venerdì 30 dicembre 2011

l’Unità 30.12.11
Intervista a Susanna Camusso
«Tassi i ricchi e cerchi gli evasori. Così Monti sarà più credibile»
di Oreste Pivetta


Ottimista? Ottimista il professor Monti, dopo aver rotto cristallerie giornalistiche, uova di struzzo, catastrofici verdetti? «Più che ottimista, direi rassicurante. Ha usato un tono rassicurante, per convincere gli italiani che le fatiche e le pene che dovranno affrontare non saranno inutili», risponde Susanna Camusso, in attesa di discutere, di approfondire, tanti temi che riguardano lei, il suo sindacato, i lavoratori, i pensionati, il mondo del lavoro e delle imprese. «Due ore e mezzo di conferenza stampa continua il segretario della Cgil ci hanno lasciato molti dubbi. È stato rassicurante, certo, il professor Monti, ad esempio quando ci ha spiegato il senso delle salite e risalite dello spread. O, soprattutto, quando ha insistito sulla continuità dell’azione di governo, negando che vi siano fase uno e fase due: tutto assieme in coerenza per la rinascita e quando ha negato la necessità di nuove manovre. Quando ha spiegato che il vento ci allontana dalla Grecia. Ma è stato anche evasivo, a proposito di molte questioni. Se vuole aiutare il Paese, metta sul piatto progetti chiari e disponibilità a trattare. Chiuda con il passato di Berlusconi, che ha fatto del suo meglio ai danni del lavoro e delle pensioni e del welfare».
Segretario, tocchiamo i punti dolenti. A che proposito l’ha meno convinta il professor Monti?
«Ad esempio a proposito di lotta all’evasione fiscale, niente o quasi ha detto sul possibile accordo con la Svizzera sull’esempio inglese o tedesco, sui patrimoni da tassare, sull’asta delle frequenze televisive... Ci sono solo dossier allo studio. E sarebbe giusto studiare bene, se ci fosse anche la consapevolezza che c’è molto da fare e con urgenza, perché la condizione di rilancio e di riforme serie sta nella disponibilità di risorse e le risorse si pescano lì, cominciando dalle tasse che tutti dovrebbero pagare. Monti ha pure spiegato che vuole riformare il welfare, rivendicando con orgoglio la qualità del modello europeo, imitato persino da cinesi e americani. Ma per riformare il welfare occorrono mezzi. Altrimenti non si riforma: si taglia soltanto».
Un passo lo ha dedicato alle pensioni. Disposti a rivedere qualche cosa per quei lavoratori a metà del guado, tra mobilità presente e assegno che si allontana...
«Ho ascoltato solo una parziale ammissione sulla necessità di provvedere qualcosa per chi si trova in quella drammatica condizione. Ma mi pare che questo governo consideri chiuso il capitolo, che non è chiuso invece per noi, non solo perché l’ingiustizia resta in piedi, l’ingiustizia che affligge chi si sentiva arrivato in fondo e si ritrova di colpo lontano dal traguardo, ma anche perché non si risolve così il problema del lavoro ai giovani. Questa riforma è un freno all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. In compenso il governo ci ha comuni-
cato di voler discutere di mercato del lavoro. La materia è vasta e mi pare che la confusione sia anche maggiore. Ricordiamo ad esempio che un contratto unico esiste già ed è quello per l’apprendistato, che si dovrà cancellare qualcuna tra le altre forme di contratto, 45, che si dovrà andare quindi ad una ricomposizione del mercato, ma che se ne dovrà riparla-
re insieme con pensioni e ammortizzatori sociali. La riforma si può fare purché si sfoltisca la foresta dei contratti d’assunzione, si faccia pagare di più l’impiego flessibile, si tuteli meglio chi è disoccupato».
Il reddito minimo di garanzia non vi piace?
«Il reddito minimo di garanzia ha costi elevatissimi. La necessità adesso è di garantire la cig e a chi ne ha diritto. La cassa integrazione dobbiamo difenderla, ma la cassa integrazione non protegge chi è già alla porta, chi è vittima delle varie condizioni di precariato. Per questo, si dovrebbe immaginare un reddito di continuità, che accompagni da posto a posto. Tutto questo riguarda il presente, sapendo che ci attende un anno pesante, in cui ci sarà ancora più bisogno di cassa integrazione».
Con la cig siamo da anni ai massimi storici, un miliardo di ore quest’anno. Ci stanno tutti a spiegare che la ripresa non è dietro l’angolo, che bisognerà pazientare. Monti, in conferenza stampa, ha di nuovo tirato in ballo la riduzione del cuneo fiscale. Però mi pare che la riduzione lui la veda solo dalla parte delle imprese. E la riduzione delle tasse sul lavoro dipendente?
«Di questo non c’è traccia. Lo ripetiamo: se vuole operare per la ripresa, bisognerà abbassare il peso delle tasse sul lavoro dipendente. Il carrello della spesa, ci dicono gli statistici, si è già ridotto. Ci siamo infilati in una spirale paurosa: meno consumi, meno produzione, meno lavoro. Per interrompere la caduta,si dovrebbe tornare al discorso dei quattrini: tasse evase da recuperare, tasse da imporre sui grandi patrimoni, subito, dopo che tre anni di Berlusconi hanno colpito pensionati, lavoratori pubblici, lavoratori dipendenti. Vogliamo riequilibrare la bilancia dei sacrifici a vantaggio della maggioranza che finora ha pagato». Governo politico o tecnico? Perché tanta timidezza a proposito di caccia agli evasori, frequenze eccetera eccetera?
«Perché è un governo nelle mani dello stesso Parlamento che ha espresso la maggioranza di centrodestra. Capisco che sia difficile rompere, ma un segno di discontinuità il governo Monti dovrebbe darlo». Ha un’opportunità, riaprendo, come s’annuncia, la trattativa con le parti sociali...
«Siamo pronti al confronto, purché non si risolva in una comunicazione con la fretta addosso e purché sul tavolo ci sia tutto, dalle pensioni in avanti. Che ci sia chiarita la strategia complessiva. Credo che Monti avrebbe tutto l’interesse a presentarsi con un profilo diverso, a cercare un’intesa: lo rafforzerebbe davanti al Parlamento e sicuramente accrescerebbe il consenso nel Paese».

il Fatto 30.12.11
2012: la rivincita di Berlusconi
di Maurizio Viroli


Nel 2012 Berlusconi tornerà probabilmente al potere come Primo ministro, o capo effettivo di un governo presieduto da uno dei suoi cortigiani. Non fate gestacci, non imprecate, non svenite: le previsioni politiche sono sempre state e sempre saranno incerte e la mia è condizionata dal mio pessimismo. Ma in Italia i pessimisti hanno rare volte avuto torto, e le ragioni che sostengono la mia ipotesi sono, purtroppo, solide. Consideriamo in primo luogo l’uomo. Silvio Berlusconi detesta perdere ed è convinto di essere molto più vulnerabile nei confronti dei maligni magistrati che da anni lo perseguitano, se non controlla il governo e il Parlamento. Un governo e un Parlamento a lui ostile potrebbero addirittura abrogare le leggi che lo proteggono e introdurne altre che lo porterebbero dritto agli arresti domiciliari, visto che per l’età non può andare in carcere. Logico che pensi a uno spettacolare ritorno, anche perché non c’è nulla (tranne forse i soldi e le grazie femminili) che ami più degli eventi spettacolari che lo vedono protagonista. Tutta la stampa mondiale ne parlerebbe; i suoi nemici sarebbero confusi e umiliati; i cortigiani traditori tornerebbero da lui supplichevoli, come resistere?
IN SECONDO luogo, non dimentichiamo che Berlusconi non è stato sconfitto dal voto popolare o da un voto di sfiducia del Parlamento. Chi ha parlato di sconfitta di Berlusconi o di crollo di un regime ha esagerato. La sua è stata piuttosto una ritirata ben concepita e ben attuata al fine di evitare una disastrosa sconfitta e di prepararsi nel modo migliore a dare battaglia in condizioni più favorevoli per riguadagnare il terreno concesso agli avversari, e conquistarne dell’altro. Di fronte all’imminente pericolo di una bancarotta dell’Italia che avrebbe travolto lui e i suoi servi senza possibilità di rivincita, Berlusconi ha scelto di compiere il tanto celebrato “passo indietro” o “passo di lato” per lasciare a Mario Monti l’onore e l’onere di imporre le misure impopolari necessarie per affrontare la crisi economica.
La parola chiave per capire la vicenda politica italiana è “popolare”. Quando Berlusconi percepirà che il governo Monti è sufficientemente impopolare, apparirà di nuovo sulla scena proclamandosi vero e unico rappresentate e difensore dei concreti interessi popolari offesi dai tecnici. Il suo biglietto da visita saranno gli interessi immediati e il risentimento contro gli onesti intelligenti e privilegiati. Alle prossime elezioni (nella primavera del 2012?) Berlusconi si presenterà inoltre come il redentore della democrazia Italiana. Ripeterà migliaia di volte che la maggioranza degli italiani aveva votato per lui affinché egli potesse governarli e che il Presidente della Repubblica, un ex comunista non eletto dal popolo, lo ha costretto a dimettersi; che ha lasciato Palazzo Chigi per senso di responsabilità verso il bene comune della patria anche a costo di sacrificare i propri interessi e il proprio potere; che ha deciso di ricandidarsi soltanto perché sente il dovere di intervenire per rimediare ai danni dei tecnici saputelli e sobri sostenuti dalla sinistra.
Con una retorica politica di questo tipo Berlusconi ha già vinto in passato. Perché non dovrebbe vincere ancora? Gli italiani non sono cambiati dagli inizi di novembre ed è poco probabile che cambino modo di ragionare da oggi a marzo o aprile, quando, si dice, saranno chiamati alle urne. Quali argomenti potrebbero opporgli i suoi avversari? La dissennata gestione dell’economia che ha portato ai limiti della bancarotta? Sanno tutti che gli elettori hanno memoria corta. Quando si voterà, gli italiani ricorderanno le dure misure di Monti, non la benevola comprensione di Berlusconi nei confronti dei privilegi, delle illegalità e della corruzione.
La decisione – dettata dal più alto senso dello Stato e dal ragionevole timore di una bancarotta immediata – di chiamare Monti alla guida del governo anziché indire subito le elezioni è una tipica via di mezzo fra la resa e la lotta aperta. Ma le vie di mezzo, ammoniva Machiavelli, sono quasi sempre le peggiori. Le elezioni avrebbero permesso di additare Berlusconi e i suoi quali responsabili del disastro economico e di infliggergli una sconfitta dalla quale non si sarebbe più ripreso.
UN GOVERNO nato dal tracollo elettorale di Berlusconi e dei suoi alleati avrebbe avuto molta maggiore autorevolezza, a confronto del governo Monti, per affrontare la crisi economica. Tanto più gravi sono i problemi da affrontare, tanto maggiore deve essere l’autorevolezza di chi governa. Volenti o nolenti, l’autorevolezza massima in una repubblica democratica è quella che viene dalle elezioni. Temo che non aver scelto le elezioni possa rivelarsi un regalo prezioso a Berlusconi. Se questo è il caso non mancherà di approfittarne, senza neppure ringraziare. Mi auguro, ripeto, di sbagliare, ma riflettere seriamente sul pericolo di un ritorno di Berlusconi servirà almeno da antidoto alle massicce dosi di ottimismo, buoni sentimenti, appelli alle risorse morali degli italiani, elogi alla ritrovata concordia e al più sereno clima politico che da settimane ci vengono propinati. Chi ama davvero la patria guarda in faccia ai pericoli e prepara per tempo i rimedi. Le facilonerie le lascia ai patrioti della domenica.

