domenica 8 gennaio 2012

l’Unità 8.1.12
Colloquio con Pier Luigi Bersani
Bersani: unire subito  i progressisti europei
Il colloquio «Non c’è tempo da perdere. L’Europa rischia grosso. Tocca a noi guidare la battaglia per l’integrazione e la crescita»
di Ninni Andriolo


Adesso bisogna stringere con le decisioni, perché non è che i mercati abbiano bisogno di cavare informazioni dalla libera stampa, visto che sanno già tutto e speculano sui nostri tentennamenti e sulle nostre divisioni. Bisogna dare un segnale inequivocabile adesso: l'Euro costi quel che costi lo si difende assieme». Unico leader di partito presente alle celebrazioni del 215 ̊ anniversario del Tricolore, Pier Luigi Bersani, lascia il Valli dopo aver ascoltato il presidente del Consiglio pronunciare parole «di verità» sulla realtà dell'emergenza economico-finanziaria che investe l'Italia, e l'Europa.
Frasi che capovolgono il “tutto va bene” distribuito a piene mani in questi anni. Dietro le transenne c’è la gente che applaude il nuovo premier e ci sono indignados, leghisti e militanti di Rifondazione che lo contestano chiedendo elezioni. «Vedo la Lega laggiù commenta Bersani Ecco fin quando si tratta di indignati o di Rifondazione nulla da dire. Ma la Lega no. Ha governato otto degli ultimi dieci anni, ci ha parcheggiati davanti a un baratro e adesso tutto può fare tranne che contestare». È preoccupato il segretario del Pd. La moneta unica è sotto attacco, mentre l'Europa non stringe, stenta a decidere. «La mia idea è che, come riflesso alla globalizzazione, sia venuto fuori purtroppo un punto di vista ideologico di ripiegamento che è più duro della pietra, un meccanismo difensivo dal quale non si vuol venire fuori. Vedi le cose che dovresti fare ma non le fai, e questo è veramente assurdo. Uno può dire normalmente che se tutti sono d'accordo quella certa cosa si farà. Ma il dramma, qui, è che non è detto che a prevalere sia la ragione...».
Non è vero che le ideologie sono finite, ripete Bersani, «ne sopravvive una profondissima che produce nel cuore dell'Europa, e anche da noi, un meccanismo di chiusura che fa pascolare gli egoismi». Soprattutto in Germania. E i mercati giocano sull'indecisione, sugli irrigidimenti e sui ripiegamenti nazionali. Bersani ha visto Mario Monti, un incontro riservato seppure breve. Per il presidente del Consiglio l'Italia ha fatto la sua parte, e «adesso tocca all'Europa». Ma da Prodi, a Bersani, a Castagnetti, tra gli esponenti politici del centrosinistra presenti a Reggio Emilia si respira un clima sospeso, d'attesa disincantata. «Con Sarkozy è andata bene commenta Bersani, alludendo al vertice dell'Eliseo Anche la Francia comincia ad essere preoccupata perché qui siamo veramente agli Orazi e Curiazi. Il fatto è che se non c'è la difesa comune dell'euro ci sarà sempre, per definizione, un Paese che è più sull'argine. Ed è matematico che man mano che ne fanno fuori uno ce ne sia un altro che rischia di precipitare. Dopo di che quella nazione che pensa di farcela da sola ha già avuto una riduzione degli ordinativi industriali di 4 punti...». Di questo passo, quindi, rischia perfino la Germania. Si dia qualche regolata,
allora, in modo tale che, «quando si arriva ai vertici, si arrivi a qualche decisione».
Trilaterale Monti, Merkel, Sarkozy; Eurogruppo; Consiglio europeo. Di qui alla fine di gennaio sono molte le occasioni per “stringere”. E Berlino «deve mollare, deve dare una mano a fare girare un po' d'economia se non vuole che vada sotto anche lei». E deve sconfiggere quel pregiudizio che circola nella sua opinione pubblica. «Loro che con l'euro altroché se ci hanno guadagnato sono convinti invece che ci hanno rimesso», commenta Bersani.
Si passeggia sotto i portici del Teatro, il leader Pd stringe molte mani, saluta, riconosce, parla in dialetto emiliano. Ascolta un “compagno”, costretto su una carrozzella da un handicap, che si sfoga contro la manovra. «Conosco bene la vostra situazione», dice il segretario del Pd. Poi ricorda «quel passaggio del discorso del presidente del Consiglio sull' equità particolarmente azzeccato. Perché qui non si tratta di fare Robespierre, ma di arrivare a un tasso di fedeltà fiscale comparabile con quello di altri Paesi europei. E se il governo ha iniziato ad agire, secondo noi c'è anche altro che si può ancora fare. Per questo abbiamo avanzato proposte e continueremo a non mollare».
Ma è l'Europa il cruccio, il nodo da sciogliere per ripartire. «Il presidente del Consiglio mi sembra impegnatissimo sul fronte europeo ma ognuno deve lavorare dal suo lato.
Noi lo facciamo da quello dei progressisti europei. Una piattaforma, in ogni caso, si sta determinando. Anzi già c'è. Tra gli economisti e in tanti governi avanza l'idea che bisogna imboccare una direzione precisa per non sbattere contro il muro». Sul trattato salva-euro, ad esempio, «la situazione è in evoluzione, stanno girando le carte, si lavorerà perché ci siano delle correzioni. Il Parlamento europeo, tra l'altro, sta assumendo una posizione unitaria, più aperta. I margini ci sono per migliorare l'intesa intergovernativa». Ma da solo, secondo Bersani, quel terreno non basterà a placare la speculazione. «Sto dicendo che ci vuole anche dell'altro, qualche novità ancora...». Quale? «Quella di dare più risorse al fondo salva Stati snellendone le istituzioni. Nel frattempo, però, perché l'emergenza va affrontata subito, andrà dato qualche mandato in più alla Bce e si dovrà sbloccare la prospettiva degli Eurobond. Certo, tutto questo va accompagnato da regole di disciplina sui bilanci, e nessuno nega questa esigenza. Ma bisogna dare l'idea che si va verso una certa prospettiva comune per stoppare il mercato che vuol distruggere l'euro. E mettiamoci sopra tutti i soldi che servono per salvarlo. Tanto, secondo me, se si seguisse questa strada, non ci sarebbe nemmeno bisogno di usarli alla fine..».
Tutto questo, ormai, «è parte integrante della piattaforma dei progressisti sulla base della quale faremo a marzo un’iniziativa in Francia per sostenere Hollande. Ci saremo tutti annuncia Bersani e rilanceremo anche l'idea di un maggiore coordinamento delle iniziative economiche». Per il segretario Pd «serve la politica». Un'iniziativa coordinata dei progressisti europei, quindi. Perché «un conto è se si alza un partito in Germania o in Italia e dice: basta ragazzi, se ognuno va per i fatti suoi tutti poi andiamo alla rovina, altra cosa è se l'Spd in Germania, il Pse in Francia, il Pd in Italia sviluppano insieme tra le opinioni pubbliche battaglie ideali, culturali e politiche». Troppo tardi? «Speriamo di no risponde Bersani con un sospiro Certo, se tre anni fa si fosse spento sul nascere l'incendio che poi è divampato in Grecia, tutto ci sarebbe costato meno. Guarda un po’, invece, dove siamo arrivati oggi per colpa delle ideologie».

