domenica 15 aprile 2012

l’Unità 15.4.12
Piazza della Loggia, nessun colpevole
Pagano solo i familiari
di Oreste Pivetta


A Brescia assolti Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte
e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Dopo trentotto anni quella bomba non ha una firma. Ai parenti anche l’onere delle spese processuali

Anche Piazza della Loggia finisce nel catalogo delle stragi senza un colpevole. Dopo quattro decenni (esattamente trentotto anni), la giustizia alza bandiera bianca: sarà giunta alla verità, ma non ad una verità che possa dare un volto e un nome agli assassini, che pensarono, organizzarono, che costruirono la bomba e la deposero in un cestino della carta straccia, quella bomba che esplodendo uccise otto cittadini bresciani, ne ferì altri cento, tutti raccolti in quella piazza, la mattina del 28 maggio 1974, insieme con molti altri, proprio per contrastare un’onda di violenze fasciste, di minacce, un’onda che si rialzerà, atrocemente qualche mese dopo, nell’agosto dell’attentato al treno Italicus.
Resta tuttavia, indelebile, la firma di quello e di altri delitti: una firma fascista, nei mesi di maggior debolezza della destra eversiva e delle prime iniziative del governo per mettere fuori causa gli apparati più compromessi dello Stato (è di giugno l’allontanamento del generale Miceli dai vertici del Sid e a settembre Andreotti, ministro della difesa, invia alla magistratura il rapporto informativo dei Servizi sulle trame nere, a partire dal progettato golpe nel 1970 di Junio Valerio Borghese).
Tutti assolti, dunque: il generale dei carabinieri Francesco Delfino; il fascisti di Ordine nuovo Carlo Maria Maggi, il medico di Mestre, e Delfo Zorzi, ormai cittadino giapponese; la spia dei servizi segreti, la fonte Tritone del Sid, lui stesso legato a Ordine nuovo, Maurizio Tramonte. La sentenza è di ieri, letta dieci minuti dopo le undici, dal presidente della Corte d’Assise d’Appello di Brescia, Enzo Platè, che ha pure ringraziato i giudici popolari per l’impegno manifestato durante tutto il processo e nei cinque giorni di camera di consiglio. Non ha dimenticato le parti civili: dovranno rimborsare le spese processuali, perché uno dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile. In esecuzione della legge. Walter Veltroni ha proposto che siano i partiti a pagarle.
Tutti assolti, dunque, confermando la sentenza di primo grado un anno e mezzo fa (quando tra gli imputati compariva anche Pino Rauti, innocente pure lui: non sapeva nulla, peccato che a quei tempi fosse ai vertici di Ordine nuovo). In più, di nuovo, la beffa delle spese a carico di amici e familiari delle vittime. Manlio Milani è lo storico portavoce, presidente della loro associazione: «È ridicolo». Ha ricordato come le indagini dei primi giorni siano state inefficaci, come sia stato reticente un uomo dello stato, il generale Delfino. Che allora era comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Brescia, quindi impegnato nell’inchiesta. Milani ha citato con Delfino anche Pino Rauti, per accusare: «Nel corso di tre anni di processo mai una loro comparsa in aula». Infine la promessa: «Verificheremo l’opportunità di ricorrere in Cassazione».
C’erano ragioni per condannare i quattro? I pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni ne erano convinti e avevano chiesto l’ergastolo. Gli avvocati delle difese, denunciando la totale assenza di prove a carico dei loro assistiti, in un procedimento che conta un milione di pagine agli atti, sono riusciti evidentemente a dimostrare il contrario: come, secondo loro, ad esempio fosse poco credibile il racconto del pentito Carlo Digilio, ex agente della Cia, morto nel 2005 in una casa di riposo nella Bergamasca, colpito da un ictus devastante nel 1995, uno dei padri e degli armieri di Ordine Nuovo, esperto in bombe, o fosse priva di senso la conversazione intercettata e avvenuta tra Roberto Raho e Pietro Battiston, altri due neofascisti, che si confidavano di temere il loro collegamento ai «mestrini», che maneggiavano le bombe e nascondevano gelignite alla trattoria Scalinetto di Venezia, trattoria amatissima da Maggi oltre che da Digilio. Ma non sono state prese in considerazioni neppure le comunicazioni di Tramonte al Sid, con le quali si chiariva la posizione di Maggi e di Zorzi. Altro capitolo riguarda l’esplosivo: contrasti tra i periti, divisi tra gelignite e tritolo.
Il processo, questo come molti altri, si è spento insomma tra le cattive indagini dell’avvio, una trama inesauribile di smentite dopo le ammissioni, un’artefatta confusione di fonti, i depistaggi, la reticenza di chi avrebbe potuto chiarire, altri filoni di inchiesta, altri processi senza esito (ne restò coinvolto uno dei nomi celebri dell’estrema destra bresciana, Ermanno Buzzi, che verrà assassinato nel 1981 in carcere a Novara, in attesa di appello, da Pierluigi Concutelli e da Mario Tuti). La vicenda giudiziaria si è insomma impantanato, lasciando solo amarezza, accanto alla certezza di un senso politico, che può contribuire a una lettura del nostro dopoguerra, ma non può soddisfare la giustizia.
Quel giorno di trentotto anni fa, in piazza della Loggia, morirono Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi, Clementina Calzari Trebeschi e Vittorio Zambarda. Cinque insegnanti, due operai, un pensionato. La bomba esplose, mentre sul palco stava cominciando a parlare un sindacalista della Cisl, Franco Castrezzati. Il botto fu forte, secco, come di un potente petardo. Dopo un attimo di silenzio, dalla folla che cominciò a ondeggiare, s’alzarono le prime grida di paura, di sgomento. Un altro sindacalista, Giorgio Leali, sollecitò tutti ad avvicinarsi al palco. Furono gli stessi operai del servizio d’ordine a portare soccorso. Poi arrivarono le ambulanze, arrivarono polizia e carabinieri. Poco prima delle tredici i pompieri lavarono con gli idranti il luogo dell’eccidio. La scena del crimine ripulita: scomparvero tracce che avrebbero potuto orientare le ricerche. L’inizio dell’inchiesta fu disastroso, come ha ripetuto ieri Manlio Milani. Com’era, ad esempio, a Milano, dopo piazza Fontana, quando vennero fatte esplodere le bombe ritrovate alla Banca Commerciale.
L’esito è l’oscuramento della verità. Che quest’ultimo processo potesse finire così era prevedibile, ma è ancora più grave quando la memoria di quegli anni e di quella violenza eversiva si appanna, quando ad esempio anche un film come «Romanzo di una strage», prodotto e diretto probabilmente con la migliore delle intenzioni, per dare nozione ai giovani di ciò che fu la strategia della tensione, finisce con avvolgere nella nebbia delle cospirazioni e dei complotti internazionali una vicenda chiara, nelle sue ragioni e nei suoi caratteri fondamentali, nel suo segno storico e politico.

il Fatto 15.4.12
Chissà chi è stato
Strage di Brescia: tutti assolti. Puniti i familiari delle vittime: condannati a pagare le spese del processo
di Gianni Barbacetto


Questa volta è proprio finita. Il processo per la strage di Brescia (il terzo), arrivato all'appello, era l'ultima occasione per individuare e condannare i responsabili delle stragi italiane degli anni Sessanta e Settanta. Ieri la sentenza ha invece mandato assolti i quattro imputati, seppur con la formula dubitativa (come già in primo grado) delle prove incomplete o contraddittorie. Resta dunque senza colpevoli anche la bomba di Piazza della Loggia, dopo quelle di Piazza Fontana (1969), della Questura di Milano (1973) e di tutte le altre stragi (tranne Bologna, 1980).
A Brescia, la bomba nascosta in un cestino della spazzatura in una piazza affollata, durante una manifestazione antifascista promossa dai sindacati, fece otto morti e 108 feriti. Era la mattina piovosa del 28 maggio 1974.
38 anni dopo
Quasi 38 anni dopo, i giudici della Corte d'assise d'appello, usciti da quattro giorni di camera di consiglio, hanno assolto il medico veneziano Carlo Maria Maggi, capo del gruppo neofascista Ordine nuovo del Triveneto; l'ordinovista Delfo Zorzi, oggi imprenditore in Giappone; l'ex collaboratore del Sid (il servizio segreto militare) Maurizio Tramonte; e l'allora capitano dei carabinieri Francesco Delfino, accusato di aver saputo dei piani della strage imminente e di averli assecondati.
I pm, Roberto di Martino e Francesco Piantoni, avevano chiesto per tutti l'ergastolo. Dopo la lettura della sentenza si sono dichiarati “sereni, perché è stato fatto tutto il possibile”. E hanno aggiunto: “Ormai è una vicenda che va affidata, più che alla giustizia, alla storia”. Dopo il deposito delle motivazioni, la procura di Brescia deciderà se ricorrere in Cassazione.
Il processo terminato ieri era l'esito della terza inchiesta sulla strage. La prima aveva indagato i gruppi neofascisti bresciani, il secondo quelli milanesi, la terza aveva posto l'attenzione sul gruppo veneto di Ordine nuovo. Dopo undici sentenze, l'attentato è ancora senza colpevoli.
Il conto
Gli unici a pagare saranno le parti civili e i parenti delle vittime, condannati a risarcire le spese processuali. “Una beffa”, ha dichiarato a caldo Manlio Milani, presidente dell'Associazione familiari delle vittime. “È ridicolo, permettetemi di dirlo, che in questo processo, che è contro anche due uomini che rappresentavano lo Stato, dobbiamo essere noi a pagare le spese processuali”. I due evocati da Milani sono il generale Delfino e l'ex parlamentare missino Pino Rauti, già fondatore di Ordine nuovo.
Contro Rauti, assolto come gli altri in primo grado, la procura non aveva proposto l'appello, chiesto però dalla Camera del lavoro di Brescia e dal familiare di una vittima, Elvezio Natali. Una domanda avanzata ai soli fini civili: per poter pretendere cioè non la condanna penale, ma almeno il risarcimento dei danni. Ora la sentenza d'assoluzione obbliga Camera del lavoro e Natali a pagare gli avvocati di Rauti.
Delfino, invece, fu uno dei primi a occuparsi dell'inchiesta, subito dopo la strage. “Il risultato di oggi”, dice Milani, “è anche l'esito di come sono state condotte le prime indagini”. Già in primo grado, infatti, era risultato difficile appurare, per esempio, quale fosse l'esplosivo impiegato. Tritolo, secondo una perizia. Gelignite, secondo l'accusa: anche sulla scorta delle dichiarazioni di Carlo Digilio, esperto d'esplosivi, uomo vicino ai servizi segreti statunitensi e agli ordinovisti veneti, il quale affermava di aver visto gelignite nelle mani del gruppo veneto di Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi.
La guerra delle perizie
Il perito sentito durante l'appello ha sostenuto che l'esplosione era compatibile con la presenza di gelignite e ha escluso che nell'ordigno il tritolo fosse esclusivo o prevalente. Evidentemente ai giudici non è bastato. Come non è bastata la riproposizione delle testimonianze di Digilio (ora morto), collaboratore di difficile gestione processuale già in primo grado, dopo essere stato colpito da un ictus.
Difficilissima poi la gestione delle dichiarazioni dell'imputato Maurizio Tramonte. Era lui la “fonte Tritone” dei servizi segreti, che aveva già nel 1974 raccontato al Sid ciò che sapeva della strage. Il servizio si guardò bene dal passare quelle notizie ai magistrati e coprì i responsabili. Poi, negli anni Novanta, “Tritone” era stato individuato dal giudice di Milano Guido Salvini e aveva riempito centinaia di pagine di verbali in cui raccontava le responsabilità del gruppo neofascista Ordine nuovo. In aula, però, aveva ritrattato, smentendo se stesso.
I giudici non hanno ritenuto sufficiente neppure una intercettazione ambientale tra due ordinovisti, il milanese Battiston e il veneto Rao, che parlavano della partenza da Venezia, il giorno prima della strage di Brescia, di una valigia d'esplosivo.
Se si aspetta la storia
Le motivazioni della sentenza spiegheranno perché non si è arrivati all'individuazione certa delle responsabilità penali individuali. Alla storia, come detto dai due pm, resterà il compito di ricostruire i depistaggi e gli inquinamenti delle prove che hanno portato a chiudere anche questa volta un processo di strage senza colpevoli.

il Fatto 15.4.12
La sconfitta infinita
Strage di Brescia. Condannate le vittime
di Gianni Barbacetto


Si fatica a trovare le parole per ripetere ancora, per l’ennesima volta, che siamo sconfitti. Costretti ad arrenderci di fronte all’impossibilità di arrivare a una verità giudiziaria sulle stragi italiane. La sentenza d’appello sulla bomba di Piazza della Loggia a Brescia era l’ultima occasione, dopo le assoluzioni per Piazza Fontana, per l’attentato alla Questura di Milano del 1973 e per tutte le altre stragi (tranne Bologna): occasione persa. Di nuovo è arrivata ieri un’assoluzione, seppur con la formula dubitativa delle prove insufficienti o contraddittorie. Sono passati 43 anni dalla madre di tutte le stragi, quella del 12 dicembre 1969 a Milano. E 23 anni dalla caduta del Muro di cui quelle stragi sono figlie. Il mondo è cambiato, eppure non è ancora possibile sapere la verità. Gli imputati se ne vanno assolti. Condannati a restare orfani della propria memoria sono tutti gli altri, cittadini di uno Stato che non sa fare chiarezza su una stagione chiusa: quella della guerra segreta e senza esclusione di colpi combattuta negli anni Sessanta e Settanta in Italia, terra di confine di un mondo diviso in due blocchi. Impossibile stabilire con certezzaleresponsabilitàpenaliindividuali,dicono le sentenze. Eppure noi sappiamo. E non è più soltanto l’intuizione al singolare di un intellettuale come Pasolini (“Io so”). È il risultato – storico, se non processuale – di quarant’anni di ricerche, inchieste, indagini e testimonianze, che hanno sedimentato almeno due certezze. La prima è che le stragi della cosiddetta strategia della tensione sono state materialmente eseguite da gruppi neofascisti. La seconda è che gli apparati dello Stato hanno depistato le indagini e sottratto prove e testimoni, in nome della guerra senza quartiere al comunismo, combattuta con eserciti segreti e segretissimi accordi internazionali. Lo dicono le stesse sentenze (Piazza Fontana, Questura di Milano) che hanno mandato assolti i loro imputati. Noi sappiamo, dunque. Conosciamo i gruppi allevati per le operazioni sporche, i meccanismi, le strategie, le intossicazioni. Un magistrato che ha a lungo indagato sull’eversione, Libero Mancuso, va ripetendo: “Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete”.

il Fatto 14.4.12
“Assurdo, dovremo risarcire anche Rauti”
di Elisabetta Reguitti


Ci sono due certezze per i familiari delle vittime della strage di Piazza della Loggia: non c’è nessun colpevole e dovranno pagare le spese processuali. Manlio Milani, presidente della Casa della memoria, non nasconde la sua profonda amarezza.
Gli unici a pagare siete voi.
La legge lo prevede. Ma francamente lo trovo ridicolo, se non altro perché in questo processo sono coinvolti anche due uomini che rappresentavano lo Stato (il parlamentare Pino Rauti, genero di Alemanno, e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, al tempo capo del nucleo operativo dei Carabinieri ndr)
Proprio il generale Delfino si occupò dell’inchiesta.
L’esito di oggi è anche il risultato di come sono state condotte le prime indagini. Queste persone non si sono mai fatte vedere in aula negli ultimi tre anni di processo. Dovevano avere il rispetto per il ruolo istituzionale che hanno ricoperto e per le vittime di questa strage.
Alla luce di questa sentenza pensate di rivolgervi alla giustizia europea?
Prima alla Cassazione, perché credo sia un dovere civile arrivare fino in fondo, anche se dobbiamo pagare le spese. Rivolgerci all’Europa sarebbe un gesto di sfiducia nelle istituzioni italiane. Non l’abbiamo mai fatto. Dopo ieri però questo sarà un problema che dovremo porci.
Voi siete promotori di un appello rivolto, tra gli altri, anche al Copasir.
La strage di Brescia, sul fronte giudiziario, è anche peggio di Piazza Fontana. Qui dopo 38 anni non si è arrivati a nessuna verità giudiziaria. Chiediamo che sia data piena attuazione alla legge 124/2007 che regola il segreto di Stato. Non è accettabile che a tutt’oggi manchino i decreti attuativi. Questo disinteresse non è un bel segnale anche dal punto di vista politico. Tra l’altro noi consideriamo del tutto inaccettabile l’ipotesi avanzata dalla commissione Granata nel Copasir di reiterare il segreto di Stato dopo trent’anni.

l’Unità 15.4.12
Intervista a Gerardo D’Ambrosio
«Non hanno creduto ai testimoni, lo stesso fu per Piazza Fontana»
L’ex magistrato che per primo ha indagato sulla strategia della tensione: «Il procedimento ci fu tolto due volte. Fecero tutto per depistarci»
di Jolanda Bufalini


G erardo D’Ambrosio non è sorpreso della sentenza sulla strage di piazza della Loggia a Brescia, «Non conosco l’indagine di Salvini e del capitano Giraudo ma, anche per piazza Fontana, furono ritenuti non attendibili i due testimoni e si arrivò al proscioglimento».
Lei è il primo ad aver indagato sulla strategia della tensione...
«Nella indagine su Freda e Ventura noi riuscimmo ad avere riscontri oggettivi solidi, scoprii i corpi di reato e iniziai le indagini d’accapo quando trovammo 5 o 6 timer utilizzati negli attentati che precedettero quello della Banca dell’Agricoltura: quello del 25 aprile, alla Fiera di Milano e ai palazzi di giustizia di Roma, Milano e Torino, e gli attentati ai treni dell’agosto 1969. Dimostrammo la presenza di Giovanni Ventura nei luoghi degli attentati, ci fu piena confessione e per Freda e Ventura ci fu una sentenza di condanna passata in giudicato».
Le nuove inchieste hanno illuminato il ruolo di Maggi, di Zorzi. «Risultavano anche a me i contatti con Maggi, ma non avevo riscontri e fui il primo a individuare il coinvolgimento di Zorzi per due bombe, trasferii per competenza le notizie a Trieste»
Ma sul 12 dicembre ci fu l’assoluzione.
«Fu un errore di valutazione, ma spesso si dimentica che il procedimento ci fu tolto due volte, una prima volta nel 1973. Si chiedeva il trasferimento a Catanzaro per unificare con il processo contro Valpreda. Ma noi eravamo in istruttoria mentre quello di Valpreda era un processo in corso, e io fui costretto a dichiarare abnorme quella decisione. Poi fecero ricorso tutti gli altri imputati e ormai il processo c’era e noi fummo fermati una seconda volta. Si voleva dimostrare la tesi degli opposti estremismi».
Si arrivò al proscioglimento, diceva un errore di valutazione «Nonostante il processo sia ricominciato tre volte in primo grado ci fu la condanna all’ergastolo di Freda, Ventura e l’agente del Sid Giannettini, poi furono prosciolti in appello ma la Cassazione annullò quella sentenza riconoscendo che c’erano i riscontri obiettivi. Poi purtroppo il processo morì a Bari». Quali erano i riscontri oggettivi? «Trovammo il negozio dove furono vendute le borse nere e marroni utilizzate negli attentati. C’erano dei frammenti alla Banca del Lavoro a Roma e all’altare della Patria, alla Commerciale di Milano trovammo la borsa inesplosa mentre alla Banca dell’Agricoltura si trovò il manico ma non si riuscì a stabilire se la borsa conteneva o era stata investita dall’esplosivo». Come trovaste il negozio?
«La polizia di Padova sapeva già due giorni dopo l’attentato ma riferì agli Affari riservati ma quelli si guardarono bene dal comunicarlo alla magistratura. Quando arrivammo dal negoziante che era andato subito alla polizia, questo ci accolse con un «finalmente siete venuti a interrogarmi!», era il luglio 1972. Avevamo mandato i frammenti della borsa dell’Altare della Patria in Germania, alla ditta costruttrice, furono loro a dirci che la borsa, che sembrava nera per la fuliggine, in realtà era marrone. Questo ci consentì di restringere la ricerca da 36 a 6 negozi, fra cui quello di Padova, che vendevano sia borse nere che marroni». L’altro riscontro erano i timer, ma a Bari non vi hanno creduto.
«Anche in questo caso la Cassazione ci diede ragione. Avevamo individuato, con l’aiuto della Finanza, tutti i timer in deviazione che erano stati venduti, uno a uno, solo Freda ne aveva comprati 50 tutti insieme».
Vedrà il film su piazza Fontana?
«Per carità, quella storia della doppia bomba è una panzana. Non è mai stata trovata la miccia che avrebbe dovuto innescare la bomba anarchica. E poi se l’immagina l’anarchico in una banca affollata che accende una miccia davanti a tutti? E poi il tassista Rolandi che avrebbe portato Valpreda a via Santa Tecla, cioè in un punto lontano da piazza Fontana quanto quello dove lo aveva caricato. La storia della bomba anarchica è una panzana mai vista».

l’Unità 15.4.12
La ricostruzione
Ma dentro le carte c’è la verità storica sulla strategia della tensione
di Carlo Lucarelli


Per Piazza della Loggia come per Piazza Fontana non ci sono responsabili eppure i documenti processuali raccontano protagonisti e dinamiche di quanto accaduto in Italia in quegli anni e i piani segreti per stabilizzare terrorizzando