il Fatto 30.12.11
Torna di moda il riformismo
di Fabrizio d’Esposito


Colpisce il titolo, scolpito tutto in maiuscolo, che ieri La Repubblica ha fatto alle due pagine dedicate per intero a una lettera di Giorgio Napolitano, considerato ormai unanimemente l’uomo politico dell’anno. Colpisce perché per la prima volta dopo mesi, se non anni, rispolvera in grande stile un parola che ha diviso ferocemente la sinistra nella golden age del berlusconismo, dal 2001 al 2006. Quella parola è “riformismo”. Recita il titolo: “Leader in affanno nella crisi europea serve più riformismo”. Poi, la firma autorevole e istituzionale del capo dello Stato.
Per il quotidiano di Ezio Mauro non deve essere stato facile riscoprirsi riformista. E non solo perché le due pagine devono essere state il frutto di una intensa trattativa con il Quirinale per “pareggiare” il colloquio, sempre di due pagine, fatto da Napolitano con il Corriere della Sera, alla vigilia di Natale. Ma soprattutto perché fino a un lustro fa il neoriformismo era considerato una sorta di “male assoluto” dalla sinistra definita massimalista o radicale, complice anche l’uscita del Riformista, giornale arancione con esplicite simpatie dalemiane.
COSÌ, DA ALMENO un decennio, il riformismo è diventato un comodo ombrellone sotto cui far riparare l’allergia per la piazza, la voglia di inciucio travestita da dialogo bipartisan, persino la difesa delle leggi ad personam e il desiderio di una riforma della giustizia punitiva per i pm. Il riformismo come metodo presupponeva il pieno riconoscimento dell’anomalia Berlusconi a Palazzo Chigi. Guai a chiamarlo regime quindi. In virtù di tutto questo fu Sergio Cofferati, leader della “piazza” più numerosa della nostra storia repubblicana (i tre milioni del 2002 in difesa dell’articolo 18), a definire “il riformismo una parola malata”. E quando poi Romano Prodi volle dare un carattere progressista alla sua coalizione preferì il termine “riformatore” e non “riformista”. Lo stesso che usava Giorgio Amendola nel Pci per distinguersi dai “traditori” della socialdemocrazia. Già, Amendola. Oggi l’erede del padre della destra fu comunista è al Quirinale. Socialdemocratico, riformista, migliorista, gradualista: queste le etichette appiccicate alla lunga biografia politica di Napolitano. Nel 2001, al congresso Ds di Pesaro, l’allora segretario Piero Fassino gli tributò un omaggio inaspettato, indicandolo come “il compagno che aveva avuto ragione per primo”. E dieci anni dopo, dal Colle più alto di Roma, Napolitano rimette il cappello su quella parola. Dopo che, nel frattempo, gli eterni duellanti post-comunisti Veltroni e D’Alema a turno si sono fatti scudo del termine “riformista ” in una pura logica di autoconservazione. Anche per questo, il Pd resta un partito in mezzo al guado. Da un lato la scelta socialdemocratica, dall’altro obiettivo “democratico” di tenere insieme sinistra e centro.
IL PUNTO VERO, però, è che l’inflazione del termine “riformismo” ha finito col generare una confusione trasversale. Tutti si dichiarano riformisti. Negli ultimi mesi si è addirittura parlato di “un riposizionamento riformista” di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro si è pronunciato a favore di “un programma liberal-riformista”. A distanza di novant’anni dalla scissione del Pci a Livorno, che marcò la divisione tra socialisti riformisti e comunisti rivoluzionari, oggi in Italia esistono riformisti di centro, di destra e di sinistra. E la nuova fase del governo Monti potrebbe fornire un nuovo ombrello riformista ai sostenitori di una Grande Coalizione permanente.
Ma che cos’è il riformismo oggi? I suoi contenuti appaiono sempre più vaghi e incerti. Un anno fa, in un suo saggio, Giorgio Cremaschi ha notato che riformismo è diventato sinonimo di trasformismo. E ha ricordato l’antica frase di Giosuè Carducci: “La sinistra che si fa destra senza essere più sinistra senza essere vera destra”. Il paradosso è quello di invertire la definizione di Federico Caffè nel suo La solitudine del riformista: “Il riformista è ben consapevole di essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti, e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo”. Ecco, adesso è il riformismo ad avere un magico effetto di richiamo. Infine, una curiosità: la lettera di Napolitano su Repubblica è l’anticipazione di un testo più ampio, sulla lezione di Einaudi, per Reset di Giancarlo Bosetti. Nel 1999, Napolitano lamentando la mancanza di un rivista per la sinistra come Rinascita, se la prese proprio con Reset: “La conosco e l’apprezzo, ma non si tratta certo di una rivista che abbia il carattere e l’eco di quelle di un tempo, così rappresentative del dibattito e della ricerca a sinistra”.

l’Unità 30.12.11
Monti: «Fondamentale una stampa libera e indipendente»
I parametri per ripartire il fondo: numero dei giornalisti e diffusione
Editoria, il premier: «Ora criteri oggettivi per i contributi»
Sul Fondo, passato dai 138 milioni del 2011 ai 53 del 2012, il premier rassicura: «Non lo cancelleremo, ma per assegnarlo sarà valutato l’effettivo impegno dei giornalisti e la reale diffusione delle testate»
di Virginia Lori


I colleghi di Liberazione sono fuori, all’ingresso della sede del governo a Largo Chigi, in fila con le pettorina gialle e rosse, spiegano i loro volantini, raccontano la morte di un giornale di sinistra il cui editore, Rifondazione comunista (Mrc) ha deciso di chiudere prima ancora del taglio dei fondi per l’editoria fosse effettivo. Non si rassegnano, stanno occupando la redazione in un conto alla rovescia che sembra senza appello ancora tre numeri e poi fine e invitano ad andare da loro. Solidarietà ma non solo.
Il collega del Manifesto è stato sorteggiato tra i primi, si assicura la domanda a nome di tante altre testate politiche e adesso a rischio pubblicazione: «Signor Presidente, tra un anno a questa stessa conferenza stampa ci saranno un centinaio di testate in meno in conseguenza dei tagli al fondo dell’editoria. Si tratta di quotidiani di destra, centro e sinistra. Come pensa il governo di tutelare il pluralismo nell’informazione e decine e decine di lavoratori e giornalisti?».
Era fatale che il nodo editoria il fondo è passato da 138 milioni nel 2011 a 53 nel 2012 sarebbe stato tra i protagonisti della conferenza stampa di fine anno. Monti era pronto. Sapeva. Ed è stata una delle poche domande a cui ha risposto entrando un po’ più nel merito. «I contributi all’editoria saranno mantenuti ha detto ma stiamo lavorando per definire criteri obiettivi, il più possibile persuasivi, per scegliere e selezionare ciò che sembra più meritevole dei contributi». Scegliere, quindi, «cosa difficile da fare ma necessaria». Il punto adesso sono i criteri che dovranno essere anche «numericamente» definiti. Saranno valutati «l’effettivo impegno di giornalisti e l’effettiva diffusione. Sarebbe impensabile eliminare completamente i contributi che sono il lievito per una informazione pluralista. Ma credo che sarebbe altrettanto superficiale e brutale eludere il problema e lasciare la situazione immutata anno dopo anno. Confido ha concluso Monti in una soluzione pragmatica, pluralista e difendibile. E il governo la difenderà».
In realtà c’è poco tempo. Perchè il credit crunch, la stretta del credito da parte delle banche, riguarda tutte le aziende. E i giornali sono aziende come tutte le altre con le specificità di produrre informazione. In queste condizioni finanziarie persino i giorni possono essere decisivi. Ecco perchè il governo deve fare presto a decidere, a concordare e a deliberare. Il sottosegretario con delega all’editoria Carlo Malinconico è consapevole del fatto che c’è poco tempo. «Stiamo lavorando, anche in questi giorni, per individuare i criteri oggettivi più giusti».
Il fatto è che in questo clima di caccia alla casta in cui la distanza tra tra opinione pubblica e politica è massima, ne fanno le spese anche i giornalisti definiti spesso casta. «Ma quanti sanno precisa il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino introducendo il premier Monti alla cerimonia della conferenza stampa di fine anno che l’Inpgi (la cassa di previdenza giornalistica, ndr) è alimentata solo e soltanto dai contributi dei giornalisti che provvedono alla cassa integrazione e alle pensioni senza vedere né chiedere un euro allo stato?». Precisazione puntuale e necessaria di questi tempi in cui si rischia di confondere un po’ le cose.
Iacopino ha promosso il premier giornalista professionista honoris causa. E gli ha consegnato la tessera rossa, con tanto di foto. «Una tessera ha spiegato Iacopino che hanno avuto in tasca giornalisti come Pippo Fava, Mariagrazia Cutuli e tanti altri morti per raccontare la verità». Una tessera «che aveva anche Giorgio Bocca la cui morte ha reso più triste questo Natale. Ci piacerebbe essere rispettati da vivi piuttosto che essere ricordati da morti».
Monti ha gradito, pare: «È una promozione visto che sono stato iscritto all’albo dei pubblicisti». E ha promesso: «Non mi sfugge l’importanza della stampa libera nel nostro Paese».

il Fatto 30.12.11
Pubblicisti:  Albo a rischio abolizione


Anche Monti ora ha il suo fiammante tesserino da giornalista, ricevuto dalle mani del presidente dell’Ordine Enzo Iacopino. Ma la speranza che il presidente del Consiglio possa fare marcia indietro sulla decisione di abolire l’Albo dei pubblicisti non sembra molto fondata. La norma è contenuta nel decreto Salva Italia e recepisce le direttive europee sulle professioni, che prevedono si debba sostenere un esame di Stato per poter accedere a qualsiasi albo professionale. Risultato: i pubblicisti potrebbero scomparire dal settembre 2012. Da quel momento, tutti coloro che svolgono attività giornalistica in maniera continuativa, con più di dieci articoli l’anno, rischiano di incorrere in una denuncia penale nel caso in cui non siano giornalisti professionisti. Un’eventualità che sta provocando scompiglio tra gli 80 mila pubblicisti iscritti all’ordine oltre a quelli – numerosi – che stanno per concludere il periodo di 24 mesi previsto per ottenere la tessera. La consigliera dell’Ordine Antonella Cardone scrive su Facebook: “La ratio sta nel voler liberalizzare l’accesso alle professioni, tenendo come unico criterio di accesso l’esame di Stato. Per noi giornalisti si trasforma in una restrizione, ma penso sia anche un’occasione per qualificare meglio la categoria, che ricordo essere composta da 110 mila persone in tutta Italia di cui appena 50 mila versano i contributi all’Inpgi (vuol dire che 60 mila persone o non fanno la professione o lavorano in nero)”.

il Fatto 30.12.11
La carta di credito della sorella di Alemanno


Guadagna 300 mila euro l’anno, ma con la carta di credito aziendale, Gabriella Alemanno – sorella del sindaco di Roma e direttrice dell’Agenzia del territorio – fa faville. Con i soldi dei contribuenti ha pagato una cena a Cortina a suo fratello, sulle Alpi per un evento sponsorizzato dall’Agenzia diretta da Gabriella e da Acea, controllata dal Campidoglio. Ma a parte le trasferte, le note spese della direttrice dimostrano che anche a Roma la sobrietà non è di casa. La “Bottega di Montecitorio” di via della Guglia per Gabriella Alemanno è praticamente una seconda mensa ma non disdice nemmeno i piatti preparati dallo chef Filippo La Mantia. La spesa più folle, però, sono le 30 uova di struzzo decorate acquistate dall’Agenzia del Territorio presso la gioielleria “Peroso”. Spesa complessiva: 3 mila e 240 euro. “Sono state donate a rappresentanti di Stati esteri per esigenze di rappresentanza”, spiegano i diretti interessati. Pare però che un uovo sia finito a un comandante regionale della Finanza, non proprio uno Stato estero. Così come si ignorano i motivi che hanno spinto l’Agenzia a comprare dodici bicchieri in vetro soffiato dalla signora Maria Bonaldo di Mestre. Prezzo 1.296 euro, destinazione ignota.

il Fatto 30.12.11
I magnifici 14 della giunta Polverini

La novità, nella manovra del Lazio, è arrivata nottetempo. Dice che il taglio ai vitalizi parte dal 2015 e dunque non riguarda gli attuali eletti nel Consiglio regionale che riceveranno per tutta la vita un assegno mensile di circa 3 mila euro. Ma non solo. A beneficiare dell’entrata saranno anche i 14 assessori “tecnici”. Due anni fa la presidente Renata Polverini li nominò in Giunta, per rimediare alle ambizioni deluse di alcuni Pdl, esclusi dalla competizione elettorale per un ritardo nella presentazione delle liste. Ora la ricompensa si monetizza anche. Così, anziché diminuire, i costi della politica finiscono per lievitare. La Polverini non accenna alcun rimorso, anzi. Spiega che “la Regione Lazio da due giorni è in linea con le altre Regioni: avevamo una discriminazione – aggiunge – che colpiva solo i nostri assessori, e abbiamo messo le cose a posto”. Per risparmiare c’è tempo: “L’abbattimento dei costi di gestione del Consiglio, a cominciare dal numero delle commissioni” è rimandato a gennaio.

Corriere della Sera 30.12.11
La nuova Ungheria che preoccupa l'Europa
Bavaglio alla stampa, deputati in manette L'Ungheria di Orbán spaventa l'Europa
Anche la Clinton è intervenuta contro la deriva autoritaria del premier
di Giuseppe Sarcina


Tornato al potere nell'aprile 2010, l'ungherese Viktor Orbán è il nuovo spauracchio dell'Europa: farnetica sul ritorno della Grande Ungheria, minaccia di far processare i governanti che lo hanno preceduto, vuole ridurre la Banca centrale a semplice «ufficio bolli» dell'esecutivo, intende varare una grottesca legge elettorale. E così Budapest è diventata una città che protesta.