l’Unità 8.1.12
Intervista a Giuliano Pisapia
«Un centrosinistra ampio e coeso per uscire col voto dalla crisi»
Il sindaco di Milano apprezza «la generosità e la responsabilità del Pd» nel sostenere Monti. Ma invita a prepararsi alle elezioni, senza divisioni e polemiche
di Rinaldo Gianola


Sostenere il governo Monti è stata una scelta generosa, responsabile. Il Pd ha fatto bene, anche se penso che avrebbe vinto facilmente le elezioni. Non potevamo far affogare il Paese con conseguenze drammatiche soprattutto per i ceti più deboli. Ma oggi bisogna anche evitare che ad annegare sia il centrosinistra. Dobbiamo porci l’obiettivo delle elezioni per uscire dalla crisi con una svolta progressista, di cambiamento profondo della politica e delle scelte sociali ed economiche».
Giuliano Pisapia guarda al futuro del Paese iniziando il nuovo anno sul fronte dell’”Area C”, cioè la zona del centro di Milano dove dal 16 gennaio le auto potranno circolare solo a pagamento. È un provvedimento forte, europeo, che alimenta polemiche e divisioni, ma per il sindaco di Milano questa battaglia segna il passaggio dalla fase dell’emergenza allo sviluppo, al cambiamento anche culturale della città. È un esperimento importante, assieme ad altri progetti, perchè misura la credibilità di un’amministrazione di dare risposte ai cittadini, con la consultazione, la trasparenza delle decisioni giuste o sbagliate che siano, la determinazione nel difendere gli interessi prevalenti della comunità. Di Milano «che può ripartire nel 2012» e della crisi che «ci lascerà ben diversi dal passato» il sindaco parla con l’Unità.
Sindaco Pisapia, qual è il suo giudizio sul governo Monti e la sua prima manovra?
«Monti è una necessità, anzi è un imperativo nella situazione in cui ci aveva trascinato Berlusconi. Penso che solo un governo come questo sia in grado di decidere velocemente i provvedimenti indispensabili a salvare il Paese, provvedimenti tanto impopolari quanto è grave la nostra situazione. La credibilità e la capacità, anche tecnica, del governo Monti sono oggi i fattori su cui deve fare affidamento anche la politica per evitare che il Paese affondi».
In altri tempi avremmo definito Monti e la sua manovra semplicemente di “destra”. È l’emergenza che fa cambiare i giudizi?
«Questa crisi ci sta cambiando e ci lascerà profondamente diversi dal passato. Non mi sfugge che i provvedimenti di Monti sono pesanti e colpiscono chi già fa il suo dovere. Per questo mi aspetto al più presto una correzione, proposte finalizzate a una maggiore equità e giustizia sociale, sostegni alla ripresa e per i ceti sociali più deboli. Monti ha deciso misure straordinarie perchè questo momento è straordinario nella sua gravità, ma la stagione dell’emergenza deve avere un limite. È necessario, anche per confermare le nostre basi democratiche, che siano gli elettori a scegliere i governi».
Le ipotesi di riforma del mercato del lavoro hanno riproposto la modifica dello Statuto dei lavoratori e il superamento dell’art.18. Cosa ne pensa? «Penso che il governo tecnico non possa ripercorrere una strada dove hanno già fallito politicamente Berlusconi e Sacconi. Spero che il governo abbia capito che oggi non c’è bisogno di creare e alimentare altre tensioni sociali. È poi il problema non è certo l’articolo 18, non è questo che frena lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro. Lo sanno tutti, compresi gli imprenditori, almeno quelli che non sognano vendette ideologiche».
Non teme che il centrosinistra possa uscire logorato da un lungo sostegno al governo tecnico?
«Questo è il momento della responsabilità. Ma il centrosinistra deve prepararsi a una nuova stagione politica, deve essere pronto per la prova elettorale, con un programma, un disegno politico preciso e credibile, aperto alla società e alle associazioni. Sostenere Monti e pensare al voto non è una contraddizione, serve anche a evitare lacerazioni nel centrosinistra. Questa crisi e dico anche le dure scelte di Monti approvate dal Pd devono servire per costruire una proposta nuova, seria, credibile per il futuro del Paese. Possiamo farcela se ripartiamo dal basso, se evitiamo divisioni e polemiche inutili, se ci poniamo l’ambizione di uscire a “sinistra” dalla crisi. Dobbiamo puntare su un allargamento delle alleanze, su un centrosinistra ampio e coeso».
Lei è sindaco di Milano da sei mesi. In che punto si trova?
«Penso di essere uscito dalla drammatica emergenza in cui la mia amministrazione si è trovata nei primi mesi a causa delle scelte realizzate dalle giunte di destra. Abbiamo riavviato il progetto Expo 2015, abbiamo sistemato i conti e rispettato il Patto di stabilità e ora penso che, malgrado la crisi del Paese, Milano possa ripartire nel 2012. Dico che Milano riparte perchè vedo in città una grande partecipazione e disponibilità da parte di tanti soggetti, dal mondo del lavoro alle imprese, dalla società alle associazioni». Come sta incidendo la crisi economica sul tessuto sociale?
«In città ci sono sacche di povertà, anche di nuove povertà, preoccupanti. C’è chi ha perso il lavoro, lavoratori in cassa integrazione che non ce la fanno, famiglie in difficoltà. L’obiettivo prioritario dall’amministrazione è fronteggiare queste situazioni, mobilitando tutte le risorse possibili e chiedendo la partecipazione di tutte le forze sociali. Oltre alla Fondazione Welfare che ha iniziato ad operare, in questi giorni abbiano recuperato 5 milioni di euro nelle pieghe del bilancio da utilizzare in aiuto dei precari».
Lei ha deciso di vendere una quota della Sea (la società che gestisce gli scali di Linate e Malpensa) per rispettare il Patto di stabilità. Altri suoi colleghi, invece, pensano di violarlo.... «Penso che il Patto vada cambiato, ma Milano ha deciso di rispettarlo e vogliamo restare un comune virtuoso. Abbiamo venduto la quota Sea, di cui manteniamo comunque il 51%, anche per pagare le centinaia di aziende che attendevano i soldi all’amministrazione, abbiamo dato una mano all’economia. Le precedenti giunte di Milano abbellivano i bilanci grazie al fatto che non pagavano le fatture. Oggi siamo nelle condizioni di far ripartire gli investimenti, di realizzare progetti e tutti i giorni ricevo sollecitazioni, offerte da parte di governi e imprese, soprattutto delle economie emergenti, interessati a investire a Milano». Come conseguenza del riassetto azionario della Edison si è aperta una discussione sul futuro di A2A, la società di cui il Comune di Milano assieme a Brescia ha una ricca partecipazione. La venderete?
«Il dibattito di questi giorni è surreale. La giunta non ha affrontato il tema, lo discuteremo insieme al bilancio 2012. A titolo personale mi pare che A2A, oltre a generare dividendi che servono sempre, possa essere il perno di un grande progetto industriale che potrebbe coinvolgere le altre ex municipalizzate del Nord. È possibile pensare che Milano, Brescia, Bologna, Torino lavorino insieme alla creazione di un forte operatore industriale, a controllo pubblico? Questo mi sembra la sfida dei prossimi mesi».
I poteri economici e finanziari di Milano stanno cambiando. Berlusconi non è più al governo, Ligresti è in gravi difficoltà, il San Raffaele ha perso il suo leader Don Verzè e avrà presto una nuova proprietà. C’è un filo che lega questi fatti?
«Non entro nel merito di singole vicende imprenditoriali. Ogni azienda ha la sua storia e i suoi problemi. Quello che posso dire, in linea generale, è che c’è un cambiamento profondo in città nei rapporti tra i poteri dell’economia, della finanza e la politica. La mia amministrazione non dipenderà mai da quei poteri, da quegli interessi che, in passato, hanno sempre fatto quello che volevano»