Ancora una volta, per la strage di piazza della Loggia di Brescia non ci sono colpevoli, anche se per questo genere di processi bisogna aspettare le motivazioni della sentenza perché i procedimenti relativi alle stragi italiane e ai misteri della nostra Repubblica svolgono due tipi di funzioni: la prima, certamente, è quella di individuare e sanzionare i responsabili degli avvenimenti ma la seconda è quella di mettere in fila i fatti per ricostruire una verità, almeno giudiziaria, della storia. Una funzione storica che al tempo stesso è anche etica, morale e politica.
Prendiamo la sentenza per Piazza Fontana: nessuno è finito in carcere e tutti gli imputati sono stati assolti, ma questo non significa che sulla strage consumata a Milano il 12 dicembre del 1969 non ci sia alcuna verità. Le motivazioni di quella sentenza riportano delle verità stabilite: sappiamo che ad organizzare la strage è stato il movimento neofascista di Ordine Nuovo nella cornice di quella che è stata definita la strategia della tensione, sappiamo che sono stati Giovanni Ventura e Franco Freda che però non si possono più processare e sappiamo anche che i servizi segreti stranieri ne furono informati dopo l’attentato mentre quelli italiani si adoperarono per coprire i responsabili e depistare le indagini. Tutte verità, scritte nelle motivazioni della sentenza, che danno un giudizio politico, morale e storico su quanto avvenuto pur non riuscendo a portare alla condanna di nessuno.
Questo accade anche perché da Portella della Ginestra fino alle stragi che hanno accompagnato la storia dell’Italia repubblicana ci sono state mani molto abili a nascondere la verità, mani che appartenevano allo Stato. È evidente che questi depistaggi “interni” messi in atto contro chi faticosamente ha cercato di rimettere insieme i pezzi della verità hanno reso molto più complicato il lavoro degli inquirenti, che hanno dovuto fare i conti anche con il tempo trascorso. Tutti i procedimenti sulle stragi, infatti, hanno portato alla sbarra i presunti responsabili soltanto a distanza di decenni, con processi basati il più delle volte su poche prove e ancor meno testimoni.
Ma è un lavoro che comunque va portato avanti per l’importanza che riveste anche nella ricostruzione della memoria dell’Italia di quegli anni. Un Paese in cui le stragi hanno sempre segnato un momento di passaggio quando non addirittura di stabilizzazione di un nuovo stato di fatto. Una forma di rivoluzione gattopardiana: deve cambiare tutto perché nulla cambi davvero. E allora qualche manovalanza criminale viene fatta fuori perché la “dirigenza” possa accordarsi con le nuove leve criminali e tutto resti uguale a parte alcuni dei protagonisti.
Piazza Della Loggia arriva alla fine della strategia della tensione che parte con Piazza Fontana e il cui fine era quello di terrorizzare per stabilizzare utilizzando certe forze politiche e criminali con l’illusione di un golpe. La bomba di Brescia, si è detto, è uno degli ultimi episodi di questa strategia e gli autori, secondo la ricostruzione storica, avevano l’obiettivo da una parte di fermare le riforme allarmando l’elettorato della Democrazia Cristiana col pericolo comunista rappresentato dall’avanzata del Pci, dall’altra di liberarsi di una certa manovalanza neofascista tirandola dentro l’organizzazione dell’attentato.
E su queste vicende la ricostruzione giudiziaria rappresenta una base fondamentale per il lavoro degli storici che hanno indagato sul ruolo e sulle connessioni fra servizi segreti, organizzazioni di estrema destra e criminalità organizzata anche e soprattutto nel tentativo di fare chiarezza e spazzare via alcuni luoghi comuni. Per molti anni, infatti, in Italia si è ragionato nell’ottica di una contrapposizione fra lo Stato e un supposto “anti-Stato”, intesi come blocchi totalitari e tra loro omogenei. Si parla ad esempio dei servizi segreti da piazza Fontana in avanti come se fossero sempre gli stessi mentre al loro interno hanno visto correnti diverse, come quelle che facevano capo al generale Maletti o al generale Miceli, fenomeni diversi che prendono le mosse da idee, per quanto funzionali e strumentali, molto differenti fra loro facendo riferimento a cordate politiche completamente diverse. Lo stesso si può dire ad esempio di partiti politici come la Democrazia Cristiana, o fatte le dovute differenze della loggia massonica P2, o – fatte ancora le dovute differenze di Cosa nostra o della Cia o dei servizi inglesi che sono stati così attivi sul territorio italiano dalla seconda guerra mondiale in poi. La Cia di Kissinger o di Nixon agiva attraverso pesanti ingerenze sulla vita interna degli stati, basti pensare al Vietnam o all’Italia stessa, diversa invece era l’idea che muoveva la Cia ai tempi di Jimmy Carter.
È comunque indubbio che ci siano state persone che facevano parte dello Stato e delle istituzioni che si sono adoperate per la pianificazione e la prosecuzione di una strategia “politica” condotta attraverso il terrore e la violenza per cambiare tutto in modo che nulla cambiasse.
È in questi passaggi di testimone, in questi momenti di transizione e cambio di linea che spesso si sono aperti quei piccoli “buchi” che hanno permesso alla magistratura e agli inquirenti di infilarsi nelle pieghe delle ricostruzioni ufficiali e scavare alla ricerca di una verità, tanto storica quanto processuale. Sentenze come questa di Piazza della Loggia non devono comunque mai essere pietre tombali sull’argomento ma aprire un dibattito strico e politico sui fatti accertati che continui al di là dell’esito giudiziario e dell’accertamento delle responsabilità. È un obbligo che si deve ai tanti innocenti uccisi o feriti, ai loro parenti e ad un intero paese che ha pagato sulla propria pelle l’esito delle stragi.

l’Unità 15.4.12
Cittadini di Brescia, è ora di dimenticare
di Antonio Tabucchi


Questo è uno stralcio dell’articolo, dal tenore amaramente ironico, che Antonio Tabucchi scrisse su l’Unità del 28 maggio 2004 per i 30 anni della strage di Brescia.
Gentili cittadini di Brescia, capiamo il Vostro disappunto e consideriamo riprovevole che dopo tutti questi anni gli autori dell’incidente di Piazza della Loggia non siano stati ancora individuati. Consideriamo altresì riprovevole che siano stati provocati altri incidenti analoghi. E anche politicamente errati, visto, come l’attualità insegna, che ci sono altri mezzi più indolori e più democratici per una modifica dell’impianto costituzionale cui a loro modo tendevano allora i cultori della Costituzione un po’ esagerati che agivano in maniera tanto radicale. Tuttavia bisogna dar loro atto che, pur nella loro radicalità, costoro erano animati da un principio di rinnovamento dei nostri princìpi istituzionali onde rendere il nostro Paese più agile e al passo con i tempi, maggiore potere concentrato in una sola Istituzione, fusione del potere politico con quello economico, una sana riforma della magistratura (...).
Ci corre tuttavia l’obbligo di specificarVi che la Vostra insistenza nel chiedere chiarimenti si attenuerebbe alquanto se non Vi vedeste come caso isolato ma se aveste l’altruismo di guardarVi intorno, cioè di contestualizzare l’incidente avvenuto nella Vostra città. L’Italia purtroppo continua a essere un Paese in cui il cittadino guarda al proprio «particolare», come osservò il Guicciardini, il che gli fa perdere il sentimento di appartenere alla comune storia di una comune Nazione, unita e fraterna. Se i parenti di coloro che ebbero la sfortuna di trovarsi nella Banca dell’Agricoltura a Piazza Fontana di Milano nel 1969, se i parenti di coloro che ebbero la sfortuna di trovarsi nella stazione di Bologna nell’agosto del 1980, se i parenti di coloro che ebbero la sfortuna di imbarcarsi su un airbus che nel 1980 sorvolava il cielo di Ustica (tralascio altri episodi minori), se tutti costoro, dicevo, non hanno ancora avuto il chiarimento che insistono a chiedere da anni, perché mai la città di Brescia dovrebbe avere il privilegio di conoscere ciò che agli altri non è dato di conoscere? E poi, con quale arroganza potete pensare che la Storia sia un’entità costituita di chiarezza? Non sapete forse che essa è soprattutto oscurità e tenebra, creatura mossa da forze misteriose e inconoscibili dalla limitata mente umana? La Musa della Storia, gentili Cittadini di Brescia, per gli Antichi era Clio, al contempo Musa della Memoria. Ebbene, abbiate il coraggio di eseguire un’operazione logica molto semplice: cancellate dalla Vostra memoria lo spiacevole incidente che avvenne nella Vostra città ed esso, come per incanto, sparirà anche dalla Storia (...).

l’Unità 15.4.12
Intervista a Manlio Milani
«Ordine Nuovo e depistaggi, alcune vicende sono chiare»
Il presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime: «Far pagare le spese processuali alle parti civili è il segnale di uno Stato distratto»
di Jolanda Bufalini


Livia Bottardi aveva 32 anni quando morì, dilaniata dalla bomba di piazza della Loggia. Era alla manifestazione sindacale insieme al marito Manlio Milani, «ero a due metri di distanza da lei quando esplose la bomba, non fui nemmeno ferito». Milani ora è il presidente della Casa della Memoria di Brescia, alla testa del comitato dei familiari delle vittime che da 38 anni si battono per avere giustizia.
Come parte civile lamentate il fatto che non siano state accolte le richieste di approfondimento.
«Ne è stata accolta solo una, cruciale. Risentire i periti degli esplosivi consultati nel 1974, perché c’è la testimonianza di Carlo Digilio parla di gelignite dinamite non tritolo -. Ma il problema vero è il lavaggio della piazza che fu fatto allora e che portò alla distruzione dei reperti, per cui non è stato possibile raggiungere l’assoluta certezza».
È il motivo per cui fra gli indagati c’è il generale Delfino.
«Delfino allora era capitano. È stato assolto ma è emblematico che sia stato sottoposto a giudizio, dopo il fallimento della prima indagine, con l’accusa di concorso in strage. Il vero bubbone che impedisce di arrivare alla verità si prodotto all’epoca della prima inchiesta».
Come familiari non avete ancora avuto giustizia ma, a conclusione del processo, c’è un po’ più di verità?
«Il processo, nonostante le assoluzioni, ha chiarito una serie di punti, soprattutto in relazione alla fonte Tramonte. Nell’agosto del 1977 fu trovato un appunto di Gianadelio Maletti (che era ai vertici dei servizi segreti,il Sid)in cui è scritto “comunicare tutto all’autorità giudiziaria”. Ma non aveva comunicato nulla, quando era stato sentito nel 1974. Nel 2010 fu ascoltato di nuovo, in videoconferenza da Joahannesburg, spiegò che non aveva potuto parlare perché dovevo coprire la fonte. C’è il convincimento che se Maletti avesse parlato nel 1974 le indagini avrebbero avuto ben altri risultati». Nel processo è emersa la figura del collaboratore del Sid Maurizio Tramonte e del collegamento con Carlo Maria Maggi.
«Nella sentenza di primo grado si parla del gruppo che si riunisce ad Abano. Lo si definisce un gruppo in formazione ma altro non era che “Ordine Nero”, filiazione di Ordine Nuovo che era stato messo fuori legge. E Maggi era il capo indiscusso della cellula veneta di Ordine Nuovo».
Possiamo distinguere fra verità storica e verità giudiziaria?
«È difficile distinguere. Il dato storico acquisito è che la strage è ascrivibile a Ordine Nuovo veneto, che ci fu un ruolo dei servizi e di altri apparati dello Stato. C’è anche il movente, che era l’anticomunismo. A queste conclusioni è arrivata anche la commissione parlamentare sulle stragi, dunque sono incomprensibili le frasi di Delfo Zorzi. Le sentenze riguardano le responsabilità individuali e può non essere provato che “A” si trovava in quel momento in un determinato posto, ma non ci sono dubbi che la strage sia da attribuire a quell’area e a quel contesto». Siete stati condannati a pagare le spese processuali.
«La corte ha applicato la legge, ma per reati come questi, che riguardano lo Stato democratico, le leggi dovrebbero prevedere delle eccezioni. Invece, ancora una volta, c’è stata distrazione e questo aumenta la distanza fra Stato e cittadini. È un segnale politico molto brutto».

il Fatto 15.4.12
Dossier, tritolo e piani di golpe il Paese delle verità rubate
di Enrico Fierro


L’Italia è il Paese delle verità rubate. Un Paese che non può, non deve, forse non vuole sapere quali forze, quali interessi, quali oscuri giochi internazionali, hanno avvelenato un ventennio della sua storia. Strategia della tensione, anni di piombo, la minaccia del golpe ogni volta che si affacciava la possibilità di una svolta politica. Anche ieri hanno rubato un pezzo di verità sulla strage di Brescia di 38 anni fa. Otto morti, oltre 100 feriti, l’indimenticabile foto in bianco e nero di un uomo in ginocchio piegato su una bandiera che copre i brandelli di un cadavere. Pochi quelli che si sono indignati finanche per lo sfregio finale ai familiari delle vittime. Avete perso, la legge è legge, avete voluto il processo, vi siete costituiti parte civile nella speranza di ottenere un briciolo di verità. Ora pagate. Decine di migliaia di euro per una giustizia che dopo quattro decenni sventola la bandiera bianca della resa. Poveri italiani di quest’epoca smemorata, inariditi dall’assenza di un moderno Pasolini. Poeta dei suoi tempi ma con gli occhi e la testa nel futuro. “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti... Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Perché le prove, gli indizi, i processi, non sono materia nella disponibilità di poeti e intellettuali, utili con i loro scritti a suscitare emozioni e aprire menti, ma di polizie e corti di giustizia. Sono loro che devono accertare verità e certificarle con sentenze definitive e inoppugnabili. L’Italia è l’unico Paese al mondo che per anni, dal 1988 al 2001, ha avuto una Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. Migliaia di files e volumi con il racconto tragico degli anni neri sono accatastati nei depositi di Palazzo San Macuto, milioni di ore di testimonianze dei protagonisti, ma anche una carrellata di ignobili non so, non ricordo, di omissioni che hanno coperto verità inconfessabili ancora quarant’anni dopo. Un rosario lunghissimo di sangue, misteri e depistaggi: Peteano, 31 maggio 1972, eccidio dei carabinieri; Treno Italicus, 4 agosto 1974, 12 morti, 105 feriti; Ustica, 27 giugno 1980, 81 morti; Bologna 2 agosto 1980, 85 morti, 200 feriti; bomba al Rapido 904 alla vigilia di Natale del 1984, 15 morti e 267 feriti. Undici stragi ci consegna la cronaca di quegli anni, 150 morti, 652 feriti. Una guerra. Lo storico Aldo Giannuli ha dedicato anni della sua vita di studioso a scavare nei misteri italiani, e ogni volta si è trovato davanti ad archivi, soprattutto quelli dei servizi italiani, sbianchettati, depurati, devitalizzati. Cosa stava accadendo a ridosso della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e soprattutto cosa doveva accadere dopo? Dopo la bomba, il terrore, l’indignazione, Milano e l’Italia spaccati in due, con i cortei di operai e studenti uniti nella lotta e le maggioranze silenziose pronte a chiedere legge e ordine. Il “golpe”, la sedizione di ambienti militari ed economici, come nella Grecia dei colonnelli. Oppure il pronunciamento militare solo minacciato, alitato sul collo di una classe politica imbelle. Dall’inchiesta del giudice Guido Salvini sono emersi significativi indizi su un colpo di Stato progettato tra il 14 e 15 dicembre 1969, a ridosso della Strage. Giannuli ha riannodato i fili che avvicinano la Strage milanese all’omicidio di Aldo Moro (avvenuto “solo” nove anni dopo), consegnandoci le riflessioni che il leader Dc affida ad uno dei suoi memoriali. Quando la bomba scoppia a Piazza Fontana, Moro è a Parigi a un vertice europeo. Riceve numerose telefonate da Roma, in una di queste un suo amico gli consiglia, per incarico di dirigenti del Pci, di essere molto prudente nell’organizzare il suo rientro nella Capitale. Qualcosa poteva succedere. In quegli anni chi cercava di ricostruire la verità finiva male. Sette mesi dopo la strage di Milano viene fatto deragliare il treno “Freccia del Sud” a Gioia Tauro, 6 morti e 54 feriti. Cinque giovani anarchici calabresi in un loro dossier destinato ad arricchire le pagine del libro “Strage di Stato”, collegano la bomba di Milano con quell’attentato. È il 26 settembre 1970, quando la loro auto diretta a Roma viene investita da un camion. Muoiono tutti. Il dossier sparisce. La loro storia è stata quasi dimenticata nel Paese delle verità rubate.

Corriere della Sera 15.4.12
«Avevamo tutte le prove per arrivare alla verità»
di Andrea Pasqualetto


La pista nera delle stragi nasce da lui: Giancarlo Stiz, il giudice trevigiano che nel gennaio del 1971 raccolse la testimonianza dell'insegnante di Maserada sul Piave Guido Lorenzon. Una soffiata che mise il magistrato di Treviso sulle tracce di Giovanni Ventura, l'editore e libraio di Castelfranco Veneto amante degli estremismi di destra e di sinistra, e poi dell'ideologo delle trame nere Giorgio Freda.
Dottor Stiz, come vede questo epilogo giudiziario di piazza della Loggia?
«È una cosa da ridere per non piangere».
Che idea si è fatto sulle responsabilità?
«La mia non è un'idea: io ho raccolto e portato delle prove contro Freda e Ventura. Prove legittimamente acquisite in quegli anni».
Dichiarare a viva voce che sono colpevoli significa però farsi querelare, non crede? Per la giustizia sono innocenti.
«Chiaro, questa è la verità processuale. Rimane comunque per tutti la possibilità di valutare le prove che sono entrate a far parte dei processi e che hanno portato la Corte di legittimità ad affermarne in fondo la responsabilità morale. Affermazione che sembrerà strana dal punto di vista strettamente giudiziario ma che ha un senso. Insomma, i riscontri c'erano ed erano lì».
Nel merito sono però entrati i giudici di Bari. Cosa pensa?
«Guardi, ricordo che il presidente diceva "mi scusi, dottor Freda" e interloquiva con molto riguardo...».
Cosa pensa degli altri ordinovisti veneti: Maggi, Zorzi eccetera, oggi assolti per Brescia?
«Non facevano parte della mia indagine. Sono entrati successivamente con il giudice Salvini, che ha ancorato la nuova inchiesta soprattutto alle rivelazioni del pentito Carlo Digilio, poi giudicato inattendibile. Ma io penso che Salvini abbia trovato un muro rispetto al coinvolgimento della politica, della Cia e dei servizi segreti. Uno spazio molto delicato e molto pericoloso... non si può andare contro quel famoso segreto di Stato».
Se avesse avuto a disposizione le testimonianze dei pentiti Digilio e Martino Siciliano, cosa sarebbe stato della sua indagine?
«Forse sarebbe cambiato tutto. Ma non posso dirlo non avendo cognizione diretta delle indagini di Milano. In ogni caso, penso che quando le inchieste e i processi si dilatano e amplificano troppo, difficilmente si riesce a concretizzare».
Cosa le rimane, dunque, dopo quarant'anni?
«L'orgoglio di aver scoperto la verità».

il Fatto 15.4.12
“Fascisti e Servizi: c’erano prove, non invenzioni”
Giordana: Stessa onda per Piazza Fontana. Inumano accanirsi sui parenti
di Malcom Pagani


Per tracciare lo stesso percorso di Piazza Fontana e produrre il medesimo deludente risultato hanno impiegato più tempo. Sapere che nessuno avrebbe pagato per la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura ha richiesto 33 anni. Per la strage di Piazza della Loggia ce ne sono voluti quasi 40. Alla fine, rimane solo il silenzio tipico di certe avventure giudiziarie italiane. Troppo poco”. Marco Tullio Giordana, figlio di un giornalista che morì in un disastro aereo, ha scoperto che provare a volare sulla storia ti espone ai vuoti d’aria. La sua ricostruzione del pomeriggio milanese del 12 dicembre ’69 ha provocato reazioni isteriche. Gli era accaduto anche con Pasolini. Succederà nuovamente quando qualcuno (tentò in chiave psicanalitica Franco Bernini con Le mani forti) si occuperà di portare nelle sale l’ordigno nel cestino che il 28 maggio 1974, al centro di un comizio contro la violenza neofascista a Brescia, uccise 8 persone ferendone oltre 100. Di quell’eccidio è rimasto l’audio originale, la paura in presa diretta dagli altoparlanti: “State calmi”. A riascoltare oggi, riflettendo sull’assoluzione di tutti gli imputati il regista pensa ad alta voce fissando un paletto: “C’è un legame fortissimo tra le due stragi, nelle pieghe dei due dibattimenti si incontrano le stesse facce. Una mano comune. Una matrice simile. Aspetto le motivazioni per commentare la sentenza in modo definitivo. Mai come questa volta è importante capire perché la giustizia assolva individui su cui negli anni, grazie anche al lavoro di magistrati come Salvini, si erano accumulate importanti prove documentali. Non invenzioni”.
Giordana, la strage di Piazza della Loggia non ha colpevoli.
Le sentenze vanno rispettate, ma a volte turbano. Lasciano un vuoto di senso. Spingono a credere che si tratti di ricostruzioni parziali, di sunti arbitrari, di rappresentazioni sceniche, molto insoddisfacenti. Non si capisce allora perché di fronte a questo tetro teatro, un artista non possa in libertà presentare la propria interpretazione della verità. Poi c’è un’altra cosa...
Quale?
Il fatto che nonostante esistesse la discrezionalità e la possibilità di scegliere altrimenti, anche su Piazza della Loggia ai familiari è destinata la beffa del pagamento delle spese processuali.
Avvenne anche per Piazza Fontana.
Uno scandalo che ha poco di umano. Spero che Napolitano abbia la stessa sensibilità che colse Ciampi all’epoca. Cancellare quest’onta è il minimo che si possa chiedere a uno Stato di diritto.
Cosa rimane a chi è sopravvissuto al dolore?
La condanna di continuare a doverci convivere e la solidarietà di chi in questi anni ha capito che sul territorio si stava sviluppando un disegno sovranazionale. Fascisti e Servizi. Vecchi tramoni delle potenze estere e soldati politici intenzionati a cercare il maggior numero di caduti possibile. Il desiderio della svolta golpista, dell’avversario da annientare. Storia con cui continueremo a fare i conti. La fotografia di una democrazia imperfetta.
Le bombe, i servizi deviati, le prove inquinate.
Le provocazioni erano propedeutiche alla teoria degli opposti estremismi. Pensi solo a quanti morti il parastato ha provocato. A quante famiglie il gioco di matrioske del depistaggio e delle verità mescolate alle bugie dovrebbe un’impossibile spiegazione. Non si può perdonare. Solo cercare di sapere di più. Rimuovere la propria storia recente è una pretesa che a volte, in modo sospetto, viene da pulpiti improponibili.
Di chi parla?
Di chi ciancia di riconciliazione confondendo vittime e carnefici e si sdraia sul teorema: tutti colpevoli, nessun colpevole. Ma è un’illusione. Anche volendo nascondere ogni cosa nella sabbia, con il tempo salta fuori tutto.
Però questa volta non ci sono colpevoli.
Le indagini vennero condotte male e l’intelligence sporcò le prove anziché portarle alla luce. Ma il quadro è comunque chiaro. E il fatto che la sentenza di Piazza della Loggia faccia quasi rima con gli esiti di quella su Piazza Fontana fa pensare a una filologia tra i due eventi. L’acqua forse è diversa, ma la spinta dell’onda è la stessa. C’è una teoria sulla strage di Brescia.
Ce la spiega?
Qualcuno sostiene che fu la prima in cui la manovalanza nera venne abbandonata dallo Stato e che le stragi successive, dall’Italicus a Bologna, siano state solo una vendetta contro i vecchi protettori.
Lei ci crede?
Io so solo che sono passati 38 anni. Se ne impiegassi 8 per fare un film arrossirei. La giustizia è più complicata, ma dopo quattro decenni, lasciare lo schermo processuale nero fa vergognare.