BRUXELLES — Ma da dove viene? E, soprattutto, dove vuole (o può) arrivare? Prima di diventare il leader più autoritario (e ansiogeno) d'Europa, l'ungherese Viktor Orbán, 48 anni, è stato un oppositore del regime comunista, si è laureato in legge (con tanto di stage a Oxford), ha professato idee social-liberali, ha fatto il parlamentare europeo fino a ricoprire la carica di vicepresidente del Ppe. Dieci anni fa, quando guidò per la prima volta il governo, Orbán si preoccupava di tagliare le tasse, ridurre la disoccupazione e guidare il suo Paese all'appuntamento con l'Europa. Ora, tornato al potere nell'aprile del 2010, farnetica sul ritorno della Grande Ungheria (ma forse si accontenterebbe anche del formato medio uscito dopo la Prima guerra mondiale). Intanto minaccia di ridurre la Banca centrale a semplice «ufficio bolli» dell'esecutivo, di soffocare definitivamente giornali e televisioni non graditi, di varare una grottesca legge elettorale che favorirebbe in modo smaccato il Fidesz, «l'Alleanza dei giovani democratici», il partito fondato nel marzo del 1988 dall'Orbán che il mondo sta imparando a conoscere.
Da giorni Budapest è una città tesa. Il 23 dicembre i deputati dell'opposizione si sono addirittura incatenati davanti al Parlamento, un grandioso edificio neogotico costruito nel 1844 sulla sponda destra del Danubio, proprio di fronte al Castello di Buda, arcigno simbolo dell'assolutismo monarchico, costruito in pieno Medioevo dal principe Stefano e ampliato da Sigismondo, sovrano del Sacro romano impero. Divagazioni? Non proprio, visto che nei mesi scorsi il partito del nuovo leader, mentre il debito pubblico quasi raddoppiava, mobilitava la schiacciante maggioranza conquistata in Parlamento (due terzi dei seggi) per inzeppare la nuova Costituzione, che entrerà in vigore dal primo gennaio, con riferimenti alla mitologia e alla retorica nazionalistica, con Santo Stefano, la Sacra Corona, la diaspora delle minoranze magiare nel centro Europa.
«Sembra di essere tornati agli anni 50», racconta al telefono da Budapest Zita Gurmai, europarlamentare ungherese, responsabile per le pari opportunità del gruppo Socialisti e democratici. C'era anche lei, la settimana scorsa, davanti al Parlamento: «La polizia ha arrestato persino i deputati, compreso l'ex primo ministro Ferenc Gyurcsány. Mi amareggia molto dirlo, ma oggi, con queste leggi e con questa guida, l'Ungheria non sarebbe ammessa nell'Unione Europea, perché non soddisfa più "i criteri di Copenaghen" sulla democrazia e il primato della legge».
I governi europei e le stesse istituzioni di Bruxelles ci hanno messo più di un anno per capire. Nel gennaio scorso Orbán si presentò davanti all'Europarlamento in veste di presidente di turno della Ue. L'emiciclo gli riservò un'accoglienza ruvida, paragonabile a quella accordata a Silvio Berlusconi nel 2003. Ma nessuno, in alcuna capitale europea, evocò neanche l'ipotesi di mettere l'Ungheria al bando dell'Europa. Perché la «deriva autoritaria» di Budapest, come ormai la definiscono molti giornali internazionali, nasce anche dall'imbambolamento generale degli ultimi 8-10 anni. Non solo alla Grecia, ma anche al governo del socialista Gyurcsány, è stato concesso, per esempio, di giocare con i bilanci pubblici. Del resto l'Ungheria non ha mai dato problemi a Bruxelles. Ah sì: lo scontro nel 1993 tra i viticoltori friulani e i rivali del lago Balaton per la denominazione del vino Tokai (vittoria ungherese). Cose da niente, un'innocua nota di colore, rispetto al grande disegno dell'allargamento, al destino europeo dell'Ungheria, il Paese dell'ex blocco comunista più aperto al mondo. Bene, evidentemente anche questo concetto va riposto nella soffitta dei luoghi comuni che si fa sempre più affollata. Gli Stati Uniti si sono già mossi, con una secca lettera di protesta indirizzata al premier ungherese e firmata dal segretario di Stato, Hillary Clinton. Nel Parlamento europeo si comincia a esaminare la procedura prevista dall'articolo 7 del Trattato di Lisbona: via i diritti di voto a chi non rispetta i principi fondamentali dell'Unione, cioè libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e dello Stato di diritto. Tutti valori che, almeno quelli, sembravano inattaccabili. Anche in Ungheria.

Corriere della Sera 30.12.11
Povero Paese che tradisce la sua storia Il mio popolo, così nobile, malmenato dai suoi governanti
di Giorgio Pressburger


«Oh beata Ungheria se non si lascia / più malmenare» così esclama Dante nel diciannovesimo canto del Paradiso, che si svolge tra il 13 e il 14 aprile del 1300. Quindi, settecento undici anni fa. Malmenare da chi? Malmenare come? Dante si riferisce ai cattivi re, del casato di Árpád, che avevano regnato fino ad allora su quella nazione. Questa era l'opinione di Dante più di sette secoli fa, ma come esclamerebbe oggi questo immenso poeta se considerasse gli attuali avvenimenti di quel notevolissimo Paese dell'Europa centrale? Sarebbe contento di quello che vede e immagina? Il fatto è che tra due giorni quella nazione avrà una Costituzione nuova, votata da un Parlamento dominato da una maggioranza che ha vinto le elezioni dell'anno scorso con più di sessanta percento dei voti, quindi praticamente in grado di governare come vuole. Questa volontà, stando alla nuova Costituzione, sottopone tutti i mezzi di comunicazione a uno stretto controllo. Giornali, televisione, radio, tutti «nelle mani» del governo. L'ultima emittente radiofonica indipendente chiamata Club Rádiò sarà chiusa in febbraio. La scelta dei magistrati dipenderà dal governo e dal suo capo, l'assegnazione dei processi a questa o quella sede avverrà allo stesso modo. Anche i prèsidi delle scuole saranno scelti con questo criterio. L'Ungheria non si chiamerà più Repubblica ungherese ma Paese magiaro. Un giornale austriaco scrive che l'Ungheria è indietro rispetto al presente per quanto riguarda le banche, le leggi sul lavoro, l'insegnamento della religione e le questioni di cui abbiamo parlato prima. Pare che il capo del governo Viktor Orbán non veda di buon occhio l'appartenenza del suo Paese all'Unione Europea, perché non vuole condividere le direttive con nessuno. «Anche al di fuori dell'Unione Europea c'è vita» pare che abbia dichiarato. Sì, è così: ma l'Ungheria ha fatto parte, da quando esiste, cioè da mille dodici anni, dell'Europa dove ha avuto un ruolo molto importante, a volte determinante. Eppure spesso, quando non è stata vinta in guerra, o soggiogata, martirizzata, si è lasciata «malmenare», guidare male, dai suoi re o oligarchi (duchi, principi, signorotti).
Che cosa ne direbbe Dante, un poeta, artista e uomo politico di una grandezza e rigore universali? Penso che resterebbe malissimo. Perché l'Unione Europea è una delle massime creazioni politiche di tutta la storia dell'umanità. Popoli di un continente che per millenni si sono combattuti, massacrati, invidiati, odiati, sterminati, finalmente trovano una solidarietà, un modo di convivenza mai conosciuti prima: la politica raramente ha potuto vantare una tale conquista. Che un membro di questa comunità, per quanto da migliorare ancora e parecchio, ma pur sempre una comunità e non un mattatoio universale, che un membro decida di uscirne per disprezzo e scarso tornaconto vorrebbe dire, tutto sommato, dimostrare disprezzo per la vita umana.
Gli ungheresi, il popolo ungherese, nella sua totalità, non è così. Ha sopportato tanto nel corso del millennio, dal 896, da quando è entrato nel bacino dei Carpazi, fino a ieri. Però sempre si è fatto onore. Nel corso della Seconda guerra mondiale il Paese (cioè i suoi governanti di allora) si è alleato, al pari dell'Italia, con i nazisti della Germania. Quello non è stato un atto d'onore. Ma l'Ungheria si era infestata di orrendi razzisti, di veri sanguinari assassini. Questi però non rappresentavano gli ungheresi. Il popolo ungherese come quello italiano non è razzista, se questi sentimenti non vengono inculcati con i mezzi più subdoli e purtroppo efficaci, studiati scientificamente da gruppi politici. L'uomo è un essere sociale, non rifiuta lo straniero, lo sconosciuto. Perché a tutti i costi vogliono invece insegnargli l'odio e la violenza? Oggi in Ungheria, come in Italia, hanno in qualche modo ridestato queste ombre, questi zombie. Cosa direbbe Dante di fronte a questo? «Va! Ammazza quei fetidi rom! Elimina dal mondo gli ebrei|!»? Griderebbe così? Credo, sono certo che nessuno osi pensare questo.
Nemmeno Orbán lo pensa. Ha da risolvere gravi problemi economici. La sua popolarità, da quel 66 per cento secondo sondaggi di questi giorni, sarebbe scesa al 23 percento. Sessanta ungheresi su cento, stando alla stampa austriaca (per la quale l'Ungheria è da osservare attentamente) dichiara che sotto il comunismo avevano vissuto meglio che nel corso del 2011. La Costituzione di cui abbiamo parlato entrerà in vigore, e Dante sarebbe condannato a morte e vivrebbe in esilio di nuovo, perché non approverebbe tutto questo e griderebbe con tutte le sue forze questa disapprovazione, come ha fatto a Firenze, per questioni del suo tempo.
Un'ultima osservazione. In questo momento l'Ungheria è l'unica nazione in tutta l'Europa centrale (Mitteleuropa) dove si è giunti a tanto. Per il resto di quei Paesi, al momento non esiste un pericolo di questa portata. Ricordiamoci che due guerre mondiali sono scoppiate in quell'area della Terra! Quindi attenzione. Molta attenzione. Anche Orbán sa tutto questo e giocando con il suo destino e il destino altrui sa benissimo quanto è pericoloso questo gioco.
Oh beata Ungheria se non si lascia / più malmenare.

l’Unità 30.12.11
Tel Aviv Per i vertici militari un nuova operazione nella Striscia «è solo questione di tempo»
Hamas dopo la riconciliazione con Fatah gioca la carta diplomatica: tour di Haniyeh nella regione
Gaza, tre anni dopo Israele prepara «Piombo Fuso 2»
Piombo Fuso, tre anni dopo. Mentre Hamas prova a giocare la carta politica, Israele mette a punto i piani per una nuova operazione militare nella Striscia di Gaza: «È solo una questione di tempo»
di Umberto De Giovannangeli