il Fatto 8.1.12
Teologia della crisi italiana
di Furio Colombo


Scende e si deposita su articoli e discorsi, su prese di posizione e proteste un alone di magistero religioso. È il momento fondativo di una fede o del rigetto di una fede. Lo vedi, lo constati: una parte si avvia a credere con devozione. Una parte è composta di miscredenti o di atei. Scende e si deposita su articoli e discorsi, su prese di posizione e proteste un alone di magistero religioso. È il momento fondativo di una fede o del rigetto di una fede. Lo vedi, lo constati: una parte si avvia a credere con devozione. Una parte è composta di miscredenti o di atei. I due gruppi però ora sono tutt’altro che omogenei, fatti di gente molto diversa, fra imposizione e fiducia da una parte, fra scetticismo e rivolta (qualcuno teme rivolta violenta) dall’altra. Sia i leader delle nuove tavole della legge, sia coloro che sono decisi (non tutti decisi allo stesso modo) a restare fuori dal tempio, sono consapevoli che l’evento è unico, che il momento è decisivo. Vibra intorno a tutti (anche i miscredenti) la percezione di una eccezionalità che dà un peso enorme a ogni frase, a ogni gesto, trasforma tutto in simbolo. Salvezza e perdizione sono i due modi per definire lo spazio e i limiti dello spazio. “Adesso, subito” oppure “prima parliamone” sono i due modi di qualificare la percezione del tempo. Come sempre, la grazia non può aspettare. Il rifiuto della grazia, intesa come salvezza, è il peccato. Il peccato si annuncia col trascinamento nel tempo. “Discutiamone” è la tipica via d’uscita di chi non ha fede. Di che cosa sto parlando? Il lettore ha capito che sto parlando di Europa in questi giorni, che sto parlando dell’Italia.
Ho detto della contrapposizione tra salvezza e perdizione, ma la parola giusta è esclusione. Esclusione dalla comunità dei salvati. È la vera sanzione del peccato: fuori dal benessere, fuori dalla crescita, fuori dal futuro, fuori dall’euro, fuori dal-l’Europa. Il peccato è rifiutare il sacrificio. È vero che il sacrificio non è uguale per tutti, ma questo avviene in tutte le religioni, dove alcuni, per la stessa fede, pagano prezzi immensi e altri no.
NELLE RELIGIONI classiche si dice che Qualcuno o Qualcosa provvederà, in un’altra ambientazione di fatti e di tempi, a rimborsare chi ha dovuto eccedere nel-l’offerta (“beati i poveri”). In questa, che stiamo vivendo e discutendo, il rimborso è affidato a una speranza che prudentemente rimane inespressa. Al massimo ti dicono che, se il sistema tornerà a produrre ricchezza, non potrà che distribuirla. Tranne che in casi di guerra o di estrema calamità naturale, nessuna autorità ha mai preteso, nei sistemi democratici, una così rigorosa accettazione indiscussa di regole tanto dure che però non assicurano alcuna certezza, solo una chance. Esigono, ma non promettono. “Forse” è già un articolo di fede. Cerco di essere preciso. Tutto ciò di cui sto parlando non è il capitalismo. Del capitalismo ci sono, e vengono ripetute, regole e comportamenti che costituivano buona parte di quel disegno di costruzione sociale basata, come si ama dire, sul merito, e fondata, nella vita reale, su occasioni, ben raccolte e bene usate, di privilegio. Non sto parlando – lo vedete – di corruzione. Perché i corrotti non sono mai fra i miscredenti, non si contrappongono mai a un sistema religioso. La corruzione – così come aveva visto per tempo Martin Lutero per il cattolicesimo – si nasconde nelle migliori pratiche di fede. E perciò, in attesa di una “riforma”, sulla corruzione sospendiamo il discorso.
Mi premeva dire che la strana, mistica avventura che stiamo vivendo non è un ritorno o una rivincita del capitalismo. Il capitalismo è freddo e pragmatico e non perde tempo con le sue vittime. Spiana dove deve costruire, e costruisce, se deve, anche murando la tua finestra. Per giunta il capitalismo è privo di preoccupazioni che non siano “l’affare”, non si volta indietro, dialoga solo con soci e con partner.
Qui siamo in un tempio. Le lacrime non sono finzione, la preoccupazione anche grave non è una messa in scena, la parola deve essere ascoltata non per sottomissione alla autorità ma perché in essa chi partecipa al nuovo rito riconosce la verità. Da quella verità non si sfugge perché è l’unica possibilità di salvezza. Non fornisce tutti i dati del “come” si arriverà alla salvezza, ma una cosa è certa: questa è l’unica strada. Una religione prevale quando anche i miscredenti gravitano su di essa, nel senso che discutono, anche accanitamente, ma voltati verso l’altare, ovvero il punto sacro e caldo del tempio, quello in cui deve avvenire il miracolo. I più non stanno dicendo che la strada è un’altra. I più stanno invocando un cambiamento o attenuazione o dilazione di regole per me, o per te o per loro. In inglese la parola è advocacy. Significa che la nuova fede è più forte dei miscredenti e li sta portando, con tutte le differenze e le eresie, a un unico punto caldo? Di sicuro dimostra che non stiamo parlando di rivincita e ritorno del capitalismo puro, che non si è mai proposto come salvezza ma come naturale espressione tecnica ed economica della democrazia liberale. E non stiamo parlando di un battibecco tra destra e sinistra, fra conservatori e liberal.
No, signori, qui c’è fede, dunque vita, morte, salvezza o dannazione (nella forma della esclusione), via d’uscita o precipizio (il baratro viene continuamente invocato, e anche il baratro non è una figura del capitalismo, se non come fallimento di una impresa, e danno grave per qualcuno, quasi sempre a beneficio di qualcun altro). La strada della salvezza invece la imbocchi per fede, non perchè ti forniscono le prove.
A essere sinceri non siamo sicuri neppure del peccato originale che ci ha portato così vicini alla perdizione. Ogni paese ha il suo, in Europa. Ma la passione religiosa si estende all’America, dove il candidato repubblicano (uno di loro, Romney, ma a nome di tutti) dichiara: “Non un dollaro per salvare l’Europa”. Che vuol dire: mai finanziare il peccato. Tutto ciò porta a non notare che – proprio in America – una solida e pericolosa congrega di atei, guidata dai premi Nobel per l’economia Krugman, Stieglitz e Amartya Sen, sostiene che la nuova chiesa si fonda sull’errore. Alle dovute condizioni e con le dovute regole, si deve spendere per salvarsi, non risparmiare. E cominciare con il salvare i poveri (molti) e ridare speranza ai quasi poveri (moltissimi).
È tollerabile una simile eresia? È tollerabile se la si isola in un ghetto universitario-giornalistico, lontano dai governi. I governi tagliano, in Europa e in America, per non essere esclusi dal tempio. Dunque la decisione è terribile e semplice: abbracciare o no la fede. Tanto più che si diffonde l’inquietante sensazione che fuori dal tempio e sopra e lontano, abiti un dio potente che non ha ancora svelato il suo volto.