Repubblica 15.4.12
Depistata la verità
di Benedetta Tobagi


FORSE non ve ne siete resi conto, ma ieri mattina, quasi in sordina, si è chiusa un'epoca. Per quanto sopravviva una flebile speranza di nuove inchieste, ieri a Brescia nella sostanza (resta solo il ricorso in Cassazione) si è chiusa, con bilancio fallimentare, la pluridecennale stagione delle inchieste giudiziarie per le bombe della "strategia della tensione".
LA STRAGE di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. «Me l'aspettavo» è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d'appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell'Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall'ennesima bomba neofascista (con buona pace dei "negazionisti" di casa nostra, questo è accertato). Mentre l'Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell'organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi "soldati": «Brescia non deve rimanere un fatto isolato». Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell'Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l'hanno fatta franca. Terribile perché - e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate - dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un'indagine complessa grazie all'impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, «che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare» - commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi.
Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai. Quest'assoluzione è solo l'ultima, umiliante vittoria di un'attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l'esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della "bomba fantasma" su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l'armiere di Ordine Nuovo, che preparò l'ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza. Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle "piste rosse" costruite intorno a piazza Fontana: la "falsa pista nera". I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall'istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle "trame nere" milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell'ultimo processo. Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l'imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell'anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe "bianco" autoritarioo presidenzialista - anch'esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese - emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e "Rosa dei venti".
Una pista nera "sbiadita" e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l'hanno argomentato in modo stringente. Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel '74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un "depistatore" di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma - contro regolamenti - anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell'inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei "depistaggi sofisticati", a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s'indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia. La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell'Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l'insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti".

Repubblica 15.4.12
Quelle verità negate nel labirinto infinito dei misteri d'Italia
Da Piazza Fontana all'Italicus, nessun condannato
di Piero Colaprico


«NON fu», è questa l'amara cantilena delle stragi italiane. Non fu Freda e non fu Ventura, per la banca dell'agricoltura in piazza Fontana, 1969, 12 dicembre, la «madre» di tutte le violenze di Stato e Antistato. «Non fu» nemmeno il loro fedele Delfo Zorzi, camerata trapiantato in Giappone, rintracciato anni dopo. NUOVI indizi portavano a Zorzi, ma per sentenza il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi, «non fu». Non c'entra né con Milano, anche se erano stati i suoi camerati Freda e Ventura a ordinare, comprare, smistare i timer, a comprare proprio quel modello di valigia, ma non basta. E «non fu» Zorzi nemmeno per la strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio del 1974, così ieriè stato ripetuto alla fine del processo d'appello. In queste due città, 25 morti e 192 feriti.
«Non fu» Mario Tuti, fascista e assassino di carabinieri, il mandante dell'ordigno sull'Italicus, il4 agosto 1974, 12 morti, 48 feriti. Come «non fu» Luciano Franci a fare da palo alla stazione di Santa Maria Novella, «non fu» Piero Malentacchi a confezionare la bomba. Il perenne «non fu» spunta cupo dopo varie tonnellate di carte scritte a mano, a macchina, a macchina elettronica, infine a computer. Archeologia di verbali e chiavette usb.
Con dentro migliaia di testimonianze che significano persone che parlano, ricordano, piangono, si portano dietro il male subito, o nascosto, o fatto. Il «non fu» viene stabilito dopo interrogatori di chi non ricorda, balbetta, imbroglia: e quasi rimpiangi, quando li senti, che tu sia parente, che tu sia pubblico, i cardini dello Stato democratico, quel «meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in galera». Eppure, stringendo i denti, è a questo che le associazioni delle vittime si aggrappano: alla possibile verità nella legalità. È nella verità e nella legalità, in fondo nella giustizia, che sperano sempre, mentre si va moltiplicando via Internet il buio delle sentenze in contraddizione, delle invettive e delle ipotesi balorde. Le stragi, più che di nebbia, sanno di labirinto: l'abbiamo esplorato tante volte, riuscendo a scorgere sempre qualche cosa, ma è solo l'ombra nera del Minotauro, e non entra nell'identikit.
C'è chi, in passato, ha gettato la croce sugli inquirenti. Negli anni '70 e '80, mentre per il terrorismo rosso che sparava alla classe dirigente sono stati impiegati in forze i migliori magistrati e investigatori, a cercare di raccapezzarsi nelle nefandezze di terrorismo nero e possibili golpe sono stati lasciati - si diceva - quelli che c'erano. E uno di questi solitari, che cercava i fili scoperti di Ordine Nuovo, è stato ammazzato nel 1980: il giudice Mario Amato. Vera o falsa che sia questa lettura, negli ultimi anni, con la politica spesso più assente e lontana, è stata però la magistratura a «resistere», a cercare.
Il bilancio, però, resta scarso. Anzi, se osserviamo da vicino tutte le stragi, sapendo quello che sappiamo, la piena verità c'è solo in una. È quella del 17 maggio 1973 davanti alla questura milanese. Veniva commemorato il commissario Luigi Calabresi, ucciso sotto casa un anno prima. Viene lanciata una bomba, l'obiettivo è l'allora ministro dell'Interno Mariano Rumor, invece muoiono dilaniate quattro persone, cinquantadue i feriti.
L'autore resta lì: è Gianfranco Bertoli. Un anarchico, si definisce. È anche informatore dei servizi segreti Side Sifar, vivrà una vita da ergastolano senza aggiungere mezza parola al gesto, a come s'è procurato la bomba, ma è stato lui.
Esistono poi stragi con sentenze di colpevolezza passata in giudicato: Giusva Fioravanti e Valeria Mambro sono ritenuti i responsabili della strage più sanguinosa, quella del2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti. I parenti delle vittime sono d'accordo con i giudici, sanno però che questa decisione non soddisfa tutti gli esperti: anzi, per alcuni, la potentissima bomba messa nella sala d'aspetto è in qualche modo legata a un altro mistero italiano, alla precedente strage di Ustica.
Era il 20 giugno, quando un Dc 9 Itavia scoppia e precipita. Molto probabilmente per causa di un missile francese che, su mandato americano, cercava di colpire l'aereo sul quale viaggiava il nemico di sempre, il libico Muhammar Gheddafi. Anche qui lunghe, difficilissime indagini, colpevoli zero: con non pochi dipendenti dell'Aeronautica militare, alcuni di servizio ai radar, che muoiono per suicidi dubbi e incidenti sospetti.
Anche l'ultima strage - l'ultima prima delle autobombe piazzate senza dubbio dalla mafia del '93 - è circondata dall'ambiguità. È la strage di Natale del 1984: il 23 dicembre, il treno Napoli-Milano-Brennero scoppia in galleria a San Benedetto Val Di Sambro, 16 morti, 117 feriti. Due le condanne principali, riguardano i mafiosi Pippo Calò e Guido Cercola, ossia il cassiere dei corleonesie un picciotto che sarà trovato in cella con i lacci delle scarpe stretti intorno al collo. Nonostante le indagini capillari, «non fu» condannato un possibile complice fascista, ritenuto l'anello di congiunzione tra criminali organizzati e altri «ambienti», altri stragisti.
Qualche giorno dopo le vetture sventrate, i bambini feriti lungoi binari, si conta un'altra vittima. Uno dei primi soccorritori, il vice-ispettore della Polfer, è sotto shock. Si punta la pistola alla tempia e si uccide. Ha lasciato un biglietto: «Questa è una società maledetta». È una frase che risuona ancora, quando si parla tra chi ha perso i suoi cari: «I nostri morti - si sente ripetere - vagano e non trovano un posto dove stare in pace con noi che li piangiamo». Una memoria annaffiata dalle lacrime, questo ci resta dopo i troppi «non fu»?

l’Unità 15.4.12
Le sfide del sindacato unito
di Guglielmo Epifani


Partendo dalla manifestazione unitaria dei sindacati in difesa di quei lavoratori costretti dalle scelte del governo a non avere né pensione né lavoro, Franco Marini rilancia con forza il bisogno di un sindacato che ritrovi la sua unità e di un Paese che torni a investire sulla concertazione, intesa come metodo e come valore.
Queste parole vanno ascoltate e per quanto non facile, per il peso delle divisioni che vi sono state durante il governo Berlusconi e che tuttora permangono su molti aspetti delle scelte confederali, va riaperto il dibattito sul tema dell’unita. Lo richiede anzitutto la durata e la qualità della crisi che attraversiamo, che è insieme finanziaria, monetaria, economica e sociale; e il rischio che corrono la nostra democrazia e la costruzione europea.
Nessuno sa, a distanza di quattro anni, come uscire dalla situazione in cui siamo, e dalle trappole che la caratterizzano. Avremmo bisogno di tregua da parte dei mercati e questa non ci viene data; avremmo bisogno di politiche per lo sviluppo per contrastare disoccupazione e crescita del debito, e questo è difficile farlo senza una diversa politica europea; avremmo urgenza di un’Europa che ritrovi il valore della solidarietà comune, quella che è mancata nel caso della Grecia, e invece ogni Paese è portato a chiudersi in se stesso rispondendo alla propria opinione pubblica e illudendosi di potersi salvare da solo.
È insomma uno stato di incertezza quello che caratterizza il nostro presente, mentre i tanti che scommettono contro l’euro hanno giorno dopo giorno occasioni sempre più invitanti, come dimostrano le difficoltà della Spagna. Per i lavoratori, i giovani, i pensionati, e anche per le imprese, i costi sociali che si stanno pagando sono enormi e soprattutto non si vede né una via di uscita a breve, né un motivo per rendere sopportabili sacrifici sempre più al limite. Anche le classi dirigenti sembrano smarrite, divise tra la volontà di non far fallire la scommessa dell’euro e l’impossibilità di convincere la Germania a cambiare logica e strumenti di intervento.
Fa parte di questo smarrimento l’ingenua pretesa che tocchi alla dimensione tecnica provare a risolvere quello che la politica non sembra in grado di risolvere; ma anche la pericolosa tentazione di considerare superati il ruolo dei partiti e la funzione della politica a fronte della portata di questa crisi. Come se vi potesse essere una democrazia senza politica e senza partiti. E va da sé che lungo questa deriva anche la funzione della rappresentanza sociale e dei corpi intermedi viene messa in discussione con il ridimensionamento di una decente idea di democrazia.
In questo quadro inedito e pericoloso, un sindacato consapevolmente di nuovo unito in ragione della portata epocale della sfida avrebbe di fronte tre campi di intervento: quello della pressione sulla confederazione europea dei sindacati, senza voce e troppo condizionata dalle scelte contraddittorie della Dgb, il sindacato tedesco; quello di ridare più fiducia e risultati a una rappresentanza sociale che si va scomponendo lungo i mille fili degli interessi e si va chiudendo in se stessa; quello di impedire che le difficoltà delle sedi e dei soggetti della responsabilità democratica travolgano il ruolo di tutti i soggetti collettivi, e dei valori loro propri, aprendo la strada a soluzioni autoritarie e populistiche. Naturalmente non basta la coscienza della delicatezza della fase storica per superare di colpo anni e anni di divisioni e di problemi. Ma certo questa può aiutare un percorso che tra alti e bassi, tanto più dopo la caduta del governo Berlusconi e l’aggravarsi della crisi, sta avvicinando le confederazioni. Prima della manifestazione di venerdì, altre iniziative di categoria e di territori hanno unito le strutture delle confederazioni, a partire dallo sciopero della Sardegna e la manifestazione dei lavoratori edili. Il prossimo primo Maggio sarà unitario in tutta Italia e anche a Bologna dove l’anno scorso si celebrò sotto il segno della polemica e della divisione. E in due realtà importanti come Bergamo e Napoli sono in preparazioni due scioperi generali unitari contro la crisi e per la difesa dell’occupazione.
Infine anche sul tema della verifica certificata della rappresentatività si stanno
facendo dei passi decisivi. Altri temi e situazioni sono ancora alla ricerca di una difficile composizione unitaria; i rapporti alla Fiat, il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, il punto dolente della democrazia e della rappresentanza nei luoghi di lavoro e il lascito sciagurato di quel referendum che amputò colpevolmente quell’equilibrio voluto dallo statuto dei lavoratori. Lo stesso esito del percorso parlamentare sul mercato del lavoro a seconda del suo esito può pesare in un modo o in un altro sul rapporto unitario. Eppure la durezza della fase esige più unità e più unità del e nel mondo del lavoro. Quella stessa unità che i sindacati nazionali hanno saputo ritrovare in tutti i Paesi al tempo della crisi e che per troppo tempo solo da noi non è stata possibile. Si può naturalmente non raggiungere questo obbiettivo, ma non c’è alternativa a impegnarsi fino in fondo e anche di più per provare a ottenerlo.

l’Unità 15.4.12
Intervista a Maurizio Landini
«Sulla rappresentanza intervenga il governo»
Il segretario Fiom: «Sulla Fiat non dice una parola. L’alternarsi delle sentenze rende urgente ripristinare la libertà dei lavoratori di scegliersi il sindacato»
di Massimo Franchi


Noi ricorreremo sempre perché stiamo difendendo un diritto costituzionale: la libertà sindacale. Comunque non c’è bisogno che si aspetti l’esito finale delle sentenze. Il comportamento della Fiat è chiarissimo: non fa investimenti e continua a chiudere fabbriche in Italia. Il problema quindi non è solo della Fiom, ma di tutto il governo e di tutto il Paese». L’altalenarsi di sentenze a favore della Fiat e di sentenze a favore della Fiom non sorprende Maurizio Landini. Il segretario generale dei metallurgici Cgil, reduce da un’assemblea con studenti e precari a Bologna, sposta l’attenzione sul fronte politico, attaccando «il silenzio colpevole del governo su tutta la vicenda».
Landini, la decisione del tribunale di Torino però riguarda ben 21 ricorsi. Non rischia di spostare l’ago della bilancia della giustizia a favore della Fiat?
«I nostri ricorsi sono una sessantina e quindi ci aspettiamo per i prossimi mesi sentenze a favore e sentenze contro e sentenze che solleveranno un giudizio costituzionale sull’attuale formulazione dell’articolo 19. Noi non abbiamo affidato tutte le nostre sorti alle cause, siamo stati costretti dall’atteggiamento della Fiat che prima è uscita da Confindustria e poi ha usato un’interpretazione forzosa dell’articolo 19 per escluderci dalla rappresentanza».
Quindi ci aspettano mesi e anni di sentenze e ricorsi? Non esiste un’altra via di uscita?
«Proprio l’alternarsi di sentenze a nostro favore e a favore della Fiat rende sempre più importante un intervento del Parlamento e del governo per ripristinare la libertà dei lavoratori di scegliersi il sindacato che vogliono e che vengano rappresentati senza discriminazioni. Sappiamo che ci sono emendamenti in Parlamento che chiedono una modifica dell’articolo 19 e noi chiediamo a tutte le forze politiche di impegnarsi in questo senso. Ma è il governo che non sta facendo niente, soprattutto sulla Fiat».
Voi chiedete a Monti di convocare un tavolo con azienda e sindacati... «Non solo. Tutti si dovrebbero preoccupare del fatto che Fiat non sta rispettando la Costituzione e si devono assumere le loro responsabilità, il governo per primo e invece non dice una parola. Noi continueremo a lottare per difendere il diritto dei lavoratori ad essere rappresentati e non abbiamo alcuna intenzione di perdere questo diritto: rientreremo in Fiat dalla porta principale, a testa alta. Ma il governo ha il dovere di intervenire».
Ogni volta però che arriva una sentenza a voi sfavorevole gli altri sindacati vi chiedono di firmare il contratto Fiat per rientrare in fabbrica...
«Continuo a pensare che non si rendano conto di quello che sta succedendo. La Fiom in fabbrica c’è già e ci sarà sempre. Quello che gli altri sindacati dovrebbero cogliere è che in Fiat sta vicendo la Fiat. Sta portando avanti una discrimazione che oggi colpisce noi, ma che domani potrebbe colpire qualunque altro sindacato. La Fiat sta portando avanti un modello per cui ci saranno solo sindacati aziendali e corporativi. Per questo noi rinnoviamo a Fim e Uilm la richiesta di lavorare insieme per fissare regole di rappresentanza».
Ma Fim e Uilm continuano a non seguirvi, soprattutto in Fiat. Le elezioni delle nuove Rsa stanno andando avanti senza includervi anche dove avete vinto le cause, come a Bologna.
«Si tratta di elezioni farsa dove noi abbiamo deciso di esserci facendo votare i lavoratori fuori dalle fabbriche e registrando un consenso sempre più ampio. A Cassino abbiamo addirittura raddoppiato i consensi e dovunque abbiamo aumentato nettamente i voti rispetto alle ultime elezioni».
Mentre Cgil, Cisl e Uil manifestano assieme, fra i metalmeccanici le distanze sono ancora incolmabili. Come lo spiega?
«Sento che si fa un gran parlare di unità sindacale. Bene, noi siamo pronti, ma ora tocca agli altri capire che un accordo sulla rappresentanza sarebbe il primo passo per ricostruirla».
Passiamo alla riforma del lavoro. Voi oggi a Bologna avete riunito lavoratori, precari e studenti.
«Lo abbiamo fatto perché non accettiamo che il governo dica che la riforma aiuta i giovani e divida i lavoratori fra garantiti e non. Il disegno di legge attuale non è una riforma, aumenta la precarietà e taglia gli ammortizzatori sociali. In più c’è un sostanziale smantellamento dell’articolo 18 con il reintegro che diventa un miraggio. Noi, partendo da Bologna, dove abbiamo riempito la sala con oltre mille giovani che sono venuti a confrontarsi con noi, vogliamo aprire una discussione nel Paese, una mobilitazione che porti a modificare nettamente la riforma del lavoro».
Giovedì al Direttivo della Cgil cosa proporrete?
«Ci aspettiamo che si mantengano le mobilitazioni e gli scioperi già decisi. Chiederemo che la Cgil lotti perché il reintegro torni ad essere un diritto vero ed esigibile. Il pasticcio degli esodati lo conferma: non siamo davanti a errori tecnici di un governo tecnico, siamo davanti a scelte politiche precise. Bisogna rispondere con una mobilitazione politica contro il governo».

La Stampa 15.4.12
Fiat vince 21 cause contro la Fiom
Il Tribunale di Torino: quel sindacato non potrà rientrare in quindici aziende
di Marina Cassi

Il Lingotto Il gruppo commenta: «La sentenza dice che accogliere la pretesa della Fiom significherebbe procedere a una vera e propria riscrittura della norma e questo non è consentito al giudice»

La Fiom ha perso le 21 cause torinesi promosse contro la Fiat per attività antisindacale. A tempo record il giudice Fabrizio Aprile - mercoledì aveva unificato in uno solo i ricorsi - ha depositato il decreto. Nelle quindici aziende coinvolte - da Fga a Powertrain, da Ftp Industrial a Magneti Marelli, da Comau a Iveco, New Holland, Habarth, Sirio - i delegati Fiom non rientreranno.
È un colpo non indifferente per la strategia giudiziaria scelta dalla Fiom dopo che i suoi delegati sono tenuti fuori dal gruppo Fiat. Una decisione presa dall’azienda perché la Fiom non ha firmato il contratto collettivo di gruppo del 13 dicembre 2011.
Il nodo è sempre lo stesso che si ripropone nei 61 ricorsi della Fiom: l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori riconosce la rappresentanza - come sostiene la Fiat - solo ai sindacati firmatari dei contratti collettivi applicati nell’impresa o - come sostiene la Fiom - anche ai sindacati non firmatari va riconosciuta la rappresentanza per consentire ai lavoratori la libertà sindacale.
Il giudice Aprile è nettissimo: «Quello che chiede la Fiom non è di interpretare l’articolo 19, ma di riscriverlo». E questo «non è consentito al giudice che è soggetto soltanto alla legge». Aprile poi rileva che dopo le modifiche apportate dal referendum del ‘95 a un testo che parlava di diritto di rappresentanza per le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative - «la parola firmatario, senza ulteriore aggettivazione o dubbie sfumature semantiche, si riferisce a colui - non che può apporre la firma - ma che appone la propria firma».
E nel suo decreto, quindi, il giudice non rileva profili di incostituzionalità dell’articolo 19.
Ora ci saranno i pronunciamenti relativi a tutte le 61 cause aperte nei vari Tribunali italiani. E poi la partita dei ricorsi. Ovviamente la Fiom ricorrerà contro il decreto di ieri così come farà la Fiat quando dove ha perso le cause.
Finora i giudici hanno dato ragione alla Fiom a Torino su Pomigliano, alla Magneti Marelli di Bologna e di Napoli, mentre la Fiat ha vinto alla Cnh di Lecce, alla Sirio di Milano e ieri nelle società torinesi.
Una nota della Fiat commenta: «È stata riconosciuta la correttezza del comportamento dell’azienda confermando che solo le organizzazioni firmatarie di accordi hanno il diritto di nominare proprie rappresentanze sindacali. Si ribadisce che il giudice è soggetto soltanto alla legge e ha il dovere di applicarla e si osserva che accogliere la pretesa della Fiom significherebbe procedere a una vera e propria riscrittura della norma e questo non è consentito al giudice».
E aggiunge: «Secondo il Tribunale di Torino l’articolo 19 dello Statuto non presenta alcun sospetto di incostituzionalità, come risulta dalle numerose pronunce della Corte Costituzionale».
Meno sorvegliati i commenti degli altri sindacati. Per Rocco Palombella, segretario Uilm, «la Fiat può ora guardare con fiducia allo svolgimento delle proprie attività». La Fismic parla di «un colpo decisivo alla strategia antagonista della Fiom»; la Fim chiede alla Fiom di «lasciare le aule giudiziarie e tornare nelle fabbriche a contrattare.
Per il segretario Fiom, Maurizio Landini, «ci sono giudici che dicono che ciò che sta facendo la Fiat è antisindacale e giudici, con motivazioni diverse, che dicono altre cose; siamo di fronte ad un problema aperto». Aggiunge: «Il nostro obiettivo è garantire la libertà dei lavoratori di scegliersi i propri rappresentanti». "La motivazione: i rappresentanti della sigla non hanno firmato il contratto Il segretario Landini: alcuni giudici ci danno ragione e altri no, il problema è aperto"

l’Unità 15.4.12
Il pressing del segretario Pd: lavoro, sviluppo, allentamento del Patto di stabilità per i Comuni
Sul finanziamento pubblico: «Non andremo a battere cassa dai manager o dai palazzinari»
«Politica per ricchi? No, no, no»
Bersani a Monti: ora la crescita
di Maria Zegarelli


Intervenendo alla convention di Area Democratica il segretario Pd fissa le priorità in vista del vertice con Monti: misure per sviluppo e occupazione, allentamento del Patto di stabilità per i Comuni, legge sui partiti