Tre anni dopo, il «Piombo» torna a farsi rovente. Israele è pronto a lanciare una nuova offensiva militare nella Striscia di Gaza, tre anni dopo l’operazione Piombo fuso, che causò la morte di 1.400 palestinesi e di 23 israeliani. «Stiamo preparando e di fatto siamo pronti per una nuova campagna», afferma il generale israeliano Tal Hermoni, citato i dal quotidiano Haaretz.
Hermoni ha precisato che l'operazione sarà «diversa» e che il suo obiettivo sarà di «rinnovare la nostra forza di deterrenza, se ci verrà chiesto di riportare la pace nelle comunità del sud». Secondo il piano messo a punto dalle forze armate, precisa Haaretz, l'operazione sarebbe più breve di quella del 2008, ma con l'impiego di maggiore potenza di fuoco. Una nuova guerra a Gaza? «È solo questione di tempo». Secondo una fonte militare israeliana contattata dalla Bbc «finché Hamas resta al potere nella Striscia di Gaza, una nuova guerra nel territorio palestinese è solo questione di tempo».
ESCALATION
Ieri un razzo lanciato da Gaza ha colpito Israele, poche ore dopo un raid aereo israeliano contro siti «terroristici» nel centro e nel nord del territorio palestinese. L’altro ieri altri quattro razzi erano stati lanciati contro Israele, dopo le due incursioni dell'aviazione israeliana di martedì scorso, che aveva causato un morto e una ventina di feriti. Nell’ultima settimana la situazione al confine con Gaza si è fatta più delicata a causa del missile anticarro Kornet che ha raggiunto il territorio dello Stato ebraico. Episodio che ha portato Israele a schierare lungo il confine carri armati dotati di un nuovo sistema di difesa antimissile. Secondo il capo di Stato maggiore israeliano Gabi Ashkenazi, il missile di fabbricazione russa «è tra i più pericolosi tra quelli usati finora, non era stato usato neanche durante la guerra in Libano...La situazione nel sud è molto fragile e potenzialmente esplosiva».
Israele appronta la guerra, incurante, almeno all’apparenza, dei segnali che provengono dai vertici di Hamas. Il leader in esilio del movimento islamico, Khaled Meshaal avrebbe ordinato all'ala militare dell' organizzazione, le Brigate Ezzedin al-Qassam, di mettere fine agli attacchi contro obiettivi israeliani. A riferirlo è una fonte di al-Fatah, precisando che l'ordine è stato emesso dopo un accordo raggiunto dallo stesso Meshaal con il Presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) durante i colloqui al Cairo per una riconciliazione tra i due movimenti. Secondo le fonti di Fatah, Meshaal avrebbe ordinato un cessate il fuoco con Israele non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania. L'ordine risalirebbe alla fine di novembre, dopo la prima fase dei colloqui di riconciliazione tra Hamas e Fatah al Cairo. Le due organizzazioni avrebbero anche concordato sulla necessità di puntare più su una rivolta popolare come quelle della primavera araba. Meshaal ha ribadito la scorsa settimana che la protesta popolare ha «la potenza di uno tsunami», come già dimostrato nel mondo arabo. «Noi e Fatah abbiamo ora una base comune su cui possiamo lavorare, che è la protesta popolare, espressione del potere della gente», ha detto. Le fonti di Fatah hanno spiegato ad Haaretz che Hamas non intende riconoscere ufficialmente Israele né accettare accordi di pace con lo Stato ebraico, ma al momento vuole puntare sulla protesta popolare e su un accordo per un Stato palestinese entro i confini del 1967. Hamas non ha quindi intenzione di deporre le armi, hanno aggiunto, e risponderà agli attacchi di Israele. Ma in questa fase, Hamas sembra voler giocare soprattutto la «carta politica». E di accreditamento regionale.
NUOVO CORSO
Il 26 dicembre, Ismail Haniyeh, «primo ministro» di Hamas a Gaza, ha incontrato al Cairo il segretario generale della Lega Araba e il leader e dei Fratelli musulmani in Egitto. Si è trattato del primo viaggio del rappresentante di Hamas fuori dai territori palestinesi dal 2007, quando Israele impose sulla Striscia l'embargo in seguito al presa del potere del movimento islamico a Gaza. Dopo l’Egitto, Haniyeh visiterà Sudan, Qatar, Bahrain, Tunisia e Turchia. Il tour diplomatico di Haniyeh sembra indicativo, secondo analisti palestinesi indipendenti, di un rafforzamento politico di Hamas, apparentemente favorito dalla caduta di alcune dittature arabe nel corso della «Primavera» che anche ha visto grandi successi elettorali delle correnti islamiche in diversi Paesi.

La Stampa 30.12.11
Kissinger, la Cina è vicina ma non troppo
Un libro dell’ex segretario di Stato americano: l’ascesa del gigante asiatico non mette a rischio l’ordine internazionale
di Vittorio Emanuele Parsi


UN UNICUM NELLA STORIA «Convinta di avere un ruolo speciale, non ha mai cercato di esportare i suoi valori»"
COEVOLUZIONE CON GLI USA «Entrambi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando dove possibile»"

L’etichetta adatta a definire le relazioni sino-americane è più «coevoluzione» che «partnership». «Coevoluzione» significa che entrambi i Paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile e regolando le loro relazioni in maniera da ridurre al minimo i conflitti. Nessuna delle due parti sottoscrive tutti gli obiettivi dell’altra, né presuppone una totale identità di interessi, ma entrambe cercano di individuare e sviluppare interessi complementari». Sono sintetizzabili in queste poche righe le oltre cinquecento pagine del bel libro che Henry Kissinger dedica alla Cina e al futuro delle relazioni tra il gigante asiatico in ascesa e la superpotenza globale in affanno (Mondadori, pp. 514, 22).
Si potrebbe osservare che una simile visione dei rapporti sino-americani non è poi così diversa da quella che guidò il riavvicinamento tra Pechino e Washington tra il 1971 e il 1972, in piena Guerra Fredda, di cui proprio l’ex Segretario di Stato di Richard Nixon fu il principale artefice. Quella straordinaria intuizione che surclassò per conseguenze strategiche globali la sconfitta americana in Vietnam consentì che, cinque anni dopo, l’inizio dell’era Deng anticipasse di quasi un decennio le conseguenze della fine della Guerra Fredda in Asia orientale. Ciò che trasformò la potenza che più di ogni altra si era proposta di rivoluzionare l’ordine internazionale nella sua più strenua sostenitrice prese cioè avvio proprio da un’attenta valutazione dei propri rispettivi interessi nazionali e nella individuazione di un’opportunità strategica favorevole per due regimi che pur restavano divisi su un’infinità di temi e valutazioni.
Conoscere e capire, non necessariamente condividendo, gli obiettivi cinesi all’interno del nuovo sistema internazionale è il passo necessario per poter evitare che Cina e Stati Uniti si possano ritrovare in rotta di collisione. Apparentemente non potrebbero esistere due attori più differenti di Cina e Stati Uniti. Da un lato «uno Stato già fondato che richiede di essere restaurato e non ricreato di sana pianta», espressione di una civiltà «che sembra non avere alcun inizio», che «compare sulla scena della storia non come un tradizionale Stato-nazione, ma come un fenomeno naturale permanente». Dall’altro una comunità di coloni immigrati che si fa Stato per diventare una nazione creata dalle sue leggi. Da una parte un Paese che esiste senza soluzione di continuità da migliaia di anni e che ha scelto di disinteressarsi del mondo esterno per la più parte della sua esistenza. Dall’altra la potenza che nel corso dell’ultimo secolo ha contribuito più di ogni altra a plasmare il mondo in cui viviamo.
Due potenze simili nella loro eccezionalità, ma diverse nel modo di declinarlo. «Come gli Stati Uniti, la Cina era convinta di avere un ruolo speciale, ma, diversamente da loro, non ha mai seguito il principio universalistico di diffondere i propri valori in tutto il mondo». Occorre porsi nella prospettiva di questo unicum rappresentato dalla Cina, una prospettiva nutrita dalla sua continuità più che bimillenaria, per poter afferrare come l’ascesa cinese non ponga di necessità una sfida all’ordine internazionale e agli Stati Uniti paragonabile a quella generata dalla crescita della potenza tedesca all’inizio del secolo scorso, che costituì una minaccia oggettiva (quasi preterintenzionale) alla «pax britannica».
Anche in questo parallelismo, il libro di Kissinger testimonia ancora una volta dello spostamento dell’interesse strategico americano dall’Atlantico al Pacifico (e, in prospettiva, dal Medio all’Estremo Oriente), espresso con chiarezza in uno dei suoi passaggi conclusivi: «Uno dei grandi successi della generazione che fondò il nuovo ordine internazionale alla fine della Seconda guerra mondiale fu di delineare il concetto di “comunità atlantica”. Non potrebbe, un concetto analogo, sostituirsi alle potenziali tensioni tra Stati Uniti e Cina, o almeno mitigarle? Esso si accorderebbe perfettamente con una realtà concreta: gli Stati Uniti sono una potenza asiatica, e molte potenze asiatiche auspicano che così sia; inoltre risponderebbe all’aspirazione della Cina a un ruolo internazionale».

il Fatto Saturno 30.12.11
Nietzsche scippato dalla sinistra
di Marco Filoni


ERA IL 1977. Le tensioni sociali e la contestazione studentesca dominavano le cronache italiane. A febbraio Luciano Lama veniva cacciato dalla Sapienza e sulle mura di quella stessa università compariva la scritta: «Il deserto cresce, guai a chi nasconde deserti dentro di sé». Era uno degli slogan in voga. Ed era, soprattutto, una frase dello Zarathustra di Nietzsche. Dopo qualche mese, nell’estate dello stesso anno, il «Corriere della Sera» riportava la notizia di un convegno nietzscheano a Cefalù nel quale, con molto stupore, si sottolineava «il nuovo interesse di intellettuali antifascisti e democratici di sinistra per l’autore “innominabile” dello Zarathustra». E in quegli stessi giorni Giorgio Almirante, leader dell’Msi, in un comizio esclamava malinconicamente: «adesso ci vogliono scippare anche Nietzsche!». Non era certo un caso. Nietzsche è stato il filosofo più controverso, dibattuto e tirato per la giacca d’un intero secolo. È una storia lunga e complicata: dalla “nazificazione” del suo pensiero alla depoliticizzazione, in nome di un ritorno all’ambito della storia della filosofia; infine l’uso che le varie stagioni politiche ne hanno fatto. Nietzsche, suo malgrado, è stata un’etichetta prestigiosa (o no, a seconda dei punti di vista) sotto cui iscrivere visioni del mondo e filosofie della storia. Da noi, in Italia, queste utilizzazioni del pensatore tedesco hanno assunto colorature e contorni sino in fondo mai studiati. Lo fa oggi Stefano Azzarà nel suo Un Nietzsche italiano (manifestolibri): il libro ricostruisce la fortuna che ha avuto l’immagine del filosofo tedesco alla luce delle interpretazioni che ne ha dato Gianni Vattimo. Ne emerge un quadro interessante sotto più punti di vista. Anzitutto come un pensatore considerato reazionario diventi, in breve tempo, icona di molti intellettuali dell’estrema sinistra. E poi perché questo «graduale ma pieno assorbimento nel pantheon culturale della sinistra» di Nietzsche avviene in un concatenamento di fatti politici. Non si tratta soltanto di storia delle idee: qui siamo di fronte alla realtà conflittuale degli anni Sessanta e Settanta, alla violenza, al terrorismo. E l’impatto di tutto ciò sui ceti intellettuali. In quegli anni la società non appare abbastanza rivoluzionaria, e Nietzsche viene assunto, scrive Azzarà, a modello teorico per «l’estrema radicalizzazione della critica alla democrazia capitalista»: più critico, più spietato, più rivoluzionario. Era colui a partire dal quale si poteva mettere in discussione il falso illuminismo delle società occidentali e, allo stesso tempo, rispondeva agli afflati anticomunisti della sinistra extraparlamentare perché dava voce al dissenso nei confronti del «socialismo sovietico e del suo “volto burocratico e autoritario”». Per questo fu eletto a «nonno della contestazione studentesca». Ad Azzarà riesce perciò non soltanto la ricostruzione, rigorosa, del percorso teorico di Vattimo. Attraverso questo percorso disegna anche una mappa sociale e politica di quegli anni, con tutte le insidie e gli incidenti che hanno caratterizzato non soltanto il filosofo torinese, ma un’intera generazione d’intellettuali legati alla sinistra. E pone tutta una serie di interrogativi non sempre risolti: dall’incidenza del terrorismo – c’è una frase di Vattimo nella quale il filosofo proclamava che «la critica delle armi deve realizzare ciò che da sole non possono fare le armi della critica» – al loro “riflusso” neoliberale in anni più recenti. Ha ragione l’autore quando scrive che Nietzsche ha giocato un ruolo decisivo nella nostra società «che non è possibile rimuovere con una semplice demonizzazione o con un’alzata di spalle». E nemmeno, si può aggiungere, quella stagione può esser liquidata o assolta senza fare i conti con tutti i suoi contesti, teorici e non. Un’alzata di spalle non vi seppellirà.
Stefano G. Azzarà, Un Nietzsche italiano, manifestolibri, pagg. 255, • 30,00

