venerdì 6 gennaio 2012

l’Unità 6.1.12
Intervista a Nicola Zingaretti
«Paghiamo gli errori di una destra in cerca di capri espiatori»
Il presidente della Provincia: «Il sindaco sbagliò a usare una tragedia nella polemica politica
Così ha segnato uno spartiacque negativo per la città»
di Jolanda Bufalini


Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti è appena uscito dal vertice al Viminale convocato dopo l’efferato delitto di Tor Pignattara, con il ministro Annamaria Cancellieri e il capo della polizia Manganelli. Alemanno non c’è, è in viaggio di ritorno dalla Patagonia. Lo sostituisce la vicesindaco Belviso. Nicola Zingaretti nega la necessità di adottare misure straordinarie: «Non si può cambiare strategia ogni 15 giorni. Bisogna solo attuare, ognuno per la sua parte, ciò che si è deciso» ma, soprattutto, considera un errore politico la logica dei «capri espiatori» portata avanti dal governo di centrodestra: «La sicurezza si conquista sconfiggendo la paura e facendo vivere le città».
Presidente, in questi anni le priorità in tema di sicurezza a Roma sono stati i clandestini, le lucciole, i rom. I fatti efferati di Tor Pignattara indicano altre priorità?
«Io ho un ruolo istituzionale e non faccio opposizione, ma proprio nello svolgimento di questo ruolo ho denunciato un approccio alla sicurezza come è stato con l’ex ministro dell’Interno Maroni ridicolo quando si fonda sulle ronde. Le ronde più che garantire i cittadini alimentano la voglia di farsi giustizia da sé, per fortuna i cittadini si sono mostrati migliori di chi li ha governati».
L’impressione è che in questo caso ci troviamo di fronte a dei balordi, ma ci sono stati 35 omicidi in pochi mesi. A cosa si deve la recrudescenza di fatti di sangue a Roma?
«Non è ancora chiaro quale sia stata la dinamica dei fatti a Tor Pignattara. Roma fronteggia due problemi diversi. Il primo (che non mi pare riguardi questo caso) è che Roma è diventata teatro di interventi della criminalità organizzata, che investe denaro proveniente da attività criminose di mafie e camorra. Il secondo problema ha a che vedere con la frammentazione, la perdita di valori che rende il terreno propizio al radicamento delle bande criminali. Paghiamo questo doppio effetto».
I tagli lineari non hanno colpito soltanto la benzina per le volanti, hanno tolto mezzi ai servizi con cui gli enti locali intervengono nelle situazioni di disagio sociale.
«Non ha certo aiutato la scomparsa in un triennio di 14 miliardi di trasferimenti agli enti locali, si è colpita una rete civile e sociale già fragile. In questa situazione il commissariato è come un castello isolato. Né possiamo sottovalutare la tensione sociale: negli ultimi anni a Roma è raddoppiata la disoccupazione ed è molto aumentato il ricorso alla cassa integrazione. La miscela di impoverimento e di crescita delle bande criminali è esplosiva».
Cosa bisogna fare?
«Bisogna capire che non tutta la spesa pubblica è un costo, ciò che serve a creare un tessuto vivibile dà anche più sicurezza. Roma paga anni di crisi che hanno avuto un effetto devastante dal punto di vista del degrado. Periferia non è solo una nozione urbanistica, servono più sport, più cultura, più aggregazione e socialità, anche un parco giochi aiuta a dare maggiore sicurezza».
Ci vuole una maggiore presenza delle forze dell’ordine per il controllo del territorio?
«Sicuramente ed è positivo che il nuovo piano per la sicurezza abbia confermato l’invio di 400 uomini in più. Ma c’è anche una battaglia valoriale da fare, per sconfiggere la paura delle differenze che viene scaricata su capri espiatori. Noi stiamo pagando un prezzo alto per questo sbaglio»
Lei ha dichiarato che è stato un errore catapultare il tema della sicurezza nell’agone politico. Si riferisce alla campagna elettorale di Alemanno di tre anni fa?
«Immettere una tragedia violenta nel confronto politico è stato uno spartiacque che ha prodotto una ferita nella civiltà politica e nel tessuto urbano di Roma».
Tolleranza zero?
«L’errore politico della destra è stato quest’idea gladatoria della sicurezza è stato quest’idea gladatoria della sicurezza, è stato dare priorità al problema dei “vu cumprà”, mentre c’erano le bande criminali che si organizzavano. Puntare tutto sul controllo militare del territorio, come ha fatto Maroni, si è rivelato inefficacie, tanto più che poi mancano i soldi per i commissariati. Anche l’utilizzo dell’esercito non ha dato frutti, perché ci sarà sempre un angolo di città che rimane scoperto. Il patto firmato a dicembre con il ministro Cancellieri ha avuto un’evoluzione positiva da questo punto di vista. Ma, soprattutto, accanto alla volante ci vuole la vita e la socialità. Come presidente della Provincia, che però è al confronto del Campidoglio una piccola istituzione, ho contrapposto alla tolleranza zero di Alemanno “Prevenzione mille”, che ha significato finanziare 101 associazioni laiche e religiose la cui attività si rivela di straordinaria importanza per la vivibilità». Ma la situazione di crisi economica è tuttora grave, incide sulla sicurezza?
I tagli al welfare comportano dei rischi perché hanno prodotto e producono solitudine e la solitudine è brodo di coltura sia per la paura che per la delinquenza».
Cosa avete deciso nel vertice al Viminale
«Non c'è stata nessuna misura speciale se non l'attuazione del patto per Roma sicura siglato alcuni giorni fa, del resto sarebbe sbagliato cambiare strategia a pochi giorni di distanza dalla firma del Patto».

il Fatto 6.1.12
L’accusa dell’ex prefetto Achille Serra
“Il Campidoglio fa solo annunci”
di Luca De Carolis


Servono prevenzione, uomini e idee. Non servivano le promesse in campagna elettorale di Alemanno”. Achille Serra, prefetto di Roma dal 2003 al 2007 con Walter Veltroni in Campidoglio, ora senatore dell’Udc, sintetizza così la sua ricetta per fermare l’emorragia di omicidi e crimini nella capitale.
Senatore, siamo al punto zero dell’emergenza criminalità a Roma. Perché?
Le cause del terribile 2011, e di quanto accaduto a Tor Pignattara, sono tante. Innanzitutto, l’offensiva degli ultimi anni di ’ndrangheta e camorra, che stanno tentando di mettere le mani sulla città. Le bande locali hanno reagito. E sono arrivati i morti.
Qual è la posta in palio?
Principalmente, il traffico di droga. Ma per la malavita organizzata è primario anche riciclare denaro in esercizi commerciali. Un fenomeno ormai diffuso, non solo nel centro di Roma.
Ma non c’è solo la malavita...
Certo, gli omicidi hanno tante cause. Ci sono anche quelli passionali, o per liti. Ma il fenomeno della criminalità che si espande è centrale. Soprattutto, e qui veniamo a un altro nodo enorme, se non hai mezzi e strumenti sufficienti per contrastarlo.
Qualche dato?
I governi negli ultimi anni hanno tagliato ferocemente sulla sicurezza. Aveva iniziato il secondo governo Prodi, ma i tagli di gran lunga peggiori li ha fatti l’ultimo esecutivo Berlusconi. Di fatto, a polizia e carabinieri mancano circa 14mila uomini. Poi c’è lo stato deprecabile degli strumenti di lavoro, a cominciare dalle auto: spesso vecchie e malmesse. Numeri che ricascano sulla capitale.
Quali sono le responsabilità di Alemanno?
Il suo principale sbaglio è stata la campagna elettorale, in cui ha millantato poteri sulla sicurezza che un sindaco non può avere. Il buon sindaco deve battere i pugni sul tavolo nel Comitato per l’ordine e la sicurezza. Ma non ha poteri diretti sul tema. Invece lui fece annunci in serie. Promesse a vuoto.
Veltroni batteva i pugni?
Lui mi garantì una collaborazione totale, agivamo come una sola persona. Quando ero prefetto, lavorammo molto sulla prevenzione. Avevamo pattuglie sempre in strada, e anche il servizio di vigilanza urbana dava un grande contributo. Un’altra priorità era dare buona illiminazione a tutti i quartieri. In una piazza ben illuminata, lo spacciatore non c’è.
Ora cosa si potrebbe fare?
Innanzitutto, creare una centrale operativa unica per tutte le forze dell’ordine, magari in prefettura. Renderebbe più efficaci i controlli e consentirebbe di risparmiare uomini. E poi vanno aumentati gli organici. Ai tempi in cui ero prefetto a Roma c’erano tremila agenti impegnati nelle scorte. Con mille di loro, avremmo 15 pattuglie in più nelle strade.

il Fatto 6.1.12
Violenza Capitale
Quattro anni dopo la sceneggiata di Alemanno a Tor di Quinto, la città è un romanzo criminale
di Luca Telese


C’è una nemesi spietata nella fenomenologia da Romanzo criminale che in queste ore sta sgretolando come un biscotto l’immagine della Roma legge-e-ordine vagheggiata da Gianni Alemanno. E c’è un contrappasso nel destino di chi aveva cavalcato la campagna elettorale all’insegna della sicurezza, e ora si ritrova immerso in un western metropolitano livido e feroce: sparatorie, regolamenti di conti, taglieggiatori dal grilletto facile, rapinatori strafatti di coca che uccidono bambini. Nel 2008 il futuro sindaco Alemanno fu bravissimo nell’accreditare l’idea che i due delitti di quella campagna elettorale – il drammatico martirio di Giovanna Reggiani, alla stazione di Tor di Quinto, e lo stupro della ragazza del Lesotho alla Storta – fossero figli del lassismo della sinistra, un sottoprodotto malato del rinascimento veltroniano, male oscuro di una città sfavillante e solare, in cui i festival cinematografici duellavano con Venezia e le notti bianche illuminavano gli incassi dei commercianti.
ALEMANNO riuscì abilmente a dipingere questa suggestione, a imporre il tema della sicurezza a Francesco Rutelli (che per recuperare propose la delirante idea di un braccialetto anticrimine per tutte le donne romane!). Ma era vero il contrario: se si accetta l’idea che le amministrazioni di sinistra avessero indirettamente propiziato quei delitti, vorrebbe dire che ora è la nuova giunta capitolina a battezzare la contabilità macabra dei 35 omicidi del 2011. E se, invece, si ipotizza che il sindaco conti poco o nulla nella gestione della sicurezza naufraga il primo punto di forza della comunicazione politica del centrodestra. Per questo ieri Walter Veltroni si è tolto un sassolino dalle scarpe: “In quell’occasione – ha detto al Tg3 – Alemanno fece uno dei gesti politici più orrendi che io ricordo in questi anni, andando sul luogo dove era morta una persona a fare campagna elettorale”. Ma se, invece, oltre che a contarli si prova a pesarli, questi delitti, si scopre che la politica c’entra meno, oppure moltissimo, ma in modo indiretto. Intanto non si muore perché c’è poca fermezza, ma perché le periferie, abbandonate, si spengono. La giunta Veltroni ebbe il merito innegabile di fare di tutto per animarle: aprirono centinaia di negozi, librerie, pub, ristoranti, esercizi tipici, tutti fuori dal centro storico. Il primo gesto che fece clamore nel tempo della giunta Alemanno, la famosa aggressione all’alimentari di via Macerata (dopo deliranti sospetti su fantomatiche bande naziste rivendicò un coatto che aveva tatuato Che Guevara), non documentava tanto un clima d’odio etnico e razziale, ma era piuttosto un campanello di allarme: i quartieri popolari, poco illuminati, trascurati, degradati, trasformati da vetrine in piazze di spaccio, diventano zone di guerra tra poveri. Ma se si prova a pesare l’alfabeto dei delitti di questo lungo e spietato anno, ci si rende conto che spesso sono il segnale di una guerra di egemonia fra bande per il controllo dei quartieri. Molti atti di violenza, non solo delitti, ma anche gambizzazioni, si verificano nel quadrante sud-est della città, in quella porzione di periferie che ha il suo cuore intorno a Torbellamonaca, e nel cuneo che dal raccordo si infila nel centro correndo fra Tuscolana e Casilina. Se si guardano le fedine penali dei responsabili accertati, per esempio, si scopre che spesso anche le vittime delle aggressioni sono coinvolte in una guerra territoriale: pregiudicati, recidivi, gente appena uscita di galera. In questo scenario si manifestano personaggi che paiono saltati fuori dai romanzi di Massimo De Cataldo: maschere allucinate come quella di Andrea Vella, ex guardia giurata, killer sieropositivo, già omicida del suo fidanzato trans, fermato dai carabinieri con una beretta armata e 15 colpi in canna proprio a Torbellamonaca.
Anche il duplice omicidio di Ostia, è stato letto dagli inquirenti come un regolamento di conti: due imprenditori, appena tornati dall’Egitto, proprietari di alberghi, imprese, società. E che dire di Massimiliano Cogliano, pugile, buttafuori, atteso in strada per una esecuzione brutale? Aveva forse, senza saperlo, sbarrato la strada al figlio di qualche capetto? A preoccupare chi indaga non è tanto il numero degli omicidi, ma la qualità: aumentano gli agguati, le sparatorie, le esecuzioni. Alcuni delitti, come quello del gioielliere Flavio Simmi, freddato con nov ecolpi calibro 9 in via Grazioli Lante, nel cuore di Prati, il 5 luglio scorso, erano stati addirittura annunciati da una gambizzazione a gennaio e rivelano uno scenario più grande. E Simmi, figlio di “Robbertone” – un nome legato alla Banda della Magliana finito in carcere nel 1993, con l’accusa di usura, da cui poi fu scagionato – era così terrorizzato da chiedere protezione in ambienti malavitosi. Delitti come questo sono il segnale di una battaglia per l’egemonia in cui il potere (esattamente come negli anni ’80) si conquista con la calibro 9. Le guerre criminali aumentano la circolazione delle armi, rendono pericolosi anche i due rapinatori tossicopdipendenti che ieri hanno freddato il barista cinese e la sua bimba.
Ecco perché appare profetica, riletta oggi, l’intervista con cui il segretario del Sap, Francesco Paolo Russo, lanciava un allarme disperato sul Corriere della Sera (solo due mesi fa!): “A Roma mancano 1.500 poliziotti. C’è solo un agente ogni 980 abitanti, al Casi-lino ci sono soltanto due auto, per coprire una superficie di 113 chilometri quadrati, pari a quella del comune di Napoli”. E deve far riflettere anche l’intervista agghiacciante del Tg5 a Luigi Onofri, padre di Stefano, detto “il gigante buono”, ragazzone ucciso da colpi di mazza da baseball, con una tecnica che aveva fatto evocare l’efferatezza di Bastardi senza gloria di Tarantino: “Io non voglio vendette – ha denunciato papà Luigi – ma come è possibile che dopo un anno, uno dei tre condannati torni a casa ai domiciliari”. In questa Roma criminale e pulp, l’ultima beffa è questa: i poliziotti di quartiere restano una favola amena da campagna elettorale e chi spara sa che prima o poi può uscire. Il primo pericolo sono i pregiudicati che nell’Italia dei processi brevi (o lunghi) dribblano le condanne.

La Stampa 6.1.12
Un’immensa favela dove si spara come nel Far West
Quasi tutti i crimini commessi da connazionali, anzi da romani
L’allarme del Viminale: siamo a una soglia sproporzionata di violenza diffusa
di Guido Ruotolo


Non c’è più tempo per interrogarsi, per indignarsi sulle ragioni di questa violenza così assurda. Un’offesa per Roma città eterna, che sembra diventata una immensa favelas dove la violenza la fa da padrone. Non solo nelle sue periferie, ma anche nel centro, nel cuore della capitale. A Prati, due morti e sette gambizzazioni nel 2011.
Che impressione soffermarsi su quei dati nudi e crudi della città: 32 omicidi, 37 gambizzazioni, 140 furti di armi. In un anno, Roma sembra sfigurata e addirittura fuori controllo.
E’ vero, i numeri in sé sono ben poca cosa rispetto alla città, ai suoi quasi quattro milioni di abitanti. E però colpiscono lo stesso. La fotografia che ci consegna uno dei vertici delle forze di polizia che ha partecipato all’incontro di ieri al Viminale è allarmante: «Siamo a una soglia sproporzionata di violenza diffusa».
Sparano balordi per una rapina che finisce in omicidio; si sparano tra di loro per una partita di droga da spacciare in territori occupati da altri; sparano per risolvere regolamenti di conti, per futili motivi personali.
Sotto traccia, quello che è accaduto nel 2011 potrebbe in parte anche confermare l’esistenza di un conflitto criminale dovuto a presenze organizzate che sgomitano. Gli omicidi per lo spaccio, in alcuni casi con identiche modalità di intervento - la moto e i due killer con caschi integrali per non farsi riconoscere e stesso calibro utilizzato - potrebbero volere confermare la sensazione che siano maturati all’interno di una logica di guerra di mafia.
E gli investigatori della capitale fanno capire che su 32 omicidi registrati l’anno scorso, almeno cinque potrebbero essere omicidi di criminalità organizzata. Una piccola percentuale comunque, anche perché nella capitale la grande mafia c’è, ed è impegnata nel reinvestimento dei propri capitali, come dimostra la vicenda del Cafè de Paris, lo storico locale della «dolce vita» di via Veneto, sequestrato agli Alvaro di Sinipoli, una potente famiglia di ‘ndrangheta. E, dunque, la mafia ha bisogno di tranquillità, di non dare nell’occhio, di potersi muovere senza controlli.
Eppure spiegare Roma con i numeri soltanto è complicato. Perché i numeri e le percentuali danno atto che l’attività di prevenzione e di repressione delle forze di polizia non è da buttare. Risultati positivi, con le percentuali degli arresti per rapina, per furto, per traffico di stupefacenti, per usura, per estorsione che crescono del dieci, venti, trenta per cento in più rispetto all’anno precedente. Meno esaltanti, invece, sono le percentuali delle denunce, con picchi dell’80% in meno di denunce per usura o del 20% per ricettazione.
Si sono registrati più omicidi rispetto all’anno precedente ma meno dei 50 di media dell’ultimo decennio.
E allora Roma violenta colpisce intanto perché i suoi territori non hanno confini. I balordi o i violenti dilagano dalla periferia al centro. E non risparmiano i bambini. Come purtroppo dimostra Joy, nove mesi, uccisa l’altra sera con il padre, ma in un altro caso di rapina è rimasta ferita anche una bambina di dieci anni.
Le armi che uccidono, poi, non sembrano provenire dai grandi traffici di armi gestiti dalle mafie transnazionali (dei Balcani, per esempio). Piuttosto, essendo pistole o revolver, sembrano essere quelle provenienti dai furti nelle abitazioni. Gli investigatori concordano tutti nel sottolineare la presenza diffusa di armi sul territorio.
Roma città violenta colpisce soprattutto perché la nazionalità di questi criminali è tutta italiana, anzi romana. Il sindaco Gianni Alemanno conquistò il Campidoglio all’indomani dello stupro, della violenza e dell’omicidio di una donna da parte di un rumeno. Rumeni e albanesi erano sul banco degli imputati, in quella stagione. Con la Romania si aprì un braccio di ferro per far rimpatriare i rom, popolo diventato parafulmine delle paure e delle deviazioni razziste. Oggi è come se Roma si sia liberata di quel livore ideologico scoprendoche il nemico è al suo interno.
E forse è il caso di rivedere politiche sociali e culturali, di formazione e di prevenzione. Sostenere che il problema sia il controllo del territorio è vero solo in parte. L’altra sera, poco prima della tragedia di Torpignattara, una gazzella dei carabinieri ha sventato una rapina in un negozio di detersivi e cosmetici a Tor Sapienza, arrestando i due rapinatori.

Corriere della Sera 6.1.12
Piccoli boss e gang di quartiere così Roma è diventata violenta
Territorio, soldi e rispetto. Mafie su economia e finanza


ROMA — Nemmeno tre mesi fa, davanti alla commissione parlamentare antimafia, l'allora procuratore Giovanni Ferrara, oggi sottosegretario all'Interno, fu piuttosto esplicito: «A Roma ci sono piccole bande criminali molto violente. La violenza, anche quella spicciola, è diventata eccessiva e incontrollabile. Le cause non risiedono forse nella criminalità organizzata, ma nel modo di vivere, nella multietnicità e nel fatto che molta gente non ha di che vivere e ricorre, ad esempio, alle rapine per strada».
Il suo vice Giancarlo Capaldo, responsabile della Direzione distrettuale antimafia oggi reggente dell'intera Procura, puntò l'attenzione sulle cosiddette «gambizzazioni», spiegando che «sono numerose e molto più pericolose degli stessi omicidi, che per la quasi totalità hanno una motivazione diversa dalla criminalità organizzata; le gambizzazioni invece, per la quasi totalità si verificano nell'ambito di gruppi criminali contrapposti».
Il prefetto Giuseppe Pecoraro partì dalla crisi economica generale che, disse, «ha avuto ripercussioni negative anche sul tessuto di Roma e provincia, che in tale contesto presenta notevoli possibilità per la commissione di attività delittuose altamente remunerative quali, anzitutto, il traffico di sostanze stupefacenti, quindi le estorsioni, l'usura, il riciclaggio e altri reati connessi».
Sono passati tre mesi, ma la situazione non è cambiata. E questi tre punti di vista sulla situazione della criminalità nella capitale d'Italia s'intersecano e danno un quadro generale complesso ma abbastanza attendibile: a Roma si spara forse più che in passato ma questo non segna lo sbarco delle grandi organizzazioni; quelle c'erano e ci sono ancora, ma si fanno sentire il meno possibile. Sono aumentati i regolamenti di conti violenti, le rapine a mano armata, le sparatorie per piccole questioni. Non c'è tanto una crescita, quanto un imbarbarimento della malavita. Che continua a dividersi fra quella locale, di grande, medio e piccolo calibro, e quella d'importazione.
Il controllo delle zone
Se la criminalità diffusa spara più di prima, spiegano gli investigatori, è perché con la crisi c'è meno denaro in circolazione e dunque i pagamenti vanno fatti in fretta, non si aspetta come in passato e chi sgarra dev'essere convinto a saldare in fretta. Com'è successo, probabilmente, alla vigilia di Natale a Tor Bella Monaca, quando un pregiudicato cinquantenne è stato ferito da un sicario al quale s'è inceppata la pistola dopo un paio di colpi. Delinquenza di basso livello, che imita quella di rango maggiore, per emulazione e per necessità.
Si spara anche per mantenere il rispetto dovuto a chi si considera un capo, e se ritiene che qualcuno se l'è scordato si sente in dovere di punirlo. È successo a settembre nel quartiere del Trullo, dove il boss locale ha tentato di uccidere chi s'era permesso di ingaggiare una lite, impugnando addirittura un paio di forbici. Gli investigatori della squadra mobile l'hanno arrestato dieci giorni più tardi, mentre mangiava il pesce con tre amici in un ristorante in provincia di Cosenza.
Omicidi e «gambizzazioni» s'intrecciano tra affari illeciti grandi e piccoli. I morti ammazzati sono aumentati rispetto al 2010, trentasei contro venticinque, ma diminuiti rispetto ai quarantadue del 2009 e i trentanove del 2008. E i ferimenti galleggiano intorno a quelle cifre, nell'anno appena passato trentasette. Provocati a volte da piccoli screzi e a volte da battaglie ingaggiate per contendersi le piazze di droga e altri commerci illegali. Rimaste scoperte dopo che i due gruppi tradizionalmente dediti agli stupefacenti — quelli di Michele Senese (legato alla camorra napoletana, arrestato nel 2008) a sud e del clan Fasciani sul litorale — hanno subito colpi abbastanza pesanti dalle forze dell'ordine.
La guerra tra le bande organizzate
Messe le mani su Senese, i carabinieri hanno proseguito le indagini e a maggio hanno arrestato altre trentotto persone che avevano occupato (o tentato di farlo) gli spazi lasciati vuoti dall'uscita di scena del boss. Entrando a loro volta in conflitto tra loro, con un omicidio e cinque ferimenti. Durante quell'inchiesta è stata intercettata la voce di un indagato che copiava una delle battute più frequenti di Romanzo criminale: «Pijamose tutta Roma, semo come la mafia!».

La Stampa 6.1.12
Marco Wong
“Nei nostri confronti crescono la ferocia e gli atti di razzismo”
Presidente di Associna, ente impegnato nell’integrazione dei cinesi in Italia


«In una borgata romana un 40enne aspettava l’autobus sotto la pensilina, sono scesi quattro ragazzi da un’automobile e lo hanno bastonato a sangue», racconta Marco Wong, presidente onorario di Associna, associazione impegnata nell’integrazione dei cinesi in Italia. Wong sgrana un rosario xenofobo da «Arancia meccanica»: «Accoltellamenti, rapine sfociate in esplosioni di violenza e casi divenuti così di routine che neppure vengono più denunciati».
È il momento peggiore?
«Mai vista tanta efferatezza e ferocia. È l’anello più atroce di una catena di episodi crudeli. Dopo il duplice omicidio, stanno arrivando ai negozianti cinesi di Roma telefonate minatorie a fini estorsivi: “Se non paghi ti faccio fare la fine di quello lì”. Conosco bene la zona di Torpignattara: c’è una forte presenza di cinesi, molti gestiscono bar. Crescono paura e insicurezza. Quando ci si incontra tra noi si discute di rapine come prima si parlava del tempo. Per strada a Prato hanno massacrato di botte e derubato un passante, poi gli sono passati sopra con la macchina».
Si aspettava questa escalation?
«All’Esquilino, la Chinatown della capitale, si sono autotassati per la vigilanza a protezione dei negozi. Da attività con un flusso di denaro (tabaccherie, money transfer come l’ultima vittima) le rapine si estendono a negozi di oggettistica dove il denaro è poco e il margine di guadagno non consente di assicurarsi contro i furti. A chi denuncia capita poi che venga fatto il terzo grado su permessi di soggiorno e intoppi burocratici come se fosse il colpevole».
Il movente è anche il razzismo?
«Spesso sì. Violenze di matrice razziale non vengono denunciate dai cinesi e perciò il numero dei casi sembra più basso rispetto a quello di altre nazionalità. L’intolleranza è un sentimento che fa da sfondo anche a reati che non sembrano legati a fattori razziali. Di solito il rapinatore prende i soldi e scappa, il fatto che la rapina si concluda con un pestaggio o con un omicidio deriva dalla percezione che la vittima sia un “diverso” da umiliare. Bisogna denunciare, per cercare di fermare la spirale di degrado. Sarebbe utile per l’intera comunità».

La Stampa 6.1.12
Minaccia strage di ebrei Indagato il prof nazista
Insegna in un liceo nel torinese: da anni al centro di polemiche
di Massimo Di Numa


LA PSICOSI È convinto di essere spiato da americani e sionisti e minaccia vendetta
AMMIRATORE DI TIRANNI Tra i suoi preferiti Hitler Mussolini e Stalin ma anche Ceausescu

La Cia o qualche altra entità misteriosa da tempo operava sul suo amato profilo (pubblico) di Facebook. Gli cancellava i post, le sue invettive anti-semite, contro «i negri che spacciano». Lui è il professore di filosofia, di liceo, Renato Pallavidini, ora in malattia. Almeno sino a marzo, precisano i responsabili della scuola dove insegna da qualche anno. Ieri la Procura di Torino lo ha iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di «istigazione all’odio razziale». Gli agenti della Digos hanno perquisito la casa del professore, sequestrato due pc, una pen-drive e altri documenti. Nessuna reazione, nessun commento.
Bonvidini appare in uno stato assai confuso. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’incursione della solita entità misteriosa («È in California! », scrive il professore negazionista) sulla bacheca di Fb. Tra le immagini inserite nel suo fb-album c’è un campionario di dittatori dei totalitarismi più assoluti e criminali: Stalin, Lenin, persino il Conducator della Romania, Ceausescu, oltre all’amato Adolfo Hitler. Tra i personaggi storico che lo «ispirano», oltre a Stalin e Castro, anche Juan Domingo Peron. Poi una serie di sfilate militari nella Piazza Rossa ai tempi dell’Urss.
Citazioni preferite: «Meglio vivere un giorno da Leone che cent’anni da pecora», di Benito Mussolini, e la classica «Fora dai bal», di Umberto Bossi. Tifa per l’Inter, tesi di laurea «sul giovane Hegel, 110 lode e dignità di stampa», precisa. Ama Wagner e la «musica classica in genere». In passato aveva negato l’esistenza dei lager, aderendo alle contestate teorie «negazioniste».
Le frasi che hanno allarmato gli investigatori (dopo quanto è accaduto in Norvegia con la strage di studenti e più recentemente a Firenze, con l’uccisione di due senegalesi da parte di un fanatico di estrema destra, non si può trascurare nulla) sono queste: «Americani e servi di Sion che mi state controllando dalla California! E che cancellate ogni mio scritto sulla bacheca! Arriverà anche per voi il momento di pagare con il sangue il vostro essere! ». Poi: «Avviso ai luridi bastardi ebrei che ci controllano in quella terra di m.... e di f... chiamata California: se mi togliete questa foto (con Hitler e Mussolini), vado con la mia pistola alla sinagoga vicinissima a casa mia e stendo un po’ di parassiti ebrei che la frequentano. Vi conviene stuzzicare il can che dorme? ». Pochi giorni prima di Natale aveva lanciato una serie di appelli-proclama, sempre dalla rete. Cercava persone «disponibili a fare il tiro a segno contro i “negroni” spacciatori di droga», da «troppo tempo padroni», proprio sotto casa sua. In occasione dei cortei delle donne «se non ora quando», i commenti non sono stati teneri. In sintesi: «femministe frustrate». Il professore detesta anche i disabili e auspicava di adottare, per eliminarli, i metodi del dottor Joseph Mengele, l’uomo che nei campi di sterminio nazisti compì atroci esperimenti «medici» su migliaia di prigionieri per dimostrare la validità del predominio della razza ariana. Ha scritto anche al sindaco Fassino di «non voler pagare l’Ici per non finanziare l’assistenza a negri e zingari». Tra deliri e minacce. L’immagine dell’home page di Facebook è un gattino sdraiato su una coperta rosa.
Unanime la condanna, ma anche la preoccupazione. I parlamentari del Pd Emanuele Fiano e Roberto Della Seta e il deputato leghista Davide Cavallotto hanno annunciato interrogazioni urgenti al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna e il presidente della Comunità ebraica di Torino, Beppe Segre, chiedono che Pallavidini sia processato: «Esprimere con forza la condanna e il biasimo degli ebrei torinesi e italiani è quasi pleonastico tanta è l’infamia, l’aggressività e la violenza verbale vomitata nella rete da questo presunto “maestro di vita”. L’auspicio è che tale individuo, oltre a subire un processo, sia messo in condizione di non poter più nuocere ai giovani, nè all’interno di una qualsiasi aula italiana». Sulla stessa linea Lisa Palmeri-Billig e David A. Harris, dell’American Jewish Committee: «È inammissibile che un simile individuo sia lasciato libero di condizionare le menti dei giovani e di continuare a diffondere il suo odio omofobo, razzista e antisemita».

Repubblica 6.1.12
Marco Revelli, docente, storico e sociologo
"L´antisemitismo sul web evoca l´odio degli anni 30"


ROMA - Marco Revelli, docente di scienza della politica presso l´Università degli studi del Piemonte Orientale, è preoccupato. Legge le deliranti affermazioni fatte da Renato Pallavidini e pensa alla strage di Firenze e all´incendio del campo Rom di Torino.
Nell´atteggiamento di questo professore vede possibili analogie storiche con quanto avvenne durante il tragico periodo del nazismo?
«Qualche parallelo c´è. L´odio nei confronti di una figura sociale mi ricorda la Germania degli anni Trenta, quella dell´impoverimento di massa, quando il sentimento antisemita, la ricerca di un capro espiatorio, divennero comportamento collettivo e forma di stato».
Pallavidini è pericoloso?
«Sì, anche solo per il linguaggio che usa e che comunica sentimenti nefasti. Parole che, in un tessuto sociale fortemente provato, non trovano anticorpi».
A oggi il docente è ancora titolare di cattedra.
«Un fatto scandaloso. Fenomeni del genere vanno presi sul serio. È chiaro che siamo di fronte a un caso psichiatrico. Difficile considerarlo un educatore».
(m.p.)

