domenica 27 maggio 2012

La Stampa 27.5.12
Il tesoro nascosto al Fisco vale quasi il 20% del Pil
L’Istat ha quantificato il sommerso del 2008 in una cifra tra i 255 e i 275 miliardi
E nel 2009 gli italiani hanno dichiarato 780 miliardi di reddito e ne hanno spesi 918
di Roberto Giovannini


ROMA Chissà se Mario Monti riuscirà a convincere gli italiani che l’evasione fiscale è - in fondo - il loro nemico principale. Perché ammazza la concorrenza, perché spiazza le imprese generando inefficienza, perché crea ineguaglianza tra le persone anche per quanto riguarda il godimento di certi servizi sociali. Perché l’evasione fiscale impoverisce molti arricchendo pochi. E tecnicamente deruba ogni giorno che passa tutti i contribuenti (forzatamente, o volontariamente) onesti. Sarà dalla metà degli anni ’80 che in tanti ci hanno provato a spiegare questi semplici concetti, a far capire che quello che funziona - pagare le tasse correttamente - in mezzo mondo e in quasi tutta Europa potrebbe e dovrebbe funzionare anche in Italia. Altrettanti protagonista della politica - basti ricordare le celebri battute di Silvio Berlusconi, o le teorizzazioni di Giulio Tremonti, prima che si scoprisse antimercatista e rigorista in finanza pubblica hanno preferito cavalcare certe pulsioni profonde di un popolo come il nostro, che considera lo Stato un nemico e le tasse un’estorsione.
Il problema è che forse, stavolta, la tragica situazione in cui versano i conti pubblici potrebbe aiutare a sconfiggere certe resistenze e certe timidezze. Tra la necessità di finanziare il mostruoso debito pubblico e i vincoli imposti dall’Europa che stanno schiantando l’economia italiana, ormai spazi per aumentare le tasse su chi le paga puntualmente non ce ne sono davvero più. Ma si può e si deve prendere riducendo la «torta» dell’evasione fiscale.
Una torta davvero gigantesca. Secondo i dati dell’Istat - il «Rapporto del gruppo di lavoro sull’economia non osservata» - nel 2008 la parte fiscalmente sommersa dell’economia, lavoro nero compreso, valeva addirittura 255-275 miliardi. Parliamo di un ammontare che sta tra il 16,3 e il 17,5% del Prodotto interno lordo. Le cose non vanno allo stesso modo in tutti i settori: l’incidenza è «solo» del 12% nell’industria, del 21% nei servizi e nella finanza, del 30% in agricoltura, del 50 per cento addirittura nel turismo. Un flusso di ricchezza su cui non viene pagato un euro di tasse o contributi. Se, ipoteticamente, si riuscisse a percepire il 10% di imposte su questo reddito, ogni anno entrerebbero nelle casse dello Stato 27 miliardi di euro. Una supermanovra extra annuale; oppure, una riduzione del prelievo di ammontare analogo per i cittadini.
Risorse, spiegano gli esperti, che naturalmente non si possono ricercare se non «mungendo» la mucca dell’evasione in modo graduale e opportuno. A meno di voler mettere in ginocchio la miriade di operatori economici e di settori che prosperano evadendo le tasse. Ma la strada è obbligata, se non si vuole accettare una realtà - rivelata da un’inchiesta del «Sole24Ore» - secondo cui nel 2009 gli italiani hanno dichiarato al fisco redditi per 783,2 miliardi, ma hanno effettuato acquisti per 918,6 miliardi. In pratica, ogni 100 euro registrati nel modello Unico e nel 730, ne sono stati spesi 117, con punte vicine a 140 in Calabria e Sicilia. Regioni, quelle meridionali, dove secondo alcuni studi il livello di propensione all’evasione è decisamente più elevato rispetto al centro-nord del paese. Studi che però non tengono conto dell’evasione «legale» effettuata dalle società grandi o piccole, ovviamente molto più diffuse nelle aree più ricche e produttive del paese.
Quale sia il messaggio «positivo», e non solo «repressivo», da veicolare lo mostrano i conti del Centro Studi di Confindustria. La pressione fiscale «ufficiale» - la percentuale di ricchezza che finisce in tasse e contributi in rapporto al prodotto interno lordo - è del 43,2%. E tiene conto anche parzialmente del sommerso. La pressione fiscale effettiva sui contribuenti che pagano integralmente le imposte è invece pari al 51,4% del Pil. Si può continuare così?

l’Unità 27.5.12
Il Pd sfida il centrodestra: subito il doppio turno
Bersani martedì proporrà il patto tra riformisti moderati e liste civiche
di Maria Zegarelli


Il sospetto, fortissimo, è quello di trovarsi per l’ennesima volta di fronte ad un bluff, uno di quelli a cui «Silvio Berlusconi ci ha purtroppo fatto abituare e la vicenda della Bicamerale è un precedente esemplare». Questo dicono al Nazareno, all’indomani della conferenza stampa flop di Berlusconi e Angelino Alfano. E nessuno crede sia soltanto una gaffe del segretario dal quid incerto, «Silvio Berlusconi presidente della Repubblica»: anche qui il sospetto è che si tratti di una frase dal sen fuggita a furia di parlarne e riparlarne nei colloqui riservati.
Berlusconi punta a tenersi il Porcellum e mira al Quirinale, come lascia intuire nella sua risposta sibillina, «farò quello che mi chiederà il Pdl». «Quello è il suo obiettivo dice Beppe Fioroni perché dalle simulazioni del voto fatte effettuare da Denis Verdini viene fuori che una legge elettorale con il doppio turno sarebbe un disastro per il Pdl, ragion per cui l’unica possibilità di accettarla è quella del semipresidenzialismo». Anche Walter Verini non crede alla bontà dell’offerta Pdl, «sia per la provenienza Della proposta, sia per la proposta in sé arrivata fuori tempo massimo. Sono d’accordo con Violante e Franceschini, noi non abbiamo problemi ad andare a vedere quali sono le intenzioni, non mi dispiace affatto il semipresidenzialismo, ma il Pd deve incatenarsi prima di tutto alla riforma della legge elettorale. Facciamo questa, adesso, e poi incardiniamo un ragionamento serio sul riassetto costituzionale».
Su questo sono tutti d’accordo nel Pd, da Enrico Letta e Rosy Bindi: nessun gioco di prestigio considerata la coda di legislatura che ci separa dal voto della primavera 2013. Immaginare, poi, che si possa mettere mano ad un tale cambiamento degli equilibri dei poteri previsti dalla Carta Costituzionale presentando un «emendamento» alla proposta a cui sta lavorando la Commissione Affari costituzionali del Senato, al Nazareno viene considerata poco più di una «battuta di spirito», con buona pace del presidente di Palazzo Madama, Renato Schifani, che ieri l’ha ritenuta una strada percorribile.
LA VERA POSTA IN GIOCO
Pier Luigi Bersani, che sta lavorando alla relazione che presenterà martedì alla direzione del partito, non crede alle buone intenzioni dell’ex premier. «Non ci sono le condizioni», ha replicato a caldo. E a chi, dal fronte Pdl, dice come fa Maria Stella Gelmini che adesso si vedrà «chi vuole davvero le riforme» e chi vuole lasciare tutto come è, il segretario replica che non è da oggi «che si misura la volontà riformatrice del Pd». Adesso è il tempo di scegliere «cosa è necessario e cosa è possibile fare», ha spiegato ieri. E tra le cose necessarie per Bersani c’è «la riforma della legge elettorale e noi siamo per il doppio turno alla francese», mentre tra quelle possibili ci sono le riforme di cui il Parlamento sta discutendo in queste settimane, dalla riduzione dei finanziamenti ai partiti, a quella del numero dei parlamentari. Bersani non chiude al semipresidenzialismo, ma non intende rischiare di non portare a casa alcuna riforma prima della fine della legislatura. Sarebbe un segnale devastante per il Paese e per la politica. «Sbaglia chi pensa che Berlusconi sia uscito di scena, basta un laspus e si capisce a cosa mira, e sbaglia chi ritiene che la destra non ci sia più», ha ragionato con i suoi. Nasce anche da qui la convinzione che sia necessario lanciare un Patto tra progressisti e moderati aperto al civismo, perché, dice, deve essere il Pd «il perno di un’alleanza che parla al Paese» che allarga e non restringe i suoi confini in grado di rivolgersi anche a quella larghissima fetta di elettori che non si riconosce nei partiti ma cerca rappresentanza. Motivo per cui non risponde, adesso, a Di Pietro e Vendola che lanciano ultimatum in vista delle prossime elezioni.
Risponderà, invece, a Berlusconi, invitandolo «a scoprire le carte» e dimostrare che anche il Pdl vuole davvero «cambiare la legge elettorale» anziché anteporre la riforma costituzionale rischiando di non riuscire a far nulla.
«Capisco lo scetticismo di Bersani, la sua diffidenza», dice Paolo Gentiloni Il segretario per il quale però il Pd, ha «il dovere di Pd Pier Luigi capire» se è «l’occasione per cambiare Bersani FOTO ANSA profondamente l’ossatura istituzionale del Paese. Esiste una sola possibilità? Bene, verifichiamolo in tempi rapidi». Ipotesi che non piace affatto a Vannino Chiti, «sconcertato e anche un po’ indignato» nel sentire «esponenti politici, anche progressisti, affermare che sulla proposta di presidenzialismo, riesumata da Berlusconi a sette mesi dalla fine della legislatura, occorre andare a vedere e verificare se sia un bluff. La Costituzione non è un gioco di poker né una proprietà dei partiti». Per Rosy Bindi dietro la mossa a sorpresa di Berlusconi c’è soltanto la «indisponibilità a fare la riforma elettorale del Porcellum, che per noi è fondamentale». Di sicuro un obiettivo l’ex premier l’ha raggiunto: non far parlare per qualche oradel disfacimento del suo partito.

il Fatto 27.5.12
Sinistra, l’ultimo giro
di Paolo Flores d’Arcais


Non c’è solo lo “schiaffo di Parma”, dove in qualche settimana i consensi per il movimento di Grillo passano dal 6% dei primi sondaggi al 60% del secondo turno. Il manrovescio assestato dai cittadini ai “padroni” della politica risuona con le percentuali inaudite di astensionismo. E l’oscillazione del “gradimento” per i partiti fa perno fisso intorno al 5%. Il che significacheinunademocraziaRAPPRESENTATIVA degna del nome, su mille seggi parlamentari i partiti ne occupano oggi abusivamente 950.
E non intendono mollarli. Con una legge “salva-casta” di intruglio tedesco-spagnolo peggiore dell’attuale “porcata” a cui stanno inciuciando. Oppure con una riedizione della tragedia del ’94: i partiti dell’establishment in rotta (il Caf: Craxi-Andreotti-Forlani) e l’opposizione ex-Pci che si chiude nell’autoreferenzialità partitocratica della “gioiosa macchina da guerra” anziché aprirsi alla società civile (come l’anno precedente per l’elezione dei sindaci), consentono a un nuovo partito di establishment peggiore del precedente, “Forza Italia”, di umiliare l’Italia della legalità.
Oggi, come allora, il “Terzo Stato” di “giustizia e libertà”, maggioritario nel paese, rischia di non conquistare il governo. Può infatti il M5S, da solo, prevalere su ogni altra alleanza (Berlusconi, “tecnici”, Casini e montezemoli)? Dovrebbe sfiorare il 40%. Sembra improbabile, malgrado l’accelerazione esponenziale dei consensi, propiziata da ogni proclama di vittoria alla Bersani e da ogni “non vedo il boom” di Napolitano. Anche perché masse di cittadini democratici che simpatizzerebbero con le giovani leve di M5S restano offesi dagli atteggiamenti dittatorial-proprietari di Grillo, e si rifugiano nel non-voto.
Ma l’attuale centro-sinistra delle nomenklature si illude se pensa di poter recuperare i consensi sufficienti a diventare la prima forza elettorale. L’Italia che chiede eguaglianza ed efficienza, lavoro e meritocrazia, in una parola speranza, non si fiderà mai più delle sempiterne facce di chi ha inciuciato con Berlusconi, esaltato Marchionne e incensato Monti.
La sinistra ha qualche chance solo se si rimette in gioco, aprendo radicalmente alla società civile, a sue liste civiche rigorosamente autonome, a primarie non condizionate da “pastette” di partito, a un programma radicale elaborato dagli elettori (perfino in dialogo col M5S). Sono le pregiudiziali poste da 25 milioni di italiani che altrimenti non andranno a votare. Vogliamo discuterne seriamente, con passione civile, dunque senza personalismi, spirito di bottega e acrimonie caratteriali?

Corriere 27.5.12
L'ultimatum di Sel e Idv a Bersani
E Grillo sospetta stragi di Stato: bomba o non bomba, arriveremo a Roma
di Alessandro Trocino


ROMA — Da una parte il Pdl, che lancia il sistema semipresidenziale alla francese e prova a seminare zizzania. Da un'altra Beppe Grillo, che dopo gli attacchi al Pd alza il livello dello scontro, attribuendo attentati e stragi al tentativo di «fermare il cambiamento». Dall'altra ancora Antonio Di Pietro e Nichi Vendola, che lanciano un ultimatum sulle alleanze. Il Pd, tirato per la giacchetta da più parti, prova a tenere diritta la barra, ma evita di dare risposte dirette, in attesa della Direzione di martedì, dove potrebbe essere lanciato un patto che coinvolga liste civiche nazionali, moderati e riformisti. L'ultimatum di Italia dei valori e Sinistra e libertà arriva in tv, al programma «In onda», su La7. Qui si presentano Di Pietro e Vendola, che si fanno immortalare con la sagoma cartonata di Pier Luigi Bersani. In questa scenografica postura, lanciano la loro richiesta, perentoria: o subito gli Stati generali per un centrosinistra unito oppure si parte da soli. La data della nuova Vasto (quella della famosa foto che aveva fissato simbolicamente un'alleanza a tre) è già fissata, con tanto di invito a Bersani: 21-23 settembre.
Vendola, che abbraccia scherzosamente un Bersani cartonato e accigliato, è chiaro: «Convochiamo gli Stati generali del futuro. Bersani dice no? Io e Di Pietro apriamo il cantiere, cominciamo lo stesso. Da soli». Bersani, cartonato, tace. E non si pensi di tirarla troppo in lungo: «Le tarantelle, il gioco dei 4 cantoni o delle belle statuine, i balletti dell'alleanzismo — dice Vendola con un neologismo — a me non interessano. Bisogna capire qual è il cuore della proposta di Bersani. Se c'è una critica delle politiche liberiste e di austerità del governo Monti, è il nostro programma. Anche io avevo attese rispetto al nuovo governo, ma è fallita l'idea del Pd di condizionarlo. E la linea vincente, come si vede, è quella di Hollande: è battere la Merkel».
Fissata l'asta a sinistra, Vendola ammorbidisce i toni: «Il nostro non è né un ultimatum né una minaccia, ma abbiamo il dovere di costruire una risposta alla sparpagliata richiesta di cambiamento che viene dal Paese». La proposta è questa: «Noi siamo disponibili a un programma socialdemocratico di tipo europeo. Proponiamo a Bersani di essere una coalizione limpidamente antiliberista». Anche Antonio Di Pietro rilancia le ragioni di Vasto: «Ho scritto a Bersani: lo aspettiamo a Vasto dal 21 al 23 settembre. È da lì che bisogna ripartire per costruire un'alleanza molto più ampia. Se non coinvolgiamo la società non bastiamo più neppure noi, rischiamo di essere superflui».
Il Pd sceglie di tacere. Parla solo Davide Zoggia: «Si allunga l'elenco degli insulti di Di Pietro». E Enrico Farinone: «No agli aut aut, gli estremismi non servono». Enrico Letta, che non ha mai visto di buon occhio l'alleanza a sinistra, non cambia idea: «Bisogna modificare la legge elettorale e andare al doppio turno per abbandonare l'epoca delle coalizioni forzose, che non è stata fruttuosa. La nostra strategia deve ruotare intorno al Pd come forza guida».
Quanto a Grillo, il suo post di ieri ha un titolo vendittiano: «Bomba o non bomba arriveremo a Roma». Il leader a Cinque Stelle sa chi sono i responsabili del ferimento di Adinolfi a Genova e della bomba a Brindisi: sono le «forze che vogliono mantenere gli interessi costituiti, economici e politici». Tesi non molto diversa da chi le ritiene, come si diceva una volta, che si tratti di «stragi di Stato». Grillo cita, tra l'altro, le stragi di piazza Fontana, Capaci e alla stazione di Bologna. Parole che non piacciono a Rosy Bindi: «Con le bombe non si scherza». Né a Emanuele Fiano: «Cinico marketing elettorale».

l’Unità 27.5.12
Vendola e Di Pietro, ultimatum al Pd sull’alleanza
Appello a Bersani: «Subito gli stati generali del centrosinistra» per ampliare l’alleanza di Vasto
di N. L.


ROMA È quasi un ultimatum politico quello che Nichi Vendola e Antonio Di Pietro hanno lanciato a Pier Luigi Bersani: costruiamo insieme un «cantiere» in stile Hollande o lo facciamo da soli: «Convochiamo gli Stati generali del futuro, del centrosinistra come luogo per salvare il Paese. Bersani dice no? Io e Di Pietro apriamo il cantiere, cominciamo lo stesso da soli», ha detto il leader di Sinistra e Libertà durante la registrazione della trasmissione In Onda su La7.
Ospite anche Di Pietro, tra loro nello studio c’è anche Bersani, ma solo come sagoma di cartone. E se il segretario del Pd martedì in direzione lancerà il «Patto dei progressisti» che tenga insieme riformisti e moderati, ma anche le liste civiche, Vendola e Di Pietro propongono un’alleanza più «vasta» della famosa «foto di Vasto» che immortalò l’abbraccio tra i leader del Pd, di Sel e dell’Idv.
Finora Bersani non ha risposto alle richieste di incontro lanciate dai due leader all’indomani delle amministrative, nelle quali l’alleanza a tre è stata vincente. Entrambi sembrano d’accordo con Bersani nella proposta di andare oltre l’immagine simbolo scattata alla convention dell’Idv nel settembre 2011. L’obiettivo è quello di coinvolgere «ampie fette della società civile ma rilanciando quel progetto vincente di centrosinistra», spiega Vendola, una coalizione «antiliberista, come quella che ha vinto in Francia con Hollande» che unisca non solo i partiti ma anche chi ha costruito«la contestazione a Berlusconi e al leghismo, dal movimento degli studenti, ai precari, alle donne di “Se non ora quando”, ai comitati ambientalisti». Il leader di Sel chiede un «programma per l’Italia» piuttosto che le «tarantelle sulle alleanze». E nel «cantiere» i temi cari a Sel vanno dal «reddito minimo garantito per le giovani generazioni» al «welfare ambientale per la messa in sicurezza» dei territori. E se per Vendola stare con Montezemolo è un po’ complicato» per una questione «di classe», stare con Grillo è «difficile», come lo è «sapere dove sta lui, anche per molti grillini».
Di Pietro annuncia la data per scattare la foto allargata: «Ho già scritto a Bersani per dirgli che lo aspettiamo a Vasto dal 21 al 23 settembre», ha detto ieri. E, un po’ sulle frequenze del grillismo, straccia le «formule» delle alchimie politiche: «Io chiedo un programma chiaro e preferisco stare fuori dal grumo di potere di chi si guarda allo specchio e pensa di rappresentare il Paese mentre rappresenta solo se stesso. Stabiliamo tre cose chiare: non si candidano i condannati, c’è un’incompatibilità con altri ruoli, chi è eletto non può avere incarichi di governo».
Dalla segreteria Pd risponde Davide Zoggia, responsabile enti locali, che non fa sconti al leader Idv: «Consegneremo l’elenco delle invettive, degli insulti e delle provocazioni che da mesi sta riservando al Pd», anche ieri, pensando a «dare cazzotti a quello che dovrebbe essere il principale alleato e guida della coalizione. La nostra risposta è semplice: decida cosa vuole fare da grande Di Pietro».
Insomma, di nuova foto di Vasto c’è solo quella che, scherzosamente, viene scattata nello studio dai conduttori Luca Telese e Nicola Porro, con Vendola che abbraccia il Bersani di cartone.

Corriere 27.5.12
Nicola Latorre: «No a cimeli preistorici, serve altro. Una lista unica che parta dal basso»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Una grande unica lista alle prossime elezioni, che raccolga il Pd, Sel, ma anche i movimenti, le associazioni ed esponenti della società civile, e che nasca dal basso: è questa la controproposta che Nicola Latorre, vicecapogruppo del Pd al Senato, avanza a Vendola.
Può spiegarsi meglio?
«Io credo che il voto francese, prima, e le amministrative, poi, segnino un giro di boa nella situazione italiana. Il voto francese certifica la fine dell'asse Merkel-Sarkozy. Ci sono quindi le condizioni perché l'Italia partecipi attivamente a sconfiggere l'attuale politica tedesca. Il voto amministrativo sancisce invece la fine della stagione berlusconiana. Siamo dunque nel pieno di una transizione i cui sbocchi sono assolutamente imprevedibili».
Quindi?
«Quindi si può uscire da questa situazione o con una svolta vera o con una deriva che ferma ogni processo di cambiamento nel solco delle migliori tradizioni gattopardesche italiane. Ma tornando alle amministrative: il loro risultato segna un successo del centrosinistra e conferma il Pd quale unica forza politica radicata che mantiene una dimensione nazionale. Perciò dobbiamo essere noi il perno attorno a cui costruire un nuovo progetto di governo. Ma non dobbiamo guardare con trionfalismo al risultato. Ora inizia la sfida vera. Che è mettere in campo un'iniziativa che si misuri con il cuore del problema: la crisi della democrazia. Oggi la domanda di cambiamento e rinnovamento delle classi dirigenti così forte si coniuga con una grande domanda di democrazia diretta, di partecipazione attiva dei cittadini. È anche in questa chiave che va letta la critica ai partiti e alla politica come oggi appare, non in grado di rispondere a questa domanda di democrazia. E invece la nostra proposta politica deve rispondere a questa domanda e risolvere il rapporto tra essa e la democrazia rappresentativa. Se è questo il problema anche la questione delle alleanze si ripropone in termini nuovi: tanto la foto di Vasto quanto la discussione se bisogna andare con Casini o Vendola appaiono come cimeli preistorici».
Che fare, allora, secondo lei?
«Recuperare l'ispirazione fondamentale che ci spinse a dare vita al Pd: quella di creare un soggetto politico in grado di raccogliere in sé tutte le istanze di cambiamento. Per questo oggi si impone una nuova fase del processo costitutivo che non può che partire dal basso. Io penso che il Pd dovrebbe essere promotore in tutte le realtà territoriali di laboratori urbani laddove i nostri militanti si confrontino con associazioni di base, cittadini, movimenti, con le fabbriche di Vendola. E alle elezioni dobbiamo presentarci con un'unica lista che incarni la proposta di governo che vogliamo offrire al Paese, frutto anche di questo lavoro nei territori. Ritengo invece un inutile tatticismo quello di pensare di poter recuperare il rapporto con la società attraverso una lista civica che affianchi il Pd: mi sembra un modo per sancire il fallimento del progetto del Partito democratico».
E le primarie?
«Le primarie non devono essere, come sembra invece pensare Renzi, un modo per regolare i conti all'interno ma uno strumento per costruire il grande partito politico che abbiamo sempre immaginato. In questo quadro sono convinto che Bersani possa essere il nostro Hollande».
Lei pensa a un Pd che inglobi tutto.
«No, immagino una nuova tappa della formazione del Pd che riparta dal basso e culmini in una unica lista. E Vendola può entrare a pieno titolo in questo processo, che però deve partire dal basso: non può essere un'operazione politicistica. Per rinnovare davvero dobbiamo metterci in discussione, sennò siamo destinati a perire.
E in questo quadro qual è il rapporto tra il Pd e il governo?
«Il voto ha dimostrato che i nostri elettori hanno capito l'appoggio al governo, ma se entro l'estate non approviamo almeno in un ramo del Parlamento la riforma elettorale, la riduzione dei parlamentari, non risolviamo il problema degli esodati, dei crediti della pubblica amministrazione e non modifichiamo almeno in parte il patto di stabilità dei Comuni questa comprensione entrerà in crisi».

