbc. Il pubblico si è allontanato perché in Rai sono state uccise le energie creative. Occorre che la trelevisione pubblica recuperi la sua funzione pedagogica, ovviamente affidandosi a linguaggi attuali, non certo a quelli del tempo del maestro Manzi. La tv pubblica deve ritrovare il suo ruolo divulgativo nei campi della cultura e della scienza, che fanno anche buoni ascolti quando sono fatte bene, come dimostrano i programmi di Piero Angela».
Il digitale terrestre potrebbe favorire la rinascita della tv?
«Alla fine, i canali del digitale terrestre si riducono a contenitori di repliche di programmi Rai e Mediaset. Manca quell’articolazione di temi e di contenuti che c’era in passato. Rai 5 ci porta l’apertura della stagione della Scala, il 7 dicembre: è qualcosa, ma non c’è investimento, né finanziario, né organizzativo, di idee e di persone. I suoi programmi sono poco significativi, ci sono le repliche di Passepartout, di Daverio, il talk-show di David Letterman: è un modo leggero di fare cultura che segue la corrente dettata dall’agenda piuttosto che svolgere un ruolo propositivo. E Rai Movie manda dei film che, a volte, sono interessanti, ma vengono gettati lì, senza dare un senso all’operazione. L’innovazione del reale è rara di questi tempi: ci è riuscito Saviano che ha portato personaggi che non erano mai comparsi in tv. L’ultimo, significativo, esempio di spettacolarizzazione della quotidianità è stato quello realizzato da Angelo Guglielmi su Raitre, con le telecamere piazzate nelle aule dei tribunali, piuttosto che nelle auto delle polizia, eccetera. E, infatti, quell’esperienza costituisce ancora oggi l’ossatura della terza rete». L’aggiornamento di linguaggi e di contenuti può condurre a una nuova etica televisiva?
«Su Youtube ci sono 100 canali nuovi: la televisione italiana potrebbe cavalcare il processo di fusione tra la Rete e la tv. I contenuti tv di un certo tipo funzionano ancora su Internet. Certo, sono diffusi in pillole perché la fruizione in Rete è frammentata e rapida. Contenuti nuovi? Ce n’è un gran bisogno. Mi sembra valido il tentativo di Mtv di portare sul video la realtà dei giovani, e non alla maniera dei reality, ma con un taglio documentaristico, ritmato dal montaggio ed estraneo alla finzione». Una tv migliore è funzionale a una società migliore?
«La tv ha svolto per anni il ruolo di insegnare come vivere meglio, come rapportarsi alla realtà che cambia. Purtroppo, non lo fa più. E ce ne sarebbe bisogno perché in giro c’è incertezza, paura, difficoltà a capire la realtà a causa dell’aumentata incomprensione. I rapporti con l’ecologia, l’ambiente, i rifiuti, l’inquinamento, alla fine, diventano qualcosa di incombente e minaccioso perché nessuno ci insegna a comportarci correttamente. Sì, la tv può contribuire a creare una società migliore. Il grande problema di oggi è la solitudine, che genera comportamenti egoistici. Ma la tv può diffondere modelli di valori comuni, di etiche condivise, che attenuerebbero certi processi individualistici».

il Fatto 29.12.11
Guglielmi, ex direttore Rai3
La televisione del futuro è tutta da inventare
di Chiara Paolin


Angelo Guglielmi, con modestia, dice che oggi neanche i professori hanno più la verità in tasca. Non ce l’ha Mario Monti, che guida l’Italia nei marosi dello spread, e non ce l’ha Guglielmi, padre ispiratore della cosiddetta Tivù dei Professori, quella che rivoluzionò la Rai tra gli anni Ottanta e Novanta.
Carlo Freccero invoca il ritorno della tivù pensata per permettere a tutti la comprensione del terremoto in atto. Che ne dice?
Guardi, non so se sia una buona idea buttare in faccia alla gente tutta la verità. Le previsioni degli economisti più seri sono semplicemente spaventose.
Un neopedagogismo del video servirebbe a tradurre certi messaggi?
Quello di cui avremmo davvero bisogno è un raffreddamento totale della comunicazione. Finora si è sfruttato soprattutto l’impatto emotivo per arrivare alle persone, ma questo è un metodo che non funziona nei momenti di crisi strutturale.
Propone la glaciazione dell’informazione?
È’ difficile pensare a un sistema coerente. Le risposte secche, il sì e il no, non bastano. Non si possono mandare semplicemente in video gli economisti coi loro numeri: risulterebbero incomprensibili e deprimenti. Non si può nemmeno avviare una fase consolatoria, dove chi sta in tivù consiglia calma e pazienza, la reazione sarebbe ostile e rabbiosa.
Nel frattempo bisogna mandare avanti il servizio pubblico...
Ma o si va avanti così, per inerzia, mantenendo il clima di incertezza nelle scelte editoriali in parallelo allo smarrimento sociale, oppure i singoli si assumono le proprie responsabilità operando scelte coraggiose.
Ha qualche idea da suggerire?
Serve un rovesciamento totale della prospettiva, occorre inventarsi un nuovo linguaggio capace di coinvolgere e spiegare anziché aggirare lo spettatore. Un’estetica diversa, che nessuno ha ancora chiara.
Certo un anno fa eravamo al bunga bunga, oggi al taglio delle pensioni. Un
cambio troppo violento?
Abbiamo pensato che una volta eliminato il mostro si potesse cambiare scena. In realtà ciò che è rimasto in eredità è perfino più mostruoso, le macerie che Berlusconi ha contribuito ad ammassare sono oggi il vero incubo che lo stesso Monti sembra aver sottovalutato. Ammettere palesemente questo quadro è una responsabilità cui si sta tentando di sfuggire.
Nessuno spiraglio?
La proposta di Santoro, nel suo piccolo, è un miracolo e una speranza. Dimostrare che è possibile in Italia raggiungere l’autonomia tecnica e politica fuori dai grandi network non era affatto scontato. Perché Sky ha dato un piccolo sostegno, ma la rete delle emittenti locali e soprattutto del web non era mai stata messa alla prova. Tutto quello che si muove via internet mi sembra vicino al futuro.
Servizio Pubblico è un esperimento di resistenza, in ogni caso...
Ma indicativo della strada da seguire. Credo lo stesso San-toro abbia ben presente il problema: il contenitore adesso ce l’ha, deve mettere a punto alcuni contenuti, cercare soluzioni più efficaci per raccontare un presente che sfugge.
La tivù resta una costruzione di mondi. Se tutto il mondo noto sta sparendo ci vuole un senso quasi magico per crearne di nuovi...
È così. Oggi impera il buio, l’incertezza. Immaginare una luce, una strada alternativa, è un esercizio di straordinaria velleità. Chi si fa avanti? Chi vuole davvero cambiare le regole del gioco? Voi del Fatto ci avete provato, e il risultato non è affatto male. Però siete piccoli, e per la Rai o gli altri giganti della comunicazione il discorso è tragicamente distante. Per la Rai temo, soprattutto: un organismo enorme, sottoposto a forze conflittuali, esposto a infiniti elementi di pressione. Come fa a cambiar pelle senza re-starci secca?

l’Unità 29.12.11
Intervista ad Alessandro Politi
«L’intesa Cina-Giappone può cambiare gli equilibri mondiali»
Lo stratega parte dal recente accordo monetario esteso alla Corea del Sud: «Così iI dollaro e la crisi dell’Europa diventano sempre più marginali»
di Umberto De Giovannangeli


