mercoledì 4 gennaio 2012

l’Unità 4.1.12
Il messaggio all’esecutivo: «L’unità del sindacato è un bene comune»
La strategia europea: «Merkel e Sarkozy non possono affondare l’Italia»
Bersani: «Sul lavoro serve coesione
Non si torni indietro»
Il segretario dei Democratici critica Grillo per le gravi parole su Equitalia: «Se girano le pallottole, il messaggio deve essere inequivocabile. Non vorrei che venisse fuori una giustificazione di massa alla violenza».
di Giuseppe Vittori

Nel Pd si guarda con estrema attenzione alla partita sul mercato del lavoro che si è aperta tra governo e sindacati. Pier Luigi Bersani in questi giorni di pausa dei lavori parlamentari non ha interrotto i contatti con Palazzo Chigi, oltre che con i leader delle altre forze politiche che in Parlamento sostengono Monti. E il messaggio che ha inviato all’esecutivo è di procedere con cautela, perché l’unità sindacale è «un bene comune» che già per troppi anni è venuto a mancare e perché l’Italia può uscire dalla crisi «soltanto se ci sono cambiamento e coesione, insieme, non uno dei due senza l’altro».
Il leader del Pd, quando nella tarda mattinata di ieri ha saputo che il governo intende procedere con incontri bilaterali con le parti sociali, ha anche pensato che forse l’idea era di vedere separatamente sindacati e associazioni delle imprese, non le singole sigle sindacali. Col passare delle ore, tra le proteste della Cgil per il niet dell’esecutivo a un tavolo comune sul lavoro, il quadro si è fatto più chiaro. E dal Pd sono partiti anche messaggi pubblici, all’indirizzo del governo. Bersani in un’intervista a SkyTg24 di metà pomeriggio ha chiesto uno sforzo per risolvere la questione: «Spero proprio che questioni di metodo non impediscano di affrontare la sostanza», ha detto sottolineando che «la questione del formato degli incontri va risolta con buonsenso, senza creare pregiudiziali e divisioni in premessa».
LA COESIONE
Per il leader del Pd il tavolo tra governo e parti sociali va fatto e anche in tempi rapidi, ma «in forme tali che sia riconosciuto da tutti quelli che devono partecipare»: «Mi sembra una cosa ovvia sulla quale il governo debba impegnarsi». Il monito non è da poco, visto che rimanda ai danni provocati dal precedente governo e all’atteggiamento di Sacconi a dividere Cgil, Cisl e Uil: «Veniamo da una esperienza di divisione del mondo del lavoro che non ha portato a nulla. Il 28 giugno è stato raggiunto un accordo di coesione e equilibrio, voglio sperare che nessuno voglia rompere quell’accordo, perché altrimenti si tornerebbe indietro».
Il segretario è intervenuto anche sulla provocazione lanciata da Beppe Grillo sulla necessità di riflettere sui motivi degli attentati a Equitalia e sull'ipotesi si riformare la società di riscossione tributi. «Devo dare ragione a Grillo? A chi solletica... Ieri son girate delle pallottole», quindi «oggi diciamo no alle pallottole poi discutiamo». È vero, aggiunge, «non è da oggi che si discute di Equitalia, ma se girano le pallottole si discute di questo e il messaggio deve essere inequivocabile». In un momento così delicato, dunque, prosegue Bersani occorre fare «attenzione, perché non vorrei che da questi dibattiti venisse una giustificazione di massa a chi intende usare la violenza» anche perché «andiamo incontro a mesi complicati e bisogna stare attenti». Su Equitalia, ricorda, «ci sono delle proposte che ritengo siano all'esame del governo e di chi deve provvedere a evitare casi estremi e che finisca per essere tarato come evasore chi non riesce a pagare le tasse».
Altro fronte caldo l’Europa e la linea franco-tedesca: «L'Italia non affonderà l'Europa, ma sia chiaro che l'Europa di Merkel e Sarkozy non può farci affondare tutti», ribadisce il numero uno del Nazareno, secondo il quale per il governo Monti adesso «c'è un primissimo punto e si chiama Europa. Dobbiamo avere una posizione nazionale. Dire che siamo pronti a fare le riforme, che andremo avanti con il cambiamento, ma che noi manovre non ne facciamo più perché non si può chiedere di più a un Paese con un 5 per cento di avanzo primario».
LA FIDUCIA AL GOVERNO
Se qualcuno avanza sospetti sulla tenuta della fiducia del Pd verso il governo, il segretario sgombra il campo: «Non sono pentito», dice. Poi, aggiunge: «Il governo Monti è partito con un certo piglio, non tutto quel che ha fatto lo sottoscriverei. Eravamo davvero sul precipizio, ci siamo fermati e siamo riusciti a contenere una situazione e impostare un piano di riforma» però «c'è ancora moltissimo da fare» quindi «sospendo il giudizio». Decisivi saranno i prossimi atti del governo.

il Fatto 4.1.12
16 mila euro al mese “E allora?”
Il pool di esperti: ecco gli stipendi degli onorevoli
Ma le Camere non ci stanno: “Sotto media Ue”
di Eduardo Di Blasi

La premessa è questa: “La Commissione considera i dati contenuti nella presente relazione del tutto provvisori e di qualità insufficiente per una loro utilizzazione ai fini indicati dalla legge”. È l’epitaffio che il pool di esperti che a luglio scorso ha avuto il compito di vigilare sul “livellamento retributivo Italia-Europa”, presieduto dal numero uno del-l’Istat Enrico Giovannini, mette in calce al proprio studio comparativo sugli stipendi di eletti, nominati e dipendenti degli apparati pubblici in Italia e nel resto d’Europa. I cinque “esperti di chiara fama” Roberto Barcellan (Eurostat), Alfonso Celotto (Ordinario di diritto costituzionale a RomaTre), Ugo Trivellato (professore di Statistica economica all’ateneo di Padova), Giovanni Valotti (ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche alla Bocconi) e Alberto Zito (ordinario di Diritto amministrativo all’università di Teramo), non sono riusciti nei cinque mesi che hanno avuto a disposizione a fornire dati adeguati alla richiesta ricevuta dal governo.
Si sono riuniti cinque volte, due a settembre, una a ottobre, novembre e dicembre, hanno chiesto delucidazioni alla Presidenza del Consiglio sui criteri tecnici da adottare, hanno chiamato le ambasciate di mezza Europa in cerca di dati certi, e niente. Avranno tempo fino al 31 marzo per mettere mano a una materia complessa di organi elettivi, agenzie, autorità e commissioni per trovarne affinità e divergenze tra noi e il resto d’Europa.
GLI UNICI DATI per adesso messi nero su bianco dalla Commissione Giovannini sono peraltro già noti all’Ufficio Studi della Camera e ci spiegano che i deputati e i senatori italiani hanno un’indennità lorda più elevata rispetto ai colleghi francesi, tedeschi, spagnoli, belgi, austriaci e olandesi e godono di alcuni benefit sconosciuti al resto delle Camere continentali.
Tra questi c’è la libera circolazione ferroviaria, autostradale, marittima e aerea, di cui dispongono solo i deputati e i senatori del Belgio, che però possono contare su un’indennità di 7.374 euro (uguale per Camera e Senato) e un forfati di 1.892 euro, contro gli oltre 16mila euro del parlamentare di casa nostra.
Un’altra diversità è data dal contributo per i collaboratori parlamentari (in Italia ammonta a 3690 euro al mese per Montecitorio e a 4180 euro per Palazzo Madama), che in Italia è versato direttamente al parlamentare, finendo a volte per diventare un’ulteriore voce di reddito (o una sacca di lavoro nero).
In Belgio, Austria e Germania questi collaboratori sono pagati direttamente dal Parlamento. In Francia, i 9.138 euro lordi (alla Camera) e i 7.548 euro lordi (al Senato), stanziati per questa funzione sono una “linea di credito” che va restituita se non se ne usufruisce (anche qui il rapporto di lavoro è gestito dal Parlamento). C’è poi la partita dei vitalizi, per cui, fino all’ultima modifica varata dagli uffici di presidenza di Camera e Senato, l’Italia vinceva a mani basse (il vitalizio nostrano era quattro volte quello francese, mentre in Spagna finiva per essere una specie di pensione integrativa di modesta entità). Sempre in Francia, poi, al posto della dia-ria di 3500 euro di cui gode un deputato italiano (in Spagna la stessa ammonta a 1823,9 se si è eletti fuori Madrid e di 870,56 se eletti nella capitale), un membro del Parlamento può risiedere con tariffa agevolata a Parigi in residence di proprietà dell’Assemblea. Il Senato tedesco, a base regionale, è poi incomparabile con qualsiasi altra assemblea elettiva presa in esame.
È PROPRIO per la complessità di comparare questi dati in una media “europea” che lo stesso Giovannini certifica l’inadeguatezza della propria missione: “Ci sono molti altri aspetti da tener conto che sono differenti nei vari paesi: quindi, è impossibile fare una media europea”. La legge, insomma, è scritta male. E le variabili di cui tener conto sono difficili da ponderare.
La vicenda è anche più complicata se si pensa che le decisioni sulle retribuzioni di Camera e Senato debbono prenderle Camera e Senato. E se il presidente dell’assemblea di Palazzo Madama lamenta di non aver ricevuto alcunchè dalla Commissione, la Camera dei deputati si premura di affermare che “secondo dati elaborati dalla Camera”, l’indennità dei nostri parlamentari, al netto delle tasse, “è di circa 5000 euro contro i 5030 della Francia, i 5100 della Germania e i 5400 dell’Austria. Inferiore invece nei Paesi Bassi dove l’indennità degli onorevoli si ferma a 4600 euro”. Sono questi, per Montecitorio, i dati dai quali partire. Come dire: ma questa commissione che ci sta ancora a fare?

il Fatto 4.1.12
“Pd, Attento alla scorciatoia liberista”
Cofferati: il governo sbaglia, rischio d’involuzione del quadro politico
di Giorgio Meletti

Stiamo assistendo a una pericolosa distorsione ottica. Oggi il problema del-l’Europa e dell’Italia è creare occupazione attraverso la crescita economica, non stimolare lo sviluppo con nuove regole del mercato del lavoro”. Sergio Cofferati, ex leader della Cgil e oggi europarlamentare del Pd, guarda con preoccupazione al cammino del governo Monti. “Siamo in una fase drammatica di calo dell’economia di tutti i Paesi europei, addirittura di recessione in Italia, con previsioni negative per il 2012 per la stessa Germania. E ci si perde dietro l’illusione della scorciatoia liberista”.
Di quale scorciatoia parla?
Di fronte a un dramma non più incombente ma in atto, con disoccupazione e povertà che crescono, con questo dramma che si sta consumando sotto i nostri occhi, invece di dedicare attenzione alle azioni necessarie per rovesciare la tendenza, c'’è una concentrazione carica di forzature ideologiche sui temi del mercato del lavoro. L’illusione è che flessibilizzare ciò che è già flessibile possa ridare stimolo all’economia.
Un mercato del lavoro più flessibile non incoraggia le imprese ad assumere?
Abbiamo 46 modelli di rapporto di lavoro, il mercato più flessibile del mondo. Un’impresa non assume non per la rigidità delle regole ma perché non ha bisogno di produrre. Di questo dovremmo discutere. Come si crea nuova occupazione? Con un'’antica e solida politica keynesiana, per la quale servono investimenti robusti, pubblici e privati, e incentivi ai consumi. Invece si tagliano i redditi bassi.
Si riferisce all’indicizzazione delle pensioni?
Certo. Un pensionato non ha modo di recuperare potere d’acquisto. Se gli togli la rivalutazione, il valore della pensione diminuirà anno dopo anno. Lo condanni a un calo irreversibile del tenore di vita.
Anche Massimo D'Alema ha notato che non siamo più negli anni ’70, quando c’era “un eccessivo potere sindacale”.
Ho ricordi diversi. Negli anni ’70 il sindacato aveva problemi enormi, c’era la crisi petrolifera, il ridimensionamento irreversibile di chimica e siderurgia con migliaia e migliaia di persone espulse dal lavoro, fu una fase difficilissima. Inventammo la cassa integrazione e i prepensionamenti come strumenti di difesa transitoria del lavoro, che però esisteva. Il primo accordo sui prepensionamenti l’ho firmato anche io, alla Pirelli nel 1973. La prima cassa integrazione straordinaria l’abbiamo fatta nello stesso anno per la Montefibre. Erano strumenti per un sistema produttivo che non c’è più, oggi il mondo del lavoro è più frammentato. Servono strategie nuove, ma questo governo non mostra nemmeno un barlume.
Che cosa proporrebbe?
L’Europa ha cominciato a indicare strumenti. Gli eurobond aiuterebbero i Paesi in difficoltà, ma aiuterebbero anche la capacità di investire. La Tobin Tax, sulle transazioni finanziarie, genererebbe risorse. E non capisco perché non si faccia una patrimoniale da destinare esclusivamente agli investimenti pubblici, fondamentali per trainare gli investimenti privati.
Queste posizioni vengono stigmatizzate come “arroccamento”. Non c’è un problema politico?
Sì, c’è un problema politico. Se la priorità è lo sviluppo ci vogliono risorse, decidiamo dove prenderle. La Tobin Tax è efficace se applicata in tutti i Paesi europei, perché l’Italia non si batte in Europa per adottarla? La patrimoniale è invece questione nazionale: facciamola.
Il Pd non sembra su queste posizioni.
Il Pd dovrebbe fare questa scelta. Sennò si torna a una discussione vecchia sul mercato del lavoro in una situazione storica nuova che rende addirittura paradossale la discussione stessa. Finiamo per dare un messaggio negativo rispetto alle aspettative di aiuto sulla tutela del reddito e sulla ricerca del lavoro. Dovremmo invece iniziare a discutere seriamente sull’ammortizzatore totale, il reddito minimo di cittadinanza.
Su questi temi la discussione anche dentro il Pd non sembra molto accesa.
La discussione c’è, basta vedere come è stato preso di mira dall’interno il responsabile economico Stefano Fassina. Ma ricordo che pochi mesi fa il Pd ha fatto a Genova una conferenza nazionale sul lavoro, e nei documenti conclusivi c’erano scritte cose molto lontane da quelle che annuncia il governo.
Che però oggi non sono al centro dell’agenda politica.
No. E vedere un governo che apre la disputa sul mercato del lavoro fa un po’ impressione. Ripeto, l’illusione è che con il liberismo si rimette in moto il meccanismo incontrando meno resistenza. E invece credo che le resistenze saranno molto forti, e comunque non si rimette in moto nulla. Immagino che ci sarà un problema politico.
Vuol dire che il cammino del governo Monti è in pericolo?
La cruna dell’ago è stretta stretta, le forze politiche hanno imboccato un cammino difficile, ci sono cose che non possono fare a dispetto delle sacrosante ragioni delle persone che rappresentano. Qui non si parla di privilegi, la cosa è pesante e ruvida, si chiama lavoro, o ce l’hai o non ce l’hai. Gli ammortizzatori o ce li hai o non ce li hai. Il passaggio chiave è che se il governo punta solo al mercato del lavoro il rischio di involuzione del quadro politico è altissimo.