Corriere 27.5.12
Se la sinistra vuole governare dimostri di essere cambiata
di Antonio Polito


C' è una forte irritazione ai vertici del Pd e nella stampa democratica per l'emergere di nuovi potenziali soggetti politici, da Grillo a Montezemolo a Passera: tutti ritenuti, pur nella loro diversità, in grado di sabotare la marcia elettorale della sinistra verso il governo. Con la consueta chiarezza Massimo D'Alema, in un'intervista all'Espresso, ha esplicitato questo timore accusando «una parte della borghesia italiana» di essere pronta a sostenere «tutto purché non si esca a sinistra dalla crisi del berlusconismo».
D'Alema segnala un'indiscutibile anomalia italiana. Nel resto d'Europa, infatti, non bisogna inventarsi nuovi partiti e movimenti ogni qualvolta la classe dirigente al governo fallisce o finisce: basta votare per l'opposizione. Se i tedeschi sono stanchi della Merkel avranno la socialdemocrazia, quando gli inglesi non ne potranno più di Cameron passeranno la mano ai laburisti, e in Francia pur di non tenersi Sarkozy hanno appena eletto il socialista Hollande.
Non so se in Italia sia l'establishment a non consentire questa naturale alternanza, scegliendo di volta in volta il «pifferaio» che la può impedire; ma di certo l'elettorato mostra qualche renitenza a trasferirsi da un centrodestra in disfacimento a una sinistra di governo, e dovunque trovi un outsider sembra preferirlo, come è stato chiaro alle ultime amministrative.
Chi si ribella a questa anomalia deve dunque analizzarne la causa e indicarne il rimedio. Il sospetto che circonda la sinistra in Italia è infatti pienamente giustificato dal fatto che essa ha fallito la prova del governo entrambe le volte in cui l'ha conquistato. Gli italiani diedero la maggioranza al governo Prodi nel 1996, ma in poco più di due anni la coalizione si sfasciò, un pezzo di sinistra se ne andò, e D'Alema lo ricorda bene perché toccò a lui arrabattare un'altra maggioranza che comprendeva pezzi di centrodestra. Nel 2008 gli italiani ridiedero la maggioranza, anche se molto risicata, all'Unione di Prodi; e anche quella volta tutto finì nel giro di due anni. D'altra parte, se è vero che i governi di sinistra tennero sotto controllo il deficit, è pur vero che lo fecero ricorrendo a una forte pressione fiscale e senza riavviare la crescita, esattamente ciò che la sinistra rimprovera oggi a Monti. Insomma: è quantomeno legittimo non fidarsi, visti i precedenti.
A questo passato si potrebbe ovviare offrendo una garanzia per il futuro. La sinistra potrebbe cioè convincere gli italiani che la prossima volta non sarà come le due precedenti. Però, a differenza che in tribunale, in politica l'onere della prova incombe sul sospettato. Non sono gli elettori a doverci credere, ma la sinistra a doverlo dimostrare. Per ora, a dire la verità, né le possibili alleanze, né il personale politico, né i contenuti programmatici sembrano discostarsi significativamente da quelli che furono alla base degli insuccessi precedenti. Non è che se c'è Vendola al posto di Bertinotti e Di Pietro al posto di...Di Pietro, le cose cambino molto. Per giunta, stavolta non c'è neanche un Prodi.
Di qui alle elezioni la sinistra ha certamente il tempo e l'opportunità di dimostrare che non è quella di sempre. Spetta però a lei passare questo esame, e non c'è alcuna buona ragione per pretendere un sei politico preventivo da parte di establishment e popolo.

La Stampa 27.5.12
I partiti bloccati
L’incapacità di un ricambio di leader
di Luca Ricolfi


C’ è un pensiero, o meglio una domanda, che ultimamente mi perseguita quando penso alla politica italiana. Con tutto quel che è venuto fuori su Bossi, sua moglie, i suoi figli, compresa la laurea falsa del «trota» comprata in Albania, come è possibile che Bossi resti al comando? Come è possibile che anche quanti si ripromettono di ripulire e rifondare la Lega prendano seriamente in considerazione l’ipotesi di un partito con un segretario diverso (Maroni) ma con Bossi presidente della «nuova Lega»? Che cosa deve succedere perché un capo-partito venga non dico cacciato, espulso, punito, ma semplicemente archiviato? Che cosa fa sì che non si possa mai assistere a una battaglia politica che porti alla sostituzione di un vecchio gruppo dirigente con uno nuovo e diverso?
Questo genere di domande me le ero già fatte molte volte a proposito di Berlusconi e del suo partito, ma lì avevo una risposta: Berlusconi ha i cordoni della borsa, e ha sempre fatto attenzione a non dare spazio a persone troppo capaci o indipendenti da lui.
Che il Pdl senza Berlusconi rischiasse di implodere (come ora sta succedendo) è sempre stata per me una risposta soddisfacente alla mia istintiva e un po’ moralistica domanda: visto che ne combina di tutti i colori, perché i suoi non se ne liberano?
Ma con la Lega è diverso. Bossi non ha risorse economiche proprie (tanto è vero che usa quelle della Lega a beneficio dei suoi familiari), e inoltre non è circondato da figure chiaramente minori rispetto a lui stesso. Se volessero, i suoi potrebbero benissimo dirgli: caro Umberto, hai abusato della tua posizione, hai 70 anni suonati, ora fatti da parte che la Lega la prediamo in mano noi.
Mentre mi chiedevo perché non succede, ha cominciato però a ronzarmi un pensiero più radicale, una sorta di sospetto più generale. Mi sono venute in mente decine e decinedi situazioni, non solo nella politica, ma anche al di fuori di essa in cui succede la stessa  cosa. La resistenza dei vecchi capi al cambiamento, e soprattutto la rinuncia dei giovani a dare battaglia, va molto al di là del recinto del centrodestra. Anche nelle imprese, nelle università, nelle fondazioni bancarie, l’età media dei capi è prossima ai 60 anni, ma soprattutto - questo è il fatto interessante - i quarantenni non danno battaglia. Aspettano. Attendono fatalisticamente che venga la loro ora. Una sorta di «sindrome di Carlo d’Inghilterra», che ormai 65enne non sa ancora se mai ascenderà al trono. Con la differenza che una posizione dirigente nella politica, nell’economia, o nella società non si eredita come un trono, ma si dovrebbe conquistare in base ai meriti guadagnatis ul campo.
Ecco, i meriti. Forse questo è il punto. Forse la ragione per cui nessuno dà battaglia, anche quando avrebbe tutte le carte in regola per farlo, è che in Italia i capi beneficiano di un sovrappiù - di un anomalo e perverso sovrappiù - di deferenza, di rispetto, di gratitudine. Una sorta di intangibilità, che fa apparire tradimento quella che altrove sarebbe giudicata una normale e fisiologica competizione fra gruppi e generazioni. Ma da dove deriva tale sovrappiù? Come siamo arrivati, un po’ tutti, ad esitare di fronte all’eventualità di intraprendere certe battaglie?
La risposta è che in Italia si va avanti per cooptazione. Anche chi va avanti con pieno merito, ingenere può farlo solo perché qualcun altro - il «capo» - a un certo punto ha dato disco verde. Ha chiamato. Ha promosso. Ha coinvolto. Ha incluso. Ha ammesso nel clan, nel gruppo, nella rete, nel «cerchio magico». A quel punto è naturale per il cooptato maturare un senso di riconoscenza, di fedeltà, di lealtà, che gli fa percepire ogni possibile battaglia futura come un tradimento, una manifestazione di ingratitudine. Questo meccanismo è così diffuso, così endemico, quasi scolpito nel nostro modo di sentire, che finisce per coinvolgere anche chi - in realtà - avrebbe tutti i numeri per dare battaglia, per promuovere il ricambio, per liberarci di personaggi che, con il passare degli anni, diventano un peso, se non altro perché non possono più dare il meglio di sé. Una singolare incapacità di «uccidere il padre», nel senso freudiano di diventare grandi e maturi, inquina e intorbida la vita del nostro Paese. Il padre non viene ucciso semplicemente perché gli dobbiamo troppo, se non tutto; e chi ha grandi debiti non può essere libero, non solo in economia.
Più che i padri che non lasciano il comando, colpisce il fenomeno dei figli che nulla fanno per prenderlo. Come se ereditare fosse l’unica modalità di successione che conoscono. E non si pensi che, in politica, il problema riguardi solo la destra. C’è una controprova clamorosa che non è così. Tu apri Radio Radicale e immancabilmente, quotidianamente, incappi in una esternazione di Marco Pannella. Un fiume di parole disordinato e sostanzialmente incomprensibile, almeno per persone normali.
Perché? Perché nessun politico radicale ha mai seriamente conteso la leadership all’ultra-ottantenne Pannella?
Qui non c’entrano i soldi, non credo che Pannella finanzi il suo movimento politico. Non credo che i radicali abbiano fatto particolare attenzione a escludere persone capaci. Non credo che, ad esempio, a Emma Bonino manchino le qualità per assumere la piena leadership dei radicali. Eppure non è mai successo. Non succede. Non succederà. La deferenza verso i capi, la sottomissione all’autorità dei cooptanti, è così profonda, in Italia, da coinvolgere persino i radicali, ovvero il più anti-autoritario, il più libertario, il più laico fra i gruppi politici italiani. Per non parlare del Pd, dove un gruppo di colonnelli 60enni controlla il partito da un quarto di secolo, i futuri premier vengono decisi a tavolino (ricordate le primarie finte per Prodi?), e i rarissimi casi anomali - come quello di Matteo Renzi, che ha sfidato apertamente il partito - sono visti con un misto di irritazione, insofferenza, fastidio. Né, forse, è solo un caso che le uniche novità importanti e relativamente giovani del panorama politico italiano - il movimento Cinque Stelle e Italia Futura - abbiano avuto bisogno, per venire al mondo, di due levatrici non precisamente giovanissime, ovvero il 64enne Beppe Grillo e il 65enne Luca Cordero di Montezemolo. Che cosa dobbiamo attenderci, dunque? Forse esattamente quel che potrebbe succedere in Inghilterra, dove ormai è più probabile che il trono della vecchissima regina Elisabetta (86 anni) passi al giovanissimo principe William (30) che non al vecchio Carlo (65), «principe del Galles». La generazione dei Fini, Casini, Maroni, Bonino ha atteso troppo a condurre le proprie battaglie. Quando ricambio ci sarà, è più facile che a imporlo sianoi 30-40ennidi oggi. Specie quelli che hanno meriti e capacità proprie, e non debbono ai vecchi le posizioni che occupano.

l’Unità 27.5.12
Grillo, il segno del comando  colpisce la democrazia
Oggi si decide il futuro Ma attenti alle pulsioni che hanno covato nella crisi e nel berlusconismo
di Michele Ciliberto


Che cosa sta succedendo nel fondo del nostro Paese, a cosa allude il successo del movimento di Grillo, cosa significa? Si tratta di qualcosa di superficiale e di epidermico, destinato a durare lo spazio di un mattino, o rappresenta qualcosa di più profondo, con cui occorre misurarsi, al di là di quello che si possa pensare di Grillo e del suo movimento?
Penso che per fare un’analisi adeguata occorra partire da un punto che molti commentatori ed analisti politici tendono a oscurare, se non a dimenticare. Occorre, in altri termini, partire dalla crisi e dalla decomposizione delle forme della rappresentanza democratica nell’epoca del berlusconismo; in sintesi, occorre partire dalla lunga crisi della democrazia italiana.
Ricordiamo a chi sembra averlo dimenticato di cosa si tratta: dissoluzione di ogni funzione effettiva del Parlamento; predominio dell’esecutivo sul legislativo; lotta sistematica al potere giudiziario e alla sua autonomia; formazione di un ceto politico senza arte né parte, totalmente autonomo da ogni forma di controllo, imposto alla "volontà popolare" sulla base di una legge elettorale scellerata, tuttora in vigore, che non si riesce a togliere di mezzo. In breve: un distacco fra "governanti" e "governati" quale non si era mai visto nella storia dell'Italia repubblicana.
Il successo di Grillo nasce di qui, da un sentimento di rivolta nei confronti di tutto questo, acuito e potenziato dalla crisi sociale dell'Italia, dalla situazione internazionale, dal venir meno dei vecchi blocchi sociali e delle tradizionali appartenenze politiche. Oggi l'Italia è entrata in una fase di movimento e di sconvolgimento da cui può scaturire qualunque cosa.
Ma non è con Grillo che la nostra democrazia può uscire dalla lunga crisi che, prima in forma strisciante poi in modo clamoroso, la attanaglia fin dagli anni Ottanta. Cosa significhi Grillo sul terreno della democrazia è dimostrato da quello che può sembrare un "dettaglio" insignificante, e che invece è profondamente rivelatore di un "senso comune " che comincia a diffondersi. Quando il neo-eletto sindaco di Parma ha osato dire che i parmensi avevano votato lui e non Grillo, la comunità dei grillini si è scatenata sul web, come un solo uomo, ricordando all'ingrato che aveva vinto Grillo, che a Parma si era imposto il movimento, che Pizzarotti avrebbe fatto bene a ricordarlo se non voleva essere scomunicato.
Un "dettaglio", certo. Ma come hanno già detto Goethe e Flaubert, è nei "dettagli" che si nasconde la verità. In questo caso, la violenta reazione alla battuta del neo-sindaco di Parma di sapore inquisitoriale getta luce su cosa si agita nel fondo del movimento grillino: una forte pulsione "comunitaria ", una fortissima pulsione alla democrazia diretta, con la drastica trasformazione della figura del "rappresentante " in quella del "delegato" che può essere revocato in ogni momento dalla "comunità" che gli ha dato la delega.
Sono, l'una e l'altra, pulsioni letali per la democrazia rappresentativa e sono state causa e matrici di involuzioni autoritarie e dispotiche che hanno seminato, in genere, rovine nella vita dei popoli. Grillo però ed è questo il punto centrale comincia a dar voce a pulsioni di strati importanti della società italiana, incubate e potenziate dal berlusconiamo e dalla sua crisi, di cui sono frutti diretti. Come Berlusconi ha del resto compreso: con la proposta dell'elezione del Presidente della Repubblica con doppio turno, alla francese, ha fiutato subito il vento, cercando di mettere la vela al vento che soffia anche in altre parti dell'Europa .
Al fondo, quello che abbiamo di fronte in forma perfino più acuta e più aspra del passato è dunque il problema, sempre e ancora aperto, della democrazia nel nostro Paese. E qui non ci sono dubbi sulla battaglia che bisogna fare: come non c'è governo politico senza mediazione, così non c'è democrazia senza rappresentanza. Come ci ha spiegato Kant, nella democrazia diretta c'è la radice del dispotismo, della fine cioè di ogni democrazia. Allo stesso modo nelle ideologie "comunitaristiche" c'è la dissoluzione dell'individuo, della persona, della sua autonomia e libertà.
Ma se Grillo trova gente che lo ascolta vuol dire che interpreta istanze reali, ed esse concernono, in primo luogo, il problema del rapporto fra "governanti" e "governati" nella lunga crisi del berlusconismo in cui l'Italia è ancora immersa. Da questo punto di vista, c'è qualcosa di profondo che accomuna Grillo e Berlusconi: sono causa ed effetto della stessa crisi.
Sarebbe bene che gli apprendisti stregoni lo capissero e imparassero a non giocare con il fuoco (salvo poi lamentarsi per essersi scottati). Ma soprattutto è necessario che le forze del cambiamento abbiano tutta la consapevolezza della posta in gioco: riuscire a stringere in forme nuove, e in un circolo virtuoso, impetuose e ormai incoercibili esigenze di partecipazione e forme della democrazia rappresentativa è diventato, oggi, il problema immediato e ineludibile dell' Italia. Chi non lo capisce è veramente cieco: è qui che si decide il suo futuro .

il Fatto 27.5.12
Grillo e il giudizio universale
di Furio Colombo


Grillo. Mi chiedono di dire come lo vedo. Non è facile rispondere. Perché è un gomitolo complicato da srotolare. E perché non sono sicuro da che parte tirare il filo. E poi hai sempre un po' paura che ti scoppi in mano. Accade in un modo sempre diverso, come un “Terminator” della rete. Se esisti già e ingombri il suo orizzonte, non sei al sicuro, e non importa quanto sei o non sei colpevole di qualcosa. Nella valle di Josaphat-Grillo, l'umanità è divisa in due dall'informatica, prima e dopo, epoche, razze e nature diverse, senza piazzole di sosta e senza alcuna tolleranza. È un mondo savonaroliano di condanne, quello di Grillo. Infatti nel suo paesaggio c'è un'altra invalicabile linea di confine.
COLORO che compaiono davanti a lui o sono i suoi (detti “i grillini”) e hanno a che fare solo con il futuro, e dunque non resta che attendere. Prima o poi, come a Parma, arrivano. O sono “gli altri”, e allora giacciono in un passato senza redenzione, colpevoli non per quel che hanno fatto (ce ne sarebbe una bella lista, ampiamente condivisibile) ma comunque scartati e gettati nello scatolone degli esclusi per essere venuti prima e senza computer. Perché ho detto “davanti a lui”?
Perché questa è immediatamente l'immagine che cogli: Grillo sta giudicando. Lo fa a tempo pieno. Ora noi sappiamo che ci sono momenti della Storia in cui un simile atteggiamento è inevitabile. Lo è nel “dopo” di qualche grande trauma o transizione o cambiamento o passaggio da uno a un altro periodo della storia. Questa è la prima mossa strategica di Grillo: lui è nel dopo. L'impegno principale che ti deve assegnare nel dopo è il bilancio del prima. Questa mossa consente di considerare finito ciò che giudica e di chiamare tutti a un rendiconto in quanto protagonisti del prima. In questo rendiconto è difficile distinguere il meglio dal peggio. E infatti la seconda mossa della strategia di Grillo è di non esentare nessuno che appartenga al mondo del prima. Il prima, infatti, è in sè una colpa, o comunque una zona grigia, pre-onesta e pre-informatica, che va comunque risolutamente accantonata, senza badare alla distinzione tra guardie e ladri. Cosicché non c'è nulla di arbitrario nel puntare il dito contro tutti. Può apparire ingiusto verso coloro che hanno resistito e pagato. Però accoglie il distacco profondo, divenuto rancore, di una vasta e desolata opinione pubblica. È la intelligente Intuizione di Grillo, la sua terza e più importante mossa strategica: tracci una linea e stabilisci che, di qua da questa linea, sono colpevoli tutti percheé “usati”, “vecchi” e non Informatici, dunque complici. Di là dalla linea invece c'è il futuro del quale non specifichi nulla, non devi, non c'è bisogno di perdere tempo. In sè è buono perché nuovo, è nuovo perché informatico, ed è intatto e non inquinabile perchè ciò che è informatico é popolo, informazione corretta, democrazia diretta, e dunque potere pulito e senza scorie.
Qui si potrebbe proporre la domanda che finora non c'è stata: una simile visione non è giustizia sommaria? Ma proprio la domanda ci dice che Grillo ha colto nel segno. Ha visto che, nel dopo, la giustizia è sempre sommaria per due ragioni difficili da negare: consente la partecipazione collettiva al giudizio senza tanti distinguo; e stabilisce un legame forte “del movimento che non è un partito” perché tutti coloro che vengono chiamati dal leader al processo sommario, ricevono la certificazione di essere nuovi, estranei e puliti. Se questo fosse un gioco da tavolo, si potrebbe collocare in questa casella il pacchetto delle obiezioni: se sia giusto, se non cancelli una parte della storia, se non sia un gioco troppo solitario (una sola voce le guida tutte e, se si levano altre voci, la voce-guida prontamente si sovrappone). Però bisogna tener conto di ciò che sta accadendo là fuori, in tempo reale. Tutto intorno al mondo stravagante e provocatorio di Beppe Grillo, si vede, a perdita d'occhio, un mondo di partiti, leadership e vita politica che deplorano “il grillismo” e credono (alcuni davvero e in buona fede) di essere nel territorio della buona, regolare attività politica, così come le brave persone l'hanno sempre pensata e vissuta. Le immagini, le notizie, le iniziative, persino le figure umane e le frasi dette, non sostengono questa convinzione, e infatti – in molti casi – sembrano organizzati come illustrazioni efficaci delle invettive di Grillo.
Pensate al sindaco Pd con la pistola che viene avanti celebrando, al sindaco-deputato Pd che ha giurato sulla testa della figlia immediate dimissioni, in caso di elezione, e poi, eletto, non si dimette. Pensate alle lunghe ore durante le quali i migliori partiti della Repubblica, alla Camera, hanno lavorato alacremente contro se stessi approvando la “nuova legge sul finanziamento pubblico dei partiti”, di fronte a cittadini disorientati e increduli.
IN QUELLE lunghe e tristi sedute parlamentari, ogni articolo e ogni comma della nuova legge avrebbe potuto essere letto con la voce cattiva e allegra del comico Beppe Grillo. Infatti tutto, in questa “nuova” legge, appare (in ogni dettaglio) estraneo al Paese, al momento tragico che stiamo vivendo in Italia e in tutta Europa, alla paura e alla esasperazione diffusa, alla disperata solitudine dei cittadini. Eppure, nonostante le grida dei Radicali, di Di Pietro, di pochi altri nel tentativo di svegliare dall'ipnosi la assemblea, la votazione dell'assurdo testo per i soldi ai partiti è andato avanti fino alla fine. Che vuol dire pensare a piccoli rimedi carichi di astuzie, in momenti di pericolo estremo in cui tutti i vecchi percorsi dovrebbero essere abbandona-ti. Ecco dove funziona e guadagna terreno il tribunale del popolo improvvisato da Grillo, che in altri tempi sarebbe stato criticabile perché al banco siede un solo giudice e si ascolta una sola voce. Quella voce almeno racconta gli incredibili eventi.