La Stampa 6.1.12
Lavoro. L’allarme
Un giovane su tre è disoccupato
Il tasso è al 30,1%, in aumento di 0,9 punti rispetto a ottobre e di 1,8 sul 2010
di Rosaria Talarico


ROMA L'anno nuovo non porta nessuna novità sul fronte dell'occupazione. Gli ultimi dati forniti dall'Istat mostrano che da aprile 2008 a novembre 2011 gli occupati in meno sono stati 670 mila. Ancora peggiori i numeri relativi alla disoccupazione giovanile che arriva alla cifra record del 30%, che vuol dire un under 25 su tre senza lavoro. È quanto rileva l'Istat, parlando di «un vuoto dell'occupazione che rimane ampio». Le persone in cerca di lavoro sono oltre due milioni e, tra queste la quota di donne fa registrare gli aumenti più alti. Brutte notizie come al solito per i residenti al Sud, dove i livelli di disoccupazione sono a dir poco critici.
Il tasso di disoccupazione certificato nel terzo trimestre del 2011 è salito al 7,6% (dato non destagionalizzato), quota che per i giovani è al 26,5%, con un picco per le ragazze del Sud (39%). A saltare agli occhi è l'allungamento dei tempi per trovare un impiego, con la disoccupazione di lunga durata (almeno un anno) che raggiunge il livello massimo dal 1993. Altro dato indicativo del mancato ricambio generazionale e delle ultime riforme pensionistiche è quello che mostra l'aumento degli over 54 costretti a restare più a lungo a lavoro (+168 mila occupati in un anno), mentre gli under 34 sono praticamente bloccati all'ingresso (-157 mila unità). E chi sgomitando riesce a strappare un contratto si confronta con le angustie della precarietà e delle assunzioni con scadenza da yogurt.
L'unica nota positiva dell' ultimo rapporto Istat è il calo, seppur lieve, degli inattivi cioè degli scoraggiati che un lavoro non lo cercano neanche più. Anche se lo scoraggiamento è la prima causa che fa desistere nella ricerca di una sistemazione (+6,5%).
La Cgil parla di «situazione drammatica» e, in vista del confronto con il governo, chiede «un piano di tutele di emergenza per il 2012 coerente con una prospettiva organica di riforma degli ammortizzatori sociali» e «un vero piano per il lavoro che sappia indirizzare lo sviluppo verso i settori più innovativi e la tutela dell'ambiente». Anche per la Cisl la situazione della disoccupazione giovanile è di «emergenza sociale». Per il segretario generale aggiunto Giorgio Santini «questo quadro mostra che il primo intervento necessario per il lavoro riguarda un piano di sviluppo produttivo e di incentivi alla crescita. In particolare sono assolutamente urgenti la cantierizzazione di piccole e grandi opere annunciata dal ministero dello Sviluppo». La Uilm, tramite il suo segretario generale, Rocco Palombella, chiede che il problema venga affrontato a partire già dalla scuola «applicando norme ancor più semplificate rispetto a quelle previste dalla riforma Biagi relative alle istituzioni formative che intendano aiutare gli studenti in cerca di lavoro». Sul fronte politico interviene l’ex minsitro del Lavoro, Cesare Damiano (Pd): «Si conferma la gravità e la durata della crisi con un rischio di shock occupazionale per il 2012 al quale occorre rapidamente porre rimedio. Il problema ora nonè facilitare i licenziamenti ma tutelare chi perde il lavoro e favorire lo sviluppo».

l’Unità 6.1.12
Non solo F-35
Le spese improduttive delle Forze armate
Abbiamo più soldati di Germania e Inghilterra, abbiamo già pagato 13 miliardi per gli Eurofighter e contiamo di spenderne altri 9 per sommergibili e navi
Ecco i conti della nostra Difesa (che dovrebbe puntare all’integrazione europea)
di Umberto De Giovannangeli


Informare, non «demonizzare». Con una duplice avvertenza. dietro i numeri, in eccesso, vi sono persone, storie, percorsi di vita che meritano rispetto. Seconda avvertenza: ridurre le spese militari non significa smantellare uno dei pilastri della politica di un Paese, la Difesa, ma orientare, selezionare, gli investimenti in funzione del ruolo che s’intende avere sullo scenario internazionale. Un ripensamento da collocare in una chiave europea, sviluppando, ad esempio, una politica di Difesa integrata euromediterranea, «modello Unifil», la missione Onu in Sud Libano che si regge essenzialmente sul contributo di Italia, Spagna e Francia.
Un serio ripensamento va incardinato su dati. A partire dal dossiersistemi d’arma. F35 e non solo. Di seguito, quelli più onerosi: CACCIA F-35. L’Italia ha una commessa di 15 miliardi di euro per l’acquisto dagli Stati Uniti d’America di 135 caccia F-35 (costo unitario 124 milioni di euro).
EUROFIGHTER. L’ultima trance del programma (già spesi 13 miliardi di euro) per il caccia Eurofighter costerà all’Italia 5 miliardi di euro.
AEREI SENZA PILOTI: Il nostro governo intende acquistarne 8. Costo complessivo 1,3 miliardi di euro.
ELICOTTERI. L’Italia sta acquistando 100 nuovi elicotteri militari NH-90: costo complessivo 4 miliardi di euro.
NAVI DA GUERRA. L’Italia ha acquistato 10 fregate «Fremm» costo complessivo 5 miliardi di euro.
SOMMERGIBILI. Il nostro Paese sta acquistando 2 sommergibili militari: costo 1 miliardo di euro.
SISTEMI DIGITALI PER L’ESERCITO: Il progetto «Forza Nec» serve a dotare le forze di terra e da sbarco di un sistema di digitalizzazione. Solo la progettazione in atto costa 650 milioni. La stima di spesa complessiva è intorno a 12 miliardi di euro. Nel 2013, nel 2013 acquisteremo 249 blindati «Freccia per 1,6 miliardi. Nel 2015, 2 fregate antiaeree «Orizzonte» per altri 1,4 miliardi. Nel 2016 finiremo di pagare la portaerei Cavour e 4 sommergibili U-212 saldando i restanti 3,2 miliardi del finanziamento. Sul bilancio dello Stato, al momento, gravano 71 rogrammi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d'arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. Alcune domande sono d’obbligo: sono tutte acquisizioni necessarie? E in rapporto a quale modello di Difesa e su quale visione del ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale?
Altra «anomalia» è la spesa per il personale: 2/3 del bilancio della Difesa. C’è il rischio, ha sostenuto in una intervista a l’Unità, l’ex capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, generale Vincenzo Camporini, che l’Esercito si trasformi in uno «stipendificio». Alcuni dati. L’organico attuale delle nostre Forze Armate conta 511 tra generali e ammiragli (69 sono i generali di Corpo d'armata: ossia più del doppio dei corpi d'armata attualmente operativi in Italia; Ce ne sono 50 tra Esercito, Aeronautica e Marina, 10 nell'Arma dei Carabinieri e 9 nella Guardia di Finanza); 2600 sono i colonnelli; 22.992 gli ufficiali; 71.837 i sottufficiali (di cui 55.974 marescialli, 15.858 i sertgenti) : un numero spropositato rispetto ai «comandati»: la Truppa volontari conta 83.421 unità (di cui in servizio permanente 48.173; 35.248, in ferma prefissata). Ne risulta un organico con una età anagrafica molto avanzata e quindi poco incline all’operatività. «Tra un po’ avremo tutti generali e nemmeno un corpo d’armata.
Mandare a casa tenenti, colonnelli e marescialli lontani dall’età della pensione per assumere sergenti, come vorrebbe qualcuno, significa buttare via i soldi», rimarca il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo. Il paradosso emerge dalle missioni all’estero, che impegnano circa 7.435 tra uomini e donne, con evidente difficoltà a rispondere positivamente all’ipotesi di altre missioni.
Le spese per il personale si assestano sulla cifra di 9,4 miliardi euro (+0,9 rispetto 2010), quelle per l'addestramento segnano un -18% rispetto al 2010 (pari a fondi inferiori di 320 milioni euro rispetto al 2010) mentre quelle per gli investimenti si fermano a 3,4 miliardi euro. Se noi volessimo rappresentare su un diagramma a torta l'andamento del bilancio funzione difesa italiano per l'anno 2011 vedremmo come le tre voci «personale», «addestramento» ed «investimenti» invece di avere un equilibrio ottimale del 40% per il personale e del 30% per le altre due voci, si rivela ancora squilibrato alla voce spese per il personale (65,8% del bilancio) lasciando uno scarso 10% per l’addestramento e il 24% per gli investimenti. Quanto a spesa, l’Italia, è (dati Sipri) la decima potenza militare al mondo su 153 Paesi monitorati. Spendiamo, in termini complessivi, per l’apparato militare più dell’India, del Brasile, del Canada, d’Israele...(dati dello Stockholm International Peace Research Institute, Sipri). Quanto alla dimensione quantitativa delle Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica), con 178.600 unità, l’Italia ha più militari della Gran Bretagna (177.00), della Germania (152.00), della Spagna (135.000).
Significativa è anche l’analisi della spesa pro capite (spesa militare/popolazione) dell’Italia in rapporto ad altri Paesi economicamente più «solidi» del nostro. La nostra spesa pro capite è di 478 dollari, mentre quella del Giappone è di 332 dollari, quella della Germania di 411 dollari. Questo è il quadro della situazione. Il dibattito è aperto. La sfida è conciliare riduzione di spesa e maggiore funzionalità.

l’Unità 6.1.12
Ungheria. Chiesta l’applicazione dell’art. 7 del Trattato di Lisbona, che congela il diritto di voto
I leader Swoboda e Verhofstadt: «Dobbiamo proteggere i diritti, no a pericolosi precedenti»
Socialisti e liberali europei: «Orban deve essere fermato»
Per Bruxelles è «l’extrema ratio»: ma i socialisti e i liberali chiedono che si applichi l’articolo 7. Vi si ricorre in caso di violazioni dei principi fondanti della Ue. Sarebbe la prima volta nella sua storia.
di Roberto Brunelli


L’Ungheria danza in cima ad un vulcano pronto ad una doppia esplosione. Gli indicatori economici stanno precipitando di ora in ora, e il Vecchio continente continua ad aumentare la sua pressione. Ieri è stata la volta dei socialisti e liberali del Parlamento europeo, che hanno chiesto sanzioni politiche molto dure nei confronti del Paese dopo la svolta ultra-nazionalisti imposta dal governo guidato da Viktor Orban con la nuova Costituzione. E non si tratta di bruscolini: il vicepresidente del gruppo, l’austriaco Hannes Swoboda, ed il leader dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa, il belga Guy Verhofstadt, propongono l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, cui si ricorre in caso di violazioni di principi fondanti della Ue in tema di democrazia, libertà fondamentali e diritti dell’uomo. Politicamente, un
macigno: l’articolo 7 prevede, tra le altre cose, la sospensione del diritto di voto in Consiglio. Per avere nozione della gravità della cosa, mai nella sua storia l’Unione europea ha fatto ricorso all’articolo 7, che lo considera un’extrema ratio. «Non siamo ancora a questo punto», si fa sapere dalla Commissione: ma il solo fatto che se ne parli viene considerato di per sé emblematico.
Swoboda è molto netto. «Siamo dalla parte del popolo ungherese, che viene sempre più messo sotto pressione dal governo Orban. L’applicazione dell’articolo 7 deve essere seriamente presa in considerazione se il premier ungherese continua a sfidare deliberatamente le leggi ed i valori europei». L’esponente socialdemocratico austriaco sfida anche il Ppe sul «dossier ungherese», proponendo che il premier magiaro venga sospeso dal ruolo di vicepresidente del partito. Anche Verhofstadt si esprime in modo da non lasciar adito a dubbi, forse anche per accrescere la pressione sulla presidenza della Commissione: «Non è più tempo per scambiare lettere: a questo punto è degenerata la situazione in Ungheria. È arrivato il momento di avviare sanzioni legali e politiche sulla base dell’articolo 7. Che va applicato per proteggere la democrazia ed i diritti fondamentali in Ungheria e nella Ue, ma anche per evitare di stabilire un pericoloso precedente e dare un cattivo esempio ai Paesi che aspirano ad entrare nell’Unione».
La partita è grossa, insomma, ed investe in pieno «l’anima» della grande casa europea. La quale, per i critici, è talmente alle prese con la crisi di Eurolandia da scordarsi i suoi principi fondanti. Crisi che, per intanto, attanaglia pesantemente la stessa Ungheria. L’esecutivo di «Orban il Viktator» è al centro di una bufera selvaggia, ma fa finta di non accorgersene: ieri l’altro gli interessi sui titoli sovrani sono saliti al 10,9 per cento, un punto e mezzo in più rispetto al giorno precedente. A detta degli analisti, un tasso così alto significa che l’Ungheria non potrà più permettersi di ripagare il suo indebitamento. In bilico tra stagnazione e recessione, le prospettive economiche del Paese vengono inabissate ad un debito pubblico all’82,6 per cento del prodotto interno lordo. Nelle grandi capitali finanziarie si evocano giù da tempo scenari di bancarotta imminente (entro un mese, per intendersi), con ricaschi facilmente immaginabili su tutta l’Eurozona.
LA BEFFA DELL’AMNISTIA
Ecco che l’ineffabile Orban comunque si decide di battere un colpo, nel tentativo di allentare la tenaglia sul suo governo. Che ha annunciato ieri la proposta al Parlamento di un’amnistia per 43 manifestanti arrestati lo scorso 23 dicembre. Fra questi, 15 deputati socialisti e verdi, nonché l’ex premier anche lui socialista Ferenc Gyurcsany, accusati di aver ostacolato il traffico per essersi incatenati davanti al parlamento di Budapest. Anche loro protestavano contro la nuova Costituzione, poi entrata in vigore il 1. gennaio. Peraltro, anche se gli arrestati sono stati tutti rilasciati ieri, la procedura penale nei loro confronti va avanti comunque. Non sorprendentemente, però, Gyuarcsany e gli altri rifiutano l’amnistia, chiedendo anzi la cancellazione della procedura con la formula «il reato non sussiste».
Tra coloro che il 23 dicembre si sono incatenati davanti alla sede del Parlamento, c’era anche la deputata del partito ecologico Lmp, Virag Kaufer. Ebbene, per protesta contro la nuova Costituzione liberticida (riassumiamo: forti limitazioni alla libertà d’informazione, all’autonomia della Banca centrale e ai diritti civili), e per lanciare l’allarme per un Parlamento de facto esautorato, la signora Kaufer si è dimessa. Per la precisione, l’esponente ecologista ha dichiarato ieri all’agenzia Mti che intende organizzare un movimento di resistenza nella società alla politica autoritaria del governo. «Il Parlamento ungherese ormai è ridotto a un teatro di marionette di Orban, dove l’opposizione non ha nessun ruolo, e dove manca un reale confronto politico», ha detto Kaufer. Lei, insieme agli altri centomila manifestanti che lunedì gridavano la propria rabbia davanti al Teatro dell’Opera, chiedeva aiuto all’Europa. I primi colpi sono stati battuti.

Corriere della Sera 6.1.12
Anticomunisti liberali o autoritari quella differenza tra Havel e Orban
di Pierluigi Battista


Quando gli organismi europei decideranno come rispondere alla svolta autoritaria dell'Ungheria, non si macchieranno di un'«intrusione» negli affari interni di uno Stato sovrano, ma si occuperanno della nostra «casa» comune. A meno che, come è comprensibile temere, l'Europa sia interessata solo alla moneta e non alla democrazia, al default degli Stati e non al collasso dei diritti di libertà in una delle sue Nazioni. Altro che intrusione, sarebbe autodifesa democratica.
Nella casa europea, in Ungheria, stanno vivendo la più radicale regressione democratica dai tempi della caduta del comunismo. Viktor Orban esibisce come una medaglia il suo passato di anticomunista. Ma non tutti gli anticomunisti sono uguali (come del resto gli antifascisti). C'è l'anticomunismo liberale e democratico di Vaclav Havel e quello illiberale e antidemocratico di Orban, così come in Polonia c'era l'anticomunismo trasparente di Bronislaw Geremek e quello, meno attento all'integrità dei diritti civili e politici, dei fratelli Kaczynsky. All'anticomunista Havel non sarebbe mai venuto in mente di costituzionalizzare una legge liberticida sulla stampa in cui sono esplicitamente e severamente puniti i servizi giornalistici «lesivi dell'interesse pubblico» e addirittura «politicamente non equilibrati». E mai un liberale memore delle nefandezze della dittatura comunista avrebbe firmato una legge fondamentale dello Stato, come sta avvenendo a Budapest, in cui un'agenzia governativa viene chiamata a far rispettare una norma secondo la quale un telegiornale non può dedicare più del 20 per cento alla cronaca nera. Sembrerebbe una follia: e invece è la logica consueta delle dittature che non consentono di dire che nel cuore di una nazione pura esistano ancora i delinquenti e i ladri, come prescrivevano le veline durante il fascismo.
In Ungheria, forti di una maggioranza parlamentare schiacciante, stanno costruendo un regime autoritario. Criticando la «mobilitazione sospetta» («sospetta» di che, per l'esattezza?) contro il colpo di mano costituzionale di Budapest, Giuliano Ferrara sul Foglio ammette che «il governo eletto in Ungheria intende cambiare regime». Anche prendendo la parola «regime» in senso lato, come mi sembra faccia Ferrara, resta il fatto che il compito di un governo democratico non è di «cambiare regime». Senza contare che la natura del nuovo «regime» appare inquietante, intriso di cultura illiberale, intollerante.
La nuova Costituzione non invoca solo la benedizione di Dio (anche negli Stati Uniti è così, non c'è scandalo), ma stabilisce per legge, nella carta fondamentale dello Stato, che il cristianesimo è una religione superiore alle altre, che pure vengono tollerate e disciplinate secondo specifici atti amministrativi. In questo modo un cristiano ungherese si sentirà un vero ungherese, un ebreo ungherese si sentirà un ungherese semplicemente tollerato. È giusto che un europeo abbia la facoltà di eccepire su questo stravolgimento dell'idea di eguaglianza delle religioni di fronte alla legge che si sta consumando in Ungheria? Penso che ne abbia tutto il diritto, senza che il suo intervento suoni come un'intrusione. C'è intrusione negli affari degli altri. La violazione di alcuni princìpi fondamentali di un Paese europeo è invece affare nostro. Oppure è affare nostro solo la disciplina del mercato del lavoro e il sistema pensionistico, e non lo sono la democrazia, la libertà, la tutela dei diritti e delle minoranze politiche e religiose?
È stupefacente che chi concorda nel dire che l'Europa è una creatura fredda, non riscaldata da valori comuni e da una comune appartenenza culturale, non consideri di conseguenza grave il silenzio dell'Europa sulla libertà di stampa messa in mora in uno dei Paesi membri dell'Ue, sul conferimento costituzionale di poteri eccezionali alle agenzie governative che in Ungheria, consacrate dalla Legge fondamentale dello Stato, dovranno controllare strettamente la stampa, la magistratura e la banca centrale. Interferire su una degenerazione così palese dei criteri liberaldemocratici che reggono un Paese europeo è un atto legittimo di ingerenza democratica, come pure il sospetto che la deriva etnico-nazionalista della carta costituzionale ungherese costituisca un cambio di regime troppo radicale per essere considerato ordinaria amministrazione. Il default democratico: ecco una violazione dei parametri europei meritevole di essere sanzionata.

La Stampa 6.1.12
Cina, il lager diventa romanzo per sfuggire alla censura
Esce anche in Italia La donna di Shanghai di Yang Xianhui. L’autore racconta un campo di rieducazione, ma usando la fiction non critica direttamente Mao e il Partito
di Ilaria Maria Sala


A trenta cinque anni dalla morte del Grande Timoniere le immagini di Mao Tze Tung costellano ancora la Cina di oggi ma gli errori commessi sotto il suo governo sono stati rimossi e non vengono criticati
Yang Xianhui è nato a Lanzhou nel 1946 e vive a Tianjin Membro dell’Associazione Cinese degli Scrittori, ha lavorato in un collettivo agricolo a regime militare per 16 anni prima di dedicarsi alla scrittura

Più di trent’anni dopo la morte di Mao, liberarsene, per la Cina, resta impossibile: imbalsamato in un mausoleo in piazza Tiananmen, a Pechino, appeso nell’enorme ritratto alla porta della Città Proibita, poco lontano, ancora intento a indicare la via da seguire con il braccio teso in innumerevoli statue in varie piazze nazionali, e presente su quasi tutte le banconote in circolazione, il «Grande Timoniere» resta una presenza imprescindibile. L’ingombro non è solo fisico: il Partito che Mao ha contribuito a fondare, guidandolo fino alla morte, resta al potere, e i suoi leader odierni non possono ancora scaricare la pesante eredità. Morto Mao, la Cina era allo stremo, milioni di persone avevano subito persecuzioni atroci, e nel «riabilitarle» bisognava anche vedersela con gli errori commessi dall’ex-Presidente. Così, fu stabilito che il 70 per cento dell’operato di Mao era giusto, e il 30 per cento, sbagliato, cercando di archiviare la questione.
La Campagna contro gli Elementi di destra (1957), il Grande Salto in Avanti (1958) che portò alla morte per fame decine di milioni di persone, e la Grande Rivoluzione Culturale (1966), di nuovo con i suoi milioni di vittime, sono state tutte comprese nel misero 30 percento — così come le purghe omicide iniziate fin dai primi anni della storia del Partito. Il campo della morte di Jiabiangou, di cui la maggior parte di noi, in Cina come all’estero, rimane all’oscuro, è solo una delle pagine più crudeli del regno del «Grande Timoniere», salvata dall’oscurità dell’oblio dallo scrittore Yang Xianhui, con il suo impressionante La donna di Shanghai, ora proposto anche in edizione italiana per la collana Amatea dalla Logo Fausto Lupetti.
Oggi, infatti, nelle librerie cinesi, di fianco ai volumi per capire la finanza o diventare astuti collezionisti di antichità, si trovano molte opere appartenenti al filone della «nostalgia rossa», che idealizzano gli Anni 50 e 60, quando si era, per così dire, più poveri e più puri (o forse semplicemente più giovani) e che consigliano itinerari per viaggi nei luoghi rivoluzionari del Paese. In mezzo a tutto ciò esiste anche un esiguo numero di opere che vogliono invece salvare dall’oblio parte del passato. L’operazione è tutt’ora rischiosa: se negli Anni Ottanta era frequente un giornalismo d’inchiesta chiamato «baogao wenxue», spesso un po’ romanzato, oggi, malgrado l’apparente apertura, solo pochi riescono a sfidare il timore e la censura e pubblicare saggi che riescano a sollevare la spessa cortina di silenzio che regna sul passato.
Yang Xianhui, scrittore di Tianjin cresciuto nella regione semi-desertica del Gansu, decise qualche anno fa di cercare di affrontare alcuni dei temi tabù, e lo fece proprio con lo stratagemma della «baogao wenxue», romanzando fortemente le terribili vicende che avvennero nel suo Gansu dal 1957 al 1969, quando più di tremila «elementi di destra» vennero spediti a riformarsi al campo di lavoro di Jiabiangou. Le condizioni qui erano talmente orrende che solo un decimo di loro ne uscì vivo: la durezza dei lavori forzati, la spietatezza delle guardie, e la violenza della carestia che colpì la Cina con il Grande Balzo in avanti fecero morire tutti gli altri, tramutando Jiabiangou in un campo di sterminio. In alcuni casi, la disperazione della fame fu tale da far registrare casi di cannibalismo.
La Campagna contro gli elementi di destra era stata lanciata dallo stesso Mao dopo la breve campagna «dei Cento Fiori», nel corso della quale tutti erano stati incoraggiati a criticare il Partito, per essere poi puniti se commettevano l’errore di farlo. I funzionari presto ebbero quote di «elementi di destra» da rieducare, dato il via alla pratica di sbarazzarsi di rivali, nemici personali, coniugi di donne o uomini desiderati, incolpandoli di azioni o pensieri revisionisti e «controrivoluzionari», con cui vennero riempiti i campi di rieducazione.
Yang Xianhui dopo aver sentito parlare di Jiabiangou e degli orrori che vi erano avvenuti, decise di andare a cercare i sopravvissuti per farsi raccontare le loro esperienze, ascoltandone per tre anni le dolorose testimonianze. Poi, per difenderne le identità e in parte per non subire intoppi nella pubblicazione, Yang ha raccolto il materiale in una serie di racconti, mescolando episodi, cambiando nomi e rendendo irriconoscibili i protagonisti. Il risultato è una narrazione con moltissimi elementi di verità di sicuro valore letterario e documentario ma che evita però di essere un’opera del dissenso politico. Non che ciò risparmi molto il lettore: gli effetti fisici e psicologici della straziante carestia imposta dalle politiche scellerate del tempo sono lì, sulla pagina, e non danno tregua.
L’impatto del lavoro di Yang, così romanzato, è stato importante in Cina, dove il regista Wang Bing lo ha fatto diventare un film dal titolo Il fossato, presentato al Festival di Venezia 2010, ottenendo i plausi della critica. La donna di Shanghai dunque non ha dovuto subire un percorso di censura, anche perché l’autore evita di criticare in modo diretto le autorità centrali, o il Partito. Modo avvisato per aggirare le severe forbici dei censori, ma si tratta anche di atteggiamento comune a diversi intellettuali cinesi, che malgrado tutto quello che hanno subito sotto le campagne politiche indette dal Partito e dal suo fondatore, ancora non vogliono estraniarsene criticandone l’impalcatura.

Repubblica 6.1.12
La primavera e il corpo delle donne
di Renzo Guolo


Come spesso accade nel mondo islamico, il corpo femminile è il sensibilissimo sensore del mutamento politico e culturale di quelle società. Dopo aver concesso loro il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni amministrative, il regime saudita fa un´altra concessione alle donne. D´ora in poi il personale dei negozi di intimo sarà femminile. Lo stesso accadrà, tra pochi mesi, alle profumerie. Questa scelta apparentemente impolitica, che potrebbe sembrare una nuova forma di segregazione sessuale, è stata accolta con favore dalle donne che da tempo chiedevano una decisione in tal senso. Non solo perché sarà più naturale per loro entrare in simili negozi attendendosi complicità o voluta indifferenza, senza esporsi così a sguardi o commenti di venditori maschi; ma anche perché quell´ingombrante presenza dietro al bancone le obbligava a essere accompagnate da un maschio di famiglia che faceva da tutore.
Acquisti resi più complicati dal fatto che, nel rigido contesto saudita non esistono nemmeno camerini, spogliarsi in un luogo aperto al pubblico sarebbe comunque ritenuto blasfemo e, dunque, la descrizione della tipologia delle merce dev´essere necessariamente più accurata. Con tutti gli imbarazzi che possono derivarne in simili casi in un contesto che ha eretto la pudicizia e l´occultamento del corpo femminile a dogma.
La decisione di re Abdullah si inscrive in quel processo di progressiva considerazione della libertà femminile mirato a far diminuire la possibile massa critica di opposizione al regime in un momento in cui il vento caldo della primavera araba potrebbe mettersi a soffiare con forza anche sul Paese-chiave del Golfo. Un passaggio comunque delicato, vista la dichiarata opposizione degli ulema, i veri detentori della legittimità religiosa del regime. Teologi e giuristi wahabiti ritengono, infatti, che la mescolanza si sposterà ora dietro al bancone, mettendo a contatto, ben più pericolosamente, gestori maschi e personale femminile oltretutto obbligato a maneggiare denaro, altra mansione proibita. Tre anni fa gli esperti religiosi erano riusciti a bloccare queste stesse misure, emettendo una fatwa che proibiva alle donne di lavorare come cassiere, anche se la decisione non era stata del tutto rispettata dalle direzioni dei supermercati. Ma allora la primavera araba era solo un mugugnante inverno dello scontento e la monarchia saudita aveva frenato. Ora il prudente riformatore Abdullah ha deciso di forzare la mano. A costo di entrare in rotta di collisione con gli ulema. Una vicenda destinata a ridimensionare il peso dei religiosi e a rinfocolare l´intransigenza misogina.

il Fatto 6.1.12
Schiene dritte
L’eretico Martinetti, italiano per caso
Fu uno dei dodici professori che non giurarono al fascismo. E allo studente Lelio Basso disse: “Qui il maestro è Lei”
di Raffaele Liucci


PIERO MARTINETTI (1872-1943) fu tra i migliori italiani del Novecento. Professore di filosofia teoretica a Milano, formò generazioni di allievi (ma non di discepoli), da Guido Morpurgo-Tagliabue a Eugenio Colorni. Antifascista, fu uno dei 12 docenti (su oltre 1200!) che nel 1931 si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo così la cattedra. Cultore della filosofia come forma suprema dell’ascesi religiosa, non accettò mai la prepotenza della Chiesa, «la quale, sotto il pretesto del rispetto alla religione, mira a rendere impossibile qualunque altro pensiero». Convinto, sulla scia del prediletto Schopenhauer, che uomini e animali fossero uniti da una parentela universale, elaborò i primi barlumi di un pensiero animalista ante litteram, assai critico verso la vivisezione. Estraneo alle «scuole», alle conventicole e alle mode storicistiche di casa nostra, spesso ripeteva agli amici: «Io sono un cittadino europeo, nato per combinazione in Italia».
Per cogliere la tempra del suo carattere, basti un aneddoto. Quando il socialista Lelio Basso, condannato al confino di Ponza nel 1928, si presentò scortato dagli agenti all’esame di filosofia, Martinetti cominciò a interrogarlo, ma presto lo interruppe più o meno con queste parole: «Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo Lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è Lei. Vada, trenta e lode».
Il suo epistolario, ora disponibile grazie alle amorevoli cure di Pier Giorgio Zunino, ci proietta nella cittadella interiore di un alieno, rispetto alla melassa italiota. Prendiamo il giuramento imposto dal regime agli accademici. Fior di antifascisti, da Marchesi a Calamandrei, si adeguarono. Lo abbiamo fatto, si giustificheranno nel dopoguerra, per impedire che a educare le nuove generazioni fossero soltanto gli scalzacani del duce. Può essere. Ma quale differenza con le scarne parole indirizzate da Martinetti al ministro della pubblica istruzione Balbino Giuliano: «Sono addolorato di non poter rispondere con un atto di obbedienza. Per prestare il giuramento richiesto dovrei tenere in nessun conto o la lealtà del giuramento o le mie convinzioni morali più profonde: due cose per me ugualmente sacre». Lo splendore dell’intransigenza.
Non a caso, sono soprattutto due i «chiarissimi professori» che escono ammaccati da questo carteggio. Il primo è padre Agostino Gemelli, il teorico della «riconquista cattolica» all’ombra dei labari littori, un ragno velenoso che farà di tutto per imprigionare nella propria tela il pensiero eretico di Martinetti. Il secondo è Giovanni Gentile, archetipo dell’accademico arrampicatore e manovriero, «servo a tutti», rovesciando un celebre motto di Kant. Rifulge, invece, Ernesto Buonaiuti, straordinaria figura di sacerdote modernista, perseguitato senza tregua dai pretastri in camicia nera.
Le pagine più affascinanti del carteggio sono forse quelle dell’ultimo decennio, dal ’32 in poi, quando Martinetti, costretto ad abbandonare l’università, si ritirò nel suo eremo piemontese di Castellamonte. Una vita solitaria e spartana, ma operosissima, mentre i suoi libri erano sequestrati dalla prefettura e messi all’indice dal Sant’Ufficio. Pochi i corrispondenti epistolari, fra i quali spicca Nina Ruffini, nipote del giurista Francesco, un altro dei professori che non giurarono. Nel crepuscolo della sua vita, Martinetti verga alcuni delle più perspicue riflessioni sulla natura del potere totalitario sviluppate in quegli anni. Un’analisi che non lascia scampo. Un mondo in cui le vittime amano «le dittature, l’ordine dispotico, l’uguaglianza nel servaggio». L’Italia ridotta a un «branco di schiavi», cosicché i «pochi spiriti isolati appariscono come dei nemici del bene pubblico». E tuttavia, anche se «le tenebre prevalgono sempre, la luce non si spegne mai completamente». Per questo pubblicare libri resta «l’unica forma di bene che oggi sia lecito fare».
Morì il 23 marzo del ’43, senza fare in tempo a gioire per il crollo del regime.
Piero Martinetti, Lettere (1919-1942), a cura di Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti, Olschki, pagg. LXXXI-264, • 36,00

l’Unità 6.1.12
La rinascita delle biblioteche?
È farne cuori pulsanti della lettura
L’appello di studiosi e cittadini per rendere questi luoghi fondamentali per l’accesso alla conoscenza La risposta del presidente Aib all’articolo di Chiara Valerio uscito mercoledì sulle nostre pagine
di Stefano Parise, presidente AIB