Corriere della Sera 4.1.12
Imbarazzo nel Pd che vuole contare: ha tre posizioni
di Maria Teresa Meli

La linea di Ichino e quella degli ex ppi Il nodo della sinistra, forte nell'apparato
ROMA — Il Pd è pronto ad affrontare la riforma del mercato del lavoro. «Con atteggiamento costruttivo», puntualizza Stefano Fassina. «Non abbiamo paura di misurarci con questo tema: abbiamo una nostra proposta complessiva in materia e vogliamo discuterne con il governo», spiega Bersani, che l'altro ieri ha parlato con Monti.
Già, questa volta il Partito democratico non vuole che si vada avanti, come è stato per la manovra, con quella che qualcuno, a Largo del Nazareno, ha ribattezzato la «politica dell'aggiungi un posto a tavola». Il Pd, infatti, non intende essere chiamato all'ultimo momento, per una breve consultazione e un altrettanto rapido braccio di ferro: il governo deve confrontarsi con le parti sociali, ma anche con le forze politiche che lo sostengono. Dopodiché il segretario è ben conscio di non poter ottenere tutto quello che chiede: «Monti però deve sapere che se ci sono dei punti che noi non condividiamo lo spiegheremo al nostro elettorato. Pur sostenendo con responsabilità l'azione del governo, non rinunceremo alle nostre idee e alle nostre critiche».
Una sottolineatura doverosa, quella di Bersani. Del resto, oltre alle pressioni della Cgil, il Pd deve fare fronte anche all'ascesa delle forze alla sua sinistra. L'occhio è rivolto sopratutto al Movimento 5 stelle di Grillo che, secondo i sondaggi, ha superato quota 4 per cento. Il Partito democratico non vuole «metterci la faccia», ma ha capito che, comunque, nel bene e nel male, le decisioni di Monti avranno ripercussioni sulle forze della maggioranza, perciò meglio mettere dei paletti e non rimanere alla finestra. Avverte Fioroni: «Il governo non può pensare di fare a meno della politica e delle parti sociali. Io sono contrario alle trattative infinite, però non si può pensare di saltare certi passaggi, perché alla fine è il governo che rischia di farsi male». Per questa ragione a Fioroni non piace la decisione del ministro Fornero di incontrare i sindacati separatamente: «Mi sembra una logica alla Orazi e Curiazi». Qualche perplessità sull'atteggiamento della titolare del Welfare sembra averla anche Fassina: «È un bene che si sia chiarito subito che la riforma dell'articolo 18 è fuori dal tavolo, però sarebbe utile anche evitare certe provocazioni: renderebbe meno complicato il confronto».
Ma quello che si appresta ad affrontare un tema così delicato come la riforma del lavoro è un partito unito, o come da tradizione, diviso? In realtà le posizioni sono tre. C'è quella più rigida della Cgil e dell'ala sinistra del Pd, minoritaria nei gruppi parlamentari, maggioritaria nell'apparato del partito. C'è la posizione Ichino, sposata dai veltroniani, forte tra i deputati, maggioritaria tra i senatori. E, infine, ci sono gli ex cislini e gli ex ppi che sostengono una variante della posizione Ichino, quella proposta da Tito Boeri, che chiude ai licenziamenti. Alla fine il Pd adotterà un mix di queste due linee (Ichino e Boeri), ossia assumerà un'impostazione molto simile a quella di Fornero. Il che significa che la posizione della Cgil è destinata a finire in minoranza. Ma al Partito democratico sperano che il sindacato decida alla fine di fare buon viso a cattivo gioco.

il Riformista 4.1.12
Il Fatto di Landini
Se il capo della Fiom è in stato confusionale
di Emanuele Macaluso

In attesa dell’incontro tra governo e sindacati i giornali dedicano articoli, inchieste e interviste ai problemi del lavoro di cui aveva parlato anche il presidente della Repubblica nel suo discorso di San Silvestro. Anche noi ieri abbiamo dedicato l’editoriale a questo tema che consideriamo centrale non solo per i lavoratori, ma per il Paese. Tema ripreso anche dal Fatto quotidiano con un’intervista a Maurizio Landini, pilotata dal giornalista, per indirizzarla contro le cose dette dal presidente della Repubblica. Non stupisce quel che dice Giorgio Meletti dato che il giornale di Padellaro e Travaglio ha scelto da tempo come bersaglio il capo dello Stato. Stupiscono, invece, certe risposte di Landini, il quale dirige la Fiom, una grande organizzazione che può vantare una storia straordinaria nella complessa storia del movimento operaio italiano. Landini non è il “mostro” descritto da alcuni giornali, è un dirigente sindacale eletto dai lavoratori con posizioni politiche, non solo personali, che vanno discusse con argomentazione e rigore e anche con fermezza politica. Senza indulgenze e senza demonizzazioni. Discutiamo, infatti, con un pezzo importante del movimento dei lavoratori.
La prima osservazione che faccio, attiene al rigore politico-culturale. Dice Landini: «Negli anni Cinquanta dovevi avere un impiego per alzarti oltre la soglia della povertà, oggi puoi essere povero anche lavorando. In quei tempi richiamati come esempio di eroica povertà la situazione sociale era meno drammatica».
Come si fa a dire che negli anni Cinquanta la situazione sociale era meno drammatica di oggi? Nella città di Landini, Reggio Emilia, la lotta contro la chiusura delle Reg-
giane si concluse con cinque operai fucilati. In quegli anni non c’era cassa integrazione, c’era solo la disoccupazione.
Nel Sud furono uccisi braccianti e contadini che lottavano per il lavoro e la terra e, dopo quel gran movimento, l’Italia conobbe un’emigrazione biblica, dal Sud al Nord d’Italia e verso l’Europa. Nessuno dubita, almeno lo spero, che oggi in Italia si presenti un’inedita e grave questione sociale che mette in discussione il lavoro e il domani dei giovani. Ma dire, come fa Landini, che la situazione negli anni Cinquanta era meno drammatica di oggi, significa non avere una visione storica dei problemi di oggi e di ieri. Su ogni domanda “trappola” del giornalista e su ogni risposta potrei fare obiezioni serie. Ne prendo una. Meletti chiede: «Per Napolitano c’è l’esigenza pressante di aumento della produttività del lavoro».
Risposta di Landini: «Basta che non pensi anche lui ad aumentare la produttività con più sfruttamento, cioè lavorare di più a parità di salario». Un modo ipocrita per dire: ecco quel che pensa!
Infine, l’ingenuo Meletti chiede: «Il discorso di Capodanno di Napolitano è anche un’operazione politica?» Risposta: «Non mi sfugge. E pone un problema politico: i referendum di giugno scorso e le elezioni amministrative hanno posto una domanda di cambiamento a cui la politica non ha risposto. È un errore. La democrazia non è pericolosa». Traduco: quel che, a suo avviso, non hanno fatto le forze politiche, doveva farlo il presidente della Repubblica.
La democrazia non è pericolosa, ma lo stato confusionale del capo di un grande sindacato può esserlo.

Corriere della Sera 4.1.12
Donne e maternità, dimissioni in bianco «Stop agli abusi»
Fornero: «Il governo interverrà»
di Alessandra Arachi

ROMA — La nota è arrivata ieri, chiara e inequivocabile: «Il governo interverrà presto sulla pratica delle cosiddette "dimissioni in bianco"». L'ha firmata Elsa Fornero, ministro del Lavoro con delega alle Pari opportunità. E adesso si aspetta soltanto che il governo dalle parole passi davvero ai fatti. Ovvero che, finalmente, venga ripristinato nelle aziende quel sistema di protezione nei confronti di una pratica tanto illegale quanto barbara.
Sono stati in tanti a sollecitare il ministro Fornero sul problema delle dimissioni in bianco. Praticamente un coro, da quando si era insediata al ministero. Lettere di donne di varie estrazioni. Dichiarazioni di politici. L'appello del segretario della Cgil Susanna Camusso. E gli articoli dei giornalisti Dario Di Vico sul Corriere e Ritanna Armeni sul Foglio.
Le proteste per le dimissioni in bianco erano cominciate ben prima. C'era stata una vera e propria sollevazione quando, tre anni e mezzo fa, il governo Berlusconi aveva voluto abrogare con un decreto d'urgenza la legge che tutelava le lavoratrici dalle dimissioni in bianco. L'aveva varata nel 2007 il governo di Romano Prodi quella legge di protezione. Ma appena un anno dopo l'esecutivo di centrodestra l'aveva cancellata bollandola semplicemente come «burocratica».
In realtà quella legge del 2007 era riuscita ad arginare, se non proprio a sopprimere, quella pratica disumana delle dimissioni, riservata praticamente soltanto alle donne. Meglio: alle donne in gravidanza.
Assurda, la pratica: al momento dell'assunzione ad una lavoratrice vengono messi davanti il contratto e, contemporaneamente, un foglio per firmare, appunto, le dimissioni in bianco. Ovvero un foglio di dimissioni senza alcuna data che il datore di lavoro può perciò usare in qualsiasi momento decide di farlo.
Nella maggior parte dei casi quelle dimissioni in bianco vengono tirate fuori dal cassetto nel momento in cui la lavoratrice dichiara di essere rimasta incinta. E non è un caso che le statistiche ci parlano di oltre 800 mila donne incinte costrette ad abbandonare il posto di lavoro.
La legge del 2007 aveva stabilito una cosa molto semplice: le dimissioni volontarie sarebbero state considerate valide soltanto se compilate su appositi moduli distribuiti esclusivamente dagli uffici provinciali del lavoro e dalle amministrazioni comunali. C'era una progressione alfanumerica su quei moduli ufficiali. Una progressione che, di fatto, rendeva impossibile la compilazione al momento dell'assunzione.
Adesso Elsa Fornero sembra orientata a ripristinare qualcosa di simile. Ha detto infatti ieri: «Il ministero sta studiando i modi e i tempi di un intervento complessivo a carattere risolutivo e che, grazie anche all'uso delle tecnologie informatiche, possa garantire in caso di dimissioni la certezza dell'identità della lavoratrice, la riservatezza dei dati personali e, soprattutto, la data di rilascio e di validità della lettera di dimissioni».
Per il ministro Fornero non ci sono dubbi: «La pratica delle dimissioni in bianco pesa fortemente e negativamente sulla condizione lavorativa delle donne e sulla loro stessa dignità, costituendo una vera e propria devianza dai principi di libertà alla base della società civile». Per questo il ministro ha deciso di prendere provvedimenti: «Questo intervento comprenderà un'azione di sensibilizzazione volta a restituire piena parità e dignità al lavoro delle donne, considerato un fattore di crescita indebitamente compresso».
Soddisfazione viene espressa dal Pd, per bocca di Lucio Cafarelli, responsabile lavoro pubblico del partito, che invita il ministro a sbrigarsi. «Il fattore tempo non è irrilevante visti i dati preoccupanti sul fronte occupazionale, sapendo che nei periodi di cirsi sono le donne e i giovani a farne le spese».

Corriere della Sera 4.1.12
Stipendi, politici in difesa. Ma lo stenografo del Senato è pagato come il re di Spagna
Lo stenografo come Juan Carlos. Busta paga da 290 mila euro
A fine carriera stipendi quadruplicati. Ai commessi fino a 160 mila euro
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Può un senatore guadagnare la metà del suo barbiere di Palazzo Madama, come lamentano quei parlamentari che per ribattere ai cittadini furenti contro i mancati tagli dicono di prendere intorno ai 5 mila euro? No. Infatti non è così. Il gioco è sempre quello: citare solo l'«indennità». Senza i rimborsi, le diarie, le voci e i benefit aggiuntivi. Con i quali il «netto» in busta paga quasi quasi triplica.
Sono settimane che va avanti il tormentone. Di qua la busta paga complessiva portata in tivù dal dipietrista alla prima legislatura Francesco Barbato, che tra stipendio e diarie e soldi da girare al portaborse ha mostrato di avere oltre 12.000 euro netti al mese. Di là l'insistenza sulla sola «indennità». E la tesi che le altre voci non vanno calcolate, tanto più che diversi (230 contro 400, alla Camera) hanno fatto sul serio un contratto ai collaboratori e moltissimi girano parte dei soldi al partito. Una scelta spesso dovuta ma comunque legittima e perfino nobile: ma è giusto caricarla sul groppo dei cittadini in aggiunta ai rimborsi elettorali e alle spese per i «gruppi»? Non sarebbe più opportuno e più fruttuoso nel rapporto con l'opinione pubblica mostrare la busta paga reale, che dopo una serie di tagli è davvero più bassa di quella da 14.500 euro divulgata nel 2006 dal rifondarolo Gennaro Migliore?
Non ha molto senso, questa sfida da una parte e dall'altra centrata tutta su quanto prendono deputati e senatori. Peggio: rischia di distrarre l'attenzione, alimentando il peggiore qualunquismo, dal cuore del problema. Cioè il costo d'insieme di una politica bulimica: il costo dei 52 palazzi del Palazzo, il costo delle burocrazie, il costo degli apparati, il costo delle Regioni, delle province, di troppi enti intermedi, delle società miste, di mille altri rivoli di spesa che servono ad alimentare un sistema autoreferenziale.
Dice tutto il confronto con le buste paga distribuite, ad esempio, al Senato. Dove le professionalità di eccellenza dei dipendenti, che da sempre raccolgono elogi trasversali da tutti i senatori di destra e sinistra, neoborbonici o padani, sono state pagate fino a toccare eccessi unici al mondo. Tanto da spingere certi parlamentari (disposti ad attaccare Monti, Berlusconi, Bersani o addirittura il Papa ma mai i commessi da cui sono quotidianamente coccolati) ad ammiccare: «Siamo semmai gli unici, qui, a non essere strapagati».
Il questore leghista Paolo Franco lo dice senza tanti giri di parole: «Il contratto dei dipendenti di palazzo Madama è fenomenale. Consente progressioni di carriera inimmaginabili. Ed è evidente che contratti del genere non se ne dovranno più fare. Bisogna cambiare tutto». Come può reggere un sistema in cui uno stenografo arriva a guadagnare quanto il re di Spagna?
Sembra impossibile, ma è così. Senza il taglio del 10% imposto per tre anni da Giulio Tremonti per i redditi oltre i 150 mila euro, uno stenografo al massimo livello retributivo arriverebbe a sfiorare uno stipendio lordo di 290 mila euro. Solo 2mila meno di quanto lo Stato spagnolo dà a Juan Carlos di Borbone, 50 mila più di quanto, sempre al lordo, guadagna Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica: 239.181 euro.
Per carità, non «ruba» niente. Esattamente come Ermanna Cossio che conquistò il record mondiale delle baby-pensioni lasciando il posto da bidella a 29 anni col 94% dell'ultimo stipendio, anche quello stenografo ha diritto di dire: le regole non le ho fatte io. Giusto. Ma certo sono regole che nell'arco della carriera permettono ai dipendenti di Palazzo Madama, grazie ad assurdi automatismi, di arrivare a quadruplicare in termini reali la busta paga. E consentono oggi retribuzioni stratosferiche rispetto al resto del paese cui vengono chiesti pesanti sacrifici.
Al lordo delle tasse e dei tagli tremontiani, un commesso o un barbiere possono arrivare a 160 mila euro, un coadiutore a 192 mila, un segretario a 256 mila, un consigliere a 417mila. E non basta: allo stipendio possono aggiungere anche le indennità. Alla Camera un capo commesso ha diritto a un supplemento mensile di 652 euro lordi che salgono a 718 al Senato. Un consigliere capo servizio di Montecitorio a una integrazione di 2.101, contro i 1.762 euro del collega di palazzo Madama.
Per non dire dei livelli cosiddetti «apicali». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai rapporti col Parlamento Antonio Malaschini, quando era segretario generale del Senato, guadagnava al lordo nel 2007, secondo l'Espresso, 485 mila euro l'anno. Arricchito successivamente da un aumento di 60 mila che spappolò ogni record precedente per quella carica. Va da sé che la pensione dovrebbe essere proporzionale. E dunque, secondo le tabelle, non inferiore ai 500 mila lordi l'anno.
È uno dei nodi: retribuzioni così alte, grazie a meccanismi favorevolissimi di calcolo, si riflettono in pensioni non meno spettacolari. Basti ricordare che gli assunti prima del ‘98 possono ancora ritirarsi dal lavoro (con penalizzazioni tutto sommato accettabili) a 53 anni. Esempio? Un consigliere parlamentare di quell'età assunto a 27 anni e forte del riscatto di 4 anni di laurea ha accumulato un'anzianità contributiva teorica di 38 anni. Di conseguenza può andare in pensione con 300 mila euro lordi l'anno, pari all'85% dell'ultima retribuzione. Se poi decide di tirare avanti fino all'età di Matusalemme (che qui sono 60 anni) allora può portare a casa addirittura il 90%: più di 370 mila euro sul massimo di 417 mila.
Funziona più o meno così anche per i gradi inferiori. A 53 anni un commesso è in grado di ritirarsi dal lavoro con un assegno previdenziale di 113 mila euro l'anno che, se resta fino al 60º compleanno, può superare i 140 mila. Con un risultato paradossale: il vitalizio di un senatore che abbia accumulato il massimo dei contributi non potrà raggiungere quei livelli mai.
E tutto ciò succede ancora oggi, mentre il decreto salva Italia fa lievitare l'età pensionabile dei cittadini normali e restringere parallelamente gli assegni col passaggio al contributivo «pro rata» per tutti. Intendiamoci: sarebbe ingiusto dire che le Camere non abbiano fatto nulla. A dicembre il consiglio di presidenza del Senato, ad esempio, ha deciso che anche per i dipendenti in servizio si dovrà applicare il sistema del contributivo «pro rata».
Ma come spiega Franco, è una decisione che per diventare operativa dovrà superare lo scoglio di una trattativa fra l'amministrazione e le sigle sindacali, che a palazzo Madama sono, per meno di mille dipendenti, addirittura una decina. Il confronto non si annuncia facile. Anche nel 2008, dopo mesi di polemiche sui costi, pareva essere passato un giro di vite, sostenuto dal questore Gianni Nieddu. Ma appena cambiò la maggioranza, quella nuova non se la sentì di andare allo scontro. E tutto si arenò nei veti sindacali. Stavolta, poi, la trattativa ha contorni ancora più divertenti. Controparte dei sindacati è infatti la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, esponente della Lega Nord, partito fortemente contrario alla riforma delle pensioni e sindacalista a sua volta: è presidente, in carica, del Sinpa, il sindacato del Carroccio.
Nel frattempo, chi esce ha la strada lastricata d'oro. Il consigliere parlamentare «X» (alla larga dalle questioni personali, ma parliamo di un caso con nome e cognome) ha lasciato il Senato a luglio del 2010 a 58 anni. Da allora, finché non è entrato in vigore il contributo triennale di solidarietà per i maxi assegni previdenziali, palazzo Madama gli ha pagato una pensione di 25.500 euro lordi al mese: venticinquemilacinquecento. Per 15 mensilità l'anno. Spalmandoli sulle 13 mensilità dei cittadini comuni 29.423 euro a tagliando. Da umiliare perfino l'ex parlamentare Giuseppe Vegas, oggi presidente della Consob, che da ex funzionario del Senato, sarebbe in pensione con 20 mila. Neppure il commesso «Y», assunto a suo tempo con la terza media, si può lamentare: ritiratosi nello stesso luglio 2010, sempre a 58 anni, ha diritto (salvo tagli tremontiani) a 9.300 euro lordi al mese. Per quindici. Vale a dire che porta a casa complessivamente oltre 20mila euro in più dello stipendio massimo dei 21 collaboratori più stretti di Barak Obama.
Sono cifre che la dicono lunga su dove si annidino i privilegi di un sistema impazzito sul quale sarebbe stato doveroso intervenire «prima» (prima!) di toccare le buste paga dei pensionati Inps. I bilanci di Camera e Senato del resto parlano chiaro. Nel 2010 la retribuzione media dei 1.737 dipendenti di Montecitorio, dall'ultimo dei commessi al segretario generale, era di 131.585 euro: 3,6 volte la paga media di uno statale (36.135 euro) e 3,4 volte quella di un collega (38.952 euro) della britannica House of Commons. E parliamo, sia chiaro, di retribuzione: non di costo del lavoro. Se consideriamo anche i contributi, il costo medio di ogni dipendente della Camera schizza a 163.307 euro. Quello dei 962 dipendenti del Senato a 169.550.
E non basta ancora. Perché nel bilancio del Senato c'è anche una voce relativa al personale «non dipendente», che comprende consulenti delle commissioni e collaboratori vari, ma soprattutto gli addetti a non meglio precisate «segreterie particolari». Con una spesa che anche nel 2011, a dispetto dei tagli annunciati, è salita da 13 milioni 520 mila a 14 milioni 990 mila euro. Con un aumento, mentre il Pil pro capite affondava, del 10,87%: oltre il triplo dell'inflazione.