La Corea del Nord era e resterà un Paese in cui i diritti umani non hanno corso. Per quanto riguarda il lascito di Kim-Jong-il, il macigno che pesa sul futuro del Paese è quello di una economia di guerra e come tale continua a impoverire la Corea del Nord». A sostenerlo è Alessandro Politi, analista strategico. Dall’uscita di scena del «Caro leader» nordcoreano al patto tra Giganti, Giappone e Cina: «Questo patto osserva Politi nasce dalla grande crisi americana che ha contagiato il resto del mondo. Tanto il Giappone quanto la Cina sono grandi creditori degli Stati Uniti: in questo modo, con l’accordo monetario, l’interscambio tra i due Paesi salta la mediazione del dollaro. E questa naturalmente non è una buona notizia per Washington».
La Corea del Nord ha dato l’ultimo saluto il «Caro leader» Kim-Jong-il. Ora si guarda al futuro. Quali gli scenari possibili anche in una chiave geopolitica?
«In chiave geopolitica, il serio problemi per tutti gli attori è la riunificazione delle due Coree. Perché ciò cambierebbe gli equilibri consolidati dal 1953, oltre che creare, almeno all’inizio, una grave crisi umanitaria. È vero che ci sono state conversazioni private tra un alto diplomatico nordcoreano e due alti funzionari cinesi, i quali hanno affermato che una Corea riunificata ma non ostile alla Cina, sarebbe stata accettata, in linea di principio, da Pechino, a patto che non vi fossero dislocamenti americani a Nord della zona smilitarizzata. Osservatori locali prevedono un possibile collasso di Pyongyang nel giro di 2-3 anni, e quindi si comincia a pensare di coordinare gli sforzi in caso di crisi».
C’è chi ha parlato, riferendosi a quelle ripetute scene di pianto collettivo, di disperazione manifesta per la morte di Kim-Jong-il, della Corea del Nord come di una «necrocrazia». È così?
«In realtà quando muore un dittatore le scene di pianto sono frequenti. Bisogna capire chi prova delle emozioni reali e chi si accoda per opportunismo. Al di là dei pianti, il lascito di Kim-Jong-il è che ancora non si è resa sostenibile l’economia nordcoreana, che resta una economia di guerra e come tale continua a impoverire il Paese».
E sul piano dei diritti umani?
«In quel Paese non hanno diritto di cittadinanza, semplicemente non esistono. La Corea del Nord era e resta un Paese totalitario e praticamente sotto legge marziale».
C’è chi impoverisce e chi, invece, stringe patti tra Giganti: il patto monetario Cina-Giappone. Quale lettura dare di questa iniziativa?
«Innanzitutto questo patto nasce dalla grande crisi americana che ha contagiato il resto del mondo. Tanto il Giappone quanto la Cina sono grandi creditori degli Stati Uniti: in questo modo, con l’accordo monetario, l’interscambio tra i due Paesi salta la mediazione del dollaro. Questa naturalmente non è una buona notizia per Washington, anche perché porta un tradizionale alleato degli Usa, il Giappone, più vicino a Pechino. Poiché ci sono dei capitali che escono dalla Cina, c’è anche una disponibilità giapponese a comprare il debito cinese. In questo contesto, il debito americano e quello europeo diventano molto meno interessanti».
L’anno che viene, il 2012, si prospetta sempre più come l’anno dell’Asia? «Non necessariamente, ma sarà un anno vissuto pericolosamente. Sarà l’anno in cui si possono porre le basi per uscire dalla crisi nel 2015, oppure cominciare ad inasprire l’attuale guerra finanziaria e rischiare, nel medio periodo, una vera e propria guerra».
La nuova governance mondiale tende sempre più ad essere «asia-centrica»?
«Direi di no, il problema è che è finito l’ordine mondiale ed è stato sostituito da un sistema di riferimento internazionale che somiglia ad un mercato dei cambi politico. Ciò che manca sono i vecchi riferimenti. Oggi i Paesi del cosiddetto “Brics” (Brasile, India, Cina, Sud Africa), non hanno né la voglia né la possibilità di avere un ruolo di guida mondiale».
E chi è destinato a riempire questo vuoto?
«Per ora nessuno. Il vuoto viene riempito da accordi temporanei fra potenze instabili, e quindi siamo in una situazione di equilibri fluidi». Per tornare al patto Cina-Giappone. C’è chi sostiene che gli affari riunificano i Nemici di un tempo.
«Mi pare una lettura un po’ forzata. Quel patto è il risultato di una risposta tattica ad una crisi strategica, e quindi il nemico di ieri diventa il compagno di strada di oggi. Infatti, mentre c’è un movimento di avvicinamento tra Giappone, Cina e Corea del Sud basato su interessi economici, non c’è ancora una visione complessiva dello scacchiere, tanto è vero che le rispettive società sono ancora molto nazionaliste».

Repubblica 29.12.11
Il nuovo potere di Pechino
di Li Zhaoxing


La Cina, assieme ad altri Paesi emergenti, è destinata a pesare di più nel mondo multipolare della globalizzazione economica, non solo nel 2012, ma nei decenni a venire. Con il crescere della potenza e dell´influsso cinese sull´economia mondiale dopo la crisi finanziaria del 2008 si è ipotizzato un duopolio Cina-Usa, ma questa sorta di G2 non tiene conto dell´indipendenza cinese in politica estera né della tendenza più generale verso un decentramento del potere geopolitico in seno alla comunità internazionale. Il cambiamento al vertice previsto in Cina per quest´anno sarà sotto questo aspetto ininfluente.
Il processo di integrazione europea ha prodotto energie dinamiche nel continente. Nonostante le difficoltà in cui versa, l´Europa vanta una forza straordinaria e esercita grande influenza internazionale. La Cina sostiene da sempre l´integrazione europea con l´auspicio che la Ue diventi un pilastro dell´ordine internazionale. A seguito della crisi finanziaria globale e della crisi del debito sovrano dell´eurozona la Cina ha acquistato bond europei, effettuato investimenti diretti e inviato delegazioni di imprenditori in Europa, creando al contempo importanti opportunità per gli europei grazie al suo immenso mercato interno e alla disponibilità di manodopera.
Nella nuova era multipolare Cina e Europa devono necessariamente collaborare e questo è un momento chiave per incrementare la cooperazione. Gli sforzi tesi a condividere opportunità, affrontare le sfide e perseguire lo sviluppo avranno un impatto diretto non solo sul benessere dei nostri popoli ma anche sul futuro del mondo. La cooperazione tra Cina e Ue sarà fondamentale per il mantenimento della pace e della stabilità globali. Insieme ci impegniamo a risolvere le problematiche internazionali attraverso strumenti politici e abbiamo già esercitato un´azione costruttiva nell´affrontare sfide globali come il cambiamento climatico, il terrorismo e la proliferazione di armi di distruzione di massa.
Il dodicesimo piano quinquennale cinese e la Strategia europea 2020 sono stati lanciati in contemporanea, un valido mezzo per intensificare la cooperazione. Dopo il 2008 Cina e Europa hanno unito le forze per impedire il crollo finanziario globale, opponendosi al protezionismo e promuovendo la riforma della finanza internazionale, facilitando la ripresa economica.
La Cina tiene in gran conto anche il rapporto con gli Usa come partner tra i più importanti in seno alla comunità internazionale. Dal 1979, data in cui vennero stabilite relazioni diplomatiche tra i due paesi, c´è stata qualche frizione, ma nel complesso il rapporto si è evoluto con soddisfazione di entrambe le parti. Oggi la Cina e gli Usa hanno più interessi comuni di quanto mai in passato.
La Cina è il maggior paese in via di sviluppo, l´Europa costituisce il più vasto blocco di paesi sviluppati e gli Usa sono il più grande dei paesi sviluppati. Assieme rappresentano quasi un terzo dell´umanità e due terzi dell´economia mondiale. La cooperazione tra queste tre grandi potenze globali va rafforzata. Esse devono collaborare con il resto del mondo per affrontare i complessi temi internazionali che riguardano tutti noi - difendendo la pace mondiale e promuovendo lo sviluppo comune. La Cina resta fedele alla propria indipendenza in politica estera ma non può svilupparsi in isolamento. Lo stesso vale per il mondo senza la Cina. L´auspicio è che il ventunesimo secolo sia un secolo di pace, sviluppo e cooperazione.
L´autore è ex ministro degli Esteri cinese. Traduzione di Emilia Benghi

il Fatto 29.12.11
“Stato di Palestina? Mai”
Robert Fisk non ha dubbi: “Anche nel 2012 Israele non lo permetterà. E Obama non attaccherà l’Iran”
di Carlo Antonio Biscotto e Giampiero Calapà