Crescita e lavoro, liquidità per i Comuni attraverso un allentamento del Patto di stabilità, pochi ma mirati interventi per la riforma del mercato del lavoro senza stravolgerne l’impianto: sono queste le priorità del Pd in vista del vertice di martedì con il premier Mario Monti e i leader di Pdl e Terzo Polo, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini.
Ad annunciare quale sarà la linea è lo stesso segretario Pier Luigi Bersani intervenendo alla convention di Areadem a Cortona, occasione per rispondere anche a quanti, sulla scia degli scandali, chiedono l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. «Siamo disposti anche a spostare la tranche di luglio», spiega. Ma «non andremo a battere cassa alle buonuscite dei supermanager né a bussare alla porta dei palazzinari». Pronti a ridiscutere il quanto, «tenendo ben presente che i finanziamenti sono stati già dimezzati», ad accelerate il ddl che ne garantisca trasparenza, ma contrari all’abolizione.
IL BRACCIO DI FERRO
Quanto all’incontro di martedì con il premier, il segretario si dice pronto anche «a derubricare la parola crescita che dà idea di riforme strutturali e politica industriale. Diamo un po’ di lavoro in giro, non per invertire la recessione, ma per limitarla». Una risposta immediata potrebbe essere l’allentamento del Patto di stabilità. «I Comuni non sanno che pesci prendere e con questo meccanismo non pagano gli stipendi come mi ha spiegato poco fa proprio Piero Fassino», avverte il segretario, mentre il sindaco di Torino prevede che «con la rateizzazione dell’Imu i Comuni non saranno in grado di chiudere i bilanci».
Sarà un vertice lungo e complesso, considerati i nodi da sciogliere, il segretario Pd andrà con le sue proposte e illustrerà i punti di caduta accettabili sulle questioni aperte, ma ad Alfano anticipa qualche titolo: «Voglio dirgli che neanche a me piace l’Imu e infatti noi avevamo una proposta diversa: un’Imu più leggera e una tassa sui grandi patrimoni immobiliari. Ne vogliamo parlare? Noi siamo pronti». E promette: «Quello che non ci hanno fatto fare adesso noi lo faremo dopo».
Imu e riforma del lavoro sono il terreno su cui si gioca il braccio di ferro tra i due maggiori partiti della “strana maggioranza”. Fibrillazioni nel Pdl dopo le dichiarazioni di Tiziano Treu e Cesare Damiano. Scintille quando Bersani affonda: «Chiedo a tutti noi di non accettare che la memoria si faccia troppo corta e che le cose vengano raccontate in modo diverso da come sono. Il governo Monti non è venuto dopo i partiti, è venuto dopo Berlusconi, e se noi siamo a questo punto è perché è stato il governo Berlusconi a portarci qui».
Troppo comodo per gli azzurri, «cercare di mettersi al riparo» in vista del 2013. «Politicamente siamo noi in una situazione piuttosto scomoda», ammette il segretario nel pieno delle mediazioni su riforma del lavoro e legge elettorale. «C’è malumore e sofferenza nel Paese che derivano da una doppia crisi, la più grave crisi economica dal ’29 e la più grave crisi di credibilità della politica dal ’92». E in questo humus, avverte, «sotto la pelle abbiamo di nuovo dei populismi in cerca d’autore e degli apprendisti stregoni che pensano di coltivare e fomentare l’antipolitica, pensando che via la politica arrivi comunque qualcuno in doppiopetto e garbato. Stiano attenti: non è così».
UNA LUNGA MARCIA
Di tempo non ce n’è molto: «Si deve intraprendere una lunga marcia di ricostruzione di una democrazia riformata», e non può essere soltanto un problema del Pd, riguarda tutti i partiti. «Ma noi non ci stiamo a che si mettano tutti nel mucchio». Sfida Alfano a portare fino in fondo le riforme e conferma la linea tracciata da Dario Franceschini: se entro maggio non si arriva all’approvazione in prima lettura al Senato «è evidente che non ci sono i tempi per la riforma costituzionale. Noi siamo per andare avanti, diciamo quale è il nostro punto di caduta, adesso lo dicano gli altri».
L’immagine che rimanda Cortona è quella di un partito che discute ma «è solido», come dice Franceschini. «Grazie a Dario e a Areadem perché lavorate lealmente per la ditta», sottolinea Bersani. E la ditta sa bene quale sia la vera battaglia da vincere: l’antipolitica.
Lo ribadiscono nei loro interventi, tra gli altri, anche Giuliano Amato, Pierluigi Castagnetti, Ettore Rosato, Piero Fassino. Riconquistare la fiducia degli italiani è importante tanto quanto vincere le amministrative.

l’Unità 15.4.12
Tensione tra Pd e Pdl sulla nuova legge elettorale


Il confronto tra Pd e Pdl sulla legge elettorale si è fatto in salita. Il presidente del Senato Schifani ha puntato il dito contro il capogruppo Pd alla Camera Franceschini (attaccato anche da Cicchitto), che ha proposto di prevedere un premio di maggioranza alle liste apparentate. Ipotesi bocciata da Schifani: meglio il premio ai partiti. Violante, tessitore paziente per conto del Pd, avverte il rischio di uno sfilacciamento della discussione e liquida come non necessarie le polemiche sul premio di maggioranza perché tra le altre ipotesi c'è anche quella che prevede di assegnarlo alle liste che abbiano indicato lo stesso candidato premier. Ma nel Pd c’è anche il sospetto che il Pdl voglia solo dilatare i tempi della discussione per arrivare a un nulla di fatto. Dice Finocchiaro: «Non accetteremo ritardi sulla legge elettorale».

l’Unità 15.4.12
Bene la trasparenza, ma i finanziamenti vanno ridotti
di Salvatore Vassallo


Chiunque capisce che le degenerazioni segnalate dai casi Lusi e Belsito, così come i dubbi legittimi e pesantissimi che generano nell’opinione pubblica, non si estirpano con la pubblicazione, assai opportuna, dei bilanci dei partiti su internet, se non c’è poi qualcuno tecnicamente capace e legalmente abilitato a verificare cosa c’è dietro quei numeri, e a sanzionare gestioni scorrette. È ugualmente certo che, fino a quando non verrà modifica la scandalosa legge 157 del 1999, la madre dei tesoretti amministrati da Lusi e Belsito, approvata a larghissima maggioranza sotto un Governo di centrosinistra, non ci potrà essere un vero e proprio controllo sulla correttezza destinazione dei soldi pubblici affidati ai partiti e dovremo convivere con l’ipocrisia di un "rimborso delle spese elettorali"largamente utilizzato per altri scopi.
È positivo, dunque, che la proposta avanzata da Pd, Pdl e Terzo Polo preveda la certificazione dei bilanci da parte di società di revisione indipendenti, come il Pd ha già stabilito dal 2008 nel suo Statuto. Ma è un po’ poco. Ulteriori controlli sarebbero affidati ad un organismo formato per due componenti su tre (il presidente della Corte dei Conti e il Presidente del Consiglio di Stato) da soggetti nominati in ultima istanza dal Governo. I presidenti delle Camere sarebbero poi chiamati, come teoricamente dovrebbe avvenire anche oggi, a sanzionare partiti di cui sono essi stessi esponenti di punta o partiti concorrenti. In entrambi i casi sarebbero in conflitto di interessi.
Nell’immediato, il minimo che si possa chiedere è un controllo sulla veridicità dei bilanci, a partire da quelli del 2011, come premessa indispensabile anche per riforme future.Ma allora l’organo chiamato ad esercitare il controllo deve avere effettivi gradi di separazione dalla politica. I suoi componenti dovrebbero essere scelti a sorte, con obbligo di turnazione biennale, tra i giudici contabili, come già previsto peraltro della legge 515/1993 per le spese elettorali.Tale collegio non dovrebbe però limitarsi a «visionare» la documentazione cartacea, ma dovrebbe essere messo in condizione di verificare la corrispondenza tra la documentazione e le prestazioni sottostanti. In caso di accertate falsità, lo stesso collegio dovrebbe poter stabilire consistenti decurtazioni ai finanziamenti, già sulla rata del “rimborso” prevista per luglio, che andrebbe quindi rinviata.
L’obiettivo principale del Pd deve tuttavia rimanere una organica disciplina giuridica dei partiti, in attuazione dell’Articolo 49 della Costituzione, che stabilisca requisiti di trasparenza dei bilanci e di democraticità interna, con norme di favore per le primarie, secondo le linee già tracciate dal progetto di legge C-4973 (Bersani, Misiani, Castagnetti, Vassallo). In tale quadro, sarebbe doveroso inserire anche una revisione della sciagurata legge 157 del 1999. Si può fare. Basta mantenere l’impegno già fissato dall’Ufficio di Presidenza della Camera di andare al voto in Aula su questa materia entro la fine di maggio.
Il finanziamento pubblico deve diminuire parecchio. Ma, soprattutto, non può essere dato a partiti integralmente finanziati con soldi pubblici o a «scatole vuote». Un’ampia letteratura politologica ha messo in evidenza da tempo un fenomeno diffuso in tutta europa, di cui l’attuale dibattito italiano è ben consapevole. La progressiva pubblicizzazione delle fonti di finanziamento spinge i gruppi dirigenti dei partiti a chiudersi in se stessi, a distaccarsi dagli interessi e dalle opinioni che devono rappresentare. Li sottrae al controllo diffuso dei militanti. Occore ristabilire un nuovo equilibrio che stimoli la partecipazione volontaria e solleciti i partiti ad aprirsi realmente alla società. Oggi la misura del
finanziamento pubblico è determinata dalla quota di voti validi ricevuti da ciascuno dei partiti ammessi al “rimborso”, dopo aver stabilito l’entità del fondo complessivo come multiplo di tutti gli aventi diritto, anche cioè di quelli che non votano. Si deve passare a mio avviso ad un diverso regime. La misura «massima» del co-finanziamento pubblico deve essere collegata al numero effettivo di voti ricevuti. La concreta erogazione, oltre ad essere condizionata ad una effettiva verifica della veridicità dei bilanci, nel senso di cui si è detto prima, deve essere riconosciuta come cofinanziamento, appunto, a fronte cioè di spese almeno per la metà coperte da fonti di entrata proprie. Secondo criteri di trasparenza e limiti che evitino l’invadenza degli interessi forti, premiando chi è in grado di raccogliere poco da molti, piuttosto che molto da pochi.

l’Unità 15.4.12
Ma a cavalcare la tigre antipolitica cominciò il Pds
di Emanuele Macaluso


Ho letto l’articolo di Alfredo Reichlin e capisco le sue fondate preoccupazioni per i caratteri che ha assunto la crisi economica e sociale che in Italia si è intrecciata con una spaventosa delegittimazione della politica. È anche vero che è in atto una campagna condotta dai grandi giornali (non solo dal Corriere della sera, ma anche da Repubblica e da quelli più “aggressivi”, come il Fatto quotidiano) in cui prevale lo scandalo (che c’è) e manca l’indicazione di una via d’uscita.
Io penso che un grande giornale è tale se indica strade alternative a quelle che critica con tanta asprezza, soprattutto nel momento in cui si dice che in discussione sono le istituzioni, la democrazia. Mettere tutti nello stesso sacco è un’affermazione futile ma devastante. Tuttavia, per capire quel che sta accadendo non occorre ricordare gli errori del Corriere di Albertini che attaccava Giolitti e si beccò Mussolini. Andiamo all’oggi e ricordiamo insieme quel che insieme abbiamo vissuto venti anni addietro, quando sulla scena politica e giornalistica c’era gran parte delle persone che sono ancora oggi sul palcoscenico. Mondo operaio ha pubblicato l’ultimo capitolo di un saggio del compianto Luciano Cafagna, «La grande slavina» (uscì nel mese di luglio del 1993), che inizia con queste parole: «La nostra democrazia sta correndo un rischio mortale». E dopo un’analisi di ciò che era successo negli anni dell’«allegro saccheggio» e dei mali accumulati, scriveva: «Oggi a tutti questi mali, però, sembra se ne stia aggiungendo uno più grande e più pericoloso: l’odio di se stessa. L’indignazione è grande e monta. Ma può agire in modo inconsulto. Stiamo attenti a non segare l’albero sul quale siamo seduti».
Sono parole che possono attagliarsi bene all’oggi. Ma attenzione alla data: nel 1993 il Pds faceva un’analisi del tutto diversa. C’era euforia, lo scontro a Roma tra Fini e Rutelli, a Napoli tra la Mussolini e Bassolino, a Palermo Orlando che non aveva avversari, a Torino il ballottaggio tra due esponenti della sinistra, Castellani e Novelli, a Venezia Cacciari e a Catania Bianco che vincevano senza problemi, e così a Messina e in Calabria: il «Partito dei sindaci». Il Pds alleato con la Rete di Orlando che avallava giustizialismo e antipolitica, ignorava che la Lega nelle elezioni del 1992, prima di Tangentopoli, aveva eletto 80 parlamentari e alzava il cappio in Parlamento. I grandi quotidiani come il Corriere, le Tv pubbliche e di Berlusconi quel cappio l’avevano allestito.
Non mi risulta, caro Alfredo, che il Pds abbia contrastato l’antipolitica, dato che nel 1994 Leoluca Orlando è alla guida con Occhetto dei «Progressisti» e si prepara ad accogliere Antonio Di Pietro come garante della legalità. La corruzione c’era e bisognava colpirla, ma la campagna assunse dimensioni e qualità tali da delegittimare la politica. In quel saggio Cafagna scriveva: «Non è mai successo che la distruzione provochi la ricostruzione». E ammoniva:«Bisogna riprendere il controllo. Prima che lo facciano personaggi poco raccomandabili». E i personaggi arrivarono: nel 1994 il Cavaliere benedetto, come ricorda Reichlin, dall’establishment. E in questi vent’anni i partiti veri, con una loro autonoma base politico-culturale e una strategia leggibile, non sono stati ricostruiti. I sistemi politici, scriveva Luciano, «non consistono soltanto in un metodo elettorale. E non sono abiti allineati in un armadio, fra i quali basti scegliere, tirando giù la gruccia giusta». A questo siamo oggi, nel 2012!
Ho ricordato il recente passato solo perché si proietta sull’oggi: siamo punto e a capo, con l’aggravante di una crisi economica devastante e di uno stress politico che ha costretto il Presidente della Repubblica a salvare il salvabile (se potrà essere salvato) ricorrendo al governo Monti. Reichlin chiede: «Perché la sola ipotesi che il partito di Bersani possa vincere le prossime elezioni sta creando tanta paura e tanta agitazione in un certo mondo?». Io invece dico: perché non dovrebbe crearne? E non penso solo, come Alfredo, al Corriere ma anche all’ing. De Benedetti che recentemente ha organizzato una manifestazione di una sua associazione, «Libertà e Giustizia», relatore Zagrebelsky, per dire che il loro candidato non è Bersani. I grandi gruppi di potere fanno il loro mestiere e hanno sempre cercato e cercano ancora di avere in mano anche la partita politica o di condizionarla. Il Cavaliere è stato battuto solo con Prodi, anche se poi con i suoi Ulivi e le sue Unioni è finita come sappiamo. Il problema, a mio avviso, sta nel fato che la sinistra italiana, per più motivi, non è stata in grado di riorganizzare un grande partito nell’Italia di questo secolo, come in tutti i Paesi europei, in grado di candidarsi alla guida del Paese definendo la sua autonomia e le sue alleanze. Il Pd è altra cosa.
Non è questa la sede per riaprire polemiche sul Pd, dato che oggi è l’unica forza consistente alternativa alla destra, ma il tema c’è tutto. L’antipolitica si combatte e si vince con la politica: se prevale la prima vuol dire che la seconda è debole. È su questo che bisogna ragionare.

il Fatto 15.4.12
Pd, 200 milioni dallo Stato e ai circoli solo le briciole
Solo una piccola parte dei rimborsi al partito locale
di Wanda Marra


Il circolo lo abbiamo dovuto chiudere. Non potevamo più permetterci l’affitto della sede”. Luigi Colacchi è il segretario del Circolo Pd del quartiere Monti a Roma. Cento iscritti, una delle tantissime realtà territoriali democratiche in giro per l’Italia. Quelle che una volta si chiamavano “sezioni”. Ovvero uno di quei luoghi deputati a militanti, iscritti o simpatizzanti che dovrebbe beneficiare dei milioni e milioni di rimborsi elettorali che arrivano al Partito democratico nazionale. Diceva ieri al Fatto il tesoriere Antonio Misiani: “Noi siamo un partito vero, che esiste tutto l’anno. E i rimborsi per le amministrative li trasferiamo sul territorio”. Due conti: nel 2010 e nel 2011 il Pd ha preso di rimborsi elettorali rispettivamente 60 e 58 milioni di euro. Di questi, per le regionali ne ha ricevuti circa 12 milioni annui. Dunque, solo un quinto dei fondi complessivi è destinato al territorio. Ancora Colacchi: “Mi hanno assicurato dalla Federazione di Roma che appena hanno i soldi, ci aiuteranno ad affittare un’altra sede. Fino ad ora avevano i debiti, e non hanno potuto”. Conferma Andrea Miccoli, segretario provinciale di Roma: “Ci arrivano 200 mila euro l’anno in due tranche dal partito nazionale. Ma i circoli sono 150: troppi perché possiamo aiutarli tutti”. Ma insomma, allora con questi soldi cosa si fa? “Vanno soprattutto per le spese della struttura del partito, per il personale: abbiamo 9 dipendenti. E poi i manifesti, i volantini”. Adesso, poi “va meglio. Prima abbiamo dovuto ripianare i debiti”.
BERSANI evidentemente ha le sue ragioni per ribadire in ogni sede che no, “i finanziamenti ai partiti non si possono cancellare” e che all’ultima tranche evidentemente non si può rinunciare, ma al massimo “si può rimandare”. Nonostante i 200 milioni ricevuti dal 2008 a oggi, i Democratici sono in bolletta. Solo che di questi soldi sul territorio arrivano sostanzialmente solo le briciole. Spiega Raffaello Badursi, segretario del Circolo storico della Bolognina (a Bologna, appunto): “Noi ci autofinanziamo. Con il tesseramento e con le feste dell’Unità, prima di tutto. Oltre a qualche donazione e a iniziative come quella della notte di Bologna”. Il circolo della Bolognina è uno di quelli ricchi: circa 300 tesserati e una tradizione che pesa. Ma il sistema è un po’ lo stesso ovunque: i circoli sostanzialmente si autofinanziano. Al massimo dall’alto (in questo caso, dalla federazione provinciale di riferimento) arriva qualche materiale, come i manifesti, un aiuto straordinario in casi estremi, o un contributo per le campagne elettorali. Per il resto, è più facile il contrario, ovvero che i circoli diano un aiuto finanziario al partito, di solito versando parte dei soldi ricevuti dal tesseramento. “Noi come Emilia Romagna riceviamo un milione e 200 mila euro l’anno - spiega Massimo Gnudi, tesoriere del Pd regionale - di questi 600mila rimangono al partito e 600mila vengono divisi tra le varie federazioni provinciali”. Direttamente dal territorio, ovvero dalle tessere fatte nei circoli, però, arrivano al partito regionale 150mila euro l’anno, 1 euro e mezzo a tessera. Ma insomma, la domanda è sempre la stessa, come si spendono questi soldi? “Noi abbiamo un bilancio complessivo di circa 2 milioni di euro (500mila ci arrivano dalle quote versate dagli eletti). Il 36-37 per cento va sul territorio, il 30 per cento per l’attività politica più propriamente detta, il 30 per cento per il mantenimento della struttura del partito regionale, gli affitti e via dicendo”. LA PIRAMIDE dei soldi è discendente, e via via si restringe: dallo Stato arrivano al partito centrale, dal partito nazionale alle federazioni regionali, poi alle provinciali. E alla fine (forse, se proprio non se ne può fare a meno) qualche briciola arriva direttamente sul territorio, ai circoli. Dice Giulia Urso di un altro circolo storico, quello di via de’ Giubbonari a Roma: “Noi soldi non ne riceviamo. D’altra parte, siamo un circolo ricco: i nostri tesserati a volte sono molto generosi. Ma siamo certi che se ne avessimo bisogno, qualcosa arriverebbe”. Intanto, qualcosa va: “Noi tra le feste, le quote che ci arrivano dai nostri amministratori e le tessere ce la caviamo bene - racconta Emanuele Bugnone del circolo di Rivoli (provincia di Torino) - ma una parte dei soldi la diamo al provinciale. Cinque euro per ogni tessera”. I partiti “veri” funzionano così.

La Stampa 15.4.12
Bersani: “Riduciamo i rimborsi ai partiti Ma basta populismo”
«Non cederò all’antipolitica e a chi vuole mettere tutti nello stesso mucchio»
Il segretario Pd: “Già nel 2015 verranno dimezzati e le quote saranno più basse di Francia e Germania”
di Carlo Bertini


Io sono disposto a inserire nella norma sulla trasparenza non solo il congelamento dell’ultima tranche di luglio, ma anche una riduzione dei rimborsi. Ma bisogna pur dire che il dimezzamento dei fondi ai partiti è stato fatto e che nel 2015 arriveranno a essere la metà, 145 milioni di euro rispetto ai 285 e passa del 2008. Per me va bene fare ancora di più, ma se non mettiamo tutti un argine a questa ondata di antipolitica non basterà neanche questo». Di fronte alle pressioni che montano fuori e dentro il suo partito, dove personalità come Fassino, Fioroni o Castagnetti chiedono di battere un colpo subito, Pierluigi Bersani capisce che è il caso di rompere gli indugi e ammette che l’entità delle risorse ai partiti va ridotta. Ma non si spinge a seguire la Lega e l’Idv nella rinuncia alla quota annuale che i partiti dovrebbero incassare a breve. Il segretario del Pd non lo può dire chiaro e tondo, ma ci pensa il tesoriere Antonio Misiani sul Fatto Quotidiano ad ammettere che in pratica quei fondi sono già impegnati, che il partito ha un disavanzo di 43 milioni di euro e senza quei soldi «chiuderebbe» i battenti. Il timore non detto invece è non avere mezzi adeguati per affrontare la campagna elettorale del 2013 ed è questo a sconsigliare le rinunce che altri possono permettersi di sbandierare.
E’ ben consapevole Bersani che dopo gli ultimi scandali nel paese monta l’indignazione, che la gente arriva a minacciare di non pagare l’Imu fino a quando non verranno asciugate le casse dei partiti. E prima di dire la sua al convegno di Cortona, in privato si sfoga «perché lo so bene che ci sono queste spinte qui, vado in giro e mi dicono le stesse cose. Ma non c’è modo di frenarle se non con un processo collettivo. E sono pure pronto a rispondere ok, tagliamo ancora i nostri fondi, ma prima voglio che qualcuno mi dica ben chiaro se il concetto di democrazia va tutelato o no».
Forse sarebbe il caso di ammettere che i cosiddetti rimborsi elettorali in realtà sono usati anche per mantenere le strutture dei partiti, sedi e dipendenti, tutto l’anno? «E’ vero, bisogna chiamarli col loro nome, finanziamento pubblico e dire che serve per garantire una vita ai partiti e alla democrazia». E se gli si fa notare che con quei cento e passa milioni di euro della famosa ultima tranche di luglio si potrebbe magari reintrodurre il tempo pieno nelle scuole materne, il leader Pd si rabbuia. Perché se si vogliono usare argomenti del genere, reagisce, «anche con le liquidazioni d’oro di dieci supermanager si potrebbero fare tante cose utili. Ma qui il rischio è che entro sei mesi ci troveremo di fronte ad un bivio tra nuove forme di populismo e una riscossa civica che porti tutti, tutti, cioè politica, classe dirigente, commentatori e pubblica opinione, a stabilire la difesa di certi valori. Capisco che ciò vuol dire andare controcorrente, ma non cederò all’antipolitica e non ci sto che i partiti vengano messi tutti nello stesso mucchio».
E se in privato se la prende con le campagne dei media che cavalcano la rabbia popolare, davanti ai dirigenti di AreaDem, Bersani articola così le sue paure: «Viviamo la più grave crisi economica dal 1929 ad oggi e la più grave crisi della politica dal ‘92 ad oggi, tutte e due assieme. E badate che la tecnocrazia non può interpretare l’antipolitica in modo sanguigno. Qui ci sono populisti in cerca d’autore e apprendisti stregoni che credono di fomentare l’antipolitica, ma se pensano che dopo arrivi qualcuno in doppio petto si sbagliano. Da qui al 2013, o si rilanciano forme larvatamente populistiche o si intraprende una lunga marcia per ricostruire l’unità del paese. E noi non gonfieremo le nostre vele con un vento cattivo che non porta sulla buona rotta».
Ma dovendo dare qualche segnale tangibile su un tema così sensibile, il segretario Pd delinea questo percorso: «Partiamo con i controlli dei bilanci, i nostri sono già trasparenti, e al tempo stesso ragioniamo su forme e quantità dei finanziamenti, ma dentro un quadro di compatibilità con la vita dei partiti. Possiamo darci due mesi di tempo e usare la legge sulla trasparenza dove inserire anche due o tre articoli sulla democrazia interna dei partiti, per attuare già in quella sede pure l’articolo 49 della Costituzione. Ma oltre a fare presto, va raccontata la verità: il dimezzamento dei fondi è già in corso e a regime la quota pro-capite sarà più bassa che in Francia e Germania». E per rispondere indirettamente a Fini, Bersani chiude ai fondi privati, perché «ad una politica che si finanzi andando a battere cassa a grandi manager ed ereditieri io dico no e poi no».