l’Unità 8.1.12
La nuova scritta «Assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato. I camerati»
Presenti Giorgia Meloni e un assessore capitolino. L’imbarazzo del sindaco Alemanno
Strage di Acca Larentia. La targa della vergogna davanti all’ex ministra
Giorgia Meloni insieme all’assessore Ghera e al consigliere comunale Mollicone era presente alla cerimonia, e non ha trovato nulla da ridire. Alemanno: «Si rischia di percorrere una strada ideologica»
di Massimo Solani


Si temevano incidenti ma la commemorazione del trentaquattresimo anniversario della strage di Acca Larentia, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta furono uccisi da alcuni colpi di arma da fuoco davanti alla sede del Msi mentre Stefano Recchioni fu colpito a morte da un proiettile esploso da un carabiniere nel corso di alcuni scontri esplosi alcune ore dopo, quest’anno porta con se soltanto le polemiche esplose per la targa inaugurata ieri per ricordare l’assassinio dei tre militanti missini a sostituzione di quella affissa nel 1978. «Morti per la libertà e per un’Italia migliore», c’era scritto prima. «Assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato», si legge adesso sotto ai nomi delle tre vittime, firmato «i camerati». Parole di fronte alle quali non hanno trovato nulla da protestare nemmeno l’ex ministro Giorgia Meloni, l'assessore ai Lavori pubblici di Roma Capitale Fabrizio Ghera e il presidente della Commissione Cultura in Campidoglio Federico Mollicone che hanno preso parte alla commemorazione depositando una corona. Rappresentanti dello Stato, eppure niente affatto a disagio sotto la grande bandiera nera con la celtica. I motivi del cambio di dicitura della targa li ha spiegati Carlo Giannotta, responsabile della sede Autonoma di Acca Larentia. «Gianfranco Fini e il suo gruppo la sua versione tra cui Gasparri e La Russa, fecero la promessa di una Italia migliore quando nel ‘78 misero la vecchia targa. Promessa poi non rispettata. Per questo noi l’abbiamo sostituita ed abbiamo specificato l’ideologia che ha assassinato quei tre ragazzi».
ALEMANNO: STRADE IDEOLOGICHE
Parole che imbarazzano il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che non ha partecipato alla commemorazione. «È corretto mantenere su queste lapidi la dicitura: “Vittime della violenza politica”». Secondo Alemanno, infatti, «andare più nello specifico significa rischiare di ripercorrere una strada di carattere ideologico. Noi dobbiamo condannare a prescindere la violenza ideologica». Di rimuovere la targa però, come ha chiesto Fabio Nobile, consigliere regionale del Lazio del PdCI-Fds, e il senatore dell’Idv Stefano Pedica, il sindaco ha preferito non parlare. Una brutta pagina in una giornata di ricordo cui si era unito anche il presidente della Provincia Nicola Zingaretti. «Roma deve rendere omaggio ai ragazzi assassinati ad Acca Larentia cosi come a tutte le altre vittime di destra e di sinistra stroncate da una idea esasperata del conflitto politico le sue parole Dobbiamo con forza e coraggio tenere viva la memoria perché quello che è accaduto non possa più succedere».
I CORI DEL PRESIDIO
Un invito alla concordia arrivato dopo giorni di tensione e polemiche, con un corteo organizzato da Forza Nuova e Casa Pound annunciato, contestato dall’Anpi e dalla sinistra, e infine annullato anche per il timore di incidenti. Anche perché nel frattempo, non lontano dalla sede di Acca Larentia, era stato organizzato un presidio antifascista che ieri si è tenuto regolarmente sotto il controllo delle forze dell’ordine. Duecento, non di più, le persone che hanno risposto alla convocazione riunendosi all’Alberone. Abbastanza, però, perché dal presidio si alzassero cori come «10, 100, 1000 Acca Larentia» e «fascista basco nero, il tuo posto è al cimitero». Parole che hanno permesso alla destra di gettarsi alle spalle gli imbarazzi causati dalla nuova lapide per tornare ad attaccare a testa bassa. «Questi slogan fanno rabbrividire e devono indurre tutti a riflettere, in particolare una sinistra strabica che vede solo i rischi dell’estremismo di destra ha commentato Alemanno Credo che in anniversari come quelli di Acca Larentia come in quelli che hanno visto ucciso dei giovani di sinistra, tutte le istituzioni e tutte le parti politiche responsabili dovrebbero tenere un tono molto basso e molto rispettoso del sangue versato». «Forse chi si lamentava del ricordo dei ragazzi di destra uccisi a via Acca Larentia voleva che ci fosse una manifestazione di sinistra che inneggiasse a quella strage si è accodato Maurizio Gasparri Ora che c’è stata saranno contenti? O si vergogneranno della loro intollerabile faziosità? Chi fa apologia di un martirio dovrebbe finire in galera. Spero che le forze dell’ordine identifichino i responsabili di questo scempio». Il tutto mentre davanti alla sede di via Acca Larentia decine di braccia tese nel saluto romano salutavano i nomi dei «camerati» morti. In mezzo alla folla anche il senatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico e l’ex presidente dell'Ama Marco Daniele Clarke.

Corriere della Sera 8.1.12
I cinesi preparano la fiaccolata «In diecimila da tutta Europa»
di Alessandro Capponi


ROMA — «Arriveranno da tutte le parti, dalla Francia, dalla Spagna, e soprattutto da molte zone d'Italia, da Milano e Prato come dal Sud. In otto-diecimila, almeno». Le novità non riguardano solo i numeri di questa manifestazione-fiaccolata, perché c'è quest'altra frase che Lucia King, incaricata dell'organizzazione, pronuncia subito dopo l'incontro all'ambasciata cinese, ieri sera: «I presidenti di tutte le associazioni presenti si sono impegnati a mantenere la calma. Ma è inutile nascondere che ci sentiamo tutti colpiti, sia da quello che è accaduto alla piccola Joy e a suo padre, sia da questi furti e rapine che subiamo di continuo, ormai da mesi». Da molti punti di vista martedì non si annuncia come una giornata semplice, per Roma.
Nella serata di ieri appare chiaro che la richiesta di autorizzazione precedente, quella per «cinque-seicento persone» presentata al commissariato di Tor Pignattara, si può anche strappare. La fiaccolata si farà, sì, ma non muoverà dal quartiere dell'agguato che ha ucciso la piccola Joy e suo padre: l'appuntamento, visti i numeri annunciati dei soli partecipanti di origine asiatica, è stato spostato in piazza Vittorio, nel multietnico e centrale rione Esquilino. Da lì, poi, intorno alle cinque del pomeriggio, il corteo vorrebbe spostarsi e raggiungere, a piedi, la via dell'agguato. Quasi quattro chilometri da percorrere, in un giorno feriale, a metà pomeriggio: il traffico, nel quadrante est della città e non solo, rischia di impazzire. «Adesso vedremo se sarà possibile — spiega il capogruppo pd del quartiere del duplice omicidio, Gianluca Santilli — ma noi di certo contribuiremo alla riuscita della manifestazione con almeno cento persone per il servizio d'ordine. Almeno, perché i numeri potrebbero essere imponenti: oltre ai cinesi saranno presenti i moltissimi romani indignati per quanto accaduto mercoledì sera. Noi comunque faremo di tutto per evitare che tra i partecipanti qualcuno possa reagire al dolore in modo sconsiderato». I parenti della piccola Joy sono arrivati ieri dalla Cina: hanno visto la piccola nella bara bianca, all'obitorio, accanto a quella del padre, e, all'esterno, si sono sentite urla disperate.
Nel corteo non ci saranno bandiere di partito: «Ma di fronte a una ferocia mai vista in città, questa fiaccolata sarà la risposta più importante». La comunità cinese lo sa: «Noi manifesteremo per esprimere vicinanza alle vittime di quella violenza inaudita, ma anche per chiedere la protezione che spetta alle nostre vite e ai nostri beni». Subito dopo, Lucia King aggiunge un'unica frase: «Sarà pacifica». La ripete tre volte, come se qualcuno non le credesse.