Corriere 27.5.12
Un italiano su tre simpatizza per i grillini
di Renato Mannheimer


Il 31% spera in molti seggi alle Politiche. Ma per il 63% non saprebbero governare
I l successo del Movimento 5 Stelle ha sconvolto lo scenario politico italiano. Vale la pena, dunque, di approfondire ancora la natura del M5S e di comprendere i sentimenti che esso suscita nell'elettorato. Come si sa, il profilo dell'elettore del M5S è in larga parte diverso da quello degli altri partiti. Si tratta di cittadini in maggior misura residenti nelle regioni del Nord, tendenzialmente giovani, con titoli di studio medio-alti, più interessati alla politica, con una più intensa lettura dei giornali e, specialmente, frequentazione di internet. Se si domanda loro l'autocollocazione sul continuum sinistra-destra, più o meno metà si posiziona nel centrosinistra, ma una quota importante (più di un quarto) rifiuta di collocarsi, sostenendo la obsolescenza delle categorie politiche tradizionali.
È un segnale della «alterità» del M5S dai canoni consueti, che suggerisce una sua collocazione «trasversale», come fu quella della Lega ai primi tempi della sua esistenza. D'altro canto, questa è anche l'immagine diffusa tra i cittadini. Infatti, anche la maggioranza relativa degli italiani colloca il M5S nel centrosinistra, ma quasi quattro su dieci non lo associano a nessuna categoria politica tradizionale. Anche uno degli indicatori più evidenti della differenza del M5S dagli altri partiti, vale a dire la scelta di non apparire in tv, è approvata da più di metà della popolazione.
Come si è visto, anche in occasione delle elezioni, questa posizione del M5S è in grado di attrarre consensi diffusi. Non solo come espressione della protesta, ma anche come possibile attore di governo: all'affermazione «quelli del M5S sono capaci solo di protestare» solo il 38% degli italiani è d'accordo, mentre i restanti non lo sono. Anche se, per la maggior parte, gli si attribuisce un ruolo più incisivo a livello locale, ma si è scettici sulla sua capacità di assumere una responsabilità nazionale, tanto che secondo il 63% dei cittadini il M5S non sarebbe in grado di governare l'Italia. Ma ben il 22%, che corrisponde a un po' di più dell'attuale bacino elettorale virtuale del Movimento, la pensa al contrario. La platea di simpatizzanti, anche se non necessariamente votanti, per il M5S è ancora più ampia: quasi un italiano su tre, il 31%, dichiara «spero che il M5S ottenga molti seggi alle prossime elezioni politiche». Se non per governare, almeno per «denunciare le scorrettezze degli altri partiti»: lo auspica il 45% degli italiani.
Un movimento che, dunque, suscita grandi simpatie. Ma destinato a durare? Forse sì, se si considerano le attuali condizioni dello scenario politico. Al riguardo, gli italiani si dividono. Se è vero infatti che la maggioranza relativa ritiene che il M5S sia un fenomeno passeggero e una percentuale simile preveda che finirà per essere un partito come tutti gli altri, sono molti (attorno al 40%) che la pensano all'opposto. A questo proposito, secondo molti osservatori, il M5S è assimilabile all'Uomo Qualunque di Giannini del dopoguerra, che scomparve dopo poco tempo, inglobato di fatto dalla Dc. Ma allora la crisi economica — che spiega in buona parte il sorgere di movimenti siffatti — era in via di superamento e, specialmente, si era prospettata un'alternativa credibile di partiti «veri»: uno scenario che oggi si fa fatica a rilevare.
Insomma, come ha osservato lo stesso Grillo, le prospettive future del M5S dipendono non tanto da scelte sue, quanto da quelle degli altri partiti. Sino a quando questi ultimi (o altri nuovi attori che si presentassero sullo scenario politico) non riusciranno a proporsi come soluzione credibile e a sconfiggere il discredito che oggi li caratterizza (e questo è, come si è detto, ciò che stanno cercando di fare, per ora con scarso successo), lo spazio per movimenti populistici e demagogici (ma che raccolgono molti sentimenti profondi presenti nella popolazione) continuerà ad essere assai ampio.

l’Unità 27.5.12
Omaggio a Berlinguer. Veltroni: una lezione di coraggio
di Giuseppe Vettori


Il circolo è quello di Ponte Milvio, la vecchia sezione dove era iscritto Enrico Berlinguer. I «vecchi» ricordano ancora con commozione quando, come un iscritto qualsiasi, passava prima di andare ai seggi e votare, per scambiare qualche idea e per venire a prendere le preferenze, come si usava allora quando la politica aveva altre regole, più o meno giuste. Qui il compleanno, i novanta di Enrico Berlinguer li hanno voluti ricordare con una iniziativa piena di gente (dentro e fuori dal circolo nel salone e nel giardinetto davanti) insieme a Walter Veltroni.
Un’occasione affettuosa ma non retorica per ricordare un dirigente amatissimo ma anche per guardare alla politica di oggi, ai problemi inediti come alla lunga coda della storia che ci portiamo dietro.
Dal ricordo di Veltroni esce fuori il ritratto di un leader moderno anche al di là delle apparenze, anzi quel tratto di riserbo e di solitudine che a qualcuno lo ha fatto vedere come un dirigente poco comunicativo ne esce rovesciato.
«Berlinguer ricorda Veltroni sapeva comunicare davvero. Andavi ad un suo comizio e senza retorica ti dava ragionamenti ed emozioni. Persino il suo corpo, lo sguardo attento, l’aspetto schivo sapevano comunicare. Berlinguer era bravissimo in tv. Non erano certo gli anni del talk show, c’erano le tribune politiche e lui si preparava con cura per far arrivare le cose che voleva dire».
E contro chi ha sempre rimproverato a Berlinguer la sua timidezza, Veltroni invece punta sul coraggio e la coerenza di un dirigente che ha saputo spingere il Pci, a partire dal 1969 e dalle coraggiose posizioni prese sull’invasione della Cecoslovacchia insieme a Longo, verso una sempre più larga autonomia. E per questo ricorda le tappe e i discorsi, da quello sulla «democrazia valore universale» a quello dell’ombrello della Nato, «frasi ricorda Veltroni pronunciate negli anni Settanta e Ottanta, in una fase di piena guerra fredda e in circostanze davvero difficili».
«Stare nel Pci di Berlinguer non significava credere alla dittatura del proletariato, ma essere l’Italia pulita nell’Italia sporca, come diceva Pasolini». E Veltroni ha anche riletto la complessa vicenda del compromesso storico. «Cosa significava dire che non si governa col 51 per cento? Significava avere coscienza anche delle forze sotterranee violentissime che si opponevano al cambiamento, le forze che avevano alimentato piazza Fontana, e ancora prima i tentativi di golpe, la storia oscura che ha accompagnato la storia d’Italia. Nella testa di Moro come in quella di Berlinguer il compromesso storico era un passaggio di collaborazione e di legittimazione, prima di tornare ad una alternanza».
Altro tema è stato quello del partito. «Cosa significa candidare alle elezioni un uomo come Spinelli o portare in parlamento Sciascia? Era il segnale dell’idea di un partito aperto, capace di aprirsi a culture e sensibilità anche lontane non in modo strumentale. La nascita del Pd aveva dentro di se anche questo segno, quello di un partito riformista davvero aperto, capace di mettere al centro i cittadini, di restituire alla società uno spazio grande nel discorso pubblico. Mi chiedo se ci siamo riusciti e mi rispondo che gli italiani vedono una politica ancora toppo chiusa, che parla troppo di organigrammi e poco di idee. Questa cappa sottoilinea Veltroni dobbiamo toglierla di mezzo. È un cambiamento che non possiamo non fare».

il Fatto 27.5.12
L’intervista al vaticanista Benny Lai
“Comanda solo Bertone: lui ha in mano i soldi”
di Malcom Pagani


Oltretevere comanda una sola persona: Tarcisio Bertone. Chi ha in mano il dominio economico sottomette tutti gli altri”. Tra un colpo di tosse e un fazzoletto al naso, Benny Lai, 87 anni, ex militante del Pci folgorato sulla via di San Pietro dal 1952, con tessera firmata da Montini: “Ma solo perché mi cacciarono da tutti i giornali” è il massimo esperto di intrighi, lotte di potere, omicidi e attentati consumati tra il mezzo chilometro quadrato e i mille abitanti di quell’enigma chiamato Vaticano. “Adesso abbiamo anche il corvo. Una storia buffa”.
Perché buffa?
Perché è fumosa, improbabile, astratta come qualunque verità circoli in Vaticano. Ratzinger è debole, solo, chiuso nella sua torre, circondato da nemici che lui non riesce a vedere.
Le cronache lo confermerebbero.
Questo pontificato, a differenza di tutti quelli che si sono succeduti da Pio XI in poi, ha tratti assolutamente singolari. Non c’era Papa che per scegliere i propri collaboratori non attingesse regolarmente alla Segreteria di Stato, da Casaroli a Pacelli. Con Ratzinger è accaduto altro.
Cosa, Lai?
Ha messo i suoi amici. Ovunque. Prenda Bertone. Ha quasi ottant’anni. Ratzinger ha preteso che sull’Osservatore Romano venisse pubblicata una lettera che lo invitava a rimanere. A 80 anni bisogna andar via, voler restare anche a dispetto dei santi provoca invidia.
Facciamo dei nomi?
Angelo Sodano. Un uomo pieno di difetti che aveva saputo però governare con perizia il Vaticano. Ratzinger ha scelto Bertone e lui ha dato fuoco al braciere. Lotte interne, favoritismi. Piccole ripicche.
Anche?
Un secondo prima di essere destituito, Sodano ha messo il suo segretario particolare, Monsignor Pioppo, a Prelato del San-t’Uffizio cacciando De Bonis.
Il Prelato in carica ai tempi di Marcinkus.
Sempre lì si torna. Perché il potere dello Ior non rispondeva a nessuno, neanche al Papa, soprattutto all’epoca di Woityla. Lo Ior non ha a che fare con il governo della Chiesa. È solo l’istituto che senza controlli, dava soldi al Pontefice. Non sempre in modo lecito. Anzi.
L’hanno stupita le dimissioni di Gotti Tedeschi?
Neanche un po’. Si sapeva da tempo. Le racconto una cosa. Gotti Tedeschi era l’uomo di Giovanni Maria Vian, il direttore dell’Osservatore Romano. Un tempo era impossibile incontrarlo se a fianco, non aveva lui.
Poi?
È stato abbandonato. Si è sempre occupato di strane manovre economiche, Gotti. Di lavori scomodi, che altri gli delegavano e lui eseguiva in silenzio. Ora, evidentemente, non serviva più.
E l’hanno mandato via?
Gotti Tedeschi ha dato per anni battaglia in perfetta coincidenza di intenti con Bertone. Ora se ne è andato. È strano, non c’è nessuno che all’epoca d’oro, in certi ambiti, si sia dato da fare come lui.
In che campo?
Nel campo oscuro del denaro. È la prima volta che un presidente dello Ior viene cacciato dai Cardianali e dai suoi stessi uomini, stanchi di osservarlo sazio, divorato dall’ignavia. Gli uomini si abituano in fretta al massimo rendimento. Gotti aveva fatto molto. Non faceva più niente. E ha pagato. Non si scherza con lo Ior.
Lo Ior riporta alla Orlandi.
Non l’ho mai seguita con passione. Mi è sempre parsa più cronaca che Teologia. Per capire il Vaticano e le sue sottotrame bisogna frequentarlo a lungo, interpretare i piccoli segnali. Stare attentissimi quando ti porgono al mano.
La mano?
È una liturgia finissima, quasi invisibile, che traccia la divergenza tra un gesto d’amicizia e uno di ostilità. Se te la danno leggermente curva pretendono che tu la baci, dritta invece rappresenta quasi un gesto di sfida.
La storia dei misteri vaticani è infinita.
Si disse che Papa Luciani venne avvelenato e Woityla subì un finto attentato. Si esagerò. A tanta segretezza, la dietrologia risponde con i suoi talenti. Nel caso di Alì Agca si trattò di una vendetta del mondo sovietico nei confronti di un Papa aperto alle novità e in quello di Luciani, di un errore di Monsignor Villot. Non vollero far sapere che mentre il Papa stava male, nella sua stanza, era entrata una suora.
Si disse anche che Gelli avesse fatto sparire le foto di altre suore. Quelle fotografate in costume con Woityla, a Castelgandolfo.
Penso fosse vero. Si sostenne a lungo l’ipotesi, ma come sia andata non lo sapremo mai.
A che punto è la notte in Vaticano?
È scura. Il Papa è assediato, cupo, ha bastonato la Curia sul caso Williamson, non è mediatico, non si fa vedere. Il corvo è una protesi. È un segnale che arriva dall’alto. Un modo di dire: “vattene, vogliamo il cambiamento”.
Ratzinger rischia?
Certo. Ma non perché qualcuno desideri ucciderlo. È solo molto malato. E ha 85 anni.

il Fatto 27.5.12
Pedofilia, riciclaggio e suicidi: l’annus horribilis della Chiesa
Scandali d’Oltretevere: a partire dal caso Boffo fino all’annunciata morte di Benedetto XVI
di Chiara Paolin


Ho potuto vedere la verità sui casi di pedofilia, l’inchiesta per riciclaggio allo Ior, le case di Propaganda Fide, il suicidio di Mario Cal, il caso del giornalista Dino Boffo o il caso Emanuela Orlandi. Negli anni mi sono ritrovato con amici e colleghi che vivono o lavorano con me in Vaticano. Ci siamo confrontati e abbiamo capito che nutriamo gli stessi dubbi, e ci sentiamo frustrati perché siamo impotenti di fronte ai troppi soprusi, interessi personali, verità taciute”. È Maria, la fonte vaticana del giornalista Gianluigi Nuzzi, a fare un elenco sommario degli scandali che negli ultimi anni hanno centrifugato la crisi di San Pietro. Nessuno sa ancora se Maria sia davvero il maggiordomo Paolo Gabriele, di certo la rete dei ribelli vaticani ha già fatto luce su molti segreti assai imbarazzanti.
Metodo Boffo
Era il 28 agosto 2009 quando Vittorio Feltri pubblicava sul Giornale false notizie sul direttore dell’Avvenire, reo di aver attaccato Berlusconi. Boffo risultava colpevole di molestie telefoniche e di essere gay. La storia si rivelò subito una trappola, mese dopo mese la verità cominciò a emergere mostrando un intrico di rivalità dentro la Santa Sede: anche dossier anonimi e polpette avvelenate servivano a combattere gli avversari. Nelle ultime settimane la puntata finale del mistero, con la lettera inviata a gennaio 2010 da Boffo al segretario del Papa, padre Georg Ganswein, e pubblicata dal Fatto, in cui si fa nome e cognome del sospetto calunniatore (Giovanni Ma-ria Vian, direttore dell’Osservatore Romano).
Il caso Viganò
Mentre la faccenda Boffo ribolle in sottofondo, il caso Viganò esplode in faccia a Ratzinger. È il 25 gennaio di quest’anno quando Nuzzi racconta su La7 la storia del monsignore che aveva risanato la città santa ottenendo in premio un biglietto di sola andata per gli Usa. “Beatissimo padre, un mio trasferimento dal Governatorato in questo momento provocherebbe profondo smarrimento e scoramento in quanti hanno creduto fosse possibile risanare tante situazioni di corruzione e prevaricazione” scriveva nella primavera 2011 Carlo Maria Viganò, allora segretario del Governatorato della Città del Vaticano. Viganò è tutt’ora nunzio apostolico in America.
“Il papa morirà”
Il 9 febbraio 2012 sul Fatto Marco Lillo racconta di un complotto alle spalle del Papa. Il cardinale Castrillon parla della morte imminente del pontefice, mentre si prepara un duro scontro per la successione. Sarà Angelo Scola, l’arcivescovo di Milano gradito al Santo Padre – e meno al segretario di Stato, Tarcisio Bertone – a prenderne il posto?
Milano-Roma
Ancora Marco Lillo rivela lo scorso marzo il carteggio, elegante quanto brutale, avvenuto sulla linea Roma-Milano giusto un anno prima, cioè quando Bertone invitò Dionigi Tettamanzi, allora arcivescovo di Milano, a mollare su due piedi l’Istituto Toniolo, chiave d’accesso gestionale a colossi come il Policlinico Gemelli e l’Università Cattolica. Tettamanzi, anziché obbedire e andarsene, chiese spiegazioni al Papa, che lo riconfermò al suo posto. Bertone certo non gradì. Idem per il San Raffaele, il megaospedale di Don Verzè che il segretario di Stato voleva rilevare insieme allo Ior guidato da Gotti Tedeschi. "Nella complicata gestione del San Raffaele, fa gravemente problema il coinvolgimento diretto dello Ior" scriveva nel dicembre 2011 l'arcivescovo di Milano succeduto a Tettamanzi, cardinale Angelo Scola, in una missiva indirizzata al solito padre Georg. A gennaio 2012, lo Ior e il socio Malacalza non esercitano l'opzione sul San Raffaele.
E l’Ici?
A proposito di Ior, a febbraio 2012 spunta la lettera che Gotti Tedeschi scrisse nel settembre 2011 a Bertone per spiegargli come ci fossero stati utili contatti col ministro Tremonti al fine di gestire la scottante questione Ici. L’Ue bussava violentemente alla porta del governo italiano chiedendo ragione dell’esenzione sulle proprietà della Chiesa, Gotti Tedeschi garantiva che s’era trovata una soluzione per emendare il periodo 2005-2011, ma che occorreva inventare un metodo per ridurre l’impatto della tassa per il futuro.
Contatti tecnici
Le rivelazioni di ‘Sua Santità’, il libro di Nuzzi, ampliano e dettagliano il quadro. La cena del 2009 tra il Papa e Napolitano per evitare il riconoscimento alle coppie di fatto, le cortesie (con assegni in allegato da 10mila euro) di fedeli vip come Bruno Vespa, il rispettoso ossequio di ministri importanti come Corrado Passera, Lorenzo Ornaghi e Andrea Riccardi. Quest’ultimo chiese al Papa la sua benedizione prima di accettare l’incarico da Ma-rio Monti.

il Fatto 27.512
La Santa Sede delle correnti
di Marco Politi


In un silenzio gelido e plumbeo la Curia segue le perquisizioni della gendarmeria vaticana e l’avvio dell’istruttoria contro il “maggiordomo”. Cresce il disagio dei cardinali potenti per la pubblicità negativa che colpisce la Santa Sede e aumenta l’ossequiosa avversione di molti cardinali verso la gestione del Segretario di Stato Bertone, che ha portato alla rivolta dei guerriglieri del fax. In Curia molti sono convinti che l’opposizione a colpi di documenti non si fermerà sino a quando Benedetto XVI non avrà cambiato Segretario di Stato. E, tuttavia, se si dimostrasse vero il tradimento del maggiordomo – che secondo ricorrenti spifferi vaticani potrebbe anche essere stato incastrato – ciò testimonierebbe un decadimento drammatico dei legami di fedeltà e di coesione all’interno del palazzo apostolico. Un contraccolpo ulteriore della crisi dell’attuale pontificato.
PAOLO Gabriele – anima semplice quali che possano risultare le sue responsabilità – non è certo la mente della congiura che sta disgregando la macchina vaticana in maniera senza precedenti. Ogni colpo di scena mette a nudo la debolezza di governo di un pontefice pensatore e predicatore, che non è nato per fare il timoniere. L’atmosfera in Vaticano assomiglia alla vigilia d’armi di una tragedia shakespeariana. Si ignora quando avverrà la battaglia finale. Ognuno nel suo accampamento passa in rassegna le proprie forze. Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone può contare su una serie di personalità a lui strettamente legate, collocate in posizioni chiave della macchina amministrativa e finanziaria come il cardinale Domenico Calcagno, presidente dell’Apsa (l’ente che amministra i beni della Santa Sede), il cardinale Giuseppe Versaldi, capo della Prefettura degli Affari economici, il cardinale Giuseppe Bertello, governatore dello Stato Città del Vaticano, il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Consiglio per i Testi legislazioni, e naturalmente il nr. 2 della Segreteria di Stato, mons. Giovanni Angelo Becciu. All’altro estremo si colloca il decano del Collegio cardinalizio, cardinale Angelo Sodano, già Segretario di Stato sotto Giovanni Paolo II e per il primo anno anche sotto Benedetto XVI. Sodano, insieme al cardinale Giovanni Battista Re, rappresenta la vecchia guardia: fedelissima al Papa, ma silenzioso esempio critico di una stagione in cui la macchina curiale lavorava a pieno ritmo senza intoppi, senza causare guai mediatici, pronta al limite a suggerire rispettosamente al pontefice la via migliore da imboccare. Cultiralmente appartiene a questo schieramento anche il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali.
UN RUOLO a parte gioca in questa partita a scacchi, dove in queste ore nessuno si muove, il cardinale Mauro Piacenza, prefetto di una Congregazione importantissima, quella del Clero. Era etichettato come bertoniano prima dell’esplosione degli scandali. Ora è considerato il candidato preferito della corrente conservatrice curiale per succedere alla Segreteria di Stato. Efficiente, solido, in piena sintonia ideologica con papa Ratzinger. Non si agita, ma ha cominciato a fare più spesso interventi pubblici, che lo fanno conoscere in una cerchia più ampia. Il pericolo maggiore in questa battaglia sotterranea, che ha per posta il ricambio al vertice della Segreteria di Stato, non viene al cardinale Bertone dai combattenti clandestini del fax, ma da quella cerchia di porporati, che non gli sono né avversi né hanno legami con lui, perché hanno un rapporto diretto con Benedetto XVI e che quindi sono in grado – se consultati – di dire una parola “super partes” per quello che ritengono il bene della Chiesa. Sono il cardinale Marc Ouellet, canadese, autorevolissimo capo della Congregazione per i Vescovi, il cardinale brasiliano Joao Braz de Aviz prefetto della Congregazione per i Religiosi, il cardinale americano William Levada prefetto del Sant’Uffizio, il cardinale spagnolo Antonio Canizares, il cardinale francese Jean-Louis Tauran, responsabile per il Dialogo inter-religioso, il cardinale americano Raymond Burke, presidente del Tribunale supremo della Segnatura apostolica.
Certamente non è ben disposto nei confronti di Bertone è il cardinale Ferdinando Filoni, prefetto del ministero delle missioni Propaganda Fide, un tempo nr. 2 della Segreteria di Stato, ma poi allontanato proprio da lui per divergenze nella conduzione degli uffici. Paradossalmente quanto più il cardinale Bertone vince e smaschera i congiurati tanto più si ritrova in mezzo a macerie. Sotto lo sguardo perplesso dei monsignori di Curia.