Corriere della Sera 15.4.12
Imprenditori in crisi. La catena di suicidi
Gruppi d'ascolto e psicologi in rete I pionieri solidali
di Dario Di Vico


All'Istat sono molto cauti e invitano a non fare di tutt'erba un fascio. Di sicuro le evidenze della cronaca portano a dire che in Italia già durante il 2011, ma ancor più nei primi mesi del 2012, si è registrato un preoccupante incremento dei «suicidi economici». Le storie, anche sommarie, che vengono dai luoghi delle disgrazie sono monocordi nella loro drammaticità. Parlano di aziende indebitate, di pagamenti che non arrivano, di posti di lavoro persi e più in generale di un senso di esclusione e fragilità che conduce a scelte dissennate. Separare poi le cause «pubbliche» da quelle private, scindere la condizione socio-economica da quella riconducibile a traumi avvenuti nell'ambito della vita familiare è un'operazione estremamente difficile.
L'Istat usa nelle statistiche sul movente la categoria di «suicidio economico» e gli ultimi dati disponibili riferiti all'anno 2010 ne contano 187 su un totale di 3.048, appena il 6%. La causa principale dei decessi auto procurati restano le malattie fisiche o psichiche, ma è anche vero che un 30% abbondante delle morti resta classificata con «movente ignoto o non indicato» a conferma delle difficoltà che la statistica ufficiale trova in un campo così delicato. Complessivamente il numero dei suicidi in Italia è stabile (già nel 2006 erano 3.061) e non è stato influenzato dai primi anni della crisi. Nel 2009 addirittura era leggermente sceso (2.986). Quella che evidentemente è cambiata nel frattempo è la notiziabilità dei suicidi economici che visto lo spirito del tempo si impongono all'attenzione dell'opinione pubblica e dei media in maniera molto più forte che in passato.
Se gli statistici invitano alla prudenza nel sottolineare l'esplosione del fenomeno, gli psicologi mettono in guardia dai meccanismi di emulazione che sono inevitabilmente connessi ai suicidi. La gravità della crisi e in qualche maniera la condivisione sociale del drammatico gesto possono funzionare da volano, convincere gli indecisi a indossare il vestito di una morte, a suo modo, eroica. Meglio, dunque, circoscrivere il campo, maneggiare con cura i numeri ed evitare di strumentalizzare le vittime per polemizzare con l'avversario politico o con il sistema bancario. Per motivare la gravità della recessione, la profondità delle sue ricadute sociali e gli errori delle classi dirigenti non c'è bisogno di forzare il conta-suicidi, basta leggere con attenzione i bollettini (di guerra) delle associazioni imprenditoriali e dei sindacati. È evidente, comunque, come la percezione del disastro economico nel giro di pochi mesi sia profondamente cambiata. I sondaggisti non si stancano di raccontare come solo fino al luglio 2011 gli italiani si dichiarassero pessimisti sul futuro dell'Azienda Paese, ma tutto sommato convinti che personalmente se la sarebbero cavata. Adesso non è più così, il velo delle illusioni si è diradato ed è subentrato un cupo realismo.
Accanto alla contabilità dei drammi è però scattata lodevolmente un'attività di prevenzione che si sta allargando un po' in tutto il Paese, in special modo al Nord. La prima iniziativa è stata quella di Terraferma che su spinta dell'imprenditore Massimo Mazzucchelli ha coinvolto un gruppo di psicologi in funzione di pronto soccorso degli artigiani e commercianti in difficoltà. A Padova si era già sperimentata lo scorso anno la strada del telefono amico e si è tornati a costruire iniziative di prevenzione e solidarietà. Qualcosa del genere hanno fatto anche la Confartigianato di Asolo-Montebelluna e la Cna di Modena ed è significativo che dopo il Veneto si siano mosse anche le associazioni emiliane a sottolineare come la crisi stia uniformando le reazioni anche in contesti socio-politici molto differenti tra loro. Per dirla in poche parole il rischio-suicidio non sussiste solo nel Veneto degli «sghei», ma anche nell'Emilia rossa e coesa. È ancora presto per verificare l'efficacia sul territorio di queste iniziative pioneristiche, ma è importantissimo che si propaghi l'eco della solidarietà, che all'imprenditore depresso arrivi il messaggio di un'antropologia positiva in movimento.
È chiaro che un'azione di supporto e di accompagnamento si deve saldare con l'attenuazione di alcune delle cause principali della depressione dei Piccoli. Il rapporto con il sistema bancario è ancora squilibrato, i grandi clienti non devono fare anticamera e escono soddisfatti, ad artigiani e commercianti il credito viene quantomeno lesinato. Il governo sembra avere preso l'iniziativa e il 19 ci sarà un incontro tra il ministro Corrado Passera e i vertici dell'Abi. Lo seguiremo. Quanto all'altro grande tema, quello dei mancati pagamenti della pubblica amministrazione, è stato annunciato un passo in avanti nella formulazione di una soluzione-ponte. L'attesa è stata già lunga, sarebbe meglio non protrarla. Il Paese è in sofferenza e questa verità non può essere negata da nessuna statistica.

il Fatto 15.4.12
A volte ritornano
Velardi & Rondolino: un giornale modello Marchionne
di Fabrizio d’Esposito


Comunisti, dalemiani, riformisti, adesso libertari senza frontiere tra destra e sinistra. La parabola di Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino, i due più noti consiglieri-lothar (per il cranio senza chioma) di D’Alema premier, vira verso approdi americani, laddove il politologo Charles Murray esalta i Padri fondatori degli Stati Uniti per “i limiti al potere del governo centrale e la tutela dei diritti individuali”. La loro prossima avventura sarà infatti mandare in edicola e sul web entro l’anno un quotidiano chiamato “Il Libertario”.
Da tempo sia Velardi sia Rondolino sono in stretto contatto con la destra berlusconiana. Il primo ha curato la campagna elettorale per la governatrice del Lazio Renata Polverini (che ha anche nominato Velardi nel cda del Maxxi) e alle amministrative di Napoli ha fatto il tifo per Gianni Lettieri, l’avversario di Luigi De Magistris. Il secondo, Rondolino, scrive tra l’altro per il “Giornale” edito da Paolo Berlusconi. Guai però a ricordarglielo. Contesta Rondolino: “Per favore non scrivere che siamo di destra. Non è vero. Destra e sinistra sono categorie del Novecento. Noi vogliamo unire le due parti della mela: la libertà economica tipica della destra e la difesa dei diritti civili tipica della sinistra”. Propositi alti che però si scontrano con il Paese reale. Dice Velardi: “Sarà un’operazione di nicchia, ovviamente. Possiamo aspirare a cinque-diecimila copie. Costerà un milione all’anno e vogliamo raccoglierne almeno tre. Sempre se ci riusciamo”. E qui arriva il Velardi che non ti aspetti, già editore del “Riformista” che incamerava soldi pubblici. Una volta il modello giornalistico era il “Foglio” di Giuliano Ferrara. Adesso è il “Fatto Quotidiano”: “Nel nostro piccolissimo vogliamo fare come voi del ‘Fatto’. Sia dando notizie, e non solo opinioni, sia rifiutando ogni finanziamento di Stato. Vogliamo camminare con le nostre gambe attirando imprenditori privati, vendendo copie, facendo la raccolta pubblicitaria. Se il mercato dirà di no, chiuderemo, su questo non c’è dubbio”. Al momento, un industriale già c’è ma il nome non lo vogliono fare: “Non è uno noto, insomma non è un Benetton o un Della Valle”.
Il Libertario sarà di otto o dieci pagine, formato tabloid, e assomiglierà a una “gazzetta ottocentesca”, solo parole, senza immagini. Rondolino è il direttore in pectore e Oscar Giannino, liberale berlusconiano, potrebbe affiancarlo. In redazione dieci giornalisti, compresa la direzione, ma ancora non si sa con quale contratto: “Noi siamo contro il principio fascista dell’ordine dei giornalisti, per cui può scrivere solo chi ha il tesserino rosso. Stiamo studiando la cosa. La redazione lavorerà al giornale di carta e al web. Vogliamo unire l’autorevolezza del primo ai vantaggi del secondo”. Politicamente c’è un’altra sorpresa. Sostiene Velardi: “Questo sistema fa sempre più schifo, non regge più. Noi siamo come voi del Fatto, come i grillini, come i No Tav. Siamo incazzati per come siamo messi in questo Paese, solo che andiamo in un’altra direzione”. Aggiunge Rondolino: “La politica sarà sempre fatta da farabutti, noi vogliamo coltivare spazi di libertà in questa società. Anche Monti ha deluso, con le sue finte liberalizzazioni. Questo è il governo delle tasse e basta”. Sorpresa fino a un certo punto, però. Si corregge Velardi, lobbista e comunicatore con sede un tempo a Palazzo Grazioli, dove abita Silvio Berlusconi: “Se dopo le elezioni del 2013 ci sarà la Grande Coalizione questo è un altro paio di maniche”. Appunto. Del resto Velardi fu lo spin doctor del Dalemoni, l’inciucio tra Berlusconi e D’Alema nella famigerata Bicamerale.
Già, Berlusconi. Dicono i due in coro: “Ma chi se ne fotte più di Berlusconi, non è mai stato un vero liberale e oggi i problemi del Paese sono altri”. E D’Alema? Risposta: “La stima e l’affetto sono intatti. Fare i dalemiani, nel 1996, è stata una figata pazzesca, Massimo era l’unico leader che poteva cambiare l’Italia e non c’è riuscito. Oggi è di nuovo socialista, se non neocomunista. Noi siamo libertari”. Sul loro sito, “The Front Page”, Velardi e Rondolino hanno già annunciato il loro progetto, maturato in un ristorante cinese alle spalle di Palazzo Grazioli. I commenti, per ora, sono solo 47, compresi quelli postati da chi chiede dove inviare il curriculum.

l’Unità 15.4.12
La politica può rinascere se combatte con le idee il dominio della finanza
La fine del compromesso tra capitalismo e democrazia ha aperto la strada a un liberismo in cui il mercato è regista e la politica va tenuta nell’angolo. Per questo occorre rilanciare la sfida del governo democratico e della «ragione pubblica»
di Nadia Urbinati


Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche in cui le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.
Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché, invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione (...).
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole (...). A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a «mai dire mai». Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla. La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.
Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica (...)
E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro Paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettorali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli).
In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo. Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee (...).
Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i Paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica (...).
La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come Paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda «chi» vota, ma «dove» si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun Paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovranazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? (...).
Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro Paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale.
Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, né avverrà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei Paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.

l’Unità 15.4.12
Italianieuropei
Sul prossimo numero articoli di D’Alema, Fassina e Visco


L’articolo integrale di Nadia Urbinati di cui in queste pagine pubblichiamo ampi stralci sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista Italianieuropei, in edicola e in libreria da mercoledì prossimo, 18 aprile. La rivista sarà aperta da un editoriale di Massimo D’Alema, intitolato «A cosa serve la politica», e conterrà, tra gli altri, i contributi di Stefano Fassina («Il Pd e il governo Monti»), Vincenzo Visco («Evasione fiscale e lotta all’evasione in Italia»), Enrico Rossi («Il territorio protagonista: il caso della Toscana»), Giancarlo Bosetti («La politica oltre la manutenzione delle preferenze»).

il Fatto 15.4.12
La rabbia cieca dei mercati
di Furio Colombo


La frase di premonizione e di preannuncio è stata pronunciata (non sappiamo a nome o per conto di chi) dal signor Ordonez, governatore della Banca di Spagna: “La marcia indietro nella riforma del lavoro in Italia è motivo di ansia profonda”. Improvvisamente, martedì dopo Pasqua, il mercato, insoddisfatto e rabbioso, ha dato un feroce colpo di coda e ha abbattuto una parte notevole della ricchezza in compravendita nelle Borse del mondo. In Italia (Paese più a rischio di altri per questi colpi di rabbia, perché ha appena ricominciato una cauta e graduale ricostruzione del suo dissesto di conti e di debiti) se n’è andato via ogni vantaggio faticosamente conquistato, con sacrifici gravi, da molta gente spaventata e ubbidiente. Segno vistoso di vergogna, di fronte al mondo: lo “spread” (ovvero la differenza fra il valore dei nostri bond, o titoli di Stato, rispetto a quelli tedeschi) è subito cresciuto a nostro danno. Ci sono state e ci sono mobilitazioni, cortei, assemblee e appelli per cambiare le decisioni del governo tecnico.
DICHIARAZIONI di opposizione, ma non la fine del mondo. Questo preoccupa: non hai neanche il tempo di formulare la protesta che giunge, imperioso, violento e cieco, lo spintone del mercato che butta giù, più o meno, tutto il castello di carte, leggi, dispositivi e regolamenti proposti dal governo dei tecnici e approvati subito, all'unanimità, da un Parlamento che non discute niente e vota tutto. La risposta brutale è che non va bene, non ci siamo, non basta. La risposta di chi? Stiamo vivendo in una fase oscura nella quale un governo pulito e presumibilmente competente cerca di fare il lavoro giusto e quel lavoro non è lieto perché si tratta di pagare debiti radicati nel passato e cresciuti storti, con inclinazioni pericolose. Naturalmente, come accade nella storia, pagano cittadini che non c’entrano, come chi si assume il peso della ricostruzione dopo una guerra che non ha fatto e non ha voluto.
C'È LA PROTESTA e lo scontento e il senso di ingiustizia e la misura di pesi che appaiono sproporzionati. Ma non è il peggio. Il peggio è camminare sulla sabbia in cui ogni nuova regola o sacrificio sembrano ogni volta dissolversi. Un padrone lontano deride, sgrida, condanna, vuole di più. L'impressione è che vi siano entità (governi, gruppi di governi, alleanze, banche internazionali) che non sono in contatto se non a fatti avvenuti, e solo nella mitica arena del “mercato”. Dunque le domande più ansiose e più urgenti vanno fatte qui. Non al mercato, inteso come Borsa valori, che comunque non si rivela e non risponde, se non con momenti strani e a volte inspiegabili di euforia, o con la rabbia distruttiva che sta scatenando anche in questi giorni. Le domande riguardano il mercato visto come sconosciuto luogo di decisione finale.
1 - Come può un governo locale confrontarsi con un mercato globale e tentare di soddisfarlo con risorse e soluzioni locali? Per esempio chi, quando, perché ha stabilito che esiste un solo tipo di percorso per entrare e uscire dal lavoro (flessibile, privo di protezioni) pena una pesante multa all'economia di tutto un Paese, se solo ti discosti dal modello?
2 - Un governo tecnico disegna risposte tecniche. È inevitabile che riceva, dai cittadini e dal Parlamento, risposte politiche. La risposta politica – anche se rigettata – resta qualcosa per cui battersi e da difendere, come fa Obama contro la guerra finanziaria alla riforma sanitaria nel suo Paese. Il gioco da giocare, invece sembra essere un dare e avere e correggere dati tecnici in cerca di un consenso comunque consigliato per uscire dalla crisi.
3 - Perché il mercato quando è in debito non paga (le gravissime perdite subìte dagli investitori del mondo a causa della crisi americana dopo la fine di Lehman Brothers), ma quando è creditore si mangia la Grecia? Perché tanto squilibrio fra la potenza dei creditori e la resa obbligata e continua dei debitori? 4 - Che cos’è esattamente la “speculazione” e come si distingue dall'inesorabile (e accettato come giusto) giudizio dei mercati in caso di condanna di una politica, di una legge, di un governo?
5 - Perché i governi accettano pene inaudite per soddisfare un dio senza volto di cui non si conoscono i comandamenti (se non per le profezie dell’estrema destra economica internazionale, già verificate come false) e perché tutti paghiamo un debito globale (ovvero ogni debito diventa globale) senza che vi sia alcun credito globale, o un progetto di occupazione globale o di assicurazione globale o di governo globale?
6 - Noi non amiamo i terremoti e le inondazioni perché hanno fatto e fanno danni terribili. Perché allora tanto rispetto e autorità di legittimo governo attribuiti al mercato, che di danni, sprechi, immiserimenti, consumazione di ricchezza, ne ha fatti molti di più? Perché non lo consideriamo un fatto della vita, a volte da contrastare e respingere, invece del continuo, umile inchino che si tributa sempre, come a chi non può sbagliare?
Non ho le risposte a queste domande, ma penso che da queste domande si debba cominciare per non cadere in preda alla disperazione o a una strana fede.

l’Unità 15.4.12
Intervista a Lucrezia Reichlin
«L’Europa si muova. Il rigore è necessario ma non è la soluzione»
La docente alla London Business School:
«I cittadini Ue non vogliono condividere il rischio, nessun partito se la sente di sfidare questo sentimento. Così, addio euro»
di Bianca Di Giovanni


Dall’Europa continuano a giungere segnali inquietanti. L’ultimo allarme della Bce ha riguardato il lavoro. Quanto ai mercati, le tensioni restano alte. Cosa si è sbagliato? Ne parliamo con Lucrezia Reichlin, docente di economia alla London Business School.
L’Europa non esce dal tunnel della crisi. Quali errori sono stati fatti? «L’Europa ha difficoltà ad uscire dalla crisi per errori passati e recenti. Per il passato si è sottovalutato l’effetto sulla stabilità della zona euro della combinazione di tre fattori: integrazione finanziaria, un sistema bancario mal regolato e una mancanza di coordinamento tra le politiche macroeconomiche dei paesi dell’Unione. La crisi internazionale è arrivata dall’esterno ma ha reso palese la fragilità di un sistema in cui le banche del nord favorivano flussi di capitale verso il sud che andavano ad alimentare bolle speculative. La crisi ha inoltre dimostrato che le istituzioni europee non avevano gli strumenti per fronteggiare lo stress finanziario date le restrizioni sul mandato della Bce, la mancanza di strumenti di garanzia del debito al livello europeo e la decentralizzazione delle politiche di bilancio. Su questo si sono aggiunti gli errori nuovi e la lentezza in cui tutti, a parte la Bce, si sono mossi. In mancanza di altri strumenti non è rimasta che la via dell’aggiustamento rapido di bilancio che ha effetti prociclici e ci porta in un circolo vizioso di politiche restrittive, approfondimento della recessione e peggioramento della sostenibilita del debito».
Troppo rigorismo?
«Il rigore è necessario, ma se l’Europa avesse avuto istituzioni federali di garanzia del debito si sarebbe potuto rendere l’aggiustamento più graduale. Questo avrebbe permesso a Paesi come l’Italia che ha un problema di liquidità e non di solvibilità di spalmare l’aggiustamento su più anni».
Hollande promette che punterà sulla crescita, stessa cosa dice Monti. Eppure il Pil va sempre più indietro. Promesse impossibili?
«Io credo che ci debbano essere iniziative in questo senso anche a livello europeo e qualcosa si sta muovendo, ma forse è troppo tardi. Al fondo c’è un problema politico: i cittadini europei non hanno nessuna voglia di condividere il rischio e nessun partito se la sente di sfidare questo sentimento. Si sta vedendo un arretramento del progetto dell’euro invece che un suo approfondimento».
La Bce ha dato risorse alle banche, ma le imprese restano a secco. Non era prevedibile che gli istituti utilizzassero quelle risorse per operazioni di consolidamento dei propri bilanci?
«Le operazioni della Bce hanno salvato il sistema bancario dalla catastrofe e questo non si deve sottovalutare. La Bce si è sostituita al mercato e, divenendo intermediaria lei stessa, ha permesso alle banche di colmare un gap tra prestiti e depositi in una situazione in cui si chiede alle banche di migliorare la loro situazione patrimoniale. Non si può chiedere alle banche di rafforzare i loro bilanci e poi chiedergli di esporsi sul credito soprattutto in una situazione in cui, data la congiuntura, il rischio è molto alto».
Vuole dire che non si poteva fare altro per favorire il credito?
«La Bce ha l’obiettivo di aumentare la liquidità, non di risolvere i problemi di politica industriale. Se una banca centrale non interviene in questi casi si rischia la paralisi del sistema finanziario. Se poi le banche prestano o no denaro è una questione molto più complessa, che dipende da diversi fattori, ma certamente se devono raggiungere ratio patrimoniali più rigorose automaticamente si riducono gli impieghi. Questo sul lato dell’ offerta. Su quello della domanda bisogna considerare che c’è la recessione, e che non tutti ce la fanno a reggere. È vero che ci sono le piccole imprese “strozzate” dai debiti, ma non è detto che queste debbano sopravvivere a tutti i costi. Le banche hanno il compito di valutare la solidità della controparte, altrimenti si esporrebbero a rischi che avrebbero effetti nefasti sull’economia. Tenere in vita imprese in dissesto e l’errore che ha fatto il Giappone negli anni novanta e non ha certo dato buoni risultati. Consideriamo anche che nell’aggregato il risparmio delle imprese, a differenza di quello delle famiglie è aumentato. Questo ci fa capire che il problema non è l’offerta di credito ma la domanda. Certamente è un dato aggregato, e questo non esclude criticità sul credito per alcuni, ma non è sempre così». Il rischio Spagna è concreto? «Certo, ma è un problema di liquidità che dobbiamo evitare diventi un problema di solvibilità. Questo succederà se la risposta al livello europeo non sarà decisa. Il fondo salva-Stati è insufficiente. Speriamo nella Bce».
La Grecia è definitivamente fuori dal rischio default?
«No ed e questo che sta prezzando il mercato. La Grecia non è solvibile».
Che rapporto c’è tra liquidità e solvibilità?
«Si può essere solvibili, ma non liquidi, e in quel caso basta un prestito per superare il problema. Ma se i tassi sono molto elevati la illiquidità diventa facilmente insolvibilità. A tassi elevati e in una situazione di crescita negativa o modesta, il debito non è più sostenibile, cioè il rapporto debito-pil aumenta nel tempo. Per questo è decisivo che le autorità europee dicano chiaramente che sono pronte a intervenire finché i tassi non si abbassano. Questo avrebbe un effetto sulle aspettative e quindi sui tassi. Lo dovrebbe fare la Bce, che però non ha il mandato per farlo».