Let it be potrebbe essere la colonna sonora che accompagna la crisi delle biblioteche, l'agonia delle librerie indipendenti, l'incertezza degli editori alle prese con la metamorfosi del libro digitale.
Mentre gli addetti ai lavori si prodigano in appelli, denunce, interventi, nel Paese dove un italiano su due non legge nemmeno un libro all' anno e poco più del 10% della popolazione frequenta una biblioteca, nulla sembra smuovere il disinteresse istituzionale nei confronti del libro e della lettura.
E allora vai con i Fab Four, mentre le librerie indipendenti continuano a chiudere i battenti, il mercato del libro perde colpi (0,7%, pari a 7 milioni di euro sfumati) e le biblioteche stentano fra tagli ai bilanci (dal 30% in su), impossibilità di rigenerare gli organici e incapacità degli enti titolari di utilizzare la leva organizzativa per migliorare i servizi.
Sullo sfondo, la rivoluzione lenta dell'e-book, entrato in punta di piedi nel mercato italiano (lo 0,04% nel 2010, che pare diventerà l'1% quest'anno), la diffusione del self publishing, la battaglia campale delle vendite online, l'avanzata di internet a insidiare ogni ruolo di intermediazione informativa, editoriale e commerciale, la nascita di editori «digitali nativi» e di reti bibliotecarie che offrono accesso a una vasta gamma di contenuti in formato elettronico ai propri utenti.
Un quadro di ricchezza e complessità inedite, del quale non dovrebbero occuparsi solo i professionisti del settore perché in gioco non c'è soltanto la sopravvivenza di una filiera produttiva e commerciale ma il modo in cui una nazione favorisce la circolazione delle idee. Invece nulla, si procede in ordine sparso.
IL RUOLO DEGLI EDITORI
Così Stefano Mauri ha recentemente riaffermato (su «Repubblica», 11 dicembre) il ruolo insostituibile degli editori nel garantire la qualità dei libri e un contesto competitivo che garantisca opportunità agli autori e libertà di scelta ai lettori; l'Associazione Italiana Biblioteche ha lanciato un appello pubblico («La notte delle biblioteche», sottoscritto da intellettuali e da oltre 12.000 cittadini) per chiedere che anche nel nostro Paese il sistema delle biblioteche sia considerato una infrastruttura essenziale per l'accesso alla conoscenza e ai prodotti della creatività e dell'ingegno; i librai, che non avevano ancora finito di festeggiare l'entrata in vigore della legge che regola lo sconto sui libri, si sono trovati a doverla difendere dal fuoco amico dei best sellers messi in promozione ancor prima di debuttare in libreria.
Esorcismi buoni per farsi coraggio ma di relativa utilità se non raccordati in un quadro d'insieme che sappia coniugare la necessità di un cambiamento (nei modelli di business per gli editori, negli approcci commerciali per i librai, nelle prospettive e nei contenuti di servizio per i bibliotecari) con la presa di coscienza che la miglior polizza sulla vita per tutti gli attori della filiera del libro, attuali e futuri, è rappresentata dall'ampliamento della base sociale dei lettori.
Attraverso la lettura si assimilano competenze e si elabora conoscenza, si filtra informazione e si formano le opinioni. In Italia, dove il 71 per cento della popolazione non è in grado di comprendere un testo di media difficoltà (De Mauro sul «Corriere della Sera», 28 novembre 2011), questa dovrebbe essere una priorità nazionale, da affrontare con politiche di lungo respiro e investimenti adeguati, che sappiano ridare prestigio a una pratica fra le più svalutate e avvicinare ad essa il maggior numero possibile di italiani, giovani e non.
Non è un problema da affrontare (solo) in chiave tecnologica: quand'anche Internet arrivasse a contenere, come l'Aleph borgesiano, tutti i saperi e tutte le prospettive, se anche riempissimo le scuole di lavagne multimediali e dotassimo ogni studente di un iPad, senza la capacità di fare un uso consapevole e competente dell'informazione resteremmo prigionieri della nostra inadeguatezza al cospetto della complessità che ci circonda (e a dispetto dei molteplici gadget tecnologici di cui tutti ormai siamo dotati).
IMPARARE A LEGGERE
È a questo progetto di alfabetizzazione che le biblioteche possono dare un contributo significativo, come volano per la promozione della lettura e come ambiente esperto di apprendimento anche avanzato, specialistico, per lettori di tutte le età, in una prospettiva di continuità con il lavoro svolto dalla scuola e dall'università. Cittadini competenti e capaci di scegliere sono i migliori clienti possibili per editori e librai interessati a lavorare sulla qualità e sulla pluralità delle proposte.
Ma chi deve raccordare le visioni particolari orientandole in un quadro complessivo? Chi deve coinvolgere tutti i soggetti interessati in una discussione che abbia come unico obiettivo quello di produrre un quadro di riferimento coerente che metta ordine all'attuale babele di competenze per indicare chi, come con quali mezzi consolidare la lettura in Italia?
Le istituzioni finora sono state latitanti o hanno affrontato singoli aspetti del problema. È giunto il momento di aggredire complessivamente il tema della promozione del libro e della lettura con provvedimenti legislativi adeguati. A Matera, durante l'ultimo forum del libro, bibliotecari, editori e librai hanno discusso di una legge di iniziativa popolare per la promozione del libro e della lettura. Lodevole ma insufficiente, perché la definizione di una politica per la lettura richiede un sostegno istituzionale forte. Politica, se ci sei batti un colpo.

il Fatto 6.1.12
Il Cairo
Duecentomila libri perduti
Tanti sono i testi andati in fumo tra cui l’Enciclopedia napoleonica
di Francesca Cicardi


il Cairo. La dottoressa Suheir Hawas osserva tristemente la sede dell’Istituto d’Egitto – fondato alla fine del XVIII secolo da Napoleone Bonaparte – ormai carbonizzato e sull’orlo del collasso. Le fiamme hanno divorato la struttura e i circa 200 mila volumi di incalcolabile valore custoditi all’interno dell’edificio, che si è ritrovato nel bel mezzo del fuoco incrociato di manifestanti e forze dell’ordine, nel cuore del Cairo durante l’ultimo episodio di violenza a piazza Tahrir. Era il 17 di dicembre e gli scontri continuarono per diverse ore intorno all’Istituto d’Egitto, con il lancio di pietre e bombe molotov, senza che nessuno intervenisse. I tetti e i pavimenti sono crollati, i pompieri arrivati troppo tardi e l’acqua comunque ha annegato i libri e rischia di far crollare quel poco che rimane in piedi dello storico palazzo. “Abbiamo perso 200 anni di storia”, dice Suheir, dell’Organizzazione nazionale per l’armonia urbanistica, con una macchina fotografica in una mano e una pagina di un libro bruciato nell’altra, mentre le pietre volano ancora sopra la sua testa. Piú di due settimane dopo, da sotto le macerie ogni giorno si ritrovano ancora libri: molti in pessime condizioni, non saranno più recuperabili, spiega Mohamed Sabry Al Dali, direttore del centro ricerche dell’Archivio nazionale egiziano. È in questo stabilimento che si stanno raccogliendo tutti i volumi: bruciati, inzuppati d’acqua, rovinati dalla manipolazione da parte di persone non esperte. All’incirca il 95 per cento sono stati estratti dall’Istituto d’Egitto, informa Al Dali, ma non è ancora iniziato il lavoro di catalogazione, meno ancora quello di restauro: “Ci vorranno anni! ”, assicura il direttore, il quale non osa stimare quanti libri potranno essere salvati e quanti sono andati persi per sempre.
IMPOSSIBILE quindi calcolare le perdite, così come il tempo e le risorse necessarie per riparare i danni, alcuni irrimediabili: una copia originale della Descrizione D’Egitto è andata distrutta quasi completamente. L’enciclopedia scritta durante la campagna napoleonica dal 1789 al 1801 è considerata la raccolta più completa e dettagliata di tutti gli aspetti del Paese fino a quel momento: 20 volumi redatti da più di 150 scienziati per oltre 20 anni. Fortunatamente, in Egitto si trovano altre tre copie manoscritte della prima edizione della Descrizione d’Egitto, oltre a quella che era custodita all’Istituto, e la Biblioteca Alessandrina l’aveva digitalizzata qualche hanno fa.
Mariam, una giovane attivista, accorse la sera del 17 dicembre per aiutare a salvare i libri, dopo aver visto l’Sos lanciato su Face-book e Twitter, e vide coi suoi stessi occhi come la Descrizione d’Egitto veniva estratta dall’Istituto ormai carbonizzata. Più di dieci anni prima aveva avuto la fortuna di sfogliarla intatta. Quella sera, insieme a lei altri volontari sono accorsi per salvare i libri. Quasi duecento persone lavorano ininterrottamente per recuperare questo patrimonio, non apprezzato e riconosciuto fino a quando è andato perso. Un team di specialisti della Biblioteca di manoscritti e libri rari dell’Università americana del Cairo sta dando il proprio contributo: il direttore Philip Croom evita di quantificare i danni: “È ancora presto per farlo”, ma ricorda l’importanza di conservare adeguatamente i documenti originali, di digitalizzarli, perchè “non si sa mai quando potrà accadere un’altra tragedia del genere”.
Per la dottoressa Soheir, è un dramma anche la perdita dell’edificio in sé, che dovrà essere demolito e poi ricostruito. “Bisogna salvare almeno la facciata, per conservare la memoria, il valore e l’immagine di questo palazzo”, 200 metri a sud di piazza Tahrir, dice adesso, afflitta come il giorno in cui osservava incredula quello che ne era rimasto. Questa volta è stato il turno dell’Istituto, la prossima potrebbe essere quella del Museo Egizio, all’entrata nord di Tahrir, e già messo a rischio in numerose occasioni durante i mesi di battaglie nella piazza e dintorni. Egittologi e organizzazioni di tutto il mondo si sono mostrati molto preoccupati per i tesori del Paese, soprattutto per il Museo, che fu colpito all’inizio della rivoluzione, quando diversi pezzi di gran valore furono smarriti, rubati e distrutti, perfino alcune mummie millenarie. Per gli attivisti, ovviamente le perdite umane pesano di più che quelle materiali: oltre 15 manifestanti morirono a metà dicembre negli scontri durante i quali l’Istituto fu bruciato.
ANCHE ALTRI edifici pubblici furono incendiati, ma alla fine salvati: l’Istituto era l’unico che non aveva un sistema antincendio. Le autorità diedero la colpa ai manifestanti “teppisti”, i quali avrebbero avuto un piano ben preciso per bruciare il Paese, letteralmente, secondo i militari che governano l’Egitto e che fino a oggi non hanno adottato alcuna misura di sicurezza. I rivoluzionari da parte loro rifiutano le accuse e dicono di aver sempre protetto il loro patrimonio storico, che negli scorsi mesi hanno sacrificato diverse volte mentre facevano la Storia.

il Fatto Saturno 6.1.12
Mito e psiche
I sudici dèi di Freud
di Giorgio Ieranò


SULLA SCRIVANIA di marmo è schierato un esercito di demoni. Divinità egizie, etrusche, greche: Amon-Ra con la testa di ariete, Iside con il figlio Horus in braccio, Atena che esibisce, ormai vuota, la mano che un tempo reggeva la lancia. Erano i demoni che Sigmund Freud aveva davanti agli occhi quando scopriva il complesso di Edipo. La fotografia in bianco e nero ci mostra le antiche figure come apparivano una volta, allineate e compatte, davanti alla sedia girevole in pelle su cui sedeva l’inventore della psicanalisi. Tutt’intorno, alcune di quelle statuette riposano in teche di vetro nella mostra La divina follia: Freud archeologo. Una mostra piccola, 18 pezzi in tutto. Ma è suggestivo entrare nell’atmosfera dello studio viennese di Berggasse 19, dove Freud scriveva i suoi libri e riceveva i suoi pazienti, scortati da questa schiera di demoni. Freud aveva una passione assoluta per l’archeologia. I pezzi esposti a Bolzano (“I miei vecchi, sudici dèi”, come li chiamava lui) vengono dalla sua collezione privata custodita al Museo Freud di Londra. “Ho letto più di archeologia che di psicologia”, confessava lui stesso in una lettera a Stefan Zweig. E altrove annotava: «Proprio come l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati, così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordo dell’analizzato». Lo psicanalista, dunque, come archeologo dell’anima. Ma quale antichità era quella di Freud? A volte la sua opera e la sua collezione sembrano illustrarsi a vicenda. Non stupisce di trovare un vaso greco che rappresenta Edipo di fronte alla Sfinge. E, forse, anche nella statuetta che mostra affiancati il faraone Amenofis I e sua madre, scoperta nella loro sepoltura comune, «Freud potrebbe avere colto un aspetto edipico», come suggerisce il curatore della mostra Francesco Marchioro. Di certo, davanti a questa ossessione per l’antico, si capisce come dalla sua scuola sia potuto uscire anche Gustav Jung, che le divinità pagane le infilava dappertutto. L’antichità di Freud è radicalmente anticlassica. Il suo idolo era Heinrich Schliemann, l’archeologo dilettante che, seguendo i sogni d’infanzia, aveva scoperto una grecità primitiva e favolosa, il mondo preistorico delle maschere d’oro dei re di Micene, così lontano dall’equilibrio apollineo celebrato dal neoclassicismo. Usando Edipo come chiave per l’inconscio, in fondo, lo stesso Freud aveva contribuito a trasformare gli eroi antichi da paradigmi di un canone estetico o morale in simboli della dimensione più oscura dell’umano. Ma già i suoi “sudici dèi” annunciavano la morte dell’ideale neoclassico.
La divina follia: Freud archeologo, Galleria Civica, Bolzano, fino al 29 gennaio

La Stampa 6.1.12
Ci vuole la tonaca per fare ascolti in tv
Trionfano Suor Angela Rai e Padre Gabriel Mediaset Bernabei: “Rassicurano”. Valsecchi: “Piace il mistero”
di Simonetta Robiony


Italia misteriosa. Saranno preti, suore, frati, teologi a salvare la fiction italiana dal calo degli ascolti? Vedendo i risultati pare di sì. L' ottava serie di Don Matteo della Lux, con l'eterno Terence Hill, ha chiuso con una media di 7 milioni le sue 13 puntate con ascolti in salita fino agli oltre 8 e subito, su Raiuno, è ripartita un' altra serie, Che Dio ci aiuti, stavolta con la suor Angela di Elena Sofia Ricci, approdata ieri alla quarta puntata e subito piazzatasi sopra i 6 milioni. Ha fatto un gran botto superando i 7 milioni su Canale 5, mercoledì, la prima puntata de Il tredicesimo apostolo della Taodue di Valsecchi con Claudio Gioè e Claudia Pandolfi, esplorazioni nel paranormale di un teologo prudente in compagnia di una psicologa materialista. E l'Italia che va a messa sempre meno, ascolta distrattamente i dettami della chiesa, sorride con Don Matteo e suor Angela o trattiene il respiro con Padre Gabriel. Si cerca con loro una via di salvezza davanti alla caduta dei valori tradizionali? O ci intriga buttare un occhio sui misteri che a dispetto di Piero Angela e del suo scientismo ancora ci turbano?
Certo i due religiosi di questo momento tv si somigliano poco. C'è, però, un elemento in comune: entrambi i sono immersi nella realtà e spesso i casi di puntata sono tratti da fatti di cronaca modificati. Pietro Valsecchi, gran capo di Taodue, produttore delle migliori fiction su mafia, Ris, distretti di polizia della nostra tv, da uomo con i piedi per terra parla, per il suo Il tredicesimo apostolo, di bisogno di novità da parte del pubblico. «Abbiamo fatto il più bel regalo di Natale a Canale 5 dimostrando che la fiction non è morta né è ammalata: basta innovare e il pubblico si trova. Io rischio. M'è andata bene. Ma c'è attenzione, studio, scrittura, regia e buoni attori. Senza la qualità non c’è successo». Quindi se il protagonista non fosse stato un sacerdote sarebbe andata ugualmente bene? «Non dico questo. Il conflitto fede-ragione affascina. E per renderlo serve mettere insieme una persona di fede e un'altra di ragione. Meglio se un uomo e una donna che si piacciono, pensando a Uccelli di rovo e meglio ancora se come in Voyager si alimenta il mistero. Ma la cosa più importante è innovare senza scimmiottare gli americani». Conta che l'Italia sia un paese cattolico? «Un po’ sì. Del resto tutti noi non ascoltiamo l'oroscopo, magari senza crederci? Se si vuole fare ascolto si deve fare una fiction profondamente italiana e di buona qualità. Soprattutto non ripetitiva. La gente ha pochi soldi adesso ma pretende dalla fiction quello che chiede a un film: vuol starsene a casa senza spendere i 7 euro del biglietto ma vuole il meglio».
Sarà. Ma proprio la ripetitività è la forza del vecchio Don Matteo e del nuovo Che Dio ci aiuti, la sua copia al femminile. Piccoli o grandi reati risolti con intuito, generosità e tanta fede. Luca Bernabei, che con la sorella Matilde è a capo della Lux, la più cattolica delle case di produzione, sostiene che piace la figura positiva. «La gente vuol essere rassicurata: piacciono suore e preti perchè portano una divisa così come piacciono i carabinieri e i poliziotti. E piace che i non giudichino mai con durezza chi ha sbagliato, ma indichino la via della salvezza». Qual è la ricetta del successo? «La serietà con cui lavoriamo. Ottimi collaboratori. Scrittura e riscritturadel copione, attori capaci come Terence Hill e Elena Sofia Ricci. Oggi il pubblico è diventato spietato, decreta la morte di una fiction col pollice verso fin dalla prima occhiata. In vent'anni è come se gli italiani avessero preso un master in fiction: sono bravissimi. E noi stiamo attentissimi. Suor Angela, per dire, è ispirata a una giovane donna che conosciamo: bella, ricca, fidanzato innamorato e casa ai Parioli, ha lasciato tutto e s'è fatta suora per regalare a chi la incontra la sua serenità». Il successo in tv dei personaggi che vestono abiti religiosi ha la stessa origine del successo che hanno le fiction sui papi o sui santi? Matilde Bernabei dice di no. «Quelle sono storie eccezionali, questi sono uomini e donne che si possono incontrare ogni giorno. In comune c’è il bisogno di spiritualità che c'è anche nella fiction di Valsecchi. E' un desiderio che sta nel nostro profondo, ma se lo sappiamo esprimere con onestà, perfino in tv finisce con il catturare l'attenzione».

Repubblica 6.1.12
Storia e leggenda dell´Epifania dai romani a noi La festa fonde usanze antiche e simboli cristiani
La befana
Così dalla ninfa Egea nacque il rito della calza
La notte della vecchina che vola sulla scopa ha un carattere di attesa magica
di Marino Niola


È la calza a fare la befana, non la befana a fare la calza. Basta questo accessorio magico, infatti, a trasformare una strega inquietante in una nonnina volante. Un po´ fata generosa, un po´ maga minacciosa. Ninfa attempata e sibilla decrepita, la megera benefica che arriva il sei gennaio ha nella calza il suo logo millenario. Che risale alle antiche divinità femminili del mondo pagano. Quelle che governavano il passaggio dall´anno vecchio a quello nuovo.
Prima fra tutte la ninfa Egeria, consigliera soprannaturale di Numa Pompilio. Il secondo dei mitici sette re di Roma proprio alle calende di gennaio appendeva una calza nella grotta della dea, vicino a Porta Capena e alle terme di Caracalla. E l´indomani mattina la trovava puntualmente piena di regali, ma anche di ammonimenti e profezie. Qualcosa tra un pizzino e una predica.
A dar man forte alla generosa Egeria ci pensava la divina Strenia, da cui deriva il nostro termine strenna. Che in origine era il regalo speciale che i genitori romani facevano ai bambini. Anche questa volta nei primi giorni dell´anno, durante la Sigillaria, letteralmente la festa delle statuette. Chiamata così perché si regalavano biscotti dolci a forma di bamboline e animaletti, assieme a una gran quantità di frutta secca e fave.
Regali, più profezie, più calze. Queste dee erano delle befane di fatto anche se non lo erano ancora di nome.
La parola befana è infatti un´invenzione del cristianesimo popolare e nasce dalla volgarizzazione dell´Epifania che sarebbe la manifestazione della doppia natura di Cristo ai re Magi venuti da Oriente per portare doni al dio bambino. Così il termine greco epifaneia si trasforma, nei vari dialetti italiani, in bifania, befania, pifania. Fino a diventare un vero e proprio personaggio. Come dire che la befana è la personificazione di un dogma astratto.
La nostra festa è dunque il risultato di una fusione tra antichi riti calendariali e nuovi simboli cristiani. Resta il fatto che la nonnetta svolazzante rappresenta la personificazione femminile dell´anno, il simbolo della natura giunta alla fine del suo ciclo e perciò raffigurata come una vecchia. Povera, striminzita, raggrinzita. Ecco perché la notte dell´epifania conserva quel carattere di attesa magica del nuovo anno e al tempo stesso di resa dei conti con quello vecchio. Premi e castighi. Previsioni e sanzioni. Cose buone da mangiare e cose assolutamente immangiabili come aglio e carrube, cenere e carbone. Quel carbone, una volta tanto temuto dai ragazzini e che le vecchine buoniste di oggi hanno trasformato in cristalli di zucchero nero. Una dolce punizione, una lezione a salve fatta apposta per una società dove la bocciatura non è più contemplata. Eppure quella della befana resta comunque una pagella, uno scrutinio di fine anno. Non a caso si chiamano proprio scrutini le sorprese che tradizionalmente si mettono nei dolci dell´Epifania. E che di solito sono a forma di fava. Probabilmente perché questi legumi venivano usati nell´antichità per votare a scrutinio segreto condanne o assoluzioni, fave bianche per il sì, fave nere per il no. Ma anche per predire il futuro. E farsi amica la fortuna.
Forse proprio perché viene da molto lontano la befana è dura a morire. Ha dalla sua il passo lungo della tradizione che le consente di resistere alle mode e di essere a suo agio in ogni epoca. In fondo la vecchia che vola sulla scopa e si cala nottetempo dalla cappa del camino è un hardware fiabesco in grado di lanciare i software più diversi. Dalla calza bio a quella chilometro zero, da quella ecocompatibile a quella equosolidale, da quella sostenibile a quella responsabile. E perfino alla calza delocalizzata della Omsa, regalo avvelenato per le lavoratrici dello storico marchio. Oggetti ma anche concetti. Stili di vita. Idee di futuro. Non semplicemente consumi.
Se è vero che tutto quel che si infila nella calza diventa simbolico allora le ultime tendenze della befana diventano un sismografo del presente. Ne registrano fedelmente gli umori e i valori, le attese e i timori. Da un lato la crisi economica che costringe alla sobrietà. Ma dall´altro anche la voglia di cambiamento. Ecco perché in un tempo di crisi come il nostro la befana, emblema millenario del dono e dei bilanci, del dare e del ricevere, abiura la bulimia consumistica. E si converte all´abbondanza frugale. Senza rinunciare a sognare.

giovedì 5 gennaio 2012

l’Unità 5.1.12
I risultati stupefacenti del blitz di fine anno: scontrini a più 100% del giorno precedente
Auto di lusso: su 133 intestatari 58 dichiarano in un anno meno di quanto costi la macchina
A Cortina il fisco fa miracoli. Incassi quadruplicati nei negozi
L’Agenzia delle Entrate, bersaglio di critiche per l’operazione di fine anno, svela i numeri: incassi dei ristoranti lievitati a +300% rispetto allo stesso periodo 2010. Ancora meglio a gioiellieri e antiquari: +400%.
di Federica Fantozzi


Miracolo a Cortina. Altro che effetto depressivo, istigazione all’esilio festivo, irreparabile danno d’immagine: il blitz di fine anno perpetrato dagli agenti del fisco si è rivelato un toccasana per le casse della città. A giudicare dai risultati, gli 007 dell’Agenzia delle Entrate sono testimonial ben più efficaci dei vari Corona & Belen, Tina Turner o Christian De Sica. Meglio dei cinepanettoni invernali, saldo di una stagione dalle pile scariche: disertato il fu blockbuster «Vacanze a Cortina», i telespettatori seguono (sui tg) l’italico feuilleton «Finanza a Cortina». E anche se i protagonisti non sono le Fiamme Gialle, il finale a sorpresa c’è.
SUPERCAR & BENI ORFANI
La criticatissima operazione di Attilio Befera, che pur essendo in vacanza lì (o forse proprio per quello), ha sguinzagliato 80 uomini tra negozi, centri benessere, alberghi storici e risto-bar da movida, ha dato esiti più che «interessanti» straordinari. Quel fatidico 30 dicembre scorso gli incassi dei ristoranti sono lievitati: più 110% rispetto al giorno prima, più 300% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ancora meglio è andata agli esercenti di beni di lusso, gioiellieri e antiquari: rispettivamente più 106% e più 400%. Buoni affari anche per i bar: più 104% e più 46%. Un commerciante, in particolare, deteneva beni di lusso in conto vendita per 1,6 milioni di euro senza alcun documento fiscale.
Sono le prime conclusioni rese note da un comunicato dell’Agenzia delle Entrate veneta. Altrettanto sorprendente il capitolo auto. L’incrocio tra targhe e codice fiscale degli intestatari di Suv, minicar e bolidi sportivi ha evidenziato alcune piccole stranezze. Su 251 macchine, 133 sono intestate a persone fisiche. Di queste 42 sono quasi indigenti, con una dichiarazione dei redditi pari a 30mila euro lordi nel 2009 e nel 2010. Altre 16 appartengono a contribuenti che hanno dichiarato meno di 50mila euro lordi. Le rimanenti 118 sono intestate a società: per gli stessi periodi d’imposta 19 si sono dichiarate in perdita e 37 hanno avuto ricavi per meno di 50mila euro lordi. Ricapitolando: su 251 possessori di supermacchina, solo 75 persone fisiche e 62 società pare abbiano i soldi per comprarsela. Chissà come faranno, poveri diavoli, a sobbarcarsi le spese per l’hotel, i pasti, lo ski-pass, una cioccolata calda o un’eventuale massaggio relax. È proprio il caso di dire: la vacanza di una vita.
Non importa. Quel che conta è che la località ampezzana ieri piangente per il vulnus alla privacy di ospiti più o meno illustri sia tornata ridente. Scrive al riguardo l’Agenzia delle Entrate: «L'operazione fa parte della normale attività di presidio del territorio. L'esperienza e la professionalità dei funzionari è tale per cui il controllo è stato effettuato con il minimo intralcio allo svolgimento dell'attività commerciale». Aggiungendo, con una certa malizia, che in alcuni episodi «i funzionari sono stati addirittura scambiati per commessi dalla clientela».
Insomma, altro che deterrente agli affari: gli 007, evidentemente belli e affabili, eleganti e cortesi, hanno fatto da traino alle vendite di Capodanno stimolando gli acquirenti a mettere mano al portafogli e i venditori a digitare scontrini ed emettere fatture a getto continuo. E pensare che il controllo ha riguardato solo 35 esercizi su un migliaio. Anche l’addolorato sindaco Andrea Franceschi avrà cambiato idea: continuando così Cortina diventerebbe il comune più abbiente della Via Lattea. Polverizzando la concorrenza di Sankt Moritz, più volte evocata dagli inviperiti esercenti come modello di ospitalità non invadente.
L’unico che resta pervicacemente contrario a questo tipo di incentivi al commercio è il Pdl Fabrizio Cicchitto: prima si orripilava per gli «inaccettabili controlli ideologici» e ora che l’ideologia ha trovato radici nei numeri si duole comunque per l’assenza di «sobrietà e riserbo» dell’Agenzia. Che diamine, passi l’interferenza con l’operosa attività di valligiani e vacanzieri, ma che bisogno c’era di farlo sapere a tutti?
LA MOLTIPLICAZIONE DEGLI SCONTRINI
Persino Daniela Santanché mostra qualche esitazione sulla moltiplicazione delle ricevute fiscali, però guai a «liste di proscrizione». Silenzio prudente dalle parti di chi Gelmini, Galan, il leghista Fugatti se l’era presa con la demonizzazione della ricchezza, il furore ideologico, il terrorismo psicologico, l’allarmismo recessivo. E invece. Incassi boom. Giro d’affari vorticoso. Tutti a bere aperitivi, comprare opere d’arte, fare la pulizia del viso, divorare casunziei e torta di mele. Capodanno si è trasformato in Natale, i vituperati agenti del fisco in Re Magi. Ma se qualcuno vorrà offrire loro un prosecco di ringraziamento, non si dimentichi lo scontrino.