La Stampa 27.5.12
Lotta di potere e veleni all’ombra dei Sacri Palazzi
E i fedeli in piazza San Pietro chiedono: qual è l’appartamento del Papa?
di Fabio Martini


CITTÀ DEL VATICANO Si è fatta sera, tra le colonne del Bernini si è diradata la folla compatta del mattino, ma la gente continua a guardare lassù e una signora di Cesena chiede ansiosa alle amiche: «Lo sapete quale è l’appartamento del Papa? ». Le rispondono che «forse è quello con le luci accese» ed è vero: le finestre sono aperte e lasciano trapelare l’unico fascio di luce artificiale che esce dai palazzi del Vaticano, quasi a significare che, nonostante tutto, la vita continua. E’ lì dietro che si è consumato quel che somiglia ad un sacrilegio e che ha finito per infilare Santa Romana Chiesa nelle giornate più dolorose della sua storia più recente.
Ma da piazza San Pietro, chi guarda in alto, con lo stesso colpo d’occhio può abbracciare anche le finestre della Curia, l’altro epicentro dello scontro di potere che sta dilaniando la Chiesa.
La Curia e l’Appartamento, il governo e lo staff è dietro quelle finestre che si è consumato quello che Marco Tarquino, direttore di Avvenire battezza come «un peccato grave, perché - più di altre volte - è il segno amaro e oscuro di divisione». Dietro quelle tende si è prodotto uno scontro che, nel corso degli anni, ha via via cambiato i rapporti e ha fatto lievitare il peso specifico di un potere formale e di uno informale.
Da una parte, una Curia sempre più potente, quasi un potere incontrollato, per questo ambitissimo e oggetto degli scontri più velenosi, come sta accadendo da due anni a questa parte; dall’altra Pontefici solitari o in viaggio e proprio per questo affiancati da entourages via via più influenti.
Una redistribuzione dei pesi che nel lungo dopoguerra si può misurare lungo il percorso che porta da Pio XII - Papa controverso ma carismatico, che non volle mai a fianco a sé un capo della Curia, un Segretario di Stato - fino agli ultimi due Pontefici: Wojtyla, che come dice Vittorio Messori, «non amava la scrivania ed era un apostolo che voleva far arrivare a tutti l’annuncio del Vangelo», mentre il teologo Ratzinger, pur vissuto a lungo in Curia, non l’ha mai amata, come dimostra la sua recente, plateale scomunica contro il «carrierismo» nella Chiesa, quella «vanagloria» che, con inusuale prima persona, Benedetto XVI ha definito «contro di me».
E mentre cresceva il potere della Curia, guidata dal cardinal Bertone, contestualmente diventavano sempre più influenti gli uomini più vicini ai Pontefici. I segretari, le suore, ma, a quanto pare, anche un maggiordomo. Dell’appartamento papale Paolo Gabriele aveva le chiavi, era in grado di sapere tutto ciò che accadeva, sia nella stanza privata che di solito prende vita attorno alle 6,45 al risveglio del Papa, ma soprattutto in ufficio, una stanza semplice formata da una scrivania in legno, poltroncine basse, due telefoni fissi, mai un cellulare - e nella quale hanno accesso pochi ospiti.
Primo fra tutti il segretario Georg Ganswein, 55 anni, teologo tedesco, che non disdegna sprazzi di esposizione mediatica, come dimostrano le foto mentre gioca a tennis, partecipa a serate nei salotti romani, senza disdegnare le punture di spillo ai politici italiani: «Forse ci vuole un po’ di pulizia interna».
Per dire, come cambiano tempi e ruoli: il segretario di Paolo VI, Pasquale Macchi, divenne arcivescovo di Loreto, 10 anni dopo la morte di papa Montini, mentre Stanislaw Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II, è diventato arcivescovo della ricca e prestigiosa diocesi di Cracovia appena 59 giorni dopo la morte di Wojtyla.
Oramai anche in Vaticano - come aveva notato per la politica un grande giurista come Carl Schmitt - chi ha diritto a frequentare l’anticamera è a sua volta potente a tutti gli effetti. «Sì, nel corso dei decenni - osserva Gianfranco Svidercoschi, già vicedirettore dell’Osservatore romano e decano dei vaticanisti italiani - molto è cambiato, scontri ce ne sono sempre stati, mai così intensi.
Ed è vero che è molto cresciuto il potere della Curia, ma Wojtyla viaggiava molto anche con la speranza che dal mondo venisse la spinta a cambiare il governo del Vaticano, mentre il papa teologo, conoscendo la Curia, preferisce predicare. Ma oramai si è formato un potere quasi alternativo al Papa».
Una guerra di potere che gli uomini di Chiesa hanno consumato con strumenti " moderni", attraverso dossier fatti filtrare nei mass media, dal caso Boffo, fino ai tanti documenti pubblicati da Gianluigi Nuzzi in Sua Santità. Compresa una lettera di Bruno Vespa: «Caro monsignor Georg, anche quest’anno mi permetto di farLe avere una piccola somma a disposizione della carità del Papa». Segue l’indicazione della cifra (diecimila euro) e poi, scritto a mano, un post scriptum: «Quando possiamo avere un incontro per salutare il Santo Padre? ». E la segreteria papale annota sul testo della lettera un «mi faccio vivo al riguardo il prossimo anno», che equivale ad un via libera.

Corriere 27.5.12
Il filosofo Reale: la Chiesa perde sempre quando si occupa di politica spicciola
di Armando Torno


Cosa sta succedendo nella Chiesa? Sembrano tornati i tempi degli intrighi e delle congiure. Forse dei veleni. Si narra di corvi. Si percepiscono regolamenti di conti. Ne parliamo con Giovanni Reale, filosofo cattolico, che è stato amico di Giovanni Paolo II e tra i suoi allievi ha avuto studenti poi diventati cardinali. Non è turbato più del solito, anzi fa spallucce dinanzi a domande cariche di cronaca. Ha incontrato i grandi pensatori del nostro tempo, ha visto i maestri di ateismo dell'ex Unione Sovietica convertirsi e accendere candele. Insomma, è allenato ad affrontare fatti e cose, oltre che idee. Ci confida: «Tempo fa lessi una frase sulla storia della Chiesa che non dimentico: se in duemila anni, con tutto quello che è successo, non è crollata ma riesce a sopravvivere, e bene, significa che è un riferimento vero. Rimane insomma importante quanto ha ricordato il Papa, ovvero che è una costruzione che ha i suoi fondamenti sulla roccia; venti e flutti non la possono distruggere». Sorride. Aggiunge: «Queste parole le proferisco con la mia cara e vecchia fede. Vorrei però sottolineare che la Chiesa dovrebbe sempre di più spogliarsi di quanto le è rimasto del potere temporale. Ogni volta che entra nelle questioni di politica spicciola, perde anziché guadagnare. La frase di Cristo "Il mio regno non è di questo mondo" va ripetuta oggi con maggior frequenza e praticata continuamente».
Ma cosa dovrebbero fare i vertici vaticani? Reale non ha dubbi: «Entrare il meno possibile in quei problemi che alimentano i pettegolezzi e ricordarsi che sono i testimoni del Vangelo, il quale è nato dalla scandalo della Croce e da tutto ciò che ne consegue». Una pausa e ancora: «Fatti come quelli venuti alla luce in queste ore moltiplicano i giudizi negativi, alimentano il chiacchiericcio e fanno credere a molti che la Chiesa assomigli a un partito o a qualcosa del genere. Non si deve dimenticare la testimonianza di Cristo, il mistero che avvolge la sua incarnazione, la salvezza che annuncia». E, incalza Reale, non vanno confuse le cronache con un altro aspetto del suo messaggio: «Cristo aveva annunciato le persecuzioni che avrebbero avuto i suoi seguaci nella storia: così come colpirono lui direttamente, allo stesso modo sarebbe capitato a loro. Anche se questo riguarda la testimonianza del Vangelo, non certo altre questioni».
L'immagine della Chiesa? Come ne uscirà da fatti del genere? Già la politica, soprattutto in Italia, non se la passa bene. Reale sottolinea: «I fedeli sanno che ci sono altri valori. Alcuni sostengono che quelli della Chiesa sono da tempo caduti, ma la verità è che molte persone (forse anche tra certi ecclesiastici) hanno perso la capacità di comprenderli e proprio la Chiesa ha il compito di continuare a testimoniarli. Si sono attraversati anche periodi peggiori di questo. La Rivoluzione francese, per esempio, aveva quasi cancellato le parrocchie, ghigliottinato religiosi, issato la dea ragione sugli altari. Ma il messaggio di Cristo non si cancella con la violenza, caso mai lo si fortifica». Forse c'è un modo nuovo di diffonderlo? Reale sceglie la via indicata dal caro Kierkegaard: «Vivere come se Cristo fosse qui, presente tra di noi, oggi. La contemporaneità di Cristo è la condizione della fede o più esattamente è la definizione della fede».
Poi, dopo aver ricordato che quanto è venuto alla luce non va però sottovalutato, aggiunge: «È il momento di guardare oltre, al di là dei fatti che accadono. Il vero cristiano vive in questo mondo ma non secondo la logica di questo mondo. L'errore più grave che possa commettere è cercare di introdurre il regno di Dio in questo mondo ma seguendo la logica di questo mondo». E ancora: «I media mettono in evidenza soltanto le parti esteriori e mondane, non entrano nella sostanza dei problemi della Chiesa. Nicolás Gomez Dávila, scrittore e moralista morto a Bogotá nel 1994, ci avverte che quel che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa dentro la Chiesa, è privo di interesse perché non coglie il cuore del problema». E infine un colpo di fioretto: «Nella cultura di oggi prevalgono sostanzialmente, per dirla ancora con Dávila, varie forme di nichilismo, relativismo, cinismo e anche — affermiamolo chiaramente — stupidità».
Già, stupidità. Ce n'è anche in ambienti non sospetti e crediamo che essa sia un ingrediente essenziale di questi scandali. Con corvi e intrighi.

Repubblica 27.5.12
"Dagli infiltrati fascisti ai corvi il Vaticano terreno fertile per le spie"
Il ministro Riccardi: la Santa Sede è sempre stata una realtà fragile


CITTÀ DEL VATICANO - «In Vaticano casi di intreccio fra denaro, spionaggio e stampa ci sono stati spesso. Negli anni del fascismo addirittura c´era chi organizzava agenzie spionistiche e informative. Oggi occorre capire le motivazioni di questi "corvi", se la doppiezza di questi signori sia dovuta a ragioni economiche, oppure a una propria battaglia ecclesiastica, o contro la Chiesa». Non si stupisce Andrea Riccardi per il confronto aspro in atto negli ultimi mesi in Vaticano. Da storico di lungo corso della Chiesa (è appena uscito il suo ultimo libro "Dopo la paura la speranza" pubblicato dalle edizioni San Paolo), fa con Repubblica alcune riflessioni.
Ministro Riccardi, che cosa succede in Vaticano?
«Tutti sono rimasti sorpresi dall´episodio dei "corvi" e la gente è naturalmente colpita dalla fuga di notizie. Ma lo storico sa che sul Vaticano, in più stagioni, nel Novecento, si sono addensate le attenzioni e le pressioni più diverse. Questo perché il Vaticano, di fronte agli sguardi indiscreti, è sempre stato una realtà fragile per la sua natura geografica, nonostante si sia insistito tanto sulla sua potenza. D´altra parte, eppure, è stato e resta una realtà assai interessante per i potenti di questo mondo».
Durante il fascismo ad esempio che cosa accadde?
«L´Ovra, la polizia segreta, spiava costantemente i Palazzi apostolici. E noi oggi abbiamo le carte su quegli informatori, che erano degli ecclesiastici, o laici cattolici. Come ad esempio monsignor Pucci, che girava il mondo vaticano e passava poi le sue informazioni alla polizia fascista. Un altro esempio, e siamo a metà degli anni ‘30, è quello di monsignor Benigni, che aveva lavorato nella II sezione della Segreteria di Stato (quella dei rapporti con l´estero), organizzò una rete tra l´informazione e lo spionaggio».
Facevano il doppio gioco, insomma.
«Lavoravano per la Chiesa e per altri committenti. Montini, quando aveva l´incarico di Sostituto alla Segreteria di Stato venne accusato presso il regime da ecclesiastici di essere antifascista e di organizzare la resistenza tra i cattolici».
E poi, con la guerra?
«Lo scenario fu drammatico. I nazisti avevano molti contatti e infiltrarono il Vaticano. Kappler faceva controllare la Santa Sede da un gran numero di informatori, e così il Servizio militare italiano aveva il controllo tecnico sulla loro comunicazione».
Ma il Vaticano come reagiva?
«Montini e Pio XII sentivano la sofferenza di essere sotto assedio. È una parte segreta del loro dolore. Però le Mura vaticane non proteggevano. Queste figure infedeli di ecclesiastici c´erano allora e ci sono sempre».
E dopo la guerra?
«Ci si era chiesti perché i vescovi clandestini in Unione Sovietica venissero sistematicamente trovati. Si scopri così Edward Prettner Cippico, un archivista di documenti per la Russia, avrebbe favorito la fuga di carte verso i sovietici. Fu poi perdonato da Giovanni XIII, morì nel 1983».
E, appunto, sotto Roncalli?
«Si scoprì che gli attacchi sulla stampa alla sua linea erano riconducibili agli uomini del cosiddetto partito romano».
Con l´arrivo di Wojtyla, poi, il capitolo è molto ampio…
«Diciamo qui che i primi dieci anni di Giovanni Paolo II furono zeppi di infiltrazioni comuniste».
Ma il Vaticano allora è una realtà facile da penetrare?
«Anche per la pressione mediatica e politica, la condizione di questa isola è di essere allo stesso tempo fragile e decisiva per l´unità del mondo cattolico. Il Vaticano è un´istituzione che non ha barriere di protezione».
Ma a che cosa puntano oggi queste fughe di documenti?
«Bisogna chiedersi se siano dovute a ragioni economiche, oppure a una battaglia ecclesiastica, o contro la Chiesa. Il tutto, sempre, per indebolire poi il Papa. Perché subito sul Vaticano scatta lo stereotipo Borgia, cioè il luogo di veleni. Mentre, in realtà, è un luogo di fragilità e grandezza».
(m.a.)

Repubblica 27.5.12
Da Pacelli a Ratzinger, la lunga crisi della Chiesa
di Eugenio Scalfari


Sotto Pio XII il partito conservatore era asserragliato in Curia e il Papa si guardò bene dal disperderlo
Se volesse dire qualche cosa di attuale Benedetto XVI dovrebbe dare inizio alla beatificazione di Pascal

La vecchia Italia affondò durante una giornata gonfia di tempesta e di presagi, nell´autunno del 1958: Papa Pio XII moriva in mezzo a una corte disfatta di cardinali decrepiti, di astuti procacciatori d´affari, di monache fanatiche, di nipoti parassiti.
Nel palazzo papale di Castel Gandolfo, mentre il temporale gonfiava le acque del lago e lo scirocco spalancava le imposte e si ingolfava tra le tende e nei corridoi, dignitari laici ed ecclesiastici si preparavano a sgombrare. Ciascuno cercava di portar via, anche fisicamente, quanto più poteva; ma soprattutto ciascuno brigava per conservare qualche beneficio; una carica lucrosa, una fetta, per piccola che fosse, di quel potere che fino a quel momento da oltre dieci anni era stato amministrato senza scrupoli e senza concorrenze. L´affanno era visibile dovunque, nelle sale di ricevimento, nelle anticamere e fino intorno al letto del moribondo che, già in agonia, veniva impudicamente fotografato dal suo medico e dalla sua suora assistente, con la cannula dell´ossigeno in bocca, e i tratti del volto devastati dalle ombre della morte. Non era l´affanno della pietà; era l´affanno della cupidigia e della paura perché tutti sapevano, entro il palazzo, che non moriva un Papa ma finiva un regno.
Nel salotto privato del Papa, circondato dai porporati più anziani e potenti, dai capi del Sant´Uffizio, delle Missioni, del Tesoro, dei Seminari, il Camerlengo della Chiesa rappresentava l´ultimo anello d´una continuità che stava per spezzarsi definitivamente.
Aveva, come sempre, un volto assolutamente inespressivo; non era un uomo ma una carica, una funzione, una pausa del cerimoniale. Ma intorno a quella carica e all´uomo che ci stava dentro si andava tessendo proprio in quelle ore e in quel luogo la trama del conclave. Aloisi Masella, il Camerlengo, fu il primo e forse decisivo mediatore insieme ad Agagianian, il prefetto di propaganda Fide, tra il gruppo dei cardinali stranieri e i curiali. Cominciò di lì la ricerca che si sarebbe conclusa qualche settimana dopo sotto le volte della Sistina con un risultato che avrebbe sconvolto tutti i programmi, di un terzo uomo, un Papa che avrebbe dovuto essere al tempo stesso abbastanza pastorale per assorbire le irrequietezze della cattolicità, abbastanza diplomatico per non dimenticare le leggi del potere, abbastanza umile per restituire al Collegio e agli Episcopati le prerogative che Pacelli aveva confiscato. E abbastanza vecchio per non durare troppo a lungo.
Quando in quell´alba di tuoni e di vento il medico del Papa, Galeazzi Lisi, ne ebbe dichiarato la morte clinica, dignitari, curiali, camerieri segreti, banchieri, politici, fuggirono verso Roma su grandi automobili nere per preparare l´incerto avvenire. Uno stuolo di corvi abbandonava le strutture corrose d´un luogo dal quale una monarchia assoluta aveva governato un paese.
* * *
Il brano che avete letto è tratto da un mio libro intitolato L´autunno della Repubblica del 1969, nel pieno del movimento studentesco. Il capitolo qui citato s´intitola "La fine d´un regno" e racconta appunto la morte di Papa Pacelli, Pio XII, che impersonò per lunghi anni la Chiesa trionfante e combattente che conteneva però fin da allora quella crisi sistemica di cui parla oggi il cattolico Alberto Melloni, uno degli storici della Chiesa più accreditati in questa materia.
Gli avvenimenti in corso segnano il momento culminate di questa crisi: la destituzione di Gotti Tedeschi dalla guida dello Ior, l´arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, la sorda lotta in corso tra le diverse fazioni curiali e anticuriali, la posizione sempre più traballante del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Infine, la disperazione di Papa Ratzinger, chiuso nelle sue stanze e manifestamente incapace di tener ferma la barra in un mondo pervaso da cupidigie, ambizioni, complotti e contrastanti visioni della Chiesa futura.
Non mi occuperò tuttavia delle inchieste in corso, che il nostro giornale ha già ampiamente trattato in questi giorni e ancora oggi con tutti gli aggiornamenti di cronaca. Mi interessa invece - e spero interessi i nostri lettori - di dare un´occhiata di insieme ai pontificati che si sono susseguiti da Pacelli a Ratzinger. Sono stati attraversati tutti dal filo rosso del confronto tra la Chiesa e la modernità. Perciò questi pontificati meritano una speciale attenzione per capire quale sia l´essenza di questa crisi sistemica che avviene sotto i nostri occhi.
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Il conclave che elesse Giovanni XXIII venne dopo la monarchia assoluta ma molto avveduta di Pio XII, un diplomatico per eccellenza che governò la Chiesa in tempi durissimi, con la guerra in corso e poi a guerra finita con la ricostruzione della democrazia e il governo della Dc degasperiana.
Pacelli ebbe tutti i difetti e tutte le qualità dei grandi pontefici. Abbiamo detto che eccelse nelle capacità diplomatiche e lo dimostrò ampiamente, soprattutto nel tormentatissimo periodo dell´occupazione nazista di Roma. Ma non mancava di pastoralità e neppure di grandi capacità sceniche. È ancora negli occhi di tutti i suoi contemporanei la sua visita al quartiere di San Lorenzo in Roma distrutto dal bombardamento americano, dove la sua veste bianca fu macchiata di sangue quando s´inoltrò tra le rovine per benedire i morti e soccorrere i feriti ancora distesi nelle strade devastate.
Il partito conservatore era anche allora asserragliato in Curia. Il Papa si guardò bene dal disperderlo, anzi lo rafforzò purché si sottomettesse. Decideva lui quando era il caso di farlo emergere o di farlo tacere. Del resto chi parlava per lui era il gesuita padre Lombardi, detto "il microfono di Dio" che combatteva i socialcomunisti a spada sguainata. Un´altra spada era nelle mani di Gedda e dei comitati civici che sconfessavano addirittura la politica di De Gasperi che non fu più ricevuto in Vaticano in udienza privata.
Ma Pacelli era anche nepotista nel senso classico e familista del termine. Era un principe e come tale si comportò e come tutti i principi indulse anche al populismo: riceveva ogni sorta di categorie della società civile: medici, avvocati, giornalisti cattolici, ciclisti e calciatori, casalinghe, poliziotti e militari, attori e operai, imprenditori e barbieri. Il populismo di Berlusconi fa ridere rispetto a quello di Pio XII che ora è in predicato di santità.
* * *
Papa Giovanni fu l´esatto contrario sia pure con alcuni condizionamenti. Fu eletto con una condizione: che restituisse alla Curia la sua indipendenza funzionale. A questo mandato si tenne fedele ma i curiali non avevano messo in conto che il Papa era comunque in grado di procedere a nuove nomine quando la morte avesse aperto vuoti nella gerarchia.
C´era bisogno d´un Papa soprattutto pastorale e lo ebbero nel senso più pieno della parola. Giovanni fu molto più pastore che Romano Pontefice. Il fisico lo aiutava e l´eloquio anche ma soprattutto lo aiutò l´anima sua o se volete lo Spirito Santo. Amava i bimbi, le mamme, la famiglia, i poveri, gli esclusi.
Richiamò Montini alla Segreteria di Stato e convocò il Concilio Vaticano II dove affluirono i vescovi di tutto il mondo cattolico. Era passato un secolo dal Vaticano I che si radunò a poca distanza di tempo dalla fine del potere temporale dei Papi. Lì fu proclamato il Papa-Re, infallibile quando parla dalla cattedra, e fu elevata a dogma la verginità di Maria.
Il Vaticano II proclamò invece la necessità che la Chiesa si confrontasse con la modernità. Fu una rivoluzione, avviata ma ovviamente non compiuta. Fu la scelta d´un tema che doveva essere portato avanti a cominciare dalla modernizzazione della Chiesa, lo sconvolgimento della liturgia, la messa recitata nelle lingue correnti e non più in latino, col sacerdote rivolto ai fedeli e non più di spalle; l´apertura del dibattito sul ruolo dei laici e delle donne. Infine, il disinteresse del Vaticano nei confronti della politica italiana e quindi l´autonomia dei cattolici impegnati.
Ma su un punto i curiali avevano visto giusto: nel suo quarto anno di pontificato il Papa si ammalò, nel quinto anno morì.
Ricordo ancora i funerali: una folla immensa che dalla piazza arrivava al Tevere ed oltre, tutte le vie gremite da piazza Cavour e da Villa Pamphili, tutto Borgo Pio. Un Papa come lui non si era visto da gran tempo e non s´è più visto da allora.
* * *
Poi venne Montini. Di dire che ebbe qualità pastorali sarebbe dir troppo. Diplomatico, certo. Di populismo neppure l´ombra. Fu un politico, forse fin troppo. Ma non conservatore.
Il confronto con la modernità non lo portò avanti ma impedì che ci fossero ulteriori arretramenti. Fu un pontificato con fasi drammatiche in quegli anni di piombo culminati con l´assassinio di Aldo Moro, del quale officiò la messa funebre in Laterano.
Fu un Papa di interregno.
Forse Papa Luciani aveva con Papa Giovanni qualche lontana somiglianza ma morì dopo appena un mese. Dopo di lui salì in cattedra un cavallo di razza, un grande, grandissimo attore. Non so se la Chiesa avesse bisogno d´un attore, ma lui lo fu dalla testa ai piedi, nel momento dell´elezione, nel momento dell´attentato, nel momento della rivoluzione in Polonia, nel momento della caduta del Muro, nei suoi viaggi continui intorno al globo, nel Giubileo del 2000 e nella lunga fase della malattia e poi della morte.
Quando il Camerlengo pronunciò il suo nome dopo la fumata bianca dal camino della Sistina, tutta la piazza pensò che avessero eletto un Papa africano. Solo quando si affacciò si capì che era un bianco ma non italiano. «Se mi sbaglio mi corrigerete» ricevette un´ovazione da stadio e così cominciò.
Fino a Solidarnosc e poi alla caduta del Muro di Berlino, Wojtyla fu il Papa della libertà religiosa contro il totalitarismo comunista. In Occidente ebbe l´appoggio dei conservatori, dei liberali, dei democratici. Caduto il comunismo accentuò la sua critica verso il capitalismo ma contemporaneamente represse la "nuova teologia" e l´esperienza dei preti operai. L´indifferenza nei confronti dell´assassinio del vescovo Romero mentre officiava la messa in Salvador fu una delle pagine sgradevoli del suo pontificato, compensata tuttavia dalla sua peregrinazione ininterrotta in tutti gli angoli del mondo dove gli fu possibile arrivare.
Tentò d´avviare la riunificazione delle Chiese cristiane senza tuttavia compiere passi avanti significativi. Riconobbe le colpe storiche della Chiesa a cominciare dall´accusa di deicidio contro gli ebrei e dalla condanna di Galileo e di Giordano Bruno.
L´agonia fu molto lunga e scenicamente grandiosa. Non certo per calcolo ma per autentica vocazione. «Santo subito» fu l´invocazione della folla immensa che anche per lui occupò mezza città.
Un bilancio? I problemi della Chiesa alla sua morte erano gli stessi: potere della gerarchia, emarginazione del popolo di Dio, crisi delle vocazioni, crisi della fede in tutto l´Occidente, nessuna modernizzazione all´interno della Chiesa. Ma una modifica sì, si era nel frattempo verificata: il messaggio del Vaticano II non solo non aveva fatto passi avanti, ma li aveva fatti all´indietro. Non a caso al Conclave i martiniani furono marginalizzati fin dalla prima votazione e dalla seconda emerse Ratzinger mentre Ruini era pronto a intervenire se Ratzinger fosse stato battuto.
* * *
Benedetto XVI non è un grande Papa anche se l´ingegno e la dottrina non gli mancano. Non è un attore, anzi è il suo contrario. Wojtyla aveva un guardaroba grandioso perché tutto era grandioso in lui. Il guardaroba di Ratzinger è invece lezioso perché è il Papa stesso ad esser lezioso, come si veste, come parla, come cammina.
Scrive bene, questo sì, i suoi libri sul Cristo si fanno leggere, le sue encicliche non sono prive di aperture ed anche alcuni suoi discorsi. La sua rivalutazione di Lutero ha suscitato sorpresa e qualche speranza di progresso verso la modernità, contraddetto però dalle sue scelte operative, dalla conferma di Sodano in segreteria e poi all´avvicendamento con Bertone: dal mediocre al peggio.
Bertone: un Ruini senza l´intelligenza e la duttilità dell´ex vicario ed ex presidente della Cei. La gerarchia è ridiventata onnipotente ma spaccata in molti pezzi. L´ecumenismo è ormai è un fiore appassito anzitempo.
Benedetto XVI ha riesumato in pieno la tomistica di Tommaso d´Aquino con tanti saluti ad Origene, Anselmo d´Aosta e Bernardo. Agostino sembrava uno degli ispiratori di Ratzinger, ma quale Agostino? Il manicheo, il coadiutore di Ambrogio o l´autore delle Confessioni?
Agostino fu molte cose insieme arrivando fino a Calvino, a Giansenio e a Pascal. Se volesse dire qualche cosa di veramente attuale Papa Ratzinger dovrebbe dare inizio alla beatificazione di Pascal ma mi rendo conto che nel mondo dei Bertone, della Curia romana e delle attuali Congregazioni, questo sì, sarebbe un gesto radicale verso la modernità. Non lo faranno mai.
Il pontificato lezioso andrà avanti finché potrà, poi non ci sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare e qualche anitra selvatica. Quanto di peggio per tutti.

il Fatto 27.5.12
Caso Orlandi: oggi la manifestazione organizzata dal fratello


Una giornata di mobilitazione per chiedere giustizia e verità per Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, scomparsa a 15 anni il 22 giugno del 1983: si terrà oggi la marcia che partirà dal Campidoglio fino a piazza San Pietro, promossa dal fratello della ragazza, Pietro, che non ha mai smesso di lottare per far luce sulla vicenda. Alla marcia è prevista anche la partecipazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno e la foto di Emanuela sarà esposta in Campidoglio, così come è stato fatto per Sakineh e Rossella Urru e altre donne, innocenti vittime di violenza.

il Fatto 27.5.12
L’ex consulente: Deviazioni pericolose
Genchi: “Bomba sporca, comodo indicare la mafia”
di Ste. Ca.