il Fatto Saturno 30.12.11
Scienza
Noi, scimmie modificate
di Raffaele Liucci


«TUTTI GRIDANO al miracolo di Fatima e corrono a inginocchiarsi alla Madonna che là, secondo la leggenda, sarebbe apparsa ad alcuni pastorelli analfabeti e probabilmente allucinati. Strane, queste Madonne: non compaiono mai a un filosofo o a uno scienziato, ma sempre a pastorelli o a scimuniti», ha scritto Anacleto Verrecchia, un magnifico esemplare di «ateo reazionario», assai più pungente e acculturato del compianto Christopher Hitchens. Niente di meglio, per disintossicarsi dallo spurgo di superstizione, incenso e santini in cui sta sprofondando la nostra epoca, che leggere e diffondere questo volumetto curato da Armando Massarenti. Una lettura particolarmente calzante nei giorni del solstizio d’inverno, in cui anche i giornali laici imperversano con articolesse sul «senso della vita nelle parole di Gesù» (sembra satira, e invece è il titolo del dialogo annuale fra Eugenio Scalfari e il cardinale Mar-tini, puntuale come la morte).
C’è una parola che meglio di tutte sunteggia queste pagine cristalline, pensate per i non edotti, in cui sei autorevoli specialisti (Boncinelli, Corbellini, Giorello, Pievani, Rovelli e Zellini) fanno il punto sulle nostre conoscenze, dall’evoluzionismo alla cosmologia e alle neuroscienze. Questa parola è «ignoranza». Ma non si tratta dell’ignoranza dei pastorelli di Fatima. È l’ignoranza degli scienziati, «piccole talpe cieche sottoterra che sanno poco o nulla del mondo», come ammette il fisico Rovelli nel suo contributo sull’«universo, lo spazio, il tempo» (un piccolo capolavoro di divulgazione). Ma quel poco, pochissimo di-svelato dalla scienza ha avuto una portata sconvolgente, tale da annebbiare la “verità” eterna, infallibile e totalitaria spacciata dai tanti omini petulanti in tunica bianca o nera. Credevamo che la Terra fosse al centro del cosmo. Ma ora sappiamo che ruota intorno al Sole, e di stelle come il Sole soltanto nella nostra galassia ce ne sono miliardi. Credevamo, con la Bibbia, che l’uomo abitasse la Terra da sempre e che il nostro pianetino contasse 6 mila anni. E invece la Terra esiste da 4 miliardi e mezzo di anni, e noi, apparsi l’altro ieri, siamo l’esito casuale di «un’evoluzione che non ci aveva previsto», scrive Pievani. Se un meteorite, 60 milioni d’anni or sono, non avesse polverizzato i dinosauri, dando il via libera ai mammiferi, oggi, al posto dell’homo sapiens, ci sarebbero ancora quei simpatici lucertoloni giganti. Più che a Dio, avremmo dovuto innalzare templi e chiese a quel meteorite. Piaccia o non piaccia, siamo soltanto scimmie modificate, destinate ad estinguersi, al pari del 99 per cento delle specie che ci hanno preceduto. Nessuna mitologia religiosa, osserva Boncinelli, potrà mai avere la forza rappresentativa delle teorie fisiche e biologiche che hanno trasformato la nostra percezione della realtà.
E tuttavia, questo piccolo manuale dell’«orgoglio relativista» (come direbbe monsignor Fisichella) non mobiliterà mai le masse. Perché ci proietta in un universo «sterminato, complesso e iridescente», ma di una bellezza algida e insensata ai nostri occhi mortali. Un mondo in cui l’uomo occupa una nicchia infinitesimale, rispetto ai batteri che esistono da miliardi di anni e che prima o poi ci seppelliranno. Molto più rassicurante è immaginare la nostra vita amministrata da un barbuto signore invisibile e occhiuto, il cui figlio aveva il dono di passeggiar sulle acque e moltiplicare le carpe. E se poi ti coglie a masturbarti, fili dritto all’inferno a spalar carbone.
Qualcosa di grandioso. L’infinita bellezza e complessità di tutto ciò che esiste, a cura di Armando Massarenti, Dalai, pagg. 256, • 17,50

il Fatto 30.12.11
Bruciate per la birra andata a male. Riabilitate le streghe tedesche
Secoli dopo un’associazione rivede i processi dell’Inquisizione
di Kristen Allen


Le streghe tedesche, torturate e mandate al rogo a decine di migliaia, sono state in larga misura dimenticate. Ma grazie all’iniziativa di un piccolo gruppo di attivisti, diverse città tedesche hanno rivisto moltissimi processi assolvendo donne, uomini e bambini ingiustamente accusati di aver causato pestilenze, inondazioni, incendi e cattivi raccolti.
Tutto ebbe inizio nella primavera del 1630 con il processo e l’esecuzione di una bambina di 8 anni accusata di stregoneria. Costretta a fare i nomi di altre persone coinvolte in una presunta danza notturna con il demonio nei pressi della cittadina di Oberkirchen, la confessione della piccola Christine Teipel innescò una drammatica ondata di delazioni e processi. Nel giro di appena tre mesi, 58 persone, tra cui 22 uomini e 3 bambini, furono mandate al rogo.
I processi di Oberkirchen sono appena una piccola parte di quelli che portarono all’esecuzione in Germania di qualcosa come 25.000 presunte streghe tra il 1500 e il 1782. Durante quel lungo periodo il Paese fu percorso da una ventata di follia omicida, dice l’esperto di processi per stregoneria Hartmut Hegeler, e il 40% delle 60.000 streghe torturate e uccise in Europa durante la caccia alle streghe furono mandate al rogo nel-l’attuale Germania. Hegeler, 65 anni, ministro protestante in pensione e professore di teologia a Unna, oggi dedica la sua vita a restituire l’onore e il rispetto alle vittime della Santa Inquisizione spostandosi di città in città.
“È nostro dovere riconoscere finalmente che quelle vittime morirono senza alcuna colpa – dice Hegeler – ma la cosa non riguarda solamente il passato, è anche un segnale contro la violenza e l’emarginazione che caratterizzano la società contemporanea”.
Le vittime furono per lo più donne anche se è sorprendente il numero di uomini e bambini – come nel caso della piccola Christine Teipel a Oberkirchen – processati e uccisi per stregoneria. Vennero accusati non solo di tramare con il demonio, ma anche di causare pestilenze, invasioni di cavallette, cataclismi, cattivi raccolti e persino di aver danneggiato la produzione della birra.
“Ovviamente le streghe non esistevano. Era una totale invenzione”, dice Hegeler che ha scritto 17 libri sui processi per stregoneria in Germania. “Ma nei momenti difficili la caccia alle streghe era il diversivo che le autorità usavano per dare a qualcuno la colpa delle carestie o di altri problemi. Le streghe erano il perfetto capro espiatorio per tutto quello che non andava bene”.
IN UN PERIODO in cui continui erano i conflitti e le guerre per la supremazia politica, gli storici ritengono che la celebrazione di questi processi fosse per molti capi militari e politici una prova di forza, una espressione del loro potere, spiega Hegeler. E, contrariamente a quanto comunemente si pensa, la caccia alle streghe non fu esclusivo monopolio della Chiesa Cattolica. Diversi processi furono celebrati su denuncia di esponenti della chiesa protestante. “Quando mi sono imbattuto in questa verità sono rimasto profondamente colpito e ho allargato le ricerche anche in questa direzione”, aggiunge Hegeler.
Gli sforzi di Hegeler, insieme a quelli di un gruppo di attivisti formato da una quarantina di persone che opera alacremente in tutta la Germania, hanno creato un ‘effetto valanga’ tanto che molte città hanno messo a disposizione i loro archivi e hanno contattato il ”gruppo di lavoro”. Negli ultimi sette anni ben otto consigli comunali hanno ufficialmente rivisto i processi e assolto le persone all’epoca ingiustamente condannate chiedendo la riabilitazione della loro memoria. Solo nel 2011 cinque città hanno aperto gli archivi e restituito la dignità alle vittime dell’Inquisizione. Hegeler riceve moltissime richieste di intervento anche da parte di privati cittadini che si augurano di ripulire da questa infamia gli archivi dei comuni e dei tribunali.
Di recente Hegeler ha incontrato alcuni funzionari del partito dei Verdi a Rheinbach, Renania settentrionale. A Rheinbach è stata proposta la riabilitazione di 130 streghe mandate al rogo nella Renania settentrionale intorno al 1631. Il consiglio comunale dovrebbe affrontare la questione nei prossimi tempi. Ma nessuno partito politico ha messo il cappello su questa iniziativa volta a fare giustizia sia pure a secoli di distanza tanto che le richieste di riabilitazione e il sostegno sono trasversali e vengono da tutti i partiti e da ogni parte della Germania.
All’inizio del mese, Hegeler ha inviato al municipio di Colonia una petizione ufficiale per riabilitare la memoria di Katharina Henoth, impiccata e bruciata sul rogo a Colonia nel 1627 con l’accusa di aver causato una invasione di cavallette in un monastero della zona. Inoltre Hegeler ha contattato l’ufficio del cardinale Joachim Meisner, arcivescovo di Colonia, nella speranza che anche la Chiesa Cattolica dichiari pubblicamente che quella esecuzione fu assolutamente ingiusta. I processi per stregoneria all’epoca venivano celebrati per lo più dinanzi alle autorità cittadine o ai tribunali speciali, ma molto spesso capitava che le autorità religiose intervenissero direttamente sostenendo l’accusa o presentando le “prove”.
Ma non tutte le comunità rispondono affermativamente alle richieste di Hegeler. A novembre la città di Aachen, situata nella parte ovest della Germania, ha respinto la petizione per riabilitare una tredicenne Sinti processata e uccisa nel 1649.
“I politici di Aachen mi hanno profondamente deluso. Decidere di accogliere la petizione non sarebbe costato nulla alla comunità e avrebbe accresciuto la credibilità di quella cittadina”, dice Hegeler con riferimento al fatto che la cittadina conferisce ogni anno il prestigioso premio Carlomagno a una personalità distintasi per aver favorito il processo di unificazione dell’Europa.
ANCHE BUDINGEN, nell’Assia, ha risposto a Hegeler che avevano questioni più importanti di cui occuparsi. Secondo lui, è probabile che il consiglio comunale di Budingen abbia avuto paura di pestare i piedi a una famiglia aristocratica i cui antenati si distinsero nella caccia alle streghe e che ancor oggi ha una notevole influenza politica. “Ma la maggior parte delle città ci rispondono positivamente”, aggiunge.
Pur avendo studiato i documenti di moltissimi processi per stregoneria, quello di Christine Teipel è senza dubbio il processo che più ha toccato Hegeler sul piano personale. Finora, tuttavia, non ha ancora presentato una petizione ufficiale volta a riabilitare la piccola vittima. Gli incontri con gli esponenti del comune di Oberkirchen finora sono stati infruttuosi, ma in città è stato eretto un monumento alle vittime dell’Inquisizione.
“La gente non vuole parlare di riabilitazione da quelle parti”, dice. “Per qualche ragione hanno molte riserve. Non vogliono ammettere ufficialmente che quelle povere persone giustiziate erano in realtà innocenti. Almeno per ora”.
Copyright 2011 Der Spiegel, distributed by The New York Times Syndicate
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere della Sera 30.12.11
La verità sugli eventi che sconvolsero l'Urss
di Ennio Caretto