l’Unità 15.4.12
Intervista a Max Gallo
«La Francia può essere il perno di un’alleanza che spodesti Merkozy»
Lo storico: «Hollande mi ricorda Mitterrand: vuole unire invece che dividere Però di fronte all’inquietudine del Paese deve ancora fare un salto di qualità»
di Umberto De Giovannangeli


Nell’opinione pubblica francese è diffuso, e trasversale, un profondo senso di inquietudine, di incertezza per il futuro e di paura del presente. È un disagio che va oltre l’aspetto sociale per divenire esistenziale. C’è un bisogno di certezze, di rassicurazioni, a cui i programmi dei due maggiori candidati all’Eliseo non danno risposte adeguate o comunque percepite come tali». A sostenerlo è Max Gallo, storico, biografo, romanziere di fama internazionale, seggio numero 24 all’Académie française. Gallo è stato anche portavoce del governo socialista Mauroy, nel primo settennato all’Eliseo di François Mitterrand. Professor Gallo, come valuta la campagna presidenziale entrata in una fase cruciale?
«È una campagna contraddittoria. Segnata fortemente da una grande attesa, fatta di inquietudine e speranza, a cui però non corrisponde una proposta all’altezza da parte dei due maggiori candidati all’Eliseo, Nicolas Sarkozy e Francois Hollande. La Francia è stretta in un angolo, l’opinione pubblica è consapevole che occorre cambiare e cambiare qualcosa di importante; al tempo stesso, è diffuso un senso di incertezza e di paura perché si avverte che i costi del cambiamento possono essere, saranno alti. Non è più il tempo di operazioni di maquillage politico, di una retorica che si limita a enunciare principi astratti senza poi farli calare nella realtà. Ecco, se da storico dovessi sintetizzare lo spirito della Nazione in questa fase, metterei in evidenza l’inquietudine, la paura per il futuro e un mix di preoccupazione e aspettativa rispetto ai cambiamenti necessari per togliere la Francia dall’angolo».
Lei parla di risposte non all’altezza da parte dei due candidati più accreditati. Può fare un esempio di questa inadeguatezza?
«In una recente intervista televisiva, al giornalista che chiedeva loro quale misura avrebbe preso immediatamente, una volta “conquistato” l’Eliseo, Hollande ha risposte che avrebbe diminuito il salario del Presidente, del Primo ministro e dei membri del governo. Una misura che certo ha un forte valore simbolico ma che è ben poca cosa a fronte del 1.700 miliardi di euro di debito della Francia. Quanto a Sarkozy, ha balbettato che avrebbe modificato il giorno di erogazione delle pensioni... Un esempio, per dire della difficoltà dei due candidati a parlare il crudo linguaggio della verità”; una difficoltà che racconta il gap esistente tra la portata del cambiamento necessario per uscire dalla crisi e le risposte fornite da Hollande e Sarkozy. Siamo ancora in attesa di un salto di qualità».
Guardando più da vicino i programmi dei due maggiori candidati alla Presidenza, quali sono, a suo avviso, i tratti peculiari, caratterizzanti della visione di Hollande e di quella di Sarkozy? «Quello di Hollande è un programma in linea con la tradizione e la cultura politica socialdemocratica; un programma che non indica una prospettiva rivoluzionaria, ma che punta a una ricetta “keynesiana” aggiornata ai tempi. Hollande punta a rilanciare la spesa pubblica finalizzandola alla creazione di 150mila nuovi posti di lavoro. Un impegno nobile, ma si fa fatica, come rilevano autorevoli economisti, a credere che per realizzare questo programma sia sufficiente, come indica Hollande, puntare su una fiscalità più dura per i “ricchi”. Una indicazione carente soprattutto se rapportata alla scommessa di Hollande: innalzare la crescita economica del 2% in due anni...».
E Sarkozy?
«Il suo programma è alquanto lacunoso sulle misure necessarie per rilanciare la crescita, laddove Hollande mette l’accento facendo di questo, della crescita”, un punto di forza, di identità. Sarkozy, invece è più puntuale nell’indicare gli interventi a suo avviso necessari per contenere il costo del lavoro».
Professor Gallo, è possibile azzardare una previsione su chi vincerà la corsa all’Eliseo?
«Gli ultimi sondaggi concordano nel dare Hollande in vantaggio al primo turno e favorito nel ballottaggio. Se ci si affida ai sondaggi, la vittoria del candidato socialista non è in dubbio. Ma la sorpresa è sempre possibile. Lo stesso Hollande ne è consapevole e per questo mantiene un profilo prudente, evitando toni trionfalistici. D’altro canto, Hollande si vuole rassicurante, un politico che unisce invece di dividere. È una scelta, ma credo che faccia anche parte del suo temperamento. E lo dice uno che l’ha conosciuto e visto all’opera da giovane: è stato il mio direttore di gabinetto quand’ero ministro. Era giovanissimo: 26 anni. Era preparatissimo ma, ed è l’unico appunto che potevo fargli quando lavorava con me, mostrava un’abilità manovriera perfino eccessiva per un giovane». Quale immagine di sé sta dando in questa campagna elettorale la “gauche”? Mi riferisco in particolare ala campagna di Jean-Luc Melanchon, il candidato all’Eliseo del Front de Gauche.
«Vede, nella storia di Francia, direi a partire dal 1793, dalla Rivoluzione dei Lumi, è sempre esistito uno spazio, più o meno vasto, per una sinistra-sinistra, radicale, estrema. Questo spazio politico è stato coperto per mezzo secolo dal Pcf. Ora è la volta di Melanchon, che dà corpo ad una realtà, quella di una sinistra radicale, profondamente inserita nella storia nazionale. Per questo ritengo che il Front de Gauche sarà presente, non in un’ottica residuale, nella vita politica francese, e questo anche perché Melanchon ha dato vita ad una campagna abile, sia dal punto di vista mediatico che nel puntare con decisione su un principio caro alla sinistra: quello di “egalitè”. Melanchon lo assolutizza e così facendo intercetta un pezzo di elettorato gauchista che non è attratto dal “pragmatismo” riformista di Hollande».
Per restare a Hollande, in una intervista di non molto tempo fa, lei ha sostenuto che c’era in lui qualcosa che le ricordava Mitterrand. Cosa in particolare?
«Esteriormente, una certa gestualità e il modo di parlare. Nella sostanza, il suo profondo legame con il territorio e la volontà praticata di mantenere il contatto con la gente, con il mondo reale».
Quanto può pesare il voto francese in chiave europea?
«Può avere un peso reale, un peso importante. Finalmente in Europa c’è consapevolezza della portata della crisi: il 10% di disoccupati, la crescita che non c’è, il rigore e l’austerità che sono premessa ineludibile di un disegno di uscita dalla crisi che non può, per l’appunto, esaurirsi con le sue premesse. Qualcosa però sta germinando e la Francia può fare la sua parte e candidarsi a un ruolo nuovo, ambizioso...».
Di quale ruolo si tratta?
«Quello di diventare il perno propulsore di un asse del Sud Europa, con Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. Un’alleanza in grado di bilanciare la potenza della Germania. Il che significa rimettere in discussione la linea del “Merkozy”, l’alleanza stabilità da Sarkò con la cancelliera Merkel. Questa linea va superata ed esistono le possibilità che la Francia del futuro possa essere vettore di un Sud Europa che fa valere i propri interessi nei confronti degli Stati dell’Est».

Corriere della Sera 15.4.12
I nazisti americani mandano il primo lobbista a Washington


WASHINGTON — Il partito nazista americano ha ottenuto che un suo esponente sia ammesso a trattare con il Congresso. Secondo la Abc, il neo lobbista si chiama John Bowles, ha 55 anni e intende esercitare la «giusta pressione» sui parlamentari per promuovere leggi che favoriscano gli interessi del suo partito. Il partito nazista Usa (American Nazi Party: nella foto Afp un comizio a Minneapolis) è stato fondato nel 1959 da George Lincoln Rockwell.

l’Unità 15.4.12
Da Canton a Shanghai. La grande frenata del dragone cinese
La crescita è ferma all’8,1% e rischia di calare ancora
Come dal nulla sono comparsi 23 milioni di disoccupati inurbati
Il Pil rallenta, la bolla edilizia rischia di scoppiare, molte aziende chiudono
e crescono le tensioni sociali. Il tutto all’ombra della lotta di potere ai vertici
di Gabriel Bertinetto


Chi salverà i nostri salvatori? Abituati da qualche anno a cullarci nella confortante illusione che la Cina comunista faccia da argine agli sconquassi finanziari del capitalismo internazionale, scopriamo a poco a poco che quel bastione si sta sgretolando. Non crolla, ma mostra crepe profonde. La crescita produttiva rallenta. La bolla edilizia si è gonfiata a dismisura e rischia di scoppiare. Il calo delle esportazioni non è compensato da un parallelo sviluppo del mercato interno. Molte aziende chiudono, la disoccupazione sale, e raggiungono livelli mai toccati prima le tensioni sociali nelle aree che avevano trainato la formidabile espansione dello scorso decennio, da Canton a Shanghai.
Come se non bastasse, tutto ciò avviene mentre ai vertici, dietro le quinte di una rappresentazione rituale di unità e armonia, infuria una furibonda lotta tra fazioni. Il cui episodio più drammatico è stata l’espulsione dal Comitato centrale di Bo Xilai, astro nascente della politica nazionale. Uno che non potendo puntare alla carica di leader supremo, aspirava a diventare comunque l’eminenza grigia di Xi Jinping, il giorno in cui in ottobre il congresso comunista lo eleggerà al posto dell’attuale capo di Stato e del partito Hu Jintao. La fine politica di Bo avviene sullo sfondo di vicende inquietanti: dal tentativo di fuga all’estero del suo ex-braccio destro Wang Lijun, all’arresto della moglie Gu Kailai coinvolta nell’omicidio di un uomo d’affari inglese a Chongqing.
L’Occidente ha un solo motivo per consolarsi. Pechino per ora non ha alcuna intenzione di ritirare le ingenti somme investite nei titoli pubblici americani e di vari Paesi europei. L’interdipendenza economica globale è così fitta e ramificata che un’eventuale bancarotta dei più importanti Stati del mondo capitalista avrebbe ripercussioni disastrose sulla tenuta del sistema comunista cinese. L’Occidente ha però molti motivi di preoccuparsi, almeno tanti quanti ne hanno a Pechino, per l’attuale congiuntura economica nella Repubblica popolare.
Qualche dato. Nell’ultimo trimestre il prodotto interno lordo è cresciuto dell’8,1%. Per chi sulle due sponde dell’Atlantico ha fatto il callo alla crescita zero o alla recessione, sembra il paradiso. Ma il dato va visto in relazione ai tre mesi precedenti, quando il tasso era dell8,9%, per non parlare del 9 o 10% degli anni passati. La Banca Mondiale avverte che «un graduale rallentamento proseguirà nel 2012», assieme a un calo dei consumi e degli investimenti interni, «mentre la domanda esterna rimane debole». In altre parole, le aziende estere colpite dalla crisi acquistano e investono di meno in Cina, e questo danneggia fortemente un Paese la cui crescita economica è basata principalmente sulle esportazioni.
Ardo Hansson, esperto di Cina presso la Banca Mondiale, mette in guardia verso «la correzione in atto nel mercato immobiliare». Un eufemismo fumoso dietro al quale si staglia nitida la gigantesca bolla speculativa in procinto di scoppiare. Negli Usa e in Europa ne abbiamo visto gli effetti nefasti nel 2008. Accade ora che nella Repubblica popolare i prezzi delle case, dopo una vertiginosa corsa al rialzo, siano in rapida traiettoria discendente.
Sullo sviluppo edilizio la Cina ha fondato buona parte dell’impetuosa crescita all’inizio del terzo millennio. Qui nel 2010 sono stati realizzati rispettivamente la metà e il 60% della produzione di acciaio e di cemento dell’intero pianeta. Stupefacente allora notare il divario tra la mole di costruzioni avviate o completate nel corso del 2011 e il venduto. A fronte di 3,6 miliardi di metri quadri edificati, solo 709 milioni sono quelli commercializzati. Neanche il 20%. Non sorprende così che i prezzi siano in caduta libera. Nella sola capitale l’ultimo dato disponibile è un meno 35%. Chi era salito sul carro del credito agevolato per investire nel mattone, si ritrova ricoperto di debiti con un capitale pesantemente svalutato.
Fra il 2008 e il 2009 i milioni di miliardi di dollari pompati dalle banche per alimentare prestiti a buon mercato sono stati anche lo strumento delle autorità per tamponare le tensioni sociali in aumento. Fino a quel momento le compagnie straniere erano presenti in forze nelle zone costiere della Cina meridionale, fin dai tempi di Deng Xiaoping le più esposte agli investimenti esteri. Attirate dai bassi salari, dai ritmi di lavoro forsennati, dalle inesistenti tutele sindacali. A Canton, Shenzhen, Shanghai e dintorni accorrevano masse di contadini poveri in cerca di un posto in fabbrica. Dal 2008 la festa, se qualcuno l’aveva vissuta come tale, è finita. Le autorità locali si sono trovate a fronteggiare l’emergenza di 23 milioni di lavoratori inurbati rimasti disoccupati. Le ditte straniere e le loro consociate cinesi chiudono i battenti o si trasferiscono in altri Paesi asiatici in cui la manodopera costa ancora di meno.

Corriere della Sera 15.4.12
Pechino: cambio più flessibile


PECHINO — La Cina ha ampliato la banda di fluttuazione dello yuan in risposta alle pressioni dei partner commerciali che ne chiedono una rapida rivalutazione. La Banca popolare cinese ha annunciato che il margine di oscillazione del renminbi («moneta del popolo», nome ufficiale dello yuan), pari allo 0,5% in rapporto al dollaro, sarà allargato all'1% a partire da domani. Una riforma che permetterà alla valuta cinese una maggiore fluttuazione in funzione del mercato, anche se Pechino manterrà un rigido controllo sul cambio, spiegano gli analisti. La riforma annunciata ha l'obiettivo di «rispondere alle esigenze del mercato e migliorare la flessibilità del cambio del renminbi nelle due direzioni». La banca centrale cinese ha anche assicurato che continuerà a mantenere la valuta «a un tasso di cambio fondamentalmente stabile». Il valore dello yuan è determinato dalla banca centrale, che fissa il suo tasso quotidianamente. La direttrice generale del Fondo monetario internazionale, la francese Christine Lagarde, ha salutato la manovra come «importante» poiché «dimostra l'impegno della Cina a riequilibrare la sua economia verso i consumi interni e permette alle forze del mercato di giocare un ruolo maggiore nella determinazione del livello del tasso di cambio». La Casa Bianca ha accolto la notizia con riserva: «Vorremmo vedere maggiore movimento» ha detto Ben Rhodes, consigliere di Barack Obama per la sicurezza nazionale.

Corriere della Sera 15.4.12
Fuga nella notte da Harvard Il giallo del rampollo cinese
Il figlio di Bo Xilai «scortato da agenti dell'Fbi»
di Marco Del Corona


PECHINO — Le colpe dei padri ricadono sui figli, non solo a Pechino. Ma se sui figli ricadessero anche le colpe delle madri, Bo Guagua dovrebbe preoccuparsi. Il più chiacchierato rampollo della Cina è infatti figlio di Bo Xilai e Gu Kailai. Bo Xilai — già sindaco di Dalian, ministro del Commercio e segretario del partito nella megalopoli di Chongqing, carismatico leader della cosiddetta sinistra neomaoista — è stato spogliato di tutti gli incarichi che ricopriva: Politburo e Comitato centrale. Un'epurazione politica, scatenata dalla fuga al consolato Usa di Chengdu di un suo ex braccio destro. Gu Kailai — già assistente di un macellaio durante la Rivoluzione culturale, avvocatessa di successo e infine seconda moglie depressa — è invece agli arresti sospettata dell'omicidio di un businessman britannico, Neil Heywood. Adesso i guai lambiscono anche Bo Guagua, il dilettissimo erede, davanti a sé una carriera da «principe rosso» elevato al quadrato (il suo già illustre papà è figlio di Bo Yibo, sodale di Mao Zedong e di Deng Xiaoping). È stata l'agenzia Xinhua a scrivere che lui e la madre avevano avuto con l'inglese «un conflitto per interessi economici».
Prima che lo scandalo travolgesse il padre, Bo Guagua nuotava tranquillo nel bacino di privilegio, lusso e invidie che culla i figli dei potenti. Ormai celebre l'appuntamento strappato alla figlia di un diplomatico Usa, si disse l'allora ambasciatore americano Jon Huntsman, prelevata in Ferrari. E la vivace propensione al divertimento pareva quasi voler riscattare, con il glamour, il suo stesso nome, Guagua, composto dalla ripetizione del carattere gua che indica le cucurbitacee: zucche (nangua), meloni (tiangua), cetrioli (huanggua)...
Il precipitare degli eventi a Pechino è giunto però fino ad Harvard, dove Guagua in maggio dovrebbe concludere alla Kennedy School of Government, un master da 90 mila dollari. Alle 22 di giovedì, infatti, il ventiquattrenne è stato visto lasciare il suo appartamento per seguire deciso un uomo che pareva essere lì per metterlo al sicuro. Un'amica di Guagua è invece ripartita poco dopo con la Porsche di lui, ha scritto il Daily Telegraph, che ha notato come il ventiquattrenne grazie al suo visto da studente potrebbe teoricamente chiedere l'asilo politico senza eccessive complicazioni. Per gli amici, una mossa improbabile.
Si indaga su Gu Kailai, intanto. E sulle zie di Guagua. L'agenzia Bloomberg ha ricostruito i business delle sorelle di Gu e ha stimato in almeno 126 milioni di dollari le loro fortune. Il giornalista Jiang Weiping ha invece dichiarato alla Voice of America che Gu avrebbe il documento d'identità di Hong Kong e il certificato di residenza di Singapore. Ombre su ombre. Su Guagua per ora si scava un po' meno. Heywood era stato il tramite attraverso il quale il rampollo di Chongqing riuscì a frequentare dai 12 anni le scuole Papplewick e Harrow prima di essere ammesso a Oxford. Qui venne anche sospeso per un anno per «ragioni accademiche», tuttavia aveva poi infilato una serie di buoni risultati in economia, politica e filosofia. A Pechino il ragazzo ha fondato nel 2009 (e chiuso nel 2010) una Guagua Internet Company e sarebbe stato sul punto di lanciare un social network, www.guagua.com, mai avviato.
Dopo un fidanzamento con Chen Xiaodan (figlia del numero uno della China Development Bank, Chen Yuan, e nipote dell'economista di partito Chen Yun, morto nel '95), Guagua stava completando per il suo master un progetto sulle organizzazioni non governative in Cina con una coetanea, Jennifer Choi. Un uomo d'affari che lo conosce assicura che «Guagua vuole mettere insieme un miliardo di dollari e poi diventare politicamente importante». Le colpe dei padri potrebbero consigliare di cambiare programma, le colpe delle madri anche.