La strage di Brindisi? Una colossale tragedia, ma la mafia non c’entra. Quello che non escludo è che a qualcuno possa far comodo credere alla mafia, a una bomba sporca da utilizzare come arma di distrazione di massa”. Parola di Gioacchino Genchi, ex consulente tecnico della procura di Palermo (oggi avvocato penalista), l’uomo che Berlusconi – in un moto d’impeto dei suoi – accusò di aver intercettato “350 mila italiani”.
Genchi, in che senso distrazione di massa?
Perché fa comodo pensare che la mafia sia solo una congrega di pazzi sanguinari che fanno saltare le bombe davanti alle scuole. Distrae da quello che realmente è, un’organizzazione che ha in mano buona parte dell’economia e della finanza di questo Paese. Rappresentare cosa nostra come se fosse ancora quella dei Riina e dei Provenzano, insomma, serve a girarsi dall’altra parte, per non vedere.
Dunque la mafia a Brindici non c’entra? Gli ultimi sviluppi sembrano riportare verso quell’ipotesi...
Cosa nostra, con le stragi del 1992 soprattutto, ma anche del 1993, sa di aver commesso il più grave errore della sua storia. Certo, non è da escludere un gesto collegato ad altre realtà criminali, fazioni minori che tentano di accreditarsi agli occhi di qualche organizzazione più potente. Tutto può essere, ma a non convincere sono la dinamica e l’esplosione. Il gas non è mai stato usato per attentati di questo genere. Oltretutto in Puglia, terra di passaggio con l’Est europeo, non credo sia difficile per le organizzazioni criminali trovare altro tipo di esplosivo. Magari più efficiente. Perché l’esplosione di Brindisi ha sì causato la tragica morte di una ragazza e il grave ferimento di una seconda, ma non è da escludere che chi ha azionato il telecomando, forse, puntava a un gesto dimostrativo. É ovvio che il momento storico attuale è molto simile a quello del 1992-’93, ma a Brindisi vedo più uno scenario da unabomber che da strategia della tensione.
E la scuola Morvillo-Falcone, la tappa della carovana antimafia di Libera, la prossimità con il ventennale della strage di Capaci?
Questi sono i soli elementi che potrebbero far pensare alla pista mafiosa. Dopotutto non sarebbe una novità. La notte del 28 luglio 1993 a Roma esplosero due bombe – fortunatamente senza vittime – nelle chiese di San Giovanni Laterano e San Giorgio in Velabro. Giovanni e Giorgio, i nomi di Spadolini e Napolitano, allora presidenti di Camera e Senato.
Quale può essere il principale ostacolo alle indagini?
Se l’ordigno è stato azionato con uno squillo di cellulare, come le bombe di Madrid e Londra, c’è poco tempo. Mi spiego: dopo le stragi del 2005 l’Ue emanò una direttiva che imponeva la registrazione del traffico telefonico anche per le cosiddette chiamate senza risposta (che sono i due terzi del traffico) e che, in quanto ininfluente ai fini della fatturazione, non veniva conservato. L’Italia, con ritardo, ha adeguato la propria normativa, senza però prevedere una sanzione per il mancato adempimento da parte delle compagnie telefoniche. Dopo un lungo tira e molla, oggi, si è deciso che il traffico senza risposta venga conservato per un mese. Un tempo troppo breve. Se l’ordigno è stato innescato a distanza potrebbero perdersi le tracce dello “squillo”.

l’Unità 27.5.12
Finlandia.  Cecchino 18enne spara dal tetto: due morti


È salito sul tetto di un edificio del centro di Hyvinkaa, una cittadina finlandese a 50 chilometri da Helsinki, e da lì ha aperto il fuoco con due fucili sulla folla uccidendo un ragazzo ed una ragazza e ferendo altre sette persone, una delle quali, una donna poliziotto di 23 anni, in modo gravissimo. Il cecchino, un diciottenne del posto, è stato arrestato poche ore dopo la strage dalla polizia mentre si aggirava in tuta mimetica e ancora armato per le strade della cittadina di circa 45 mila abitanti. La sparatoria è avvenuta a tarda notte ieri e le vittime sono due diciottenni che stavano festeggiando in un pub la vittoria della squadra di baseball locale, l'Hyvinkaan Tahko. Il ragazzo morto ed alcuni dei feriti, tutti giovanissimi, fanno parte della squadra. La sparatoria ha sollevato ieri un'ondata di sdegno in
Finlandia, dove negli ultimi anni si sono verificate numerose stragi in edifici pubblici e centri commerciali, ed ha creato inevitabili paralleli sulla stampa locale con la vicenda di Anders Behring Breivik, l'estremista di destra che lo scorso anno uccise 77 persone nella confinante Norvegia. Il capo della polizia locale, Timo Leppala, ha detto che la sparatoria è cominciata alle due di notte e che il cecchino è stato arrestato «cinque ore dopo» senza opporre resistenza. «Ha aperto il fuoco contro decine di giovani accalcati davanti a due locali molto popolari del centro», ha rivelato un portavoce della polizia, Satu Koivu, il quale ha precisato che la sua collega è stata ferita mentre scendeva dall'auto appena arrivata sul luogo della sparatoria. Il killer non ha precedenti penali e nemmeno il porto d'armi.

il Fatto 27.5.12
Il killer solitario e la sindrome Breivik
In Finlandia un ragazzo apre il fuoco sui coetanei: 2 morti
di Alessandro Oppes


Tuta mimetica e due fucili a tracolla. Il ragazzo che sale di corsa le scale di un edificio della via Uddenmaankatu è giovanissimo, appena diciottenne, proprio come le vittime designate ma ignare dell'inferno che si sta per scatenare.
Sono le due del mattino di ieri a Hyvinkaa, una cittadina di 45mila abitanti poco più di 50 chilometri a nord di Helsinki. Giovani e adolescenti nelle terrazze di bar e ristoranti del centro. Dal tetto, il cecchino apre il fuoco, una raffica di colpi in rapida serie.
La prima a cadere è una ragazza, anche lei diciottenne, che muore sul colpo. Poche ore dopo, all'ospedale, si spegnerà anche un suo coetaneo: era un giocatore della squadra di basket locale, Hyvinkaan Tahko, che proprio la sera prima aveva vinto una partita di campionato davanti al pubblico locale.
Altri compagni dello stesso “team” erano con lui l'altra sera, a tiro di cecchino (alcuni sono tra le sette persone rimaste ferite nell'agguato). Una circostanza, questa, che per qualche ora ha alimentato le voci sul fatto che nel mirino ci fossero proprio loro, i giovani cestisti.
MA LA polizia di Hyvinkaa, che cinque ore più tardi ha catturato il killer alla periferia della cittadina, esclude per il momento di poter trarre conclusioni su quale sia stato il movente della strage.
“Pensiamo che l'assassino non conoscesse le sue vittime”, si è limitato a dire all'agenzia Afp il portavoce del commissariato locale, Satu Koivo. Sul giovane arrestato, ha detto solo che si è arreso senza opporre resistenza, che non aveva precedenti penali e che non era in possesso del porto d'armi.
Dalle prime ricostruzioni della vicenda, sembra tuttavia che fosse ben preparato e anche dotato di una buona mira. Lo dimostra, ad esempio, la freddezza con cui, all'arrivo della prima volante della polizia, colpisce l'agente che ha appena aperto la portiera: è una ragazza di 23 anni, cade a terra in un lago di sangue, è ricoverata in gravissime condizioni.
Il panico si è scatenato all'improvviso. “La gente si è messa a correre all'impazzata, qualcuno aveva una terribile ferita al viso”, ha raccontato Jani Kuronen, uno dei ragazzi scampati alla strage, alla televisione pubblica Yle.
Per un centro piccolo e tradizionalmente tranquillo come Hyvinkaa, lo choc è enorme. Neanche un anno fa, nella vicina Norvegia, l'estremista xenofobo Anders Breivik uccise 77 persone nella capitale Oslo e sull'isola di Utoya.
MA ANCHE la Finlandia è già stata colpita a più riprese, negli ultimi anni, da episodi simili. Dal 2000, sono in tutto 33 le persone rimaste uccise in scontri a fuoco avvenuti soprattutto in scuole o centri commerciali.
Il 7 novembre 2007, uno studente di 18 anni, Pekka Eric Auvinen, armato di una pistola automatica, uccise otto persone in un liceo di Jokela (non distante da Hyvinkaa), prima di togliersi la vita. Neppure un anno più tardi, il 23 settembre 2008, un altro studente uccide nove compagni di scuola e un insegnante di un istituto professionale a Kauhajoki (a sud-ovest del paese) e poi si suicida. E ancora, dicembre 2009 in un centro commerciale di Espoo: un uomo accoltella a morte l'ex fidanzata, uccide quattro persone a colpi di pistola e poi si spara alla testa.
Un’escalation preoccupante che ha indotto il governo di Helsinki a inasprire la troppo permissiva legge sul porto d'armi, che aveva condotto il paese ad avere una delle percentuali di persone armate tra le più alte al mondo.

l’Unità 27.5.12
Siria, strage di bimbi nella città di Hula. Blindati ad Aleppo
Sono almeno 92 i morti, 35 minori nell’ultima strage di civili del regime siriano confermata dagli osservatori delle Nazioni Unite
Parigi chiama a raccolta gli Amici della Siria
di Umberto De Giovannangeli


Hula, la strage degli innocenti. Ennesimo, tragico, capitolo della mattanza siriana. Almeno 92 civili, tra cui 32 bambini, sono stati uccisi l’altro ieri a Hula, nella provincia siriana di Homs dalle forze fedeli al presidente Assad: lo afferma il Consiglio nazionale siriano, che invoca una riunione d'urgenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu per «determinare le responsabilità del massacro». In serata arriva la conferma degli osservatori Onu che hanno raggiunto Hula: gli osservatori hanno contato 92 corpi, 35 dei quali sono di bambini. A riferire del tragico bilancio il generale, Robert Mood, alla guida della missione degli osservatori delle Nazioni Unite. «Questa mattina (ieri, ndr) gli osservatori civili e militari Onu sono andati a Hula dove hanno contato oltre 32 bambini e 60 adulti uccisi», si legge nella dichiarazione rilasciata da Mood, che ha definito il massacro «una tragedia brutale» e ha nuovamente avvertito che se la violenza non cesserà, la Siria scivolerà nella guerra civile. Gli osservatori, ha detto ancora il generale Mood, «hanno confermato l'impiego dei cannoni dei carri armati». Nessun dubbio: la strage di Hula è opera dell’esercito di Bashar al-Assad. «Chiunque essi siano, coloro che hanno cominciato, coloro che hanno risposto e coloro che hanno compiuto quest' atto deplorevole devono essere ritenuti responsabili», ha affermato ancora il generale, esortando «il governo siriano a non usare le armi pesanti e tutte le parti a mettere fine alle violenze sotto tutte le forme». «Questo uso sproporzionato della violenza è inaccettabile e imperdonabile», ha aggiunto il capo degli osservatori.
Mood non ha spiegato la dinamica del massacro. Secondo fonti dell'opposizione, le forze governative avrebbero bombardato l’altro ieri Hula per molte ore consecutive, per costringere i soldati dell'Els a ritirarsi. E successivamente bande di shabiha, miliziani fedeli al regime, avrebbero avuto mano libera nell'infierire sui civili. A dar conto di questo brutale bagno di sangue sono le immagini postate su internet. Una decina di bambini allineati per terra, scoperti, esposti, come bambolotti rotti, il più piccolo di forse un anno. Qualcuno con gli occhi sbarrati, un paio con la maglietta sollevata sul petto nudo, un altro paio con indosso il pigiamino: quello di una bambina di 6-7 anni è rosa, con l'immagine del canarino Titty, che la fa sempre in barba al Gatto Silvestro.
IMMAGINI SCIOCCANTI
Sono le immagini più drammatiche di un video shock messo in rete da attivisti dell'opposizione siriana a testimonianza del massacro di Hula. Il video mostra immagini ravvicinate dei corpi e dei volti dei piccoli con le devastazioni causate dalle pallottole. Un uomo parla, in arabo, denunciando le atrocità commesse dalle forze governative, mentre un dito indica le ferite. «Arabi, musulmani, dove siete, perché non ci aiutate?», dice la voce fuori campo, dopo aver invocato il nome di Dio con un verso del Corano. In un altro video amatoriale postato su Youtube si vedono i corpi dei bambini uccisi a Hula, sollevati di peso tra urla e pianti e mostrati alla telecamera. Distesi uno accanto all'altro su alcune coperte allargate sul pavimento. Sanguinanti, inermi, piccoli corpi senza vita.
CONDANNA INTERNAZIONALE
La Francia ha condannato i «massacri» di Hula, compiuti dalle forze governative siriane, e fa appello alla mobilitazione internazionale. «Condanno le atrocità inflitte quotidianamente al suo stesso popolo da Bashar al Assad e il suo regime», scrive il ministro degli Esteri Laurent Fabius in una nota, annunciando che prenderà «immediatamente i contatti per riunire a Parigi il gruppo dei Paesi Amici della Siria». Da Roma anche il collega Giulio Terzi condanna con fermezza l'esecrabile strage di civili e torna a chiedere l'immediata applicazione del piano di pace previsto dalla risoluzione 2043 del Consiglio di Sicurezza, a cominciare dall'assoluta cessazione delle violenze e dal libero ingresso in Siria delle organizzazioni umanitarie per fornire assistenza alla popolazione vittima della repressione. Dure prese di posizione da Londra – che chiede «una risposta internazionale forte» al massacro e Berlino.
I mezzi corazzati dell’esercito siriano sono entrati per la prima volta ad Aleppo, nel nord, la seconda città del Paese teatro nelle ultime settimane di manifestazioni contro il regime. I blindati hanno disperso migliaia di persone radunate per i funerali di un ragazzo ucciso a colpi d’arma da fuoco. I Comitati locali di coordinamento dell'opposizione hanno affermato ieri che gli uccisi nella repressione in Siria sono stati 1.486 nei tre mesi da quando Kofi Annan ha assunto l'incarico di inviato speciale per l'Onu e la Lega Araba, e hanno aggiunto di avere raccolto le identità di tutte le vittime. Tra i morti, sottolineano i Comitati, vi sono 90 donne e 123 minorenni e bambini, di cui 95 maschi e 28 femmine.

La Stampa 27.5.12
Scudi umani o bersagli Da Gaza alla Libia i piccoli in prima linea
di Fra. Pa.


ROMA Suona sinistro ricordare oggi come il simbolo della rivolta siriana sia il tredicenne Hamza alKhatib, arrestato durante una protesta vicino Daraa poco più di un anno fa e torturato dalle forze di sicurezza fino alla morte. Le immagini del suo corpo violato furono la prima smentita alle promesse riformiste di Assad quando sullo scontro tra opposizione e regime non gravava ancora la minaccia tragica della guerra civile.
I cosiddetti conflitti a bassa intensità, che secondo gli storici sono prolificati sulle macerie del muro di Berlino, combinano all’assenza della vecchia e sanguinosa trincea un alto numero di vittime minori. Sarà perché i media hanno un ruolo maggiore del passato e i bambini fanno più notizia o perché quando la linea del fronte si trova in mezzo alle case i più deboli cadono per primi, ma dall’Unicef a Save the Children si moltiplica l’allarme per le migliaia e migliaia di Hamza alKhatib che ogni giorno vengono sepolti nelle zone calde del pianeta.
Secondo l’ong Afghanistan Rights Monitor, per esempio, la guerra contro i taleban è costata fino al 2009 la vita di tre bambini al giorno senza contare gli abusi sessuali, le malattie, la detenzione illegale. E se il ritiro dei contingenti internazionali smorzerà l’attenzione internazionale è probabile che non migliori la sorte meschina dei più piccoli.
La conta dei caduti è sempre macabra statistica, specie nel caso dei bambini, ma serve spesso alle fazioni in lotta per additare l’altrui ferocia. Al termine dell’operazione Cast Lead, quando a cavallo tra il 2008 e il 2009 l’esercito israeliano bombardò per 22 giorni la striscia di Gaza, Amnesty International documentò la morte di 1400 palestinesi, di cui 300 bambini. Si disputò a lungo allora se fossero civili disarmati e presi di mira o miliziani di Hamas che si facevano scudo dei più indifesi, ma non cambia molto rispetto ai peluche e ai quaderni con le tabelline rimasti nelle camerette deserte.
Anche la primavera araba si tira dietro una scia nera di piccoli martiri. A cominciare dalla Libia, dove mentre la rivista Foreign Policy raccontava delle centinaia di bambini utilizzati da Gheddavi per «schermare» dai raid alleati i propri arsenali militari e dei troppi freddati dai cecchini, la Nato ammetteva i primi «danni collaterali» come i 50 minori uccisi il 5 agosto 2011 da un missile piombato sull’ospedale di Zliten.
Se le rivoluzioni egiziana e tunisina sono state parzialmente risparmiate, lo stesso non può dirsi dello Yemen, dove già un anno prima che la popolazione si sollevasse contro il presidente Saleh, un rapporto della Seyaj Organization for Childhood Protection puntava l’indice contro la guerriglia in corso tra le truppe governative e i ribelli sciiti del nord in cui solo negli ultimi sei mesi del 2009 avevano perso la vita 187 bambini e almeno 700 erano stati arruolati in prima linea.
«Le guerre moderne stanno sfruttando, mutilando e uccidendo bambini più freddamente e più sistematicamente che mai» ripete la charity britannica Child Victims of War. Con buona pace del progresso, anche di quello nel campo delle tecnologie belliche.

La Stampa 27.5.12
Intervista
Pipes: “Il regime cadrà, ma seminerà morte fino alla fine”
di Paolo Mastrolilli


L’analista Già consigliere di Bush, Pipes è uno dei maggiori esperti di questioni mediorientali «Quella in atto in Siria è una rivoluzione»
Daniel Pipes avverte: «Il regime di Assad cadrà, perché la situazione internazionale che si è creata non lascia spazi per la sua sopravvivenza. Fino a quando questo non avverrà, però, dovremo aspettarci qualunque genere di violenza, perché lui sa che sta combattendo per la propria sopravvivenza».
Pipes, direttore del Middle East Forum, era stato consigliere del presidente Bush alla Casa Bianca, eppure non spara sull’Amministrazione Obama: «In Siria sta facendo poco, che è quello che dobbiamo fare».
Perché è convinto che Assad cadrà?
«Non ci sono margini per la sopravvivenza del regime a lungo termine, per la situazione interna, e per quella internazionale».
Perché allora continua a ordinare tutte queste violenze?
«Nel corso della Primavera araba si sono create due situazioni principali in Medio Oriente: i colpi di stato e le rivoluzioni. Egitto, Tunisia e Yemen appartengono alla prima categoria, perché l’élite di governo è caduta, ma le istituzioni sono rimaste al loro posto; la Libia appartiene alla seconda, perché con Gheddafi è crollato tutto il suo apparato. In Siria sta avvenendo una rivoluzione. Non solo Assad, ma l’intero gruppo di potere alawita, sanno che se perdono non ci sarà futuro per loro. Perciò combatteranno fino all’ultimo. Forse Assad, a differenza di Gheddafi, scapperà quando capirà che non ha più speranze».
Quale sarà la chiave per convincerlo?
«La situazione nelle grandi città. Damasco e Aleppo finora sono rimaste relativamente calme: quando la rivoluzione le raggiungerà, Assad lascerà il Paese per non fare la fine di Gheddafi».
Come deve comportarsi la comunità internazionale?
«Il piano Annan è irrilevante, perché non sarà rispettato, e noi occidentali dobbiamo tenerci il più possibile fuori».
Mentre la Russia manda armi ad Assad?
«La Russia e l’Iran sostengono il regime, la Turchia e l’Arabia Saudita gli oppositori. Noi dobbiamo tenerci fuori perché non abbiamo veri amici in questa partita: vogliamo che Assad cada, ma non è nostro interesse aiutare gli islamisti che prenderanno il suo posto».
Quindi?
«Dobbiamo favorire la fine di Assad, come stiamo facendo, senza però legittimare e rafforzare gli islamisti».
Perchè?
«In Medio Oriente oggi ci sono tre soggetti politici: i dimostranti di piazza Tahrir, che sono laici, democratici, moderni; gli islamisti, che sono i nostri nemici, da avversare il più possibile; i dittatori, che dobbiamo spingere verso le riforme, tranne i casi irrecuperabili come Assad, con cui non possiamo più lavorare. I dimostranti di piazza Tahrir sono i nostri amici e il futuro su cui dobbiamo scommettere, ma non prenderanno il potere oggi».
E allora la strategia in Siria quale deve essere?
«Favorire la caduta di Assad, senza comprometterci con gli islamisti. Poi aiutare i nostri amici della generazione Tahrir, che però adesso sono troppo deboli, cercando di costruire le condizioni di lungo termine per farli andare al potere».