Uno Stato di Palestina non ci sarà mai, neppure nel 2012: nonostante gli sforzi di Abu Mazen è evidente la volontà contraria di Israele”. Robert Fisk, 65 anni, firma del quotidiano britannico Independent, una vita passata a consumare suole e taccuini in Medio Oriente, per l’anno nuovo ha maturato già due convinzioni: i palestinesi rimarranno ancora sotto l’occupazione israeliana e Obama non muoverà guerra all’Iran: “Sarebbe una catastrofe”. E fa un bilancio dell’anno che se ne va tra una rivoluzione e l’altra in Nord Africa.
Il 2011 sarà ricordato per il terremoto geopolitico del mondo arabo. Tunisia, Egitto, Libia, Yemen: dittature decennali sono cadute sotto i colpi più o meno violenti della Primavera araba e, nel caso della Libia, delle bombe Nato. Cosa è cambiato veramente in questi Paesi?
Si sono liberati dalla paura e quando ci si libera dalla paura nessuno può fartela tornare. Molti elementi hanno contribuito a quello che preferisco chiamare il “risveglio arabo”. In primo luogo l’istruzione. Quando nel 1976 sono arrivato in Medio Oriente la qualità dell’istruzione era scadente. Oggi ci sono moltissimi laureati di eccellente livello. Un secondo elemento che in Occidente tutti ignorano va individuato nella crescita delle organizzazioni sindacali in diversi Paesi arabi.
I sindacati hanno svolto un ruolo nelle rivoluzioni?
Certamente. In Occidente pochi sanno che la rivolta ha avuto inizio con una manifestazione sindacale a piazza Tahrir: in quell’occasione c’erano migliaia di donne e uomini per strada. E questo prima delle dimostrazioni le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. In sostanza la rivoluzione è cominciata nelle fabbriche e nelle grandi industrie con gli scioperi. Allo sciopero generale in Egitto parteciparono insegnanti, medici, lavoratori di tutti i settori chiave dell’economia. La stessa cosa è accaduta in Tunisia. Certo quanto è avvenuto nel 2011 nel mondo arabo può essere paragonato soltanto alla rivolta del 1916 contro l’Impero Ottomano. A mio giudizio il “risveglio arabo” scrive il suo primo vero capitolo nel novembre 2005 a Beirut, quando milioni di persone chiesero la fine dell’occupazione siriana e di quella sorta di strisciante potere che la Siria esercitava sul Libano. È puerile pensare che tutto sia cominciato con il sacrificio del povero ambulante tunisino datosi alle fiamme per protesta il 17 dicembre 2010.
I giovani scesi nelle piazze delle città arabe a rischio della vita vogliono una democrazia parlamentare come noi la intendiamo o si battono per qualcosa di diverso che noi non capiamo?
Si battono per sentirsi finalmente “padroni” dei loro Paesi, fino a ieri considerati una proprietà privata dei dittatori e delle loro famiglie. Anche in Occidente i giovani hanno protestato per lo più contro le banche e il sistema finanziario che indeboliscono i parlamenti, i governi eletti e quindi la stessa democrazia. I giovani arabi vogliono vivere una vita dignitosa, vogliono sentirsi padroni del proprio destino, non vogliono più che il potere politico – come in una monarchia assoluta – passi di padre in figlio escludendo i cittadini. Credere che aspirino a una democrazia di tipo parlamentare, come quelle occidentali, vuol dire non aver capito davvero come stanno le cose. Non ci sono più modelli validi per tutti e in tutte le circostanze. Gli arabi troveranno la loro strada verso il tipo di democrazia più adatto alla loro cultura.
Dalla Tunisia all’Egitto le urne finora stanno dando ragione ai partiti di ispirazione islamista. È possibile che, con il consenso degli Usa e dell’Occidente, a dieci anni dall’11 settembre 2001 i tiranni vengano sostitutiti dall’Islam radicale?
Non direi. Certo ci sono gruppi estremisti come i salafiti così come ci sono gruppi estremisti in Europa. Ma, ad esempio, la Fratellanza musulmana ha una lunga storia che risale al 1920 e lo stesso si può dire del partito islamico che ha vinto le elezioni in Tunisia. Perché mai ci dovremmo sorprendere per il fatto che ci sono partiti che si richiamano all’Islam? Dopo tutto sono musulmani e non hanno alcuna intenzione di diventare cristiani. Non credo che la Democrazia cristiana italiana o quella tedesca abbiano mai avuto intenzione di organizzare una Crociata in Terra Santa. Da quando vivo in Medio Oriente non ho mai sentito nemmeno un commento negativo sul fatto che in Europa ci sono partiti che si definiscono cristiani.
Il regime di Ahmadinejad e degli ayatollah rappresenta un pericolo reale? Crede che Obama possa decidere un intervento militare in Iran?
Ahmadinejad è un personaggio inquietante, ma non credo che l’Iran rappresenti un pericolo. Quanto a un eventuale intervento militare americano, penso che in realtà non sia in agenda e lo riterrei una follia. Gli Stati Uniti sono impegnati militarmente su molti fronti: Pakistan, Afghanistan, Somalia, parte dello Yemen. Una guerra in Iran avrebbe drammatiche conseguenze sia militari sia politiche.
Assad arriverà alla fine del 2012 o anche la Siria volterà pagina?
Non escludo affatto che fra un anno Assad ci sarà ancora. Sono stato a Damasco recentemente e ho trovato una situazione piuttosto tranquilla. Nella capitale non si aveva l’impressione di una imminente caduta del regime di Assad. La gente circolava liberamente e usava liberamente il cellulare. Non ho potuto raggiungere, per ragioni di sicurezza, altre zone del Paese dove la situazione non è altrettanto tranquilla, come a Homs. Certo, avendo il regime impedito l’ingresso ai giornalisti stranieri – e lo considero un grosso errore anche dal loro punto di vista – è difficile farsi un’idea precisa di come stanno le cose in Siria. Le sole informazioni ci arrivano dai ribelli e dalle organizzazioni umanitarie. Ho parlato con le famiglie di militari assassinati, è verosimile siano stati uccisi finora almeno 1500 militari, non solo per mano dei dimostranti o dell’esercito di Assad, ma anche a opera di altri gruppi armati. Un fatto è certo: dal Libano stanno arrivando in Siria molte armi.
Dopo il discorso di Abu Mazen all’Onu e il voto dell’Unesco, ritiene che sia più vicino il giorno della nascita di uno Stato palestinese? Il 2012 potrebbe essere l’anno buono?
Non credo ci sarà mai uno Stato palestinese. Gli israeliani stanno rendendo la cosa materialmente impossibile continuando a sottrarre terre ai palestinesi e ripetendo che non hanno alcuna intenzione di cambiare politica in materia di insediamenti. Per quante concessioni Abu Mazen possa fare, non ci sarà mai uno Stato palestinese.
In Libano si muove qualcosa per la causa palestinese? Hezbollah, che a Beirut governa, pare non abbia intenzione di stare a guardare nei prossimi mesi.
La posizione del Libano rispetto alla questione palestinese non è cambiata. Il Libano chiede il ritiro di Israele dai Territori occupati. Certo i libanesi si augurano una soluzione della questione palestinese, ma non ignorano che molti palestinesi potrebbero diventare libanesi con conseguenze di un certo peso sul piano economico, ma specialmente per ciò che riguarda l’equilibrio delle etnie: non bisogna dimenticare che il Libano è un Paese settario, un delicato mosaico.
Qualcuno, anche a sinistra, in Europa sta mettendo in discussione oltre alla moneta unica anche la stessa sopravvivenza dell’Ue. Una simile eventualità sarebbe un disastro per il Mediterraneo e il Medio Oriente?
Non credo proprio. I Paesi del Medio Oriente hanno le loro monete. A Beirut quando vado al ristorante posso pagare in Sterline libanesi, Sterline britanniche, Dollari e anche in Euro. Se l’Euro svanisse potrei pagare anche in Marchi tedeschi. In sostanza in caso di crollo dell’euro gli arabi userebbero la moneta europea più forte. In caso di fallimento dell’Euro, non piangete per gli arabi.
Il giornalismo di guerra è notevolmente cambiato negli ultimi 20-25 anni, non solo a causa delle tecnologie e di Internet. Ma anche del cosiddetto embedded journalism. Possiamo ancora sperare di avere informazioni attendibili dai teatri di guerra?
In fondo dipende sempre dai giornalisti anche se, me ne rendo conto, sono aumentati i pericoli. La cosa che considero grave non è essere embedded, ma non raccontare a lettori o telespettatori in quali condizioni si fa il proprio lavoro, spacciando per verità assolute comunicati stampa delle forze armate di questo o quell’esercito. Ancor più serie sono state per il giornalismo le rivelazioni di Wikileaks, che ha inondato le redazioni di una massa incredibile di notizie. I giornalisti le hanno selezionate, scelte e raccontate ai loro lettori. Un rapporto diplomatico può anche essere affascinante, ma non rappresenta necessariamente la verità. È, piuttosto, la versione diplomatica americana della verità.

Repubblica 29.12.11
L’incognita Islam sulle rivolte
di Bernardo Valli


Un anno fa la collera popolare all´origine della "primavera araba" ha avuto come detonatore il sacrificio di un venditore di frutta e verdura, il tunisino Mohammed Bouazizi, trasformatosi in una torcia umana, come un bonzo, per protestare contro la polizia dopo il sequestro della mercanzia, unica risorsa per sé e la famiglia. Un gesto disperato, compiuto in un contesto tanto umile, ha provocato un terremoto politico che da dodici mesi sconvolge numerosi paesi, al di là del Mediterraneo e in Medio Oriente, e sulla cui durata è impossibile pronunciarsi. Come sarebbe azzardato avanzare pronostici sugli effetti che avrà quella rivoluzione. Di rivoluzione infatti si tratta, e le rivoluzioni possono prolungarsi per anni, vedi decenni, con fiammate reazionarie, restaurazioni autoritarie o accelerazioni drammatiche. Nel mondo arabo è adesso in gioco un rapporto essenziale, quello tra Islam e politica. Vale a dire la possibilità di una vera democrazia in una società arabo musulmana. Tre raìs, tre regimi autoritari, sono stati cacciati dalle insurrezioni popolari: Tunisia, Egitto, Libia. Ma non è del tutto chiaro quel che li ha sostituiti. Né lo è l´immediato avvenire delle rivolte in corso in Siria, nello Yemen e a Bahrein.
Le insurrezioni hanno in comune la lotta contro la corruzione, contro l´inamovibilità e la decrepitudine dei raìs, e i loro tentativi di creare dinastie fondate su degli stati di polizia. In ogni paese i movimenti di opposizione hanno tuttavia caratteristiche distinte. Gheddafi è stato deposto in Libia (e poi giustiziato) grazie all´intervento della Nato, e le varie milizie adesso in concorrenza tra di loro potrebbero rivelarsi incapaci di sostituire il vecchio regime. Ma in generale i movimenti insurrezionali hanno generato coalizioni in cui convivono, spesso con forti tensioni, islamisti di varie tendenze, più o meno prigioniere della tradizione musulmana, e laici ispirati dagli esempi occidentali, o tentati dal modello turco, che offre una soluzione mista, laico - religiosa.
I paladini dei diritti dell´uomo devono convivere con jihadisti super attivi. I liberali si opponevano ai raìs ma temevano al tempo stesso l´ondata islamista, che adesso tentano di contenere. A questo si aggiunge il ruolo dei militari, decisivi nella lotta contro i raìs.
L´Egitto, epicentro della "primavera araba", vive una situazione in apparenza inestricabile. L´esercito non cede i suoi poteri, che risalgono al 1952, quando gli "ufficiali liberi" cacciarono re Faruk, e vuole essere considerato "al di sopra" della costituzione ancora da redigere. Ma la rivoluzione arroccata in piazza Tahrir, benché ridotta elettoralmente a una minoranza, chiede il rientro dei militari nelle caserme. Al tempo stesso, mentre rifiuta la "democrazia militare" si sente a disagio di fronte al successo elettorale dei partiti religiosi (circa il 70 per cento). Teme che la "primavera araba" si trasformi in una "primavera islamica". È difficile predire se nel 2012 la situazione si chiarirà o si complicherà.