Corriere della Sera 15.4.12
Le trame e i misteri nascosti dietro la foto a colori di una famiglia in vacanza
Potere, denaro, sesso: un dramma shakespeariano
di Francesco Piccolo


Quindici anni fa, il governo cinese ebbe una grana in Alabama. Si trattava di una truffa ai danni di tre società cinesi. Decise così di spedire in terra americana una donna forte e autoritaria, si chiamava Gu Kailai. Divenne il primo avvocato cinese della storia ad aver vinto una causa civile negli Stati Uniti. Fu pubblicato anche un libro di successo sulla nuova eroina del comunismo asiatico.
Cambio scena, luogo, tempo. Lo scorso novembre, un uomo d'affari inglese, Neil Heywood, viene trovato morto in un albergo di Chongqing, metropoli nel nord della Cina. Eccesso di alcol, si affretta a concludere la polizia. Ma poi si scopre che è stato avvelenato. E anche che, nei giorni precedenti, aveva detto di temere molto per un litigio con una donna, la moglie di uno dei politici più potenti della Cina, Bo Xilai, ex ministro del Commercio e ora capo del Partito comunista di Chongqing.
Sembrano due storie diverse, e se fossimo al cinema ci staremmo già chiedendo: ma cosa c'entrano? È facile: la donna tanto temuta dall'inglese altri non è che Gu Kailai. E ora è la maggiore sospettata dell'omicidio, che sta coinvolgendo le diplomazie di Gran Bretagna e Cina, e causando terremoti nella vita politica del Paese. Come si è trasformata, questa donna, da avvocato rampante a Lady Macbeth? Cosa è successo negli anni? Il marito ha più volte dichiarato, nelle interviste, la sua commozione per il fatto che la moglie abbia abbandonato anni fa la sua brillante carriera e se ne sia rimasta a casa a occuparsi di lui e a dare consigli per la sua ascesa. In realtà, Gu Kailai ha fatto qualcosa in più. Ha fondato un'azienda, e tra i molti clienti c'erano imprese statali, quindi in eccessiva sintonia con i rapporti del marito (allora era ministro): si chiamerebbe conflitto d'interessi. Una delle persone con cui da anni faceva affari era Heywood, accolto da qualche anno nel ristretto clan familiare. Poi, da un giorno all'altro, estromesso. Ed ecco che a un amico confida di avere paura di quella donna. La descrive così: instabile, nevrotica, depressa.
I particolari che vengono fuori ogni giorno sono sempre più inquietanti: si parla di un giuramento di fedeltà a cui Heywood si è sottratto, addirittura di una richiesta di ripudiare la moglie; di rapporti non solo di affari tra i due; in più, si sospetta che l'inglese portasse i soldi del clan familiare all'estero. È probabile che si sia occupato del figlio di Gu Kailai, dei suoi studi ad Harvard, dove fino a pochi giorni fa conduceva una vita più che brillante. Ma è stato appena prelevato dalle autorità. Insomma, una storia di quelle che (ri)conosciamo: famiglie di politici potenti che superano i limiti e sono travolte da scalata sociale e denaro. E il fatto che succeda nel partito comunista non cambia nulla. Inutile dire che si parla di servizi segreti e di questioni che hanno a che fare con la tempesta politica in atto in Cina. Del resto, la vicenda ha bruscamente interrotto la carriera di Bo Xilai. Se l'accusa di omicidio si rivelasse sensata, si ipotizza che l'inglese custodisse segreti della famiglia, ed era quindi diventato pericoloso. Verità? Invenzione? Complotto?
La differenza tra i drammi di Shakespeare e la realtà, consiste nel fatto che Shakespeare, con nostra grande soddisfazione, ci fa entrare nella camera da letto dei coniugi Macbeth, e in seguito anche nelle loro teste. Noi conosciamo la storia non dal punto di vista oggettivo, ma dal punto di vista di chi ci interessa di più, e in questo modo sappiamo tutto: conosciamo l'esatta verità degli omicidi, le motivazioni — tragiche, mostruose, dilanianti che siano — e le conseguenze. Nella realtà, purtroppo, non è mai così.
Insomma, la differenza tra Shakespeare e noi, e cioè tra Lady Macbeth originale e Gu Kailai, la versione vivente cinese, sta nella chiarezza. Del resto, quanto pagheremmo per entrare nella testa delle persone per capire finalmente, davvero, cosa pensano. Con ogni probabilità, tutte le forme di racconto sono nate per questo: per darci l'ebbrezza di sapere tutta la verità. Perché la vita, come dimostra la storia di Gu Kailai, è troppo complicata e piena di sospetti, retroscena, dubbi e paure del complotto. In fondo, in Shakespeare, anche i complotti, si vedono. Nei fatti della storia, non si sa nulla di sicuro. Ma a dirla tutta, anche il regno del non verificabile ci appassiona molto, ed è la spinta che ci attrae verso la cronaca. Le trame, cioè le vicende; e le trame, che sono i fili che corrono al di sotto delle vicende. Che ci sembra di non afferrare mai fino in fondo. L'avvocato, l'albergo, l'avvelenamento, lo scandalo, i segreti. Ci sono tutti gli elementi per farci un film. L'immaginazione vola, costruisce. Sembra un mondo in penombra, esotico, inafferrabile. Poi vai su Internet e trovi la foto della famiglia di Gu Kailai: moglie, marito e figlio, in posa, con le macchine fotografiche al collo, in gita. Tre persone qualsiasi, e così Lady Macbeth scompare. Il desiderio di verità, però, no. E chi è per davvero questa donna, abbiamo ormai voglia di saperlo.

l’Unità 15.4.12
Argentina L’ex dittatore rivendica la sua «soluzione finale» nella tragedia dei desaparecidos
Ragion di Stato «I corpi li facevamo scomparire? Sì, per non provocare proteste nel Paese»
Videla, choc in tv
«Ottomila morti? Potevamo fare di più»
di Leonardo Sacchetti


Fa scalpore un video nel quale per la prima volta l’ex dittatore argentino parla dell’abominio dei desaparecidos: «Andava fatto: è il prezzo che il popolo ha dovuto pagare per continuare ad essere una repubblica».

«Sette od ottomila, sì. Ma potevamo fare di più». La voce è sempre quella, anche con 86 primavere sulle spalle e in attesa di una quasi certa terza condanna all'ergastolo. Sembra un anziano come tanti altri, ma è l'ex dittatore argentino Jorge Videla a raccontare – per la prima volta – quel che la storia già sapeva e che in molti, per un verso o per un altro, fanno fatica a credere.
«Sette od ottomila» sono i numeri delle persone che lo stesso Videla conferma siano state fatte sparire tra il 1976 (l'anno del golpe militare in Argentina) e il 1983 (il ritorno, parziale, alla democrazia). Desaparecidos. «Potevamo fare di più», è l'atroce conclusione che lo stesso Videla dà del proprio operato, nella lunga conversazione raccolta dallo scrittore e giornalista argentino Ceferino Reato nel suo libro Disposizione Finale. La confessione di Videla sui desaparecidos e che ieri ha visto un prologo con la diffusione di un video con le parole dell'ex dittatore. «Purtroppo, questo è il prezzo che il popolo argentino ha dovuto pagare per continuare ad essere una repubblica», si autoassolve l'ex militare.
La «confessione» piomba sull' Argentina che continua a non dimenticare ma che la presidente Cristina de Kirchner cerca di portare sempre più avanti, sempre più lontano da quelli orrori. Anche a costo di mettere da parte la memoria, in cambio di crescita, sviluppo e lavoro. «È difficile guardare una persona così e pensare che si tratta di un essere umano», ha detto Estela de Carlotto, presidente delle «Nonne di Plaza de Mayo», l'associazione che più sta appoggiando la politica della Kirchner. «Per di più – ha concluso la Carlotto quest'uomo mente: dice che ci fu una guerra quando in questo Paese ci fu solo terrorismo di Stato».
Sì, perché le parole di Videla, tirate fuori dalla cella numero 5, unità 34, del carcere di massima sicurezza dentro alla caserma «Campo de Mayo» (appena fuori Buenos Aires), certificano la responsabilità dei militari e di una grossa fetta dell'imprenditorialità argentina degli anni '70. Gente terrorizzata più dalle opposizioni di sinistra e peroniste dalla bontà dei loro prodotti. «Fate quel che dovete fare», furono le parole dette dagli imprenditori, come ricorda Videla. Di cui, per inciso, si rifiuta di fare i nomi. «Ma subito dopo, se ne lavarono le mani». Quel «subito dopo» sono i primi desaparecidos. I primi di quei «sette od ottomila» che, per le ricostruzioni storiche e le associazioni in difesa dei diritti umani, sono quasi 30mila. Quel «subito dopo» è la politica repressiva di chi faceva sparire oppositori, politici, sindacalisti, vicini di casa, docenti e studenti «per non provocare proteste dentro e fuori il Paese», ringhia Videla nel video in cui sembra un anziano qualsiasi che, davanti a una telecamera, in polo a mezze maniche e con un chiacchiericcio da ospizio alle spalle, racconta la storiella della sua vita. E in effetti lo è: un anziano. Che ha però guidato una delle repressioni più selvagge degli ultimi 40 anni.
RICORDANDO IL GOLPE
I ricordi dell'ex dittatore vanno anche oltre, giudicando «un errore» il golpe militare del 24 marzo 1976. «Non era necessario», abbozza Videla quasi a voler riscrivere il peso delle sue responsabilità, per lo meno negli anni che durò il suo «regno nero», fino al 1981. E una riprova di questo tentativo, emerge anche in un altro passaggio del libro: quello in cui l'ex militare nega che all'interno della cupola golpista si parlasse di «soluzione finale». «Disposizione finale era la frase più usata», ammette Videla, regalando il titolo al libro ma facendo infuriare gli avvocati che, da anni, si battono per sapere altre cose.
Come la domanda a cui l'86enne proprio non risponde. Esiste una lista di desaparecidos? C'è un archivio delle loro destinazioni? Quanti sono ancora vivi? «Macché liste: non esistono. Forse ce ne sono, ma di imprecise e senza riferimento al destino finale» delle persone fatte sparire. Troppo poco per chi vuol sapere, come l'avvocato Rodolfo Yanzon, che rifiuta queste dichiarazioni come nuovi elementi giudiziari. «Credo che a questi signori, l'unica cosa che possiamo esigere è che forniscano il destino finale dei desaparecidos e dei bambini rubati». Appunto: da questo orecchio, Videla continua a non voler sentire ragioni. Anzi: sui bambini rubati, nel video, se ne lava le mani con un semplice «fu un errore».

l’Unità 15.4.12
Comunismo: la fortezza globale e il crollo
Il movimento internazionale nato dalla Rivoluzione d’Ottobre in un volume di Silvio Pons che va dal 1917 alla fine dell’Urss
Rivolgimento in un solo Paese che infiammò milioni di uomini, generò grandi tragedie e fu un immenso campo geopolitico
di Federico Romero


Per una volta il titolo è anche il fulcro del libro, ed ha la doppia valenza di illustrare la ragion d’essere del soggetto il movimento comunista mondiale e di interpretare le cause del suo percorso storico. Perché di rivoluzioni globali qui ce ne sono due, di segno opposto e incompatibili, ancorché reciprocamente compenetrate. È nella loro dialettica che risiede la chiave di volta di questa rilettura originale e stimolante di un fenomeno che ora può essere finalmente ripensato a debita distanza dai paradigmi e paraocchi che esso stesso aveva generato.
Il baricentro del libro, forse la sua stessa scintilla originaria, sta in un paradosso. Alla metà del Novecento l’Urss ascende a colosso strategico, epicentro di un vasto sistema imperiale, interlocutore del moto anti-coloniale, e antagonista mondiale dell’Occidente. Quasi simultaneamente, però, il comunismo internazionale inizia la sua parabola discendente, fatta di rotture e conflitti intestini, di ossificazione e inefficienza e, infine, di perdita di legittimazione fino a un’inesorabile irrilevanza.
Le spiegazioni ricorrenti erano incentrate su aspetti importanti ma parziali: la tensione tra rivoluzione e nazionalismo, Stato-guida e «policentrismo»; il dispiegarsi del contenimento occidentale; la graduale sclerosi di un sistema economico militarizzato.
Silvio Pons che aveva già scritto pagine essenziali sulla politica estera sovietica e i limiti della sua egemonia ha scelto di andare alla radice del problema, e riconsiderare il modo comunista di stare nel mondo, la dimensione planetaria del progetto rivoluzionario e, per converso, la trasformazione globale che ha finito per bypassarlo e marginalizzarlo.
La narrazione agile ma piena, sintetica eppure esauriente muove dai caratteri fondativi della rivoluzione e dello Stato sovietico. Il comunismo nasce, nella guerra e con la guerra, come progetto di rivoluzione universale, s’immagina «demiurgo del mondo moderno» e con l’Internazionale intesse «il primo network politico proiettato su una dimensione mondiale». Ma è un mondo che esso legge in chiave rigidamente dicotomica e puramente antagonistica, elevando l’idea di guerra civile internazionale tra comunismo e capitalismo «a chiave di comprensione universale». Ciò lo costringe, pur con (rare) variazioni tattiche, in una visione militarizzata della trasformazione internazionale, e lo inchioda a un «nesso costituente» con lo Stato sovietico.
Quando la Seconda guerra mondiale consegna all’Urss la possibilità di un esteso domino territoriale, ciò si traduce in un sistema di Stati che replicano il modello sovietico e «si configurano come un mondo a parte».
Il comunismo è nel mondo, interloquisce con le lotte di liberazione anti-coloniali e incentiva dinamiche di globalizzazione perché sospinge l’Occidente a strutturarsi in chiave transnazionale e multilaterale. Ma il suo è un «modello imperiale molto più tradizionale» di quello americano e occidentale: è monocratico, gerarchico, centralizzato, totalmente statalista, asserragliato nella psicologia dell’assedio e perciò intrinsecamente, irreparabilmente separato. Tutti caratteri, questi, che «impedirono la costruzione di una comunità di destino transnazionale» a favore invece di un blocco la parola non fu e non è casuale che intanto s’impermeabilizza e in secondo luogo si legittima solo se incarnazione dell’alternativa al capitalismo. Ma la sua rigida gerarchizzazione sotto lo Stato sovietico impedisce di gestire le tensioni interne e ricomporle. Il frammentarsi dell’unità, prima con la Jugoslavia di Tito e poi, assai più portentosamente, con il conflitto sino-sovietico rivelano «la decomposizione del soggetto» che si presumeva antagonista al capitalismo liberale.
Irretita dal preconcetto di un bipolarismo sempre più apparente che reale, la potenza sovietica, pur crescendo in termini militari, non era di per sé nuova fonte di legittimazione, ma viceversa di graduale alienazione rispetto ai nuovi orizzonti culturali di interdipendenza e ai processi di diversificazione delle risorse di potenza. La sua «interazione con il mondo si fece sempre più elusiva e inefficace», e Pons perciò conclude assai persuasivamente che «l’erosione politica, culturale e simbolica del comunismo precedette, e non seguì, la crisi conclamata del sistema economico».
La «rivoluzione» della globalizzazione, insomma, sconfiggeva quella che aveva voluto essere la «rivoluzione globale» per definizione. Questa si trovava sì di fronte, come aveva previsto, a «un mondo sempre più unificato», ma che non produceva «uniformazione, ma anzi esaltava le diversità, il pluralismo, il multilateralismo». E con questo nuovo universo dell’incipiente globalizzazione «la struttura clausewitziana del progetto comunista» finiva per risultare incompatibile.
Insieme al comunismo messianico e universalistico scompariva perciò anche «ogni visione unilineare e monocausale della storia». Dopo aver immaginato la globalità, cercato di praticare la transnazionalità della politica, e forzato oltre ogni limite il tentativo di erigere una terrificante versione monocratica della modernità, il comunismo novecentesco lasciava dietro di sé solo un «profondo senso di sfiducia nei progetti universalisti».

Il libro. Da Lenin a Gorbaciov e i motivi del declino
La rivoluzione globale Storia del comunismo internazionale 1917-1991
Silvio Pons pagine XIII-424 euro 35,00
Einaudi L’ascesa e la caduta del comunismo internazionale da Lenin a Gorbaciov, passando attraverso la guerra fredda e illuminando i motivi del declino, emersi dopo la morte di Stalin.

Silvio Pons. Nato a Firenze nel 1955, è docente di Storia dell’Europa Orientale all’Università di Roma «Tor Vergata» e direttore della Fondazione Istituto Gramsci. Autore o curatore di numerosi volumi dedicati alla storia della Russia sovietica e del comunismo italiano e internazionale, ha scritto tra gli altri «Berlinguer e la fine del comunismo» (Einaudi, 2006) e per Einaudi ha curato «Georgi Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca 1934-1945» (2002) e il «Dizionario del comunismo nel XX secolo» (2006-2007).

l’Unità 15.4.12
Pci, cosa è stata e come ha inciso la strana «variante»
All’inizio il partito nato nel 1921 fu nel cono d’ombra sovietico Ma anche nei momenti più bui ebbe sempre una sua identità
di Bruno Gravagnuolo


Che posizione occupa, nell’affresco di Silvio Pons sul comunismo come Rivoluzione globale, il comunismo italiano? Ad un primo esame, vien subito di rispondere: posizione marginale, e in definitiva subalterna. A un paradigma che è quello che domina l’intero volume di «guerra civile internazionale», o di «tregua armata» (o pacifico-imperiale) incarnata da tutto il comunismo novecentesco. Contro il «campo» capitalista dopo l’Ottobre 1917, e malgrado la pace di Brest-Litovsk.
Certo Pons conosce bene la «qualità» della variante italiana dell’originario bolscevismo leniniano: Gramsci, Togliatti, Berlinguer. E in generale tutta la specificità dell’«italo-comunismo». Dalle riformulazioni gramsciane della rivoluzione gradualistica ed egemonica in occidente. Alle vie strette, e in sottofondo «buchariniane», percorse da Togliatti all’ombra di Stalin. Fino alla novità berlingueriana (sconfitta) dell’Eurocomunismo. E nondimeno questo ci pare di cogliere quella «specificità» per Pons non ebbe mai modo di incidere nella vocazione «clausewitziana» del bolscevismo, vista nelle sue declinazioni sovietica, e poi cinese. Restò un appendice, un importante varietà nazionale nel cuore dell’Europa e della guerra fredda, con l’Italia come faglia di confine. Ma pur sempre un’appendice. Salvo l’Eurocomunismo, come s’è detto. Tema che occupa una decina di pagine sul finale del libro, e che in fondo è l’unico vero «onore delle armi» dell’autore alla storia del Pci. Vediamole queste pagine, prima di aggiungere qualche altra considerazione sul resto.
Dunque, tra il 1974 e il 1979 tra la Rivoluzione dei Garofani a Lisbona e l’invasione in Afganisthan il Pci era stato l’unico partito comunista a «tesaurizzare» la spinta del 1968, e a tenere aperta una prospettiva politica alternativa. Tutto l’Eurocomunismo per Pons è un grande tentativo di fondare, dentro l’Europa, una «terza via» di governo al socialismo per via democratica. Né comunista classica, né socialdemocratica. Né antisovietica, né antiamericana. È un’innovazione, che presuppone la centralità dell’Europa tra i «blocchi». Il superamento della guerra fredda. E un intenso rapporto con il socialismo europeo: ai limiti del revisionismo. La novità va a sbattere contro l’espansionismo sovietico nel Corno d’Africa e in Medioriente. E contro l’offensiva Usa sui diritti umani. Gli Ss sovietici, con relativo riarmo occidentale, fa il resto. E il rapimento Moro chiude la partita: il Pci è sconfitto e si arrocca. Fino all’estinzione nel 1989. Dopo i lampi della «questione morale», e il mondialismo radicale dell’ultimo Berlinguer. Che con lo «strappo» però, espresse un ulteriore rifiuto di quella «logica di campo» narrata da Pons in tutto il suo saggio.
Due osservazioni conclusive. Su Togliatti. Che fu ben più che un abile tattico sottotraccia. E del quale non viene mostrato bene quel sottofondo buchariniano e «destro» che fu decisivo a influenzare Stalin. Prima, nel passaggio di fase dalla svolta sul «socialfascismo» del 1928, all’antifascismo inaugurato dal VII congresso dell’Internazionale del 1935. E poi molto più univocamente di quanto Pons non annoti nell’intuizione originale della «svolta di Salerno». Elaborata da Togliatti addirittura all’indomani del 25 luglio 1943 (come da lettera a Dimitrov del 30 luglio 1943) e poi tenuta ferma sino al 12 gennaio 1944, salvo un arretramento tattico. Dovuto alle resistenze antimonarchiche dell’antifascismo italiano, e a temporanei irrigidimenti dell’Urss nel contenzioso diplomatico con Badoglio. Insomma, il Pci aveva una sua idea della «rivoluzione globale». E c’era. Anche quando non si vedeva.

Corriere della Sera 15.4.12
Dietro la maschera del Terrore
Combattere per il piacere di annientare un nemico: lo spettro del nulla da Troia all'antisemitismo d'oggi
di Guido Ceronetti


Le otto del mattino, stanno arrivando alla scuola ebraica di Tolosa i bambini. È domenica, la città sonnecchia ancora, la scuola ebraica lavora. Il momento è scelto bene.
Un giovane in moto passa di là, estrae una pistola, spara nel piccolo mucchio vivente, spegne uno, due, tre bambini e un loro insegnante e si dilegua. Viene quasi subito individuato e assediato in casa per prenderlo vivo, ma l'assassino non parlerà: non si arrende e viene abbattuto. È un algerino di nome Mohammed Merah. Come stragista qaedista ha già assassinato tre parà francesi. Non ha che ventiquattro anni. Il fatto è questo.
Ma io non voglio deplorarlo (è scontato!), ma aiutarmi a capirlo. La chiave per decifrarlo non è la solita canzone del persistente antisemitismo, fenomeno che se persiste o ritorna (ma se ritorna non persiste), per forza non è il medesimo che produsse la Shoah: una ideologia razzistica che dominava un certo numero di imbecilli in tutta Europa, e neppure ciascuno di loro. Capitale la frase di Goebbels: «Decido io chi è ebreo». Irresistibile ti viene in mente il poema di Seferis: Elena. Riprende da Euripide la straordinaria leggenda che a scatenare la guerra e lo sterminio di Troia non fu Elena, ma un'ombra, un fantasma: «Quante vite l'abisso ha ingoiato, per una spoglia vuota, per un'Elena».
L'antisemitismo ideologico, che tanto male ci ha fatto (non solo a ebrei ma a tutti), fu questo simulacro, questa «spoglia vuota», un'Elena butterata, un'ombra? C'entra qualcosa con la strage di Tolosa? No. Poco mancò, dopo le sue corrispondenze da Gerusalemme sul processo Eichmann, che fosse gridata antisemita Hannah Arendt, colpevole di aver pensato fuori dal coro, genialmente, il famoso processo. Pianificando da bravo funzionario lo sterminio, Eichmann non era agitato da nessun fantasma. Da che cosa allora? Hannah, nel settembre 1963, scriveva da New York in Italia, all'amica Mary Mac Carthy — ospite a Bocca di Magra di Miriam e Nicola Chiaromonte: «... l'antisemitismo perde il suo contenuto nella politica di sterminio, perché lo sterminio non sarebbe cessato, non ci fosse rimasto che un solo ebreo da uccidere. In altri termini: lo sterminio per sé è più importante dell'antisemitismo o del razzismo». Il fantasma di Elena si sposta di visione in visione: dalle rovine di Troia alle birrerie di Monaco, a Teheran, a Tolosa... Da notare: tra i prigionieri di Spandau, tutti ex grossi collaboratori di Hitler, nessuno era antisemita; soltanto Hess lo era stato, ma dal 1941 era fuori da tutto, aveva altre allucinazioni.
Se tiriamo alle estreme, perfettamente logiche, conseguenze l'ultima frase della lettera di Hannah, vedremo venir su qualcosa di ancora più terrificante ed eretico: la volontà di compiere il male (il male per il male) non si arresta all'ultimo ebreo da uccidere nel mondo, ma prosegue nella sua corsa, colpendo per consuetudine d'idiozia là dove sono ebrei inermi come israeliani armati, senza dimenticare l'americano delle Torri Gemelle, la moschea sunnita o la sciita, esseri umani in vacanza in Norvegia o cittadini londinesi qualunque in metropolitana. Ero a Parigi quando fu colpito un ristorante casher del vecchio ghetto, in rue des Rosiers, e davanti a quel sangue sparso d'innocenti mi domandavo unde malum et non erat exitus. Il guscio vuoto dell'antisemitismo-antisionismo era pronto per essere imputato e condannato, ma la Arendt ha intravisto dell'altro e dell'oltre, rovistando nella sua propria teoria della banalità del male. Si coltiva la mala radice perché il pretesto dell'ebreo da uccidere, semplicemente, tragicamente, duri. E qui, forse, teniamo la verità nascosta della strage di Tolosa. «Per una spoglia vuota...», traduce Pontani nell'edizione Mondadori, l'unica in Italia; ma la parola neogreca letteralmente significa lunga camicia, svolazzante senza corpo. Mi pare che così si renda meglio la vacuità assoluta dell'antisemitismo ideologico-razziale, che non è più evocabile oggi come movente, neppure per i terroristi suicidi dell'Intifada. Una camicia, uno straccio insanguinato.
Nel linguaggio psicanalitico abbiamo Todestrieb, pulsione di morte.
L'omicida di Tolosa aveva già ucciso — e non erano ebrei ma militari francesi — e avrebbe seguitato ad uccidere, dietro istruzioni specifiche su bersagli umani, vaganti da un guscio vuoto all'altro. Non ha potuto parlare: può darsi gli avessero inculcata la bramosia di assassinare ebrei: ma lo vedrei come un serial killer dei più abominevoli, che gode di tirare su bambini (con kippah o senza) come fossero pipe da tirassegno. I bambini, le scuole... Ripenso al sequestro, nel settembre 2004, in Ossezia del Nord, il primo giorno di scuola a Beslan: i bambini morti — oggi altrettante foto incorniciate sparse nelle case — furono centottantasei. Possiamo piangerli insieme ai germogli teneri recisi a Tolosa dal bruto. Nessun movente antisemita a Beslan: ma il Todestrieb è in entrambi i luoghi presente.
Se, mentre si processava Eichmann più di mezzo secolo fa, lo sterminio-per-lo-sterminio era già più importante, come sostiene la Arendt, del camicione vuoto antisemita, medievalmente razzista, che cosa pensarne oggi? Tutta l'appestata pleiade del terrorismo mondiale, da punti diversi, apoliticamente e areligiosamente, converge verso il fine ultimo della sua pulsione omicida: la strage per la strage, la distruzione per la distruzione. Un Merah non ha ideologia, simula di averne una; ubbidisce a ordini emessi, prima che da una centrale del terrore, dal nulla.
La società che vuole e deve difendersi sbaglierebbe inseguendo il fantasma svolazzante di Elena. La sua primaria necessità è di capire il terribile vuoto di movente di Mohammed Merah.