Corriere della Sera 4.1.12
Consiglio del Lazio, maxi ferie di 25 giorni
di Francesco Di Frischia


ROMA — Dal 23 dicembre al 18 gennaio: sono 25 i giorni di vacanze natalizie del Consiglio regionale del Lazio che ha appena varato i vitalizi per assessori esterni e consiglieri eletti nel Bilancio 2012, abolendoli però dalla prossima legislatura. La giunta Polverini, invece, tornerà al lavoro il 13 gennaio. Un messaggio sulla home page del sito del Consiglio chiarisce i dubbi: «Non ci sono impegni in agenda per i prossimi 7 giorni». Eppure di lavoro non ne dovrebbe mancare ai 71 consiglieri, compresa la presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, impegnata per le feste in una campagna di prevenzione e in un'iniziativa, «È Natale per tutti», con concerti e proiezioni di film in 20 ospedali e 12 carceri. Mario Abbruzzese (Pdl), presidente del Consiglio regionale, spiega: «Io ho ripreso ieri (il 2 gennaio ndr). C'è molto da fare...». Ma allora perché vacanze così lunghe? «Beh, si riparte dopo l'Epifania — risponde l'esponente pdl nascondendo un po' di imbarazzo —. I problemi non si risolvono con il calendario, ma con un atteggiamento responsabile. Entro gennaio voteremo tre importanti leggi: il Piano rifiuti, la tracciabilità degli alimenti e il cinema. E poi dobbiamo esaminare una legge di iniziativa popolare sempre sui rifiuti. L'agenda è molto fitta e non si poteva iniziare prima». Tornando sulle polemiche sui vitalizi, Abbruzzese ribadisce: «Ci siamo uniformati alle altre Regioni, come ha appena fatto anche la Toscana». Intanto alcune delle 20 Commissioni riprenderanno a riunirsi «già la prossima settimana — promette Abbruzzese — e l'11 gennaio si terrà la conferenza dei capigruppo. Ci sono molte proposte di legge da esaminare e sono certo che produrrà tanti risultati».

l’Unità 4.1.12
Il diktat della Polverini «O Müller o niente»
E giù proteste dal Pd
Il Festival internazionale del cinema di Roma al centro
di un’accesa polemica sulla nomina del futuro direttore
di Valeria Trigo


O Müller o lasciamo il Festival di Roma». Non poteva essere più esplicita di così Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, che ieri è intervenuta nella polemica sulla rassegna cinematografica romana, che probabilmente a giugno potrebbe avere una nuova direzione. «Solo l’ex direttore della Mostra di Venezia può garantire il rilancio» ha precisato la Polverini.
E giù proteste da tutto il Pd e non solo. «Dalla presidente Polverini ci saremmo aspettati maggiore sobrietà anche perché con i ricatti non si va molto lontano e si aggiunge danno a danno tirando ancora di più per la giacchetta il Festival del Cinema di Roma in una diatriba politica che andrebbe scongiurata» tuona Michele Meta, membro della direzione nazionale e dell’ufficio politico del Pd. E per Vincenzo Vita, vice Presidente della Commissione Cultura Senato, si tratta dell’«ennesima puntata del romanzo d’appendice messo in atto dalla destra di Roma e del Lazio, capeggiata dalla Governatrice Polverini».
«La Festa del cinema di Roma è una iniziativa molto importante per una città che da decenni ha un ruolo decisivo nella cultura cinematografica mondiale. Ma se dovesse prevalere l’idea padronale che traspare allora sarebbe meglio chiuderla». Lo dice Luigi Zanda, vicepresidente del gruppo del Pd al Senato.
E ancora più esplicito è il commento di Augusto Battaglia, consigliere provinciale del Pd: «Müller è stato “trombato” alla Mostra di Venezia perché la sua rassegna era piena di difetti e faceva acqua da tutte le parti. Ora Müller non sa più che pesci prendere e si è fatto sponsorizzare dalla peggiore destra italiana». L’idea di cultura di Renata Polverini è da MinCulPop secondo Giulia Rodano (Idv): «un’idea degna della cultura politica da cui proviene la Presidente della Regione Lazio».
Ed Enrico Gasbarra, Deputato del Pd, lancia un appello alla destra, affinché fermi questo «assurdo braccio di ferro e ritrovi il senso delle istituzioni e il rispetto per la cultura. Il sindaco e la presidente continua raccolgano il saggio appello del presidente Zingaretti affinché‚ gli enti locali affrontino questo delicato momento di crisi economica unendo le risorse per un grande progetto comune che sostenga la cultura del territorio in tutte le sue preziose e qualificate espressioni».
Sulla vicenda interviene perfino Piera Detassis, attuale direttrice del Festival Internazionale, che finora aveva scelto di tacere: «Mi pare che questo caso ponga un problema molto più vasto di Detassis o Müller. A me sembra che ormai quella che stiamo vivendo sia una campagna elettorale, una vicenda politica».
Intanto Renata Polverini replica: «Non è una questione di aut-aut dice noi abbiamo il dovere di partecipare ad un evento nel quale la Regione investe risorse». E il sindaco di Roma Gianni Alemanno rassicura che nel corso della prossima assemblea dei soci si cercherà di fare un confronto sereno sulle prospettive del Festival di Roma.

il Fatto 4.1.12
Passera-partout per morire democristiani
di Fabrizio d’Esposito


Dopo Re Giorgio (Napolitano), uomo dell’anno appena finito, per il 2012 ecco pronto il Passera-partout della Terza Repubblica. Da quando è iniziata la nuova era della sobrietà di Mario Monti, il super-ministro che si occupa di Sviluppo economico, Infrastrutture e Trasporti è il “tecnico” più politico e più corteggiato dai partiti. Soprattutto da quelli che devono ancora nascere.
In attesa delle prossime elezioni politiche, anticipate o no, il 2012 rischia di essere l’anno della profezia democristiana, non maya, del fu Mariano Rumor, l’inventore del doroteismo: “Noi democristiani siamo come la foresta amazzonica: più ne tagli e ne bruci, più cresce rigogliosa”. Disboscati da Tangentopoli, soppiantati dal Cavaliere (sempre considerato un usurpatore dai nostalgici dello Scudocrociato), i neodemocristiani stanno ritornando. Il loro orizzonte è un blob centrista e moderato che si espande, appunto, attorno al banchiere Corrado Passera, classe ’54. È lui l’uomo del momento.
Il governo Monti e il sub-governo Passera, il ministro più potente e influente dell’esecutivo (nonché portatore di vari conflitti d’interesse), hanno d’improvviso invecchiato il paesaggio politico. Berlusconi, Alfano, Bossi, Scilipoti ma anche Bersani, Di Pietro e Vendola sono la foto di gruppo di un bipolarismo ingiallito in poco più di due mesi. Gli scenari del futuro passano altrove e la prova del nove del “centrone” che verrà è l’inquietante ambivalenza di Passera, indicato come possibile candidato-premier sia del centrosinistra sia del centro-destra. Sempre che rimanga in vita il bipolarismo, possibilmente mite come desidera il capo dello Stato. Tutto dipende dalla riforma della legge elettorale, se mai si voterà con una diversa dal Porcellum.
Il regista della traversata dc nell’ultimo scorcio del ventennio berlusconiano è il leader terzopolista dell’Udc Pier Ferdinando Casini, il sostenitore più entusiasta del governo tecnico di Monti. Casini però ha in testa uno schema proporzionalista e vorrebbe fare del suo partito la nuova arca di Noè dei neodemocristiani. Chissà se la Cei del cardinale Bagnasco la pensa allo stesso modo. Forse no. Ed è per questo che il capo centrista, già geloso di Luca di Montezemolo (altro protagonista del 2012?), adesso sarebbe preoccupato dalla popolarità di Passera. In ogni caso il pattuglione moderato, democristiano e riformista avanza compatto su tre fronti, con l’aggiunta della Cisl di Raffaele Bonanni. Il Terzo Polo di Casini, Fini e Rutelli potrebbe imbarcare da subito quattro ministri montiani di peso: i cattolici Ornaghi e Riccardi, le donne Severino e Cancellieri. Nel Pdl ci sono Alfano, Pisanu, Scajola con l’incognita cruciale del padrone B. : vuole o no le elezioni anticipate? Si fida o no delle presunte promesse di Passera sulla “roba” di Fininvest?
Nel Pd, infine, scalpitano nella direzione del centro Enrico Letta e Dario Franceschini, Beppe Fioroni e Walter Veltroni. In pratica, il blob neodc, nel paesaggio della Terza Repubblica, potrebbe ridurre a due piccole spiagge la destra e la sinistra. Questo in teoria. Perché poi la “pratica” del governo Monti potrebbe anche ribaltare scenari e previsioni. Soprattutto se in primavera dovesse varare una nuova manovra che oggi viene negata e smentita a più riprese. Pdl e Pd reggeranno ancora il peso parlamentare di questo governo, tra liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro? Senza dimenticare la sentenza, attesa a breve, della Corte costituzionale sul referendum per la legge elettorale. Ma su tutto e su tutti aleggia l’interrogativo principe del 2012: l’era di Silvio Berlusconi è davvero finita? O ci sarà ancora un ultimo, fatale colpo di coda in quest’anno decisivo per il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica?

l’Unità 4.1.12
Tagli alle spese militari: iniziamo con gli F-35 da 15 miliardi di euro
I contratti d’acquisto dei 131 cacciabombardieri di ultima generazione vanno rivisti Non si tratta solo di risparmiare denaro pubblico. Va ripensato il modello di difesa, eliminando inefficienze e storture. La sola prospettiva seria è l’integrazione europea
di Umberto De Giovannangeli