Corriere della Sera 29.12.11
Stupri e nozze forzate L'inferno delle somale
Vittime della carestia e prede di guerra
di Massimo A. Alberizzi


Rashida Manjoo, l'inviato speciale delle Nazioni Unite incaricata di monitorare la violenza contro le donne, ha lanciato un allarme alla comunità internazionale: «Lo stupro è diventato una pratica quotidiana in Somalia e nei campi profughi che ospitano somali in Kenya e in Etiopia». La signora Manjoo, che ha tenuto una conferenza stampa a Nairobi il giorno dopo il ritorno da un viaggio di 10 giorni nell'ex colonia italiana, ha parlato di «privatizzazione della violenza» denunciando l'omertà che regna nei campi profughi e tra la gente dei villaggi, terrorizzata dalla guerra che dura da 20 anni. «Nessuno parla, nessuno denuncia. C'è una cultura del silenzio che favorisce e garantisce l'impunità».
Gli shabab, i miliziani integralisti islamici legati ad Al Qaeda, sono indiziati come i maggiori responsabili di stupri, pestaggi, omicidi nei confronti delle donne. Ma non solo: «Le donne subiscono angherie anche da parte delle truppe governative e dentro le pareti domestiche. Sono l'elemento più debole della società somala e tutti ne abusano».
Un'organizzazione che lotta per le difesa delle donne Mother and Child Care, ha raccolto diverse testimonianze e ha permesso ai giornalisti di parlare con le vittime, a patto di rispettare l'anonimato: «A Mogadiscio — spiega — abbiamo tutti paura». I nomi quindi sono di fantasia. Racconta Faduma Ahmed: «Ero in un campo di sfollati quando ho visto un drappello di uomini con le divise dell'esercito. Non credevo fossero pericolosi, ma quando mi hanno incrociato mi hanno trascinato in un campo e stuprato a turno». Faduma è stata «fortunata» perché aiutata dalle altre donne che l'hanno raccolta e portata in ospedale, dove le hanno somministrato farmaci antiretrovirali per prevenire il contagio di Aids. La maggior parte delle donne vengono lasciate in strada o in un campo. Le vittime sono traumatizzate e non raccontano nulla, neppure a chi vuole aiutarle.
«Ormai — spiega Rakiia Ahmed, che gestisce uno dei centri di Mother and Child Care — chi scappa degli stupratori rischia di finire nelle mani di altri stupratori. Cercare aiuto da chi dovrebbe difenderti è rischioso». Faduma Ahmed non ha voluto denunciare i suoi stupratori e li incontra in divisa mentre pattugliano il campo con l'incarico di difendere i suoi ospiti.
Mamma Amina Ali racconta come è riuscita a salvare la figlia di 15 anni dalle grinfie degli shabab. «Quando sono entrati in casa e volevano prenderla e violentarla, lei è stata furba. Gli ha detto che non vedeva l'ora di combattere la jihad, la guerra santa. Li ha convinti ed è andata via con loro pacificamente. Dopo pochi giorni però è arrivato l'ordine: "La guerra santa la fai sposando uno di noi". Intanto io — continua Amina Ali — ho saputo in quale campo l'avevano portata e sono riuscita a farla rapire per portarla a casa. Mia figlia non è però più normale. Sviene in continuazione, ha gli occhi sbarrati, ha paura di tutto».

La Stampa 29.12.11
Belle e ricche in piazza contro Putin
Politiche, celebrità ma anche militanti per caso le donne sono l’anima della nuova opposizione
di Anna Zafesova


Se l’hanno chiamata «la rivoluzione dei visoni», il merito è della sua pelliccia (anche se i testimoni oculari dicono fosse un chinchilla). L’eroina della piazza moscovita si chiama Bozhena Rynska, ha 34 anni, fa la giornalista e di solito si dedica a caustici reportage sulle feste degli oligarchi e delle star. Ma da quando un poliziotto l’ha buttata dentro un cellulare e l’ha messa dietro le sbarre per aver partecipato alla prima manifestazione contro i brogli alla Duma, è diventata la pasionaria dell’opposizione. Migliaia di persone seguono i suoi post su Facebook, dove discute le strategie per abbattere il regime, con lucidità e durezza leninista e linguaggio da scaricatore, senza disdegnare appelli alla violenza fisica contro la polizia e i giudici, mentre con l’altra mano commenta sui siti delle marche di abbigliamento: «Un amore le vostre nuove gonne da sera». Fa propaganda per la protesta nei ristoranti chic e ai party esclusivi, e probabilmente è anche merito suo se la piazza di Mosca pullula di oligarchi e signore dell’alta società.
La «divina» Bozhena è una delle tante sorprese di questo movimento politico che ha scosso all’improvviso la società russa. La giornalista glamour non parla dal palco, anche perché tutti hanno paura che direbbe qualcosa di troppo. In compenso ci è salita, sabato scorso, è stata Xenia Sobchak, la bionda più famosa del Paese, figlia del famoso politico della perestroika (e mentore di Putin). Rinomata fino ad ora principalmente per i suoi diamanti, i suoi reality show, i fidanzati veri o presunti, ma sempre ricchi e potenti, e le foto senza veli, la Paris Hilton russa ha tirato fuori una grinta politica sorprendente, anche se molti nella folla l’hanno fischiata, sia per i suoi trascorsi glamour sia per un discorso troppo soft: «Non voglio prendere il potere, voglio poter influire sul potere».
La protesta rimescola tutte le carte, e la politica russa scopre all’improvviso di avere anche un volto femminile, di tante donne completamente diverse. Difficile fino a pochi giorni fa immaginare una circostanza nella quale si sarebbero incontrate la ragazza delle copertine patinate Xenia e Anastasia Udaltsova, moglie di Serghei, il leader del «Fronte rosso» che i giudici del regime continuano a tenere in galera nonostante lo sciopero della fame, con condanne pretestuose. Come suo marito, Anastasia è una comunista di ferro, e il suo programma politico è togliere a Xenia i diamanti e mandarla in un campo di rieducazione. E’ la classica moglie del rivoluzionario, pronta ai sacrifici e alla lotta. Non è la sola ad essere entrata in politica a causa delle sventure del marito: accanto ad Anastasia nel comitato organizzatore delle manifestazioni siede Olga Romanova, giornalista di successo e moglie di un multimilionario in dollari. Liberale dai tempi della perestroika, Olga ha cominciato a occuparsi personalmente di politica quando la politica si è occupata di lei, mettendo suo marito Alexei Kozlov in galera (in seguito è stato scagionato) grazie alle accuse del suo socio, all’epoca senatore. Ora è l’anima dei comizi, e gestisce con mano di ferro le collette dell’opposizione, raccogliendo in Rete in poche ore milioni di rubli.
Il «women power» della protesta pratica la parità totale: discorsi da uomini, nessuna distrazione per argomenti gender, nessuna retorica femminista. Ci sono le politiche di professione, come Elena Lukianova, avvocato comunista figlia del presidente del primo parlamento della perestroika, e militanti per caso, come Evghenia Cirikova, che quando ha cominciato la sua battaglia per la foresta di Khimki non poteva immaginarsi che l’avrebbe portata a stringere la mano a Barack Obama. Tutto il contrario delle glamour girls Bozhena e Xenia, Evghenia è piccolina, sportiva, con un piglio da maschiaccio, ha tre lauree (tra cui ingegnere di motori d’aereo), un appartamentino appena fuori Mosca e una società che dirige insieme al marito. La sua carriera politica è cominciata a 30 anni, quando ha scoperto per caso che il bosco dove passeggiava con le due figlie stava per venire abbattuto: «All’improvviso, ho capito che dovevo combattere per i miei diritti». Come i russi, e le russe che sono scesi in piazza scoprendosi ribelli nel dicembre 2011.