Corriere 27.5.12
Ma l’intervento non è vicino le priorità Nato restano altre
di Franco Venturini


Fino a che punto si può razionalizzare l'orrore? È questo l'angoscioso interrogativo che ci viene posto dai 32 bambini siriani massacrati a Hula dalle forze governative. Corpicini devastati come bambole rotte, le loro immagini raccapriccianti diffuse su YouTube, e poi, come una atroce presa in giro, la notizia che «gli osservatori dell'ONU si sono recati sul posto». A questo dobbiamo abituarci, o forse siamo già abituati? Siamo pronti a digerire tutto con l'aiuto di qualche comunicato di indignata protesta? Oppure, come avvenne nella Somalia che moriva di fame e di anarchia nel '92, come avvenne dopo la strage del mercato a Sarajevo nel '95, il bombardamento più pesante è quello che mira alle nostre coscienze collettive e prima o poi diventerà impossibile voltarsi dall'altra parte?
Il domani della guerra civile in Siria è appeso a questi tormenti che, c'è da giurarlo, riceveranno dall'una e dall'altra parte nuovi stimoli grondanti sangue. Dopo le bombe dei «terroristi» a Damasco erano brandelli di cadaveri adulti a essere esibiti. Ora ci si colpisce al cuore, tocca ai bambini. E la vera tragedia dietro la guerra anche mediatica in corso è che le stragi sono reali, che il sangue scorre davvero, che quelle creature sono al di là di ogni dubbio le vittime più innocenti e perciò più fortemente emblematiche di una strage ormai generalizzata.
Sarebbe miope sottovalutare la forza terribile di una simile dinamica. Sarebbe sciocco giurare che un intervento armato in Siria non ci sarà mai. Se vogliamo rispondere alla nostra stessa domanda, l'orrore che ci entra in casa (gli altri purtroppo non contano) lo si può razionalizzare fino a un certo punto, esiste sempre il momento in cui il prezzo della passività e dell'impotenza prevale sui calcoli prudenziali. Ma se non vogliamo essere ipocriti, dobbiamo anche dire che quel momento non è vicino.
I ricchi (si fa per dire) e i potenti della terra si sono appena riuniti al G8 e al vertice della Nato. Qualche frase alla Siria è stata dedicata, per ripetere l'appoggio al sempre più paradossale piano Annan. Ma chi ha seguito quelle riunioni da vicino sa che la vera preoccupazione riguardava la pericolante stabilità del vicino Libano. Assieme ad altre priorità politiche, se così si può dire senza vergogna: la campagna elettorale di Obama, che non si vuole turbare con nuove guerre; i negoziati nucleari con l'Iran, perché in caso di insuccesso l'ipotesi di un attacco israeliano riprenderebbe quota e, subito dopo un peggioramento della crisi finanziaria, questa sarebbe la minaccia più grave per la strategia attendista della Casa Bianca; le pesanti incognite sul piano di disimpegno dall'Afghanistan, visibili a tutti benché spinte sotto il tappeto. C'è già troppa carne al fuoco, insomma. E poi voi resistenti siete divisi al vostro interno, e comincia a risultare che qualche gruppo lavora con Al Qaeda. E l'ostruzionismo russo e cinese, vogliamo dimenticarlo?
Con quel tanto di cinismo che è inseparabile dalla realtà, la strage dei bambini, per ora, non cambierà le carte in tavola. Per ora.

l’Unità 27.5.12
Tel Aviv, violenze contro gli africani
Ronde anti-immigrati e attacchi razzisti nei sobborghi meridionali della capitale israeliana
Deputati del Likud e ultra ortodossi alimentano il clima xenofobo: «Vanno espulsi»
Eli Yishai del partito Shas: «Gli stranieri stuprano e minacciano il carattere ebraico di Israele»
L’associazione Peace Now denuncia: il governo strumentalizza i problemi d’integrazione
di U.D.G.


La paura e lo sgomento del «popolo degli indesiderati» si ritrovano nelle parole del giovane Ali: «Sali sul bus e lo capisci dagli sguardi che per gli israeliani sei diverso. Proprio loro che hanno sofferto. Perché lo hanno dimenticato? Perché ci attaccano?». Cosa racconta la caccia agli immigrati scatenata nei giorni scorsi nei sobborghi della “laica” Tel Aviv? Quale regresso culturale, quale implosione sociale segnala la drammatica escalation contro i richiedenti asilo che è culminata tre giorni fa con un linciaggio: lunotti di macchine di proprietà di «sudanesi» distrutti, violenza e caccia all’«infiltrato» sui piccoli bus che sfrecciano per Tel Aviv. È polemica in Israele dopo i raduni popolari contro l'immigrazione clandestina svoltisi giovedì sera nella capitale e in altre località, con la partecipazione di deputati di destra ed estrema destra. Raduni segnati da slogan xenofobi e in qualche caso aggressioni contro africani. Vari gruppi impegnati sul fronte dei diritti umani, ma anche esponenti politici moderati, hanno criticato in particolare i parlamentari della coalizione governativa presenti, accusandoli di cavalcare demagogicamente il malessere dei rioni periferici e di aizzare la folla istigando «sentimenti di razzismo».
L’ESCALATION
In prima fila, nella caccia al «sudanese», si distinguono gli attivisti di destra Itamar Ben Gvir e Baruch Merzel, quest’ultimo leader del gruppo “Guardia del quartiere” fondato nel sobborgo sud di Tel Aviv. Le loro parole d’ordine sono intrise di odio e di razzismo: «L’Africa non è qui», «Sudanesi tornate nel Sudan», «Diritti dell’uomo non a spese del piccolo cittadino» e «Basta parlare, incominciare a cacciare». Esaltato da molti dimostranti come fautore della linea dura, il ministro dell'Interno Eli Yishai, del partito confessionale Shas, ha viceversa colto la palla al balzo per rilanciare la sua ricetta, promettendo la detenzione temporanea dei clandestini e poi la loro espulsione di massa. Yishai si è rifiutato di condannare i tumulti di giovedì, affermando di non poter giudicare «un uomo la cui figlia magari è stata violentata» o «una donna che ha paura di tornare a casa di sera». «Bisogna mettere tutti questi illegali dietro le sbarre di centri di detenzione e poi rispedirli a casa perché rubano il lavoro agli israeliani e perché minacciano il carattere ebraico di Israele», ha tuonato in un'intervista radiofonica, riproponendo concetti già espressi di recente. Di tutt'altro avviso la storica organizzazione pacifista israeliana Peace Now secondo il cui leader, Yaariv Oppenheimer, Yishai alimenta la xenofobia, strumentalizzando il malessere della gente di quartieri periferici nei quali il governo «ha ammassato e abbandonato» il grosso dei clandestini o evocando singoli episodi criminali (come lo stupro di una donna, per il quale ieri è stata confermata l'incriminazione di due eritrei) per additare un'intera comunità. Openheimer ha lanciato inoltre su Facebook una raccolta di firme per chiedere alla magistratura d'indagare sugli autori delle violenze e sui deputati che «compiono reati come l'istigazione al razzismo». La manifestazione più significativa di giovedì si è svolta a sud di Tel Aviv, dove si concentra la presenza di clandestini, ed è sfociata in toni xenofobi, insulti contro «le anime belle della sinistra», qualche tentativo d'aggressione ad africani e finestrini di vetture rotti. La polizia ha alla fine fermato 17 dimostranti, difesi tuttavia fra gli animatori della protesta dai tribuni dell'Unione nazionale (estrema destra), ma anche da parlamentari del partito del premier Netanyahu quali Danny Danon o Miri Regev (secondo la quale «i clandestini sono un cancro nella società israeliana»).
Israele è alle prese con un flusso crescente di immigrati africani, che giungono attraverso la rotta del Sinai. In cifra assoluta il numero resta modesto rispetto a quello di diversi Paesi europei, ma secondo i dati ufficiali ha raggiunto comunque in pochi mesi quota 60.000. Netanyahu, pur accusato dai dimostranti e dalla destra più militante di non essere abbastanza draconiano, ha già ordinato la costruzione di un muro al confine con l'Egitto. Mentre nei giorni scorsi ha promesso di accelerare le espulsioni paventando nel caso di un incremento del fenomeno presunti rischi non solo per l'ordine pubblico, ma anche «per l'identità di Israele». Secondo quanto riportato da Haaretz, il governo israeliano sta preparando una deportazione di massa di rifugiati in Sud Sudan. La Corte distrettuale di Gerusalemme per il momento ha imposto un ordine temporaneo che proibisce la deportazione degli immigranti dando ragione ad una petizione di cinque organizzazioni dei diritti umani contro la volontà del governo Netanyahu di deportare gli immigrati. Dove vai Israele?

Corriere 27.5.12
La rivoluzione tradita dei giovani egiziani «Ci hanno esclusi»
I due vincitori e il popolo di Tahrir
di Cecilia Zecchinelli

IL CAIRO — La Rivoluzione è morta, viva la Rivoluzione: in un Egitto ancora sconvolto dalla vittoria al primo turno delle presidenziali di Mohammed Morsi e Ahmed Shafiq — candidato dei Fratelli musulmani il primo, ex generale e uomo del vecchio ordine il secondo — grande protagonista del dibattito è tornata la thawra, la rivoluzione del 25 gennaio. Invocata ieri dai due vincitori per garantirsi al ballottaggio del 16 giugno i voti di chi sogna ancora di cambiare l'Egitto, rimpianta e pianta come tradita da molti giovani del grande popolo di Tahrir.
«Proprio Shafiq adesso ha il coraggio di definire "gloriosi" quei 18 giorni di gioia ma anche di sangue, lui che fu l'ultimo premier di Hosni Mubarak. Morsi chiama i leader rivoluzionari a unirsi a lui per sconfiggere il passato. È uno scandalo assurdo», dice Shayma Kamel, attivista e artista dalle lunghe trecce che nella piazza simbolo della Primavera araba ha manifestato fin dall'inizio. «Due miei amici sono stati uccisi un anno fa da quel sistema che oggi Morsi e Shafiq rappresentano in pieno. E come chiunque mi sia vicino non andrò al ballottaggio. Sono delusa, sotto choc». Tornare a Tahrir? Per Shayla è ancora presto, il colpo della vittoria dei due «nostri peggiori nemici» è troppo recente. Ma lei pensa in fondo che non servirebbe. Contro chi protestare? Le elezioni, in teoria, sono state democratiche anche se ieri il candidato dei riformisti arrivato terzo, Hamdin Sabahi, ha denunciato brogli. «Al Paese serve tempo e cultura per cambiare. Ma intanto noi siamo persi — ammette —. E come donna, attivista, artista e futura madre mi chiedo che mondo mi attende».
Lo smarrimento è diffuso. Mentre i leader politici pro-rivoluzione studiano strategie e si pentono di non aver concentrato su un solo candidato i voti che uniti avrebbero fatto vincere il fronte del «nuovo Egitto», molti giovani che erano scesi in piazza senza capi né organizzazioni sono convinti che si debba aspettare. «Sono deluso, certo, ma in fondo me l'aspettavo. Non voterò ma per ora voglio vedere che farà Morsi, o Shafiq», dice Ibrahim Farouq, rapper hip hop del duo Asfalt, alla fine di un concerto organizzato dal Cairo Mediterranean Literary Festival per i fan di un genere ancora d'élite. Ma l'anno scorso anche lui era a Tahrir, insieme a ragazzi di ogni ceto sociale, ha protestato, girato video-clip, composto testi ispirati a quell'atmosfera speciale. «E continuerò a farlo con il mio rap, voglio solo capire con quale spirito».
Non si dichiara invece deluso né sotto choc Ahmed Naji, uno dei blogger e giovani autori d'avanguardia più noti, tradotto anche in Italia con il suo libro Rogers. «La vittoria di quei due figuri ci costringe a fermarci e pensare ma conferma il caos di questa fase che può e deve essere un caos creativo», sostiene. «Rispetto a prima molto è cambiato: sono andati alle urne solo il 40% degli elettori e il voto è stato molto diviso. Né i Fratelli, né gli uomini di Mubarak, né la Giunta hanno un potere assoluto, e nemmeno la Rivoluzione ovviamente. I giochi sono aperti, tutto è in movimento. E dissento da molti nel prevedere violenze: tutti i "giocatori" hanno capito che la forza non paga. Lentamente, ma il Paese si muove». Ahmed non boicotterà il ballottaggio, precisa. «Sto invece organizzando una campagna per votare annullando le schede magari con scritte rivoluzionarie».
Nei caffè del centro del Cairo come l'affollatissimo Borsa, nei tanti club culturali più chic o popolari, soprattutto su Internet e Twitter ieri le voci dei «superstiti» di Tahrir erano davvero infinite. «Sono in contatto costante con gli altri blogger della Rivoluzione, c'è un vero scontro tra noi su cosa fare. Io sono contrario ma qualcuno pensa perfino di votare Morsi pur di fermare Shafiq che secondo me vincerà comunque», spiega Walid Nada, detto Iwelly, in un caffè vicino alla celebre via Mohammad Mahmoud che fu teatro di scontri durissimi anche dopo la Rivoluzione. Proprio lì «Iwelly» ha documentato le violenze sui manifestanti con centinaia di video finiti sui siti web di tutto il mondo. «E ci sarà ancora sangue, la Giunta non permetterà ai Fratelli di prendere la presidenza. Ma sarà la loro battaglia, non la nostra. Noi aspetteremo. In fondo sono ottimista».

La Stampa 27.5.12
Tokyo, allarme demografico
Poche nozze e niente sesso Il Giappone fa harakiri
Drastico calo delle nascite, popolazione sempre più vecchia ed è corsa ai rimedi
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG La popolazione giapponese è in calo – e per molti, fra osservatori, governanti, e demografi, è il panico. Nulla di nuovo, dato che in questo campo sembra che l’ansia sia d’obbligo, sia quando le statistiche mostrano che siamo troppi, sia che esse suonino l’allarme davanti al calo della popolazione e in particolare al suo invecchiamento. In Giappone, i dati sono questi: su 127,7 milioni di abitanti, 16,6 milioni sono al di sotto dei 14 anni, mentre il 23,3 percento ha 65 anni o più. La speranza di vita delle donne (86,3 anni) è superiore a quella degli uomini (che vivono in media fino a 79,6 anni), e la popolazione ha cominciato a diminuire fin dal 1975, quando si inizia a registrare la tendenza, ora pienamente confermata, di meno di 2 figli per donna. Non solo: pare che un terzo degli adulti al di sotto dei 50 anni non sia in coppia, e che la popolazione diminuirà di un terzo di qui al 2060 – data in cui fino al 40 per cento dei giapponesi avrà più di 65 anni. Ultima cifra demografica recente: nel solo 2010, nei primi nove mesi dell’anno, si è registrato un calo di 259.000 persone – su cui ha dunque inciso di poco il terribile terremoto e tsunami che ha colpito il nord-est del Paese, che ha portato a più di 15.000 morti.
Che la longevità aumenti d’un tratto non è più visto come una buona notizia, dato che chi mai manterrà tutti questi arzilli vecchietti? Il fatto che molti di loro continuino ad essere sani, attivi e autosufficienti (come la signora Tamae Watanabe, che ha appena scalato l’Everest, a 73 anni), o che l’immigrazione da paesi in via di sviluppo con un «surplus» di giovani possa fare abbassare l’età media non viene granché considerato da questi demografi allarmati, e si continua dunque ad inquietarsi davanti agli sviluppi in atto.
Da qui a fare considerazioni catastrofiste, e a prendere iniziative un po’ bizzarre, il passo è spesso breve. Così l’Università di Economia del Tohoku (la stessa regione colpita lo scorso anno dal terremoto e dallo tsunami) ha deciso di creare un orologio online per registrare il calo demografico secondo per secondo, e mostrare il momento in cui non ci saranno più bambini giapponesi, intesi come giapponesi di meno di 15 anni. La proiezione ci porta – letteralmente – lontani: l’ultimo quindicenne giapponese, infatti, sarà vivo nel… 3011. Fra 999 anni. Ma da qui viene la previsione dei professori Hiroshi Yoshida e Masahiro Yishigaki, ideatori dell’orologio online, che i giapponesi tutti, fra poco più di mille anni, si estingueranno.
Insomma, di tempo per correre ai ripari dovrebbe essercene, se lo si reputasse necessario, dato che in mille anni di cose ne possono succedere parecchie, ma in alcuni comuni giapponesi, allarmati dall’invecchiamento della popolazione, ecco che si segue l’esempio che era già stato di Singapore: corsi e stratagemmi per incoraggiare i giovani a fidanzarsi, sposarsi e procreare.
Qualche anno fa, infatti, la piccola e ricca città-Stato del Sud-Est asiatico si era ritrovata a far i conti con la classica demografia delle economie mature: donne che si dedicano alla carriera, alti costi per gli alloggi e per l’educazione, quel malessere tutto moderno che rende ardua la ricerca del partner ideale (troppe esigenze? Troppe difficoltà pratiche? Troppi impegni lavorativi e troppo computer che rendono difficili gli incontri diretti? I sociologi stanno ancora discutendo) e una natalità che scende al di sotto dei 2 figli per donna. Il governo, che a Singapore non teme interventi troppo diretti, si è ingegnato creando degli uffici di speed dating governativi, e perfino una molto chiacchierata «nave dell’amore», che offre a single in cerca di partner una crociera di alcune ore nei mari trasparenti della regione. Oltre al personale di bordo, solo altri single aperti all’incontro «giusto». Il Giappone per ora non fa salpare le navi, ma alcuni comuni si sono messi in testa che l’educazione è quella che ci vuole per sospingere i giovani un po’ troppo timidi gli uni nelle braccia degli altri, e posticipare l’estinzione nazionale. Nella prefettura di Gifu, a Sud di Tokyo, ecco che il comune organizza delle sessioni di tre ore per rendere i due sessi più attraenti l’uno per l’altro: le donne hanno una lezione di trucco e stile, gli uomini imparano come modulare la voce per trasmettere sicurezza e si esercitano a conversare e fare la corte. Altrove, invece, sono stati allestiti dei centri di incontri - quello della prefettura di Ibaraki, per esempio, ha più di 3000 iscritti, e dice di avere circa 10 matrimoni al mese.
Nel frattempo, un’altra statistica governativa mostra che gli adolescenti maschi, dai 16 ai 19 anni, non sono per nulla interessati al sesso. In una qualunque metropolitana giapponese non la si penserebbe certo così: spesso ci si ritrova vicini a uomini e ragazzi che non si fanno scrupolo di leggere manga (i fumetti giapponesi) pornografici davanti a tutti, dato che sono acquistabili in qualunque supermercato aperto 24 ore al giorno. Per non parlare delle pubblicità, o i retro di copertina dei settimanali, da cui ammiccano innumerevoli adolescenti vestite da scolarette (considerata una delle tenute più sexy che ci siano) con aria tutt’altro che disinteressata all’erotismo. I negozi di «giocattoli sessuali» abbondano senza nascondersi, e la televisione propina interminabili show dove i commenti salaci, le battute piccanti, e anche volgarotte, si sprecano. E se un sesso così onnipresente e sbandierato, a lungo andare, finisse con l’intimidire?

l’Unità 27.5.12
Curare il dolore è un dovere, in Italia siamo ancora indietro
di Ignazio Marino


Nel Sud solo il 53% degli ospedali si è adeguato alle prescrizioni
Si va dall’83% della Basilicata al 61% della Sicilia

CURARE IL DOLORE È UN DOVERE. UNO DEI PRINCIPALI OBIETTIVI DI OGNI MEDICO PER SOLLEVARE LE PERSONE MALATE, SPOSSATE E VESSATE DALLA SOFFERENZA CRONICA. Una compagnia opprimente per tanti pazienti oncologici, neurologici o che hanno problemi respiratori gravi, ma anche per alcuni milioni di italiani che ogni giorno soffrono di dolore cronico. Ad ognuno di essi è dedicata la giornata nazionale del sollievo, che si celebra oggi.
Per questo nel 2010 mi sono impegnato in Parlamento e abbiamo approvato all’unanimità, senza divisioni politiche, la legge 38, una delle migliori in Europa che include anche principi ed indicazioni per alleviare la sofferenza nei bambini. Tuttavia, le difficoltà restano. Lo dicono i dati recentemente illustrati dal ministero della Salute, secondo cui circa un ammalato su dieci attesta di non aver mai ricevuto alcuna terapia del dolore durante il ricovero in ospedale.
L’anno scorso la Commissione d’inchiesta che presiedo ha inviato i Nas in 244 ospedali in tutta Italia con l’obiettivo di valutare l’applicazione della legge 38 e fornire al governo un quadro chiaro. Ne è risultato che il diritto a non soffrire per milioni di italiani viene garantito sostanzialmente solo al Nord e in parte al Centro, mentre il Sud è molto in ritardo. Nel Mezzogiorno solo il 53% delle strutture si è adeguato alle prescrizioni della legge 38, con una variazione che va dall’83% della Basilicata al 61% della Sicilia, sino al 41% della Puglia. Un po’ meglio al Centro dove il 73% degli ospedali si sono adeguati alle norme (si va dal 96% di Toscana ed Emilia Romagna al 33% della Sardegna); al Nord, invece, l’88% delle strutture sono in regola, con punte del 93% in Veneto, Piemonte e Lombardia.
Vi sono poi ritardi imbarazzanti sull’uso dei farmaci oppioidi nel Lazio e nel Sud. Si tratta di farmaci necessari per lenire il dolore di chi soffre di patologie gravi o incurabili: la legge finalmente consente ai medici di usare il normale ricettario del Servizio Sanitario Nazionale per prescriverli, ma il loro consumo è cresciuto solo del 7% in un anno, contro il 68% del Nord. Un dato che si può spiegare solo in parte con la migrazione sanitaria dei pazienti meridionali, soprattutto quelli oncologici, verso il Nord. L’altra motivazione è che su questo tipo di farmaci resta vivo un tabù culturale. I medici che, come me, hanno studiato medicina negli anni Settanta e Ottanta evidentemente vivono ancora l’impiego degli oppioidi come una extrema ratio, da impiegare solo per i malati terminali. E invece vanno utilizzati senza pregiudizi, per evitare, sempre, ogni sofferenza inutile.
Non è un quadro pessimo, ma fotografa ancora una volta un Paese diviso in due. Possiamo tollerare che chi soffre al Sud continui ad avere una assistenza meno capillare e meno efficiente e sia costretto a spostarsi al Nord nel tentativo di alleviare la sua sofferenza? Io non ho dubbi, non possiamo.
È chiaro che gran parte della responsabilità è delle Regioni e di chi dirige le strutture sanitarie. Il ministero della Salute ed il ministro Renato Balduzzi, certamente sensibile a questo problema, devono pungolare chi è in ritardo. La legge 38 all’articolo 3 mette a disposizione una sanzione importante ed efficace. Per le Regioni inadempienti, si dice, è previsto il mancato accesso ai fondi integrativi del Servizio Sanitario Nazionale, cioè meno fondi a disposizione. Si applichi questa norma, non possiamo permettere che la cura del dolore resti l’eccezione e non la regola.

l’Unità 27.5.12
Modelli di vita, La voce dei corpi
Cosa resta oggi del primo «oggetto tecnico»
Fisicità totalizzanti, esasperate, violate, dopate: si cambia aspetto e in qualche modo anche anima. Un libro di Rocco Ronchi su come «non farsi» un corpo nazista
di Massimo Adinolfi