Il Fatto 8.1.12
Scuole per pochi con i soldi di tutti
di Marina Boscaino


Mi chiedo se le parole di Maria Grazia Colombo, presidente dell’Associazione genitori scuole cattoliche (Agesc), intervistata da La Stampa, siano più ridicole o più irresponsabili. In ogni caso non mi sembrano coerenti con l’orientamento religioso e morale della signora. Colombo afferma: “Proprio in questo momento di crisi economica, il sistema paritario costituisce un elemento di novità. Nonostante ciò, veniamo penalizzati”. Che il sistema paritario sia una novità è relativamente vero: facciamo i conti con questa realtà – che coinvolge soprattutto scuole cattoliche – dal 2000, quando con la L. 62 le scuole private hanno potuto chiedere la parità con quelle statali. Quanti di voi, avendo deciso di non usare i trasporti pubblici, pretenderebbero il rimborso della benzina consumata per raggiungere il posto di lavoro? È ciò che le scuole paritarie hanno ottenuto e continuano a esigere, con lo Stato che – persino in un momento grave come quello che stiamo attraversando – concede loro finanziamenti, pur sottraendoli alla scuola pubblica, che esiste e offre un servizio per tutti.
Colombo scocca tutte le frecce che crede di avere al proprio arco per sostenere la sua singolare tesi: “Le differenze, tra spesa per alunno che frequenta la scuola statale e alunno della paritaria, generanoperloStatounrisparmiosulla spesa complessiva destinata alla scuola di 6.245 milioni di euro all’anno”. La presidente dell’Agesc continua: “È evidente che il mantenimento e lo sviluppo del sistema paritario risulta una voce a favore dello Stato, in quanto attua un vero e proprio sistema sussidiario all’incontrario”. Ringraziando la pia Colombo per la provvidenziale indicazione di come risolvere la crisi e cercando di non annoiare con la disamina di quanto lo Stato spende per ciascun alunno di scuola statale e paritaria (oggettivamente di più nella prima), vorrei osservare che non è questo il punto. I dati vanno letti correttamente: l’Agesc si riferisce al bilancio (parziale) dello Stato e non a quello (complessivo, non formalizzato, ma reale) della Nazione, intesa come insieme di cittadini e di famiglie. Se tutti ci pagassimo sanità e scuola privata, lo Stato avrebbe un enorme avanzo di bilancio. Chi manda i figli alle paritarie, se non le evade, paga sia le tasse – che finanziano anche la scuola pubblica – sia la retta. Lo studente paritario costa meno allo Stato perché costa di più alle famiglie. Meglio: a quelle che se lo possono permettere. Il problema è dunque decidere se istruzione e sanità siano diritti costituzionali per tutti, principi fondanti la nostra società e se lo Stato consideri imprescindibile perseguirli e sostenerli; o se invece siano uno spreco. Colombo suggerisce la seconda interpretazione. Se abolissimo istruzione, sanità, difesa, giustizia, assistenza agli anziani e continuassimo a far pagare le tasse, lo Stato andrebbe subito in attivo. Colombo sarebbe soddisfatta? Mi auguro di no, considerata la sua fede. Non bisogna poi dimenticare che in molti casi questo tipo di ragionamento suggerisce in modo implicito che mandare i figli alla paritaria dovrebbe implicare l’esenzione dalle tasse per la pubblica: meno tasse, chi può si paga la scuola di serie A, e chi non può va in quella di serie B. La formula proposta da Colombo – oltre che di facile impatto immediato, ma profondamente scorretta – porta a una società disomogenea, che determina diritti e doveri dei cittadini in base a censo e a potere d’acquisto di chi li esercita. Che fine ha fatto la morale cattolica? Inviterei Colombo, anziché a strumentalizzare le esigenze di bilancio per portare acqua al mulino della scuola paritaria confessionale, a riflettere sulla necessità di contrastare la lotta all’evasione che – ne sono certa – si annida anche tra coloro che mandano i figli alla paritaria cattolica. E a pensare un po’ di più alle esigenze di equità, di giustizia e – persino! – di carità cristiana.

Corriere della Sera 8.1.12
Il capitale umano che manca all'Italia
Siamo tra gli ultimi per diplomati e laureati. Peggio di Estonia e Polonia
di Paolo Conti