Repubblica 29.12.11
L'anno più duro dello zar Putin
di Nina Khrusheva


Se uno zar non suscita più rispetto e timore, bensì viene sbeffeggiato, dovrebbe dimettersi o prepararsi a una congiura di palazzo. Il premier russo Vladimir Putin, deciso a tornare in trionfo al Cremlino da presidente nel marzo prossimo, farebbe bene a riflettere. Il 2011 è iniziato con una petizione on line che esortava Putin alle dimissioni. Poi l´intero Paese ha riso quando il premier, in visita a un campo estivo dei giovani del suo partito, ha voluto dar prova di prestanza fisica affrontando in arrampicata una parete di roccia, senza poi riuscire a scendere. Ora i russi si interrogano sul suo volto improvvisamente liscio, ipotizzando un ricorso al botox o alla chirurgia estetica. Le battute si sprecano.
Nel corso di un´immersione nelle acque di Krasnodar, nella Russia meridionale, Putin ha rocambolescamente riesumato due antiche urne greche. Risate epiche per i russi, informati chissà perché dal suo portavoce, Dmitry Peskov, che le urne erano state collocate lì per gratificare il premier. Se lo Stato russo non fosse così inetto si potrebbe pensare a un complotto per screditare il premier. E Putin, questo è certo, è caduto in discredito. Dopo un incontro di arti marziali tra un americano e un russo, Putin, appassionato di judo, è salito sul ring per congratularsi con il vincitore, iscritto al suo partito, Russia Unita. Il pubblico ha gridato «Putin vai a casa!». La politica, sembrava dire la folla, dovrebbe restare fuori dallo sport - e Putin fuori dalla politica.
Putin spettacolarizza il suo ruolo di leader. Bacia delfini e bambini, posa a petto nudo a cavallo, e a piedi nelle lande siberiane. Ma non regge a una brutta figura. Dopo l´incontro di judo ha annullato ogni apparizione a contatto con il pubblico.
A dire il vero ha partecipato a un unico evento - il congresso di Russia Unita - in cui i 600 delegati lo hanno votato all´unanimità candidato alle presidenziali del 2012. Ma le elezioni parlamentari del 4 dicembre, che hanno attribuito a Russia Unita solo il 50 per cento dei voti, (Putin di solito riusciva a garantire il 70 per cento) sono state presidiate dalla polizia, con gli osservatori sottoposti a ostruzionismo, e i siti web di monitoraggio chiusi o violati dal governo. Le stravaganze e la vanità di Putin hanno minato l´immagine di uomo forte che il premier russo si è impegnato a costruire. Le trovate narcisiste non incutono timore né rispetto tra i russi, che da sempre preferiscono al potere un uomo dal pugno di ferro. L´immagine di Putin come uomo forte in politica è svanita.
I russi non scherniscono Putin perché ha trasformato la Russia in una repubblica delle banane industrializzata, in cui le esportazioni di petrolio ed altri beni sostengono uno stato semi-autoritario, ma perché non riveste più il suo ruolo in maniera convincente. Nel momento in cui uno zar perde l´immagine di onnipotenza anche l´autorità gli sfugge di mano.
Il Cremlino ha pochi programmi alternativi al melodramma di Putin. Tutti si attendono uno scambio di ruoli tra lui e l´attuale presidente Medvedev. Ma dietro le quinte è in attesa l´ex ministro delle finanze, Alexei Kudrin, che potrebbe rimpiazzare Medvedev se alla Russia servisse una figura seria per la riforma economica. Ma l´ex, nonché futuro, presidente sostiene di aver già reso la Russia più forte: un´isola di stabilità nell´incertezza finanziaria che attanaglia il mondo sviluppato.
Putin viene spesso paragonato a Stalin, ma ora, alla vigilia del ventennale del crollo dell´Urss, somiglia sempre più a Breznev: simbolo di un sistema politico che ha già superato la data di scadenza. Gli manca solo il doppio mento.
L´autrice, pronipote di Nikita Krushchev, è scrittrice e docente di politica internazionale
Traduzione di Emilia Benghi

Corriere della Sera 29.12.11
La fusione nel sacro di carne e spirito
di Giorgio Montefoschi


Attorno al 160 d.C., in Frigia, un prete di nome Montano era caduto in estasi e aveva cominciato a profetare come nei tempi antichi. Presto, le sue profezie furono messe per iscritto e in tutta l'Asia Minore si sparse la voce che Dio aveva fatto agli uomini una nuova e definitiva rivelazione. Il cuore di questa rivelazione consisteva in una fine del mondo ormai vicinissima. Il Signore, aveva promesso, sarebbe tornato sulla Terra. Insieme a Lui, in una località della Frigia, sarebbe discesa la Gerusalemme celeste, nella quale si sarebbero raccolti tutti i santi che avevano sofferto in nome di Gesù: il Dio fatto carne che aveva espiato con la carne sulla croce i peccati del mondo. I cristiani, fortificati dal Paracleto, lo Spirito Santo, dovevano prepararsi con digiuni e penitenze. Ma non solo: dovevano liberarsi del tutto dai legami carnali, rifiutando addirittura il matrimonio o, in caso di vedovanza, di risposarsi.
L'ascetismo e il rigore di Montano e della sua setta, la «Nuova Profezia», approdarono sulle coste del Nordafrica nei primissimi anni del III secolo e conquistarono Tertulliano, il presbitero di Cartagine che di questo rigore già sentiva da tempo l'esigenza. «La volontà di Dio è la nostra santificazione», scrive all'inizio del breve trattato Esortazione alla castità, che leggiamo nel volume dedicato da Città Nuova alle Opere Montaniste (a cura di G. Azzali Bernardelli, F. Ruggero, E. Sanzi, C. Schipani, pp.424, 68). Questo bene, vale a dire la santità — prosegue — Dio lo ha diviso in tre specie. La prima è la verginità che possediamo dalla nascita e possiamo far durare tutta la vita; la seconda è la verginità che possiamo riconquistare con la seconda nascita, e cioè con il battesimo, e che con l'accordo dei coniugi santifica il matrimonio; la terza è la monogamia, cioè quando in seguito alla interruzione di un unico matrimonio si rinuncia ai rapporti sessuali. Secondo Tertulliano, mentre nel secondo e nel terzo caso è la virtù dell'uomo che opera, il primo tipo di verginità è un dono primordiale. Ma questo è anche il dono che garantisce la vera felicità: «Non conoscere affatto ciò da cui poi desidererai essere liberato». Sono parole sconvolgenti, se pensiamo che vengono pronunciate da un cristiano del II secolo in lotta per riaffermare la realtà della carne. Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza nella carne; il Figlio è disceso nella carne; è morto — nonostante i dubbi di molti — nella carne; resusciterà nella carne, come noi tutti resusciteremo. Per quale motivo dobbiamo considerare che la vera felicità consiste nell'ignorare il peso, la bellezza, gli strazi della carne? Per quale motivo dobbiamo considerare, nel matrimonio, l'unione sacra fra l'uomo e la donna — seguendo Paolo: «È meglio sposarsi che ardere» — come un rimedio per addormentare la concupiscenza, invece di onorare il corpo che Dio ci ha dato?
L'Esortazione alla castità ci opprime. Le sue raccomandazioni alle donne e alle vedove ci avviliscono. E la sua prosa è angusta: non è più la stupenda prosa larga che nell'Apologeticum descrive Dio e l'universo. La sua unica luce è nel capitolo quinto. Ma è una luce che buca secoli d'oblio e ci inchioda. Dio — scrive Tertulliano rifacendosi alla Genesi — ha creato la donna da una costola dell'uomo. L'uomo ha molte costole: ne ha usata una, perché voleva che una fosse la sua donna e «fossero due in una sola carne, non tre o quattro. Altrimenti non saranno più una sola carne né due in una sola carne. Lo saranno se l'unione e la fusione in un'unica cosa avvenga una volta soltanto». Improvvisamente, con queste parole, la congiunzione carnale che dovevamo fuggire diventa un atto sacro: l'atto sacro per eccellenza in quanto esecuzione della volontà divina.

Corriere della Sera 29.12.11
Lo spettacolo dell’Apocalisse
La fine del mondo secondo John Martin Così un pittore inglese dell'Ottocento ha anticipato Hollywood e i videogiochi
di Alessandro Cannavò