Repubblica 5.1.12
La Gomorra delle Dolomiti
di Francesco Merlo


Tutti abbiamo pensato che fosse un esorcismo e invece il diavolo a Cortina c´è per davvero. Al punto che ora si può anche ridere a crepapelle davanti a quel battaglione di suv guidati da nullatenenti, e sono maschere comiche le finte precarie in pelliccia e labbroni di botulino.
L´Agenzia delle Entrate ha insomma scoperto che Cortina è la sola città del mondo dove i disoccupati hanno tutti la carta oro dell´American express.
È stato infatti accertato che a Cortina i ristoratori dichiarano sino a trecento volte meno di quel che realmente incassano, i commercianti di beni di lusso quattrocento volte meno, i baristi il 40 per cento in meno, e i proprietari di suv, denunziando un massimo di trentamila euro l´anno, non guadagnano abbastanza soldi per comprare l´auto che possiedono e non si possono permettere neppure di fare il pieno.
E se si leggono i verbali dell´agenzia delle entrate si apprende che questi ‘tartassati di Cortina´ somigliano ai leggendari lestofanti del contrabbando dei tempi d´oro. Tutti come don Masino Spadaro che sostituiva l´acqua benedetta dentro le statuine della Madonna di Lourdes con il cognac e beccato alla frontiera esclamava: «bih, miracolo fu!»
Purtroppo però c´è poco da ridere ed è anche meglio trattenere l´indignazione. È soprattutto in questi momenti che bisogna ragionare. Cortina come metafora, direbbe Sciascia, ci aiuta a capire infatti il nostro vero problema: in Italia sono i furbi a fare classe dirigente e non importa che si tratti di capitani di industria o di leader politici, di protagonisti della vita sociale o di anonimi commercianti o ancora di direttori generali o sconosciuti ricchi di vario genere. Da Cortina arriva la conferma di tutti i pregiudizi sull´Italia che non riesce ad essere moderna perché è il Paese dell´illegalità diffusa, il Paese dove è sempre vero che a pensar male ci si azzecca sempre.
Questa retata tributaria infatti non è stata quel peccato di polizia politica che molti avevano denunziato e, tra loro, improvvidamente anche il comandante della Finanza di Belluno. Certo, è vero che lo Stato e questo governo rischiano di trasformare la pressione fiscale in oppressione fiscale e di interpretare il ruolo odioso del cerbero, del minosse, del catone, del fustigatore e del secondino. Ma si rimane di sasso scoprendo che a Cortina si concentra davvero l´Italia che non paga dazio, l´Italia senza il biglietto che mai farà patto con lo Stato, mai prenderà da sé la decisione di onorare le tasse almeno in tempo di crisi, che sarebbe al tempo stesso una confessione e un perdono, un amen, un ite missa est con una previsione di introito per lo Stato alla voce "recupero evasione".
Attenzione: questa di Cortina non è l´Italia dei consumatori distratti che vanno sempre di corsa dal bar all´ufficio, dal panettiere all´ortolano e trattano gli scontrini fiscali come coriandoli di cartuzze che finiscono nei taschini e nei portafogli, biglietti di carta che somigliamo a un vestito di ferro. Né questa di Cortina è l´Italia che si arrangia e arrotonda con la piccola illegalità, non i vecchietti in nero, i sopravvissuti del boom economico che si davano da fare in tutti i modi e mai si fidavano dello Stato che era ancora quello dell´otto settembre, del privilegio sbracato e dell´ingiustizia di classe, non i piccoli esercenti e gli ambulanti del Sud, i meccanici, i venditori senza licenza con la casetta abusiva e sanata.
A Cortina c´è invece l´Italia ricca che sempre ‘fotte´ il prossimo. In una sola boutique di lusso hanno trovato merce del valore di 1,6 milioni di euro senza alcun documento fiscale. Come si vede siamo ben oltre l´illegalità dei mercati ambulanti di Bari e di Palermo.
Così è dunque ridotta la città del prestigio sociale e dell´incanto di natura, la città delle leggendarie feste esclusive e delle lunghe passeggiate d´autore, la città dove lo scià di Persia veniva fotografato in tenuta da sci e dove si rifugiava Gianni Agnelli, la città che fu scuola di accoglienza e di cultura alberghiera, la città delle nostre consuetudini cosmopolite. Oggi Cortina è degradata a negozio dei negozi, passerella degli orrori, avamposto del generone romano e del peggiore brambillismo di Milano, il cafonal da rotocalco che si autocelebra nella compiaciuta volgarità del sito Dagospia, l´Italia che evade le tasse ed è orgogliosa di evaderle anche perché esiste una scuola di economisti e di pensatori vari che difende questa sua evasione come frontiera di libertà: l´individuo contro lo Stato, l´anarcoliberismo, il turbocapitalismo…
E speriamo che adesso ci ragionino le persone per bene d´Italia su questa Cortina che è ormai più torbida della Valle dei Templi. Certo, nessun riccastro penserà mai di realizzare sulle Dolomiti una casa abusiva come ad Agrigento farebbero anche nel tempio di Giunone. Ma Cortina è peggio. Quella è un´Italia povera che vive di espedienti questa è la capitale dell´evasione spavalda, della ricchezza miserabile perché ostentata e clandestina che rischia di legittimare l´eversione latente che c´è in ciascun italiano, Cortina come cuore della dissoluzione di classe, il paradiso degli evasori, la Gomorra delle Dolomoti che giustifica tutte le altre Gomorra d´Italia, le altre Cortina d´Italia. Pensate all´illegalità diffusa di Napoli e a quella di Cortina: Napoli è, Cortina è diventata. Napoli è l´ex capitale marginale e Cortina è la nuova capitale della truffa d´alto bordo. Napoli sta ai margini per sventura e Cortina per ventura, per scelta: stare ai margini nel senso di non farsi beccare, fuori dall´occhio. Solo adesso si capisce il fiasco di ‘Vacanze di Natale a Cortina´: la realtà dell´ultima vetrina d´Italia è molto più comica e al tempo stesso più volgare di qualsiasi film dei fratelli Vanzina. Cortina è il cinepanettone andato a male.

il Fatto 5.1.12
Bastona il debole
di Furio Colombo


L a colpa è del più debole. Il debole che ingombra l’ufficio postale per avere la pensione in contanti perché non sa come incassare gli assegni (anche se il sistema è comodissimo per la banca). La colpa è del precario che petula per avere uno straccio di ammortizzatore sociale che lo porti a sopravvivere senza passare per la Caritas. La colpa è del lamentoso cinquantenne che è stato appena licenziato, per ragioni che riguardano non lui e il suo lavoro ma il bilancio dell’impresa venduta e rivenduta fino a perdere il nome del proprietario. A lui, quasi lo stesso giorno, è stato detto che andrà in pensione alcuni anni più tardi, così da esporlo all’inconveniente fastidioso di restare senza lavoro e senza pensione non dieci ma quindici anni. Tutto ciò per il bene del Paese. Infatti in alto, sulle colline del privilegio, si accampano i lavoratori che hanno ancora un contratto e gli anziani esosi che, dopo quarant’anni di lavoro e di contributi (cifre immense per milioni di persone, che qualcuno avrà pure investito) sono dei parassiti della vecchia pensione e anzi, cari miei, la stanno sottraendo ai giovani, che pensioni così non ne vedranno mai più. Circolano infatti piccole cifre per far sapere ai giovani, che intanto nessuno assume, quanto piccola sarebbe – a confronto con i vecchi – la loro pensione se mai avessero un lavoro continuativo. Quanto ai sindacati, che sono il vecchio che torna, al massimo li vediamo un quarto d’ora ciascuno, ma tutti insieme mai, perché sarebbe concertazione, una cosa da evitare come la pornografia.
Intanto si allarga lo “spread” tra Italia e Germania. Serve a dire che un Paese che ha forti sindacati, operai nei consigli di amministrazione e salari doppi, è molto più affidabile di un Paese che considera il licenziamento rapido la vera soluzione, e consiglia con autorità a ciò che resta di vivo nel sindacato di abbassare i toni. Ecco dove cade – per bene intenzionata che sia – tutto il peso della manovra.

l’Unità 5.1.12
La Cgil sfida il governo: «Se vuole l’accordo chiami i sindacati e parli con chiarezza»
Il premier assicura: «Mai cercate le divisioni». Ma tanti lo spingono a negare la concertazione
Adesso Monti deve decidere: ritiene utile il patto sociale?
La Cgil insiste per una reale concertazione con il governo: «Altrimenti è solo tutto fumo per decidere da soli». Fornero avvia colloqui bilaterali in vista di un’agenda comune di dialogo. Tante, però, le resistenze
di Luigina Venturelli


L’ultimo messaggio a distanza che la Cgil ha indirizzato ieri all’esecutivo in vista del confronto sul mercato del lavoro, affidato ancora una volta alla piattaforma internet di Twitter, pare quasi un’ovvietà: «Se il governo vuole un accordo, chiami i sindacati e parli chiaro, individuando obiettivi e strumenti». lo spettro della divisione e dell’indebolimento della rappresentanza del lavoro resta sullo sfondo della partita che si appena aperta. Anche se in serata da palazzo Chigi fanno sapere che il premier «non ha certo interesse ad assecondare o coltivare divisioni», né ha «manifestato preferenza sulla modalità degli incontri» tra governo e parti sociali. Eppure la posizione in cui si trova il presidente del Consiglio alla vigilia delle consultazioni è tutto tranne che semplice. Stretto tra la necessità di dare risposte rapide all’Europa e la volontà espressa anche dal presidente Napolitano di non escludere le parti sociali da scelte importanti per il Paese, Mario Monti deve scegliere se, e fino a che punto, cercare un accordo con i sindacati o procedere in autonomia dopo un veloce giro di consultazioni.
IL PRIMO INCONTRO INFORMALE
A favore della prima ipotesi, di una discussione che, se non a un tavolo di concertazione vecchia maniera, porti comunque a una vera discussione nel merito delle riforme da varare, sembra indirizzare l’incontro a sorpresa avvenuto ieri tra il ministro del Lavoro Elsa Fornero e la leader Cgil Susanna Camusso. Un modo ha spiegato il ministero in una nota per avviare una fase di «incontri informali con le parti sociali» che da lunedì proseguirà con gli altri leader sindacali e con i rappresentanti delle imprese».
Anticipando il colloquio vis a vis inizialmente previsto per la prossima settimana in vista di un’agenda comune, l’esecutivo ha voluto fermare la serie di comunicazioni preventive a mezzo stampa o web che, fino a ieri, hanno tenuto banco, prima ancora che il confronto sul mercato del lavoro sia stato avviato o che una proposta definita di Palazzo Chigi sul mercato del lavoro sia stata messa nero su bianco.
A spingere verso una formale, per quanto attenta, consultazione dei sindacati concorre invece un pressante contesto esterno, sia economico sia ideologico, convinto dell’incompatibilità tra concertazione e scelte politiche veloci ed efficaci.
Basti pensare al continuo ritorno mediatico sulla scadenza del Consiglio straordinario europeo del 23 gennaio prossimo, o alle prese di posizione dei più diffusi quotidiani nazionali. Sul Corriere della sera, nell’editoriale di prima pagina affidato a Sergio Romano, la concertazione è stata definita «rito fuori tempo e fuori bilancio» e il sindacato non un interlocutore istituzionale,
ma «un’associazione di categoria», mentre l’economista Alessandro De Nicola, sulle pagine di Repubblica, ha bollato le confederazioni come «enormi lobby» che nelle democrazie liberali «corrodono il buon funzionamento dell’economia».
LA DIFESA DELLA CONCERTAZIONE
Non stupisce, dunque, che la Cgil continui ad insistere sulle modalità e sui tempi del confronto con il governo, contraria ad incontri in sede separata delle diverse sigle sindacali e a trattative con la data di chiusura già decisa. «È solo buon senso, altrimenti è solo tutto fumo per decidere da soli» spiega la confederazione di Corso Italia. «Non chiediamo che si torni alla concertazione modello anni Novanta, ma pretendiamo un confronto serio e onesto». Anche perché i temi in agenda si annunciano scottanti, a cominciare dalla proposta di contratto unico di lavoro elaborata da Pietro Ichino: «È pubblicità ingannevole, non cancella la precarietà di oggi e ne aggiungerà nuova domani. Serve un piano del lavoro per i giovani usare il contratto di inserimento e formazione per cancellare i contratti precari a oltranza».
Per questo il sindacato di Susanna Camusso reagisce con fastidio ai toni morbidi usati da Cisl e Uil nei confronti della scelta dell’esecutivo di procedere a colloqui distinti e marce serrate: «Bisogna concordare uno spartito, non si può chiedere ogni giorno concertazione e poi accettare di fare i solisti stonati». La giustificazione adottata da Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni, che conti la sostanza e non la forma del dialogo, continua a non convincere la Cgil. Nonostante Cisl e Uil insistano: «Verificheremo nei fatti la reale volontà sia del governo sia delle altri parti sociali di fare una vera trattativa che conduca ad un accordo».

Corriere della Sera 5.1.12
Fornero, vertice a sorpresa con Camusso Il premier: non voglio dividere i sindacati
Il confronto sull'articolo 18 potrebbe arrivare in una seconda fase
di A. Bac.


ROMA — La modifica dell'articolo 18 sui licenziamenti si allontana al momento dalla trattativa sul mercato del lavoro. Le dichiarazioni informali, fatte trapelare ieri, a tarda sera, da ambienti di Palazzo Chigi, mettono fine alle polemiche di una giornata, segnata dall'incontro a sorpresa tra il ministro del Lavoro, Elsa Fornero e il leader della Cgil, Susanna Camusso, a Torino presso la Direzione Regionale del Lavoro.
Il premier Mario Monti, si fa sapere, «non ha certo interesse ad assecondare o coltivare divisioni» tra i sindacati e non ha «manifestato alcuna preferenza nè preclusione sulla modalità degli incontri» tra governo e parti sociali.
La linea dell'esecutivo è chiara: assecondare il dialogo anche se questo volesse dire, per ora, mettere da parte la modifica dell'articolo 18, spostando il relativo confronto al termine del processo riformatore che dovrebbe comunque partire dalle regole per i nuovi assunti (contratto unico). Un patto che Monti sembra aver fatto con i partiti, in particolare con il Pd. Del negoziato si occuperà esclusivamente Fornero, in questo modo tenendo lontani dal tavolo del temi trattati altrove, come la crescita e le liberalizzazioni.
Acqua sul fuoco, dunque, circa «presunti contrasti tra la Presidenza del Consiglio e la Cgil, in ordine alla modalità degli incontri» rispetto ai quali ambienti di Palazzo Chigi esprimono «la sorpresa del presidente del Consiglio». Gli stessi ambienti ricordano che Monti «si tiene in stretto contatto» con Fornero che «sta avendo in questi giorni incontri esplorativi con i diversi Segretari Generali, proprio allo scopo di individuare l'agenda e le modalità di confronto ritenute più idonee ad un sereno e proficuo svolgimento di tale confronto, pur nei tempi piuttosto serrati resi necessari dalla situazione economica». A Palazzo Chigi, concludono le fonti, si sottolinea che questo governo, «pur nel rispetto delle identità e tradizioni delle diverse organizzazioni sindacali, non ha certo interesse ad assecondare o coltivare divisioni tra le varie organizzazioni».
Il timore che le polemiche lanciate dalla Cgil sulla modalità dei tavoli separati potessero compromettere il confronto, stava spingendo, ieri mattina, Palazzo Chigi a formulare una nota ufficiale. Un'idea che si è andata rafforzando quando il fuoco della Cgil si è spostato sull'ipotesi che il governo volesse affrontare il tema dell'articolo 18 e contro Cisl e Uil, definiti su Twitter «solisti stonati».
Poi invece è prevalsa la linea informale, lasciando a Fornero e Camusso la possibilità di spiegarsi in un faccia a faccia lontano da occhi indiscreti. La prossima settimana toccherà a Confindustria, Cisl, Uil e Ugl, secondo un'agenda fitta che probabilmente non riuscirà a esaurirsi entro il mese. Solo alla fine, confermano da Palazzo Chigi, Monti si siederà per presentare le conclusioni dell'esecutivo.
Intanto ieri l'incontro non sarebbe entrato nel merito, limitandosi a un giro d'orizzonte sul tema degli ammortizzatori sociali, caro alla Cgil, che però ha chiesto di inserire in un discorso più ampio che comprenda un piano del lavoro, riforme fiscali e liberalizzazioni.
«L'agenda di temi e modalità per il confronto» sarà definita al termine degli incontri informali, ha spiegato il ministero. Per la Cgil si è trattato di «un incontro usuale, di carattere informale, per definire l'agenda di lavoro. Ora è auspicabile il ritorno a modalità di confronto ordinarie e vere rispetto agli annunci che si sono rincorsi in questi giorni».
Intanto l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi (Pdl), annuncia una propria proposta di legge per trasformare l'apprendistato in contratto d'inserimento. «È positivo il fatto che la polemica sugli incontri separati si sia finalmente risolta con l'avvio di incontri informali» afferma Cesare Damiano (Pd). Ironico il commento su Twitter della Cisl: «Stasera (ieri per chi legge, ndr) confronto a due Camusso-Fornero: alla faccia dei presunti solisti stonati...».

Repubblica 5.1.12
Il segretario della Cgil: "Non c´è una sola ragione perché si parta da questo provvedimento"
"Siamo pronti a siglare un nuovo patto ma sui licenziamenti non si negozia"
Intervista di Roberto Mania


Nella proposta Ichino c´è una massiccia dose di propaganda Introduce una nuova forma di contratto di cui non c´è bisogno
Se si vuole più lavoro, più crescita, più uguaglianza nella distribuzione del reddito, serve un accordo. Questa è una necessità

ROMA - Camusso, dopo le polemiche di questi giorni tra la Cgil e il governo, ha incontrato il ministro Fornero. Cosa vi siete dette? Perché c´è stato l´incontro?
«Era un incontro fissato prima della pausa natalizia. Prima di avviare un confronto complesso come quello sul mercato del lavoro e gli ammortizzatori sociali andavano chiarite le modalità con le quali proseguire e fissare l´agenda. La Cgil ha sempre detto che non riteneva utile percorrere la strada degli incontri separati. Ora sappiamo che sarà un confronto ordinario».
Dunque ci sarà un unico tavolo di confronto con il governo e tutte le parti sociali?
«Esatto. D´altra parte era stato lo stesso presidente del Consiglio Monti a dire al Senato che sul mercato del lavoro il governo avrebbe cercato il consenso delle parti sociali».
Avete parlato anche dell´articolo 18?
«Dire che ne abbiamo parlato mi pare esagerato. Io ho ripetuto che non c´è una sola ragione convincente perché si parta da lì se si vogliono affrontare i problemi veri».
E la Fornero cosa le ha risposto?
«Non posso dire che ci sia stata proprio una risposta. Ha preso atto di ciò che ho detto io».
L´articolo 18 è fuori dalla trattativa?
«Il governo deve sapere che sull´articolo 18 noi non trattiamo».
Per voi rimane un tabù?
«Lasciamo perdere i totem o i tabù. L´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha una funzione deterrente per i licenziamenti senza giusta causa. Per questo non può essere né aggirata né modificata».
È un no anche alla proposta Ichino sul contratto unico che non sembra dispiacere al governo?
«Nella proposta Ichino c´è una massiccia dose di propaganda. Si sostiene che serva a superare il dualismo del mercato del lavoro. Però introduce una nuova forma di contratto, cosa di cui non c´è alcuna necessità, mentre bisognerebbe ridurre le tipologie contrattuali e far costare di più i contratti flessibili, da quelli a termine legati alla stagionalità e a precise casualità, ai contratti di collaborazione a progetto per le più alte professionalità non certo per chi è addetto alle fotocopie».
Sul mercato del lavoro teme che tutto il sindacato possa subire un´altra sconfitta dopo quella sulle pensioni?
«Quello sulle pensioni è stato un intervento sbagliato fatto di corsa dal governo. Non la considero una sconfitta anche perché per noi non è ancora un capitolo chiuso. I problemi creati dal quel provvedimento li vedremo proprio durante la trattativa sul lavoro e gli ammortizzatori sociali».
Resta il fatto che con Cisl e Uil si sono incrinati i rapporti dopo la posizione unitaria contro la manovra del governo. È stata la Cgil a criticare, riferendosi a Bonanni, le «stonature di qualche solista».
«Mi pareva poco credile accettare il metodo degli incontri separati e poi proporre un accordo. La questione è in ogni caso superata. Sul merito ci sono molte convergenze».
Definirete una posizione comune tra i sindacati?
«Ci proveremo».
Ritiene che ci siamo divisioni nel governo? Ci sarebbero ministri (Passera, per esempio) più disposti al dialogo con voi, e altri (la Fornero) meno.
«Non mi sembra corretto andare dietro le indiscrezioni giornalistiche. Credo, però, che se si vuole affrontare davvero la questione dell´occupazione, non si può pensare che tutto si esaurisca in una nuova regolamentazione del mercato del lavoro. Servono le politiche per la crescita, quelle sull´istruzione e quelle fiscali perché il peso delle tasse sul lavoro dipendente deve diminuire».
Lei sta pensando a una nuova stagione della concertazione, come quella degli anni Novanta?
«No, francamente non mi pare che ci siamo le condizioni di quegli anni. Ritengo però che sia necessario un accordo. Di certo la strada non è quella di ascoltare le parti e poi decidere da soli».
Sta lanciando la proposta di un patto con il governo?
«Dipenderà, come sempre, dal merito. Ma se si vuole più lavoro, più crescita, più uguaglianza nella distribuzione del reddito, serve un accordo. Questa è una necessità per il paese».

Repubblica 5.1.12
Licenziamenti, un falso problema
di Luciano Gallino


C´è una realtà sotto gli occhi di milioni di italiani, che essi vedono e patiscono ogni giorno. L´industria italiana sta perdendo i pezzi. Lo dicono, più ancora che i media nazionali, che si debbono per forza concentrare sui casi più eclatanti, la miriade di Tg regionali e di giornali locali.
Non ce n´è uno, da settimane, che non rechi in prima pagina l´allarme per un´impresa del luogo che sta per chiudere. Da Varese a Palermo, dal Cuneese al Friuli, da Ancona a Cagliari. Per tal via sono già scomparsi centinaia di migliaia di posti di lavoro; altrettanti rischiano di seguirli nel prossimo anno. Nessun settore sembra salvarsi. Sono in crisi l´auto (ovviamente Fiat: 550.000 vetture prodotte in Italia nel 2010, un quarto rispetto a vent´anni fa) e l´aerospazio (vari siti di Alenia); la costruzione di grandi navi, di cui l´Italia fu leader mondiale (almeno sei siti di Fincantieri) e gli elettrodomestici (Merloni di Fabriano e Nocera Umbra); la microelettronica (ST-Microelectronics a Catania) e il trasporto navale di container (Mct di Gioia Tauro); la siderurgia (Ilva a Taranto) e la chimica (Montefibre a Venezia, Petrolchimico e Vinyls a Porto Torres). Si potrebbe continuare per un paio di pagine. Sono anche crisi, tutte, accompagnate da forti perdite di posti di lavoro nell´indotto e nei servizi, poiché è pur sempre l´industria il settore da cui proviene la maggior domanda di essi.
Di fronte a una simile realtà, ed alla inettitudine dimostrata al riguardo dal precedente governo, ci si poteva aspettare che il governo nuovo aprisse una robusta discussione con sindacati, industriali, manager, esperti del settore, per vedere se si trova il modo o di rilanciare rapidamente le industrie in crisi, o di svilupparne di nuove affinché assorbano il maggior numero di disoccupati presenti e futuri. Invece no. Il governo apre un tavolo di discussione per decidere quali riforme introdurre sul mercato del lavoro al fine di renderlo più flessibile. Ed i sindacati, anziché ribattere che il problema primo e vitale è quello di creare lavoro, accettano di discutere sul come riformare le norme d´ingresso e di uscita da un mercato che intanto rischia una contrazione senza precedenti. Il che equivale a chiedere all´orchestra, tutti insieme, di suonare il valzer preferito mentre la nave è in vista dell´iceberg che la porterà a fondo. Fondo che in questo caso si chiama una durissima recessione, con milioni di disoccupati di lunga durata.
Dinanzi a una simile disconnessione dalla realtà di ambedue le controparti non restano che due strade. Una è arcibattuta: se mai c´è stato in passato un frammento di evidenza empirica comprovante che una maggior flessibilità in uscita accresce il numero degli occupati, a causa della crisi economica in atto tale affermazione è ancora più illusoria. Le imprese non assumono perché non ricevono ordinativi. In molti casi è chiaro che è colpa loro. La grande cantieristica, per citare un caso paradigmatico, conta ancora nel mondo numerose società che producono ogni anno decine di navi d´ogni genere, dalle petroliere ecologiche ai trasporti adatti alle autostrade del mare. Non avendo saputo riconvertirsi, i cantieri di Fincantieri si ritrovano ora con zero commesse. Davvero si può pensare che se gli facilitassero i licenziamenti individuali essi assumerebbero folle di lavoratori?
Un altro argomento che occorre pur ripetere è che il proposito di far assumere come lavoratori dipendenti un buon numero di precari è decisamente apprezzabile. Ma se il contratto di breve durata che caratterizza le occupazioni atipiche si riproduce nell´area dei nuovi contratti perché questi implicano la possibilità di licenziare il nuovo assunto, anche senza giusta causa, per un periodo che addirittura supera di molto l´attuale durata media dei contratti atipici, la precarietà cambierà di pelle giuridica, ma resterà tal quale nella realtà. Le imprese che in questi anni sono ricorse a milioni di contratti di breve durata in forza della legge 30/2003, allo scopo precipuo di adattare la forza lavoro in carico all´andamento degli ordinativi, useranno il periodo di prova, di apprendistato o come si voglia chiamarlo, lungo addirittura tre anni e più, per perseguire il medesimo scopo.
Duole dire che anche le proposte di un potenziamento degli ammortizzatori sociali, sponsorizzato in specie dal Pd, appare arretrato di fronte alla realtà della disoccupazione ed alle sue cause. Certo, se si ritiene che non ci siano alternative, come diceva la signora Thatcher, meglio un sussidio che non la miseria. Ma creare nuovi posti di lavoro in realtà non costerebbe molto di più, immaginazione politica ed economica aiutando. E un lavoro stabile e remunerato intorno o poco sotto alla media salariale è una soluzione che molti preferirebbero rispetto a sette od ottocento euro di sussidio percepito magari per anni, ma senza la possibilità di ritrovare un lavoro. Oltre ad essere, in tema di difesa delle competenze professionali e della coesione sociale, assai più efficace.

Repubblica 5.1.12
Mandare a casa i dipendenti è possibile, l’Ocse: siete tra i più flessibili al mondo
di Paolo Griseri


Ma nella classifica degli economisti di Parigi la nostra legislazione è considerata assai poco vincolante
Come liberarsi della manodopera in esubero: la Germania è il Paese più rigido, gli Usa non pongono ostacoli

In Italia licenziare è difficile? Niente affatto. Gli indici dell´Ocse (strictness of employment protection) spiegano che liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano di quanto non lo sia per un ungherese, un ceco o un polacco. Con un indice di flessibilità di 1,77 (per i lavoratori a tempo indeterminato) l´Italia è al di sotto della media mondiale (2,11). In cima alla classifica, nei paesi in cui licenziare è più difficile ci sono la Germania (indice 3.0) e i paesi del Nord Europa. Dunque, secondo questi dati aggiornati al 2008, non ci sarebbe alcuna ragione per modificare l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in nome di una presunta rigidità delle leggi italiane. Il nodo è, da sempre, l´obbligo di reintegro se il tribunale riconosce che il licenziamento è avvenuto senza giusta causa. Ma quell´obbligo è presente in gran parte dei paesi industrializzati, con l´unica eccezione degli Stati Uniti (che ora stanno rivedendo le leggi in materia). Gli Usa sono in cima alla classifica della libertà di licenziamento: il loro indice è di 0.17. Ma sono anche una vistosa eccezione a livello mondiale che non si riscontra in nessuno dei paesi emergenti dove il Pil avanza ancora a due cifre nonostante la crisi. La classifica dell´Ocse (presa a riferimento dalle aziende che scelgono in quali paesi investire) mette l´Italia in cima alla top ten (indice 4,88) solo quando si voglia procedere a licenziamenti collettivi. In quel caso il nostro è il paese al mondo dove è più difficile licenziare grandi quantità di lavoratori tutti insieme. Ma è davvero un difetto? Vediamo la situazione nelle diverse aree del mondo.

l’Unità 5.1.12
Permesso di soggiorno, tassa odiosa e illegittima
di Pietro Soldini, responsabile immigrazione Pd


Dire che la tassa sul permesso di soggiorno è odiosa è un eufemismo. Questa tassa è un furto e non può avere i crismi della legittimità per le seguenti ragioni: la prima riguarda il costo per il funzionamento del servizio, al quale è finalizzata la metà degli introiti di questa tassa. Il servizio è improntato a mal funzionamento ed inefficacia come scelta di deterrenza. Infatti la gran parte delle domande presentate dagli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno non va a buon fine (esempio decreto flussi 2010: 430.000 domande e 12.000 permessi di soggiorno rilasciati pari al 2,6%) e non crediate che tutte le altre siano state respinte per assenza dei requisiti, per questa ragione ne sono state rigettate soltanto 5.500. Questo significa che oltre il 90% delle domande vanno su un binario morto: come è concepibile pagare il biglietto per un treno che staziona su un binario morto?
La seconda ragione riguarda la finalizzazione dell’altro 50% degli introiti della tassa che dovrebbero alimentare il fondo rimpatri. La Convenzione n. 143 dell’Oil e la Direttiva Europea n. 115/2009 sui rimpatri, proibisce espressamente che le spese per il rimpatrio possano essere addebitate agli immigrati, tanto più a quelli che sono regolari. Ecco perché il governo dovrebbe semplicemente cancellare questo balzello.
Ometto tutte le altre motivazioni di ordine sociale ed economico che rendono vessatoria e discriminatoria questa tassa, nel contesto di una crisi economica e di una recessione che colpisce spaventosamente tutti i ceti popolari più deboli come i lavoratori e pensionati e gli immigrati tra questi.
Se il governo Monti non rivedrà questa decisione ci saranno sicuramente forti tensioni sociali nella comunità degli immigrati che vive e lavora con grandi sacrifici nel nostro Paese, non escludo neanche un fenomeno di rinuncia di massa al permesso di soggiorno e quindi ad uno status di legalità da parte degli immigrati.
Ben vengano dunque le parole pronunciate ieri dai ministri Cancellieri e Riccardi circa l’intenzione di riconsiderare quella odiosa tassa anche se che l’unica soluzione possibile resta la sua abolizione. Nello stesso tempo, è urgente che il governo apra un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali e le altre associazioni per affrontare con serietà la questione immigrazione.

l’Unità 5.1.12
Il decreto in vigore impone una tassa aggiuntiva dagli 80 ai 200 euro sul soggiorno

Abrogazione Pd, Idv, Udc chiedono sia cancellato. Fli: ora nuove norme sulla cittadinanza
Arriva lo stop alla tassa degli immigrati
Maroni sulle barricate
I ministri Cancellieri e Riccardi: «Rimodulare la tassa sul permesso di soggiorno». Lega e Pdl insorgono. Livia Turco: «Quella tassa è una perfidia leghista, gli immigrati pagano già».
di Jolanda Bufalini


L’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni usa parole violente verso il suo successore. «Cancellieri non si azzardi» e annuncia barricate della Lega Nord in parlamento. E fa quadrato intorno all’ex alleato della Lega, lo stato maggiore del Pdl, Osvaldo Napoli, vice capogruppo alla Camera, ammonisce: «Su questo binario il treno dell'esecutivo è destinato a deragliare».
La pietra dello scandalo è una cauta dichiarazione rilasciata ieri all’ora di pranzo dai ministri dell’interno, Anna Maria Cancellieri, e dell’integrazione, Andrea Riccardi per «una riflessione» sulla tassa di soggiorno da far pagare ai lavoratori regolari immigrati al momento del rinnovo del permesso. I ministri, dice una nota congiunta, «hanno deciso di avviare una approfondita riflessione e attenta valutazione sul contributo per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno degli immigrati regolarmente presenti in Italia, previsto da un decreto del 6 ottobre 2011 che entrerà in vigore a fine gennaio. In particolare, in un momento di crisi che colpisce non solo gli italiani ma anche i lavoratori stranieri, c'è da verificare se la sua applicazione possa essere modulata rispetto al reddito e alla composizione del nucleo familiare».
È bastato questo timido dietro front, che non chiede l’abrogazione della norma a scatenare la reazione della Lega Nord, Calderoli: «Una vergogna, prendiamo atto che per i ministri del governo Monti si possono spremere i nostri pensionati e i nostri lavoratori, tassare i loro risparmi, la loro prima abitazione, ma non si deve chiedere nulla agli immigrati». E intorno il coro di Gasparri, Malan, Bertolini: «un così clamoroso trattamento di favore si rischia di codificare una sorta di razzismo all'incontrario», Mantovano: «Uno sfottò al Parlamento».
La vergogna, replica Livia Turco, presidente del Forum immigrazione del Pd, «è nella menzogna che sta alla base degli argomenti leghisti e del Pdl», perché quei 200 euro che si chiedono agli immigrati «sono una tassa aggiuntiva per il solo fatto che sono stranieri mentre gli immigrati pagano come tutti i bolli e le tasse per il disbrigo delle pratiche, non c’è nessun razzismo al contrario». C’è un’intera letteratura, dice l’esponente Pd, «a cominciare dai dati Istat che mostra che i lavoratori immigrati pagano tasse e contributi all’Inps e che in media guadagnano meno degli italiani e usufruiscono di meno servizi». Quella norma, continua Livia Turco, è «una perfidia leghista contenuta nel decreto sicurezza e destina i proventi al rimpatrio degli immigrati clandestini». Buon senso e pari opportunità «chiedono di abrogare una norma odiosa». Ma non basta, perché l’alzata di scudi di Lega e Pdl «è irresponsabile in un momento di drammatico disagio sociale, alimenta i possibili conflitti con le menzogne». «I leghisti si ricordino aggiunge Livia Turco che hanno votato quando erano al governo l’aumento dell’età pensionabile e la riduzione dell’indicizzazione». E a Maroni, l’ex ministro del lavoro (nel primo governo Prodi) si rivolge per dire: «Le barricate le faccia sui problemi veri del Nord, sul lavoro, sulla crescita, invece di sfogarsi sull’immigrazione, tema sul quale sembra che tutto sia consentito».
Se l’ex maggioranza del governo Berlusconi ricorda che per cambiare la norma ci vuole un passaggio parlamentare e minaccia le barricate in Parlamento, dal resto dell’emiciclo c’è un apprezzamento unanime della dichiarazione di Riccardi e Cancellieri, dall’Idv al Pd all’Udc a Fli. Leoluca Orlando: «L'Italia dei Valori si augura che venga eliminata al più presto questa ingiusta e discriminatoria tassa sul permesso di soggiorno». Paola Binetti: «No a una tassa vessatoria e ingiusta». Fabio Granata:«La sensibilità sull'immigrazione è cambiata e adesso si potrà andare avanti anche sulla nuova normativa per la cittadinanza».
Il plauso al «passo coraggioso» del governo viene soprattutto dall’associazionismo cattolico, Caritas, Acli, Azione cattolica, che però chiedono che si arrivi al più presto alla «abrogazione di una norma ingiusta» e che i proventi non finiscano del fondo «per i rimpatri». Il responsabile immigrazione dell’Usb (Unione sindacale di base) Soumahoro Aboubakar: «Quella tassa è una rapina, va abrogata». La Cisl: «L’immigrazione sia finalmente considerata una ricchezza del paese».

l’Unità 5.1.12
Numeri e simboli
Che cosa lega l’Articolo 1, il 18 e la Legge 180
di Emilio Lupo Segretario nazionale di Psichiatria democratica