«Il 54% della popolazione ha un titolo di diploma nel nostro Paese, contro una media Ocse del 73%. È troppo poco. Dobbiamo studiare di più. Se l'Italia cresce meno di altri Paesi europei dobbiamo migliorare il nostro capitale umano». Parole di Mario Monti a Reggio Emilia, durante la festa del Tricolore. Le cifre dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, sono chiarissime. Solo il 54% degli italiani tra i 25 e i 64 anni ha ottenuto un diploma di scuola media secondaria. La media Ocse è del 73%: ma siamo lontanissimi non solo dall'85% della Germania, dall'88% del Canada, dall'89% degli Stati Uniti ma anche dal 91% della Repubblica Ceca, dall'89% dell'Estonia, dall'88% della Polonia. Nelle nuove generazioni, fascia 25-34, noi italiani siamo ancorati a un non esaltante 70%.
Commenta il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo: «Scontiamo un pregresso di bassa scolarità nella fascia alta della popolazione. Tra i 19-25 approdiamo finalmente all'81% di diplomati. Un primo intervento deve riguardare l'orientamento, per cercare di limitare al massimo la dispersione scolastica. Bisogna fornire nuove modalità per orientare le scelte, optando per percorsi coerenti con le aspettative ma anche con le caratteristiche personali. E sarà necessario informare i giovani sulle ricadute occupazionali delle loro scelte». Poi Profumo pensa a «un tutoraggio nelle fasi transitorie dei cambiamenti di livello di istruzione, medie-superiori e superiori-università. Questi passaggi avvengono nell'età critica dell'adolescenza, quando i percorsi personali sono meno chiari. Quindi un tutoraggio attento, rivolto non solo ai contenuti della didattica ma soprattutto alla necessità di insegnare ai giovani metodi, organizzazione del lavoro di studio e, insieme, un ascolto delle problematiche legate alla loro crescita».
Profumo progetta «un intervento deciso nelle aree di difficoltà che non si trovano soltanto al Sud, ma anche nelle grandi aree urbane». Il ministro sottolinea che «qui si concentra maggiormente l'abbandono scolastico che si sovrappone maggiormente proprio con le aree di maggiore povertà. Sarà necessaria una maggiore integrazione tra scuola dell'obbligo e superiore che potrebbe essere in molti casi di tipo professionale, verticalizzando in un solo plesso più gradi di istruzione (per dare riferimenti certi e continuità a ragazzi che non li hanno in casa e nella società) e fornendo agli studenti delle professionalità specifiche. Così si potrà dare continuità formativa e un mestiere (il cuoco, l'idraulico, il falegname, l'elettricista, l'elettrauto)».
Scuola e formazione. Un binomio che Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, studia da anni: «La carenza di capitale umano di cui giustamente parla il presidente Monti ha motivazioni storiche. Per questo non basta dire che ci sono pochi diplomati. Bisogna parlare anche di "quali" diplomati. Nel 1993 l'industria italiana, ogni 100 assunzioni, richiedeva solo 11 tecnici, in Germania erano 17. Oggi ne chiede ben 22. Eppure vent'anni fa su 100 ragazzi solo 20 sceglievano un liceo e 45 un'istruzione tecnica, oggi siamo con 42 al liceo e solo 33 a un istituto tecnico. E così ci ritroviamo con una gran mole di disoccupati in un'area di "genericismo indeciso" dell'istruzione e con industrie che non trovano tecnici. Urge un migliore orientamento migliorando ovviamente la qualità dell'istruzione anche tecnica».
Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe-per una società dell'apprendimento continuo (che da anni si occupa di miglioramento della qualità dell'education) invita a osservare il problema da un'altra prospettiva: «Le cifre sulle nuove generazioni dovrebbero spingerci a un moderato ottimismo. Ma sarebbe un errore. Lo scarto con gli altri Paesi in termini di capitale umano misurato con i titoli di studio diventa più spaventoso se calcoliamo che il 20-25% dei ragazzi esce dalla scuola senza alcun titolo di studio mentre la media europea è del 10-15% con l'obiettivo di ridurlo all'11% secondo la strategia di Lisbona. Una catastrofe. Si prova sgomento pensando che nel 2020, secondo le proiezioni del Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale, in Italia il 37% delle forze di lavoro avrà un basso livello di qualificazione, contro il 20% dell'Europa. Avrà livelli alti di qualificazione solo il 18% della forza di lavoro italiana, contro il 32% dell'Europa».
Un'Italia condannata a diventare un fanalino di coda? Oliva vorrebbe cavarsela con una battuta: «Difficile rimanere troppo a lungo ricchi e ignoranti... Ricordo che nell'era laburista in Gran Bretagna si diceva: the more you learn, the more you earn, più sai e più guadagni». Proposte per una soluzione? «I ragazzi e le famiglie dovrebbero responsabilizzarsi, analizzare le prospettive e comportarsi di conseguenza. In quanto ai governanti, dirò questo. Abbiamo una scuola antichissima che ha strutture, programmi e metodi identici ai tempi in cui l'istruzione riguardava il 20% della popolazione. Per esempio l'uso del computer e l'approccio verso le nuove tecnologie è ridottissimo. E i dipendenti di quel settore, più di un milione, sono governati senza alcuna tecnica del personale ma in modo egualitario e burocratico senza selezione, formazione, prospettiva di carriera, incentivi. Di conseguenza la qualità dell'insegnamento è troppo modesta, ed eccone i risultati».
Dice Tullio De Mauro, linguista, ex ministro dell'Istruzione: «Sono lietamente sorpreso che un capo del governo italiano analizzi questo aspetto del nostro sviluppo. Come uscire dalla crisi? Investendo nella qualità degli insegnanti e nella stessa edilizia scolastica. Ma vorrei aggiungere un dato che proprio l'Ocse ci contesta da anni: la completa mancanza di educazione per gli adulti. Quando si esce dalla scuola fatalmente si regredisce. Il risultato è che il 71% degli italiani adulti non è in grado di leggere correntemente un documento, un giornale, meno che mai un libro. Monti, che conosce l'Europa dove certe cose funzionano, lo sa. Basterebbe un piccolo investimento per tenere aperte le scuole nel pomeriggio e organizzare corsi di varie discipline per "rieducare" quegli adulti ancora attivi ma condannati a una progressiva, inesorabile marginalità culturale e sociale».
Parla anche Andrea Caradini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, da sempre fautore della meritocrazia e animatore sul Corriere della Sera di polemiche sul basso livello dell'istruzione in Italia: «Monti ha tutte le ragioni e finalmente questo governo apre un capitolo nuovo che da tempo andava affrontato. L'Italia non ha mai avuto un vero progetto culturale. Quindi: qual è il ruolo della conoscenza nel nostro futuro sviluppo economico? E quale contributo può dare la produzione culturale alla crescita del Paese?»

La Stampa 8.1.12
Israele - Palestina
I pericoli di uno stato binazionale
di Abraham Yehoshua