Repubblica 15.4.12
Il codice Mirò
La mia coloratissima fuga dal mondo
di Dario Pappalardo


"Mi sento denudato", disse il pittore catalano quando consegnò a futura memoria i manoscritti con le migliaia di segni tracciati di propria mano. Perché dietro ogni linea, stella, ragno o uccello, si nascondeva un alfabeto segreto Ora, per la prima volta, studiato, decifrato e catalogato

Il Codice Miró è "nascosto" a Barcellona.
Quindicimila segni, tracciati sui manoscritti conservati dalla Fondazione che porta il nome dell'artista catalano. Quando, nel 1975, Joan li consegna a futura memoria - morirà il giorno di Natale del 1983, a novant'anni- dice: «Mi sento denudato».
Perché con quell'alfabeto segreto, con quell'ordito di simboli ogni volta ricombinati, aveva composto più di mezzo secolo di opere: dipinti, ma anche schizzi su carta straccia, carta igienica, fogli d'occasione. In pochi, attraversando una sua mostra (è ancora in corso a Roma quella nel Chiostro del Bramante), ci fanno davvero caso. Ma i "miroglifici" - il neologismo è di Raymond Queneau, 1949 - sono una via di fuga nascosta ma precisa, la rappresentazione di un mondo diverso in una lingua nuova, fatta di colore.
A classificare questa scrittura pittorica oggi è Tiziana Migliore, che insegna Letteratura artistica all'Università Iuav di Venezia. Nel saggio Miroglifici. Figura e scrittura in Joan Miró (pubblicato da et al. / Edizioni), ripartendo dalla definizione di Queneau, mette a punto uno studio filologico rigoroso che smentisce molti luoghi comuni legati al maestro del Novecento. Primo fra tutti quello del "pittore bambino" davanti al quale bisogna abbandonarsi senza fare domande per sperimentare emozioni primitive. «Ho esaminato da un punto di vista semiotico i disegni di Miró - spiega Migliore - e mi sono imbattuta in regole esatte, segni ricorrenti, serie organizzate in 5+5, che formano come una lingua, una grammatica, una sintassi». Ne è seguita una catalogazione dei simboli principali dell'alfabeto mironiano. Di ognuno viene tracciata la storia, a partire dalla prima comparsa sulla carta o sulla tela.
«C'è una missione politica spesso sottovalutata in questo repertorio», dice la studiosa. Perché il Codice Miró prende forma in un momento cruciale della storia del secolo breve. Agosto 1939: l'Europa è alla vigilia della guerra. L'artista ha lasciato Parigi, dove si era trasferito in esilio volontario dopo l'ascesa al potere, in Spagna, di Francisco Franco. Prende in affitto con la moglie Pilar e la figlia María Dolores una tipica casetta normanna a Varengeville-sur-Mer. I vicini sono il pittore Georges Braque, l'architetto americano Paul Nelsone Raymond Queneau. In un clima di angoscia, ma anche di confronto con vecchi amici, matura una fase poetica decisiva. Più tardi, lo stesso Miró la ricorderà nell'intervista con James Johnson Sweeney: «Iniziò una nuova tappa della mia opera, che ebbe origine dalla musica e dalla natura. È più o meno in quel momento che la guerra scoppiò. Io sentivo un profondo desiderio di evasione.
Mi chiusi in me stesso di proposito. La notte, la musica e le stelle cominciarono a giocare un ruolo maggiore nella suggestione dei miei quadri».
È da qui che l'artista organizza il dizionario simbolico che Migliore nel suo libro divide in figure primigenie organiche e figure primigenie cosmiche. Alla prima categoria appartengono il sole, la luna, l'uccello, la stella. Alla seconda l'occhio, il cuore, il piede, la mano, il seno, gli organi genitali maschili e femminili. Sono segni che di realistico hanno poco: il corpo della donna è ridotto a uno schema geometrico. Miró perfeziona i simboli anno dopo anno, di foglio in foglio, di tela in tela. Un'opera come Donna che sogna l'evasione (1945) ne contiene già molti. «Ma le pitture per lui sono un risultato provvisorio - dice Migliore - Il disegno, invece, è come un corpo vivo su cui sperimentare. Miró riproduce lo stesso tipo di disegno su formati diversi. Lascia le sue annotazioni sotto i simboli, sugli schizzi, sugli abbozzi.
Torna su un motivo per rivederlo, definirlo meglio nel remake. Studia i rapporti tra i segni, che sono sempre interattivi tra loro. Fonda una lingua che per lui significa soprattutto una possibilità di sopravvivere ai disastri della guerra».
Miró non è un artista da Guernica. Non rappresenta il mondo, ma un'alternativa al mondo, alla «guerra balorda». L'evasione diventa da ora in poi il concetto chiave. La cifra di un intero percorso. E la «scala dell'evasione» è la figura che sintetizza il desiderio di fuga dall'Europa in fiamme. Dopo la Normandia, con i tedeschi che premono, il nuovo esilio è Maiorca. Il pittore si porta dietro la sua scala. Che è poi la stessa, riveduta e corretta, che già dipingeva, a pioli, nella Fattoria, il quadro acquistato nel 1925 da Ernest Hemingway e ora alla National Gallery di Washington. La scala torna in tutti gli anni Venti e Trenta: negli autoritratti, nei nudi di donna, persino nel Cane che abbaia alla luna del Museo di Philadelphia. Ma diventa "ufficialmente" miroglifico nel 1940. Allora Miró le dedica un dipinto che la battezza definitivamente e la investe di senso. La scala dell'evasione, esposto al MoMA di New York, è un universo di neri e di rossi, dove la scala, una rete bicolore, diviene il tramite tra le figure organiche e quelle cosmiche.
Scrive l'artista in Lavoro come un giardiniere (1959): «Sono di indole tragica e taciturna. Nella mia giovinezza ho conosciuto periodi di profonda tristezza. Ora sono abbastanza equilibrato, ma tutto mi disgusta: la vita mi sembra assurda. Non è il ragionamento a mostrarmela tale; la sento così, sono pessimista: penso che tutto debba sempre volgere al peggio». Cosa c'è di meglio, allora, di una scala su cui salire per dimenticare tutto e di un codice segreto per ridisegnare il mondo?

Repubblica 15.4.12
Il potere magnetico dell'autofiction
di Emanuele Trevi


La «propria volontà», diceva santa Caterina da Siena, è il vero «inferno», popolato da una moltitudine innumerevole di mostri e diavoli che ci trascinano sempre più lontani dal nostro bene, tormentandoci con gli uncini dei falsi desideri e dell'egoismo. La vera saggezza non possiede confini, e l'affermazione geniale della grande mistica toscana potrebbe essere sottoscritta da un maestro di yoga, da un saggio taoista, da un monaco zen.
Ma anche chi è estraneo a qualunque forma di sapienza tradizionale, e si accontenta dell'esperienza di tutti i giorni, prima o poi si accorge di quanto è benefica ogni piccola fuga dalla gabbia dell'identità, di quanto è preziosa ogni occasione di alleggerire il peso della propria storia, rinunciando a fare di ogni accadimento il pasto e lo specchio di una vorace e bisognosa psicologia individuale.
Da questo punto di vista, quella consistente fetta della lettura contemporanea che si fregia dell'etichetta di autofiction, lungi dall'avere esaurito tutte le sue possibilità, è in grado di esplorare dimensioni filosofuiche tutt'altro che scontate, costruendoo forme narrative sorprendenti e illuminanti.
Perché una cosa è certa: noi siamo, più di ogni altra cosa, i testimoni della nostra vita.
Piombati con la nascita sulla scena di questo complesso e affascinante delitto che è l'esistenza, non possiamo far finta di non sapere, e anche se a volte abbiamo l'angosciosa sensazione di essere lìa causa di un disguido, o di uno scherzo da prete, nessuno può negare che, come li conosciamo noi, i fatti nostri, non li conosce nessuno.
Ed è proprio questa prospettiva ravvicinata, molto più dell'intrinseco interesse dei fatti raccontati, a creare quel singolarissimo effetto d'arte che, tra gli scrittori contemporanei, il primo a sperimentare in modo sistematico è stato Paul Auster in quel libro memorabile (pubblicato nell'ormai lontano 1982) che si intitola L'invenzione della solitudine. Proviamo a definire questo singolare fenomeno psicologico ed estetico nel modo più semplice e lineare possibile. Al fatto che il protagonista di una storia abbia sperimentato effettivamente i fatti che racconta, noi siamo portati ad attribuire una specie di radiazione numinosa, un potere taumaturgico se non una vera e propria santità. E se anche quel personaggio mente, il suo potere testimoniale non coincide esattamente con il potere astratto della verità, e la sola possibilità che dica il vero preserva intatto il suo magnetismo. Ma bisogna pur fare un ulteriore passo in avanti perché questa magia sprigioni il suo effettivo potere liberatorio, anziché confondersi tra tutti gli altri innumerevoli trucchi da circo che ci irretiscono e ci narcotizzano da ogni parte. Perché se vogliamo approfittare fino in fondo di questa autorevolezza, facendo della nostra esperienza un'immagine credibile del mondo, dobbiamo anche iniziare ad ammettere che noi, nel momento stesso in cui ci definiamo testimoni attendibiuli della nostra vita, siamo testimoni di un'illusione.
Con le sue storie crudeli e luminose, ancora una volta è il mito a prestarci il più efficace soccorso intellettuale, la più duratura consapevolezza. Ecco Narciso, il nostro vero Adamo, il primo testimone, che guarda se stesso. Quello che ho appena scritto è vero, e nello stesso tempo non è vero. Guardando se stesso, Narciso guarda un inganno, un riflesso nell'acqua. E scegliendo di amare se stesso più di ogni altro possibile oggetto d'amore nel mondo, si vota all'impossibile, annega tutto il suo essere nell'inesistenza. Non è un genere letterario, una moda, un vezzo intellettuale, ma il più grande dei viaggi: il destino di ognuno.

Repubblica 15.4.12
Le parole della scienza
Indeterminazione
di Carlo Rovelli


Werner Karl Heisenberg è uno dei personaggi più interessanti e inquietanti della fisica del Novecento. A ventiquattro anni, poco più che studente, Werner Karl risolve il problema che angustiava i grandi fisici del tempo e scrive le equazioni che descrivono il moto degli atomi e dei quanti di luce: le equazioni della "meccanica quantistica". Queste equazioni rimpiazzano la meccanica di Newton (quella che studiamo a scuola) e cambiano completamente l'idea Newtoniana che la materia sia fatta di piccole palline.
Qualche anno prima, Einstein, venticinquenne, aveva cambiato l'immagine dello spazio e del tempo. In pochi anni, due ragazzi hanno sconvolto a fondo la nostra immagine del mondo. Che cos'è allora la materia descritta dalla meccanica di Heisenberg, se non è un insieme di palline? Due anni dopo, nel 1927, Heisenberg scrive un secondo lavoro in cui mostra che le sue equazioni implicano che la materia è fatta da "palline imprecise", o "palline nuvolette": palline tali che se le vedo in un punto non posso sapere a che velocità si muovono e quindi dove ricompariranno quando le vedo di nuovo. Questa impossibilità di determinare contemporaneamente con precisione la posizione e la velocità delle particelle che formano la materia reale non è un accidente tecnico: è il cuore della differenza fra il mondo reale, e la nostra immagine (sbagliata) che la materia sia fatta di palline come quelle della nostra esperienza quotidiana.
Questa impossibilità è considerata oggi un pilastro centrale della fisica moderna, edè chiamata il "Principio di indeterminazione di Heisenberg". A dire il vero si chiama così solo in italiano. Nelle altre lingue del mondo si chiama "principio di incertezza", perché esprime il fatto che se conosciamo con certezza la posizione di una particella non ne conosciamo la velocità, e viceversa. Ma forse la denominazione italiana, "indeterminazione", è la migliore, perché cattura l'idea che il problema non è quello che sappiamo noi: il problema è la natura stessa delle particelle elementari, che sono oggetti più sottili ed eleganti che i sassolini della nostra esperienza. Ma possiamo davvero concepire lo strano mondo atomico intuito da Heisenberg? Davvero la realtà è così strana? L'efficacia della meccanica quantistica di Heisenberg si è rivelata strabiliante. Le sue semplici equazioni spiegano perché la tavola periodica degli elementi ha proprio quella struttura, fondano tutta la chimica, la fisica atomica, la fisica nucleare, la fisica delle particelle, la fisica della materia, l'astrofisica, e quant'altro.
Hanno dato origine ad applicazioni innumerevoli, che comprendono i semiconduttori e quindi tutti i computer di oggi. Eppure anche oggi, anche a molti fisici, il mondo "indeterminato" del principio di Heisenberg sembra troppo strano per essere vero.
Ancora oggi, filosofi, fisici teorici e fisici sperimentali, si arrabattano per cercare di capire meglio. Forse trovare un'alternativa più ragionevole. O forse convincersi che davvero la materia è così strana. Staremo a vedere.

La Stampa 15.4.12
Quando spunta l’anima prima delle coliche o dopo i denti da latte?
“Avete fatto un bimbo, ora fate qualcosa di più”, dice il prete E noi: “Dove si trova? A quale scuola dovremo iscriverlo?”
di Giacomo Poretti


Ci guardò, guardò nostro figlio, poi disse: «Bene, avete fatto un corpo, ora dovrete farne un’anima! ». Salutandoci sorrise e uscì dalla stanza. Guardandolo andare via mi sembrava che ballasse il tip-tap e che nemmeno Gene Kelly avesse la sua leggerezza.
Che cosa voleva dire «farne un’anima»? Io e mia moglie ci scambiammo uno sguardo interrogativo. I nove meravigliosi mesi di laboriosa gravidanza, e tutte quelle ore faticose del parto, l’avevano sfinita: umanamente non le si poteva chiedere nessuno sforzo in più in quel momento, anche perché quei 3 kg e 750 gr di esserino ai nostri occhi erano bellissimi e, benché le dimensioni prefigurassero un avvenire da brevilineo, eravamo convinti che non mancassero di nulla.
Mi turbava l’idea dell’anima, mi ripromisi di dare un’occhiata su Wikipedia per saperne di più; in quel momento entrò il medico per accertarsi delle condizioni di mamma e figlio, e mentre annotava qualche dato sulla cartella clinica gli chiesi dopo quanti giorni si sarebbe manifestata l’anima, se prima o dopo i denti da latte, e se ce ne saremmo accorti da qualche prodromo tipo febbre o colichette. Lui prima mi fece sedere, mi auscultò il polso, mi obbligò a inghiottire una pastiglia e infine disse: «Deve essere stata un’esperienza un po’ scioccante per lei assistere al parto, chissà da quante ore non riposa, e poi tenere fra le braccia il proprio figlio! Lo mandiamo a casa a dormire, questo papà? ».
In effetti prendere fra le braccia il proprio figlio era stata u n’e s p e r i e n z a t e r ro r i z z a n t e, come salire dietro ad Alonso sulla sua Ferrari mentre sta disputando il Gp del Nürburgring. Mi era sembrato di avere avuto in braccio la cosa più fragile dell’universo, più fragile di una flûte di cristallo, di quelle che si rompono sempre quando le metti in lavastoviglie; altro che un figlio, mi sembrava che stessi cullando una bomba atomica: non mi muovevo, non respiravo, non contraevo un muscolo. In genere si riesce a resistere in quelle condizioni non più di un minuto e quaranta secondi, e quando l’infermiera te lo toglie dalle mani facendolo roteare come un giocoliere tu speri di riabbracciare tuo figlio il giorno in cui si laureerà.
Farne un’anima? Dopo la prima ecografia che ci rivelò essere un maschietto, ricordo che fantasticai di farne un’avvocato, un architetto, un laureato in scienze economiche; un vincitore del Pallone d’oro con la maglia dell’Inter, tutt’al più un campione di tennis, uno skipper, un produttore di vini nel Salento, uno chef da 3 stelle Michelin!
Farne un anima!? Avrà senso nell’era della potenza tecnologica più dispiegata? Cosa te ne fai di un’anima quando tra non molto potrai prenotare via Internet un drone telecomandato che te lo mandano a casa e ti stira le camicie e ti svuota la lavastoviglie? Poi torni a casa la sera e trovi il drone ridotto a ferraglia perché la tua colf lo aveva scambiato per un ladro e preso a bastonate.
Me lo immagino il confronto con gli altri genitori: «Mio figlio ha conseguito la maturità con il massimo dei voti al Liceo San Carlo, ha il diploma di miglior centrocampista offensivo conseguito quest’estate in uno stage a Rio de Janeiro, parla inglese fluently grazie alla permanenza bimestrale nel college Nathaniel Winkle di Brixton nella contea di Hampstead, e come hobby progetta applicazioni per iPad. E suo figlio? ».
«Stiamo cercando di fargli conseguire un’anima... ».
«... ma cos’è? Un liceo sperimentale, o frequenta una comunità di recupero per tossicodipendenti? ».
E poi, un’anima come la si crea? Quanto incide una corretta alimentazione nel contribuire al progetto? E nel caso, sarebbe meglio una dieta iperproteica o senza glutine, oppure povera di sodio? E gli amminoacidi ramificati, la carnetina, oltre ad aumentare la massa muscolare, potrebbero far lievitare l’anima? L’anima è più sviluppata nei vegetariani o negli obesi? E quale attività sportiva predilige un’anima? Una disciplina aerobica o anaerobica? Mi spiego: è più adatta per un’anima la maratona o il curling? oppure sarebbe meglio lo sci da discesa con attrezzi curving o lo snorkeling con pinne lunghe?
E poi che giochi si regalano a un bambino per agevolare il processo: pistole, frecce, Gameboy o il puzzle del Libro tibetano dei morti?
Ma soprattutto, a cosa serve un’anima? Nessuno più te la chiede; quando ti fermano i carabinieri si accontentano di patente e libretto; se acquisti su Internet, bastano carta di credito e mail e il resto del mondo pretende e desidera solo account e password!
A pensarci bene, un’anima sembra la cosa più antimoderna che possa esistere, più antica del treno a vapore, più vecchia del televisore a tubo catodico, più démodé delle pattine da mettere in un salotto con la cera al pavimento; lontana come una foto in bianco e nero, bizzarra come un ventaglio, eccentrica come uno smoking e inutile come un papillon.
Telefonai a padre Bruno e chiesi: «Ma come si fa a fare un’anima? ».
E lui rispose: «Cominci con il ringraziare». «Chi? », domandai. «Il Padreterno che le ha donato un figlio e questa cose meravigliose che sono il mondo e la vita».
«E se non ci credessi, se fosse tutto un caso? ».
«E lei ringrazi il caso, che non ha faticato meno del Padreterno, benedica la circostanza, ma non si dimentichi mai di ringraziare».
E poi aggiunse: «La seconda qualità dell’anima è la gentilezza, sia sempre gentile con tutti».
«Anche con quelli sgarbati? Anche con quelli che ti fanno domande importune? ».
«Sì, sia sempre gentile e chieda: perché vuole saper proprio questa cosa? Vedrà che cambierà domanda o starà in silenzio».
Padre Bruno mi congedò perché era affaticato, mentre io avrei avuto altre cento domande da fargli a proposito dell’anima. «Le prometto che verrò a visitarla in sogno».
Sorrisi della sua affermazione e dissi: «Ma non si disturbi, vengo io a trovarla in sagrestia».
La notte stessa ci lasciò perché, come lui amava dire, era arrivato il giorno dell’appuntamento con la Persona più importante.
Un giorno ero assorto nei miei pensieri, quando un tizio in maniera assolutamente sgarbata mi rivolse la seguente domanda: «Perché ha parcheggiato la macchina in seconda fila? ». Io misi in pratica il consiglio di padre Bruno e gentilmente chiesi: «Perché vuole farmi proprio questa domanda? ».
E lui: «Perché sono un vigile e questa è la sua bella contravvenzione, e mi ringrazi che oggi sono di buon umore, altrimenti gliela facevo rimuovere la sua bella macchinetta, ha capito?».
Ho ringraziato gentilmente. Ma poi guardando meglio mi accorsi che il vigile rideva, ma non solo era padre Bruno travestito. Lo stavo sognando!
Mi abbracciò e chiese: «Allora come se la sta cavando con l’anima? ».
«Mi applico ma non ci capisco niente. Ma, padre Bruno, l’anima è una cosa che esiste solo nelle canzoni, quasi sempre in inglese... ».
«Si ricordi un’altra cosa: l’uomo supera infinitamente se stesso».
E svanì come nella nebbia, anzi come in un sogno.
Al risveglio mi accolse il sorriso di mia moglie, e dopo essermi stiracchiato come un gatto le dissi: «Lo sai, amore, oggi sento che posso infinitamente superare me stesso». E lei rispose: «Come te la tiri! ». Mi sa che ci vuole pratica per fare un’anima!