Ed ecco i numeri: 1, 18 e 180. Forse perché i conti si fanno a fine d'anno, che un ciclo si è concluso (con danni gravi, assai), ed un altro si è appena aperto (e già fa male, tanto). Piuttosto, dicono gli esperti, i numeri hanno sempre un filo che li unisce, li mescola, li completa. Lo stesso filo che divide, minimizza o esaspera. Con dentro le persone, sole, stritolate, affannate, da nord a sud. Numeri che chiudono ma anche che tengono aperta, una speranza, una lotta, una Nazione.
E il numero 1 così recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», un numero sul quale si sono abbattuti tanti altri e, precisamente: due milioni e oltre di disoccupati.
Ma i numeri si sa sono, talora, anche paradossali, dispettosi, ingenui, soffocanti, frizzanti e vivaci. Non per il numero 1. Giammai! Lui è sempre in alto, maestoso, rassicurante. Una grande madre. Un padre autorevole. Un occhio che vigila. La vetta, insomma.
Eppure piccolo nella sventura, quando la somma del comignolo che non fuma più, e della mensa vuota, e del deposito deserto, e del reparto muto e della tuta al chiodo, raggiunge prima i milioni e poi il miliardo. E così non sta più in alto, e diventa matrigna, disamorato. Ultimo con gli ultimi.
E si fa avanti il numero 18 che così recita: «il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi... o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro... di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro... ».
È questo un numero per così dire rinnovato e rinnovabile o forse più precisamente periodico, non nella sua accezione tecnica, piuttosto in quella politica. Una sorta di licenza poetica con l’imprimatur dello Stato. Oppure un riflesso pavloviano: basta sedersi anche per un attimo nella stanza dei bottoni ed ecco che il riflesso diventa subito condizionato, anche da chi non te lo aspetteresti: per salvare il Paese, per creare posti di lavoro si sentenzia bisogna rivedere l'articolo 18 (sic!). La panacea. Intanto nel Paese si registra un miliardo (leggasi un miliardo!) di ore di cassa integrazione, e ben 4 milioni di precari e, così, ti vedi costretto, dopo tanti anni di duro lavoro come di pochi mesi di esperienza nei quali hai messo l’anima o ad accettare un contratto capestro oppure portare la testa, le mani, l’anima, lontano da casa. Ritorna, d’incanto, il paradosso dei numeri: per assumere bisogna licenziare!
Ed eccolo che entra il campo il numero 180, che tra le tante cose afferma che: è in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, ma anche che l'assistenza psichiatrica non è più manicomio, elettroshock, letto di contenzione, bomba di farmaci, inguaribilità, ma visita ambulatoriale/domiciliare, Centro diurno, lavoro, casa, vacanze. Insomma dignità e nuovo protagonismo di utenti, familiari e operatori. Alla sopraffazione si sostituisce il prendersi cura.
1, 18,180. Tre numeri apparentemente distanti. Tre numeri forti. Tre pagine indelebili. Scritte con il sangue, la fatica e la testa da chi non ci sta a dire sempre di sì. Tre pagine repubblicane. Laiche. Tre simboli di un Paese che se rinasce lo farà partendo da queste basi. L’Unità d’Italia ha anche questi numeri.

l’Unità 5.1.12
La giunta Alemanno inaugura a Roma il cimitero per feti
Il vice sindaco Sveva Belviso ha inaugurato nel cimitero Laurentino il «Giardino degli angeli», un'area di 600 metri quadri dedicata alla sepoltura di quei bimbi che non sono mai venuti alla luce a causa di un’interruzione di gravidanza.
di Felice Diotallevi


Un giardino con camelie bianche e due statue in marmo raffiguranti angeli alati a vegliare sulle tombe dei bambini «mai nati». È stato inaugurato ieri dal vicesindaco di Roma Sveva Belviso e dal presidente di Ama Piergiorgio Benvenuti. È uno spazio di 600 metri quadri, all'interno del cimitero Laurentino, che ospiterà «i bimbi mai venuti alla luce a causa di un'interruzione di gravidanza spontanea o terapeutica».
«Il progetto ha spiegato Belviso non vuole in alcun modo intaccare i principi sanciti dalla legge sull' aborto ma vuole dare una risposta alle richieste di coloro che con il seppellimento del loro bimbo intendono restituire valore a quel feto che altrimenti verrebbe violato perché considerato rifiuto ospedaliero. I genitori dovranno avvisare le Asl che a loro volta chiameranno i servizi cimiteriali. Dietro le lapidi, tutte uguali, ci sarà un codice mentre davanti si potranno mettere anche nomi di fantasia».
Fa effetto trovare questo zelo nell’opera dell’amministrazione comunale: «Abbiamo lavorato ha commentato infatti Benvenuti con grande cura all'allestimento di questo spazio con l'obiettivo di creare un'oasi di pace e tranquillità». In estasi il consigliere di comunale Fabrizio Santori: «È come un inno alla vita, un inno che è giusto risuoni anche quando, purtroppo, questa vita non ha potuto esprimersi pienamente nel suo aspetto materiale e terreno entrando nel mondo attraverso la nascita. Roma capitale finalmente garantisce in questo modo un diritto fino ad oggi negato». Il vicesindaco arriva a vedere nel «giardino degli angeli il luogo del ricordo di chi avrebbe dovuto accompagnare il cammino e rendere luminosa la vita di quei genitori il cui sogno è stato fermato dai molti e disparati problemi».
La cronaca di questi giorni peraltro offre un altro caso problematico di grande sofferenza umana: il neonato affetto da nanismo e probabilmente per questo abbandonato dai genitori alla clinica Nuova Città di Roma. «Faccio un appello perché la madre ci ripensi», ha detto ieri Sveva Belviso. Che poi ha fornito anche gli aggiornamenti sul piccolo: «Abbiamo appreso che il bimbo ha avuto una grave crisi respiratoria e, per questo, è stato trasferito a Villa San Pietro».

l’Unità 5.1.12
Bruxelles La Commissione: al via una procedura di verifica sulla nuova Costituzione ultra-nazionalista
Reazioni Il premier Orban sempre più isolato, ma ostenta sicurezza: il fiorino cade ai minimi storici
Ungheria, si sveglia l’Europa: «È democrazia o una dittatura?»
Dopo una forte pressione internazionale, la Commissione europea attacca con durezza: «Verifichiamo se la nuova Costituzione sia conforme con i valori democratici dell’Europa».
di Roberto Brunelli


A Bruxelles il «dossier ungherese» passa di mano in mano, come una patata bollente. Scotta tanto da risvegliare antiche vibrazioni democratiche, tanto da decidere di andare allo scontro diretto con Budapest, dopo la dura svolta reazionaria impressa dal governo dell’ultraconservatore Viktor Orban con il varo della nuova Costituzione, considerata liberticida non solo tra le file della risorta opposizione ungherese, ma anche tra i più compassati funzionari di Eurolandia. La nota ufficiale consegnata ieri alle agenzie di stampa dal portavoce della Commissione europea non lascia spazio a dubbi: l’Ue afferma Olivier Billay si chiede se in Ungheria «ci sia una democrazia o una dittatura». È questo il senso dell’«approfondita analisi» da parte di Bruxelles delle leggi costituzionali entrate in vigore il primo gennaio. Un procedimento che potrebbe portare anche alla Corte di giustizia europea: «La Commissione è stata la prima a sollevare dubbi sulla conformità delle nuove leggi ungheresi sui media, la giusitizia e la Banca centrale con i valori e i trattati europei». E se l’esame dei servizi giuridici confermasse quelli che con un eufemismo Billay chiama i «dubbi», a sua volta già espressi in numerose occasioni sia dal presidente José Manuel Barroso che da svariati commissari, Bruxelles è pronta ad aprire una procedura di infrazione contro Budapest.
L’attacco che avviene dopo la protesta di piazza di lunedì nella capitale ungherese e dopo una crescente pressione internazionale culminata con le dure critiche del segretario di Stato Usa Hillary Clinton e del ministro degli Esteri francese Alain Juppé è frontale, e fa il paio con la sospensione delle trattative con Ue e Fmi per la concessione degli aiuti finanziari richiesti proprio dal governo Orban. Che, tuttavia, pare più preoccupato di mettere «sotto tutela» governativa la Banca centrale e l’informazione, nonché mettere pesantissimi limiti ai diritti civili, eliminando sinanche la denominazione «Repubblica» dal nome di quest’Ungheria tutta Dio e totalitarismo, che non a mettere in sicurezza i propri conti disastrati. L’esecutivo è sempre più isolato, con effetti pesanti anche sui mercati: il fiorino ha segnato ieri il suo record negativo. Per un euro ieri erano necessari circa 320 fiorini: un abisso. Negli ultimi mesi la moneta magiara ha perso circa il 20 per cento del proprio valore. Gli analisti concordano sul fatto che è proprio sul fronte economico che l’autocratico Orban definito «piccolo tiranno di provincia» dall’intellighentia magiara si sta giovando gran parte della credibilità interna. Dopo la doppia bocciatura da parte delle agenzie Standard & Poor’s e Moody’s, che hanno portato il rating sul debito sovrano sotto il livello d’investimento, il rendimento dei titoli di Stato è salito vertiginosamente, col risultato di ingrossare ulteriormente un debito pubblico arrivato nei giorni scorsi al suo massimo storico.
IMBARAZZI CONTINENTALI
Con la dura presa di posizione di ieri («democrazia o dittatura?»), Bruxelles cerca di uscire da un vero e proprio impasse nei confronti dell’Ungheria, che è membro dell’Ue da sette anni: ovvio che non può restare indifferente ai metodi di governo di Orban, agli attacchi al pluralismo dei media e alle minacce all’indipendenza dell’apparato giudiziario. Qualcuno (come Le Monde, ieri) ipotizza esplicitamente che l’Europa possa alla fine ricorrere all’articolo 7 del trattato di Lisbona, che prevede di togliere il diritto di voto agli stati membri che violano le regole democratiche. Le voci che spingono ad una maggiore presa di coscienza nei confronti del «caso Ungheria» crescono di ora in ora. «È tempo che l’Europa si scuota, si svegli dallo shock dell’eurocrisi, ritorni ai valori fondamentali di coesione e di solidarietà. È tempo che rigetti gli incubi dei nazionalismi e dei populismi che scaricano su tutti noi i disagi di quest’epoca», dichiara il responsabile esteri del Pd, Lapo Pistelli. Il quale chiede anche un maggiore protagonismo dell’Italia per quel che riguarda «la vigilanza dei valori democratici».
In tutto questo, Orban, che ieri celebrava la totale indifferenza nei confronti dei centomila che lunedì sera affollavano le vie di Budapest («vedete, siamo un Paese libero?»), continua a fare orecchie da mercante. Il premier manda avanti i suoi spargendo segnali contrastanti alle controparti europee: al sottosegrtario per gli affari economici il premier fa dire che il fallimento dei negoziati per i prestiti «non sarebbe una tragedia». Orban «il viktator» ostenta sicurezza, e celebra con grandi celebrazioni ultra-kitsch la sua nuova Costituzione. Intanto, però, i sondaggi cominciano a turbare i suoi sonni: secondo un’indagine recente dell’istituto Szonda Ipsos, la Fidesz rimane sì il primo partito, ma perde il 18 per cento rispetto a quando conquistò sull’onda di un populismo trionfale i due terzi dei seggi parlamentari. Oggi, domani, dopodomani l’opposizione all’assolutismo magiaro del nuovo millennio rischia di crescere sempre di più. A Bruxelles lo sanno bene: meglio non sottovalutare chi s’indigna, di questi tempi.

il Fatto 5.1.12
Ungheria: intervenga la Ue
di Paolo Flores d’Arcais


L’Ungheria democratica chiama, l’Europa istituzionale nicchia, fa orecchie da mercante, traccheggia nell’ipocrisia. Ma se i governi europei vogliono trastullarsi in paralizzanti e irresponsabili lungaggini procedurali, è necessario che i cittadini europei facciano della “questione Ungheria” un loro problema e una loro battaglia. Ormai improcrastinabile.
Il governo di Victor Orban ha imposto una nuova Costituzione che calpesta i diritti democratici minimi che l’Europa ha posto come vincolanti e irrinunciabili per ogni paese che voglia aderire alla Comunità. La legge elettorale è ritagliata su misura per facilitare al partito di Orban la vittoria anche in futuro, stampa e televisione vengono imbavagliate, i magistrati asserviti alla volontà dell’esecutivo, la Banca centrale perde ogni margine di autonomia, sciovinismo e razzismo diventano il collante “popolare” di questo vero e proprio fascismo postmoderno.
Se l’Ungheria di Orban chiedesse oggi di aderire all’Europa verrebbe respinta, in quanto indigente dei requisiti democratici minimi. Ma l’articolo 7 del trattato di Lisbona specifica che un governo di un paese già membro dell’Unione Europea deve perdere il suo diritto di voto qualora violi quei requisiti. È perciò necessario che il Parlamento di Strasburgo , la Commissione di Bruxelles e i singoli governi europei si attivino immediatamente per applicare con assoluta intransigenza l’articolo 7. Ogni attendismo, ogni diplomatismo, ogni “gradualismo” nelle sanzioni, non farebbe che incoraggiare il governo Orban a proseguire sulla strada protervamente imboccata, che minaccia di contagio antidemocratico l’intera comunità politica continentale.
Piegarsi alle prepotenze dei poteri antidemocratici, in nome del “male minore”, è l’eterna tentazione degli establishment del privilegio. Tragici protagonisti di questa sindrome di viltà (che scolora nell’omertà) furono a Monaco, nel 1938, i democratici tiepidi Chamberlain e Daladier, che si piegarono agli antidemocratici coerenti Hitler e Mussolini. Se l’Europa delle Merkel, dei Cameron e dei Sarkozy cedesse oggi a Orban, guardando dall’altra parte o riducendosi a sanzioni di facciata, replicherebbe su scala ridotta l’infamia del ’38. E per favore non si citi Marx, che a proposito di Napoleone III giudicava come la storia si ripetesse sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Talvolta è così, talvolta la nuova tragedia, benché in formato mignon, è per chi la vive devastante quanto la precedente.
CON L’AGGRAVANTE che Hitler era ormai una potenza militare ed economica che da sola valeva il resto del-l’Europa, mentre il governo di Orban è costretto a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale col cappello in mano, e di fronte ad un efficace cordone sanitario europeo dovrebbe andarsene (proprio come l’amico Berlusconi). La viltà di Merkel, Cameron e Sarkozy sarebbe perciò una viltà al quadrato. Sarebbe complicità. Se Orban ha sempre indicato in Putin e Berlusconi i suoi modelli, ricambiato dal loro appoggio più sfegatato (dichiarò Berlusconi dieci anni fa a Budapest: “i nostri programmi e le nostre politiche sono identiche, tra noi c’è una straordinaria sintonia”), non è certo un caso. Dimostra come la peste del fascismo postmoderno, soft solo in apparenza, sia un forza diffusa e minacciosamente in crescita, di cui Marina Le Pen e la destra olandese nella maggioranza di governo sono solo altri inquietanti iceberg.
Se si vuole evitare il contagio, gli appestati vanno trattati come appestati. L’Europa ha fatto malissimo a non intervenire contro Berlusconi per quasi vent’anni, se non interviene contro Orban prepara il proprio suicidio. Perché sanzionare Orban, privarlo del voto nelle istituzioni europee, significa sostenere la Repubblica ungherese, la cittadinanza democratica ungherese, scesa in piazza cantando l’Inno alla Gioia di Schiller/Beethoven che l’Europa ha adottato come il proprio inno. Il nostro inno, se non vogliamo che l’Europa resti quella dei mercanti (e relative orecchie), dei banchieri (e relativi titoli tossici integrati di megabonus), dei governi democratici tiepidi (e relative viltà/omertà).

La Stampa 5.1.12
Ungheria, prova di diritto per l’Ue
di Vladimiro Zagrebelsky


L’attenzione focalizzata sulle difficoltà economiche e finanziarie dell’Italia e dell’Europa e la discussione sulle misure prese o da prendere per uscire dalla crisi, rischia di mettere in ombra, sotto la pressione dell’urgenza, un tratto fondamentale dell’Unione europea. Da lungo tempo ormai l’iniziale esclusivo scopo di creare un mercato comune si è arricchito di componenti diverse, di natura culturale e politica. Di esse si dà conto in apertura del Trattato sull’Unione, dichiarando che essa «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La coerenza con quei principi delle leggi e dei comportamenti di ciascuno dei ventisette Paesi membri è condizione per l’adesione all’Unione e per l’esercizio dei diritti che essa comporta. Tanto che la partecipazione di uno Stato membro può essere sospesa se gli organi dell’Unione constatano che esiste un rischio di violazione grave di quei valori. Le vicende in corso in Ungheria ci aiutano a ricordarcene.
L’Ungheria ha aderito (ha chiesto di aderire ed è stata accolta) all’Unione europea nel 2004, superando i test di democraticità e di compatibilità del sistema economico. Da allora il Paese ha vissuto gravi crisi economiche e politiche, ora giunte a un punto che allarma gli organi dell’Unione e l’opinione pubblica ungherese ed europea. Alle critiche provenienti dall’Unione e da altri Stati, il primo ministro ungherese Orban reagisce proclamando che nessuno può dettare al suo Paese ciò che deve fare. Con ciò solletica il suo elettorato e il nazionalismo ungherese, ma nega in radice la logica dell’appartenenza a una comunità come l’Unione. In Europa le vicende interne agli Stati membri, siano esse economiche o relative alla democrazia e alle libertà civili, riguardano tutti, istituzioni europee e cittadini. Non è irrilevante che ogni cittadino di ciascuno Stato membro sia anche cittadino dell’Unione.
Vinte le elezioni politiche e ottenuti, per il gioco della legge elettorale, più di due terzi dei seggi parlamentari, il governo ha introdotto modifiche alla Costituzione e alle leggi che confliggono con i valori propri dell’Unione. Sono stati fatti inquietanti richiami alla «ungheresità» etnica che urtano gli Stati confinanti in cui vivono minoranze magiare, è stata abolita la indipendenza della Banca centrale e sono state drasticamente ridotte l’indipendenza della magistratura e la libertà della stampa. Un’ampia epurazione è in corso. Il presidente della Corte suprema, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è dimesso. Il reclutamento dei nuovi magistrati è ormai nelle mani di un organismo che risponde al governo. La composizione della Corte costituzionale è modificata per legarla alla maggioranza di governo. La stampa, le radio e televisioni sono sottoposte a limitazioni e controlli che hanno iniziato a produrre dimissioni e licenziamenti di giornalisti non in linea. Il quadro che deriva dal contemporaneo attacco alla magistratura e alla stampa, il terzo e il quarto potere in democrazia, è per un verso classico in ogni regime autoritario e per l’altro è in esplicita rotta di collisione con i principi di democrazia su cui l’Unione europea si fonda e che sono comuni a tutti gli Stati membri.
Merita di essere particolarmente richiamato un aspetto delle riforme che il governo ungherese, forte della sua maggioranza, ha introdotto. Si tratta dell’attribuzione a un organo amministrativo legato al governo della possibilità di obbligare i giornalisti a svelare l’identità delle loro fonti di informazione. La Corte costituzionale, prima della modifica della sua composizione, ne ha constatato la incostituzionalità, rilevando che solo il giudice può obbligare in casi eccezionali il giornalista a rivelare le sue fonti. Un orientamento della Corte costituzionale in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e la pratica esistente negli altri Paesi dell’Unione. L’eccezionalità della violazione del segreto delle fonti, ammessa solo quando sia assolutamente necessaria per tutelare fondamentali interessi pubblici, è una regola indispensabile per consentire alla stampa di svolgere il suo ruolo di informazione e controllo nella società democratica. Per rimarcare la distanza tra le pretese del governo ungherese e la pratica negli altri Paesi si può ricordare la recente sentenza della Cassazione francese, che ha annullato un’indagine promossa dal pubblico ministero (che in Francia dipende dal ministro della giustizia), per individuare le fonti dei giornalisti che avevano ottenuto e pubblicato notizie da una istruttoria penale riguardante anche personaggi politici della maggioranza governativa. La Corte di Cassazione, richiamando la Convenzione europea dei diritti umani, ha osservato che le notizie pubblicate, da un lato avevano un notevole interesse per il pubblico e dall’altro non mettevano in pericolo essenziali esigenze di segretezza e ha annullato l’indagine. Proteggere le fonti delle notizie raccolte dai giornalisti, è necessario per evitare che esse si inaridiscano e per consentire alla società di far emergere notizie imbarazzanti per il potere, mantenendo vivo il dibattito democratico. Poiché la sola volontà della maggioranza non basta a dar linfa a una democrazia. L’indipendenza della magistratura, la libertà della stampa e la completezza dell’informazione della opinione pubblica, sono condizioni essenziali per la vitalità delle istituzioni della democrazia a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Centottant’anni orsono Tocqueville, segnalando i pericoli della dittatura della maggioranza, scriveva che «quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».

l’Unità 5.1.12
La stretta di Hu Jintao
«Giro di vite sulla tv: è troppo occidentale»
La Cina taglia le trasmissioni prive di «contenuto morale» L’ordine di Pechino: «Bisogna celebrare i successi del socialismo»
di Gabriel Bertinetto


Meno spettacolo, più informazione. O se vogliamo, stop al divertimento, via libera alla propaganda. Parola di Hu Jintao, numero uno della gerarchia politica cinese, comunicata ai concittadini nel discorso di fine anno.
Le nuove norme sono già in vigore. Concretamente significano un taglio drastico alle trasmissioni televisive prive di contenuto «culturale» o «morale». Vale a dire i «reality-show», i programmi per la scoperta di nuovi talenti, i fidanzamenti proposti o combinati in diretta tv.
L’ordine riguarda 34 canali satellitari, che d’ora in poi nella fascia compresa fra le 19,30 e le 22 potranno trasmettere programmi di intrattenimento per una durata che non superi i 90 minuti. In proporzione si tratta di una riduzione pari a due terzi, visto che di sera molte emittenti sino ad ora mandavano in onda quasi unicamente quel tipo di prodotti. Assieme al divieto, un’imposizione. Fra le 18 e le 23,30 ogni canale dovrà ammannire ai suoi utenti almeno due notiziari di mezz’ora ciascuno. E un’altra ora dedicata all’informazione dovrà essere inserita in tutti i palinsesti quotidiani.
Un insieme di misure che hanno per obiettivo evitare la deriva «occidentalista» della cultura cinese, denunciata dal capo di Stato nel messaggio alla nazione, ma già oggetto di riprovazione nel plenum del Comitato centrale lo scorso ottobre. In quell’assise era stato solennemente proclamata l’esigenza di «sviluppare una cultura socialista». Incassano la mazzata, senza osar mettere in discussione la bontà dei propositi, le reti tv che hanno prosperato grazie ai contratti pubblicitari trainati dall’audience elevata delle trasmissioni che ora vengono bandite o ridimensionate. Un colpo da ko, che fa seguito alla batosta subita un mese fa con l’abolizione degli spot commerciali all’interno degli sceneggiati.
Quando quella regola fu imposta, esplosero le lamentele dei danneggiati, rigorosamente anonime per evitare problemi con le autorità pubbliche. «Il governo potrebbe davvero ucciderci mettendo al bando tutte le interruzioni pubblicitarie durante i serial più seguiti», disse il funzionario di un’azienda. Una fonte della tv satellitare dello Hunan sottolineò a sua volta la pericolosità di una scelta politica effettuata quando ormai molti accordi pubblicitari per il 2012 erano stati firmati. «I padroni delle stazioni televisive in giro per il Paese passeranno molte notti insonni», affermò. La Cina che apre ai mercati internazionali, favorisce l’iniziativa privata, e modernizza rapidamente i propri apparati produttivi e tecnologici, tiene chiusa la porta alla democrazia e al pluralismo. Il potere del partito comunista rimane assoluto, i dissidenti finiscono in carcere o vengono emarginati. I dirigenti politici si accorgono però quanto sia difficile mantenere la contradditoria convivenza fra libertà economica e dittatura politica, se le coscienze individuali subiscono una sovraesposizione a forme comunicative che ignorano i capisaldi ideologici tradizionali. E allora ritengono essenziale bilanciare l’impatto dei programmi che scimmiottano i format made in Usa, con dosi massicce di ottimismo rivoluzionario ed entusiastiche descrizioni dei progressi che la Repubblica popolare continua a fare sotto la guida del partito comunista.
In questa fase l’ala conservatrice del Pc sembra avere il sopravvento sui riformatori. Nello scontro fra il gruppo che fa quadrato intorno a Bo Xilai, fautore dello stile di amministrazione autoritario da lui imposto nella provincia del Chongqing, e la fazione che si richiama all’esempio del Guandong, quest’ultima sembra avere la peggio. Anche perché nel Guandong, i tentativi di liberalizzare i metodi di governo promossi dal numero uno locale Wang Yang, sono messi in cattiva luce dalla contemporanea esplosione di fortissime tensioni sociali, scioperi, fallimenti aziendali, proteste popolari.

Corriere della Sera 5.1.12
La Cina sfodera il «killer delle portaerei»
Testato il missile balistico in grado di colpire un obiettivo in navigazione
di Marco Del Corona


PECHINO — Ci sono molti metodi per tenere alla larga i visitatori sgraditi. La Cina, quando considera le portaerei statunitensi che svariano dall'aperto Pacifico ad acque non lontane dalle sue coste, ne studia uno che potrebbe rivelarsi efficacissimo. Una nuova classe di missili balistici in grado di penetrare nella stratosfera e ricadere, seguendo una traiettoria ad arco, proprio sui «quattro acri e mezzo di sovrano territorio americano mobile» che costituiscono — secondo la definizione della marina Usa — il ponte di una portaerei.
Non si tratta dell'unico strumento bellico innovativo su cui lavora la Repubblica Popolare. Il più immediatamente vistoso è sua prima la portaerei che, non ancora pronta, in agosto ha cominciato ad assaggiare i mari. Tuttavia è il missile DF-21D a inquietare. Il suo percorso appare forse impossibile da intercettare per le difese americane: troppo alto o troppo basso. Il Wall Street Journal lo indica quasi come un simbolo di quella che definisce l'escalation militare della Cina. Scopo del nuovo ritrovato della Repubblica Popolare sarebbe proprio impedire alla marina statunitense di mantenere una presenza capace di influenzare l'intera regione. Se Barack Obama rivendica con costanza la proiezione dell'America in Asia e nel Pacifico, la Cina si attrezza. Lo fa rispondendo colpo su colpo, come con l'aereo invisibile ai radar la cui esistenza è stata confermata un anno fa proprio mentre il segretario alla Difesa, Robert Gates, era a colloquio con il presidente Hu Jintao.
La Cina ha abbracciato la tecnologia spinta, la cyberguerra, ha moltiplicato i sottomarini con missili da crociera antinave (erano 8 nel 2002, sono 29 oggi). I programmi di riarmo hanno a che fare con dati di fatto economici. Come il 90% delle merci mondiali che viaggia tuttora via mare. O la consapevolezza che gli Stati Uniti avranno sempre, per interessi e vocazione, più oceani e mari da curare rispetto alla Cina. O, ancora, l'inevitabile declino quantitativo delle unità navali di Washinghton. Lo ricordava il politologo Robert D. Kaplan durante una tappa a Pechino, aggiungendo però che «obiettivo della Cina non è muovere guerra all'America, ma tenerla discosta». Dunque molta retorica nazionalista che si ascolta a Pechino non contribuirebbe che a un gioco delle parti retorico. Restano i rischi veri di acque trafficate come il Mar Cinese Meridionale, costellato di isole (le Paracel, le Spratly) cinesissime per la Cina e vietnamitissime per il Vietnam: «Vi transita un terzo delle merci del mondo. Lì sì che è possibile qualcosa di non voluto, un incidente dalle conseguenze incontrollabili», ha detto al Corriere Kaplan.
I pretesti per agitarsi abbondano. Questa settimana la Cina ha dovuto ribadire che le isole Diaoyu sono sue, quando le ha viste raggiunte da un quartetto di militanti di destra dal Giappone (per il quale l'arcipelago si chiama Senkaku). Tuttavia ad ogni scarica di adrenalina seguono i gesti distensivi, gli sforzi diplomatici, le ciambelle di salvataggio. Il futuro leader Xi Jinping ha visitato il Vietnam e la gaffe delle bandierine cinesi con 6 stelle invece che 5 non ha inquinato la propaganda delle buone intenzioni. L'intesa monetaria sino-giapponese è destinata a pesare più di otto scogli in mezzo al mare. E le elezioni presidenziali di Taiwan fra 10 giorni non stanno scatenando le furie cinesi come avvenne nel 1996 quando a Taipei si alludeva troppo all'«indipendenza». Adesso è un'altra Cina, che si propone come broker regionale, soprattutto per il dossier nordcoreano: l'inviato per l'Asia di Obama, Kurt Campbell, è arrivato martedì a Pechino, la prossima settimana toccherà al presidente sudcoreano Lee Myung-bak e poi a Jang Song-thaek, zio del neoleader nordcoreano Kim Jong-un. Gran movimento. E la Cina vuole sia i tavoli negoziali sia i missili.

Corriere della Sera 5.1.12
L'ingannevole apoteosi del capitalismo «eterno»
Paradossi e conseguenze del crollo sovietico
di Luciano Canfora


U na delle illusioni ricorrenti del pensiero umano è di ritenere di vivere il punto d'arrivo della storia. Non è esatto che tale veduta sia stata caratteristica soltanto del pensiero antico, privo di mentalità storicistica. Certamente in alcuni storici e pensatori di età classica si coglie la persuasione di vivere nella «pienezza dei tempi», al culmine cioè di uno sviluppo del quale non si immaginano ulteriori tappe. Ma assai più diffuso è, semmai, in quell'età, il convincimento che la storia umana non sia stata che una continua decadenza.
È noto che il sovvertimento radicale di tale prospettiva è dovuto al pensiero storico di matrice cristiana, in particolare all'influenza di un gigante del pensiero tardoantico quale Agostino, alla sua intuizione del tempo e alla sua visione della storia come progresso verso la «città di Dio». Gli incunaboli dello storicismo moderno sono lì. Con il limite, ovviamente, di una visione insieme conclusiva e utopistica: conclusiva, in quanto fondata appunto sull'idea di un punto d'arrivo (la città di Dio); utopistica perché proiettante fuori della storia la conclusione della storia. È altresì chiaro che una laicizzazione della visione agostiniana — l'intuizione di un cammino positivo ma immanente — è alla base del moderno pensiero progressista.
Se dal piano della visione filosofica passiamo a quello della ricostruzione storica, possiamo osservare analoga polarizzazione nello scontrarsi, nell'età nostra, di due opposte visioni del «modo di produzione capitalistico», così efficacemente studiato da Marx. Da un lato una visione eternizzante e statica, secondo cui il capitalismo non solo è forma durevole e ricorrente nelle più varie epoche, ma è anche l'approdo ultimo dell'organizzazione sociale. Dall'altro una visione storicizzante (e certo scientificamente agguerrita), secondo cui è prevedibile un declino anche del «modo di produzione capitalistico», come di ogni altro modo di produzione ad esso precedente.
Per tanta parte del nostro secolo questa seconda veduta si coniugava con la certezza di essere entrati — con la rivoluzione sovietica — in un'età storica che avrebbe visto realizzarsi quel superamento del capitalismo che già sul piano scientifico-analitico era dato «prevedere». E si coniugava anche con l'idea — non meno azzardata — che l'età del socialismo, e poi del comunismo e della dissoluzione dello Stato fosse anche l'ultima dello sviluppo umano. La crisi, rapida in fine ma a lungo incubatasi, dei sistemi politico sociali detti del «socialismo reale» ha dato un duro colpo a quelle convinzioni e ha ridato fiato in modo spettacolare all'altra veduta, quella dell'«eternità» del capitalismo.
Anche sul piano logico, però, è subito chiaro, a chi non si lascia trascinare dalla passione, che il crollo di gran parte dei sistemi di «socialismo reale», mentre dà un colpo mortale all'idea di essere già entrati nell'età «successiva» (quella del socialismo), non altrettanto reca un argomento risolutivo alla veduta, sempre ritornante, dell'eternità del capitalismo. Questa seconda deduzione continua ad apparire azzardata, se solo si considera quanto l'esistenza di una settantennale esperienza di economia socializzata e di piano abbia inciso sulla natura stessa e sul funzionamento del capitalismo. Al punto che, non senza ragione, commentatori del più vario orientamento, tendono oggi a dire che il risultato di quasi un secolo di esperienze socialistiche (poi entrate in crisi) è stato per così dire di tipo dialettico. Il socialismo ha contato o «resta» nella storia del XX secolo non perché abbia «inventato» società nuove, ma perché ha inciso profondamente nelle dinamiche del capitalismo. L'avversario modifica l'antagonista e si viene modificando esso stesso.
Quanto detto sin qui può forse bastare a non prendere sul serio saggi troppo fortunati come La fine della storia del nippo-statunitense Fukuyama. Il problema è però un altro. Non cullarsi nel rifiuto di interpretazioni avventate o semplicistiche, ma cercare di capire il movimento storico che continua incessante sotto i nostri occhi. E qui incominciano le difficoltà. Le classi si sono profondamente rimescolate; l'operaio di fabbrica del mondo industrializzato palesemente non sarà il soggetto della trasformazione e del superamento (quando che sia) del capitalismo. In compenso, la polarizzazione tra ricchezza e miseria a livello planetario si è approfondita e irradiata sull'intero pianeta.
Sul piano, poi, dei modi dell'organizzazione politica, accade che il modello occidentale — proprio quando doveva celebrare i suoi fasti e il suo trionfo — è entrato in gravissima crisi. Lungi dal determinarsi l'apoteosi della mitica «liberaldemocrazia», si appalesa, in tutta la sua brutalità, il trionfo della compravendita politica, veicolo dell'esproprio della volontà popolare.