A vent'anni dalla fine dell'Urss, annunciata a Natale del 1991 e avvenuta entro il 31 dicembre di quell'anno con lo scioglimento di tutte le istituzioni sovietiche, la Cia ha desecretato documenti che confermano come l'amministrazione Reagan e quella di Bush padre l'avessero anticipata, e come vi avessero contribuito con l'appoggio di Papa Giovanni Paolo II. Il crollo dell'Urss, precisano i documenti, avvenne prima del previsto, grazie all'implosione del suo impero e al rifiuto di Mikhail Gorbaciov, suo ultimo presidente, di prevenirlo con la forza. Ma fin dal 1978, alla elezione del cardinale polacco Karol Wojtyla a pontefice, la Cia aveva dato l'implosione per probabile, sia pure più tardi. E fin dal dicembre 1980, un anno prima della legge marziale in Polonia, aveva indicato i mezzi per agevolarla a Reagan, in procinto di insediarsi alla Casa Bianca.
Altri documenti della Cia erano già stati pubblicati nel 1999, nel decennale del crollo del Muro di Berlino. Ma quelli nuovi, discussi il mese scorso a Mosca in un simposio tenuto da Gorbaciov, completano la storia segreta della caduta dell'Urss, l'evento più importante dalla Seconda guerra mondiale.
I documenti confermano anche che le convulsioni sovietiche nel fatale 1991 spaventarono l'amministrazione Bush. Il presidente temette che la caduta dell'Urss causasse guerre e sottrazioni di armi atomiche in alcune repubbliche ex sovietiche, rendendole ingovernabili e mortalmente pericolose, quindi cercò di ritardarla. Lo testimoniano le sue prime telefonate, una al leader russo Eltsin un'altra a Gorbaciov, del 21 agosto di quell'anno, subito dopo il fiasco del colpo di Stato tentato dai falchi del Cremlino. «Boris, come posso aiutarti?», chiede Bush a Eltsin. «Con forti dichiarazioni di sostegno — gli risponde Eltsin — come quella che hai già fatto. Non è interferenza nei nostri affari, è appoggio al nostro popolo». La telefonata del presidente americano a Gorbaciov, per alcuni giorni ostaggio dei golpisti, è emotiva. «È meraviglioso riuscire a parlarti, ero preoccupato per te, Mikhail», dice Bush. «Caro George, sono così felice di sentirti», replica il leader sovietico. I due statisti discutono il da farsi, Bush assicura a Gorbaciov «pieno supporto» e questi lo ringrazia «della tua umanità e amicizia». Bush userà toni diversi in autunno: «Alla fine dell'anno — affermerà — sul Cremlino al posto della bandiera sovietica sventolerà la bandiera russa».
Dai massicci dossier della Cia, centinaia di documenti, il decennio che cambierà il corso della storia nasce con la presidenza Reagan. Nel gennaio 1981 i problemi politici e militari americani sono enormi. L'Iran e l'Iraq sono in guerra, Teheran tiene ostaggi i diplomatici dell'ambasciata Usa da 13 mesi, l'Urss ha occupato l'Afghanistan, ha fomentato il terrorismo e la guerriglia in Centro America e ha alterato a proprio vantaggio l'equilibrio strategico. La situazione in apparenza non potrebbe essere più favorevole al Cremlino. Eppure la Cia lo considera in gravi difficoltà, difficoltà che consiglia a Reagan di accentuare. «L'economia sovietica — scrive — è in crisi. L'Urss dovrebbe ridimensionare i propri programmi militari e ridurre i sussidi all'Est europeo, che ha ormai un tenore di vita superiore al suo, ma la situazione polacca, dove da mesi il sindacato Solidarnosc è in rivolta, glielo impedisce». Il Cremlino, aggiunge la Cia esortando Reagan a incontrare il Papa per discutere il futuro assetto europeo, «si chiede con ansia quale effetto avrà Giovanni Paolo II su problemi cruciali come il dissenso nell'Urss e l'autonomia degli Stati satelliti».
Alla morte del leader sovietico Leonid Brežnev, nel novembre del 1982, viene messo a punto il piano di Reagan per indebolire l'Urss. Gli Stati Uniti si riarmeranno per costringerla a una corsa insostenibile, varando il progetto dello scudo spaziale l'anno seguente, e cercheranno di isolarla. Secondo la Cia, queste pressioni provocheranno un cambio della guardia al Cremlino: «La cerchia di Breznev, gli Andropov e i Cernenko, resterà al potere solo due o tre anni, e le subentrerà la nuova generazione dei Gorbaciov e degli Shevardnadze». La previsione è esatta: nel 1983 le due superpotenze sfioreranno lo scontro frontale come nel 1961, ma nel 1985, scomparsi gli anziani falchi del Cremlino, sarà disgelo, il disgelo conclusivo della guerra fredda. Quell'anno Reagan, dopo avere stabilito rapporti diplomatici ufficiali con il Vaticano, apre una serie di vertici con Gorbaciov, e nell'86 rinuncia al programma delle guerre stellari. La Cia modifica allora la sua ricetta. La storia, ribadisce al presidente, «non è più dalla parte dell'Urss». Il declino sovietico è irreversibile, e per evitare esplosioni gli Usa dovranno tenere un delicato equilibrio: non avversare né aiutare Mosca, aspettare invece che le riforme di Gorbaciov falliscano o abbiano successo.
Una delle rivelazioni più interessanti è che Gorbaciov segue una linea più morbida di Reagan e di Bush. Al principio, i due presidenti americani diffidano di lui, anche perché la Cia non esclude che «voglia un po' di respiro» per rimettere in piedi l'Urss. Solo nel settembre del 1989, due mesi prima della demolizione del Muro di Berlino, quando l'intero Est europeo è in fermento, la Cia ammette che i cambiamenti promossi o accettati da Gorbaciov «segnalano la probabilità di una nuova era, in cui gli Stati Uniti potrebbero passare dalla strategia del contenimento a quella dell'inserimento dell'Urss nella comunità internazionale». Ma nel 1990 gli eventi si susseguono a una velocità che inquieta i servizi segreti americani. Dietro loro consiglio, Bush rifiuta di aiutare economicamente Gorbaciov e nel 1991 cerca un altro interlocutore in Eltsin, «il primo leader eletto dal voto popolare nella storia russa». «I tentativi di Gorbaciov di preservare il comunismo e la pianificazione economica — avverte la Cia — hanno ridotto quasi a zero la sua credibilità». Un'ambiguità che ancora oggi l'ultimo presidente dell'Urss rinfaccia all'«amico George».
I documenti svelano anche che l'estate del 1991 è per la Cia un periodo di paura. Teme che «Eltsin e Gorbaciov non reggano alle tensioni che si stanno creando o che vengano assassinati» e che «sotto il pretesto della legalità e dell'ordine i falchi impongano una dittatura». Alla vigilia del viaggio di Bush a Mosca per la riduzione degli armamenti atomici, la Cia sostiene che «elementi delle truppe e della polizia politica sovietiche fanno preparativi per l'uso della forza» e che «i loro primi bersagli saranno Eltsin e Gorbaciov». Ma conclude che c'è qualche possibilità che un golpe eventuale fallisca «grazie all'opposizione popolare» e che «entro un anno Gorbaciov si ritiri e ciascuna repubblica sovietica assuma i propri poteri». Per fortuna dell'Urss, dell'America e dell'Europa, sarà una conclusione profetica.

Corriere della Sera 30.12.11
Ideali. Come andare oltre i conflitti etnici e religiosi
Il nuovo Illuminismo: se domani nascesse la morale universale
«Vorrei un'etica globale valida per tutti»
di Gillo Dorfles


Nella nostra «parlata» — l'italiano — il lemma «morale» — tanto nella sua versione maschile che femminile — presenta una singolarità linguistica che non appare in altri idiomi. Noi diciamo, ad esempio: «Ho il morale alto» quando siamo «su di morale»; e diciamo «la morale della favola» con un significato del tutto diverso; ma è solo con l'aggettivo che il termine acquista l'autentica equivalenza con quello di «etico».
Questa triplice connotazione del termine ci porta spesso a falsificarne l'impiego. Certo, possiamo accettare che «fare la morale» sia «morale», o che il fatto che il mio «morale» sia alto abbia a che fare con la moralità dei miei atti; ma tuttavia, questa ambiguità terminologica porta facilmente a strani equivoci.
Fino a che punto, ad esempio, possiamo essere convinti che esista una «morale corrente»? E che la stessa corrisponda a un atteggiamento etico? In altre parole, quello a cui vorrei giungere è: fino a che punto possiamo ragionare di una «globalità morale»? (che invece è assente il più delle volte). La tanto esaltata — e in parte effettiva — globalizzazione dei comportamenti, dei costumi, delle manifestazioni, da molti attesa come una panacea universale, destinata a risolvere conflitti, tensioni, rivalità tra i popoli e le nazioni, è in realtà molto più problematica di quanto non sembri. Gli enormi vantaggi della rapida comunicazione sono evidenti; ma, proprio per quanto si riferisce al campo della morale, sarebbe auspicabile che ogni eccesso globalizzatore fosse considerato con la massima oculatezza, perché giudico molto pericoloso il verificarsi di una uniformità dei principi che regolano il costume e l'etica di una determinata popolazione. La rapida generalizzazione dei modi di essere, di comportarsi, di vestirsi, di alimentarsi, fa sì che vadano perduti, imbastarditi, o rallentati quelli che erano dei fondamentali principi familiari, comportamentali, morali delle singole nazioni. O addirittura delle singole regioni.
Molti di questi principi potevano in realtà soddisfare singole nazioni, e apparire assurdi o addirittura peccaminosi ad altre; ma erano comunque il perno attorno a cui ruotava la «morale corrente» (ecco ancora un'altra connotazione del nostro termine) di solito seguita e rispettata dalla maggioranza. Gran parte dei quesiti che riguardano il settore della sessualità, dei rapporti generazionali, delle pratiche religiose e liturgiche, delle tradizioni tribali, avevano un'indiscutibile anche se spesso perniciosa potenza.
È facile comprendere come la scomparsa, o anche l'attenuazione, di queste pratiche e di queste convenzioni, doveva causare immediatamente un sovvertimento dei costumi e l'adozione soltanto di quelli più «comodi», meno vincolanti. Ne abbiamo infiniti esempi sotto i nostri occhi, soprattutto da quando una generalizzata immigrazione di popoli diversi dal nostro per costumi, religioni, valenze etniche, ha fatto la sua comparsa anche in Europa.
Non si contano i casi di intolleranze reciproche, di dissapori dovuti a fattori etico-etnici, a pratiche religiose inaccettabili dalla «nostra» morale (infibulazioni, tabù alimentari tramandati da antiche superstizioni, macellazioni rituali, eccetera), che, a contatto con civiltà diverse, sono forieri di dissensi e di incomprensioni sempre più accentuati.
Quando si riflette sul fatto che già il grande filosofo empirista David Hume riteneva il modo di comportarsi dei musulmani e di altre etnie come assurdo e dannoso, ma tuttavia giustificabile in base all'insieme delle regole e delle massime della loro religione, sarà facile comprendere che non è possibile volere a tutti i costi privilegiare i propri modi di essere e di vedere rispetto a quelli altrui, senza che questo provochi vere e proprie tensioni non solo ideologiche ma pratiche ed esistentive.
È da questa premessa che il mio ragionamento circa un'etica globalizzatrice vuole prendere l'avvio. Appunto dalla convinzione che solo attraverso un processo molto lento, molto cauto, e molto attento a ogni norma e tradizione dei singoli popoli e Paesi si possa giungere — probabilmente dopo molti decenni — a un «comune denominatore» etico, tale da soddisfare tutti i diversi Paesi e le diverse nazioni.
Questa eventualità — certamente destinata prima o poi, a verificarsi — deve peraltro permettere di compiere, già oggi, alcuni passi al fine di ottenere, col tempo, un'etica del «villaggio globale». E, al fine di ottenerla, ritengo che sia essenziale un costante studio delle diverse morali esistenti, del loro rapporto con le varie religioni, della progressiva e cauta eliminazione delle tradizioni esclusivamente legate a equivoci interpretativi o a norme derivate da situazioni un tempo esistenti e oggi scomparse (divieto di certi cibi perché a quei tempi pericolosi); accanimento contro il nudo femminile, e in generale contro ogni «libertà» femminile, dovuto a paradossali convinzioni circa la «peccaminosità» d'ogni rapporto sessuale; accettazione della pena di morte; presenza di «caste»; e centinaia di altre consimili norme ancora ben radicate.
Naturalmente, sarebbe stolto non tener conto del peso che, ancora ai nostri giorni, mantengono molte pratiche basate, oltre che su dogmi religiosi, su valori magici, esoterici, tanto nel caso di effettive tradizioni tribali, quanto in quelli di arbitrarie sette mistiche e occulte (dal candomblé brasiliano alle macumbe afroamericane, agli infiniti sopravvissuti cerimoniali misteriosofici).
Ecco dunque che, se da un lato non possiamo voler eliminare da un giorno all'altro e di colpo le singole tradizioni etiche d'ogni popolo, dall'altro non dobbiamo neppure ritenere che si possa istituire immediatamente un codice — o un «vangelo» — di norme etiche universalmente accettabile. Sicché, in definitiva, ritengo che, solo con un'educazione illuminata e con una presa di coscienza delle diverse «morali», si possa giungere, a una autentica globalizzazione etica del — poco auspicabile — «villaggio globale».

Corriere della Sera 30.12.11
Da Pascal a Popper
Ma il relativismo resta inevitabile
di Dario Antiseri


È difficile dar torto a Pascal quando scrive che «il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli e dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose», «singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là». Partendo dall'esperienza — ripete Max Weber con John Stuart Mill — si giunge al politeismo dei valori. «Chi vive nel mondo — annotava Weber ne La scienza come professione — non può non sperimentare in sé una lotta tra una pluralità di valori dei quali ciascuno, preso per sé, appare impegnativo: dovrà scegliere quale di questi dèi vuole servire, ma sempre si troverà in conflitto con qualcuno degli altri dèi del mondo». Negare il pluralismo dei valori sarebbe come negare l'esistenza della Luna o del Colosseo. Conflitti e talvolta atrocità segnano i rapporti tra i diversi gruppi umani: diversi soprattutto per concezioni etiche legate a prospettive filosofiche e religiose. E questa diversità di concezioni etiche viene presa di mira con l'infamante accusa di relativismo. Ma, al nocciolo della questione: è evitabile il relativismo inteso nel senso di non fondabilità razionale erga omnes dei principi che reggono questo o quel sistema etico? È falso sostenere che tutte le etiche sono uguali: ogni sistema etico è diverso, «ama il prossimo tuo come te stesso» non è «occhio per occhio, dente per dente». E tuttavia non è possibile, in ambito etico, trovare un fundamentum inconcussum rationale. Da tutta la scienza non è possibile dedurre un grammo di morale. La «legge di Hume» — l'impossibilità logica di dedurre prescrizioni da descrizioni — è legge di morte per ogni tentativo di giustificazione razionale di un sistema etico. La scienza sa, l'etica valuta. L'etica, non è scienza. Pluralismo di valori, dunque scelta; scelta, dunque libertà; libertà, dunque responsabilità. Inevitabile la scelta perché inevitabile il relativismo.
E qui viene da chiedere a tutti gli antirelativisti: tolleranza e democrazia sono possibili tra quanti si sentono in possesso di Valori esclusivi? Costoro non si sentiranno in diritto d'imporre il «Vero» e il «Bene»? E non ha ragione Hans Kelsen ad affermare, ne La democrazia, che il «relativismo è quella concezione del mondo che l'idea democratica suppone»? L'idea di società globale prospettata da Dorfles non è in fondo diversa da quella di società aperta proposta da Popper, cioè aperta al maggior numero possibile di ideali, magari contrastanti, e chiusa solo agli intolleranti, ai fondamentalisti di ogni specie. Ed è proprio il fondamentalismo la peste — ripete Popper sulla scia di Montaigne — di cui l'umanità ha urgente bisogno di liberarsi. La società perfetta è la più decisa negazione della società aperta; impone assoggettamento all'idea totalitaria. Da ultimo, una domanda ai cattolici antirelativisti: vi pare facile replicare a Karl Heim quando scrive che «i cristiani contemporanei dovrebbero dare il loro sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo»?