Non è solo questione di risparmiare in una situazione di crisi. La sfida è un’altra e ben più ambiziosa: tagliare per rendere più efficiente, funzionale, produttivo il nostro sistema di Difesa. Ridurre le spese militari non significa sottrarsi ad impegni assunti dall’Italia in organismi sovranazionali, dall’Onu alla Nato, ma orientare gli investimenti, razionalizzandoli, operando di «forbice» e non di «mannaia». A partire dalla vicenda al centro da giorni di un acceso dibattito politico: l’acquisto da parte del nostro Paese di 131 caccia bombardieri F35. L'Italia dovrebbe iniziare ad acquistare i primi quattro aerei quest'anno. Gli altri, entro il 2023. La spesa totale aggiornata è di almeno 15 miliardi di euro considerando che per i progetti aeronautici, i costi maggiori si hanno proprio per il mantenimento e la gestione dei mezzi aerei. I velivoli dovranno essere consegnati due anni dopo la firma del contratto d'acquisto. In termini monetari, ciò si traduce in un costo annuo medio per l'Italia di 1.250 milioni. Dal 2012 al 2023, infatti, la spesa va dai 460 ai 1.495 milioni di euro all'anno.
Una spesa eccessiva, un investimento da rimodulare e non solo perché siamo in una situazione di crisi. Ridurre, non azzerare. Senza che questo comporti una «diminutio» italiana nel sistema politico-militare internazionale e senza che una sospensione comporti una penale. Parlamentari e analisti ascoltati da l’Unità concordano sul fatto che 131 caccia non servono e che è ragionevole una riduzione degli acquisti a 40-50. Ciò porta con sé la necessità di aprire un tavolo con i nostri partner internazionali e riflettere, in quell’ambito, se quel proramma ha davvero un futuro e, se sì, quale. Nessun obbligo, dunque, tanto più che anche Stati Uniti e Gran Bretagna stanno procedendo al rallentamento del programma F35, con riduzione di ordini e ripensamenti graduali.
Un ripensamento strategico che non riguarda solo Washington e Londra. Norvegia, Canada, Australia e Turchia hanno di recente messo in discussione la loro partecipazione al programma, in qualche caso arrivando a una vera e propria sospensione, mentre in Olanda la Corte dei conti ha aperto un dossier sull’argomento.
Ma il dossier che l’Italia dovrebbe aprire al più presto è più ampio e ambizioso, investendo il complesso delle nostre spese militari con una visione strategica e non ragionieristica. Una necessità che non sembra sfuggire al ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola: «Oggi lo strumento militare, così come è strutturato, non è più sostenibile. Questa è la realtà. E la realtà, oggi, impone una revisione dello strumento per conservare ciò che più conta, la sua operatività e la sua efficacia..»: così Di Paola nel tradizionale messaggio di fine anno rivolto al personale, civile e militare, della Difesa. Revisione dello strumento militare significa, ad esempio, riflettere sulla dimensione dei nostri investimenti in armamenti. Non ci sono solo gli F35, ma l'ultima trance del programma per i caccia Eurofighter (5 miliardi); l'acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi); l' acquisto di 100 nuovi elicotteri NH-90 (4 miliardi); l'acquisto di 10 fregate Fremm (5 miliardi); 2 sommergibili militari (1 miliardo); il programma per i sistemi digitali dell'Esercito che costerà alla fine oltre 12 miliardi di euro. Un ripensamento che deve riguardare anche la dimensione quantitativa delle nostre Forze Armate.
Questi i dati: le Forze Armate italiane contano complessivamente 178.600 unità (Esercito 104.000; Marina 32.300; Aeronautica 42.300). La Gran Bretagna conta, compessivamente, 177.00 unità in divisa; la Germania 152.000; la Spagna, 135.000; l’Olanda 44.700; il Canada, 41.800. Molti analisti, non certo tacciabili di veteropacifismo, considerano l’organico delle nostre Forze Armate eccessivo, non giustificabile dal nostro impegno in missioni all’estero né funzionale ad una visione più dinamica, e integrata, di un moderno ed efficiente sistema di difesa.
La riduzione ipotizzabile è di 30-40mila unità. Ma l’anomalia italiana, in questo campo, investe un dato che non ha eguali tra i Paesi europei a noi dimensionabili, e anche oltre: il rapporto tra stipendi del personale e bilancio complessivo della Difesa. Il bilancio 2011 della Difesa prevede 14 miliardi di euro. Anche considerando i fondi per le missioni si arriva a 15,5 miliardi di euro. E di questo totale ben 9,5 miliardi sono destinati al personale: oltre i due terzi del bilancio. La spesa per il personale invece di diminuire è aumentata di quasi l’1%: un incremento che non risponde di certo a criteri di «buona amministrazione».
Quanto alla «dieta» declamata dal Governo Berlusconi-Tremonti-La Russa, rimarca generale Leonardo Tricarico (ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e socio della Fondazione Icsa), i tagli non hanno abolito gli sprechi ma hanno inciso «sugli stanziamenti per l’esercizio, ossia addestramento, manutenzione e infrastrutture»: insomma, un disatro.
Riflette in proposito Andrea Nativi, curatore del Rapporto Difesa 2011 della Fondazione Icsa: «La situazione della Difesa italiana è sempre più precaria perché si continua a rimandare quell’intervento complessivo di razionalizzazione che tutti i partner stanno realizzando o hanno già realizzato...». L’Italia ha perso tempo prezioso. E il costo del «non decidere», rileva sempre Nativi, «è elevato perché si continuano a sprecare soldi mantenendo una struttura inadeguata e perché i partner si stanno muovendo». Rischiamo di rimanere gli unici a non aver dato mano alla ristrutturazione delle Forze Armate. Un ben triste primato. Triste e costoso.

l’Unità 4.1.12
L’Anpi contro Alemanno: «No a una via per Almirante»
L’associazione dei partigiani chiede al prefetto di Roma di vietare la manifestazione «fascista» per ricordare i morti di Acca Larentia. Sabato sette gennaio confluirà a Roma tutta l’estrema destra italiana.
di Pino Stoppon


Il passato nero del sindaco di Roma Gianni Alemanno non smette di tormentare la politica capitolina. Dopo gli episodi raccontati da L’Unità del console Mario Vattani, per un periodo «ministro degli esteri» della città, beccato a inneggiare all’antisemitismo e la realizzazione di un monumento a piazza Vescovio dedicato all’attivista di destra Francesco Cecchin, l’ex ministro delle Politiche agricole deve fare i conti con due altre grane: la richiesta di una via dedicata a Giorgio Almirante e la manifestazione «fascista» per ricordare gli omicidi di Acca Larentia.
A gettare il sasso nello stagno è stata ieri l’Anpi. In una nota l’associazione dei partigiani ha ricordato come «la manifestazione organizzata il 7 gennaio a Roma dai gruppi neofascisti romani e nazionali, in occasione dell’anniversario degli omicidi di Acca Larentia (1978), mette a forte rischio la sicurezza della capitale, rischiando di alimentare l’odio politico e di trasformarsi in un evento mediatico di apologia del fascismo e dell’antisemitismo».
Secondo l’associazione «gli organizzatori, infatti, sono stati protagonisti negli ultimi mesi di gravi episodi di violenza politica e razzista, dalle aggressioni ai militanti del Pd alle minacce agli esponenti della Comunità Ebraica romana. L’Anpi Roma Lazio pur condannando ogni forma di violenza politica, da qualsiasi parte essa venga e contro chiunque sia esercitata chiede pertanto al Prefetto di Roma di vietare la manifestazione».
Il sette gennaio del 1978, davanti alla sede dell’Msi di via Acca Larentia, quartiere Tuscolano, furono assassinati a colpi di mitra due militanti dell'Msi da una moto in corsa. Nelle ore successive scoppiarono furibondi scontri tra neofascisti e forze dell'ordine durante i quali un terzo giovane missino fu ucciso da un proiettile sparato da un poliziotto. I colpevoli non furono mai scoperti. Le indagini però rivelarono come a sparare fu lo stessa mitraglietta Skorpion usata dalle Brigate rosse, per altri omicidi. Da quel momento Acca Larentia per la destra radicale italiana non è una sede politica ma un vero e proprio sacrario dedicato ai martiri del neofascismo.
Quest’anno è previsto un corteo e un presente che vedrà partecipare utte le organizzazioni di estrema destra italiane dalle più giovani come Casa Pound, a quelle più consolidate come Forza Nuova, assieme ai «vecchi camerati» di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo. Se Acca Larentia rappresenta una pagina buia della storia della città di Roma, questa non può essere una giustificazione per far tollerare alla città di Roma una sfilata di saluti romani e croci celtiche.
RAZZISTA
Da qui la nota dell’Anpi. Che ha anche inviatato il sindaco anche di ritirare la proposta di intitolare una strada a Giorgio Almirante. «È raccapricciante a 73 anni dalla promulgazione delle Leggi Razziali fasciste che venga avanzata tale proposta. Almirante fu il segretario di redazione della rivista “La difesa della razza”, e uno dei firmatari de “Il manifesto della razza”, che aprì la strada alla legislazione razziale in Italia». Per l’Anpi non esistono dunque le condizioni per intitolargli una strada, ancor di più a Roma, città Medaglia d'Oro per la Resistenza.
Se per Fracesco Storace è «vergognosa» la posizione dell’Anpi, per il consigliere regionale del Pd Enzo Foschi «il sindaco Alemanno non è il sindaco di tutti i romani ma predilige solo una parte, quella a destra e a volte anche quella inquietante all’estrema destra». Il passato nero che torna.

l’Unità 4.1.12
Permesso di soggiorno
Tassa per gli immigrati: sbagliata e inspiegabile
di Marco Pacciotti


Parlarne in questa fase economica, nella quale si chiedono ulteriori sacrifici a tutti noi, potrebbe sembrare «sconveniente», forse impopolare. Ma la giusta richiesta di equità fatta e solo in parte recepita dal Governo Monti, proprio perché giusta va ribadita sempre e per tutti. Mi riferisco all’incredibile tassa aggiuntiva, eredità del pacchetto sicurezza Maroni, che prevede un esborso dagli 80 ai 200 euro per la richiesta o rinnovo del permesso di soggiorno e della carta di soggiorno degli immigrati. Imposta aggiuntiva poiché si somma ad altre e che trova una giustificazione nel foraggiare il fondo rimpatri e non meglio precisati costi riguardanti la sicurezza e le politiche di integrazione.
Dobbiamo dire con nettezza che riteniamo ingiusta questa ennesima tassa. In primis perché colpisce in modo discriminatorio persone in base alla loro nazionalità e non su base di reddito o di altri criteri economici comprensibili. In secondo luogo perché si tratta di donne e uomini che già largamente contribuiscono all’erario pubblico con un gettito Irpef di oltre 6 miliardi di euro, pari al 4,1% del totale e rendono i conti nel nostro sistema pensionistico più vitali con un contributo stimato dall’Inps in 7,5 miliardi di euro, pari al 12,9% dei versamenti. Ricevendo indietro servizi infinitamente inferiori. Una boccata di ossigeno importante per le nostre casse, che ci arriva da migranti che invece, come dimostrano i dati della Fondazione Leone Moressa, condividono le ristrettezze economiche degli altri italiani e percepiscono salari medi di 987 euro netti mensili, circa il 23% in meno di quelli degli italiani.
Un reddito annuo che fa dire a circa il 64% delle famiglie composte da stranieri di non essere in grado di poter affrontare ipotetiche spese impreviste di 750 euro o nel 28% dei casi di dichiarare di avere difficoltà nell’acquistare abiti. Sacrifici che li accomunano agli italiani, anche se in percentuali decisamente maggiori, ma che non gli impedisce di essere cittadini esemplari per il nostro fisco. Inspiegabile quindi questo provvedimento ideato da Maroni e Tremonti che diabolicamente persevera nell’alimentare l’idea falsa e sbagliata che i migranti stando in Italia godano di un privilegio e che questo vada ripagato attraverso l’imposizione di una simile tassa. La realtà è ben diversa e va ribadita con forza. II sistema paese e la nostra comunità, necessitano di questa «energia vitale» come la definì il Presidente Napolitano riferendosi ai ragazzi di origini straniera nati o cresciuti in Italia. Ne abbiamo bisogno per non diventare un paese vecchio, ne abbiamo bisogno per rendere più creativa e vitale la nostra cultura, ne abbiamo bisogno per la nostra economia e per il nostro sistema welfaristico. Rendersi conto di questo significa costruire un Italia più coesa e forte, cosa che tutti dovremmo desiderare.

La Stampa 4.1.12
Dal 2007 l’entrata sul mercato del lavoro senza ostacoli era possibile soltanto in alcuni settori
L’Italia apre ai lavoratori bulgari e romeni
Il governo Monti non rinnova le deroghe Ue, libera assunzione per i nuovi europei
di Grazia Longo


I settori dove le assunzioni erano già liberalizzate sono l’edilizia il lavoro domestico assistenziale e alberghiero e l’agricoltura C’erano poi deroghe per dirigenti e persone altamente qualificate
Più europeista della Germania e della Francia. L’Italia fa un balzo in avanti in materia di occupazione e integrazione europea, abolendo ogni restrizione per i lavoratori bulgari e romeni.
Finora aveva usufruito della proroga per il regime transitorio dell’accesso al mercato del lavoro dei cittadini romeni e bulgari, insieme ad altri dieci Paesi dell’Unione. Ma mentre questi - tra cui anche Austria, Regno Unito, Irlanda - hanno appena notificato a Bruxelles la loro intenzione di continuare ad applicare le deroghe, in modo parziale o totale, il Belpaese apre le porte a tutti i lavoratori. Indipendentemente dagli ambiti professionali.
La disponibilità del governo Monti è stata ratificata durante un incontro interministeriale, a metà dicembre, tra i ministeri dell’Interno, degli Esteri e del Lavoro. In questo modo si potranno stipulare i contratti di lavoro direttamente, come se si assumessero lavoratori italiani, per tutti gli ambiti professionali.
Una rivoluzione, considerato che finora ciò poteva avvenire solo per la manodopera e le professionalità più richieste, quali: agricoltura, turistico-alberghiero, domestico e di assistenza alla persona, edile, metalmeccanico, dirigenziale e altamente qualificato, stagionale. In tutti gli altri settori, invece, per l’assunzione di un romeno o bulgaro si doveva chiedere l’autorizzazione allo Sportello Unico per l’immigrazione, utilizzando l’apposito modello.
Ma ormai è acqua passata. Il nostro Paese, alla stregua di altre sedici nazioni europee (tra cui Spagna, Grecia, Svezia, Danimarca), sposa la completa liberalizzazione del lavoro subordinato. La svolta del governo, secondo fonti europee, si fonda «sulla consapevolezza dei buoni rapporti e dei buoni curriculum dei lavoratori bulgari e romeni, per cui non si è ritenuto più necessario rinnovare le deroghe».
L’ingresso di Romania e Bulgaria nell’Ue risale al 1˚ gennaio 2007, ma come per le adesioni del 1˚ maggio 2004 anche per questi Paesi gli Stati membri possono prevedere deroghe alla normative vigenti per l’accesso al lavoro subordinato dei cittadini europei. L’apertura delle porte della «Fortezza Europa» non è stata, insomma, incondizionata perché molte nazioni, Italia compresa, hanno previsto delle limitazioni alla libera circolazione dei nuovi cittadini, nel timore di una possibile «invasione» da molti paventata in vista dell’allargamento dell’Unione.
Di qui la facoltà, per gli Stati membri, di comunicare alla Commissione europea la loro decisione. Nel corso degli anni alcuni Paesi membri hanno eliminato le deroghe, mentre altri hanno introdotto sistemi di ingresso parzialmente «liberi».
La recente notifica alla Commissione europea è scaduta lo scorso 31 dicembre. Questa, tra l’altro, dovrebbe essere l’ultima proroga del regime transitorio in quanto il trattato di adesione di Bulgaria e Romania all’Ue prevede che gli Stati membri possano disporre restrizioni per un periodo massimo di cinque anni a partire dal gennaio 2007. Salvo che il Paese giustifichi un’ulteriore dilazione biennale a causa di forti squilibri all’interno del mercato del lavoro nazionale. Problema che ormai l’Italia, sempre più in chiave europeista, non si porrà più.

l’Unità 4.1.12
In piazza. Centomila a Budapest contro la nuova Costituzione voluta dal premier Orban
Divieti. Stretta sulla libera informazione, stravolto il ruolo della Banca centrale, limitazioni ai diritti
Ungheria, fa paura all’Europa la svolta ultra-nazionalista
«È il declino della democrazia, una nuova dittatura», denunciano i maggiori intellettuali ungheresi. Bruxelles e Fmi bloccano i negoziati con Budapest. E qualcuno pensa che il Paese possa venire espulso dalla Ue
di Roberto Brunelli