Repubblica 5.1.12
Il valore dei beni comuni
di Stefano Rodotà


Si può dire che il 2011 sia stato l´anno (anche) dei beni comuni. Espressione, questa, fino a poco tempo fa assente nella discussione pubblica, del tutto priva d´interesse per la politica, anche se il premio Nobel per l´economia era stato assegnato nel 2009 a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi in questa materia. Poi, quasi all´improvviso, l´Italia ha cominciato ad essere percorsa da quella che Franco Cassano aveva chiamato la "ragionevole follia dei beni comuni". E questo è avvenuto perché la forza delle cose ha imposto un mutamento dell´agenda politica con il referendum sull´acqua come "bene comune". Da quel momento in poi è stato tutto un succedersi di iniziative concrete e di riflessioni teoriche, che hanno portato alla scoperta di un mondo nuovo e all´estensione di quel riferimento ai casi più disparati. Si parla di beni comuni per l´acqua e per la conoscenza, per la Rai e per il teatro Valle occupato, per l´impresa, e via elencando. Nelle pagine culturali di un quotidiano campeggiava qualche mese fa un titolo perentorio: "I poeti sono un bene comune".
L´inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell´espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità "comune" di un bene può sprigionare tutta la sua forza. E tuttavia è cosa buona che questo continuo germogliare di ipotesi mantenga viva l´attenzione per una questione alla quale è affidato un passaggio d´epoca. Giustamente Roberto Esposito sottolinea come questa sia una via da percorrere per sottrarsi alla tirannia di quella che Walter Benjamin ha chiamato la "teologia economica".
Ciò di cui si parla, infatti, è un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, da tempo sostanzialmente affidato alla logica del mercato, dunque alla mediazione della proprietà, pubblica o privata che fosse. Ora l´accento non è più posto sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società. Partendo da questa premessa, si è data una prima definizione dei beni comuni: sono quelli funzionali all´esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future.
L´aggancio ai diritti fondamentali è essenziale, e ci porta oltre un riferimento generico alla persona. In un bel saggio, Luca Nivarra ha messo in evidenza come la prospettiva dei beni comuni sia quella che consente di contrastare una logica di mercato che vuole "appropriarsi di beni destinati al soddisfacimento di bisogni primari e diffusi, ad una fruizione collettiva". Proprio la dimensione collettiva scardina la dicotomia pubblico-privato, intorno alla quale si è venuta organizzando nella modernità la dimensione proprietaria. Compare una dimensione diversa, che ci porta al di là dell´individualismo proprietario e della tradizionale gestione pubblica dei beni. Non un´altra forma di proprietà, dunque, ma «l´opposto della proprietà», com´è stato detto icasticamente negli Stati Uniti fin dal 2003. Di questa prospettiva vi è traccia nella nostra Costituzione che, all´articolo 43, prevede la possibilità di affidare, oltre che ad enti pubblici, a "comunità di lavoratori o di utenti" la gestione di servizi essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio. Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell´ "appartenenza" del bene, ma quello della sua gestione, che deve garantire l´accesso al bene e vedere la partecipazione di soggetti interessati.
I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Indisponibili per il mercato, i beni comuni si presentano così come strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza, quelli che appartengono a tutti in quanto persone, possano essere effettivamente esercitati. Al tempo stesso, però, la costruzione dei beni comuni come categoria autonoma, distinta dalle storiche visioni della proprietà, esige analisi che partano proprio dal collegamento tra specifici beni e specifici diritti, individuando le modalità secondo cui quel "patrimonio comune" si articola e si differenzia al suo interno.
Se, ad esempio, si considera la conoscenza in Rete, uno dei temi centrali nella discussione, ci si avvede subito della sua specificità. Luciano Gallino ne ha giustamente parlato come di un bene pubblico globale. Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo ad una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi. Come si estrae questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di Internet? Di nuovo una sfida alle categorie abituali. La tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l´individuazione di un gestore, ma attraverso la definizione delle condizioni d´uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti minimi resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui, dunque, non opera il modello partecipativo e, al tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. È il modo stesso in cui il bene viene "costruito" a renderlo accessibile a tutti gli interessati.
Ben diverso è il caso dell´impresa, di cui pure si discute. Qui è grande il rischio della confusione. Sappiamo da tempo che l´impresa è una "costellazione di interessi" e che sono stati costruiti modelli istituzionali volti a dar voce a tutti. Ma la partecipazione, anche nelle forme più intense di cogestione, non mette tutti i soggetti sullo stesso piano, né elimina il fatto che il punto di partenza è costituito da conflitti, non da convergenza di interessi. Parlare di bene comune è fuorviante.
L´opera di distinzione, definizione, costruzione di modelli istituzionali differenziati anche se unificati dal fine, è dunque solo all´inizio. Ma non rimane nel cielo della teoria. Proprio l´osservazione della realtà italiana ci offre esempi del modo in cui la logica dei beni comuni cominci a produrre effetti istituzionali. Il comune di Napoli ha istituito un assessorato per i beni comuni; la Regione Puglia ha approvato una legge, pur assai controversa, sull´acqua pubblica; la Regione Piemonte ne ha approvata una sugli open data, sull´accesso alle proprie informazioni; in Senato sono stati presentati due disegni di legge sui beni comuni e vi sono proposte regionali, come in Sicilia. Si sta costruendo una rete dei comuni ed una larga coalizione sociale lavora ad una Carta europea.
Quel che unifica queste iniziative è la loro origine nell´azione di gruppi e movimenti in grado di mobilitare i cittadini e di dare continuità alla loro presenza. Una novità politica che i partiti soffrono, o avversano. Ancora inconsapevoli, dunque, del fatto che non siamo di fronte ad una questione marginale o settoriale, ma ad una diversa idea della politica e delle sue forme, capace non solo di dare voce alle persone, ma di costruire soggettività politiche, di redistribuire poteri. È un tema "costituzionale", almeno per tutti quelli che, volgendo lo sguardo sul mondo, colgono l´insostenibilità crescente degli assetti ciecamente affidati alla legge "naturale" dei mercati.

«La disputa tra realisti e antirealisti interroga anche gli storici»
Repubblica 5.1.12
Che cos’è la verità storica
Troppi testimoni ed emozioni la docufiction rovina la ricerca
di Miguel Gotor


Il trauma della Shoah con il rischio della negazione condiziona ancora i modelli culturali
Il dibattito tra neorealisti e postmoderni riguarda anche altre discipline. Così una deriva ermeneutica ha dato troppo valore alle singole memorie identitarie
I ricordi individuali sono necessari ma non sufficienti alla comprensione degli accadimenti

La disputa tra realisti e antirealisti interroga anche gli storici invitandoli a selezionare una serie di strumenti critici con cui affrontare il relativismo concettuale tipico degli anti-realisti radicali e la critica alla nozione di fatto promossa dai post-modernisti.
Il primo strumento è costituito dalla documentalità come resistenza, che usa la filologia a guisa di arma. I fatti saranno pure interpretazioni come sostenuto da Nietzsche, o sacchi vuoti che non stanno in piedi come scritto da Pirandello; e avrà anche ragione Borges nelle Ficciones, quando, commentando il capitolo IX del Don Chisciotte, quello in cui Cervantes definiva la storia la «madre della verità» sostiene: «L´idea di Cervantes è meravigliosa: non vede nella storia l´indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo che avvenne». D´accordo, ma dai tempi di Lorenzo Valla, grazie alla rivoluzione umanistica, si è affermata un´irriducibilità dell´analisi del testo e una sua autonomia che connotano la disciplina storica e le consentono, attraverso la critica delle fonti e le relazioni con il contesto, di accertare l´autenticità di un documento e la verità o la falsità del suo contenuto. Ciò avviene attraverso un metodo filologico che è il migliore antidoto allo scetticismo integrale e che fa della storia una disciplina laica che sottopone a ragione critica i discorsi istituzionali e istituzionalizzanti del potere e si fonda, come ha insegnato Marc Bloch, sul modo del relativo e degli uomini al plurale.
Il secondo strumento respinge l´identità tra storia e memoria che devono vivere nella loro reciproca autonomia. Se la verità storica dipendesse solo dal racconto dei testimoni oculari o dal ricordo dei protagonisti degli avvenimenti, sarebbe davvero poca cosa. Anzi, sia gli uni sia gli altri, non aiutano a capire perché – come ha insegnato Primo Levi in I sommersi e i salvati – la testimonianza oculare e la memoria individuale sono necessarie, ma non sufficienti alla comprensione storica. Entrambe, infatti, sono determinate da un impasto vivacemente umano di interessi, dimenticanze, censure, passioni, paure, ambiguità, dolori, segreti, rimpianti, fedeltà e obbedienze che costituiscono l´inevitabile porto da cui si salpa, ma non il punto di arrivo di ogni avventura di conoscenza. La storia non può limitarsi a raccogliere e inventariare le testimonianze dei reduci, bensì deve criticarle nella loro emotività costitutiva, altrimenti rischia di diventare una disciplina della rappresentazione dei sentimenti e delle percezioni, incapace di mettere in relazione i discorsi tenuti con la posizione sociale di chi li tiene e i rapporti di forza entro i quali avvengono.
Naturalmente, non si tratta di riproporre un neo-positivismo ingenuo dal carattere sociologico-documentario, indifferente al travaglio ermeneutico che ha attraversato la soggettività occidentale negli ultimi decenni. Piuttosto, bisogna partire da quella consapevolezza per riflettere anche in ambito storiografico e non solo letterario sulla fecondità di una sorta di "realismo isterico" caratterizzato dal gusto maniacale per il dettaglio (Dio è nel particolare), dalla digressione che rivela il problema quanto più sembra allontanarsi dal suo oggetto e dalla fluvialità della trama che serve a proteggere con i suoi argini la sempre fragile e spesso tragica complessità della verità storica come ricerca.
Il terzo strumento riguarda la dimensione civile della ricerca storica. In questi ultimi anni il mestiere di storico è stato caratterizzato da una deriva ermeneutica sempre più specialistica e parcellizzata direttamente proporzionale alla crisi del carattere etico-politico della disciplina. La principale ragione di questo moto tendenziale credo sia comune ai principali saperi umanistici. Penso alla rielaborazione del trauma costituito da Auschwitz, che, trascorsi solo settant´anni dall´evento, ancora condiziona lo sviluppo dei modelli culturali. Tutte le discipline umane, ancora oggi, stanno provando a rispondere, ciascuna in base alla propria specificità, alla domanda che fu per primo formulata da Theodor Adorno: dopo Auschwitz è ancora possibile la poesia? E Dio, e la filosofia, e l´arte, e il romanzo e la storia? Sono ancora possibili?
Per quanto concerne la storia la ferita da ricucire è costituita dal negazionismo, ossia dal rifiuto dell´esistenza dei campi di sterminio come fatto in sé. La qualità dei problemi sollevati da questa patologia culturale sono più rilevanti dell´effettiva portata quantitativa del fenomeno stesso. Nel negare l´esistenza di un fatto riducendolo a mera interpretazione c´è il lascito più concreto del progetto nazista, fondato sulla distruzione della documentalità, un obiettivo che è stato possibile programmare e in parte realizzare proprio in virtù della forza e dell´efficacia di quel programma totalitario. «Tanto non vi crederanno…»: quest´angosciosa provocazione di una SS spinse Levi alla scrittura. Dall´imperativo di rispondere a una sfida tanto selvaggia si è registrata la condivisibile presa di conquista del centro della disciplina da parte della memoria e della testimonianza. Tuttavia, l´estensione onnivora di questa prescrizione agli altri ambiti della ricerca, un´estensione non a caso accompagnata da una messa in discussione dell´unicità della Shoah come progetto di annientamento totalitario scaturito dal cuore della democrazia europea, ha progressivamente marginalizzato lo spazio della filologia e quello del metodo nella ricostruzione storica: dalla storia alle "storie", ciascuno con la propria memoria identitaria da difendere e brandire.
Ciò ha favorito l´affermazione della "docufiction", il cui fulcro è costituito dalla densità emotiva del racconto, qualunque esso sia: basta che quel sacco stia in piedi, anche se a tenerlo non sono più neppure le interpretazioni – che almeno si potrebbero discutere – ma il palcoscenico delle emozioni, il ricatto degli stati d´animo e il loro consumo pubblicitario dentro una cornice populista che costituisce la malattia della democrazia contemporanea. Un male che si può ancora curare se restituiamo uno spazio critico ai fatti e alla realtà, come istanza culturale da proporre, un percorso in cui dunque il sapere storico, con i suoi metodi, può svolgere un´importante funzione civile.
Il problema sollevato è quello della tendenza al dispotismo della democrazia, già individuata da Tocqueville in pagine famose: forme della rappresentatività in crisi e retoriche della persuasione che vivono invece una stagione tecnologica di straordinario sviluppo e pervasività e che sono sempre più in grado di «degradare gli uomini senza tormentarli», in modo «più esteso e più dolce» che in passato, come scriveva l´autore della Democrazia in America. In questo squilibrio tipico del nostro tempo tra la lentezza delle forme della politica e la velocità tecnologica della sua comunicazione senza pensiero e cultura e, dunque, in uno stato perenne di demagogia plebiscitaria, c´è la profonda frattura dei nostri giorni. Ragionare su come sanarla attiene alla funzione culturale delle discipline umanistiche, alla sfida del realismo con cui avranno la capacità di affrontarla: il nemico, quando è mortale, non è mai un´interpretazione.

Repubblica 5.1.12
Un saggio di Rovatti ci mostra perché non possiamo liquidare quelle teorie
Metodo e forza del pensiero debole
Una delle tesi di Freud è che ciascuno viva la realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente"
di Massimo Recalcati


Quando gli psicoanalisti discutono animosamente tra loro tendono a farlo a colpi di diagnosi. L´avversario non viene solo contestato teoricamente ma viene innanzitutto psichiatrizzato come se fosse un paziente. Nei dibattiti filosofici si discute a colpi di "tesi". L´ultimo caso è quello della critica del "nuovo realismo" nei confronti del "pensiero debole". La colpa del pensiero debole come sottoprodotto dell´ermeneutica sarebbe quella di cancellare il peso oggettivo della realtà esterna, di introdurre al posto di questo peso il carattere aleatorio delle interpretazioni che finisce per fare evaporare la nozione stessa di realtà. Sino ad individuare in questa perdita del riferimento stabile alla Realtà la giustificazione ontologica dei sofismi interpretativi di ogni genere.
In un brillante libretto titolato Inattualità del pensiero debole (Forum, Udine) Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura. Due le sue argomentazioni principali. La prima: nessuno ha mai sognato di contestare che se piove piove – era uno degli argomenti "forti" contro i debolisti –, ma nessuno può negare che a) non esiste un fatto in sé che non sia preso in una rete stratificata di significazioni (la pioggia può essere benvenuta o maledetta, può dare luogo a valutazioni meteorologiche o a poesie, ecc.) e, soprattutto, che b) il fatto in sé della pioggia apre inevitabilmente sul "vissuto" singolare di chi lo vive e questo vissuto, che pure è un fatto, non è mai semplice come un fatto! Nondimeno il riferimento di Rovatti a questa dimensione non anima chissà quale irrazionalismo, ma agisce come contrappeso critico nei confronti di quei saperi forti che vorrebbero prescindere dalla dimensione affettiva e interpretativa del soggetto e che invocano la Verità, la Vita, la Realtà, la Storia e il Soggetto stesso come assoluti dogmatici. Mi chiedo, en passant, quanto la psicoanalisi potrebbe apportare a questo dibattito sull´esistenza nuda e cruda della realtà opposta alla natura artefatta delle interpretazioni. Una scarpa è una scarpa, è un fatto, ma per qualcuno – per esempio per un feticista – non è mai solo una scarpa ma diviene un idolo, un talismano, la condizione stessa che rende possibile il desiderio erotico. E non si tratta affatto, come sarebbe stolto credere, di situazioni patologiche. Anzi, la psicoanalisi non ci obbliga forse a coniugare il tema dell´esistenza della realtà esterna con quello, ricchissimo di implicazioni etiche, della cosiddetta Normalità? Una delle tesi maggiori di Freud è che ciascuno viva la cosiddetta realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente", ovvero senza alcuna preoccupazione realistica. Ma quando Rovatti evoca la complessità stratificata del vissuto non ha in mente innanzitutto la psicoanalisi, ma una nozione di "esperienza" che eredita da Husserl attraverso la mediazione del suo maestro Enzo Paci.
La seconda argomentazione in difesa del pensiero debole avanzata da Rovatti riguarda invece l´importanza che sin dalla sua origine i debolisti hanno assegnato all´intreccio tra realtà e dispositivi di potere. «L´appello alla Verità e alla Realtà» – scrive Rovatti – «è un appello astratto» se non tiene conto dell´incidenza dei dispositivi del potere. La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell´assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica. Anche nel nome della realtà – una certa psicoanalisi non ha fatto altro che celebrare il culto del "principio di realtà" e ha generato spesso mostri – si possono invocare gli spettri del conformismo e quelli del sacrificio e del terrore. Il riferimento a Foucault è su questo punto cruciale perché riconduce la questione ontologica della verità a quella del potere pensando la storia stessa – come ci ricorda Rovatti – come un "gioco della verità" attraverso i dispositivi organizzati dal potere. Anche tutto l´interesse che nell´ultimo decennio Rovatti ha manifestato verso l´opera di Franco Basaglia e la dimensione della follia si muove proprio in questa direzione: la follia non è un fatto nudo e crudo, non è mai un´evidenza oggettiva – non è una malattia del cervello –, ma è il risultato di pratiche violente di esclusione, di una stigmatizzazione che è innanzitutto storica e sociale. Questo libretto testimonia come il pensiero debole lungi dall´essere un capitolo minore della storia più recente dell´ermeneutica o del post-modernismo, sia innanzitutto una lezione di metodo: la lotta contro la barbarie è innanzitutto lotta contro la violenza intrinseca nelle fissazioni oggettivistiche della Verità (e della Normalità).

il Riformista 5.1.12
La solita sinistra irresponsabile di Hardt e Negri
di G. Sabatini e L. Bona


Le contestazioni giovanili e popolari maturate con la recente crisi economica hanno spinto Michael Hardt e Antonio Negri a riproporre la loro teoria del «comune» in un recente saggio intitolato “La sinistra come potenza costituente” (MicroMega, n.8/2011). Il «comune» rappresenterebbe un’organizzazione sociale radicalmente alternativa a quelle sinora sperimentate. Nel senso che sarebbe espressione di movimenti spontanei di protesta che, a loro volta, dovrebbero ispirare la politica di una sinistra finalmente rifondata.
Lo spunto per sviluppare i loro ragionamenti è offerto, ad Hardt e Negri, dall’idea che con il trionfo delle attuali politiche liberiste si sia andati verso una distinzione sempre più sfumata tra i tradizionali concetti politici di sinistra e di destra, sino a fa-
re emergere tra le forze di sinistra la tendenza a difendere tali diritti nei limiti in cui il loro mantenimento comincia a creare eccessivi problemi per il debito pubblico; tra le forze di destra, per contro, si sarebbe diffusa una tendenza a esprimere preoccupazione per l’estensione dei diritti sociali sino a quando l’ordine pubblico e la sicurezza non iniziano ad apparire in pericolo. In questo quadro, la “dimensione monetaria” sarebbe così divenuta la maschera con cui giustificare il coinvolgimento della sinistra e della destra nella gestione delle disuguaglianze sociali a vantaggio degli interessi capitalistici.
Tuttavia, Hardt e Negri non pensano che l’esistenza di contorni sempre più fluidi tra destra e sinistra sia in procinto di produrre un tramonto definitivo dell’utilità di queste due categorie politiche. Con riferimento al concetto di sinistra rilevano infatti che lo stesso può ricuperare tutto il suo originario valore se concepito come «potenza costituente». Cioè, se riesce a offrirsi come forza sociale che punta al cambiamento e non semplicemente a garantire i prevalenti «ordini cotituzional-democratici»: per Hardt e Negri molte delle odierne disfunzioni sociali, come quelle lamentate dagli “indignados spagnoli” e dal movimento “occupy Wall Street”, traggono origine proprio da una difesa a oltranza di tale tipo di ordini.
Dando spazio a queste idee, Hardt e Negri aggiungono anche che l’incapacità della sinistra costituzionale di svolgere una leadership riformista dipende dal fatto che le Costituzioni democratiche che di solito difende caparbiamente prefigurano spazi di azione riformatrice solo per forze appartenenti alla destra. E la ragione di questa osservazione è che tanto le Costituzioni più antiche, quanto quelle elaborate nel dopoguerra hanno preso corpo entro «una cornice liberale».
Ma come riformare e scardinare la gabbia di ferro degli ordini liberal-democratici per ricuperare la sinistra contemporanea alla sua antica vocazione riformista?
Hardt e Negri suggeriscono che per agire in tal senso occorrono nuove forme di rappresentanza, un nuovo terreno civile di discussione e nuovi protagonisti di un «processo costituente che vada dal basso verso l’alto», così da rimuovere finalmente il conflitto esistente tra la «natura sociale della produzione» e la «natura privata dell’accumulazione capitalistica».
A questo risultato è possibile pervenire attraverso la socializzazione del «comune prodotto del lavoro sociale». Una socializzazione possibile solo se connessa a una serie di riforme istituzionali, quali la soppressione dell’istituto della proprietà privata, il rafforzamento del potere cognitivo del lavoro attraverso la promozione dell’autoformazione, il superamento della rappresentanza politica come professione, la diffusione di poteri territoriali attraverso un progetto federalista e una nuova governance della vita comune per consentire un rapido adattamento dell’organizzazione sociale al mutare degli interessi delle moltitudini.
Per Hardt e Negri, in altri termini, se si vuole ancora parlare delle ragioni della sinistra, occorre una «ragione altermoderna», così da rivitalizzare radicalmente lo spirito antagonista dell’antico socialismo. E il terreno migliore sul quale attivare un appropriato processo di riforma è quello favorevole a una nuova Costituzione, per organizzare il «comune» e fissare i criteri di una «produzione dell’uomo per l’uomo».
A questo fine dovrebbe potersi muovere un Principe. Non simile a quello pensato da Antonio Gramsci e dai padri fondatori del socialismo: il principe che Hardt e Negri delineano deve essere espressione delle nuove lotte spontanee avviate dalle moltitudini indignate. A questo punto, che bilancio fare dei ragionamenti sin qui svolti?
A parte l’indeterminazione dei concetti di «moltitudini» e di «comune», Hardt e Negri per la cura dei mali del mondo sanno solo auspicare la nascita di una sinistra irresponsabile. Cioè di una sinistra acefala e priva di ogni capacità propositiva e di guida, dato che dovrebbe limitarsi a recepire ciò che la piazza spontaneamente e di momento in momento ritiene di dover suggerire.

il Riformista 5.1.12
Etica, cultura e politica
La lezione di Chiaromonte
A quarant’anni dalla morte. «La nostra è stata una generazione ricca di idee e priva di convinzioni; alla ricerca della verità e dogmaticamente certa che non ci fosse altra certezza che nel relativo e nel mutevole, cioè nel caso»
di Manfredi Mannato


Che cosa è rimasto di Nicola Chiaromonte, morto quarant’anni fa, il 18 gennaio 1972? Poco o nulla. Certamente fu un irregolare, un outlandish, che mai intrattenne relazioni pacifiche con qualsivoglia “spirito del tempo”, o “individuo cosmico storico” del panorama politico italiano degli anni Cinquanta-Sessanta, che pur bene conosceva, e in cui si trovò ad operare. Sempre fuori furono, lui e il suo amico Ignazio Silone, dalla cerchia dei noti protagonisti della politica e della intellighenzia ufficiali del momento. Anima critica la sua, la cui esemplarità socratica non poteva non farlo essere e sentire cittadino del mondo; un mondo che aveva cercato di comprendere e spiegare attraverso la pubblicazione di Tempo presente, una delle migliori riviste italiane di cultura del dopoguerra, fondata nel 1956 con Ignazio Silone e insieme all’amico diretta fino al 1968.
Nato nel momento in cui prende l’avvio in Italia la rivoluzione industriale i cui sviluppi economici e sociali caratterizzeranno nel periodo successivo l’intera storia materiale e morale del nostro Paese, per cui alle idee del liberalismo e della democrazia, si opporranno quelle del socialismo e del comunismo -, il giovane Chiaromonte si verrà a trovare nel bel mezzo di una riflessione, d’ordine non soltanto politico, che metterà progressivamente in discussione i fondamenti e il destino della stessa società industriale.
Figlio del suo secolo, egli da subito pone radici in quei fermenti nuo-
vi che, a fascismo ormai consolidato, cercano la costruzione di un nuovo sapere politico, modellato soprattutto sulle garanzie offerte dal liberalismo e dal socialismo, le due anime più nobili della tradizione politica moderna italiana ed europea. Scriverà: «La nostra è stata una generazione ricca di idee e priva di convinzioni; alla ricerca della verità e dogmaticamente certa che non ci fosse altra certezza che nel relativo e nel mutevole, cioè nel caso: generazione, soprattutto che non credendo in nulla, credette negli eventi e nella loro logica, come se gli eventi potessero dare quello che non era negli uomini». Saranno le lotte sociali e i contrasti ideologici intorno a cui si travaglierà il mondo della fine del secolo XIX -, ad avvicinare il giovane Chiaromonte alle idee del liberalismo e della democrazia.
Parlare della sua vita e della sua opera significa richiamare alla memoria la figura di un uomo schivo, la cui discrezione, effetto di una congenita tensione morale, lo portava a esprimere con un pensiero chiaro e libero verità a lungo riflettute e sofferte; verità vissute e partecipate che per lui rappresentavano, sempre e comunque, la ragion d’essere della cultura: «La cultura, infatti, non è il terreno della verità». Di qui l’antifascismo, le battaglie politiche e militari in Spagna (aveva partecipato come combattente alla guerra civile sulle bare volanti della squadriglia Malraux), gli esilii in Francia, Algeria, Stati Uniti, che alimentarono sempre più quel suo liberalsocialismo di una cultura di sinistra sobria, la cui origine inconfondibile aveva le sue matrici nei Quaderni di Giustizia e libertà dei fratelli Rosselli. Liberalsocialismo, il suo, che oltre a essere una proposta politica era un vero e proprio stile di vita, che nasceva da una serrata quanto congrua elaborazione intellettuale intessuta di profonda partecipazione umana.
A differenza di tanti profeti e ciarlatani del suo tempo, Chiaromonte non ritiene inevitabile, né auspicabile, qualsivoglia cataclisma ideologico-politico, che in nome di un qualunque ideale distrugga con sangue, dolore e lacrime tutto ciò che è caro all’umana civiltà. Quando mette in guardia i suoi amici contro il giacobinismo più spinto o la bandiera ros-
sa delle masse, che considera non meno feroci della ragion di Stato della classe dominante, non è animato da una disperazione di eroe romantico, ma semplicemente da un intento positivo: egli ritiene infatti che la cultura, il buon senso, la volontà, il coraggio delle idee possano scongiurare il pericolo, e modificare il cammino dell’umanità.
Poiché Chiaromonte ama lo stile e l’eleganza degli uomini liberi, le qualità che più ammira sono l’immaginazione, la sincerità, la naturale generosità, l’umanità, l’ampiezza di vedute, il sentire proprio della libertà individuale, la forza d’animo, l’energia morale, l’odio verso tutte le forme e situazioni di schiavitù, verso ogni imposizione o regola arbitraria, ma soprattutto verso la mortificazione e l’annichilimento dell’uomo. Chiaromonte loda queste preziosità dell’anima ovunque le incontri, rigettando le semplicistiche formule politiche e le demagogiche generalizzazioni, anche se glorificate dal sacrificio e dal martirio di uomini che combattono in nome di una stessa causa. Più e più volte dichiara che l’esperienza è tutto e che non potrà mai essere sostituita dalle idee e dalle parole, in quanto la vita è sempre eccezione, frattura, improvvisazione e mai sistema, processo, struttura. Ecco perché questo atteggiamento, nel suo caso, non lo porterà al distacco, né, tanto meno, al cinismo; si affianca, invece, a un temperamento appassionato e ribelle, all’occasione anche moderato ed equilibrato, facendo di lui uno straordinario personaggio per la sua unicità e
onestà morale, un rivoluzionario privo di fanatismo, un uomo disposto a essere in prima linea a battersi nel nome non già di principi astratti, ma sempre contro miserie e ingiustizie reali, concrete, vere, che nel mondo innervano condizioni e situazioni di vita miserabili e che richiedono di essere riscattate all’insegna di un nuovo e più forte senso morale.
L’intera evoluzione che muove il pensiero e l’opera di Chiaromonte può essere apprezzata alla luce di un suo tagliente aforisma: «Le menzogne corrodono le verità inutili, mettendole fuori uso e falsandole». Parole di alto valore terapeutico che, come “maestro segreto”, aveva precocemente esercitato fin da quando gli apparve in tutta evidenza la natura totalitaria dei regimi novecenteschi.
Strenuo assertore del principio di responsabilità, questo “poliglotta dello spirito” mai ha dismesso le pulsioni dell’intellettuale libertario, tant’è che ha sempre vissuto in tutto il suo drammatico spessore nella costruttiva tensione tra la concezione della libertà e, rispettivamente, la democrazia da un lato e il socialismo dall’altro -, l’intera parabola della sua esperienza di intellettuale e di uomo. Egli è certamente uno dei principali eredi della duplice tradizione politica, quella liberale e quella socialista, della modernità, anche se sempre cosciente del fatto che i programmi degli scrittori socialisti e libertari furono spesso propagandistici e utopici; altri, a volte, un po’ troppo virulenti e d’impatto, ma che comunque né le manchevolezze, né i difetti, né le insufficienze e gli eccessi di quei programmi, né il loro fallimento sociopolitico, annullavano la legittimità delle questioni sollevate da pensatori della statura di un Herzen, Tolstoj, Proudhon, Camus, Köstler e tanti altri. Latori, questi ultimi, di domande fondamentali che emergono nel momento stesso della nascita dell’era moderna e, in nuce, essendo in esse contenuta tutta la storia della nostra epoca, i suoi sogni e le stesse realtà virtuali di libertà, uguaglianza e fraternità della democrazia occidentale, il cui nesso pencolante o, piuttosto, controverso, potrebbe far pensare a una giustificata incompatibilità, a una contraddittoria prassi o speculazione politica, a cui, tuttavia, il pensatore lucano volle dare una risposta.