In un articolo pubblicato il 23 dicembre scorso sul quotidiano Haaretz Abraham Burg formula una nuova ipotesi secondo la quale è giunto il momento di prendere in considerazione la possibilità che Israele proceda ciecamente e inesorabilmente verso la creazione di uno Stato unico, o binazionale.
A eccezione dei sostenitori dello schieramento religioso (per via della struttura stessa dell’identità religiosa), di quelli della destra radicale laica (per via delle loro fantasie di violenza), e di quelli della sinistra post-sionista (per via dei loro ideali umanisticosmopoliti), tutte le altre fazioni politiche e ideologiche di Israele capiscono e dichiarano che uno Stato israeliano binazionale sarebbe un’eventualità pessima e pericolosa, sia a breve che, ovviamente, a lungo termine. Ciò nonostante procediamo ineluttabilmente verso la realizzazione di tale possibilità che, in determinati periodi della storia sionista, è stata considerata ragionevole e accettabile da certi ambienti.
Anche se molti di noi credono che si possa evitare la creazione di uno Stato binazionale grazie a un'incisiva azione politica, abbiamo tuttavia il dovere di prepararci, ideologicamente ed emotivamente, a una tale eventualità (così come ci si prepara ad altre potenziali emergenze) affinché essa non sconvolga la struttura democratica di Israele e non distrugga completamente l'identità israeliana-ebraica consolidatasi negli ultimi decenni.
Va compreso che uno Stato binazionale potrebbe sorgere non solo in seguito all'operato di Israele ma anche a una cooperazione segreta fra le diverse fazioni palestinesi, sia all'interno del territorio israeliano sia in Giudea e in Samaria. Persino gli esponenti più pragmatici di Hamas vorrebbero trascinare Israele in una prima fase di tale processo. Non solo per via del discutibile presupposto che ciò che è male per gli ebrei è certamente bene per i palestinesi ma perché per i palestinesi uno Stato binazionale nella terra di Israele sarebbe, a lungo termine, una possibilità più allettante del controllo sul territorio spezzettato e smembrato che potrebbero, con grande sforzo e probabile spargimento di sangue, estrarre dalle fauci di Israele.
Uno Stato binazionale, anche solo in parte democratico, potrebbe garantire ai palestinesi, grazie alla solida economia israeliana e ai suoi legami forti e profondi con l'Occidente, una vita migliore e più sicura, ma soprattutto un territorio più ampio che, entro qualche decina di anni, potrebbe diventare Palestina in toto.
Ovunque sentiamo parlare del sogno palestinese di uno Stato binazionale. E questo può forse spiegare l'insistenza dell'Olp a Camp David nel 2000, dell'Autorità palestinese durante i colloqui con il governo Olmert e anche nel corso dei recenti approcci dell'attuale governo israeliano, a non addentrarsi in negoziati seri con l'intenzione di arrivare a una vera conclusione. Questo sogno spiega anche l'incomprensibile paralisi dei palestinesi nell'organizzare una protesta civile e non violenta contro gli insediamenti, e forse pure il loro profondo sopore notturno quando dei vandali bruciavano le loro moschee. A differenza dei loro fratelli in Siria o in altri Paesi arabi che affrontano a torso nudo i proiettili dell'esercito i palestinesi osservano passivamente l'accelerato ampliamento degli insediamenti trascinandoci, con pazienza, verso uno Stato binazionale. Al tempo stesso gli ebrei, forti di una «competenza» millenaria, tornano a insediarsi e a intrecciarsi nella trama dell'identità di un popolo straniero parte dell'enorme nazione araba come hanno fatto per secoli in Ucraina, in Polonia, nello Yemen, in Iraq o in Germania, lasciandosi trascinare con timore, o forse con entusiasmo, in una situazione che ha causato loro grandi catastrofi ma che soprattutto potrebbe distruggere definitivamente la possibilità di normalizzazione della sovranità israeliana.
Alla gran maggioranza dei religiosi estremisti, o anche parzialmente moderati, l'ideale di uno Stato binazionale non appare tanto minaccioso. Chi ha saputo mantenere la propria identità per secoli in ogni parte del mondo per mezzo di testi scritti e di una vita comunitaria ristretta riuscirebbe di certo a serbarla anche in un singolo avamposto circondato da villaggi arabi con una compagine militare a garantirne la sicurezza. Gli estremisti di destra, dal canto loro, che considerano Israele una gigantesca portaerei statunitense (secondo le parole del ministro Uzi Landau), credono che quella confusa potenza concederà loro di risolvere il problema demografico al momento opportuno con una serie di silenziosi trasferimenti di popolazione. E nemmeno gli umanisti cresciuti nell'ideale di fratellanza fra i popoli secondo gli insegnamenti dei movimenti politici Hashomer Hatzair e Brith Shalom non vedrebbero nulla di male nella futura presenza di uffici di Hamas nelle torri Azrieli di Tel Aviv, fintanto che questi non intralcino il loro approccio umanistico.
Ma per chi ha creduto e sognato un'identità ebraica indipendente che metta alla prova, nel bene e nel male, i propri valori in una realtà territoriale nazionale, uno Stato binazionale spezzerebbe dolorosamente questo sogno e sarebbe fonte di duri conflitti, come dimostra il fallimento di altri Stati binazionali costituiti da popoli molto più vicini sotto un profilo religioso, economico, storico e di valori comuni di quanto lo siano ebrei e palestinesi.
È ancora possibile evitare il male che ci aspetta? Riusciremo a convincere i palestinesi a realizzare l'ideale di due Stati per due popoli (anche nel quadro di una federazione)? È ancora possibile convincere i sostenitori di Israele negli Stati Uniti e in Europa a mostrare risolutezza morale e a impedire a Israele di seguire l'ambigua via che ha intrapreso? E nel caso in cui il binazionalismo dovesse diventare realtà, come potremmo limitarne i danni? Come potremmo prepararci senza che esso distrugga l'indipendenza laica israeliana e non ci schiacci fra la discriminazione femminile di stampo ebraico e quella di stampo musulmano? Queste sono domande serie e nuove alle quali anche i sostenitori della pace devono trovare una risposta.

il Riformista 8.1.12
Tra passato e futuro
I sentieri lunghi della primavera araba
Tunisia Egitto Siria
Spread in Piazza Affari, sangue a piazza Tahrir, il libro di Francesca Corrao, il vecchio imprenditore mazziniano di Tunisi: «Qui era una pentola a pressione».
di Giuseppe Provenzano