Umorismo magiaro, lo chiamano. «Hey Europa, scusaci per il nostro primo ministro» c’era scritto su uno dei cartelli dei manifestanti che sfilavano lunedì sera per le strade di Budapest. Settantamila, secondo la polizia, centomila per gli organizzatori: cifre comunque inedite in Ungheria, che la dicono lunga sulla profonda inquietudine che ormai attanaglia il Paese, nel quale finora le mobilitazioni muovevano poche centinaia di persone. Questa volta è diverso. Davanti all Teatro dell’Opera c’erano i militanti i partiti della sinistra, certo, ma anche gli ambientalisti, i movimenti della società civile, cittadini comuni. Turbati, oltreché infuriati, per la radicale svolta fieramente reazionaria del governo guidato da Viktor Orban. Una svolta che preoccupa non solo Bruxelles, ma anche Parigi, Washington, l’Fmi. Una svolta cupa e piena di ombre, che fa dire ad un diplomatico di lungo corso, come l’ex ambasciatore americano Mark Palmer, che «l’espulsione dell’Ungheria dalla Ue oggi non è più una prospettiva impensabile».
Sotto accusa c’è la nuova Costituzione, fatta approvare dal premier con un colpo di mano ed entrata in vigore il primo gennaio. Un testo che «distrugge lo Stato democratico», come denuncia in una durissima lettera-appello un gruppo di ex dissidenti ungheresi. Gente che se ne intende di repressione e di Stati totalitari, visto che tra loro figurano storici come Janos Kenedi, scrittori come Gyorgy Konrad e attivisti per i diritti umani come Miklos Haraszti, gente che tra il 1956 e il 1989 non esitò ad opporsi apertamente ai governi comunisti dell’epoca e che oggi non esita a parlare di «declino della democrazia» e di «avvento della dittatura». L’accusa della piazza e degli intellettuali, la preoccupazione delle istituzioni europee ed internazionali, è che Orban abbia preparato il terreno per «rimuovere pesi e contrappesi democratici e di perseguire la sistematica chiusura delle istituzioni indipendenti». Con i numeri di cui dispone, il premier ha potuto agevolmente cucirsi addosso una legge fondamentale su misura: duramente criticata anche dal segretario di Stato Usa Hillary Clinton, la nuova Costituzione non solo rispolvera concetti cari al nazionalismo magiaro, come la Corona di Santo Stefano, ma si scatena su ogni aspetto della vita civile e pubblica. Dal divieto del matrimonio gay al giro di vite sul pluralismo dell’informazione, fino all’indipendenza del sistema giudiziario: il tutto nel nome di Dio, come spesso capita in questi casi.
CONTROLLO TOTALE
Con il suo partito, Fidesz, l’autoritario primo ministro occupa i due terzi dei seggi parlamentari. Una forza che gli ha permesso di stravolgere anche il ruolo dell’autorità monetaria. Nel penultimo giorno del 2011, con apposita legge, Orban ha de facto sottomesso la Banca centrale ungherese al potere politico. La nuova norma fonde l’istituto di emissione del fiorino con l’autorità di controllo finanziario (Pszf), esautorando così il governatore Andras Simor, notoriamente sgradito a Orban, e arriva sinanche a metter mano ai meccanismi che determinano i tassi d’interesse.
L’Europa è in grave ambasce per quello che ogni giorni di più si profila come il «caso Ungheria». Bruxelles, attraverso il portavoce della Commissione Olivier Bailly («siamo molto preoccupati»), fa sapere che si riserva di analizzare i testi costituzionali per verificare la loro compatibilità con il diritto europeo. Bailly ricorda anche che a dicembre Ue e Fmi hanno interrotto i negoziati preliminari sulla richiesta di aiuti finanziari (15-20 miliardi) avanzata da Budapest e che «ancora non è stata decisa» una data per l’avvio delle trattative formali, previste per gennaio. E a Orban che ha dichiara di non ritenere «cruciali» tali negoziati, l’Unione europea ribatte che la modifica dello statuto della Banca centrale è ritenuta una possibile «violazione dell’articolo 130 dei Trattati». Lo stesso presidente Barroso pare abbia «più volte» esercitato pressioni su Viktor Orban: senza alcun effetto visibile. Anche il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, lancia l’allarme: «A Budapest c’è un problema oggi». Parigi chiede l’intervento della Commissione europea «nel rispetto del bene comune di tutti i Paesi europei e dei grandi valori democratici». Il sospetto è che sia troppo tardi.

il Fatto 4.1.12
Giorgio Pressburger. La svolta a destra dell’Ungheria
“Fermiamo questi zombi xenofobi e razzisti”
di Elisabetta Reguitti


Nessuno può permettersi di considerare marginale quello che sta accadendo in Ungheria”. Lo scrittore e regista Giorgio Pressburger parla nella giornata in cui l’Ue annuncia di voler verificare la compatibilità della nuova Costituzione con il diritto europeo. Contro la Carta, decine di migliaia di ungheresi sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del premier conservatore Viktor Orbán.
Professore chi sono gli “zombi” ungheresi?
È l’immagine delle figure che tornano dal passato più nero dell’Ungheria che agitano i sentimenti nazionalisti, xenofobi e razzisti. Intendo le squadracce che ricordano molto quelle fasciste. Gli obiettivi punitivi sono le popolazioni Rom ma un servizio di questo genere può essere utilizzato anche per altro, soprattutto in un clima di deriva autoritaria come questo.
Cosa è davvero cambiato nella Repubblica ungherese?
Che hanno tolto “Repubblica”. Si è tornati alla denominazione originaria di Paese magiaro, un modo soft per dare un segnale forte della direzione che ha preso questo governo che sottopone tutti i mezzi di comunicazione a uno stretto controllo. L’ultima emittente radiofonica indipendente chiamata Club Rádiò sarà chiusa a febbraio. I magistrati verranno scelti e nominati dal governo. Si teme che possano essere messi in galera gli esponenti dell’ex governo ora a capo dell’opposizione, potrebbero sparire soldi pubblici. Si temono ritorsioni. Potrebbe accadere di tutto, nel silenzio assoluto perché i mezzi di comunicazione sono nelle mani del nuovo esecutivo.
Orbán ha vinto con il 60% dei voti.
Vero. Gli elettori erano troppo scontenti degli ultimi anni di governo di sinistra. Ha pesato molto la profonda crisi economica. L’Ungheria non ha materie prime o risorse naturali, ha solo cervelli e intellettuali che verranno messi nella condizione di non potersi esprimere. Penso a una filosofa come Ágnes Heller che ha sempre lottato contro la deriva antisemita e che ora verrà oscurata. Poi c’è il partito Jobbik (terza forza politica), gli stessi che accusarono i rom di essere i responsabili della riduzione del livello di vita degli ungheresi in questo periodo di crisi.
L’altra sera a migliaia sono scesi in piazza per protestare.
Cinque mesi fa quando sono tornato a Budapest ho sentito abulia tra le persone. L’abulia è un brutto stato d’animo e se aggiungiamo che le notizie sono molto filtrate mi chiedo se quello che si vuole fare sapere è esattamente ciò che avviene anche sulle manifestazioni. È fondamentale che nessuno consideri la situazione ungherese qualcosa di dissociato dagli altri paesi. L’Ungheria è l’unica nazione in tutta l’Europa centrale dove si è arrivati a tanto ma non va dimenticato che due guerre mondiali sono scoppiate in quell’area geografica.
Orbán ha annunciato che l’Ungheria potrebbe anche uscire dall’Europa.
Il Primo ministro ungherese non vede di buon occhio l’appartenenza all’Ue perché non vuole condividere le direttive con nessuno. Ma l’Europa è e rimane un’enorme potenza culturale ed è stato un miracolo che si realizzasse. Per l’Ungheria uscirne sarebbe una pazzia, un gesto di pura follia. Io non mi intendo di economia, oggi tutti parlano di economia. Io preferisco parlare delle persone che non hanno sufficienti mezzi di sostentamento. E poi io scrivo, continuo a scrivere, segnalando i pericoli e gli “zombi” che si aggirano per l’Europa.

La Stampa 4.1.12
Il morbo antico che avvelena l’Ungheria
di Bruno Ventavoli


Erano in centomila i manifestanti la scorsa notte intorno al Teatro dell’Opera, tra i palazzi e i viali più eleganti di Budapest, per protestare contro la nuova carta costituzionale voluta dal premier Orbán e votata dal solo centrodestra. Erano tanti, molti più del solito, in una società civile inebetita dalla crisi economica, ma come inutili ragazzi della via Pál combattevano per un grund ormai perso. Dentro al Teatro, con orgoglio e luminarie, il governo ha invece festeggiato l’architettura del nuovo Stato bocciato dalla comunità internazionale. Il pacchetto prevede una Banca Centrale sottomessa al potere politico (ideona bizzarra in questo momento di turbolenza finanziaria), insieme alla Corte Costituzionale e ai media (molti giornalisti dissidenti sono già stati licenziati dalla legge-bavaglio sulla stampa), i dirigenti dell’attuale partito socialista possono essere processati retrospettivamente per «crimini comunisti» prima dell’89, e tanti altri dettagli, dagli ungheresi all’estero al matrimonio etero. Il risultato è un Paese più autoritario, antimoderno, che allarma la Ue, l’America di Obama. E il fondo monetario internazionale, che ha congelato i negoziati per un maxiprestito al fiorino esanime.
Orbán, nato liberale, ma presto contaminato dal populismo, e l’estrema destra degli Jobbik, hanno portato a galla un’anima reazionaria che ha preso in contropiede l’Occidente. Chi ha letto i romanzi di Márai o Krúdy forse stenta a riconoscere nella realtà quelle atmosfere letterarie. Ma è proprio lì la chiave per capire i borborigmi fascisti della nuova Ungheria. Márai, come molti altri scrittori nati nel secolo breve, raccontava lo splendido mondo borghese della grande Budapest imperial-regia (il suo capolavoro, non a caso, è «Confessioni di un borghese»). Brillantezza intellettuale, tolleranza, quella civiltà delle buone maniere indagata da Elias, amore patriottico compensato da un naturale e brillante cosmopolitismo. Non poteva essere così, per chi era nato in case foderate da libri dove si parlavano in famiglia, correntemente, tre-quattro lingue. La borghesia era stato il motore dell’Europa moderna, ovunque. Anche in Ungheria. Ma con un problema. Lungo il Danubio, la borghesia, dopo secoli di guerre e dominazioni straniere, era nata in ritardo. E nonostante gli splendori della Belle Époque, era fragilissima.
Quando Márai scriveva, quel mondo borghese già non esisteva più, sepolto dalle macerie della prima guerra mondiale. Terrorizzato da una breve e sanguinaria rivoluzione bolscevica, poi tranquillizzata dal fascismo di Horthy, che però amava simboli, parole d’ordine, pennacchi, nazionalistici e feudali. Negli oltre quarant’anni di democrazia popolare, dal ’48 in poi, naturalmente, l’eutanasia della borghesia è proseguita.
L’economia di mercato introdotta da un giorno all’altro nell’89 ha ridato ossigeno alla classe media. Ma non è bastato. Il fiorino cagionevole ha presto spento i sogni di benessere, di rinascita, di prosperità a livelli occidentali, liberando il campo alle paure e agli orgogli nei quali l’Ungheria è vissuta per secoli, incuneata tra Occidente e Oriente. I valori della democrazia, del pluralismo, del dialogo, della diversità, sembrano superflui e accantonabili nella vita quotidiana dove è faticoso fare la spesa e pagare le bollette. Torna la tentazione del ripiegarsi su se stessi, appigliandosi all’idea di una Grande Ungheria, magari con un pizzico di ottuso vittimismo, per ciò che è successo nel corso della Storia, dalle guerre col turco, all’invasione sovietica, al trattato di pace di Trianon voluto dalla Francia che tolse alla fine della Grande Guerra due terzi del Paese.
Nei momenti di difficoltà, per antico morbo, l’Ungheria più che sentirsi parte del continente rimarca la sua fiera alterità suicida, corroborata da quella lingua dolce e altaica che nessuno in Europa capisce. Quando Orbán ha sfidato la comunità internazionale con la nuova costituzione, «Nessuno può sindacare su quel che facciamo», parlava anche in questo spirito. Le riforme, la modernità, il mercato, possono attendere. Meglio affidarsi a miti imprecisi di purezza, di sacralità della terra (che può essere comprata con quattro fiorini dagli stranieri della globalizzazione), di uomini forti al comando. Ancora una volta la classe media è stata stritolata, dalla farragine dello Stato e dall’inflazione. Ancora una volta torna la tentazione non di sconfiggere gli avversari politici, ma di cancellarli, processarli, zittirli. Ma per non perdere di nuovo i cugini ungheresi dalla famiglia europea, bisogna capire perché si sono ammalati.

Corriere della Sera 4.1.12
Da Haider al Silenzio su Orban: dov'è l'Europa?
Con Haider l'isteria del politicamente corretto Oggi dall'Europa solo una gelida indifferenza
di Pierluigi Battista


Se esistesse una Maastricht della democrazia, l'Europa dovrebbe esigere immediatamente dall'Ungheria il rispetto di quei parametri minimi di libertà
e di civiltà democratica che possano permetterle la permanenza nella famiglia europea: non esiste solo il deficit
dei bilanci statali, ma esiste anche il deficit democratico; non c'è solo l'entità debiti sovrani, ma c'è anche una sovranità popolare che non può essere mortificata.
Se l'Unione europea non fosse quella costruzione fredda e cerebrale che purtroppo è, così poco attenta ai valori profondi della propria identità culturale, potremmo assistere alla magnifica scena di una conferenza stampa con Sarkozy, la Merkel e il nostro presidente Monti in cui si manifesta solidarietà ai cittadini di Budapest che protestano contro la svolta autocratica del premier Viktor Orban. Sarebbe la scena dell'orgoglio europeo. La scena dell'orgoglio democratico. Una scena che (ancora) non c'è.
Con la sua reazione blanda o indifferente alla sterzata autoritaria dell'Ungheria, l'Europa scrive l'ennesimo capitolo della propria irrilevanza come corpo politico unito e degno di alimentare un sentimento di identificazione nei cittadini europei. Ciò che sta accadendo a Budapest lo considereremmo giustamente intollerabile a casa nostra: una nuova Costituzione liberticida, la fine virtuale della libera stampa, la riduzione della magistratura a braccio armato di un potere politico tendenzialmente dispotico, l'intimidazione delle forze d'opposizione, la soggezione della banca nazionale ai diktat del governo, un clima psicologico diffuso in cui non è nemmeno assente una certa tossicità antisemita. Troveremmo tutto questo un avvelenamento della nostra casa. Ma il guaio è che non considerammo l'Ungheria la «nostra» casa. Non sentiamo l'Europa come la «nostra» patria, legata da valori e cultura e democrazie e diritti, oltre alla moneta.
L'Europa è nata così: con una moneta, ma senza anima. Che a Budapest stiano calpestando la democrazia, non è vissuto dai vertici europei come un imbrattamento dell'anima che richieda interventi urgenti, impegni straordinari e persino la minaccia all'Ungheria di misure di espulsione dall'Europa se non fossero rispettati i canoni di una democrazia che non può essere stracciata a piacimento nel cuore del continente europeo. Spicca la dismisura tra lo spropositato allarme che il politicamente corretto europeo manifestò nei confronti del caso Haider a Vienna e la sostanziale impotenza di fronte al pericolo vero che sta minacciando la democrazie europea a Budapest. Con la Turchia, il dossier sul rispetto dei diritti umani e sull'osservanza delle regole democratiche fu gestito in modo burocratico, sciatto, procedurale, con il risultato catastrofico dell'allontanamento ritorsivo di Ankara dal modello europeo e il suo avvicinamento al fronte nemico dell'Occidente. Persino con Berlusconi, una parte della sinistra europea decise di giocare una partita politica che avesse il rispetto delle procedure democratiche come nucleo di una battaglia contro la «destra». Adesso con l'Ungheria di Orban che soffoca la democrazia, l'Europa risponde con imbarazzata reticenza, con gelida indifferenza, lasciandosi addirittura scavalcare, prima di stilare formali comunicati di dissociazione, dalla reazione decisamente più tempestiva di Hillary Clinton.
Questa freddezza è l'ultima conseguenza del modo con cui la costruzione europea si è sinora realizzata, dotandosi di una moneta comune ma senza coinvolgere l'opinione pubblica, senza rafforzare istituzioni democratiche comuni, senza dare l'impressione che la cessione di quote di sovranità nazionale potesse rappresentare un impoverimento e uno spossessamento della democrazia. Ora ogni attenzione viene posta alla stabilità dell'euro e ogni sforzo viene indirizzato per salvare dal fallimento una moneta di cui si celebrano in questi giorni i dieci anni di vita. Ma nessuna attenzione viene spesa per la qualità della democrazia. E nessun allarme viene lanciato dalle autorità europee se l'Ungheria deraglia dai binari della democrazia. Come se l'Ungheria fosse una nazione lontana. Come se l'Europa non prevedesse il rispetto di un'identità comune che ha nella democrazia una della sue basi fondamentali. Con il rischio che a Budapest suonino le campane a morte della democrazie e dell'Europa: della democrazie europea.

Repubblica 4.1.12
Parla la filosofa ungherese Agnès Heller
"Questa voglia di democrazia è un nuovo inizio"
All’Europa chiediamo aiuto nel suo interesse, l’autoritarismo è contagioso
Intervista di A. T.