Ma, in definitiva, la fine del mondo ci interessa ancora? O le ansie per l'appuntamento del 21/12/12, data funesta (o rinnovatrice) indicata dal calendario maya, si stanno diluendo in una quotidianità di notizie catastrofiche? Al termine di un anno costellato da baratri economico-finanziari, tsunami e incidenti nucleari, rivoluzioni politiche piene di incognite, il giorno dell'apocalisse diventa forse il pretesto per ritrovare un po' di emozione dell'attesa.
Ed è forse la necessità ricorrente di questo stato d'animo ad aver ispirato i curatori della Tate Britain di Londra Martin Myrone e Anna Austen, per una mostra dal titolo eloquente, «Apocalypse», su John Martin, un pittore inglese di due secoli fa che ha perfettamente catturato le paure collettive della sua epoca con spettacolari quadri di rocce pronte a collassare, lava eruttante, dirupi oscuri, acque inquiete che scorrono in crepe del terreno, cieli di fuoco, città ambiziose nella loro fantasia architettonica e destinate alla rovina. Tutto è esagerato, bombastic come dicono gli inglesi e certo questo mondo a tinte forti che attingeva i soggetti dalla Bibbia o da poemi come il «Paradiso perduto» di John Milton, attirava il popolino in massa alle presentazioni dei quadri portati in tour lungo tutto il Paese tra gallerie, teatri, music hall, spazi commerciali. Venghino signori, venghino... E l'esposizione di opere come «La caduta di Babilonia», «La distruzione di Pompei ed Ercolano» o il trittico sul Giudizio Universale era accompagnata da letture piene di pathos e programmata in ore serali alla luce precaria e suggestiva delle lampade a gas.
Un'operazione massmediatica ante litteram che anticipa il cinema hollywoodiano di Griffith e de Mille, il filone catastrofico stile «Inferno di cristallo», la forza annientatrice di «The Day After Tomorrow». Entrate nel sito della Tate Britain e cliccate sull'efficacissimo video di meno di tre minuti (ora spopola su YouTube) che presenta la mostra e la dice lunga su come i musei possono ritornare a essere accattivanti: una giovane donna si trova ad attraversare un mondo pauroso, pieno di urla, crolli, insidie finché risvegliandosi dall'incubo piomba davanti a «La fine del mondo», uno dei dipinti più impressionanti dell'esposizione con quel vortice di fuoco che manda il mondo sottosopra e inghiotte tutto.
Martin non aveva pedigree artistico, approdò a Londra dal povero Northumberland, un classico figlio della working class. Ma nutriva ambizioni. Nella capitale si cimentò con grande professionalità in ogni tecnica, dall'olio su tela agli smalti per vetro e ceramiche. Fu pittore del Sublime ma anche esperto nella mezzatinta. Esponeva regolarmente alla Royal Academy (sembra che il rosso fuoco, colore predominante in tutti i suoi quadri, fosse stato scelto perché risaltava sul verde delle pareti delle sale). E regolarmente veniva bollato dai critici che lo definivamo queer, strano, tawdry, pacchiano. Non è difficile immaginare la tagliente ironia di questi signori altezzosi, la faccia leggermente disgustata e il sopracciglio rialzato di chi era avvezzo ad artisti coevi ben più sofisticati come Turner o Constable. Eppure oltre che dalle masse ignoranti, Martin era amato dai potenti. In mostra è esposto un mobiletto, probabilmente realizzato da lui stesso, con tanti cassettini che portano sul frontale i nomi di tutti i reali e i nobili che gli scrivevano per ordinare opere o semplicemente fargli i complimenti (tra i fan/clienti anche la regina Vittoria oltre ai sovrani di Francia e Belgio). Ma la legittimazione artistica da lui cercata spasmodicamente non arrivò mai. Decise allora di buttarsi anche su ardui progetti ingegneristici. Per dirottare gli scarichi fognari che rendevano all'epoca il Tamigi una vera bomba ecologica (anche Dickens era angosciato dal problema) o per creare un sistema ferroviario attorno a Londra. «Idee interessanti ma irrealizzabili», si sentì dire da politici ed amministratori. Quindici anni dopo nella capitale britannica sarebbero cominciati i lavori per la metropolitana, la prima al mondo.
Dopo la sua morte, Martin fu presto dimenticato, le avanguardie del primo Novecento lo seppellirono, i suoi quadri finirono tutti nei depositi. Poi nel dopoguerra, le timide riscoperte e una nuova diffusione commerciale a livello di copertine di diari e cartoline. La rivalutazione avviene dagli anni Novanta e non è un caso che la mostra si conclude con un omaggio dell'artista Glenn Brown («La tragica trasformazione di Salvador Dalì») che accentua i colori irreali di Martin con una sensibilità tipica dell'era digitale vicina anche al mondo dei fumetti.
«Chi decide, e come, se siamo di fronte a un grande pittore? Siamo pronti a una nuova estetica scevra da pregiudizi?», si chiede Martin Myrone nel suo blog. Se le poche righe che presentano la mostra su Time out descrivono le montagne di John Martin come delle Alpi al testosterone sempre in bilico tra il sublime e il ridicolo, il pubblico che dibatte online individua tra i cieli sanguinanti solcati da fulmini che sembrano raggi laser, il design di videogiochi come la popolarissima serie Halo. Affascina dei suoi panorami la dimensione in 3D, con il volume del cielo evidenziato dalle nuvole. O il «suono» dei suoi dipinti. Che spesso è quello di un tornado. Ma il senso di caos e di fine può essere anche soltanto psicologico come nell'acquarello «The Last Man» (un uomo solo sulla roccia che sovrasta una valle piena di morti): disastro ecologico, conflitto globale? O più intimamente quel perdere totalmente i punti di riferimento di quando ci si innamora, come suggerisce all'Observer l'attore Ewan McGregor protagonista di «Perfect sense» (il film inaugura il filone cinematografico apocalittico del 2012 con una pandemia che fa perdere le capacità sensoriali)? Tutto sembra fatto apposta, anche a rischio di cattivo gusto, per esorcizzare la ben più spaventevole attualità.

Corriere della Sera 29.12.11
L'anima fantasy dell'arte che unisce il gotico a Pollock
Bosch alfiere degli «eretici» che osano sfidare le paure
di Francesca Bonazzoli


È nell'immaginario romanico e gotico di figure fantastiche, di quegli ibridi mostruosi con ali di drago e teste umane, di diavoli e sirene, che ha inizio la lunga storia di un genere artistico che potremmo chiamare fantasy, rubando il termine a cinema e letteratura. Il furto lessicale è necessario perché, nell'arte visiva, il fantasy non è classificato come un genere autonomo, al contrario di quanto è invece avvenuto per la natura morta, il paesaggio, il ritratto o la pittura di storia.
Se è infatti vero che esistono architettura, scultura e pittura fantasy, è effettivamente difficile darne una definizione univoca e raccontarne una storia evolutiva con un inizio e uno sviluppo formale coerente, come per gli altri generi.
Rispetto alla legge che ha dominato l'arte occidentale — la mimesi — si può solo definire fantasy l'arte che non considera la riproduzione della realtà l'obiettivo primario e aspira invece a superare questo tempo e questo spazio per entrare nelle dimensioni del sogno, delle paure, dell'inconscio, dello spirito. Come si vede, in questi termini, la definizione è così generica, che può arrivare ad abbracciare le sculture di mostri sui portali delle cattedrali gotiche ma anche i totem di Max Ernst.
In questo senso, può apparire sorprendente constatare che gran parte del repertorio di figure fantastiche del Medio Evo sia riconducibile all'antichità greco-romana, come hanno messo in evidenza gli studi di Baltrušajtis e Wittkover. La cultura ellenica che transitò l'intera umanità dal dionisiaco all'apollineo, dall'irrazionale al razionale, dalla natura alla legge, teneva infatti a bada le paure ancestrali attraverso l'elaborazione mitologica delle lotte umane contro grifoni, chimere, sirene, arpie, ciclopi, satiri, centauri, erinni, meduse. Un bestiario che sopravvisse al «crepuscolo degli dèi» e passò al cristianesimo, rafforzato dai rapporti con le culture barbariche e con quelle della lontana Asia.
Quando poi, dall'architettura alla scultura, dominanti nel Romanico e nel Gotico, si passò alla pittura, non fu più possibile individuare uno stile con una prevalenza fantasy essendo diventato il «genere» trasversale, una corrente sotterranea che continua ad affiorare qua e là, attraverso singole individualità e a distanza di lunghe pause temporali. Inoltre, con la pittura, ai mostri ibridi si è affiancata anche la rappresentazione di un paesaggio inquieto e inquietante.
Uno dei primi pittori a unire paesaggio e «grilli» in visioni infernali e incubi paradisiaci, con incendi, apparizioni celesti, grotte antropomorfiche, fu Hieronymus Bosch (1450 ca-1516). La sua origine fiamminga rivela subito che la sensibilità per il fantasy trovò terreno fertile soprattutto nel Nord Europa (che fu del resto campione del Gotico). Se dunque vogliamo cercare le lande all'origine dei paesaggi sconvolgenti di John Martin, dobbiamo guardare ai dettagli di certi quadri nordici come quelli di Joachim Patinier (1240 ca-1524)o di Albrecht Altdorfer (1480 ca-1538).
Ma alle seduzioni del fantasy non sfuggì nemmeno il Sud: per esempio Domenico Theotokòpulos, detto El Greco (1514-1614), a contatto con la spiritualità febbricitante e ascetica della Spagna controriformista, dipinse la città di Toledo come una visione apocalittica della Gerusalemme celeste piuttosto che come un resoconto topografico. E se la pittura di El Greco andò sempre di più distaccandosi dalle rappresentazioni naturalistiche e razionali, eliminandone tutte le leggi a partire dalla profondità spaziale, altri artisti riuscirono a esprimere l'elemento fantastico tenendosi invece più stretti alla rappresentazione del reale, come fecero per esempio Salvator Rosa, Marco Ricci, Magnasco o Piranesi, i quali lavorarono piuttosto sugli accenti, sull'incremento di enfasi che si può mettere nel descrivere una tempesta di vento o l'ambiguità misteriosa di un luogo. E qui ci avviciniamo al concetto di Sublime, cioè al terrifico, all'orrido, al piacere del terrore che può somministrare lo spettacolo della natura o delle rovine. Concetto che viene teorizzato da Edmund Burke nel 1757 e che Kant chiama il «Sublime dinamico», distinto dal «Sublime grandioso» che Winckelmann vedeva nelle opere di Fidia, Policleto, Scopas. Al sentimento del primo Sublime, quello tenebroso e minaccioso, aderiscono preromantici, romantici, e poi via via, nelle loro diverse declinazioni, Simbolismo, Surrealismo, misticismo, decadentismo e oltre. Da Füssli a Blake, da Klinger a Kubin a Redon, su su fino alle mareggiate di Turner o ai cieli infuocati di Edvard Munch dove si proietta il grido dell'angoscia o alle città popolate di maschere spettrali di Ensor, il non-genere fantasy cerca di penetrare le nebbie dell'inconscio, il regno oscuro dove si annidano le paure della mente, le visioni che l'intelletto non riesce a tenere a bada. È un genere frequentato da una comunità di apocalittici le cui fila possono essere più consistenti in certi periodi, come in quello romantico. Ma per lo più si tratta di individui che vagano da solitari, vivono da emarginati e muoiono prima di venire ri-scoperti. Come John Martin.