Corriere della Sera 30.12.11
Dummett, il logico amante dei tarocchi
di Armando Torno


Sir Michael Anthony Eardley Dummett, uno dei pensatori di punta del mondo contemporaneo e della filosofia analitica in particolare, professore di logica a Oxford (emerito del New College), è morto a Londra. Aveva 86 anni. Diventò cavaliere della regina nel 1999, ma la sua notorietà nell'ambito politico-sociale si deve alle lotte per le minoranze etniche e per le procedure di voto (scrisse Principles of Electoral Reform, New York, 1997). È stato anche uno dei massimi esperti al mondo del gioco dei tarocchi.
Dummett ha lasciato importanti interpretazioni sulle dottrine logiche e filosofico-matematiche di Gottlob Frege (ne presenta una visione complessiva del pensiero e dell'impatto profondo in Frege: Philosophy of Language, Harvard University Press, 1973-1981); anzi, dopo gli studi del docente di Oxford non fu più possibile sottovalutarne l'influenza su autori quali Husserl, Carnap, Wittgenstein o Russell. Dummett, per dirla in soldoni, fece sua la svolta di Frege: riportare la logica al centro della filosofia. Del resto, nel XVII secolo essa fu detronizzata dalla posizione di privilegio da giganti quali Descartes o Locke. Al suo posto si preferì l'epistemologia. Più flessibile e civettuola con le esigenze del tempo.
Il professor Michael — come confidenzialmente qualcuno lo poteva chiamare — ha inoltre tracciato le linee fondamentali per l'elaborazione di una «teoria del significato» e per la filosofia del linguaggio in genere, per la discussione del problema metafisico del realismo. Resta anche, per così dire, una sua invenzione: ha reso popolare il termine «antirealismo». Se ne servì per riesaminare alcune dispute filosofiche classiche, riguardanti dottrine quali il nominalismo, l'idealismo, il fenomenalismo et similia. Aprendo le pagine di Verità e passato (Cortina, 2006) si coglie, appunto, il suo metodo «antirealista». Il quale, utilizzato per recare chiarezza a quello che gli sembrava un pasticcio filosofico, lo portava a negare che le asserzioni «posseggano un valore di verità oggettivo, a prescindere dai nostri mezzi per conoscerlo».
Brillante (lo provano i saggi di Pensiero e realtà, Il Mulino, 2008, nati dalle Gifford Lectures), amava sorridere ricordando che l'unica risorsa del filosofo è l'analisi dei concetti che già possediamo, anche se confusamente (La natura e il futuro della filosofia, il Melangolo, 2001), Dummett ci ha lasciato pagine utilissime per comprendere il lento ripudio di talune teorie classiche (Origini della filosofia analitica, Einaudi, 2001). Poi, dicevamo, sarà ricordato per i tarocchi. Si recò nell'Italia meridionale per fare esperienza sul campo e, tra i molti, scrisse libri quali I tarocchi siciliani (il Melangolo, 2003) o il fondamentale Il mondo e l'angelo (Bibliopolis, 1993). In esso traccia la loro «vera» storia.
David Hilbert ha scritto nel 1926 in Über das Unendliche: «Nessuno potrà cacciarci dal paradiso che Cantor ha creato per noi». Pensava, tra l'altro, agli spazi infiniti che recano pace agli spiriti dei migliori. Di certo, il professor Michael ora abita lì. Ma non disturbatelo. Forse sta giocando ai tarocchi.

Corriere della Sera 30.12.11
Caselli: la giustizia bloccata fa comodo anche alla sinistra
di Giovanni Bianconi


Un tempo venivano dipinti a braccetto, l'uno che sosteneva l'altro nel presunto tentativo di trasformare l'Italia per via giudiziaria. Luciano Violante e Gian Carlo Caselli, il politico e il magistrato, alla testa del cosiddetto «partito dei giudici». Passati vent'anni o poco meno, dominati dalla presenza sulla scena di Silvio Berlusconi e dai suoi virulenti attacchi alla magistratura, quell'immagine non esiste più. Al punto che oggi Caselli può scrivere: «Il berlusconismo è qualcosa che va al di là del suo inventore e più volte sembra aver fatto breccia anche tra le fila di chi avrebbe dovuto opporvisi. L'opposizione, anche quando è stata al governo, in tema di giustizia è spesso stata molto timida, fragile, affascinata da ipotesi di omologazione più che impegnata in un'autentica contrapposizione dialettica, fino ad appiattirsi su alcuni slogan tipici dell'avversario. Ed è un'attitudine contagiosa, se si pensa che persino Luciano Violante, in un suo libro, ha teorizzato che i magistrati dovrebbero essere sì "leoni", ma tranquilli sotto il "trono" del potere politico. Vale a dire leoni coi poveracci e benevoli con chi più conta».
Immaginaria o reale che fosse l'unione tra i due, la separazione sembra insanabile. Forse la sintesi che Caselli fa del pensiero di Violante è eccessiva e non piacerà all'ex magistrato ed ex presidente della Camera, tuttora esponente di spicco del Partito democratico, ma è il compendio di una rottura che appare difficile da ricomporre. E sembra definitiva l'evaporazione di un'ipotetica sponda politica, se Caselli se la prende pure con l'attuale responsabile giustizia del Pd, Andrea Orlando, che ha scelto di pubblicare il suo programma sul «Foglio» diretto da Giuliano Ferrara, «consigliere autorevole e spregiudicato del signor B.». Alias Berlusconi.
Gian Carlo Caselli è un magistrato culturalmente piantato a sinistra, che in quarant'anni ha attraversato le bufere del terrorismo, della mafia e della corruzione, passando dal Csm e dalla direzione delle carceri. Un bel pezzo della storia giudiziaria e politica d'Italia. E giunto alla fase finale della sua carriera, nel suo libro Assalto alla giustizia (Melampo, pp. 154, 16) mette in guardia dai rischi di una nuova emergenza. Che si manifesta non attraverso la commissione di reati bensì con l'insofferenza del potere, di qualsiasi colore, al controllo di legalità. Ne deriva un conflitto permanente tra politica e giustizia che in realtà è unilaterale, aizzato dalla politica contro la giustizia. Un assalto, appunto, secondo il procuratore di Torino che ha combattuto le Br e Cosa nostra (e non rinnega, ma anzi rivendica il termine «lotta» contro questi fenomeni) e perciò fu tacciato prima di essere un fascista, poi un comunista e infine mafioso («mi mancava, ed è accaduto di recente, sui muri della città»), a causa delle indagini sui disordini in val di Susa.
La ragione dell'attacco, ricostruisce Caselli, è nell'impegno che i magistrati hanno assunto dagli anni Settanta in poi, di obbedire alla Costituzione in maniera non più simbolica, come quando erano molto più ossequiosi rispetto al potere politico, ma dinamica, andando a individuare non solo i doveri, ma anche i diritti violati dei cittadini: «Se mai esiste un periodo storico in cui la magistratura italiana si è emancipata con successo dalla politica, è proprio la nostra epoca». Dai cosiddetti «pretori d'assalto» a Mani pulite, passando per le inchieste sulle collusioni tra mafie e rappresentanti delle istituzioni. Il fastidio verso le toghe davvero indipendenti ha scatenato una resa dei conti che s'è concretizzata con i progetti di riforma e controriforma targati Berlusconi, ma non solo. Perché l'insofferenza, denuncia il procuratore, va al di là degli interessi personali dell'ex presidente del Consiglio e delle nostalgiche inclinazioni del suo schieramento politico. Le correzioni per far funzionare la macchina giudiziaria in perenne affanno dovrebbero essere altre, e Caselli ne indica alcune, quasi tutte «a costo zero». Basterebbe volerle, ma alla politica non conviene. Preferisce perpetuare il paradosso della «inefficienza efficiente», che torna sempre utile: «Perché se la giustizia non funziona, sarà più facile attaccare i giudici».

Corriere della Sera 30.12.11
I pianeti e l'oroscopo del 2012 Il filosofo dialoga con l'astrologo
Solo superstizione? «Non è una scienza, ma non diciamo falsità»
di Giulio Giorello


Oliver Cromwell così esortava l'amico Robin: «Guarda i segni del cielo, certamente significano qualcosa, anche se non so esattamente cosa». Astrologia e astronomia hanno intrecciato il loro cammino fin dalle origini della civiltà; il loro divorzio è relativamente recente. Il rigoroso Galileo, il razionale Cartesio e il visionario Newton hanno tutti bazzicato con quella che era definita «l'antica scienza dei Caldei». Ma già nell'età dei Lumi tipi come Voltaire o Kant si erano convinti che proprio i risultati della fisica newtoniana avessero reso superflue le speculazioni su come gli astri influenzino le umane vicende. Pochi decenni dopo il giovane Leopardi definiva l'astrologia una «superstizione». E uno dei maggiori filosofi del secolo scorso, Karl Popper, l'ha bollata come esempio di «pseudoscienza». «Ma l'astrologia deve smettere di credersi scientifica — mi dice Roberto Donzelli (firma di spicco di Astra) — altrimenti fa il gioco di coloro che la denigrano. Oggi l'impresa scientifica ha le sue norme e i suoi vincoli, e io non sono affatto d'accordo con i "colleghi" che presentano l'astrologia come una disciplina paragonabile alla fisica o alla biologia. Tuttavia, non mi pare giusto che quello che non rientra nell'attuale mentalità scientifica sia considerato falsità». Ribatto: «Perché allora dovremmo crederle, e comunque darle così tanto spazio?». Donzelli non esclude che sia possibile una verifica anche per le predizioni astrologiche. «Per esempio, le posizioni dei cosiddetti pianeti lenti (Saturno, Urano, Plutone) sono oggi analoghe a quelle del 1929 all'epoca del crollo di Wall Street: questo ci fa supporre che per l'economia globale non solo il 2011 è stato un anno non certo felice, ma che lo sarà anche il 2012». Ma non è sufficiente per un pronostico del genere quello che Tex Willer chiama «puro buon senso»? Donzelli ribatte che già nel 2008 aveva contrastato l'opinione comune che in due o tre anni la crisi si sarebbe risolta. Comunque, opta per un quadro più sfumato: per esempio, la presenza di Urano in Ariete dovrebbe farci pensare a un sempre maggior contrasto tra individuo e Stato. Spiega: «L'astrologia andrebbe vista in maniera dialettica, e l'Ariete che rappresenta l'individuo si oppone nello Zodiaco alla Bilancia che rappresenta tutto ciò che frena l'individuo, a cominciare dalla macchina statale».
Forse questa dialettica nei cieli sarebbe piaciuta a Hegel, che era della Vergine, essendo nato il 27 agosto; black bloc e altri «anarco-insurrezionalisti» sono avvisati! Ma Donzelli lascia qualche speranza ai libertari: lo Stato non ce la farà a controllare tutto, dato che la forza dell'individuo resiste a qualsiasi... Bilancia. Chiedo qualche altra previsione più definita: che cosa capiterà, poniamo, a quelli nati come me (e come per esempio Karl Marx e John Stuart Mill) sotto il segno del Toro? Donzelli non ritiene attendibili le previsioni troppo categoriche legate al segno zodiacale. Preferisce sostenere che nel cosiddetto «tema natale» sia racchiuso il rapporto di ciascuno di noi con il mondo: «So bene che da Copernico in poi la Terra ha perso la sua centralità e che l'universo è molto più grande di come potevano raffigurarselo i Sumeri o ancora Dante Alighieri; ma le connessioni che mi interessano non riguardano la sfera della causalità fisica, bensì il terreno della sincronicità (la coincidenza di eventi significativi che non dipende da alcun nesso causale), esplorato da un grande della psicoanalisi come Carl Gustav Jung e da un fisico come Wolfgang Pauli. In breve, il tema natale è un istante del dialogo tra gli dei...». Ancora le antiche divinità «false e bugiarde», come le chiamava Dante? Donzelli chiarisce che per «dei» vanno intesi i grandi archetipi: i quali indicano le forze profonde che plasmano la nostra realtà interiore ed esteriore. Qui abbiamo forse toccato il punto di maggior dissenso. Io la penso come Giordano Bruno, che nel Candelaio si beffava degli astrologi e che nella Cena delle ceneri riteneva che non fosse più necessario cercare Dio nei cieli dopo che si era dimostrato che la fisica terrestre e quella celeste rientravano in un unico schema e che semmai la divinità andava scovata entro noi stessi. Su questo punto Donzelli ritrova però un accordo: prevede per il 2012 anche un «ritorno di autentica spiritualità». Mette l'enfasi su quell'aggettivo «autentica». Scherzando gli faccio notare che nel periodo della Riforma e della Controriforma (quando l'astrologia era ancora rispettata e temuta) ciò gli avrebbe fatto correre il rischio di finire... in cenere: a Ginevra come a Roma. Ma è bene poter fare dell'ironia anche sulle pieghe della storia, e prendere quest'ultima «profezia» come un augurio per tutti.