BUDAPEST «La gente in piazza può essere un nuovo inizio, ma l´autocrazia resta. L´Europa deve aiutarci aiutando i media indipendenti poveri, ostacolati dal regime. Nel suo interesse: l´autoritarismo è contagioso». Agnès Heller, massima intellettuale ungherese di oggi, analizza lucida la crisi magiara.
Quanto conta il nuovo trend di protesta?
«Èimportante. Molte nuove organizzazioni, da "Szolidaritàs" a "Quarta repubblica", voglia di libertà di stampa, di diritti civili, libertà della proprietà privata e libertà d´imprese contro gli oligarchi».
Che regime è quello di Orbàn?
«Orban dice: "noi siamo i più grandi, sappiamo fare tutto meglio, gli altri non capiscono quanto siamo bravi, noi siamo il modello per tutta Europa". Peggio che nazionalismo, è folle mania di grandezza».
Nuova Costituzione, addio Banca centrale... si va verso una dittatura?
«È già una dittatura. Con un distinguo: un dittatore tipico decide su tutto, anche di vita e morte della gente. E può chiudere le frontiere. Qui non c´è la pena di morte e la gente può ancora viaggiare. Molti giovani qualificati vogliono andarsene, non ne avremo più a casa. Se Orbàn potesse chiudere le frontiere lo farebbe».
Fino a quando non potrà?
«Non possono ancora, non sono così pessimista. Hanno abolito il sistema di checks and balances costitutivo della democrazia. Non possono fermare le critiche dall´esterno, vitali anche qui. Qualche media indipendente vive ancora. Ma non è libertà. È come le voci tollerate sotto Horthy (ndr. il dittatore di destra che governò dal 1919 al 1944)».
Horthy è un modello per Orbàn?
«Non so quale sia il suo modello. Orbàn è Orbàn. Come tutti i tiranni è convinto di essere il solo ad avere ragione, e chi non è d´accordo con lui non è ungherese. Né Berlusconi né Putin lo hanno mai detto. Cuore straniero, quasi come dire "sangue straniero", viene definita l´opposizione».
Fascismo?
«Non amo i paragoni. I partiti siedono in Parlamento. Ma il Parlamento è diventato una macchina per votare le leggi senza dibattito. Con le istituzioni attuali non ci sarebbe più possibile entrare oggi nell´Unione europea. La gente ha paura sul posto di lavoro, ovunque. Paura di venire licenziata senza ragione con ogni pretesto legale di "ristrutturazione" se critica il governo, se non gli piaci».
L´Europa può muoversi?
«Nel suo interesse. La paura è diffusa in tutta la società, nei media pubblici restano solo opportunisti incapaci o chi teme di perdere lo stipendio. Ma molti credono a chi dice che la crisi è colpa di finanza internazionale, America, Israele. Slogan anticapitalisti e anticomunisti rafforzano il consenso del regime, l´idea di cospirazione internazionale e anche ebraica paga ancora, molti sono apatici».
Insisto, cosa può o deve fare l´Europa?
«Aiutare i nostri media indipendenti, e parlare chiaro. Ma prima di tutto dobbiamo aiutarci da soli».

l’Unità 4.1.12
Equità? Pensare a giovani e donne
Un concetto cruciale, quello dell’equità, teorizzato fin dai tempi di Aristotele. A questo governo chiediamo sia applicata con costrutto, dando il giusto valore a «categorie» sociali dimenticate
di Vittoria Franco


Equità è una delle parole più ricorrenti negli ultimi mesi del 2011; da quando, cioè, si sono imposte misure drastiche, necessarie per raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013 e adottare riforme strutturali utili per poter contenere la spesa pubblica entro limiti sostenibili. Che cosa si deve intendere per equità e come cambiano le politiche per realizzarla nelle condizioni sociali ed economiche date?
Sul significato del termine e sulla sua relazione con il principio di giustizia si sono cimentati nel corso dei secoli fior di filosofi ed economisti, a partire da Aristotele, il quale definiva l'"equo" come la "rettificazione della legge là dove si rivela insufficiente per il suo carattere universale". Il giusto e l'equo finiscono dunque per essere la stessa cosa, con la precisazione che l'equo è superiore non al giusto in sé, ma al giusto formulato dalla legge, che nella sua universalità è soggetta all'errore. Oggi diremmo che l'equità è lo strumento attraverso il quale la giustizia si fa azione concreta. Nel '900 è l'americano John Rawls a dare corpo a una nuova e influente idea di giustizia come equità, sulla scia del contrattualismo classico, da Hobbes a Kant. Per lui l'equità è la precondizione della possibilità di costruire istituzioni giuste. Essa descrive la situazione originaria nella quale si stabiliscono i principi di giustizia ed esiste quando persone libere, impegnandosi in un'attività comune, concordano le regole che la definiscono determinando le quote rispettive di benefici e oneri. In questo caso, dunque, l'equità si riferisce alla procedura che porta alla decisione circa i principi che definiscono la giustizia, la quale, nella peculiare reinterpretazione della tradizione liberale che ne viene fatta, riesce a tenere insieme libertà, eguaglianza, differenza. Per Amartya Sen l'equità non può riferirsi soltanto alla condizione originaria che dà luogo alla giustizia, ma deve entrare nelle dinamiche sociali e delle reali capacità degli individui, delle reali opportunità di cui essi possono godere. Sen offre forse l'aggancio teorico più consono all'uso che del termine viene fatto in questo momento.
Nel suo discorso alla Camere, il presidente Mario Monti non si è sottratto al compito di parlarne esplicitamente indicando le linee programmatiche del suo Governo. «Equità ha detto significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne», cioè su quei gruppi sociali, di genere o di generazioni, che hanno visto ridotte o non debitamente accresciute le opportunità di crescita e di partecipazione. Contemperare misure di contenimento della spesa, riforme che sembrano far tornare indietro sul piano di diritti finora goduti, sacrifici ed equità è diventata la vera, grande, sfida non solo di questo Governo, ma dell'intero Paese.
La domanda allora è: che cosa va considerato equo in tempi di crisi, e in base a quali criteri e priorità si adottano le politiche? È evidente che ciò che è equo in tempi di sviluppo e di crescita non sempre può essere sostenuto in un momento di gravi difficoltà economiche e che vanno trovati altre dimensioni dell'equità e altri strumenti per renderla effettiva.
In questa fase difficile una precondizione per non far saltare anche le possibilità minime di politiche eque è la necessità di evitare il default, il fallimento del Paese, perché questo potrebbe azzerare regole e diritti acquisiti. Fra i primi criteri di equità metterei il futuro delle giovani generazioni, fra le più penalizzate dalle politiche irresponsabili della destra prima ancora che dalla crisi. Oggi a una gran parte dei giovani, che abbiano studiato o meno, vengono negate opportunità di lavoro e di realizzazione delle loro capacitá. La loro esclusione dal mercato del lavoro frena la possibilità di crescita complessiva oltre a ridurre, come dice Amartya Sen, l'effettivo esercizio della libertà. Analogo discorso vale per la marginalità nella quale sono tenute le donne. Superare l'enorme gap di genere che distingue negativamente il nostro Paese costituisce, anche in periodo di crisi, un'altra priorità verso il raggiungimento di una società più equa e giusta e con maggiori possibilità di sviluppo. Senza provvedimenti che puntino a riequilibrare le opportunità fra i generi e le generazioni, anche ciò che in questo momento viene considerato uno dei maggiori elementi di equità, il recupero dell' evasione fiscale, non riuscirà a produrre effetti di crescita. Un altro fondamentale elemento è la redistribuzione della ricchezza attraverso una progressione fiscale che tenga conto del patrimonio reale, ma anche del contributo alla creazione di ricchezza, di lavoro, di beni sociali. Naturalmente, la scala delle priorità può non essere condivisa, ma è importante avere la consapevolezza che ciò che fino a ieri era considerato giusto oggi va ridiscusso e rivisto proprio per mantenere vivo il principio di equità.

l’Unità 4.1.12
Biblioteche, piazze del sapere
Antonella Agnoli è una vera eretica. Autrice di un pamphlet rivolto alle amministrazioni locali in cui spiega perché è necessario investire nella pubblica lettura e aprire i locali a tutti, non solo a studiosi e studenti
di Chiara Valerio


Leggere è un bene comune, almeno dovrebbe esserlo. Da questa convizione nasce una serie di articoli, inchieste, racconti, dedicati a chi si prodiga per comunicare il piacere di leggere, con l’obiettivo di contagiare più neolettori possibili. Dopo l’indagine di Giancarlo Liviano D’Arcangelo sui Circoli dei lettori («l’Unità» del 30 dicembre), oggi con Chiara Valerio siamo andati nelle biblioteche, capisaldi dell’accesso alla cultura e tasselli fondamentali della democrazia. Appuntamento nelle scuole per la prossima puntata.

La biblioteca è un servizio di base, trasversale, che offre qualcosa a tutte le categorie di cittadini: vecchi e giovani, professionisti e disoccupati, casalinghe e immigrati. Copre un arco di interessi vastissimo e quindi è un sostegno vitale anche per altre strutture culturali come i musei, i teatri, i cinema. Occorre promuovere il coordinamento e l’integrazione fra tutti questi servizi». Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica) è un altro tassello che Antonella Agnoli, bibliotecaria et alia in un paese in cui (quasi) nessuno legge, sottrae al muraglione ideologico che sta intorno all’idea di cultura, di intellettuale e di privilegio culturale e che è il principale fortilizio che soffoca la mobilità tra le classi sociali nel nostro paese. Ed è quindi un altro tassello aggiunto al concetto di democrazia.
Se ne Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà (Laterza, 2009), Agnoli ha scritto che prima di fare cultura è necessario fare alfabetizzazione e che entrare in una biblioteca in Italia significa, invece e troppo spesso, essere costretti a valutare la situazione sociale nella quale ci si trova, in base all’esperienza in altri ambienti pubblici e all’arredamento e che dunque «occorre pochissimo tempo a un potenziale lettore per capire, grazie a una quantità di indizi, quale sarà il suo posto all’interno dell’istituzione e valutare se rischia di rendersi ridicolo o di perdere la faccia» -, in questo pamphlet si rivolge direttamente alle amministrazioni locali per spiegare e dimostrare come, anche in tempo di crisi, sia possibile e pure necessario investire nelle biblioteche di pubblica lettura.
Perché dire alle persone i libri che devono leggere è ideologia, lasciare che leggano e basta è democrazia. E quindi possibilità di evoluzione ancora prima che di rivoluzione. Le biblioteche di pubblica lettura, al contrario delle biblioteche di conservazione che pure «sono state sempre un oggetto di valore collocato nelle nostra città come un vaso cinese in salotto, che potrebbe esserci oppure non esserci» dal 1972 sono una responsabilità degli enti locali e spesso sono vissute come un «optional affidato alla buona volontà e alla lungimiranza della singola amministrazione» e non come la risorsa energetica che sono. «Nella crisi, la biblioteca è un’ancora di salvezza per i ceti più deboli, i giovani che non riescono a trovare un lavoro, i bambini che hanno bisogno di crescere in un ambiente stimolante e di fare esperienze culturali che in famiglia non potrebbero avere».
Tuttavia per essere davvero una risorsa energetica la cultura continua Agnoli ha bisogno di una società che pensa e che ama pensare. Tutto il lavoro saggistico, e tutto il lavoro che Antonella Agnoli ha fatto e fa sul territorio la direzione della biblioteca di Spinea (Venezia), l’ideazione della Biblioteca San Giovanni di Pesaro, il capillare giro di presentazioni de Le piazze del sapere in ogni minimo comune, biblioteca, circolo di lettura, presidio del libro italiano, scuole gira intorno al concetto che il libero accesso ai libri è condizione necessaria e sufficiente alla salute, al mantenimento e all’adattamento, in epoca di accelerazione e manipolazione dell’informazione, del concetto di democrazia e della democrazia in sé. «Non si riflette abbastanza sul paradosso di un pianeta dove l’informazione è (relativamente) alla portata di tutti mentre l’impoverimento culturale della vita collettiva è palese».
Antonella Agnoli, come tutti coloro che sono padroni di un’ortodossia, è una vera eretica, le sue proposte per le biblioteche di pubblica lettura in tempo di crisi spaziano dalla possibilità di usare i locali delle biblioteche di conservazione e di pubblica lettura per matrimoni, feste di compleanno, mercatini di libri usati, come location per pubblicità, tutte proposte che rappresentano la reale possibilità di aprire un luogo considerato storicamente per studiosi, studenti, curiosi e intellettuali, a tutti.
La sopravvivenza di una biblioteca garantisce e leggendo Agnoli si esclama «è vero!» la possibilità, a chi non può consentirselo per ragioni economiche o di lingua, di accedere alla rete, alla modulistica per bollette, pensione, alla possibilità di compilare un curriculum vitae. «Come i sindaci di un secolo fa non avevano dubbi sulla necessità di realizzare le foglie e di portare l’acquedotto nei loro comuni, così oggi si deve guardare alle connessioni a banda larga come a un diritto basilare dei cittadini, un bene comune importante quanto l’acqua». La biblioteca, è insomma un luogo di confronto, discussione, alfabetizzazione e cultura. «La perdita dell’abitudine a ritrovarsi e confrontarsi in piazza, al bar, dal parrucchiere è uno dei molti motivi che rendono la nostra democrazia un guscio vuoto».
Odio la parola vocazione, tuttavia mi pare che per lei la diffusione della cultura somigli abbastanza a una vocazione... sono stati la scuola, l’università, i libri, le persone?
«Se sono quello che sono lo devo alla politica, non certo alla scuola. Non so bene chi mi abbia insegnato a leggere e scrivere, ma sono sicura che dai 14 ai 18 anni l’unica cosa che mi interessava era andare a ballare. Se dicessi che la cultura è stata per me una vocazione fin dall’infanzia penso che finirei nell’ultimo girone dell’inferno dantesco: dopo la maturità sono andata a Roma e invece che fare l’università frequentavo giovani artisti e la cellula di Potere Operaio (prima che fosse messo fuori legge). L’università, ripresa più volte, non l’ho mai finita, c’era sempre qualche cosa di più importante da fare. Penso che negli anni Settanta il Pci sia stato l’università di un’intera generazione».
Perché ha deciso di lavorare su, con e per le biblioteche?
«La biblioteca l’ho scoperta quando me ne hanno data una da fondare: prima non ci ero mai entrata. Avevo fatto la campagna per il referendum sul divorzio, e poi quello sull’aborto e così avevo conosciuto il sindaco di Spinea, una città-dormitorio alla periferia di Venezia. Non sapevo nulla, ma a me piace fare cose nuove, organizzare luoghi e attività dove le persone possano stare insieme quindi ho iniziato dalla biblioteca per bambini, scommettendo che i genitori che accompagnavano i figli si sarebbero prima o poi accorti che era un posto piacevole anche per loro. Ho cercato di raggiungere le giovani coppie con figli, comprato i libri di Munari e sperato che funzionasse. Ha funzionato. Quando me ne sono andata, nel 2000, era passato in biblioteca il 50% di cittadini».