COME FARSI UN CORPO NON NAZISTA? BELLA DOMANDA. PRIMA DI PROVARE A RISPONDERE, PERÒ, È FORSE IL CASO DI CHIEDERSI SE DAVVERO IL CORPO UNO SE LO FA, O SE INVECE NON SI TROVA AD AVERLO, E C’È POCO DA FARE. La prima domanda si trova in realtà nell’ultimo libro di Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli 2012) e sta insieme al mazzo di domande che invece di chiedere «che cosa?» o «perché» chiedono piuttosto «come?». Se uno chiede «come?», «come fare?» è perché si trova già, come diceva Pascal, embarqué, imbarcato, preso cioè in mezzo e chiamato a fare qualcosa, in un modo o nell’altro. Ma appunto: in qual modo? E cosa vorrà mai dire che in qualche modo noi ci facciamo il nostro corpo?
Nulla di particolare. In fondo, è dall’alba dei tempi che l’uomo si fa un corpo. Per Marcel Mauss, il corpo è anzi il primo strumento dell’uomo, «il primo e più naturale oggetto tecnico». Il che non vuol dire che intratteniamo con esso un rapporto puramente strumentale, ma al contrario che la dimensione della strumentalità non è affatto una dimensione accessoria della nostra esistenza. E, d’altra parte, il corpo delle origini non è forse un corpo tatuato, in qualche modo rifatto? Claude Levi-Strauss ha raccontato, in Tristi tropici, di come gli indigeni si stupissero nel vedere i visi bianchi, lisci e nudi dei primi missionari. Nessun tatuaggio, nessuna iscrizione sui loro volti: come gli animali, essi dovevano pensare.
La nostra credenza nella naturalità del corpo umano appartiene in effetti ad una determinata epoca storica (che forse si sta per chiudere, vista la nuova diffusione del tatuaggio). Un’epoca, prima cristiana poi specificamente moderna, dentro un ben più ampio, anzi sterminato intreccio di pratiche corporee, maniere variopinte e diverse di farsi un corpo. Con la non piccola complicazione che, ormai, anche se non possiamo prendere e lasciare a nostro piacimento il nostro corpo, o addirittura fabbricarlo come più ci aggrada, possiamo però ben modificarlo geneticamente, ritoccarlo qua e là con iniezioni di botox o con protesi al silicone, allenarlo e anzi «doparlo» (a proposito, oggi si conclude il primo Giro d’Italia, da un bel po’ di anni in qua, che non vede irrompere i Nas tra le ammiraglie delle squadre: meno male!). E dunque: come ce li facciamo, oggi, i nostri corpi?
Possibilmente in modo non nazista, suggerisce Ronchi, il che lascia intendere che sia ancora in campo un modo nazista di farsi i corpi, un’estetica o piuttosto una cosmetica nazista dei corpi, di cui qualcosa comprendiamo andando con la memoria al cinema di Leni Riefenstahl, al culto della forza, al corpo forgiato dall’esercizio, dalla fatica e dalla sottomissione. Certo, ci piace pensare che, siccome c’è una cesura netta fra i regimi totalitari e i regimi democratici, allora anche sul piano della disciplina dei corpi vi deve essere un’altrettanto netta cesura fra atleti, modelle e attori dei nostri giorni e la vigoria dei corpi nazisti. E forse è davvero così; in ogni caso, non è una differenza da poco se a farsi un corpo sia ciascuno per sé, o se invece sia un omino coi baffi, fattosi Führer, a decidere la salute del corpo di tutti (anzi: della sola razza ariana).
Però un brivido corre ugualmente lungo la schiena, se si pensa alla prepotenza con la quale ai nostri corpi viene più o meno esplicitamente richiesto di essere sempre più efficienti, sempre più in forma, sempre più in salute, sempre più rispondenti a modelli e imperativi sociali a cui rischiamo di rimanere assoggettati, senza alcuna capacità di distanziazione critica.
Un principio di ottimizzazione sembra essersi esteso dall’organizzazione dei sistemi sociali ed economici alla maniera in cui abbiamo il nostro corpo. E non si tratta più di mantenere un certo equilibrio o una sana armonia, ma di stressare il corpo fino a estrarre da lui ogni riserva di energia disponibile e, sempre, il massimo della prestazione. Michel Foucault dava a questo dispositivo il nome di «biopolitica» e per non farci credere che stesse parlando di chissà quale lontanissimo orizzonte teorico spiegava: ecco a voi il neoliberalismo!
PROSPETTIVE DA INCUBO
Ora, queste analisi portano sempre con sé scenari da incubo. Chi però inforca la bicicletta, va in palestra o si mette a dieta non pensa in realtà né ai film della Riefenstahl né al capo del personale. E certo un abisso separa l’una dall’altro. Ciascuno si fa il suo corpo, senza bordeggiare derive totalitarie e, dopo tutto, senza neppure rinunciare a una birra. Però i corpi inermi, violentati, oppure offesi di cui parlano o che ci rappresentano la letteratura, l’arte o la religione da un bel po’ di decenni a questa parte qualche allarme lo mandano. A volte, anche nel processo legislativo e nel dibattito pubblico fanno capolino preoccupazioni analoghe.
Forse, la maniera migliore per non ritrovarsi con un corpo nazista è non dimenticare mai che i nostri corpi, comunque li facciamo, parlano anche, e vogliono parlare con la loro voce. E la democrazia rimane il terreno sul quale i corpi possono anche essere l’un l’altro forzosamente intonati, ma dove le voci possono ancora rimanere, fortunatamente, dissonanti.

Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata
direzione scientifica Massimo Recalcati
IRPA è un istituto quadriennale riconosciuto dal MIUR come scuola di specializzazione in psicoterapia. Il suo obiettivo è quello di formare gli allievi (psicologi e medici) alla pratica della psicoterapia orientata dalla psicoanalisi.

Il programma di insegnamento dell'Istituto ha come principale riferimento dottrinale l'insegnamento di Jacques Lacan e della sua scuola. Il suo obiettivo è quello di introdurre gli allievi ai principali problemi teorico critici della psicoanalisi e della psicoterapia psicoanalitica nel mondo contemporaneo, orientandoli nella pratica clinica (costruzione del caso, diagnosi differenziale, problemi del trattamento).

fra i docenti Rocco Ronchi
È professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli studi dell’Aquila e docente di Arti visive presso il Corso di Laurea in Economia dell’Arte della Cultura e della Comunicazione dell’Università “L.Bocconi” di Milano.
Ha insegnato all’Università degli Studi di Bologna presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori (sede di Forlì), presso il Politecnico di Milano e presso il Corso di Perfezionamento in Discipline Storiche e Filosofiche dell’Università “L.Bocconi”. Dal 1990 al 1998 è stato co-direttore (insieme a Carlo Sini e Gino Zaccaria) delle collane di filosofia dell’Egea. È membro del comitato scientifico di “Sartriana” (Christian Marinotti Editore), che cura la pubblicazione degli inediti di Sartre, membro della Société des amis de Bergson, che cura la pubblicazione degli inediti di Bergson, e del Centro studi Palea – Seminario permanente di Psicanalisi e Scienze Sociali.
Dal 1984 organizza e coordina i seminari sui fondamenti della storia della filosofia “Parole-chiave” (Forlì) e dal 2004 organizza e coordina le “Conversazioni ravennati sui trascendentali della filosofia” (Ravenna).
Ha pubblicato saggi e articoli sulle riviste Aut Aut, Nuova Corrente, L’uomo, un segno, Nuovi Argomenti, Studi di estetica, Lignes, Intersezioni, Poetiche, Una città, Bollettino Studi Sartriani, Itinerari, Humanitas, Riga, La psicanalisi.
Collabora con i servizi culturali di Rai-RadioTre e con le pagine culturali del quotidiano Il Manifesto.

Tra le principali pubblicazioni:
Bataille Levinas Blanchot. Un sapere passionale, Spirali, Milano, 1985, pp. 230
Bergson filosofo dell’interpretazione, Marietti, Genova, 1990, pp. 231
La scrittura della verità. Per una genealogia della teoria, Jaca Book, Milano, 1996, pp. 125
La verdad en el espero. Les présocraticos y el alba de la philosophia, Akal, Madrid, 1996, pp. 63
Luogo comune. Verso un’etica della scrittura, Egea, Milano, 1996, pp.143
Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Christian Marinotti Editore, Milano, 2001, pp. 346
Teoria critica della comunicazione, B. Mondadori, Milano, 2003, pp. 170
Liberopensiero. Lessico filosofico della contemporaneità, Fandango, Roma, 2006, pp. 380
Filosofia della comunicazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2008

http://www.istitutoirpa.it/index.php

esergo:
“L’avvenire della psicoanalisi dipende da ciò che avverrà di questo reale, cioè se i gadgets, per esempio, vinceranno veramente la partita, se noi stessi giungeremo a essere veramente animati dai gadgets.”
Jacques Lacan, 1° novembre 1974
La terza, in «La Psicoanalisi», n. 12, Astrolabio, Roma 1993

Corriere 27.5.12
La fine misteriosa di Lenin e la mano occulta di Stalin
risponde Sergio Romano


Ho letto un articolo sul New York Times che parla di recenti indagini medico-scientifiche sulla morte di Lenin (sulla scia di altre indagini dedicate alla morte di personaggi illustri). Sembra emergere una patologia familiare di Lenin ma anche un'ipotesi di avvelenamento, forse per volere dello stesso Lenin, a opera di un attivissimo Stalin, pronto a prendere il potere a ogni costo. Che cosa dice la storiografia più accreditata sull'argomento?
Mario Strada

Caro Strada,
Qualche notizia per i lettori meno informati, anzitutto sulla natura delle recenti indagini citate nella sua lettera. Nelle facoltà di medicina delle università degli Stati Uniti si tengono conferenze clinico-patologiche in cui un docente esamina una morte misteriosa, o non sufficientemente documentata, e cerca d'individuarne le cause ricostruendo per quanto possibile il profilo sanitario della persona defunta. Nella università del Maryland questa consuetudine didattica è diventata un evento annuale, dedicato alla morte di un personaggio storico, e una sorta di gara in cui il conferenziere deve essere al tempo stesso sapiente, sagace e brillante.
Le morti discusse negli scorsi anni sono quelle di Florence Nightingale, capostipite delle moderne infermiere, Alessandro il Grande, Mozart e Edgar Allan Poe, geniale creatore del «noir» letterario americano. L'ultima è quella di Vladimir Ilic Uljanov, meglio noto come Lenin, leader del comunismo bolscevico e fondatore dello Stato sovietico, scomparso alle 18.50 del 21 gennaio 1924 nel suo appartamento del Cremlino. Il conferenziere era Harry Vinters, professore di neurologia e neuropatologia, ma accanto a lui, in questa occasione, vi era anche uno storico russo dell'università di Pietroburgo: Lev Lurie. Con l'aiuto delle loro diverse discipline i due studiosi hanno disegnato una sorta di albero genealogico-sanitario della intera famiglia Uljanov e individuato così alcune caratteristiche ereditarie. Lenin soffriva certamente di parecchi disturbi cardiovascolari e lo stato delle sue arterie, quando fu fatta l'autopsia, si rivelò disastroso. Non è sorprendente, quindi, che la causa immediata della morte sia stata quello che viene genericamente definito un «colpo». È comunque certo che le sue condizioni di salute erano state aggravate da un attentato, sei anni prima, quando due pallottole, sparate dalla pistola di una socialista rivoluzionaria, Fanja Kaplan, lo avevano colpito a una spalla e alla gola. Negli ultimi due anni della sua vita ebbe almeno due gravi crisi e lasciò intendere più volte che la sua vita, in quelle condizioni, era diventata insopportabile.
Tutto chiaro, dunque? Secondo il dottor Vinters, i dubbi sulle vere cause dalla morte sarebbero giustificati dai due attacchi apoplettici che colpirono Lenin nelle ore immediatamente precedenti la morte. Molto rari nei casi di un paziente che soffre di patologie cardio-vascolari, questi attacchi sarebbero invece frequenti nei casi di avvelenamento. Fa la sua apparizione a questo punto un documento ritrovato dallo storico di Pietroburgo negli archivi del Comitato centrale. È un biglietto del 1923 in cui Stalin scrisse: «Il 17 marzo, nel più gran segreto, la compagna Krupskaja (moglie di Lenin, ndr) mi ha comunicato una richiesta a me diretta: «Lenin mi chiede di assumermi la responsabilità di trovare e somministrargli una dose di cianuro di potassio. Non mi è parso possibile rifiutare e ho risposto: "desidero assicurare Vladimir Iljic che, quando sarà necessario, farò senza esitare ciò che mi ha chiesto"». Ma Stalin aggiunse nello stesso biglietto: «Non ne ho la forza e devo declinare questa missione, per quanto umana e necessaria possa essere. Ne informo quindi i membri del Politburo». Sembra di comprendere che, secondo lo storico russo, quella frase («non ne ho la forza») fosse soltanto l'alibi di cui Stalin aveva bisogno per mascherare le sue intenzioni.

Repubblica 27.5.12
L’altro da sé è da sempre un tema cardine della letteratura Un volume lo attraversa raccogliendo classici e riscoperte
Stevenson o Kafka perché lo scrittore inventa il doppio
di Leonetta Bentivoglio


Una serie di storie formidabili riunite sotto il titolo I romanzi del doppio, appena proposta dalla Bur di Rizzoli, illumina il nucleo dello sdoppiamento nella fiction "classica". Non è un discorso coniugabile solo al passato: lo stesso intramontabile motivo insiste nell´emergere con prepotenza oggi, trovando sbocchi nel cinema, in letteratura e persino nei serial televisivi (vedi la Toni Collette di United States of Tara, in grado di calarsi in identità parallele). Firma la scelta che compone la raccolta della Bur Guido Davico Bonino, a cui il tema deve stare a cuore, visto che ha già curato un precedente viaggio nel medesimo argomento (Io e l´altro. Racconti fantastici sul doppio, Einaudi 2006). L´attuale volume è sorprendente, pur non essendo valutabili come "scoperte" (e questo è ovvio) alcune invenzioni accolte dall´antologia, come La metamorfosi di Kafka, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson, parabola fiorita non a caso in epoca vittoriana, quando l´istintualità animale, radicata in ciascuno di noi, esigeva di prendere corpo in un perfetto campione di malefici come Hyde per poter essere opportunamente esorcizzata.
Queste trame sono così archetipiche e ben piantate nel nostro immaginario, che le conosce anche chi non le ha mai lette. Ma ciò che conta, nell´architettura del librone, è l´idea di accorparle sotto il segno della duplicità, lanciando un trait d´union con vicende meno note. Un esempio è Lui? di Guy de Maupassant, dove il narrante è ossessionato dall´allucinazione avuta un giorno, quando gli capitò di scorgere un riflesso del suo io, contiguo e ostile, accomodato nella sua poltrona davanti al fuoco acceso. E forse non è familiare a folle di lettori l´invischiante racconto di Joseph Conrad Il compagno segreto, che è ambientato, molto conradianamente, su una nave in mezzo al mare: avviene che una notte il protagonista peschi, dalle acque tenebrose dell´oceano, un omicida in fuga, per poi nasconderlo nella sua cabina e trasformarlo nell´incarnazione della parte più buia della propria anima.
La dinamica del doppio ha un potere inestinguibile: per questo, lungo i secoli, ha chiesto sempre d´essere riconosciuta. Dal Ka degli antichi egizi alle Metamorfosi di Ovidio, il rovello risale a età remote, e finisce per incanalarsi nel Doppelgänger ("colui che cammina al tuo fianco") coniato ed esaltato dal romanticismo tedesco. Adelbert von Chamisso (1781-1838), con la sua Storia meravigliosa di Peter Schlemihl o l´uomo che ha perduto la sua ombra (è la novella che apre il volume della Bur), nutre e solidifica tale ottica, fornendo una piattaforma per elaborazioni successive sempre più complesse. Dominato da passioni che confliggono tra loro coabitando con pari intensità nel medesimo individuo, l´essere umano vive nell´incubo assillante di quell´"altro da sé" che percepisce come intimamente affine, seppure antitetico. Che sia una questione incorporea, come lo è l´ombra, venduta e dispersa, creata da von Chamisso; o che sia il glissare nella dimensione "altra" della schizofrenia che annienta il soggetto de Il sosia di Dostoevskij; o che produca lo spettro di un omonimo, coincidente con un´identità rubata, così come accade in William Wilson di Edgar Allan Poe (divenuto un episodio memorabile, firmato da Louis Malle, del film Tre passi nel delirio, 1968), l´assimilazione tra il sé e l´oscura alterità che gli è connessa alimenta un intero patrimonio di spunti etici e fantastici. Sono così ricorrenti – nel mito, nelle arti sceniche, nel racconto declinato in ogni campo – da offrirci uno sguardo panoramico sull´esistenza tutta. Per comprenderlo basta limitarsi a osservare la pura narrazione, senza indagare nei territori – mastodontici rispetto a tale problematica – della filosofia e della psicoanalisi (vedi solo lo studio di Otto Rank Der Doppelgänger, 1914, che suggerisce un legame tra il doppio e la morte).
È basato sul senso dell´alter-ego un film di culto come Fight Club, tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, e lo sdoppiarsi di un uomo si traduce nel sortilegio di uno scambio di personalità tra due maghi nel film The Prestige. In sostanza trattava dello stesso tema anche il film Sliding Doors, la cui eroina Helen percorreva il binario di due livelli di realtà. Naturalmente l´horror contemporaneo non poteva rinunciare a un motore di paure stimolante come il doppio: lo ha dimostrato Stephen King nel romanzo La metà oscura, divenuto anche un film di George A. Romero. E sempre a King, sovrano del proprio genere letterario, si deve la paternità di Finestra segreta, giardino segreto, dove il protagonista Mort si sdoppia in Shooter, che è una personificazione dei suoi sentimenti maledetti verso la moglie (da qui è nato il film Secret Window, con Johnny Depp).
«Ciascuno cerca l´altro», ha scritto Borges, aggiungendo: «Fosse almeno questo l´ultimo giorno dell´attesa». E Fernando Pessoa, ne Il libro dell´inquietudine, ci ha spiegato che «al termine di questa giornata resta ciò che è rimasto di ieri e che rimarrà di domani: l´ansia insaziabile dell´essere sempre la stessa persona e un´altra». Forse proprio all´urgenza di svanire nell´altro da sé, espressa da uno scrittore da lui tanto amato come Pessoa, s´è ispirato Antonio Tabucchi in Notturno indiano, dove il raccontatore traversa l´India in cerca dell´amico Xavier: e noi, leggendo, sospettiamo sempre di più che Xavier non sia che una sua proiezione. Nella narrativa gli esempi sono così frequenti che ciascuno potrebbe ricomporre un suo personale catalogo di doppi, ipoteticamente senza fine come il moltiplicarsi della vita.

Repubblica 27.5.12
Astri, guaritori e maghi: la battaglia contro la superstizione
di Stieg Larsson


L´autore della "Trilogia" era un giornalista Ecco un suo articolo sulla società svedese
Questa ondata di neospiritualità finge di essere progressista ma è reazionaria
Dipendere dallo Zodiaco significa anche accettare una visione deterministica