Repubblica 30.12.11
La monumentale opera della religione ebraica risale al VI secolo d.C. Ora sarà più accessibile per merito di un lavoro durato oltre sette anni
Il primo indice del Talmud grazie a un tennista dilettante
di Angelo Aquaro


"Un´ossessione che mi è stata trasmessa da mio padre. Ancora oggi non posso stare un minuto senza consultarlo"
Ci sono 6.600 voci che rendono "navigabile" un testo che rappresenta un patrimonio millenario

È il libro dei libri, la raccolta più misteriosa del mondo, sono le istruzioni per l´uso più antiche della Terra: eppure ci sono voluti 1500 anni per trovare un indice al Talmud. E quest´opera letteralmente biblica è stata compiuta non da chissà quale straordinario consesso di studiosi ma da un avvocato del Bronx con la passione del tennis. Che ha speso sette anni della sua vita per realizzare quello che sembrava irrealizzabile: mettere ordine in una raccolta così caotica – 63 volumi di ingarbugliatissime disquisizioni rabbiniche – che nessuno si sarebbe mai sognato di indicizzare.
Sembra incredibile nell´era in cui basta un clic e tutto il sapere ci si presenta a portata di Google. E la storia di Daniel Retter, l´avvocato che si mise in testa di riordinare il Talmud, sembra davvero la traduzione contemporanea di un racconto incantato di Isaac B. Singer: o la trama disincantata di un film di Woody Allen. Ma in fondo anche questo è Talmud: perché l´intera tradizione culturale ebraica discende appunto dalla raccolta con cui nei primi secoli della diaspora gli antichi rabbini cercarono di offrire al popolo eletto e disperso il conforto della Legge. Talmud in ebraico vuol dire letteralmente studio, istruzioni. E se la Bibbia, l´Antico Testamento è la parola di Dio, le "istruzioni" sono quella dell´uomo che si confronta appunto con il messaggio: interpretandolo. Se la Bibbia è il libro sacro, insomma, il Talmud è il libro che – insieme alla Sinagoga, la casa di preghiera in cui si suggella l´alleanza tra Dio e Israele – definisce il sistema religioso e la stessa identità ebraica. «Il Talmud fu creato perché un´intera nazione, e non solo pochi santi», scrive il grande filosofo ebreo Eliezer Berkovits «prendessero la Bibbia sul serio, cercandone di farne il fondamento della loro vita quotidiana».
Un lavoro immenso, cominciato nel secondo secolo dopo Cristo e concluso solo nel sesto. Un testo su cui da due millenni studiano e soffrono generazioni di giovani ebrei: finalmente graziati dal lavoro dell´avvocato-tennista. Ma possibile che finora nessuno ci avesse mai pensato? La verità è che per secoli sono stati gli stessi rabbini a mantenere l´oscurità sul testo. Dapprima tramandato solo oralmente, messo per iscritto solo dopo l´invenzione della stampa, il Talmud è stato spesso pensato come un libro misterioso, prima da trasmettere di generazione in generazione e poi da studiare sudandoci sopra. L´opera dell´avvocato Retter ha ridotto adesso questo immenso patrimonio di saggezza in 6600 voci e 27mila sottovoci. L´indice si chiama HaMafteach, cioè La Chiave, è disponibile sia in inglese che in ebraico e permette così – spiega il New York Times – di districarsi nei temi anche più curiosi che possono turbare i fedeli. Si può risposare l´ex moglie che ha convissuto con un altro? Che cosa fare di un oggetto trovato nella spazzatura? Per un osservante non sono minuzie. L´unico precedente finora tentato di indicizzare il Talmud era attraverso un cd-rom: il colmo per uno studioso che non avrebbe potuto usarlo per esempio il sabato, visto che nel giorno del riposo non si può far uso di nessuna tecnologia – neppure, e qui davvero ci incartiamo in una discussione talmudica, per consultare il Talmud e scoprire se proprio nel caso questa tecnologia si può usare.
Retter racconta che l´ossessione per il libro gli era stata inculcata dal padre, costretto da bambino a fuggire dalla Germania delle persecuzioni naziste negli Usa: «Ancora adesso non posso stare un minuto senza consultarlo» racconta. «Se sono in fila da qualche parte, in attesa di essere chiamato, studio il Talmud». Ma la discussione delle minuzie quotidiane per cui è universalmente conosciuto sono naturalmente soltanto la parte più curiosa. Proprio la sua struttura aperta – spiegano gli esperti – ha determinato la costruzione dell´identità ebraica, dove le domande sono sempre più delle risposte e la ricerca della perfezione è continua. Jonatan Rosen ha scritto un libro, Il Talmud e Internet, proprio per sottolineare la similarità tra il libro aperto e il web. E a proposito dell´effetto-Talmud sulla cinematografia di Woody Allen o sulla letteratura di Philip Roth sono state scritte pagine memorabili. Per non parlare dell´infatuazione di "gentili" come Madonna: che frasi del libro ha nascosto perfino nelle sue canzoni. Chissà che adesso l´indice dell´avvocato-tennista non riaccenda, dopo 1500 anni, la voglia di cercare: anche ai semplici curiosi. Sempre tenendo a mente, ci mancherebbe, proprio quella massima talmudica: «Chi vuole capire troppo non capisce nulla: chi cerca di capire meno riuscirà a capire qualcosa».

Repubblica 30.12.11
Muti e le bande
Il direttore alla guida di 400 ragazzi "La musica riscatta la Calabria"
di Anna Bandettini


In primavera il maestro terrà un concerto nel capoluogo calabro dirigendo circa 97 orchestre giovanili: un evento straordinario. Civile prima che artistico
Ho conosciuto questa realtà calabrese per caso nel 2006 mentre ero ospite a Reggio con la Cherubini: mi colpì la serietà di quei giovani
Sono grato a questi adolescenti: mi hanno detto che i figli di famiglie di faide opposte ora suonano uno accanto all’altro: è una vittoria

C´è chi sta già sognando: sarebbe bello, per esempio, se la data prescelta fosse il 2 giugno, festa della Repubblica, magari col presidente Napolitano, il prefetto e i carabinieri nella cui Piazza d´Armi - è già deciso - si terrà l´attesissimo concerto... ma alla fine va bene qualunque giorno, purché ci sia il venerato maestro. Sì, perché la notizia è che Riccardo Muti in primavera (il giorno lo deciderà una volta finita la stagione a Chicago) dirigerà nella Piazza d´Armi della Scuola dei Carabinieri di Reggio Calabria qualcosa come 400-500 ragazzi, tutti musicisti in 90 e più bande calabresi. Una cosa straordinaria, civile prima ancora che artistica, una promessa per il futuro di cui si è fatto testimonial il celebre direttore.
Perché dietro al concertone di primavera c´è una Calabria diversa da quella della ‘ndrangheta, della corruzione, del compiacimento nell´illegalità, una Calabria che sta attraversando una sua piccola rivoluzione culturale: a Lamezia dove il sindaco ha sostenuto un bel progetto teatrale con gli attori di Punta Corsara e delle Albe di Ravenna che hanno lavorato con studenti lametini e rom, e qui a Reggio Calabria con la musica delle bande che è sempre stata una tradizione locale, ma è diventata un messaggio travolgente da quando Riccardo Muti ci si è messo di mezzo. «Per me tutto è partito nel 2006 - ricorda oggi il maestro - Ero a Reggio Calabria con l´orchestra Cherubini. Mi si presentò un signore che mi parlò di giovani musicisti di una banda di un paese dell´Aspromonte messa su da un farmacista per togliere i ragazzi dalla strada. Ero lì con un´orchestra di giovani, mi sembrò che ci fossero elementi comuni. Così fissai un incontro. Si presentarono una sessantina di ragazzi in uniforme, come si conviene alle bande. Può sembrare astruso, ma la compostezza con cui presero posto sulla pedana, l´intensità di partecipazione, mi colpirono. Suonavano anche bene. Non me ne dimenticai e dopo due anni li feci invitare al Ravenna Festival dove li ho diretti la prima volta».
Da quel momento le bande giovanili calabre sono diventate un fenomeno inesauribile, un vero boom. «Non c´è paese della provincia di Reggio Calabria che non abbia una banda giovanile, le classiche da sfilata, ma la maggior parte vere e proprie orchestre di fiati dirette per di più da maestri professionisti - dice Eduardo Lamberti-Castronovo, assessore provinciale alla Cultura di una giunta di centrodestra («più all´opposizione del centrosinistra», come dice lui per marcare la distanza dal discusso governatore Scopelliti), gran sostenitore di questa rinascita musicale - Si suona a Delianuova, Bagnara, Campo Calabro, Scilla, Polistemo... A Laureana di Borrello, il sindaco ha dato ai ragazzi un vecchio convento ora diventato la scuola di musica per tutto il circondario. A Delianuova ne sta sorgendo un´altra. A Locri c´è una scuola di musica tra le mura del vecchio carcere. La Provincia di Reggio sta per varare una sua orchestra giovanile. La cosa bella non è solo che i ragazzi sono diventati protagonisti della vita culturale, ma che la politica e le istituzioni se ne sono finalmente accorte».
«Io sono sempre stato un sostenitore delle bande - dice il maestro Muti - Anni fa quando molte chiudevano mi sono speso per salvarle. Ritengo che abbiano avuto una importanza culturale nel nostro paese e molta cultura lirica e sinfonica viene portata dalle bande musicali nelle piazze dei paesi. Io stesso il venerdì santo da ragazzo a Molfetta seguivo le processioni ascoltando le bande. Lo Stabat Mater di Rossini o la Marcia funebre dell´Eroica le ho ascoltate le prime volte con le bande che sono vere orchestre anche se di soli fiati. E non dimentichiamo l´influenza che hanno avuto su Verdi. E poi, dico la verità, quando ho sentito parlare di bande di ragazzi in una terra dove in genere si parla di bande di altro tipo, mi è sembrata una cosa da premiare».
Il concertone di primavera sarà un vero regalo per quei giovani musicisti. «Mi creda non sono io che faccio un regalo a loro, ma sono loro che mi stanno dando un segnale straordinario - continua il maestro - Amare la musica, che è parte essenziale della storia del nostro paese, è una conquista culturale». Non c’entra solo il discorso che Riccardo Muti persegue da anni sui giovani e l´insegnamento musicale in Italia («bisogna girar pagina: non si deve insegnare la musica strimpellando un pifferino, ma insegnando ad ascoltare la musica, a come orientarsi nella foresta dei suoni»), ma la sua idea che la musica sia educazione morale oltre che artistica. «Quando da bambino per San Nicola mi regalarono il violino fu una mazzata: significava che, come per i miei fratelli, mio padre voleva che anch´io studiassi musica. E così mentre io studiavo sul violino, guardavo dalla finestra i ragazzini che giocavano a pallone. Ma poi qualcosa è successo e oggi so che la musica mi ha cambiato la vita. Mi ha insegnato che, come diceva Orazio, "la vita non dà nulla agli uomini se non a prezzo di duro lavoro". Ma mi ha anche insegnato a vivere con gli altri, perché quando strumenti diversi devono armonizzarsi e fare sì che ognuno si esprima senza uccidere gli altri, è l´abc del vivere sociale. E infatti sa qual è la grande soddisfazione che questa esperienza calabrese mi ha già dato: quando mi hanno raccontato che a Lamezia e a Lauretana ragazzi di famiglie che da anni alimentavano le faide, stavano uno accanto all´altro sullo spartito, dimostrando ai loro genitori come è facile collaborare».