La Stampa TuttoScienze 4.1.12
Ricerca della Sissa conferma la teoria dell’equilibrio di Heider
I social network spingono all’imitazione e al consenso
Internet, l’Eden del conformista
La fisica statistica svela le logiche di interazione tra gli utenti: «Cercano di evitare il conflitto»
Perché è vero il principio che “gli amici dei miei amici sono miei amici”
di Claudio Altafini


Se devo invitare due miei amici a cena, la serata avrà più probabilità di riuscire bene se i due sono tra loro in sintonia o ai ferri corti?
La teoria dell'equilibrio sociale (nota come «structural balance»), formulata dalla psicologo Fritz Heider negli Anni 50, parte da queste osservazioni elementari per affermare che in terne di individui legati da relazioni sociali di amicizia (come alleanza e cooperazione) oppure di inimicizia (dalla rivalità alla competizione) certe combinazioni ricorreranno più frequentemente di altre, perché permettono di evitare situazioni potenzialmente conflittuali o stressanti (tipo, per i due convitati: «Scegli o me o lui»).
Secondo Heider, le relazioni meno stressanti sono le seguenti: «L'amico del mio amico è mio amico», «il nemico del mio amico è mio nemico», così come «l'amico del mio nemico è mio nemico» e «il nemico del mio nemico è mio amico».
Se usiamo un grafo per descrivere queste interazioni, facendo corrispondere i nodi agli individui e i segni sugli archi alle relazioni (+ per l'amicizia, - per l'inimicizia), le terne corrispondono tutte a cicli positivi, ovvero con un numero pari di segni meno, mentre l'esempio iniziale della cena con due litiganti ha un numero dispari di segni meno. Non è una coincidenza, ma la regola matematica dietro alla nozione di equilibrio sociale di Heider: la teoria vale quanto più il grafo ha una prevalenza di cicli positivi (di ogni lunghezza, non solo terne).
La difficoltà di validare o invalidare questa teoria è stata finora la mancanza di dati affidabili. Gli esempi discussi nella letteratura scientifica sono tratti non solo dalla psicologia sociale, ma anche dall'antropologia e dalle teorie economiche. Hanno tutti, però, il difetto di essere su scala ridotta e, quindi, le statistiche che si ottengono non sono sufficientemente chiare. In questo senso l'avvento dei «social network» ci ha reso un grosso servizio.
Su Internet è facile trovare comunità di centinaia di migliaia di individui che interagiscono tra loro in vario modo. Se le più note delle reti sociali (Facebook&C.) hanno il tasto «I like», ma sono prive della funzione opposta («Don't like»), alcuni network meno noti come Epinions e Slashdot (nella modalità «zoo») lasciano ai loro frequentatori la possibilità di esprimere anche giudizi negativi sui membri della comunità.
Alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste abbiamo analizzato queste reti. Il risultato è unanimemente in favore della teoria di Heider: i cicli negativi sono largamente evitati e le comunità sociali hanno un «bilanciamento» che passa anche il test statistico più stringente. In particolare il numero di individui che sono «taggati» come amici da una moltitudine di altri individui, così come il numero di individui che sono taggati come «nemici» dalla maggioranza, è molto alto. Da un punto di vista sociologico questi risultati sollevano una domanda interessante: i giudizi espressi sono il frutto di scelte completamente libere oppure sono influenzati dall'«opinione comune», da chi prima di noi ha espresso un giudizio oppure da chi consideriamo «autorevole»?
Se la teoria originaria si basa sulle terne di individui, su reti molto grandi l'analisi dei triangoli fornisce una lettura solo parziale del livello di bilanciamento globale. Un calcolo più preciso lo si ottiene ricorrendo a concetti e algoritmi che nulla hanno a che fare con la psicologia sociale, ma che provengono invece dalla fisica statistica. In questa disciplina il modello di cui stiamo parlando (un grafo, i cui archi hanno un segno positivo o negativo) è ben noto con il nome di «spin glass», vale a dire un materiale magnetico in cui un legame ferromagnetico (corrispondente a un'attrazione tra due nodi) viene rappresentato con un segno +, mentre un legame antiferromagnetico (una repulsione tra due nodi) corrisponde a un segno -.
I segni negativi introducono disordine nel materiale, disordine che, però, può essere soltanto apparente (corrispondente a cicli con il segno +) oppure sostanziale (cicli con il segno -, chiamati opportunamente frustrazioni). Calcolare il livello di equilibrio della rete sociale è equivalente a calcolare quest'ultimo tipo di disordine.
Per chi lavora su sistemi complessi come questi l'approccio interdisciplinare è senz'altro un valore aggiunto. Tanto per fare un esempio, prima di occuparci di reti sociali, nel mio gruppo di ricerca abbiamo usato lo stesso modello per descrivere la «frustrazione» nelle reti di regolazione genica. In queste reti biologiche un gene attiva (segno positivo) o inibisce (segno negativo) un altro gene. Qui i cicli negativi corrispondono ad azioni contradditorie che possono creare confusione nei meccanismi di regolazione di un organismo e pregiudicarne lo sviluppo. E in effetti noi osserviamo anche qui una marcata tendenza a evitare cicli negativi.
Come dire che il «conformismo» è un po' nei nostri geni.

La Stampa TuttoScienze 4.1.12
Le vite molto pericolose dei rivoluzionari dei cieli
Da Copernico a Newton, una scia di suspense e intrighi Kepler fu il vero eroe, più intrigante perfino di Galileo
di Jean Pierre Luminet


IL PARADOSSO NEWTONIANO Cercava Dio nella natura e nelle Scritture, eppure finì per scalzare la religione
UNA PERSONALITA’ DIFFICILE Era dispettoso vendicativo, geloso e anche fanatico

Al di là dell’immagine stereotipata degli studiosi svagati, con la testa sempre tra le nuvole, i grandi uomini di scienza hanno vissuto pienamente nella società del loro tempo. In effetti, a causa delle loro idee rivoluzionarie, per lo più si sono trovati spesso in conflitto con le autorità intellettuali, religiose o politiche. Sono stati dei precursori, degli inventori, degli ispiratori, degli agitatori di genio... Ciò che in genere si dimentica - forse perché le loro scoperte sono così straordinarie da mettere in ombra le vicende della loro esistenza - è che erano anche individui fuori dal comune, personalità eccezionali, con una vita piena di intrighi, suspence, colpi di scena. In poche parole, personaggi davvero romantici.
Ecco perché ho concepito il progetto di raccontare la vita e l'opera di alcuni di questi personaggi sotto forma di «romanzo scientifico». La serie «Les Bâtisseurs du Ciel» - «I costruttori del cielo» - racconta come, durante i secoli XVI e XVII, Niccolò Copernico, Tycho Brahe, Johannes Kepler, Galileo Galilei, Isaac Newton, ma anche molte altre figure meno note, senza le quali i primi probabilmente non sarebbero riusciti a portare a compimento la loro opera, hanno cambiato radicalmente il nostro modo di vedere e di pensare il mondo.
Consapevole delle imperfezioni del sistema geocentrico di Tolomeo e ansioso di trovare un’armonia geometrica nell’organizzazione del cosmo, il canonico polacco Niccolò Copernico (1473-1543) introdusse l’eliocentrismo. Il suo trattato «Sulle rivoluzioni», pubblicato soltanto nell'anno della sua morte, sostiene che il Sole è al centro geometrico del mondo, mentre la Terra gli ruota intorno e su se stessa. Ma conserva l'idea di un universo chiuso, delimitato dalla sfera delle stelle fisse. Il primo libro della mia serie - «Il segreto di Copernico» - insegue il segreto della sua creazione intellettuale, con i dubbi, le peregrinazioni, la lenta maturazione e il cammino attraverso un labirinto buio prima di poter intravedere un barlume di verità, tutte esperienze che i grandi ricercatori hanno sempre vissuto nei loro laboratori.
Copernico, in pratica, non è né letto né capito. Passano parecchi decenni prima che nuove crepe incrinino l’antica cosmologia. Nel 1572 una nuova stella viene osservata dal nobile danese Tycho Brahe (1546-1601), il quale dimostra che si trova nelle lontane regioni celesti, fino a quel momento ritenute immutabili. Osserva anche che le traiettorie delle comete incrociano senza ostacoli le presunte sfere cristalline del cielo aristotelico, fa costruire il primo osservatorio europeo chiamato Uraniborg e per 30 anni accumula le migliori osservazioni disponibili sui moti planetari. E, tuttavia, incapace di organizzarle in un nuovo sistema coerente, alla fine della sua esistenza si affida a un giovane prodigio matematico di umili origini, Kepler. Dalla loro tempestosa collaborazione, soggetto del secondo libro - «La discordia celeste» - emerge una nuova verità sull' universo.
Kepler (1571 -1630) è in effetti, con Galileo (1564 -1642), il grande artefice della rivoluzione astronomica. Scopre la natura ellittica delle orbite planetarie, lavorando sui dati di Tycho Brahe, fonda le leggi dell'ottica e della cristallografia, è il primo a cercare le cause fisiche dei fenomeni, anticipando di molto il concetto di forza d’attrazione gravitazionale, ed elabora anche un sistema musicale che influenzerà tutta la musica occidentale!
Con la sua personalità magnetica e il suo umanesimo, Kepler è il vero eroe della serie dei «Costruttori», prevalendo perfino sul suo collega italiano, raccontato nel terzo tomo, «L’occhio di Galileo». È sicuramente vero che - e questa è una manna per il romanziere come per lo storico - è lo stesso Kepler a descrivere il modo in cui approda alle proprie scoperte, passando in rassegna tutti i passi falsi e gli errori. E tuttavia è molto raro che i grandi scienziati osino rivelare pubblicamente il processo lungo e complesso del loro pensiero creativo: in generale raccontano solo il successo finale, mettendo in ombra le difficoltà incontrate lungo il cammino. Con Kepler, al contrario, siamo nel cuore del processo interiore della ricerca scientifica.
Galileo, poi, agli inizi non è né un matematico né un astronomo. E’ semmai un fisico razionalista, uno sperimentatore di genio. E’ diventato famoso, però, come il più grande astronomo della storia. Venendo a conoscenza, nel 1609, dell'esistenza di uno strumento ottico che permette di ingrandire ciò che si sta guardando, Galileo si affretta a riprodurlo, migliorandolo, e quindi punta questo telescopio verso il cielo. Un anno dopo presenta i risultati delle sue osservazioni in un piccolo libro che fa scandalo: tutto quello che si vede in cielo con il telescopio contraddice i principi della fisica aristotelica. Galileo ingaggia allora una battaglia burrascosa per il riconoscimento del sistema copernicano e vuole dimostrare sperimentalmente l'identità di natura tra la fisica terrestre e la fisica celeste. Il suo processo davanti al tribunale dell'Inquisizione e la sua abiura generano un eco enorme e lo renderanno celebre in tutta Europa.
Dopo Galileo e Kepler le rappresentazioni del mondo non saranno mai più le stesse. L'idea di una Terra ormai esclusa dal centro dell' universo, e la messa in discussione della fisica di Aristotele, rendono necessario ripensare le leggi che governano il movimento dei corpi e fornire loro una corretta formulazione matematica. In Francia, René Descartes (1596-1650) prevede la matematizzazione della fisica. A suo giudizio né la Terra né il Sole o alcun altro corpo celeste occupano un posto speciale. Le stelle sono tutte soli, simili o diversi dal nostro, l'universo si espande in tutte le direzioni fino a distanze indefinite ed è interamente riempito di una materia continua e vorticante.
Questo cambiamento radicale nella concezione del cosmo viene completato da Isaac Newton (1642-1727), che svela le leggi della gravitazione universale, la rifrazione della luce, il calcolo infinitesimale e pubblica anche il più grande libro scientifico della storia. Sotto il mio quarto tomo - «La parrucca di Newton» - si nasconde però un personaggio stravagante, che crea non pochi problemi al romanziere per il suo carattere antipatico: dispettoso, vendicativo, geloso e fanatico religioso. Ma è lui a coronare la rivoluzioneiniziata un secolo e mezzo prima da Copernico e ad aprire la strada alla civiltà moderna.
Infatti, non pagadirivoluzionare l'astronomia e la scienza in generale, la filosofia newtoniana ha permeato anche altri settori dell'attività umana e condizionato il successivo sviluppo della società occidentale. Newton, che cercava Dio nella natura come nelle Scritture, ha paradossalmente lasciato dietro di sé un mondo in cui la religione non è più al potere. Con lui la scienza ha contribuito in modo potente ad abbattere la luce della fede che fino ad allora aveva dominato il pensiero. Liberata, ha confinato l'uomo ai margini dell'universo, facendogli toccare la piccolezza e la toccante fragilità del suo pianeta. Traduzione di Carla Reschia

La Stampa TuttoScienze 4.1.12
Parte il grandioso progetto «Human Connectome Project» per mappare le connessioni tra i 100 miliardi di neuroni del cervello
Dal Dna nuove indagini per capire le controverse origini di noi Sapiens
2012, l’anno del cervello?
“Scopriremo come funziona la mente e cos’è la coscienza”
di Gabriele Beccaria


Le previsioni sono divertenti perché non si avverano (quasi mai). C’è più gusto a giocare con le scoperte che ci aspettano e che, forse, potrebbero materializzarsi, anche se non nei modi in cui sono state immaginate. A esercitarsi è il settimale «New Scientist», che mette insieme una serie di idee forti per il 2012, provenienti dai laboratori al top. Sarà questo l’anno del Bosone o l’anno del cervello?
E’ credibile sia un’ipotesi sia l’altra. Ma naturalmente ci sono tanti altri percorsi che i saperi della scienza stanno imboccando, scivolando tra le mani di chi si illude di gestirne le evoluzioni. Per esempio le nuove logiche per governare i cambiamenti climatici o le nuove strategie per costruire l’atleta perfetto che farà incetta di ori ai Giochi di Londra. Ma anche la fisica è in fermento, con la messa a punto dell’acceleratore del Cern e la promessa di buttare l’occhio su particelle mai viste, mentre un’eccitazione simile domina le dimensioni parallele dei social networks: le presidenziali americane sembrano destinate a segnare il trionfo dell’era della cyberpolitica, stravolgendo per sempre un altro aspetto della vita collettiva.
«New Scientist», poi, nel suo veloce elenco, trascura la gara frenetica tra Usa e Cina: chi diventerà la superpotenza della scienza e della ricerca applicata? E non prova a immaginare nemmeno qualche inatteso scintillio nell’universo della medicina: non è un caso - secondo la rivista «Science» - che la più importante scoperta del 2011 sia legata all’Hiv: un team internazionale ha dimostrato come un cocktail antiretrovirale abbatta le probabilità di trasmissione del virus del 96%.
Ma nel labirinto del prevedibile e dell’imprevedibile una possibile via d’uscita esiste. Siamo noi stessi. Molti ricercatori si sono resi conto che uno dei misteri da esplorare è la specie Sapiens. A cominciare dalle sue origini e proseguendo con il suo cervello. E infatti «New Scientist» ci informa che nel 2012 assisteremo a un duplice diluvio di dati: il primo legato allo «Human Connectome Project», il progetto per mappare le connessioni dei neuroni, e il secondo scatenato dagli studi del Dna. Non siamo affatto «puri», semmai il prodotto di mix genetici con altre specie. Una chimera insomma, diventata ciò che è solo dopo gli ancestrali incroci con esseri come i Neanderthal e i Denisova (e con altri ancora, che prima o poi porteremo alla luce).
Se il 2012 diventerà davvero l’anno del cervello vorrà dire che avremo cominciato a capire come funziona e, quindi, si potranno mettere a punto i farmaci per un’emergenza mondiale annunciata: il boom di malattie degenerative e disturbi mentali. Finora - sottolineano i ricercatori - si sono osservate solo le singole aree del chilo e 400 grammi di materia che portiamo nella scatola cranica, ma è essenziale andare oltre, indagando, se non tutte le vie, almeno le autostrade che mettono in relazione questa «macchina» capace di una dotazione di 100 miliardi di neuroni. In poche parole, l’obiettivo è passare dalla descrizione dei processi biologici alla comprensione delle emozioni e dei pensieri e della stessa coscienza.
Milleduecento volontari - e i rispettivi cervelli - sono pronti per studi e test. I primi risultati si aspettano proprio per la seconda metà del 2012. Spalancheranno strategie per terapie oggi solo sognate, ma la tentazione è anche manipolatoria: molti scienziati (e il business farmaceutico) vogliono entrare nelle nostre teste e incrementare le performances cognitive. Dalla cosmetica degli zigomi si salterà a quella delle sinapsi: chi non desidererebbe migliorare la memoria, affinare il sense of humor e accrescere l’empatia?
Non è difficile prevedere che l’esperimento sarà tentato. Anche se Thomas Hills dell’università di Warwick e Ralph Hertwig di quella di Basilea sono tra i pessimisti: in una articolo su «Current Directions in Psychological Science» sostengono che con noi la natura è già arrivata al limite. Più intelligenti (o scemi) di così è impossibile.