Astrologia (dal greco astér, stella, e logos, discorso): l´arte di prevedere il futuro attraverso gli astri. L´a. ha una base di mistero e superstizione ed è sopravvissuta fino al medioevo. Solo la rivoluzione copernicana, che ha sostenuto l´infinità dello spazio, ha messo in dubbio i suoi fondamenti». La definizione è tratta dall´edizione del 1924 del Nordisk Familjebok, l´enciclopedia familiare svedese. Sessant´anni fa dunque l´astrologia era considerata un´assurdità superstiziosa in via di estinzione ormai da quattro secoli. Nessuno la prendeva sul serio. Questo accadeva allora. Qualche tempo fa mi è stata presentata una giovane donna in un caffè di Stoccolma. La prima cosa che mi ha chiesto, dopo esserci scambiati i nomi, è stata di che segno ero.
Un´amicizia di breve durata La ragazza era sulla trentina e aveva alle spalle, come ho saputo in seguito, nove anni di scuola primaria, tre di liceo più l´università. Aveva anche un passato di attivismo politico radicale e sembrava una donna perfettamente normale, nel pieno possesso di tutte le sue facoltà intellettuali. Era quindi difficile trovare una giustificazione al perché quasi cinquecento anni di illuminismo e di progressi scientifici non avessero lasciato alcuna traccia nella sua concezione del mondo. «Del segno dell´oca» ho risposto. «Come te». Poi non ci siamo detti altro. È stata un´amicizia di breve durata. Questo episodio potrebbe far pensare che io sia una persona eccezionalmente arrogante, ma inizia a darmi fastidio che non si possa quasi più attraversare una strada senza che qualcuno ti picchietti su una spalla e ti chieda di che segno sei. Quella che è stata una superstizione senza ragion d´essere sin dai giorni di Copernico, nel 1983 sembra diventata una vera e propria filosofia di vita.
Una cifra sconosciuta Oggi in Svezia sono attivi quasi cinquecento astrologi professionisti più o meno riconosciuti e un numero imprecisato di allegri dilettanti. Si stima che nel nostro paese circa centomila persone ritengano l´astrologia una scienza seria. Negli ultimi decenni, poche assurdità hanno vissuto un ritorno di fiamma paragonabile a quello dell´astrologia, uno dei principali segni dell´ondata di neospiritualità che si è abbattuta sull´intero mondo occidentale. Per la grande maggioranza delle persone può risultare difficile difendersi dai ragionamenti misticheggianti offerti in vendita dai ciarlatani del settore. Spesso la superstizione è avvolta in lunghi ragionamenti pseudoscientifici che fanno riferimento a fonti inaccessibili e le presentano come fatti incontrovertibili. Anche una stampa poco seria e priva di senso critico dà loro una mano, propinando ai lettori idiozie assolutamente incredibili.
Perfino «Q» Un esempio tipico è l´attenzione riservata dai media alla curiosa vicenda dell´istituto di psicologia applicata dell´Università di Lund, dove la psicologa Maj Björk ha recentemente presentato uno studio intitolato Astrologia-Psicologia, in cui sostiene di poter dare valore scientifico all´astrologia. L´«Aftonbladet» ha dato grande risonanza alla ricerca, titolando a caratteri cubitali: HA TESTATO GLI OROSCOPI – FUNZIONANO. Poi si è messa in moto la giostra: lo «Svenska Dagbladet» ha presentato lo studio come un lavoro scientifico e l´«Expressen» ha invitato la Björk a tenere una rubrica fissa sull´astrologia e i segni zodiacali durante l´estate. Perfino la rivista femminista «Kvinnotidningen Q» ha abboccato all´amo, dedicando al rapporto della Björk un editoriale assurdamente privo di senso critico; anzi, la redazione è sembrata talmente colpita da ingaggiare un astrologo professionista a disposizione degli invitati per la festa di compleanno della rivista, la primavera scorsa. Secondo il reportage di «Q», l´astrologo è stato occupato tutta la serata. Inutile dire che non ho rinnovato l´abbonamento.
Scandalo Agli occhi del pubblico, che non ha la possibilità di verificare la veridicità dei dati, quella della Björk appare come una solida ricerca scientifica. La studiosa ha anche dichiarato che utilizzerà l´oroscopo come metodo di valutazione della personalità dei suoi pazienti. E non è tutto: la sua ricerca scuoterebbe dalle fondamenta la nostra concezione del mondo e della scienza. Se fosse vera! Il problema è che non lo è. Lo studio della Björk non è altro che pura e semplice pseudoscienza e il fatto stesso che sia stato accettato dall´università inizia ad apparire sempre più come uno scandalo accademico. Sarebbe troppo lungo elencare in dettaglio tutte le lacune dello studio (l´ampiezza del campione statistico, il metodo di selezione, i controlli di sicurezza eccetera). Limitiamoci a constatare che non rispetta i criteri della ricerca scientifica e dunque non dimostra un bel niente. La verità sembra essere che la Björk, un´astrologa convinta, abbia costruito su misura una ricerca che dimostrasse la veridicità delle sue convinzioni.
Ogni genere di superstizione Nessun giornale ha dato spazio alla benché minima opinione critica sullo studio. e naturalmente nessuno chiederà scusa ai lettori per le idiozie che ha pubblicato. La neospiritualità è un fenomeno insidioso. Si è sviluppata gradualmente negli ultimi decenni ed è arrivata ad abbracciare ogni genere di superstizioni e idiozie, di cui l´astrologia è solo un esempio tra i tanti. Altri sono la parapsicologia, l´ufologia, l´occultismo, il misticismo orientale, i bioritmi, l´I Ching, la numerologia, la piramidologia, la chirometria (l´arte di leggere la mano), i culti di Atlantide, le varie cure dei guaritori, Scientology e molto altro. La neospiritualità è dunque qualcosa che ci riguarda? La risposta può essere una sola, che tutto ciò che si manifesta come movimento popolare e coinvolge centinaia di migliaia di persone deve riguardarci. E a maggior ragione, visto che questa neospiritualità, con le sue frasi vuote ma radicali e non prive di carica emotiva, esercita grande attrattiva sui giovani. Accusa la scienza tradizionale di essere conservatrice e borghese e si dipinge come un´alternativa progressista. Ma dietro questa facciata innocente si nasconde una visione del mondo e dell´uomo particolarmente reazionaria.
Mettetevi in libertà L´astrologia, per esempio, sostiene una visione del mondo deterministica, stabilita dal destino: in altri termini, che il nostro sviluppo individuale sarebbe in qualche modo predeterminato dalla posizione degli astri e dei pianeti al momento della nostra nascita. Se diventiamo tossicodipendenti o medici, scaricatori di porto o speculatori di borsa, non avrebbe niente a che fare con la nostra provenienza di classe, le circostanze sociali e le regole del gioco politico. Se abbiamo una pessima vita sessuale, può dipendere dal fatto che siamo Scorpione e il nostro partner Leone, non dall´inconsistenza dell´educazione sessuale nelle scuole o dalla crisi degli alloggi che ci impedisce di trovare un posto in cui metterci in libertà. Una delle costanti della neospiritualità è che propone una visione del mondo in cui non ci sono possibilità di influenzare l´ambiente circostante con le proprie azioni. È una spiritualità passivizzante, spesso basata su previsioni che si autorealizzano. Così la neospiritualità indica scorciatoie per arrivare alla conoscenza. Invece di dedicare un certo numero di anni agli studi o al lavoro, dovremmo sederci e raggiungere la conoscenza attraverso la meditazione, ottenere la felicità borbottando un mantra o (perché no?) sperimentare il nostro vero io con un viaggio all´LSD.
Moneta sonante La neospiritualità parla di uno sviluppo positivo per l´individuo, ma la pseudoscienza e la superstizione non hanno mai contribuito a migliorare le condizioni di vita di nessuno. A parte forse i ciarlatani che si arricchiscono sulla creduloneria della gente, che è la moneta sonante della neospiritualità. Ciarlatani come von Däniken (scrittore svizzero, noto per i libri di archeologia misteriosa, ndr) e Uri Geller sono diventati milionari ingannando la gente. Ogni anno tutte le case editrici svedesi degne di questo nome pubblicano diversi volumi su questa arte della truffa, e per i settimanali gli oroscopi sono un investimento mirato a potenziare le vendite. Alcune librerie di Stoccolma, come Vattumannen e East&West, si sono specializzate in pseudoscienza e superstizione. Farsi fare un oroscopo personalizzato da un professionista può costare qualche centinaio di corone; Ulla Sallert per esempio spedisce per posta oroscopi elaborati al computer per 164 corone. Per 550 corone si può partecipare a un corso di spiritualità sessuale e misticismo tantrico con Tolly Burkan, organizzato dall´associazione Livsglädje Täby. Per metà di quella cifra il signor Burkan può anche insegnare a camminare sui carboni ardenti. Negli Stati Uniti regna l´isteria consumista: si può ordinare una sfera di cristallo per 700 corone. L´«Aftonbladet» è più economico: il suo direttore Gary Engman offre l´oroscopo quotidiano a due corone e cinquanta. Purtroppo la ragazza che ho citato all´inizio dell´articolo non è un caso isolato. Non è difficile diventare un eremita moderno, se ci si perde nella giungla neospirituale. Il difficile è uscirne.Severin (pseudonimo di «Internationalen» n. 39, 1983
Titolo originale: En annan sida av Stieg Larsson, articles by Stieg Larsson andedited by Daniel Poohl First published by Expo, Sweden, 2011 published by agreement with Nostedts Agency © 2012 by Marsilio Editori s. p.a. in Venezia (Traduzione di Katia De Marco)

Repubblica 27.5.12
Il doping degli studenti psicofarmaci agli esami
di Fabio Tonacci


Li prendono così, tra una versione di latino e gli esercizi di algebra, come fossero innocue aspirine. Ben 150mila studenti tra i 15 e i 19 anni, il 6 per cento della popolazione scolarizzata, ha usato psicofarmaci senza la prescrizione medica negli ultimi 12 mesi. Di questi, 80 mila sono definibili consumatori abituali. Prendono Xanax e Valium, antidepressivi e tranquillanti.
Farmaci per l´attenzione, come il discusso Ritalin, lo stimolante a base di anfetamina. Pillole per la dieta, pillole per dormire. Un dato preoccupante che emerge dall´ultimo studio Espad 2011, realizzato dall´Istituto di fisiologia clinica del Cnr a Pisa.
La ricerca si è basata sulle risposte raccolte attraverso un questionario su un campione rappresentativo di 50mila alunni italiani. La prima riflessione che fa chi quello studio l´ha condotto, la epidemiologa toscana Sabrina Molinaro, riguarda proprio la costanza dell´abuso. «Mentre il consumo di droghe, alcol e tabacco sta diminuendo tra gli studenti di quell´età anche perché hanno meno soldi in tasca a causa della crisi – spiega – l´assunzione di psicofarmaci senza prescrizione medica rimane costante. Non diminuisce, anzi. L´uso di tranquillanti e pillole per dormire è in aumento, si è passati dal 4,5 per cento del 2007 (la percentuale è calcolata sul campione, ndr) al 5,4 per cento del 2011».
I tranquillanti dunque sono gli psicofarmaci più diffusi tra gli studenti. Seguiti però da quelli che promettono di migliorare la concentrazione e moderare l´iperattività, con una prevalenza nel campione del 2,8 per cento. Sono medicinali discussi e discutibili, che non trovano l´approvazione dell´intera comunità degli psicoterapeuti. Comunque da assumere tassativamente dietro prescrizione e controllo del medico. «Invece i ragazzi li prendono con troppa leggerezza perché consigliati da qualche amico – racconta la dottoressa Molinaro – o anche perché qualcuno in famiglia già li ha. Li usano prima di compiti in classe, interrogazioni, esami. Insomma in periodi di studio intenso».
Dati alla mano, si scopre che il primo "assaggio" si fa intorno ai 15 anni e sono soprattutto le ragazze ad attingere con più facilità al cassetto dei medicinali dei genitori. Ma sbaglia chi pensa che quella sia l´unica fonte di approvvigionamento. Si possono comprare nel gran bazar di Internet. I ragazzi se li scambiano a scuola o a casa di amici. Il 3 per cento ha dichiarato di averli comprati da uno spacciatore insieme con altre sostanze, il 4 per cento li ha reperiti in discoteca o ai concerti.
«Non mi stupisce, purtroppo – commenta il dottor Raffaele Lovaste, responsabile da 20 anni del Sert di Trento e a conoscenza dello studio Espad – il messaggio che è passato nella società è che tutti i disturbi, o presunti tali, possano essere curati con una pillola. Il male interiore sedato con un elemento esterno. È una visione sbagliata, così si alimentano le dipendenze. E alcuni psicofarmaci, come i tranquillanti, danno assuefazione».
Non ci si aspetterebbe di trovare lo Xanax o un tranquillante a un rave o a un concerto, invece capita anche quello. «Questo perché chi prende cocaina o pasticche – dice Lovaste – può essere soggetto ad attacchi di panico, ansie, paure. E quindi prende il medicinale per attenuare gli effetti collaterali di una droga». Un cocktail sciagurato.

Repubblica 27.5.12
Tatuaggi criminali
Lombroso e i corpi del reato
di Massimo Novelli


Lame, serpenti, cuori, teste di diavoli. Incisi addosso a "camorristi e sovversivi" per il teorico dell´"atavismo" ne svelavano i delitti
Testimonianze uniche sul mondo della devianza ottocentesca, ora i più preziosi tra questi "studi" sono stati restaurati dal museo torinese che porta il suo nome

In principio fu il tatuaggio. Era il 1863. Cesare Lombroso non aveva ancora elaborato la teoria dell´atavismo criminale. Era un ufficiale medico. Esaminando un migliaio di soldati artiglieri, tuttavia, venne colpito dal fatto che 134 di loro, di ceti sociali disagiati, avevano sul corpo più immagini o scritte incise in modo indelebile. Ne fece tesoro. Qualche tempo dopo, nel 1876, l´anno della pubblicazione de L´uomo delinquente, poteva scrivere che l´uso del tatuaggio «fra gli uomini non delinquenti» tende «a decrescere», mentre invece «l´usanza permane non solo, ma prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale, sia militare, sia civile». Nel libro Il Museo di Antropologia criminale "Cesare Lombroso", curato per la Utet da Silvano Montaldo e da Paolo Tappero, Pierpaolo Leschiutta ricorda che per la quinta edizione de L´uomo delinquente, uscita nel 1896, il dottore veronese, trasferitosi a Torino, «aveva dati e informazioni su 10.234 individui tatuati, 6348 classificati come criminali, prostitute e soldati delinquenti». Il tatuaggio era diventato un potente indicatore di atavismo criminale. Aveva annotato nel 1874: «Nulla è più naturale che un´usanza tanto diffusa tra i selvaggi e fra i popoli preistorici torni a ripullulare in mezzo a quelle classi umane che, come i bassi fondi marini, mantengono la stessa temperatura, ripetono le usanze, le superstizioni». Non si conosce il numero dei tatuaggi di uomini e donne «delinquenti», di assassini e di banditi, di ladre e meretrici, di vagabondi e di oziosi, di camorristi e sovversivi, che vennero ricopiati e riprodotti dal vero su carta e su tela, su richiesta del fondatore dell´antropologia criminale, in diversi manicomi, nelle carceri e negli ospedali del Regno d´Italia. Sicuramente si tratta di una quantità enorme. Nei magazzini del torinese Palazzo degli Istituti Anatomici, dove ora è ospitato il Museo Lombroso diretto da Silvano Montaldo, in questi ultimi anni ne sono stati ritrovati centinaia, senza contare quelli che sono andati perduti. Sei di questi, i più grandi e significativi, sono stati affidati agli specialisti del laboratorio di restauro dell´Archivio di Stato di Torino che li hanno restituiti ai colori originali. Rappresentano una testimonianza rilevante del pensiero lombrosiano e degli strumenti della ricerca scientifica positivista, ma anche un racconto di notevole forza dell´universo ottocentesco della miseria, del crimine, della devianza, della follia, talvolta del genio. Spiega Montaldo: «La nostra è una raccolta unica al mondo nel suo genere. Anche Alexandre Lacassagne, uno dei padri della scienza criminologica in Francia, ne aveva raccolti numerosi a Lione; non si sa, però, che fine abbiano fatto».
Nell´Ottocento, scrive Leschiutta, il tatuaggio «turba, incuriosisce, infastidisce, pone problemi sulla liceità di un uso del corpo irrispettoso della sua sacralità», sebbene fosse diffuso, soprattutto in Inghilterra, tra gli esponenti dell´aristocrazia. Oggi farsi tatuare è una moda di massa, e il tatuaggio ha perso una buona parte della sua valenza. Uscito dalla storia delle classi subalterne, è entrato nell´era dell´omologazione. Un serpente marchiato su un braccio non svela ciò che poteva rivelare, oltre un secolo fa, quello che attraversa il corpo di «Materia», un piemontese «condannato ripetutamente per furto, rapina, associazione a delinquere». È uno dei disegni rimessi a nuovo dall´Archivio di Stato. Nelle note di Lombroso e dei suoi collaboratori, quasi sempre basate sulla scorta delle spiegazioni fornite dai medesimi tatuati, il serpente «significa che egli è legato dalla Questura dai cui lacci non può sciogliersi. Le spade significano il diuturno duello contro la Questura».
Vere e tragiche storie personali, spesso abominevoli oppure miserabili, con i loro fondi di memorie e di sogni spezzati, di odi e di amori, con gli afflati religiosi, i desideri erotici e di vendetta, a volte innestati tra vagheggiamenti sociali e di rivolta, un «W la Republica» e un «W la Pace», coprivano i corpi studiati da Lombroso. Lui ne traeva linfa preziosa per dimostrare il rapporto dei delinquenti e dei devianti, proprio per via del tatuarsi, con l´uomo primitivo e con quello «in stato di selvatichezza». Le altre letture possibili, alternative alla mera connotazione criminale, non vennero prese in considerazione. Con i metodi e lo stato della scienza connaturati all´epoca, Lombroso colse, come dice Leschiutta, «la potenzialità evocativa» dei tatuaggi; quell´essere, per citare Danilo Montaldi, delle autentiche Autobiografie della leggera (o lìgera, la piccola criminalità milanese della prima metà del Novecento, ndr). Nell´iconografia tutta pelle e aghi lo scienziato individuò le tipologie del tatuaggio religioso e per imitazione, per spirito di vendetta e per ozio, per vanità, per spirito di corpo, in funzione mnemotecnica ed erotica. Molte delle sue idee e delle sue scoperte sono cadute nell´oblio. Rimane intatta la capacità di raccontare gli uomini e le donne decifrandone i segni sui corpi.

Repubblica 27.5.12
Il nuovo codice dell’appartenenza
di Giancarlo De Cataldo


Come si fa oggi a individuare un criminale, specie se è un grande criminale? Lombroso avrebbe detto: dal tatuaggio. Tutti i criminali sfoderano tatuaggi. È un segno di appartenenza. Perciò: segui il tatuaggio, e troverai il criminale. E viceversa. Se le cose fossero così semplici basterebbe uno screening di massa a garantirci la tanto mitizzata "sicurezza". Ma le cose non sono mai semplici quando si tratta di cattivi soggetti. E la capacità mimetica della malavita è, oggi, uno degli aspetti più inquietanti della modernità.
Concedetevi un´escursione in un ristorante alla moda. All´ingresso, limousine e berline coi vetri oscurati attendono in divieto di sosta presidiate da autisti-guardie del corpo. Entrate. Riconoscete qualche volto noto, della politica, dello spettacolo o dello sport. Ma voi concentratevi - senza dare nell´occhio, perché non sarebbe prudente - sulle rumorose congreghe di uomini vestiti all´ultima moda che prendono posto al tavolo migliore, immancabilmente riservato, con al fianco "sventole" da urlo dall´aria fintamente compresa. Censite gli orologi di marca, i pendagli di diamanti e i bracciali d´oro. Qualcosa nell´atteggiamento di costoro vi suona stonato: una certa arroganza, qualche scoppio di risate sopra le righe, e cominciate a farvi delle domande. Notate che qualcuno dei personaggi noti non disdegna di farsi ritrarre in compagnia di questi ignoti. Attendete con crescente impazienza che il cameriere, abilissimo a fingere di ignorarvi, vi degni finalmente di un po´ di attenzione. Ma solo dopo che questi signori sono stati serviti e riveriti in un profluvio di premure ossequiose. Vi chiedete allora, con più decisione, chi sono questi tipi dai volti anonimi che si comportano come se fossero i padroni della città (e a volte lo sono davvero). Azzardate una cauta domanda. Non c´è risposta. Vi resta una sensazione di disagio. Dopo un po´ non ci fate più caso: concludete che si trattava di uomini di successo, forse imprenditori, forse manager, chissà. E gli uomini di successo, si sa, tendono all´arroganza. Poi, un giorno, rivedete i loro volti. Al telegiornale, sono su tutte le prime pagine. Hanno le manette ai polsi. Capite allora di esservi imbattuti in una combriccola di criminali, magari anche di un certo spessore. Qualcosa vi aveva insospettito, certo, ma non potete dire di averli immediatamente riconosciuti. Erano proprio uguali a tanti altri. Non avevano nemmeno il tatuaggio. Ma sì, che se ne fanno, ormai, i veri criminali, del tatuaggio? È acqua passata. Siamo noi quelli che ancora si eccitano coi simboli di "quegli altri". Come se non potessimo fare a meno, dopo tutto, di ammirarli. "Loro" sono già altrove. Sono nell´era postcriminale.

La Stampa 27.5.12
La Grotta di Lascaux in pericolo a causa dei biocidi usati contro i funghi


La Grotta di Lascaux è in pericolo, minacciata dai biocidi utilizzati per combattere una colonia di funghi. È quanto emerge da una ricerca condotta dal Consejo Superior de Investigaciones Cientificas (Csic) spagnolo, pubblicata su Environmental Science and Tecnhnology . Secondo gli studiosi i preparati utilizzati per debellare il focolaio Fusarium solani sono stati inefficaci e, sotto alcuni punti di vista, dannosi, perché l’uso continuato di queste sostanze non solo non riesce a rimuovere i funghi, ma anzi ne favorisce la diversità, come dimostra la comparsa di lieviti della famiglia delle Herpotrichiellaceae eAcremonium nepalense . La grotta di Lascaux, scoperta nel 1940 da quattro ragazzi nella Francia Sud-occidentale, contiene una vasta collezione di pitture rupestri e incisioni con più di 1900 figure di animali e motivi geometrici del Paleolitico superiore. È considerata la Cappella Sistina dell’arte preistorica. Nel 1963 fu già chiusa al pubblico quando si osservò che le pareti presentavano, a causa dell’illuminazione artificiale, abbondanti colonie di un’alga unicellulare. Nuovi allarmi erano stati lanciati nel 2001 e nel 2006 a causa del fungo

La Stampa TuttoScienze 23.5.12
“Gli alieni che inventarono il mondo moderno”
Gli invisibili fili che legano il Seicento e i saperi dell’era di jet e computer
di Gabriele Beccaria


Hanno inventato il mondo che conosciamo, ma non erano come noi. Sulle loro teste spiccavano vistose parrucche, spesso infestate dai pidocchi. E, dentro, si agitavano cervelli altrettanto bizzarri. Edward Dolnick, matematico di formazione e reporter scientifico di professione, ha viaggiato nelle esistenze e nelle menti dei creatori della scienza e ha condensato l’avventura nel saggio «L’Universo Meccanico». Perché uno scienziato del XXI secolo sarebbe a disagio in un’immaginaria conversazione con un collega di mezzo millennnio fa? «Galileo e Newton e gli altri grandi del XVII secolo credevano che la loro missione fosse onorare la magnificenza della creazione divina. La scienza era una forma di omaggio religioso. Gli scienziati moderni non hanno questa fede. Credono anche loro che il mondo abbia un ordine naturale che gli esseri umani possono scoprire, ma sulle ragioni di questo ordine nessuno si sogna di dare una risposta. “L’eterno mistero del mondo - ha detto Einstein - è la sua comprensibilità”». Com’è stato possibile il rovesciamento? Oggi quasi nessuno crede nella coesistenza di scienza e religione: la ricerca è, salvo poche eccezioni, atea. «I titani della scienza credevano che con il loro lavoro avrebbero dimostrato il genio cosmico di Dio. Ciò che non avrebbero mai sospettato è che l’effetto sarebbe stato espellerlo dalla scena. Svelando che l’Universo segue rigide leggi matematiche, resero Dio irrilevante. C’è un orologio che funziona da solo. E, una volta partito, l’orologiaio non ha più alcun ruolo». Il mondo del XVII secolo era pericoloso e permeato dal senso di un’imminente apocalisse e il nostro condivide molte angosce simili. Ma intanto com’è cambiato il ruolo della scienza? «Violenza e malattie, nel XVII secolo, erano minacce costanti. Le grandi città avevano più aspetti in comune con le megalopoli del Terzo Mondo di oggi che con la Londra o la Parigi del presente. E la scienza giocava due ruoli contraddittori. Da una parte sia gli scienziati sia la gente credevano che il mondo si avvicinasse alla fine e gli studiosi si sforzavano di capire come questa sarebbe avvenuta. Dall’altra parte la scienza diffondeva speranza e ottimismo, dato che ricerca e tecnologia erano diventate strette alleate. Le scoperte scientifiche contenevano la promessa di nuove macchine e di condizioni di vita migliori. Anche oggi siamo allo stesso tempo pessimisti e ottimisti, sebbene i motivi siano cambiati. Il pessimismo nasce dalla sensazione che i problemi siano intrattabili e la scienza stessa è vista sotto una doppia luce: dobbiamo ancora decidere se il mito più appropriato sia Prometeo che regala il fuoco all’umanità o Frankenstein che fugge dal laboratorio». La scienza è nata anche grazie a un’instituzione come la Royal Society: che cos’è rimasto della sua eredità? «La sua caratteristica più straordinaria resta l’improvvisazione: geni incomparabili ed eccentrici folli si riunivano allo stesso tavolo. Quasi nulla era conosciuto - come respirano gli animali? O come brucia il fuoco? - e qualunque teoria veniva testata. Oggi la scienza è così formalistica e ufficiale che un atteggiamento simile non sarebbe più possibile». E, a proposito di stranezze, su tutti spicca Newton: lei lo descrive come un alieno. «Newton è stato uno dei più strani esseri mai vissuti: un irascibile recluso che morì vergine e un gigante della scienza che considerava le proprie ricerche come un’attività tra tante. Credo che ci sia ancora molto da scoprire su di lui, perché la maggior parte delle biografie lo ritraggono in modo impreciso, come un intellettuale prossimo allo scienziato diFusarium solani .

il Fatto Lettere 27.5.12
C’è troppa confusione sul significato di “chiesa”


Un lettore, su Il Fatto Quotidiano del 26 maggio, protesta perché una lettrice ha criticato la Chiesa che spende troppe parole su temi quali l’aborto, l’omosessualità, le coppie di fatto, “gli embrioni deboli e indifesi” (cito le parole della lettrice) e, in confronto, poche parole in difesa dei bambini sfruttati e maltrattati in tutto il mondo. La lettrice ha ragione. Raramente si sente la Chiesa parlare dei bambini ridotti in schiavitù, bambini che lavorano quindici ore il giorno al servizio delle multinazionali, bambini uccisi, massacrati, trucidati, bambini sfruttati da clan criminali o dal mercato della pornografia, bambini mandati al fronte come soldati. Il lettore scrive: “La Chiesa è ovunque in prima fila nell’assistenza ai bambini in difficoltà, soprattutto nel terzo mondo”. Da dove nasce l’equivoco del lettore? Dal fatto che egli confonde la Chiesa cui alludeva la lettrice, vale a dire Papa, vescovi e cardinali, e la chiesa fatta da tutti i cristiani, gerarchia ecclesiastica compresa, ovviamente. Ma a compiere le opere di carità sono preti, missionari, persone religiose di buona volontà, non la gerarchia ecclesiastica. E finanziare tali opere è un preciso dovere della Chiesa (ci mancherebbe altro!). Del resto, non tiene già abbastanza per sé di tutto il denaro che incamera?
Renato Pierri