Corriere della Sera 5.1.12
Quando gli Alleati tradirono i cosacchi di Tolmezzo
risponde Sergio Romano


Una tragedia dimenticata: il suicidio di massa e la riconsegna all'Armata Rossa delle truppe cosacche e delle loro famiglie che dopo essersi insediate nella Carnia italiana si spostarono alla fine della Seconda guerra mondiale, nel maggio 1945, nella valle della Drava austriaca. È veramente difficile accedere a fonti sulla vicenda; qual è la sua conoscenza dei fatti?
Lorenzo Puccetti

Caro Puccetti,
Il caso dei cosacchi di Tolmezzo è soltanto il capitolo di una più grande tragedia: quella dei cittadini sovietici (due milioni secondo alcune fonti) che gli Alleati, sulla base degli accordi di Yalta, consegnarono all'Urss dopo la fine della guerra. Molti erano disertori dell'Armata Rossa e avevano combattuto con i tedeschi nelle file dell'esercito del generale Vlassov. Altri erano stati «collaborazionisti», a vario titolo, e appartenevano generalmente a gruppi sociali e nazionali — i cosacchi, i georgiani, gli ucraini, i baltici, i tedeschi del Volga, i ceceni e altre nazionalità caucasiche — che si erano battuti contro i Rossi durante la guerra civile, sino al 1921, e non avevano mai smesso da allora di considerare l'Unione Sovietica come una potenza coloniale. Avevano accolto la Wehrmacht come un esercito di liberazione e ne avevano condiviso le sorti.
I cosacchi di Tolmezzo erano circa 35.000 e formavano un piccolo popolo composto, più o meno in parti eguali, da soldati e da gruppi familiari che si erano accodati all'esercito tedesco durante la ritirata. Erano nella provincia di Udine vicino alla frontiera austriaca, da quando Alfred Rosenberg, ministro nazista dell'Est e grande teorico dell'antisemitismo, aveva concesso loro, qualche mese prima, una zona di residenza da utilizzare come base strategica. Avrebbero dovuto opporsi all'avanzata degli Alleati verso l'Austria, ma si arresero senza combattere alle truppe britanniche del generale Alexander dichiarando che il loro solo nemico era Stalin e che soltanto per questo avevano deciso di combattere a fianco dei tedeschi. Dopo qualche scambio di messaggi fra lo Stato maggiore, il ministero della Guerra e il Foreign Office, il governo britannico, tuttavia, decise di rispettare l'impegno di Yalta e raggruppò i cosacchi di Tolmezzo, insieme ad altri contingenti russi, georgiani e croati, accanto alla città di Lienz nella valle austriaca della Drava. Quando venne il momento della consegna ai sovietici vi furono sommosse, scioperi della fame e numerosi tentativi di suicidio. Anche gli inglesi, nel frattempo, si erano resi conto di ciò che sarebbe accaduto ai loro prigionieri non appena avessero attraversato la cortina di ferro. Ma a Londra prevalsero considerazioni politiche e, forse, banalmente logistiche. Gran parte dell'Europa centrale, in quei mesi, era divenuta un enorme accampamento di profughi, disertori, fuggiaschi, militari sbandati: un popolo di «displaced persons», gente senza casa e senza patria, che occorreva alloggiare, nutrire, vestire e, per evidenti ragioni di ordine pubblico, separare dal resto della popolazione. Ma lo spettacolo di tante persone votate all'ennesima purga staliniana turbò per molto tempo le coscienze di coloro che li avevano consegnati ai sovietici. Troverà il racconto di quella vicenda, caro Puccetti, nei libri di Nicolaj Tolstoj e in un libro di Nicholas Bethell intitolato «The last secret» (l'ultimo segreto), apparso a Londra nel 1974 e tradotto in francese l'anno seguente. Non credo che ne esista una edizione italiana.

Repubblica 5.1.12
Addio al boemo Josef Skvorecky, i suoi scritti contro il regime comunista
di Giuseppe Dierna


Toronto - È morto in Canada, dove si era trasferito nel 1969, lo scrittore Josef Skvorecky, accanto a Hrabal e a Kundera una delle voci più godibili e vivaci del Novecento boemo. Nato nel ´24, aveva dovuto patire l´occupazione tedesca del ´39 e i diktat del nuovo regime comunista, che certo non poteva apprezzare la sua scrittura autoironica e il suo stile, attento a registrare il parlato. I suoi primi testi descrivono una generazione cresciuta col jazz e i film americani, la stessa che ritroveremo nei Vigliacchi, romanzo subito sequestrato nel ´58 e trasformato in best-seller alternativo del socialismo reale. E quasi a costituire un´epopea di quei tempi difficili, il protagonista – Danny Smiricky - tornerà nei racconti (Il sax basso, tradotto da Adelphi) e nei romanzi scritti in Canada (Il miracolo, Il racconto dell´ingegnere di anime umane, entrambi in italiano da Fandango Libri), dove fonderà nel ´71 una casa editrice pubblicando autori cechi costretti in patria al silenzio, o esuli anch´essi, come Kundera.

Repubblica 5.1.12
Leadership
Dalle élite in crisi al populismo così la politica ha perso autorevolezza
di Carlo Galli


Il discorso di Napolitano ha posto la questione della credibilità di chi esercita il potere. Soprattutto in una fase di crisi della democrazia e di cambiamenti globali
Quelli a disposizione oggi provengono dalle esperienze più disparate e sono spesso outsider, oppure sono venditori di speranze a buon mercato
Uno dei grandi problemi è il prezzo che tutti devono pagare alla spettacolarizzazione delle cose che fa scadere ogni "visione" in una affannata gestione del presente

Nel suo messaggio di Capodanno il Capo dello Stato ha detto, tra l´altro, che l´Europa ha bisogno di leader più autorevoli. E, certo, è difficile negare che vi sia una sproporzione singolare fra De Gaulle (ma anche Chirac) e Sarkozy, fra Adenauer (ma anche Kohl) e la Merkel, fra De Gasperi (ma anche Moro) e Berlusconi. La nostra è forse un´epoca di nani?
Di fatto, oggi, il termine leader è utilizzato prevalentemente per indicare "importante", "primo": ad esempio, in locuzioni come "azienda leader", "leader del campionato". Nell´ambito politico funge da sinonimo per "governante": i "leader europei" significa i capi di Stato e di governo. Una presa d´atto che c´è qualcuno in posizione di comando, insomma; senza ulteriori specificazioni. Se si vogliono trovare utilizzazioni del termine più connotate in senso qualitativo e personale, viene spontaneo andare con il pensiero a esperienze politiche esotiche, quali il comunismo dinastico nord-coreano, al "Grande Leader" (Kim il-Sung) che lo ha fondato, al suo figliolo e successore, testé defunto, Kim Jong-il, il "Caro Leader", e al (per noi) grottesco culto della personalità che è loro tributato. Insomma, se con leader si intende una rilevante figura d´uomo (o di donna) che esercita il potere politico in modo energico, proponendo ai suoi concittadini una "visione" specifica, un orizzonte di senso condiviso, allora viene davvero da pensare che la leadership non sia più all´ordine del giorno, nelle esperienze politiche occidentali. Che abbia in sé qualcosa di obsoleto, che implichi una pretesa eccessiva, una richiesta smodata, sproporzionata rispetto a uno spazio, la politica, che non è più adatto a reggere, a sopportare, il peso di un vero leader. Il quale, infatti, è lo snodo fra l´Io (il singolo) e il Noi (il popolo, il partito); sa leggere i processi in atto, e catalizza le energie sociali verso una direzione; è un visionario pratico, che miscela efficacemente l´interpretazione personale e il movimento collettivo. Oppure, se si tratta di una leadership collettiva – di una élite –, sa proporre credibilmente il proprio interesse parziale come orizzonte entro cui si possono sviluppare le risorse materiali e morali di una collettività.
Se è vero che la modernità ha privilegiato la centralità dei cittadini e l´impersonalità universale del potere, oppure le grandi forze oggettive e necessarie della storia, è anche vero, tuttavia, che quanto più la politica era presa sul serio – ovvero quanto più appariva, ed era, la dimensione decisiva in cui si giocavano le sorti del vivere civile – tanto più essa, con discreta frequenza, era interpretata da autentici leader, o da efficienti élites. Da veri uomini politici o da vere classi politiche, insomma. Gli esempi, anche solo nel XX secolo, sono a tutti noti ed evidenti, nel bene e nel male. Oggi le cose sono diverse, per molti motivi. Perché la politica è consegnata ad anonimi grigi funzionari, che hanno più del tecnico che del politico; perché le forme tradizionali della politica, le istituzioni, sono stanche e svuotate, mentre la sostanza della politica, il potere, si abbatte direttamente sulla vita – sul corpo e sulle menti – delle persone; perché le forze che attraversano la società sono talmente ipertrofiche da non apparire più governabili, e le crisi, fattesi planetarie, sembrano fenomeni non politici ma naturali, e come questi intrattabili; perché le élites hanno ovunque perduto il rispetto di se stesse e del popolo; perché insomma la quotidianità straripante, cangiante e sfuggente, non può essere afferrata e messa in forma dalla politica. Che è screditata in quanto largamente corrotta e collusa; in quanto è subalterna alle esigenze e ai ritmi dell´economia (a sua volta largamente fuori controllo); in quanto è con ogni evidenza parte del problema, e non della soluzione.
I leader, oggi, sono richiesti, certo (le élites meno; ed è un errore). Esiste, fortissima, l´esigenza di dare un volto alla politica, di rendere riconoscibili gli ingranaggi del potere, di dare un senso alle miriadi di vicende, di aspirazioni e di sofferenze, di cui è fatta la società. Ma quelli che abbiamo a disposizione o sono leader non politici, outsider provenienti dalle più disparate esperienze (Youssou N´Dour che si candida in Senegal ne è solo l´ultimo esempio), oppure sono leader o leaderini populisti, venditori di speranze a buon mercato, imbonitori da strada o da osteria, o da pulpito, che catalizzano non speranze né progetti ma paure, rabbie, fobie. Ne abbiamo avuti, e ancora ne abbiamo, anche nel nostro Paese. La personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, fenomeni di facciata, prendono il posto della leadership, che è una questione di sostanza. E anche quei politici professionisti (ad esempio, Obama) che, pagando un prezzo inevitabile alla politica-spettacolo, vincono durissime campagne elettorali sulla base di programmi meditati, e si misurano con le questioni reali della politica, vengono ben presto triturati dai media, dagli avversari, dal fuoco amico, e dall´incalzante susseguirsi di sempre nuove emergenze che è la esperienza quotidiana di chiunque, oggi, eserciti un po´ di potere. E in breve divengono, da leader che erano, anatre zoppe; mentre la loro "visione" scade in un´affannata gestione del presente.
Certamente quindi, permane l´esigenza che la politica trovi nuove vie d´approccio, nuove risposte condivise, nuovi orizzonti di senso. Che grandi mobilitazioni di massa incrocino personalità decise o élites finalmente consapevoli che abbiano la forza e la speranza (o la disperazione) di mettere le mani negli ingranaggi della storia, e collaborino al traghettamento delle nostre società fuori dalla palude in cui sprofondano. Non è detto che questa esigenza di leadership – che è in realtà esigenza di politica in grande stile – possa essere soddisfatta; e che la politica trovi l´energia e l´immaginazione per emanciparsi dalla decadente mediocrità del presente. Eppure, anche solo che il problema sia almeno posto è già un passo nella direzione giusta.

Repubblica 5.1.12
Sono quindici le vere differenze tra uomo e donna
Uno studio italiano uscito su "Public Library of Sciences" mostra che lo scarto fra i sessi esiste Condotto su un campione di 10 mila persone ne descrive le caratteristiche della personalità
La maggiore discrepanza riguarda sensibilità, calore e apprensione
di Elena Dusi


Dai tempi di Darwin, il dibattito non si è mai sopito. Uomini e donne sono sottoposti a pressioni evolutive diverse e a separare i due sessi c´è un solco profondo, sosteneva il naturalista. Tesi smussata in tempi recenti. Nel tentativo di raggiungere posizioni politically correct, infatti, negli ultimi anni ci si è dati da fare per sfumare le differenze e declassare al rango di boutade la tesi secondo cui le donne vengono da Venere e gli uomini da Marte.
A riportare i due pianeti alla giusta distanza ci pensa ora uno studio italiano. Marco Del Giudice, psicologo dell´università di Torino, scrive sulla rivista Public Library of Sciences che lo scarto fra i due sessi esiste, eccome. «L´idea che ci siano solo piccole differenze di personalità fra uomini e donne va ripensata perché è basata su metodi inadeguati».
La ricerca è stata condotta da Del Giudice con due colleghi della Manchester Business School su un campione di 10mila americani su 15 diversi tratti della personalità. La discrepanza maggiore riguarda la sensibilità, tradizionale dominio femminile. Le donne registrano valori molto alti anche per quanto riguarda il calore e l´apprensione, mentre gli uomini si distinguono per equilibrio emotivo, coscienziosità e tendenza alla dominanza. Perfezionismo, vitalità e tendenza all´astrazione vedono invece la quasi totale parità fra i sessi. «I maschi - spiega Del Giudice - si descrivono come più stabili emotivamente, più dominanti, più legati alle regole e meno fiduciosi, mentre le femmine si vedono come più calde emotivamente, meno sicure di sé e più sensibili».
La ricerca torinese ribalta quello che era considerato l´ultimo grido in fatto di studi sui rapporti fra uomini e donne. Dall´università del Wisconsin nel 2005 la ricercatrice Janet Shibley Hyde aveva infatti scritto in maniera molto assertiva che «maschi e femmine sono uguali, fatta eccezione per piccole variabili psicologiche». Le teoria dei due mondi separati «domina i mezzi di comunicazione popolare». Ma va contraddetta perché «ha costi molto pesanti sia sul posto di lavoro che dal punto di vista delle relazioni interpersonali». La ricercatrice se la prende in particolare con il libro di John Gray del 1992 "Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere", che 6 anni fa aveva venduto già 30 milioni di copie ed era stato tradotto in 40 lingue, e con quello di Deborah Tannen "Perché non mi capisci?" secondo cui i due sessi hanno modi di parlare completamente diversi fra loro.
Mentre per quanto riguarda la sessualità o i criteri di scelta del partner c´è accordo sul solco che divide uomini e donne, l´analisi dei tratti della personalità è sempre stato terreno di contesa. «I nostri dati ribaltano la concezione secondo cui le differenze di genere nella personalità sono trascurabili» spiega oggi Del Giudice. «A differenza di altri studi, noi abbiamo studiato le caratteristiche dei due sessi in modo più preciso. E abbiamo osservato che le differenze aumentano nettamente se invece di misurare un tratto alla volta si prendono in considerazione tutte le variabili insieme». Il risultato, aggiunge lo psicologo torinese, è che «i profili di personalità tipici dei maschi e delle femmine si sovrappongono solo per il 10-20 per cento. Si tratta di una differenza di grandi dimensioni, anche se ovviamente parliamo di profili statistici che non descrivono le singole persone e lasciano spazio alle eccezioni».

Repubblica 5.1.12
L’Africa d’oro
Il continente della speranza
di Pietro Veronese


In controtendenza col resto del mondo, l´economia dell´Africa è in pieno boom. Tutti gli indicatori sono puntati verso l´alto Crescono la ricchezza, le opportunità di investimento e gli istituti di credito. Specialmente nei Paesi produttori di petrolio Ma i mali cronici restano in agguato
Il numero di produttori e consumatori triplicherà in cinquant´anni
Secondo un recente studio, nascerà un mercato dalle dimensioni asiatiche

Tutti vogliono l´Africa. Non soltanto i cinesi, che l´hanno invasa con i loro colossali investimenti e le loro merci a buon mercato, o gli altri implacabili cacciatori di materie prime; non soltanto Al Qaeda, che vi ha trovato residua manovalanza del terrore, o gli americani, che vi hanno piazzato tardivi avamposti militari; non soltanto gli indiani, i brasiliani, i turchi e insomma tutte le nuove potenze sempre più emergenti in cerca di un ruolo globale. La vuole anche il Papa, che la considera «il polmone spirituale del mondo» (e il continente dove più che in ogni altro è delocalizzata la produzione di preti: 26.172 seminaristi contro i 20.846 della cristianissima Europa). E soprattutto la vogliono i mercati, sia quelli dell´industria e del consumo che quelli finanziari, ansiosi di cooptarla nel grande giro dell´economia mondiale, di cui l´Africa è stata, fino ad oggi, la cenerentola.
Perché questa è la sorprendente notizia: in plateale controtendenza rispetto all´andamento generale, e con un appetito superiore anche a quello dei colossi asiatici, l´economia dell´Africa è in pieno boom. Mentre in Occidente la produzione stagna se va bene, e se va peggio, come da noi, si annuncia un anno di netta recessione, gli indicatori africani sono puntati verso l´alto.
La previsione dell´Ocse è che nel 2012 il Pil continentale crescerà del 5,8 per cento, mentre nell´anno appena concluso ha già fatto registrare un ottimo 3,7, malgrado la paralisi produttiva indotta, per esempio nell´industria petrolifera libica, dalla tempesta delle "primavere arabe". (Questo ha fatto sì, peraltro, che l´insieme dei Paesi a sud del Sahara abbia registrato dati migliori di quelli a nord).
Il primo della classe è il Ghana, Paese la cui economia è cresciuta, nel primo semestre del 2011, più di ogni altra al mondo. Le stime della Banca Mondiale sull´intero anno parlano di un 13,5 per cento, ben oltre la Cina, ferma (si fa per dire) al 9,8. Se il Ghana è da tempo il cocco degli organismi finanziari internazionali, per la sua stabilità politica e l´affidabilità degli investimenti unita all´alto rendimento dei capitali, le economie di altri Paesi stanno letteralmente esplodendo. Specie quelli produttori di petrolio, come la Nigeria (dove però gli attentati della setta islamista Boko Haram mettono in queste settimane a repentaglio la sicurezza collettiva) e soprattutto l´Angola, proiettata in un decennio dall´agonia della guerra civile alla frastornante affluenza miliardaria dei suoi nuovi ricchi, che hanno fatto di Luanda, la capitale, la città più cara del mondo. Anche senza petrolio (almeno fino adesso, perché è allo studio lo sfruttamento di grandi giacimenti trovati nelle profondità sottomarine) sta facendo ottimamente il Mozambico, dove l´Eni ha annunciato di recente la scoperta di enormi riserve di metano.
Col crescere della ricchezza e delle opportunità di investimento crescono anche le banche. In Kenya, Repubblica democratica del Congo, Togo, Mozambico, Ghana si registrano le punte massime di espansione degli istituti di credito, anche se le finanziarie sudafricane, egiziane e nigeriane restano al top continentale. Il Kenya, in particolare, è il Paese dove è stato inventato il sistema di trasferimento del credito attraverso i telefonini, che ha avuto un successo universale in tutti gli strati della popolazione, anche i meno abbienti. Questo settore, sottolineano gli analisti degli organismi internazionali, ha ancora davanti a sé enormi potenzialità di crescita.
Oggi l´Africa è dunque, come dicono gli esperti, un continente "performante". E lo è tanto più se lo si paragona al grigiore delle economie europee e nordamericane e alla sua stessa immagine di terra delle guerre intestine e delle carestie, della povertà, del sottosviluppo. Per questo un giornale autorevole come l´Economist ha voluto dedicare di recente una sua copertina all´Africa rising, al sorgere sull´orizzonte economico mondiale di questo sole africano così a lungo atteso. Ma non tutto brilla di identica luce e gli stessi cantori di questa storia di successo hanno riserve da esprimere. L´Africa cresce, è vero, però la sua crescita è diseguale, fragile, agganciata a variabili che sono fuori dal suo controllo, prima fra tutte il corso delle materie prime. Il boom, infatti, è in larga parte legato al prezzo delle commodities che, per fattori legati all´andamento dell´economia internazionale - soprattutto il crescente fabbisogno dei giganti asiatici - è andato negli ultimi tempi sempre più su. Ma non è affatto scontato che tale stato di cose duri all´infinito.
Tutte le altre minacce a questa onda lunga che promette sempre maggiore benessere vengono dall´Africa stessa. I mali cronici delle sue società - corruzione, rapacità delle classi dirigenti, abissali diseguaglianze di reddito - restano in agguato. L´avvertimento viene da una fonte insospettabile, l´African Development Bank. Se gli attuali tassi di crescita del Pil resteranno sostenuti, si legge in un recente studio della banca, il ceto medio africano passerà dagli attuali 355 milioni di persone a un miliardo e 100 milioni nel 2060. Triplicherà in cinquant´anni il numero di produttori, consumatori, risparmiatori, dando vita a un mercato dalle colossali dimensioni asiatiche. Naturalmente queste stime dipendono dai parametri di reddito con i quali si definisce il ceto medio e dal tasso di sviluppo che si proietta nell´arco di mezzo secolo: Ocse e Banca Mondiale fanno previsioni meno mirabolanti. Ma non è questo il punto. Perché il rapporto della African Development Bank dice anche un´altra cosa: se i benestanti aumenteranno a dismisura, aumenteranno anche i poveri. Non in termini percentuali, perché coloro che sopravvivono con meno di un euro al giorno scenderanno dal 44 per cento della popolazione globale africana di oggi a circa un terzo; bensì in termini assoluti, perché entro il 2060 la popolazione dell´Africa sarà triplicata. Nessuna governance sarà in grado di tenere a bada una massa così sterminata di poveri e di affamati, avverte la banca, se il tasso di aumento della ricchezza collettiva scenderà al di sotto del 7 per cento annuo.
I grandi successi di oggi, dunque, non bastano. Per un Ghana c´è una Somalia; per un´Angola pacificata un Sud Sudan che prende le armi; per una Libia che si libera, una Guinea Equatoriale che soffoca sotto la più bieca delle dittature. La diseguaglianza sociale cresce ovunque. Il Sudafrica, l´economia più sviluppata del continente, che da sola garantisce circa un terzo del Pil africano, è anche il Paese al mondo dove il divario tra i più ricchi e più poveri è il più estremo. E se invece di guardare al Pil consideriamo l´Indice di sviluppo umano elaborato dalle Nazioni Unite, scopriamo che nell´anno di grazia 2011 le ultime quindici posizioni mondiali sono saldamente occupate da Paesi africani.
L´Economist ci racconta che la conduttrice americana di talk show Oprah Winfrey, con i suoi tre miliardi di dollari di fortuna personale, non è più la persona dalla pelle nera più ricca del mondo. È stata soppiantata dal magnate nigeriano del cemento Aliko Dangote: dieci miliardi di dollari. Nulla sappiamo però con precisione dei nove miliardi di dollari che, stando a un famoso dispaccio segreto americano pubblicato da Wilkileaks, il presidente sudanese Omar al Bashir avrebbe accumulato sui suoi conti privati a Londra. O dei 32 miliardi di dollari - trentadue miliardi di dollari - scomparsi tra il 2007 e il 2010 dai conti della compagnia petrolifera di Stato angolana, secondo un rapporto divulgato il mese scorso dal Fondo monetario internazionale. Un quarto del Pil dell´Angola. La crescita dell´Africa, insomma, dipende anche dal suo buon governo. O ancora una volta il continente della speranza si rivelerà soltanto il continente delle eterne promesse.

Repubblica 5.1.12
Ma l’Occidente conosce solo violenze e soprusi
di Federico Rampini


Una crescita media del 2% all´anno nel reddito pro capite, prolungata per un intero decennio: non è ancora un exploit a livelli "asiatici", ma equivale al boom economico del Sudamerica. È la performance messa a segno dall´Africa, secondo uno studio pubblicato dal Dipartimento dell´agricoltura Usa. Non più solo il Sudafrica, ma vaste aree del continente nero aspirano ormai alla qualifica di "emergenti". Uno dei loro motori di sviluppo sono gli investimenti cinesi. La banca mondiale prevede che entro pochi anni la Cina avrà "esportato" ben 85 milioni di posti di lavoro in Africa. E lo avrà fatto in parte con una ricetta che risale a Deng Xiaoping, il padre delle riforme economiche che lanciarono la Repubblica Popolare verso il capitalismo 30 anni fa: la creazione di "zone speciali", parchi tecnologico-industriali con esenzioni fiscali e incentivi per attirare gli investimenti esteri.
Di tutto questo in Occidente arrivano quasi soltanto gli echi negativi. E ce ne sono, naturalmente, in abbondanza. La Cina non fa beneficenza, anzi in molti settori gli africani lamentano l´effetto distruttivo dei "cing-ciong", come sono battezzati in senso spregiativo i prodotti a basso prezzo made in China, la cui invasione ha fatto fallire molte imprese locali provocando fenomeni di deindustrializzazione regressiva.
Altre lamentele riguardano gli abusi contro i diritti dei lavoratori, nei settori dominati dalle imprese cinesi in Africa. Una denuncia recente viene dallo Zimbabwe, l´ultima tra le "terre di conquista" che la Cina ha scoperto e su cui si è avventata con avidità, attirata dai diamanti e altre risorse minerarie. Violenze e soprusi sono stati rivelati in un cantiere a nord di Harare, dove il colosso cinese Afecc (Anhui Foreign Economic Construction Corporation) sta costruendo su richiesta di Mugabe una sontuosa accademia militare.
Per i 600 operai africani che vi lavorano, alle dipendenze di 300 manager e tecnici cinesi, la futura accademia militare è un cantiere di sfruttamento. Le condizioni di lavoro riportare dalle ong umanitarie sono quattro dollari di salario al giorno per turni dalle 7 del mattino alle 9 di sera. Intimidazioni, pestaggi, licenziamenti "politici" sono all´ordine del giorno, contro chi osa ribellarsi. Lo Zimbabwe, che improvvisamente è inondato da 10 miliardi di dollari di investimenti in arrivo da Pechino, sta scoprendo così un problema già esploso in altri paesi africani. Il più noto è l´esempio dello Zambia, teatro di ribellioni violente nelle miniere gestite dai cinesi.
Tuttavia l´attenzione unilaterale che gli occidentali riservano a questi risvolti degradanti della "sinizzazione" dell´Africa, rischia di svilire le dimensioni e la portata di questo fenomeno. Ancora nel 2000 gli investimenti cinesi in Africa erano un´inezia, appena 60 milioni di dollari. Il continente nero era ancora saldamente sotto l´influenza americana ed europea; e bloccato in una stagnazione economica disperante. Da allora il flusso di capitali cinesi si è ingigantito in modo spettacolare, fino a raggiungere livelli 200 volte superiori. E siamo solo all´inizio, perché nell´invasione cinese si sta aprendo una nuova fase. La prima stagione è stata una classica espansione "neo-coloniale" alla ricerca di materie prime (energia, minerali, derrate agricole e perfino terre coltivabili); in cambio della quale tuttavia la Cina ha saputo costruire infrastrutture di ampiezza e qualità spesso migliore a quelle lasciate dagli occidentali. La seconda fase, che si sta aprendo ora, è all´insegna di una vera e propria delocalizzazione. Intere industrie cinesi, afflitte da aumenti salariali in casa propria, stanno trasferendo non solo in altri paesi asiatici (Bangladesh, Vietnam, Cambogia) ma anche nelle aree sub-sahariane alcune produzioni ad alta intensità di manodopera come il tessile. La politica delle "zone franche", con incentivi ed esenzioni fiscali, punta proprio a questo. Un esempio è la Chinese Eastern Industry Zone in Etiopia, dove sorge già un cementificio. Una "zona" analoga in Zambia ospita una maxi - fonderia di rame con 6.000 posti di lavoro ed esportazioni per 450 milioni. Ghana, Uganda e Congo sono destinatari di progetti analoghi. Anche in questo campo è possibile trovare risvolti negativi - la "delocalizzazione dell´inquinamento" rientra in questa strategia - e tuttavia l´Occidente ha lasciato della sua presenza in Africa ricordi peggiori.

Repubblica 5.1.12
Youssou N’Dour si candida alle presidenziali
Io, star della musica cambierò il Senegal, lo vuole il popolo"
intervista di Laura Putti


Salute, lotta alla povertà, educazione, diritti umani Sono i temi delle mie canzoni e lo saranno anche del mio impegno politico

Dopo un presidente poeta (Léopold Sédar Senghor, dal 1960 al 1980), il Senegal avrà un presidente un musicista? La voce, da Dakar, arriva forte e chiara. Il candidato alle elezioni presidenziali Youssou N´Dour ha l´eccitazione di chi ai blocchi di partenza già si sente al traguardo. Chi lo conosce, chi lo ha incontrato durante la sua lunga carriera di musicista ricorda un uomo riservato, mai una parola in più del necessario. Ma oggi Youssou N´Dour afferma, proclama, dichiara in un inarrestabile fiume di parole. «Il mio popolo mi ha dato coraggio. Il popolo mi ha scelto, il popolo mi ha voluto. Pensano che io sia un esempio, qualcuno che sappia governare ancor prima di farlo. Sanno che posso fare funzionare le cose e che nel corso di tre decenni ho lavorato per esportare e tenere alto il nome del Senegal».
Lei, però, non ha mai fatto politica e il suo "mouvement citoyen" non è ancora un partito.
«Sono stato accolto dalle personalità più importanti. Ho conosciuto uomini grandi. Non ho frequentato scuole prestigiose, ma il mondo è stata la mia scuola. Attraverso la musica ho stretto mani che in futuro saranno pronte a collaborare con i miei progetti. Nessuno, nel mio paese, ha più conoscenze politiche di me».
Le elezioni con le quali lei sfida il presidente uscente Abdoullaye Wade (85 anni, al potere da 11) si svolgeranno il 26 febbraio: non sono pochi cinquanta giorni per convincere un elettorato di sette milioni di persone?
«No, se l´elettorato è così esausto dello status quo e se conosce bene, benissimo, chi porta proposte nuove e garantisce un futuro migliore. Il tempo, come molti pensano, non mi gioca contro».
I temi della sua campagna elettorale?
«La salute, la lotta alla povertà, l´educazione, i diritti umani. Sono i temi sui quali insisto da trenta anni dai palcoscenici di tutto il mondo. Ma importanti saranno le relazioni internazionali tessute nel corso degli anni. Il Senegal non sarà isolato: incrementerò scambi internazionali e investimenti stranieri».
Alcuni siti hanno paragonato la sua decisione a quella di Berlusconi: anche lei si è fatta da solo, ha una grande fortuna e possiede una televisione, un giornale, una radio...
«Rifiuto questo paragone. Se i miei media sono i primi del Senegal è perché io sono sempre stato imparziale. Non uso la stampa o la televisione per avere successo. Quando lunedì sera ho annunciato la mia candidatura alle elezioni l´ho fatto pagando, proprio come Wade. Non utilizzerò i miei media durante la campagna elettorale. Non solo non sono Berlusconi, ma il mio stile è molto, molto diverso dal suo. Sono Youssou N´Dour e tutto il mondo conosce il mio nome. La mia vittoria sarebbe prima di tutto una vittoria per il Senegal e poi per l´Africa intera. Vorrei creare un modello che tutti i paesi del continente africano potranno in futuro utilizzare».
In un disco di otto anni fa lei cantava un Islam familiare e moderato. Si intitolava "Egypte" e, come aveva dichiarato all´epoca, "la civiltà egiziana è la culla della storia africana". Le recenti rivoluzioni arabe l´hanno ispirata nella sua scelta di scendere in campo?
«No, la primavera araba non c´entra. Questo è un movimento che inizia con me. Da me partirà qualcosa di nuovo».