La Stampa TuttoScienze 4.1.12
“Ho scoperto la Pietra del Sole. Era la bussola dei Vichinghi”
Il fisico Ropars: la calcite forniva la rotta con la luce polarizzata
di Luigi Grassia

In America senza strumenti. Gli uomini del Nord non avevano aghi magnetici e il cielo coperto non dava indicazioni affidabili
Spato d’Islanda. Questo tipo di calcite polarizza la luce che l’attraversa dividendola in due raggi Con ulteriori espedienti si può usare questa proprietà per riuscire a individuare la posizione del sole anche se il cielo è coperto dalle nuvole

UN INDIZIO DALLE SAGHE Si parla (in modo evasivo) di un oggetto che individuava l’astro nonostante le nubi

I Vichinghi popolarono l’Islanda e la Groenlandia e raggiunsero anche l’America parecchi secoli prima di Cristoforo Colombo. Ma come diavolo facevano a orizzontarsi in mezzo all’Oceano Atlantico? Quando arrivarono sull’isola di Terranova, attorno all’anno Mille, la bussola in Europa non era ancora conosciuta, e non risulta che i popoli del Nord usassero altri sistemi di orientamento, come ad esempio gli astrolabi, apprezzati invece fin dall’antichità per la navigazione nel Mediterraneo. Al massimo, i Vichinghi ricorrevano a espedienti. Per esempio, ci viene detto che il grande navigatore Floki Vilgjerdarsson si servisse di uno strumento ad alta tecnologia: si portava in mezzo al mare una gabbia piena di corvi, poi la apriva, e stava a osservare che cosa succedeva. Se gli uccelli volavano in tondo attorno alla nave e poi ci si posavano, significava che non c’era terra in vista; se invece i corvi puntavano su una direzione precisa, Floki e i suoi compari li seguivano speranzosi. Hi-tech spinta.
A parte questi stratagemmi, c’era un altro modo per i Vichinghi di scegliere la rotta: usare i loro occhi acuti per cercare la Stella Polare durante le ore buie e così scoprire la direzione Nord. Ma il cielo sopra quelle acque tempestose era molto spesso coperto, inoltre la notte durava poco o nulla alle alte latitudini, perché i Vichinghi affrontavano l’Atlantico d’estate, cioè nel periodo delle giornate lunghissime o addirittura del sole a mezzanotte. Quindi, poche stelle e (in teoria) molto sole sulle loro teste.
Si può arguire: perfetto, se non si vedevano le stelle anche il sole poteva essere usato per orientarsi. Ma per il sole c’era l’identico problema di nuvole: nell’Atlantico del Nord il tempaccio è frequente pure d’estate. Dunque, poche stelle ma anche poco sole, per i nostri amici Vichinghi, lì a ballare sui loro drakkar in mezzo all’oceano.
E allora? Come facevano a orizzontarsi? Le saghe islandesi ci suggeriscono un’intrigante ipotesi.
Un paragrafo della «Storia di Raud» ci racconta che in un giorno di tempo coperto e di neve il re convoca i figli di Raud e chiede loro di individuare, così a occhio, la posizione del sole nascosto dalla fitta coltre delle nuvole. Uno dei due, Sigurdur, fa la sua valutazione. Poi il re ordina che gli sia portata una non meglio specificata «pietra del sole» e con questa fa determinare la posizione esatta della nostra stella in quel momento. Tale posizione risulta coincidere con quella indicata da Sigurdur. Il re fa i complimenti a Sigurdur per come è bravo.
A non noi frega assolutamente niente di quanto fosse bravo Sigurdur, ma potrebbe incuriosirci che gli antichi nordici avessero uno strumento misterioso capace di identificare la posizione del sole col cielo coperto. Ne parlano (senza dettagli) diverse fonti, che - a dir la verità - non qualificano questa «pietra del sole» come uno strumento di navigazione; tuttavia, è verosimile che fosse proprio tale pietra a surrogare la bussola, prima che questa fosse conosciuta agli uomini del Nord.
Beh, ma che cos’era la pietra del sole? Non si sa. Però alcuni scienziati la identificano con un tipo di calcite (o spato) molto trasparente che si può trovare in Islanda. Della «pietra solare» ci viene detto dalle fonti islandesi medievali che «emette, riflette o trasmette la luce» e i fisici moderni, in modo più tecnico, spiegano che la calcite islandese separa in luce polarizzata i raggi solari che la attraversano. Sia chiaro, non è una sua esclusiva, altri materiali naturali hanno la stessa proprietà, ma non la possiedono in modo così spiccato, oppure sì, o anche di più, ma non sono comuni in Islanda e Scandinavia. Per interpretare il ruolo della «pietra del sole» lo spato d’Islanda è il candidato ideale.
Fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Una volta dotatisi di questa bella pietra trasparente, come facevano concretamente i Vichinghi a individuare la posizione del sole al di là delle nuvole? Il fisico francese Guy Ropars, dell’università di Rennes, ha provato a costruire un apparecchietto, di estrema semplicità, e ha dimostrato che è atto allo scopo. Si tratta di una scatoletta, chiusa da due piccole tavole di legno, una delle quali, forata, lascia passare un raggio di luce (ne basta poca, quella del cielo coperto). Fra le due tavolette è collocata la calcite. La luce passando attraverso la «pietra del sole» si divide in due raggi polarizzati, che proiettano due deboli macchioline di luce. Spostando a caso la piccola scatola, c’è solo una posizione in cui le due macchioline si equivalgono in brillantezza: da come è orientata la scatola in quel momento si capisce dove sta il sole. L’apparecchietto, dice Guy Ropars, si poteva costruire e utilizzare empiricamente, senza bisogno di capire le leggi fisiche sottostanti. Facevano così, i Vichinghi? Guy Ropars ne è convinto. Dice: «Speriamo di trovare, prima o poi, uno spato d’Islanda in una sepoltura o un tesoro medievali». Finora s’è rinvenuto sì un pezzo di calcite, nella Manica, ma su un relitto del 1592. Forse è stata l’ultima applicazione di un’antica tecnica vichinga.

La Stampa 4.1.12
Compie 70 anni il grande scienziato tetraplegico: a 21 gli avevano prognosticato 2 anni di vita
Hawking, il malato che ha sconfitto la medicina
di Richard Newbury


Per il grande cosmologo Martin Rees - Lord, Presidente della Royal Society e Astronomo reale -, collega a Cambridge del fisico e matematico Stephen Hawking, il fatto che l’autore della Breve storia del tempo sia arrivato a 70 anni dilata i confini matematici della teoria della probabilità. «Gli astronomi sono abituati ai grandi numeri - ha detto -. Ma non sono abbastanza grandi perché io, nel 1964, scommettessi sul fatto che Stephen nel 2012 avrebbe festeggiato i suoi 70 anni. Ha ottenuto risultati strabilianti, che hanno fatto di lui il più grande scienziato vivente e l’hanno fatto apparire nella serie dei Simpson, dove ha proferito le immortali parole: “Homer, la tua teoria di un universo a forma di ciambella è intrigante. Forse te la rubo”».

LONDRA Stephen William Hawking è un matematico, fisico e cosmologo inglese, fra i più importanti e conosciuti del mondo, noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri. Pur essendo condannato all'immobilità dalla sclerosi laterale amiotrofica, ha occupato la cattedra lucasiana di matematica all’Università di Cambridge (la stessa che fu di Isaac Newton) per trent’anni, dal 1979 al 30 settembre 2009. È membro della Royal Society, della US Society, della Pontificia Accademia delle Scienze e del Mensa. Ha scritto best seller come Breve storia del tempo.
Lui stesso si aspettava di non arrivare ai 23 anni, dopo che un rapido processo degenerativo lo aveva portato alla perdita del controllo muscolare. E invece in questi giorni 27 dei massimi fisici e cosmologi del mondo sono arrivati a Cambridge per un Simposio organizzato dall’Università in onore dei 70 anni dell’uomo che ha sfidato le leggi della medicina per riscrivere quelle della fisica. Per i suoi 60 anni Hawking aveva sorvolato Cambridge in mongolfiera; per i suoi 65 era diventato il primo quadriplegico a sperimentare per otto volte alla Nasa l’assenza di gravità. Adesso che è pronto, aspetta di partire per il volo spaziale che il miliardario Richard Branson gli ha offerto con la sua compagnia Virgin Galactic. L’astronave potrebbe essere alimentata dalla forza di volontà di Hawking.
Per Martin Rees il «grande momento Eureka» di Hawking è incapsulato in una equazione che il fisico vuole sia incisa sulla sua pietra tombale: la scoperta del profondo e inatteso legame tra la teoria della gravità e la teoria dei quanti, nesso che da allora ha definito l’agenda della fisica teorica.
Hawking, ha detto ancora Rees, «probabilmente ha fatto quanto nessun altro dopo Einstein per ampliare la nostra conoscenza della gravità, dello spazio e del tempo».
Alla fine degli Anni 60 Hawking e Pennrose videro come la teoria della relatività generale di Einstein contemplasse l’esistenza di buchi neri, collocando l’inizio dell’Universo a 13,7 miliardi di anni fa. Hawking mescolò la teoria dell’infinitamente grande (relatività generale) con l’infinitamente piccolo (teoria quantistica), postulando che i buchi neri non siano neri. Una conseguenza della gravità quantistica è che lo spazio vuoto non è affatto vuoto: coppie di particelle saltano dentro e fuori dall’esistenza se sono in un punto di non ritorno - l’orizzonte degli eventi - dalla sorgente di un buco nero. Una particella della coppia cade nel buco nero, l’altra riesce a sfuggire nell’universo esterno. È la cosiddetta «radiazione di Hawking». Di ragionamento in ragionamento, partendo dal calore residuo della radiazione del big bang primordiale e dalla «inflazione cosmica», Hawking è arrivato a ipotizzare l’esistenza di universi multipli e paralleli. Questa sua cosmologia forse spiega perché non abbia mai vinto il Nobel: la sua teoria non è empiricamente verificabile.
L’ultima volta che ho visto Hawking era un mese fa, a una proiezione cinematografica. Sedeva dietro di me sulla sua sedia a rotelle computerizzata e assisteva alla celebrazione di un altro astronomo - Il Gattopardo - nella versione integrale di tre ore. Era lì perché fa parte della scena di Cambridge tanto quanto la Cappella del King’s College. Secondo sua figlia Lucy, proprio la malattia è all’origine di quella forza motrice che ha trasformato una matricola di Oxford brillante ma pigra, tutta pub e marce per il disarmo, nel dottorando di Cambridge tutto lavoro. Cresciuto a Oxford, con un padre medico specializzato nelle malattie tropicali e una madre laureata a Oxford e militante anti-nucleare, Stephen aveva ereditato l’attivismo materno e la passione paterna per le auto veloci, che ha manifestato correndo con sprezzo del pericolo sulla sua sedia a rotelle.
Quando studiava a Oxford riuscì a farsi dare dagli esaminatori il massimo dei voti, anche se i suoi lavori non lo meritavano, convincendoli che potevano sbarazzarsi di lui perché intendeva specializzarsi a Cambridge. Fu lì che gli venne diagnosticata la Sla. La prima reazione fu quella di ritirarsi nella sua stanza con alcol e Wagner, ma la morte di un amico per leucemia e il matrimonio, nel 1965, con Jane, lo indussero a ignorare la malattia. Dopo aver avuto due figli e una figlia, la degenerazione lo ha ridotto a puro cervello, con una curiosità da bambino e una straordinaria forza vitale. Ma nel 1990, quando si parlò di scappatella con un’infermiera che l’assisteva arrivò il clamoroso divorzio da Jane. Per riuscire a comunicare ha bisogno di apparecchi e tecnologie sofisticate e proprio la scorsa settimana ha pubblicato un’inserzione per trovare un tecnico capace di «governare» la sua avveniristica sedia a rotelle.
Tra l’altro fu per coprire i costi dell’assistenza 24 ore al giorno che scrisse Breve storia del tempo, il saggio che ha venduto 25 milioni di copie in 44 lingue. Poi sono arrivati i documentari, le pièces teatrali e il ruolo in StarTrek. Le regole dell’Università di Cambridge lo hanno obbligato a lasciare la cattedra lucasiana di matematica - quella occupata a suo tempo da Newton - a 68 anni, come tutti i professori, ma lui continua a viaggiare e fare ricerca.

Repubblica 4.1.12
Lo piscoanalista Pietropolli Charmet: "Strumento di verità"
"La scrittura a mano è specchio dell’anima facciamo tornare in classe le stilografiche"


ROMA - Professor Charmet, lei è psichiatra e psicoanalista dell´infanzia e dell´adolescenza. Quanto è importante per i bambini la scrittura a mano?
«È fondamentale. È uno strumento di verità irrinunciabile. È uno specchio dell´anima, perché mette in relazione la parte più profonda di noi con il segno che appare sulla pagina. Quante cose si capiscono dalla scrittura di un bambino».
Eppure appena possono i bambini buttano la penna e passano al computer. Anzi c´è un movimento pedagogico che spinge per l´abbandono della scrittura a mano.
«Il computer non esclude la penna o viceversa, i linguaggi convivono, non si annullano. E i bambini sono felici di imparare a scrivere adorano matite, penne, colori, vedere i fogli che si riempiono di segni che corrispondono al loro pensiero».
È come se si sentissero unici…
«Sì, la scrittura ha qualcosa di sacro e di istintivo, sviluppa la manualità sottile, bella o brutta che sia, è assurdo pensare di non insegnarla più. I ragazzi alla scrittura ci tengono, eccome: basta ricordare quanto gli adolescenti si esercitano sulla loro firma. E vorrei fare un appello al ministro della Pubblica Istruzione».
Quale professor Charmet?
«Far tornare a scuola le penne stilografiche. La stilo è un oggetto del desiderio. Anche per i bambini di oggi».
(m. n. d. l)

Repubblica 4.1.12
Un sondaggio del "Guardian" tra registi, fotografi e ballerini sulla fonte della loro creatività
Ecco il segreto dell´ispirazione


LONDRA Da dove viene l´ispirazione? Dal silenzio? Dalle parole (quelle giuste, s´intende)? Da una passeggiata nel bosco? Da una canzone allegra? Da una condizione di perpetua infelicità, caratteristica che accomuna un buon numero di creativi? O in certi casi dal suo opposto, dalla felicità, dal denaro, dal desiderio di avere sempre più successo?
Per rispondere a questa domanda, il Guardian ha interrogato un campione di artisti, per ricavarne un "libretto di istruzioni", una sorta di vademucum, utile anche ad altri che sperano di accendere la lampadina della creatività. Le risposte, inevitabilmente, variano. Polly Stenham, commediografa, ascolta musica ("Love her madly" dei Doors), fa passeggiate (nel parco londinese di Hampstead), scarabocchia. Tamara Rojo, ballerina e coreografa, copia, imita, insomma studia e guarda i balletti degli altri. Mark-Anthony Turnage, compositore, offre un semplice consiglio: "Spegnete la tivù, e pure internet". Martin Parr, fotografo, cerca "soggetti che illuminino la mia relazione con il mondo". Rupert Gold, regista, suggerisce di darsi semplicemente una mossa: "Alzarsi presto al mattino e lavorare, lavorare, lavorare". Isaac Julien, pittore, guarda la gente e cambia il panorama abituale. Jasmin Vardimon, coreografa, frequenta ospedali e tribunali, "luoghi con una certa dinamica emotiva".
Susan Philipsz, pittrice, opta per "non fare niente" e aspettare che l´ispirazione arrivi da sé. Olivia Williams, attrice, ha bisogno dell´opposto: ricevere ordini, dal regista, dal produttore, dallo sceneggiatore. Come in un famoso fumetto di una volta, in cui il giovane redattore chiede all´anziano columnist: "Ma come fai a produrre ogni giorno un articolo, ad avere ogni giorno un´idea?". Il columnist risponde: "Devo essere paziente e attendere che la musa mi parli". Dal corridoio arriva l´urlo del redattore-capo: "Fra cinque minuti si va in stampa!". E il columnist, picchiando improvvisamente sui tasti della macchina da scrivere: "La musa ha parlato".

AgoraVox 4.1.12
Il quotidiano Terra affonda: i giornalisti scioperano ad oltranza

qui e qui
http://www.agoravox.it/Il-quotidiano-Terra-affonda-i.html

http://www.stampacadabra.it/2012/01/03/il-quotidiano-terra-affonda-i-giornalisti-scioperano-ad-oltranza/