Corriere della Sera 29.12.11
Le 101 cose da fare per prepararsi all'Armageddon
di Roberta Scorranese


Imparare a ballare la cueca (danza cilena). Studiare l'aramaico. Assaggiare un gelato alla rosa davanti alla Muraglia Cinese. In fondo mancano 359 giorni alla fine del mondo: il tempo per realizzare i propositi più strampalati c'è, come ricordano le centinaia di «liste» che da mesi fioriscono sul web. «Le 101 cose da fare prima della fine del mondo», per esempio, una pagina Facebook dove Matilda suggerisce: stare svegli fino all'ora X.
Una lunga veglia comune, dunque. L'importante è aspettare questo «Armageddon», perché l'attesa è parte integrante. E una cosa è certa: questa modernissima Apocalisse è intensificata, infiammata da Internet: gruppi Facebook, blog, siti. La fine del mondo seduce con la sua ineluttabilità collettiva, «parificatrice» e, come dicono dall'Osservatorio Apocalittico (www.osservatorioapocalittico.it, sito nato per osservare questi fenomeni) «è un think-thank che mette insieme esperti di diverse discipline». Partendo dai simboli: a Tapachula, Messico del sud, un grande orologio digitale segna già il conto alla rovescia fino al 21 dicembre 2012, giorno della fine del calendario Maya. Simboli, appunto.
Come nell'Apocalisse di Giovanni, il potere dell'immagine incalza la paura. Come sarà? Una gigantesca nuvola di fuoco? Un terremoto spaventoso? Finora prevale la visione (cinematografica) dell'esplosione divina. E i pragmatici si organizzano: la Vivos, società californiana, ha messo in vendita posti in rifugi sotterranei hi-tech, al prezzo di 50 mila dollari per una metratura media; gli imprenditori Gregory Gibbons e Bruce Francisco riadattano dei giganteschi silos interrati (una vasta rete di protezione ereditata dai tempi della Guerra Fredda) nei pressi di New York; mentre Leonardo Remorini, della Matex Security di Pontedera, realizza bunker e confessa che, dal 2009, la richiesta è triplicata. Non solo rifugi, ma anche maschere antigas, contenitori per medicamenti d'emergenza.
Ha ben poco di divinatorio e molto invece di prassi affaristica la lievitazione del volume d'affari delle agenzie di viaggio che propongono tour in Messico e nelle altre terre dei Maya: qui nel 2012 i turisti dovrebbero toccare il numero record di 300 mila presenze nei posti meno frequentati dalle consuete rotte turistiche. D'altra parte a Copán Ruinas, in Honduras, sono già iniziati riti e preghiere. E paesi come Honduras, Belize e Guatemala hanno allestito un percorso comune sulle orme della cultura dei Maya.
«A quanto pare però, la fine del mondo è già cominciata» riflette Valentino Boi su una delle numerose pagine «apocalittiche» di Facebook. Si riferisce alla crisi finanziaria e già da diverse parti del mondo si fanno avanti gli scommettitori, come riferisce l'Observer in un articolo dal titolo «How to bet on the Apocalypse». Scommettitori che però forse non potranno contare su un paesino della Francia sudorientale, Bugarach, 194 abitanti tra Carcassonne e Perpignan: qui la fine del mondo non avverrà, perché sembra che il vicino monte Pech sia benedetto, protetto dalla presenza di un sacro Graal. E, manco a dirlo, i prezzi delle case sono alle stelle: i terreni edificabili vicini al monte costano sui 50 euro mq (appena 20 nell'area comunale).
Insomma, questo mondo trova modo di fare soldi anche dalla sua stessa fine. Ma, in fondo, basterebbe leggere tra le righe della profezia Maya: con il 2012, più che l'universo finirà l'Età dell'Oro. Ipotesi per molti oggi certamente più plausibile.

il Fatto 29.12.11
Fuga da Facebook
Social network per indignati
di Fabio Chiusi


Il passaggio di consegne da Mark Zuckerberg all’anonimo ‘manifestante’ non è avvenuto, nel corso degli ultimi dodici mesi, solo sulla copertina che ha incoronato il personaggio dell’anno sul settimanale Time. Un gruppo di attivisti indignati, infatti, è al lavoro per portare il coordinamento della protesta – da Occupy Wall Street ai collettivi che si sono mobilitati in tutto il mondo lo scorso 15 ottobre – fuori da Facebook. E farla traslocare su un social network in fase di realizzazione e attualmente chiamato Global Square (Piazza globale), creato su misura per le esigenze del movimento. I primi risultati saranno visibili a partire da gennaio, ma le caratteristiche sono già in parte note. Secondo quanto scritto su Roarmag.org   dagli ideatori, Global Square prevederà mappe interattive delle assemblee in corso in tutto il pianeta, archivi dei documenti prodotti, la possibilità di modificarli in modo collaborativo e di discutere e votare le proposte formulate. Si tratterà inoltre, precisa Wired.com , di una piattaforma open source (a codice aperto) ma ingresso limitato, dato che per accedere servirà la ‘garanzia’ di un iscritto conosciuto offline: troppo rischioso affidare, come sulla creatura di Zuckeberg, comunicazioni più o meno delicate tra gli attivisti a perfetti sconosciuti. A maggior ragione ora che l’introduzione di Timeline (la nuova configurazione a forma di diario della propria pagina personale) consente di risalire in un attimo a tutto ciò che si è scritto sul social network fin dal momento dell’iscrizione.
IL TENTATIVO, insomma, è sfuggire all’occhio del Grande Fratello digitale che sempre più si manifesta sotto i propositi di frictionless sharing (cioè di condivisione automatica dei contenuti) e di demolizione della privacy propagandati da Facebook. Ma anche Twitter è diventato un luogo pericoloso per protestare, dato che proprio nei confronti del servizio di microblogging si moltiplicano le richieste delle autorità di accedere a dati personali degli utenti, come avvenuto per diversi profili legati a WikiLeaks e OccupyBoston – senza scomodare i software di sorveglianza on line adoperati dai regimi autoritari per identificare i dissidenti. Il progetto è “ambizioso” per fondi e intelligenze richieste, ammettono gli ideatori, ma necessario per integrare e potenziare i diversi sforzi a livello locale uniti dallo slogan “siamo il 99%”. E mentre gli attivisti stanno lavorando, parallelamente, a un network che metta in comunicazione i diversi Occupy statunitensi (il nome provvisorio è Federated General Assembly, ovvero Assemblea Generale Federata), Planetary – un’associazione che si propone di rendere human-friendly i sistemi sociali – è intervenuta nel dibattito proponendo che Global Square sia gestito come una superassemblea, più che come un social network. L'intento è consentire alla Zuccotti Park virtuale di sfuggire agli attacchi Ddos (Denial-of-service) che la renderebbero inaccessibile, e impedire ai disturbatori di falsare l’esito delle votazioni. In vacanza nel paese della censura Il Vietnam impone pesanti restrizione all’uso di Facebook, ma non ferma il suo fondatore, Mark Zuckerberg, dal trascorrerci una vacanza. Zuckerberg è arrivato in Vietnam una settimana fa assieme alla fidanzata e ha passato la vigilia di Natale nella località di Ha Long Bay. Anche se un suo portavoce ha detto che il viaggio “è a scopo personale”, il Sun sostiene che Zuckerberg sia in Vietnam anche per presentare Facebook in maniera più “diplomatica”. Le limitazioni imposte dal regime di Hanoi avevano provocato le reazioni del Dipartimento di Stato americano

il Fatto 29.12.11
Arte
Niente è come sembra nell’atelier dell’inconscio
di Claudia Colasanti


Vale la pena di parlare di una mostra, ancora aperta per più di un mese, che a distanza di un secolo mette a fuoco un intento chiaro e preciso. Rivisitare e riscoprire il Simbolismo italiano, grazie a una selezione di dipinti e sculture di alta qualità: un movimento il cui sviluppo è sfociato in una parabola tanto limpida quanto artisticamente esaustiva. Apparentemente di facile lettura, con mezzi artistici ancora legati alla tradizione (pittura e scultura figurativa), la messa in scena dell’inconscio e la rappresentazione dei sentimenti si traduce in un alfabeto formale languido e ruvido al tempo stesso. Natura, riti religiosi, meditativa quotidianità, stati d’animo come la nostalgia e la malinconia si definiscono su tele e bassorilievi per arrivare rapidi al cuore dello spettatore. Come per esempio Il Canto d’Amore (1905-1908) di Leonardo Bistolfi: un abbraccio erotico e sentimentale, una fusione amorosa in un vortice di onde di gesso che trasmette il senso di un’osmosi su cui non rimane che fantasticare. I simboli della vita sono materia dell’artista “veggente” che assume il compito di decodificare il mondo dei fenomeni e di cogliere le affinità esistenti tra l’uomo e la realtà circostante. Otto sezioni di capolavori italiani con qualche esempio oltreconfine: in particolare l’ambito austriaco del Simbolismo. Come la Giuditta di Gustav Klimt o Il Peccato, celebre quadro di Franz von Stuck: due opere che valgono da sole la visita alla mostra.
Il Simbolismo in Italia. Palazzo Zabarella, Padova. Orario: mart-dom 9,30-19. Fino al 12 febbraio 2012

Corriere della Sera 29.12.11
Se esplode la bolla dell'arte
La finanza ha preso il posto dell'estetica Ma affari (e creatività) sono in pericolo
di Pierluigi Panza