Repubblica 5.1.12
Giovanna d’Arco
La battaglia per i voti alla corte della Pulzella
Sarkozy domani celebrerà i 600 anni dalla nascita dell´eroina, da anni simbolo del Fronte nazionale Dietro l´omaggio si cela però una mossa per sedurre l´elettorato di Le Pen in vista del ballottaggio
di Giampiero Martinotti


Un gesto politico destinato a suscitare dissapori, proteste e polemiche: Nicolas Sarkozy sarà domani in Lorena per celebrare Giovanna d´Arco a 600 anni dalla sua nascita. Formalmente, è il capo dello Stato a rendere omaggio alla pulzella d´Orléans, nata a Domrémy il 6 gennaio 1412. Ma dietro la silhouette presidenziale spunta il candidato non dichiarato all´Eliseo, l´uomo della destra pronto a cercar voti sul terreno tradizionalmente riservato al Fronte nazionale dei Le Pen, padre e figlia. Giovanna d´Arco è infatti il nume tutelare dell´estrema destra francese, la figura storica che ricorre continuamente nel linguaggio e nell´immaginario dei suoi leader e dei suoi militanti: con la sua scelta, Sarkozy dimostra di voler sedurre quella frangia dell´elettorato che è tornata ad essere fedele all´Fn. Una fascia di cittadini che deve assolutamente riconquistare per sperare di essere rieletto al ballottaggio del 6 maggio.
Gli uomini del Presidente, ovviamente, negano qualsiasi volontà di recupero: la celebrazione dell´eroina sarebbe solo un riconoscimento dovuto allo spirito di resistenza della pulzella. Louis Aliot, numero due del Fronte e compagno di Marine Le Pen, ha subito polemizzato: «Corre dietro alle nostre idee, ma solo l´Fn rende omaggio da trent´anni a Giovanna d´Arco». Uno dei più fedeli compagni di strada di Sarkozy, il ministro dell´Interno Claude Guéant, è sceso in campo per difendere il Presidente: «Nessuno può contestare che Giovanna d´Arco faccia parte dell´immaginario nazionale. Appartiene alla Francia, non appartiene ad alcun partito».
Nei fatti, tuttavia, la pulzella d´Orléans è la bandiera dell´estrema destra: ogni 1º maggio, il Fronte nazionale organizza una manifestazione che parte dalla statua in place des Pyramides e sabato celebrerà da parte sua il seicentesimo anniversario della sua nascita. Jean-Marie Le Pen, del resto, non perde occasione per citarla. Lo fece anche un anno fa, in un´intervista a Repubblica, prima di lasciare la guida del partito alla figlia: «Amo molto gli stranieri alla maniera di Giovanna d´Arco. Le dicevano: Giovanna, Dio ci obbliga ad amare gli inglesi, lei li ama? E lei rispondeva: Sì, a casa loro». La foto di una giovane vestita come una guerriera medievale a una sfilata del Fronte nazionale riassume l´identificazione tra l´estrema destra e la contadina lorenese.
La sinistra è sempre stata imbarazzata davanti a questo simbolo e lo è tuttora: Laurent Fabius vorrebbe aprire un museo dedicato a Giovanna a Rouen, dove fu mandata al rogo, mentre il portavoce del Partito socialista ha preferito non commentare la scelta di Sarkozy. Ma in passato perfino il comunista Louis Aragon aveva difeso la pulzella d´Orléans: «Per me è essenziale che abbia salvato il regno di Francia». Non sarà Giovanna d´Arco a scegliere il futuro presidente della Repubblica, ma l´identità nazionale francese è talmente forte che correre dietro ai suoi simboli è considerato dalla classe politica una necessità indispensabile per conquistare consensi.

Repubblica 5.1.12
Quella santa di Francia confiscata dalla destra
di Jacques Le Goff


Giovanna d´Arco ha avuto da viva e subito dopo la sua morte nel XV secolo un destino molto complesso. E´ stata dapprima molto onorata dai francesi, che sostenevano il delfino Carlo, diventato teoricamente il re Carlo VII, contro gli inglesi, che con il trattato di Troyes del 1420 avevano ottenuto la corona di Francia, portata da un bambino, Enrico VI. Giovanna d´Arco era riuscita a far togliere l´assedio di Orléans, città strategicamente molto importante, e a condurre il delfino Carlo a Reims per farlo consacrare secondo il diritto tradizionale dei re di Francia. In seguito, era stata fatta prigioniera e consegnata agli inglesi, che la fecero giudicare da un tribunale di inquisizione ai loro ordini: condannata a morte, fu bruciata sul rogo a Rouen nel 1431. Quando gli inglesi furono definitivamente cacciati dalla Francia, il re Carlo VII, ristabilito a Parigi, non s´interessò alla persona che gli aveva assicurato il trono. Fece tuttavia riunire un tribunale, che rigiudicò Giovanna nel 1456, annullò il precedente processo e la condanna a morte per eresia.
Dal XV al XX secolo Giovanna d´Arco restò più o meno nella memoria storica dei francesi, ma nella storia nazionale non fu un personaggio di primo piano. Le cose cambiarono profondamente all´indomani della prima guerra mondiale. Il governo di destra che guidò la Francia dal 1919, all´indomani della vittoria sulla Germania, si appoggiò su un sentimento intermedio fra il patriottismo legittimo e il nazionalismo ideologico. Ciò produsse un doppio avvenimento essenziale, che forgiò l´immagine di Giovanna d´Arco nella storia di Francia. Nel 1920, fu canonizzata e divenne santa con un decreto del Vaticano. Di conseguenza, il governo di destra la decretò santa nazionale, istituendo una festa annuale di Giovanna d´Arco che resta nel calendario francese, ma che fu ben presto confiscata in qualche modo dall´estrema destra.
Prima dai cattolici integralisti dell´Action Française, diretta da Charles Maurras ; poi dal governo di Vichy, insediato dai tedeschi in seguito alla disfatta della Francia nel 1940 ; e più ancora dopo la fine della seconda guerra mondiale, perché fu adottata come patrona della Francia dal più nazionalista ed estremista movimento di destra, il Fronte nazionale guidato da Jean-Marie Le Pen. Ogni anno, il Fronte nazionale organizza una sfilata e una manifestazione davanti e attorno alla statua di Giovanna d´Arco, che si trova vicino al Lungosenna e non lontano dalla place de la Concorde.
Giovanna d´Arco fu oggetto di attenzione da parte di alcuni storici, primi fra tutti Colette Beaune e Philippe Comtamine, che stabilirono un´immagine oggettiva e fondata sui documenti d´epoca di Giovanna d´Arco. Le fu consacrato un museo storico senza partito preso ideologico a Orléans, la città che aveva liberato dall´assedio inglese e che gli valse il nome di Pulzella d´Orléans : pulzella significava vergine e Giovanna d´Arco aveva molto insistito durante il suo primo processo sul valore della sua verginità. D´altra parte, fin dall´Ottocento, ma senza grande risonanza, il testo scientifico dei suoi due processi era stato pubblicato dallo storico di qualità (e oggettivo) Jules Quicherat.
Tuttavia, Giovanna d´Arco, sfruttata dal nazionalismo estremista della destra e in particolare dall´Fn, pur restando un personaggio importante e positivo della storia francese, non fu particolarmente onorata dai francesi che non erano di destra.
Nella tradizione essenzialmente di destra furono associati due personaggi storici: Giovanna d´Arco e Napoleone. Questo atteggiamento radicato nell´ideologia nazionalista del XX secolo può ancora ispirare certi uomini politici di destra. E´ probabilmente in questa prospettiva, pensando non solo a Giovanna d´Arco ma a Napoleone, che Nicolas Sarkozy ha l´intenzione di celebrarla. Per la grande maggioranza dei francesi, Giovanna d´Arco è un personaggio importante, commovente, che i francesi hanno ragione di venerare nella moderazione di un patriottismo ragionato e ragionevole. Ma metterla in primo piano è un atteggiamento tipico della destra.

l’Unità 5.1.12
Festa del Cinema di Roma
Il gioco dei direttori incrociati
di Alberto Crespi


Sarà un punto di vista del tutto secondario, come no? Ma forse ai politici romani di entrambi gli schieramenti interesserà sapere che il mondo del cinema – non del tutto insignificante, nella capitale – segue con la mascella caduta la polemica sul festival di Roma. Riassumiamo: la destra (soprattutto la presidente della Regione, Renata Polverini) vorrebbe affidare il festival a Marco Müller, libero da impegni dopo la scadenza del suo mandato veneziano; la sinistra difende la posizione dell’attuale direttore, Piera Detassis, e del presidente Gian Luigi Rondi, in carica fino a maggio. Ora, in questa sede non ci interessa stabilire chi, fra i personaggi coinvolti, è più bravo o meno bravo, chi potrà fare un festival bello o meno bello. Vorremmo solo rimettere alcune cose al loro posto, perché è forte la sensazione che le esternazioni di alcuni politici, in questi giorni, siano fuori luogo. A cominciare, ci perdoni, dal consigliere provinciale del Pd Battaglia il quale ha dichiarato: «Müller è stato trombato alla Mostra di Venezia perché la sua rassegna era piena di difetti». Doppia falsità. Müller ha diretto Venezia per 8 anni, come da mandato, ed era in scadenza. Certo, avrebbero potuto confermarlo: ma il presidente della Biennale Paolo Baratta, che con Müller come suol dirsi non si «piglia», ha preferito il ritorno di Alberto Barbera, a suo tempo vergognosamente cacciato dall’allora ministro Urbani dopo soli 3 anni di lavoro. Barbera e Müller sono due fior di professionisti, nel delicato mestiere di direttore di festival: due fra i più bravi in Europa, e lo testimoniano i rispettivi curriculum. Müller, oltre a Venezia, ha diretto Rotterdam, Locarno e Pesaro. Alla Mostra ha fatto bene, compatibilmente con una struttura – quella sì – piena di difetti e di problemi logistici. È vero che in passato ha più volte rilasciato dichiarazioni sferzanti sul festival romano, ma fa parte del gioco: come un giocatore dell’Inter che finisce a giocare nel Milan...
Detto questo, è la storia delle persone a rendere paradossali le sparate di questi giorni. La destra si schiera per Müller che ha un passato di studente in Cina e di massimo esperto europeo di cinema cinese. Non certo un maoista, ma sicuramente non un uomo di destra. La sinistra sostiene Rondi che, per quanto uomo Ds e poi Pd, è stato responsabile del settore cinema della Dc ed è tuttora critico cinematografico del «Tempo», quotidiano che dovrebbe piacere più alla Polverini che ai responsabili del Pd romano. Piera Detassis è la direttrice di «Ciak», rivista edita da Mondadori, quindi da Berlusconi. In passato ha diretto fra l’altro l’ufficio cinema del comune di Modena, quindi sicuramente era, e forse è, di sinistra. Ma non sappiamo cosa voti, né ci interessa (come non lo sappiamo, né ci interessa, di Müller). Non è questo il problema. Il problema è che il mondo sembra essersi rovesciato, e questa polemica su una cosa «piccola» come il festival di Roma sembra un ologramma in cui si intravedono tutti gli incomprensibili rivolgimenti della politica italiana in questa fase così caotica. Tanto per citare un «pensatore» che Müller (e forse anche Rondi) conosce molto bene, è probabile che i professionisti coinvolti in questa faccenda siano d’accordo con la massima maoista secondo la quale il miglior gatto è quello che cattura i topi. Purtroppo i loro referenti politici non sembrano in grado di distinguere un gatto da un topo. Molto triste.

il Fatto 5.1.12
Tappeto rosso sangue
Roma, il festival dove tutti si fanno la festa
Guerra senza quartiere tra Pdl e Pd sulla nomina di Marco Müller al vertice di una kermesse da 15 milioni di euro, nata male e cresciuta peggio
di Malcom Pagani


Era contento, Walter Veltroni, quando il Festival si chiamava ancora festa e nell’involontaria parodia della dolce vita che fu, sul tappeto rosso di Roma, Nicole Kidman sorrideva ai fotografi ammiccando subliminalmente agli elettori. Dal taglio del nastro inaugurale sono passati cinque anni, la politica continua a sdraiarsi sull’arte e l’unico elemento stanziale in un panorama cangiante è il venditore di porchetta. Affetta tra le palazzine a due piani del vecchio villaggio Olimpico, i decibel da discoteca che a proiezione in corso si sovrappongono ai film iraniani e le curve dell’auditorium di Renzo Piano. Deinternazionalizza in un meritorio slancio neorealista un appuntamento pretenziosamente poliglotta. Nato male e cresciuto peggio. Roma è al bivio, ma l’unica lingua parlata in questi giorni è quella dell’insulto e del reciproco sospetto . Tutti contro tutti. Come ieri e più di domani.
URLA SCOMPOSTE e che coprono la vera ragione della lotta. Un affare da 15 milioni di euro. Dieci giorni di gloria, flash e copertine utili ad arrogarsi meriti, navigare verso altri lidi, lanciare autocandidature, fortificare alleanze e riempirsi la bocca tra prosaici buffet e vaniloqui culturali. Le figurine in vetrina, mentre nel retropalco si trama che è un piacere, si chiamano Piera Detassis e Marco Muller. La direttrice sfiduciata a mezzo stampa che oggi si interroga “sulle vere relazioni che devono intercorrere tra politica e cultura” e il sinologo in uscita da Venezia stipato sul vaporetto come uno scarto da Biennale, un taglio di pellicola , un imperatore decaduto pronto a essere nuovamente incoronato 500 chilometri più a sud. Dietro di loro, la guerra. Con le divise sporche di compromesso, l’innocenza perduta e l’indignazione mal-spesa. Distante dalla rabbia di Pier Paolo Pasolini che sull’attuale Presidente del Festival Gian Luigi Rondi, 92 anni, si era già espresso: "Sei così ipocrita che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso, sarai all’inferno e ti crederai in paradiso”. A Rondi era stato chiesto un sacrificio da Alemanno. Farsi da parte. Mettersi in un angolo non fa parte però del suo vocabolario.
COSÌ RONDI è rimasto al suo posto e in attesa del 13 gennaio, quando il redde rationem tra Regione, Provincia, Camera di Commercio e Fondazione per il cinema, dovrebbe snebbiare il quadro, il panorama è quello confuso e desolante di sempre. Vicino al solito puzzle di interessi concentrici che a Roma, per citare Roberto D’Agostino, annacqua le identità politiche e il vieto schema destra-sinistra per innalzare lodi all’unico dio del centro-tavola. È andata così anche stavolta. Tavoli separati, piccole congiure, colpi di mano, rivoluzioni a tavolino. Balcanizzando il passato e le appartenenze. Per fascinazione intellettuale o calcolo errato (già ai tempi di Urbani, l’ex direttore del Festival veneziano dimostrò allergia ai patti eterni) a Re-nata Polverini, presidente di Regione col sogno della rielezione e della lista a suo nome, quello dell’ex maoista Muller è piaciuto da subito. Dopo aver nominato Velardi nel Consiglio del Maxxi e aver stretto accordi con il nemico Alemanno senza avvertire né consultare il Cda del Festival, Renata la rossa ha immaginato per le passerelle del 2012 un ticket con Muller stesso e il Presidente Warner Paolo Ferrari al posto di Rondi. Nella creazione, accecata dall’idea, ha stimolato la stampa amica a perorare l’ipotesi Muller (paginate intere) finendo per somigliare al sindaco megalomane di Stromboli dipinto da Moretti in Caro Diario: “Vorrei che Vittorio Storaro si occupasse dell’illuminazione dell’isola. Bisogna ricostruire da zero l’Italia. Nuovi abiti, un nuovo modo di parlare, nuovi sapori, tutto nuovo”. La donna è così. Interviste improvvide, minacce di tagli ai finanziamenti regionali poi corrette con mano maldestra, casino, anatemi. Da sinistra (con Gianni Letta insolito alleato del Pd romano e in vigilanza sul greto dell’amico Rondi e di Detassis) per par condicio, i toni sono stati da manganello. Battute da Bagaglino del consigliere provinciale Battaglia: “Dare a Muller la direzione artistica di Roma somiglierebbe a mettere Dracula a capo dell’Avis”, gentilezze assortite: “È solo un trombato” (sempre Battaglia), tirate municipalistiche con il soffio del provincialismo: “Muller è un nemico di Roma” (Zingaretti) e dolenti lettere aperte dell’uomo che anela al ritorno, l’ex potentissimo presidente dell’Auditorium Goffredo Bettini.
ALTERNANDO sobri giudizi sulla sua creatura veleggianti tra lo “straordinario” e il “meraviglioso”, Goffredo-Bettini attacca l’odiato Muller, le “vigliaccate” e le cifre di bilancio (buco da 1.300.000 euro) messe in giro ad arte, la visione padronale della destra, ma omette, da buon cinefilo, di raccontare il finale del film. La consulenza elargita dalla precedente direzione di Roma a sua sorella Fabia (diecimila euro), il ruolo di curatore della sezione Alice assegnato al marito di lei, Gianluca Giannelli e la sensazione di inespresso che nonostante alcune punte di eccellenza (Mario Sesti e l’oasi “extra” su tutte), ha finito per veder premiati a Roma film che erano stati esclusi da Venezia o che non avevano staccato il biglietto per Toronto. Da fuori, mentre Muller medita di spostare la rassegna in avanti (almeno tre mesi perché la pugna fratricida con Venezia è solo un non senso che nuota nell’affollato mare dell’assurdo), osserva la pingue sagoma del Presidente di Bnl e main sponsor del Festival, Luigi Abete.
SODALE di Alemanno, tramite Cinecittà Enterteinment, Abete ha rilevato l’ex luna park dell’Eur. Investimento incerto che vedrebbe un ritorno se Muller applicasse a Roma l’ipotesi Sundance (proiezioni a macchia, studios, workshop, sapienza e marketing sparsi sul territorio ). Mentre il conflitto d’interessi recita da protagonista (Paolo Mereghetti, collaboratore di “Ciak”, in nobile, eccessiva tirata pro Detassis), Muller tace dopo aver tanto parlato e ascolta infastidito chi ricorda che negli ultimi due valzer in laguna ci fu spazio per Dragomira Bonev e per Ezio Greggio, altrove si sussurra che costruirgli un’ipotetica squadra intorno dopo i rifiuti dei reduci veneziani Cucciniello e Gosetti sia meno semplice che entrare ai musei Vaticani di domenica. Lo sconfitto di domani sembra essere il perdente di ieri. Non un nome. Ma un festival che non riesce a volare, trascinato nel fango dalla guerriglia, lardellato dai debiti, accerchiato da ridicolo. Un film nel film. Effetto notte, l’odore di truffa nell’aria e nessun Truffaut all’orizzonte.

il Fatto 5.1.12
Il terzo Avanti! Sul web ne nasce un altro


Esce da oggi il nuovo Avanti!. E si potrebbe salutare il ritorno (sia pure online) di una storica testata, se non ci fosse un problema. Con l’arrivo di questo nuovo giornale, legato al partito socialista di Riccardo Nencini, e diretto da Giampiero Marrazzo (fratello del più noto Piero, 32enne d’assalto che si é fatto conoscere per un film inchiesta su Ustica) le testate che si richiamano al glorioso quotidiano del partito socialista diventano addirittura tre. Possibile? Sì, possibile. Il nuovo nato, in realtà, è il più antico dei tre giornali, ed è stato restituito a Nencini dai curatori fallimentari del vecchio Psi Craxiano. Il secondo, invece, è quello che - finanziato con denaro pubblico - fa capo a Valter Lavitola. Collocato nel centrodestra, e autorizzato (per ora) ad essere stampato per una trovata da azzeccagarbugli del suo editore. Il quotidiano di Lavitola, infatti, ha un apostrofo e una elle inserite prima della testata, che lo differenziano (apparentemente) dall’originale. Per i paradossi della legge sui rimborsi ai quotidiani, il primo non è sovvenzionato dallo stato, il secondo sì. Ma a sorpresa, tra i due contendenti si é inserito addirittura un terzo Avanti!, in questo caso cartaceo, che fa capo al nome prestigioso di Rino Formica. Formalmente è un supplemento, ma contribuisce all’affollamento e anche alla confusione delle testate. Nei confronti del grande saggio socialista, peró, Marrazzo è molto rispettoso: “Questo Avanti!, dal punto di vista legale, non ha nessun motivo di esistere. Ma di avere l’apporto di Formica saremmo orgogliosi. Mentre a Lavitola faremo semplicemente causa, per usurpazione di un diritto d’autore. Si è impadronito di un frammento di storia che non gli appartiene”. Ma non è che il sito è un espediente per accedere ai contributi pubblici? Marrazzo risponde senza esitazione. “Per ora non abbiamo nessuna intenzione di chiedere finanziamenti pubblici. Questo è un giornale fatto da giovani, che si regge solo sulle nostre forze”. Ma cosa ci sarà sulla home page del primo numero? “Gli auguri di Giorgio Napolitano”. Ovvero, il più socialista dei post-comunisti italiani.
Lutel

La Stampa 5.1.12
Mezza Pompei sta per crollare anni
Ecco la mappa choc del ministero. La soprintendente: è come svuotare il mare con un secchiello
di Giuseppe Salvaggiulo


L’allarme I tecnici: «Degrado vasto, occorre intervenire subito». Risulta messa in sicurezza una piccola parte dell’area

Ciò che più allarma dell’ultimo crollo a Pompei è che la Domus di Loreio Tiburtino, di cui il 22 dicembre ha ceduto un pilastro del pergolato esterno, non è nemmeno tra quelle considerate più fragili. Emerge dalla «Carta del rischio archeologico», realizzata nei mesi scorsi dalla soprintendenza e inviata al ministero dei Beni Culturali. Una mappa divisa in tre colori: rosse le zone a rischio crollo alto (oltre il 50% delle possibilità), azzurre a rischio medio (intorno al 50%), gialle a rischio basso (sotto il 50%). Secondo una stima della stessa soprintendenza, «l’area messa in sicurezza è passata dal 14 per cento degli anni ‘90 al 31 per cento del 2010».
La Domus di Loreio Tiburtino è situata nella parte relativamente più sicura, a est verso l’anfiteatro, contrassegnata dal colore azzurro e circondata da ampie aree gialle. Eppure ha ceduto. Per questo rappresenta un paradigma della fragilità di Pompei. Spiega la soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro: «Non c’erano indizi sui pilastri. È la malta che ha perso forza legante e si è sciolta. Si tratta di fenomeni invisibili e imprevedibili. Se vedi una fessura dici: è a rischio. Invece se collassa, te ne accorgi solo dopo».
L’ultimo studio Il documento è l’esito di un monitoraggio avviato un anno fa dopo il crollo della Scuola dei gladiatori per «evidenziare tutte le situazioni ad alto rischio di cedimento sull’intero tessuto urbano (...) al fine di programmare interventi conservativi mirati». Per ogni unità abitativa, i tecnici della soprintendenza hanno analizzato «lo stato di conservazione degli elementi strutturali portanti, delle strutture murarie, degli architravi, dei solai, delle coperture, dei rivestimenti su pareti e pavimenti». Rilievi e fotografie sono stati trasposti in un database informatico.
«Una rapida occhiata alla carta del monitoraggio del rischio archeologico evidenzia un organismo urbano in fortissima sofferenza», scrive la soprintendenza. L’area degli scavi viene divisa in zone numerate. «L’entità del problema appare meno cogente nella zone 1 e 2 mentre gravi fenomeni di degrado interessano le zone 5, 6, 7 e 9, sulle quali negli ultimi anni le risorse disponibili hanno consentito di procedere unicamente con interventi puntuali e non in maniera sistematica».
Primi interventi Eppure proprio nella zona dove il problema era considerato «meno cogente» si trova la Domus di Loreio Tiburtino che ha ceduto dieci giorni fa. L’evento rafforza la conclusione consegnata mesi fa dalla soprintendente al ministero: «vasti ed eterogenei fenomeni di degrado, occorre intervenire con urgenza e in maniera diffusa».
Sulla base di questo monitoraggio, la soprintendenza ha avviato restauri per 1,2 milioni di euro, scegliendo le zone più fragili e fruibili al pubblico. «Ma è come svuotare il mare con un secchiello», sospira la soprintendente. Fare la manutenzione di una città di 45 ettari e duemila anni è «un lavoro che non finisce mai». Dopo i crolli degli ultimi mesi, il ministero ha approvato il piano straordinario per Pompei. Che prevede innanzitutto un nuovo e più specifico monitoraggio, peraltro lungo e costoso, come base per gli interventi. E i soldi? Per quanto «ricca» grazie allo statuto speciale e agli incassi dei 2,3 milioni di biglietti staccati ogni anno, la soprintendenza non ne ha a sufficienza. Dopo mesi di annunci e promesse, è arrivata in soccorso l’Unione europea con 105 milioni di euro.
Con questi soldi, che saranno accreditati nei prossimi mesi, il piano straordinario può partire. Il nuovo monitoraggio durerà dal 2012 al 2014 e farà da guida ai restauri. La soprintendenza ne ha già una trentina nei cassetti, finora bloccati per carenza di quattrini. La previsione è di metterli a gara non prima dell’estate. Dunque i lavori partiranno nel prossimo autunno.
Il 2 gennaio hanno preso servizio i sospirati nuovi assunti. In questo caso, l’attesa è stata solo parzialmente ripagata: 9 architetti (in tutto diventano 16), 13 archeologi (ce n’era solo uno!) e un funzionario amministrativo. «Un’iniezione di energia indispensabile», spiega la soprintendente. Continuano a mancare geometri per seguire i cantieri (incarico fondamentale) e custodi. Ora sono solo 30 per ciascun turno su una superficie di 40 ettari.
Un anno dopo E’ passato oltre un anno dal crollo della Scuola dei gladiatori, definito dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «vergogna per l’Italia». All’epoca, si gridò che bisognava fare tutto e subito per «salvare Pompei». Dopo un anno sono arrivati venti funzionari. Ci vorranno tre mesi per i quattrini e un altro anno per far partire i restauri straordinari. Sui contributi finanziari privati siamo fermi agli annunci. Insomma, né tutto né subito.

La Stampa 5.1.12
Sulla vela di Bellini soffia al Louvre il vento dell’Islam
Visita in anteprima alla nuova ala del Museo
di Alberto Mattioli


Finalmente sveliamo la vela», dice soddisfatto Mario Bellini. E’ l’architetto milanese otto volte Compasso d’oro a firmare, insieme al collega francese Rudy Ricciotti, il maggior intervento sul Louvre dai tempi della piramide di Pei, ormai trent’anni fa. E si tratta, appunto, di una «vela», sinuosa, ondeggiante e leggerissima, che ricopre la Cour Visconti del più famoso museo del mondo. Sotto, tre piani e 4.600 metri quadrati di nuovi spazi espositivi. Accoglieranno la favolosa collezione di Arti dell’Islam, che finora si vedeva poco, perché ne era esposta solo una piccola parte, e male, perché era sacrificata in stanzette anguste. Anzi, per l’occasione, quella delle Arti dell’Islam è stata promossa da sezione a dipartimento.
I tempi della realizzazione mettono in imbarazzo chi arriva dal Belpaese dei ritardi. Dalla decisione di Chirac di ampliare il Louvre, annunciata nel 2002, sono passati in tutto dieci anni. Il concorso è stato bandito nel 2004 e vinto l’anno seguente da Bellini & Ricciotti, che si sono tolti anche lo sfizio di battere un’archi ancora più star come Zaha Hadid, «e con tutto l’affetto, perché di Zaha sono amico - ride adesso Bellini -, è stata una bella soddisfazione». La prima pietra è stata posata nell’estate 2008, adesso il cantiere è quasi finito, fra un mese le vetrine saranno sistemate e fra quattro anche le tremila opere (sulle 13 mila della collezione) della mostra permanente. Il tutto sarà inaugurato la prossima estate, e chissà se da Sarkò o da Hollande.
Dal punto di vista dell’architettura, il problema era quello solito: come far convivere la modernità del nuovo con le vecchie facciate ottocentesche del cortile Visconti. La soluzione di Bellini è questa struttura che sembra ondeggiare nell’aria, leggera e trasparente, che permette di guardare e di essere visti dal resto del museo. Parlando della «sua» vela, Bellini diventa quasi lirico: «Si vede come attraverso un’ala di libellula». Più prosaicamente, tutto è stato (lungamente) studiato perché entri abbastanza luce per poter apprezzare le opere e non troppa per non rovinarle.
Il resto, un secondo piano e un terzo per i servizi, si sviluppa sottoterra. E qui c’è stata anche una bella sfida tecnica, perché si sono dovute abbassare di otto metri le fondamenta del palazzo, con la Senna a due passi. L’impressione, passeggiando nel cantiere ancora pieno di operai, di polvere e di rumore, è comunque quella di una grande leggerezza, nel «foulard» che copre il cortile (che pure pesa 135 tonnellate) ma anche nelle pareti a vetri. Ricciotti, che è un esuberante, parla di una costruzione mistica «e quasi gastronomica» (il non plus ultra dei francesi) che «prende a colpi d’ascia il minimalismo».
Anche i costi non sono minimali. Tutto compreso, il conto è di 98 milioni e mezzo di euro. Però lo Stato francese ce ne ha messi solo 31 (e il Louvre uno e mezzo): il resto arriva da mecenati privati, 30, e da contributi di altri Stati, 26. Se fate la somma, noterete che di milioni ne mancano ancora 10 e in effetti il «président-directeur» del museo, Henri Loyrette, spiega che li sta ancora cercando.
Politicamente, la lista dei donatori è assai interessante. Il privato più generoso, e di gran lunga (17 milioni), è la fondazione del principe Alwaleed Bin Talal Bin Abdulaziz Alsaud, della famiglia reale saudita. Gli Stati che hanno contribuito sono il Marocco, il Kuwait, l’Oman e l’Azerbaigian: come dire, il volto moderato dell’Islam. Ed è inevitabile che un’impresa artistica venga letta anche come un gesto politico, in un momento in cui il mondo islamico suscita dall’altra parte del Mediterraneo primavere di speranza ma anche molte inquietudini. Loyrette spiega che nei nuovi spazi verrà mostrata «la faccia luminosa di una civiltà». In effetti, uno dei pezzi forse più belli, e sicuramente il più celebre, fra quelli che scintilleranno sotto la vela è la vasca detta «di San Luigi», che in realtà è un pezzo egiziano o siriano della prima metà del Trecento, in rame incrostato d’oro e d’argento, assolutamente islamico. Ma, entrato nel tesoro dei Re di Francia fin dal Medioevo, è anche il fonte dove, generazione dopo generazione, sono stati battezzati tutti i loro figli.

La Stampa 5.1.12
The show must go on
Pollini compie 70 anni e continua a studiare
di Sandro Cappelletto


Non posso, devo studiare». Ogni volta così, in questi mesi. I più importanti editori italiani chiedevano a Maurizio Pollini, che oggi nella sua Milano compie 70 anni, un libro, un’autobiografia. Lui, che è un signore molto cortese, non diceva subito di no, lasciava passare qualche giorno, però la risposta rimaneva sempre la stessa, magari affidata alla diplomazia della moglie Marilisa: «Devo studiare, il mio mestiere è suonare».
La stessa frase la pronunciò all’indomani della vittoria al Concorso Chopin di Varsavia. Era il 1960, lui un diciottenne. Quel concorso spalanca, allora più di adesso, le porte delle migliori sale da concerto. E le richieste arrivarono numerose, però preferì fermarsi «per qualche anno». Per studiare.
Figlio dell’architetto Gino e di Renata Melotti, musicista, sorella dello scultore e pittore Fausto, cresciuto nel segno dell’illuminismo civile lombardo fare bene le cose, parlare poco di sé, essere, non apparire Maurizio Pollini è un musicista che vive emozioni intensissime, che conosce la paura, il «crack» da concerto di cui ogni grande interprete sente su di sé il peso, sapendo che l’unico antidoto è lo studio, l’applicazione. Dice di lui Claudio Abbado: «È impressionante la vastità delle sue conoscenze, e non solo nel campo pianistico. Una volta mi suonò a memoria Fierrabras, l’opera di Schubert che non conoscevo, perché la dirigessi». E Salvatore Accardo: «Maurizio non suona mai per dimostrati quanto è bravo, ma per farti sentire quanto è bella la musica che sta facendo».
Il musicista devoto alla tirannia della sua arte e della sua tecnica, è stato un uomo capace di posizioni politiche nette: quando manifesta in Piazza Duomo, nel dicembre 1969, dopo la strage della Banca dell’Agricoltura, «per dire che il fascismo nel nostro paese non sarebbe passato». Quando suona il Concerto Imperatore di Beethoven nella sala mensa della Paragon, una fabbrica di Genova occupata dagli operai contro i licenziamenti; quando, a Milano, nella allora assai élitaria Società del Quartetto, legge un appello contro i bombardamenti USA sul Nord Vietnam e «nella mia ingenuità pensavo che avrei potuto finire la lettura e dopo avrei suonato». Ma si scatenò una tempesta di fischi e urli e il concerto venne annullato. «L’impegno politico non è un obbligo, ma credo sia una cosa positiva per ogni uomo, non particolarmente per un artista».
Un pomeriggio, conclusa l’intervista dedicata a Chopin e Schumann, appena richiusa la porta di casa, neppure il tempo di scendere la prima rampa di scale, e lui aveva già attaccato la Seconda Sonata su uno dei due pianoforti a coda dello studio. Come volesse scusarsi, con Chopin, del tempo perduto in chiacchiere. Auguri, maestro. Il 2012 sarà un anno denso di impegni, di novità. Bisogna continuare a studiare.

Liberazione 5.1.12
Il Cdr di ”Terra”
«Siamo in sciopero ad oltranza. Ci uniamo alla vostra lotta»
di Castalda Musacchio

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