Prima di diventare come un hedge fund, l'opera d'arte ha avuto diverse finalità: devozionale nel Medioevo, estetica e testimoniale nel Rinascimento, auto-riflessiva nelle Avanguardie... Oggi, dopo aver attraversato la stagione della sua riproducibilità tecnica (dal titolo dell'opera di Walter Benjamin del 1936), l'arte sta implodendo nell'epoca della sua riproducibilità finanziaria.
Arte e denaro sono spesso stati amici. «Le grandi famiglie di banchieri toscani hanno lasciato testimonianze del proprio talento finanziario non solo accumulando fortune, ma anche traducendole in opere d'arte che sono divenute parte del patrimonio culturale», ricorda infatti Lorenzo Bini Smaghi, presidente della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze, dove è in corso la mostra I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità (sino al 22 gennaio). Ma a quel tempo, i banchieri commissionavano opere per accreditarsi a un superiore rango sociale, non per giochi speculativi. L'arte nell'epoca della sua finanziarizzazione, invece, oltre a essere chiave d'accesso all'élite postmoderna è diventata come un derivato finanziario. Soprattutto l'arte contemporanea, che arte non è in quanto un oggetto diventa tale solo «consegnandosi alla distesa dei tempi» (come affermato dal filosofo Hans Georg Gadamer), ovvero attraverso un'attribuzione di valore plurigenerazionale. Pertanto, coloro che negli ultimi anni hanno acquistato arte contemporanea, hanno in mano promesse di valore, non valori effettivi. Hanno fatto investimenti di tipo simbolico, che la crisi sta erodendo.
Un gioco di segni
Le opere contemporanee sono promesse di valore perché create — o prodotte — nell'età del capitalismo finanziario. Come spiega Mark C. Taylor della Columbia University in Financialization of Art, «mentre nelle precedenti forme di capitalismo (agricoltura, beni industriali e di consumo) la gente scambiava soldi con beni materiali o lavoro, nel capitalismo finanziario si crea ricchezza attraverso la circolazione di segni. E così anche l'arte è diventata un gioco di segni senza referenza, un astratto strumento finanziario all'interno di un circolo il cui fine è la proliferazione di segni finanziari. Quando l'arte della finanza diventa la finanza d'arte, l'arte non è più solo una merce, ma è moneta di scambio per hedge fund e fondi di private equity; viene scambiata come qualsiasi altro strumento finanziario».
Questo processo partì con Andy Warhol negli anni Settanta anche a seguito di scelte politiche. «La recessione post guerra del Vietnam e la crisi petrolifera del 1973 crearono le condizioni perché l'America creasse un mercato globale di finanziarizzazione fondato su valori simbolici dove — spiega ancora Taylor — la ricchezza viene generata dalla circolazione di segni in un gioco apparentemente infinito. L'arte si è inserita pienamente in questa narrazione».
Derivati di derivati
Espressione tipica di questa era è stata l'affermazione di artisti apolidi, che sono apparsi più globali e quindi rispondenti al grande gioco della smaterializzazione. Questi artisti sono diventati talvolta flatus vocis propagandati da galleristi e collezionisti sostenuti da creatori di consenso operanti in deroga a qualsiasi metodo critico. Si è così passati, parafrasando Oscar Wilde, dal Critico come artista al «finanziere come artista». Il finanziere, infatti, è diventato il creatore del creatore (l'artista). E l'artista una pedina inserita nel gioco dello scambio finanziario. Grandi collezionisti come Pinault, Arnault, Abramovich, finanzieri internazionali, magnati cinesi o sauditi, tycoon e petrolieri si possono scambiare indifferentemente Damien Hirst, hedge fund o altri «giocattoli»...
Questa finanziarizzazione dell'arte, in crisi dal 2008 e ora di nuovo fuori controllo, si è caratterizzata per due aspetti. Il primo è stato l'uso dell'arte come griffe per una produzione mass market sovraquotata («derivato» del «derivato»); il secondo l'esplosione della bolla speculativa, che ha investito l'arte come un «future».
Koons e Murakami hanno dato corso alla prima prospettiva creando opere empatiche ma propedeutiche alla produzione di oggetti di massa ad alto costo. Koons lo ammette con piglio da tele-evangelista: «Cerco di fare lavori che facciano sentire le persone bene con sé stesse». Per quanto ciò possa apparire spregiudicato, non è lontano dal fine che Schopenhauer affida all'estetica: la liberazione dalle contingenze quotidiane. Con i suoi colti e pop Superflate, Murakami sublima questa prospettiva finalizzando la pratica artistica alla creazione di un asset commerciale indistinguibile da quello di una normale azienda di media o di gadget. La sua ditta Kaikai Kiki Co. include infatti «la produzione di eventi e di merci», vende dipinti, video, t-shirt, portachiavi, tappetini per mouse e borse Louis Vuitton in tiratura limitata da 5 mila dollari.
Le opere e le azioni
Ma l'aspetto più rilevante è l'esplodere della bolla finanziaria dell'arte come un «future». Gli scricchiolii non sono recenti. L'industriale giapponese Ryoei Saito ha acquistato Il ritratto del dottor Gachet di Van Gogh nel 1990 per l'allora prezzo record di 82,5 milioni di dollari per accedere all'élite finanziaria. Ma il suo impero è crollato, lui è scomparso nel 1996 e, con lui, anche il dipinto. A questo episodio non è stata data importanza e nemmeno alla caduta del Nasdaq. «Il mercato d'arte ha continuato a seguire quello della finanza perché in mano ai finanzieri/collezionisti», ha ammesso recentemente Bijan Khezri, tra i maggiori finanzieri svizzeri. E così i gruppi d'investimento hanno continuato ad acquistare arte. Ma dopo una crescita incessante, all'inizio del 2008 il mercato dell'arte è entrato in una vertiginosa turbolenza, «non ha resistito alla crisi dei subprime e — come afferma Thomas Gehrig dell'Università di Vienna — la bolla è scoppiata». Il mercato è sceso ai minimi, prima che recuperasse nei due anni successivi. Nel 2011, tuttavia, questo mercato ha ripreso a segnare un brusco meno 20,9%, confrontabile con il meno 1,5% di Standard & Poor's 500 (l'indice dei titoli a maggiore capitalizzazione della Borsa di New York) e con il meno 27,5% dell'Ftse Mib (il più significativo indice azionario della Borsa italiana; dati Monte dei Paschi di Siena). Per il solo mercato dei dipinti la quota 2011 è del meno 17,9 per cento. E sebbene nel quinquennio resti in terreno positivo, dai massimi di inizio 2008 questo indice è sceso del 58,1 per cento.
Nonostante le ultimissime aste di Miami siano andate bene per Hirst e Kelly, in quelle di novembre a New York, Sotheby's e Christie's hanno collezionato un 40% di invenduto: «Non ci lamentiamo, poteva andare molto peggio», hanno commentato i vertici delle case d'asta. Forse non sbagliano: Art Tactic, grande società di ricerca nel mercato dell'arte, prevede una possibile discesa dei prezzi nei prossimi mesi del 35-40 per cento.
Di fatto siamo passati «dall'incubo di perdere l'appuntamento con il capolavoro alla paura di restare intrappolati con opere che sarà sempre più difficile liquidare», ha scritto il giornalista d'arte Antonio Galdo. «Sul mercato dell'arte si sta verificando lo stesso fenomeno di fuga dal rischio che caratterizza il mercato finanziario — focalizza Lorenzo Bini Smaghi —. Ciò determina uno spostamento delle preferenze verso artisti sicuri e una divaricazione delle quotazioni a sfavore degli artisti piu giovani. Inoltre, il progressivo spostamento verso l'Asia del motore di sviluppo economico e dell'accumulazione di ricchezza ha già fatto della Cina il primo mercato d'arte, e questo tenderà a favorire l'arte di quel Paese».
Avanti Cina
Ma quest'arte che verrà sarà ancora nelle mani dei banchieri? Forse, ma non occidentali. Anche se nel corso del forum Finance and the Arts organizzato da Palazzo Strozzi — con la partecipazione di personalità come il governatore della Bank of England, Mervyn King, esponenti della Federal Reserve, l'amministratore delegato di Sotheby's, Bill Ruprecht, l'italiano Francesco Micheli —, il 44% dei finanzieri presenti ha dichiarato che il mercato dell'arte resterà in Occidente, mentre per il 37% è già in Oriente (lo riferisce Tim Parks su «The Guardian»), e la Cina è già oggi il secondo mercato d'arte del mondo.
La Cina e altri Paesi orientali, entrati più tardi nell'azzardato gioco dell'arte finanziarizzata, si sono solo in parte ritirati dal mercato. Anche perché «in Cina si stanno realizzando 1.000 musei e il 5% del Pil nel 2016 andrà alla cultura», riferisce Li Guochang, presidente del maggiore museo privato cinese. Ma questo, per l'arte, non è detto che sia un bene. Se la produzione segue la finanza, non è detto che anche la qualità creativa la segua. «I Paesi ricchi possono comprare di più — afferma Adrian Wooldridge di «The Economist» —, ma (ovviamente, ndr) questo non assicura che diventeranno dei grandi creatori d'arte». E si chiede, a questo proposito, Susan Moore del «Financial Times»: «Può sorgere una creatività regionale ad Abu Dhabi oppure a Hong Kong, dove non esiste l'educazione artistica nelle scuole»?
L'esito dell'arte nell'età della finanziarizzazione è, dunque, oltre alla perdita di valore economico, anche quello di una perdita di creatività. Forse qualche speranza resta in Europa, secondo Martin Bethenod, direttore di Palazzo Grassi. «La mia convinzione è che la chiave per una dinamica e sostenibile futura scena artistica è basata sul bilanciamento di istituzioni pubbliche, scuole, collezionisti... Senza queste diversità ed equilibrio non avremo altro che un susseguirsi di effimere bolle speculative». In fondo, si può riassumere l'intero quadro con una storica battuta della scomparsa gallerista milanese Claudia Gian Ferrari: «Se l'arte non è amata prima o poi si vendica».