Il ‘68 non fu solo il Sessantotto, si sa, ma già un po’ il ’67 e il ’69 soprattutto. E se il ’48 fu proprio un Quarantotto, il ’49 non sarebbe stato meno. E come poteva allora il 2011 arabo compiersi nell’anno appena scorso? L’esercito siriano spara ancora sulla folla e continuano le violenze nello Yemen, le milizie gheddafiste resistono al governo transitorio della Libia e in Egitto il travagliato processo democratico dei militari, pure in questo tempo di elezioni, si macchia nelle galere o nelle piazze del sangue del popolo, delle donne, specialmente.
Persino in Tunisia, dove tutto cominciò col rogo umano a Sidi Bouzid in quello scampolo finale del 2010, protagonisti e studiosi meno improvvisati avvertono che se date e anniversari sono simboli importanti e necessari il 14 gennaio della cacciata del dittatore, a cui già intitolano piazze e che ci s’appresta a celebrare – la Primavera non può durare un solo anno, non dura tutto l’anno, in altre stagioni bisogna attendere i frutti, molte volte ancora sarà sfiorito e rifiorito il gelsomino. Sorprendente, l’anno vecchio. Prepotente, la voglia di giustizia e libertà sulla sponda Sud del mare nostro, ci colse di sorpresa. Ci mancavano gli “antefatti”, quelli che Francesca M. Corrao – nel lungo captolo che apre il recente volume da lei curato, Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea, Mondadori Università – ricostruisce in due secoli di storia politica e processi culturali e sociali. Eminente arabista, andata e venuta dal Nord Africa e dal Medio Oriente, e specialmente dall’Egitto (che molto ritorna nelle pagine del libro), in decenni di studio e passione, offre uno sguardo sui rivolgimenti politici, i mutamenti nelle strutture sociali, i processi (talvolta effimeri) di modernizzazione, oltre il velo di un orientalismo mitico troppo usato o la coltre fumosa con cui recentemente abbiamo avvolto un mondo vario nell’immaginario “popolo islamico”, «dai contorni poco definiti, ma vagamente tendenti al fanatismo».
Fa saltare molti meccanismi di «invenzione dell’altro»: quelli perfezionati nel chiacchiericcio occidentale sulla donna araba, a cui è dedicato un capitolo decisivo, che arriva al ruolo delle donne «con o senza velo» negli eventi rivoluzionari svolgendo il filo di una riflessione complessa sulla condizione femminile; o quelli ridotti alla logica più spietata e disumana che l’Europa per nostra mano ha messo in campo a Lampedusa, tutta un’estate in cui abbiamo volto in inferno la loro primavera.
Al di là del crimine, qui peserà l’errore politico d’aver lacerato le «trame mediterranee», una storia lunga di scontro e incontro con «l’altro»: quelle percorse nel libro, quelle che hanno ammantato il “Sogno mediterraneo”, la curiosa intraprendenza e l’intelligente lungimiranza di Ludovico Corrao, tragicamente scomparso nell’agosto siciliano di questo terribile anno vecchio – a cui il libro della figlia è inevitabilmente dedicato.
Il pregio migliore dei saggi raccolti – oltre al valore squisitamente “didattico” dell’insieme (utile la lunga cronologia finale che risale al Settecento e ricchi i riferimenti bibliografici) – è di aver mantenuto la promessa introduttiva di sfatare i troppi luoghi comuni. L’approfondimento politico sui tre paesi – Tunisia, Egitto e Siria – che per diverse ragioni svolgono un ruolo cruciale ed egemone nell’area, è preceduto da una messa a fuoco degli elementi «che hanno svolto un ruolo cruciale prima e durante le rivoluzioni»: il processo di emancipazione femminile, la democratizzazione della società civile, i media arabi e i new media. Nella «crescita culturale, tecnologica e demografica» vanno dunque ricercati i fili conduttori alla crescita economica e alla consapevolezza delle disuguaglianze, e finalmente al rivolgimento politico.
Il carattere generazionale che ha guidato i movimenti di protesta in tutta l’area, benché non si presti a eccessive semplificazioni, ci dice «cosa si muove in queste società in rapida crescita che, pur sviluppandosi autonomamente, interagiscono con noi»: la «forza demografica che manca alla sponda Nord» e che «contribuirà in modo decisivo a delineare il futuro del Mediterraneo».
Le parole dei poeti (e letterati, artisti, registi, filosofi, intellettuali), spesso tradotti e frequentati dalla Corrao, impreziosiscono un volume che suggerisce «sentieri nuovi» alla riflessione: il racconto e l’analisi geopolitica, socio-economica e strategica, talvolta rischia di perdere di vista «l’humanitas e le ragioni profonde» che possono dar conto della «valanga di collera crescente» e «voce ai protagonisti che dietro le quinte hanno promosso il progresso di questi paesi e infine hanno dato anima e corpo alle rivoluzioni».
La suggestione di questi due secoli di storia, aneliti di libertà e repressioni politiche o religiose, si faceva immagine per le strade di Tunisi. Un gioco a nascondersi e a specchiarsi con «l’altro», un groviglio di rimandi e coincidenze – le più banali e inquietanti: Primavera araba e crisi dell’Europa, spread in Piazza Affari e sangue a Piazza Tahrir – mi ha condotto per rue de Russie, oltre le balle di filo spinato che circondano l’ambasciata d’Italia, alle porte aperte del palazzo di fronte, sotto l’insegna “Imprimerie Finzi”.
«All’inizio del Novecento qui era una palude, mio nonno ci veniva a caccia». Non dice, Elia Finzi, il vecchio patriarca della comunità degli italiani in Tunisia, stampatore da cinque generazioni ed editore (la cui attività ora è proseguita, più industrialmente, dal figlio Claudio), quanto dev’essere costato al nonno Vittorio e al padre Giuseppe, lasciare la prima sede della stamperia del 1829, il palazzo Gnecco nel cuore della Medina, per «la città nuova, che gli italiani contribuirono a costruire», per questo edificio che vide la prima linotype del Maghreb e che ora è la sede del Corriere di Tunisi.
Il vecchio Elia, ottantasette anni, lo dirige con tenacia e ci accoglie nel suo studio rialzato. «Quel palazzo nella Medina era luogo di esuli politici, mazziniani e liberali, fuggiti dall’Italia prima del 1848». Giulio Finzi fu uno dei primi ad arrivare, carbonaro livornese scappato ai fallimenti dei moti del ‘20 e ‘21. «Vi si costituì la Giovane Italia e ci passò anche Garibaldi, costretto poi a fuggire per aver insidiato tutte le belle signore dell’alta borghesia tunisina».
Elia parla con voce roca, fioca, in un bellissimo italiano depurato da ogni inflessione che lo rende un po’ straniero. «La storia della mia famiglia la trova sui libri», taglia corto. Grandi idealisti, laici e democratici, «veri eredi della Rivoluzione francese», animatori della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, «cittadini del mondo» che hanno attraversato tutte le vicende politiche italiane e tunisine degli ultimi due secoli: il Risorgimento e il regime beylicale, il Fascismo e il protettorato francese, la Repubblica e l’indipendenza tunisina, Bourghiba e Ben Alì, Craxi e Berlusconi. «Non è stato certo facile. Durante la guerra, noi eravamo nemici di tutti». Sulla storia che ripercorriamo, avverte l’uomo cresciuto a pane e tolleranza, non ha giudizi da esprimere, «solo opinioni».
Così sulla Primavera, sui Gelsomini: «Esattamente un anno fa, in quei giorni, mi trovavo tra la vita e la morte, in un letto d’ospedale». Da lì, dettava editoriali incoraggianti alla Rivoluzione per il suo giornale e diceva al figlio, pur nell’incertezza e crisi di liquidità, di trovare il modo di «continuare a pagare gli operai», gli oltre cento tunisini che lavorano nella loro impresa. «Certo che si può essere imprenditori di sinistra», sorride. Parla di pane e lavoro, pance troppo piene e pance vuote: «Non è solo la libertà, è anche la giustizia sociale. Qui era una pentola a pressione. Era evidente che sarebbe esplosa. L’Europa era distratta».
È più di un’ora che siamo nella stanza. Alle pareti le sue foto con Pertini e con Napolitano. «E quindi se n’è andato davvero, quello là?», e quasi non ci crede. «Come finirà qui, chi po’ saperlo? Chi poteva immaginare che dopo il 1789 sarebbe arrivato il terrore...». Non gli manca certo l’entusiasmo, eppure frena i nostri, per prudenza. Sale lenta per le scale, con sobria eleganza d’abito e d’occhiali scuri, la signora Lea. Interviene decisa nella discussione, e ci invita risoluta a non fare troppe domande: «Basta andare davanti a una qualsiasi Moschea». È francese, la signora Finzi, e si capisce. Ha origini genovesi, «e chi non ha origini italiane»? Torniamo a parlare d’emigrazione. Allora riprendo le suggestioni, azzardo il parallelismo – quasi personale, stavolta – tra quel suo avo e i compatrioti fuggiti per la lotta nel Risorgimento italiano ed europeo, Primavera dei popoli, accolti in Tunisia dove hanno prosperato, e quei ragazzi tunisini e arabi che, nei giorni della loro Primavera, rinchiudevamo a Lampedusa o a Manduria. «Loro ci hanno aperto le porte. Noi invece le sbarriamo». E com’è che in Tunisia non se ne parla? «Tra la gente del popolo, la tragedia si sente». Mi invita a sporgermi dalla finestra. Di fronte, è l’ambasciata. «Lo vedi il filo spinato? Tutti i giorni venivano le madri a gridare, a chiedere dei loro figli».
S’è fatto tardi, ora. Elia forse s’è stancato. «Spiace, alla mia età, non poter seguire la situazione a lungo, in pieno». Nella stanza, è il piccolo Claudio, figlio di Emanuela e di Michele, osservatore internazionale per il processo costituente. Il suo primo anno, appena compiuto, lo ha trascorso in Tunisia. Piange forte e si dimena, non sente ragioni. S’è stancato pure lui. Elia lo guarda, azzurro negli occhi. «Hai ragione tu».

il Fatto 8.1.12
Quei cinque corpi appese, incubo di Varsavia
Ritrovate in un cassetto alcune foto perfetto esempio della banalità del male
di Robert Fisk


Clive Burrage mi ha scritto parlandomi di suo cognato, Harry Leekes, pilota di un bombardiere della Raf negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale e poi di stanza a Colonia nei primi mesi dell’occupazione della Germania a opera delle forze alleate. “Mentre cercava dei mobili, per caso ha trovato queste foto in un cassetto”, mi ha detto Clive quando gli ho telefonato. In una foto si vede Hitler che cammina nella strada di una città che sembra Varsavia, probabilmente nel 1939. In un’altra si vedono Hitler e Goering che giungono in una base aerea. La terza foto è agghiacciante: in una strada buia e fredda – soldati e civili indossano pesanti cappotti – si intravede l’insegna di un negozio verosimilmente in polacco mentre dal balcone del primo piano penzolano i cadaveri di cinque uomini impiccati.
LE MANI sono legate dietro la schiena. Sulla sinistra dell’immagine si scorge un soldato tedesco che scatta una foto dei cadaveri. Non avevo mai visto questa foto. Sembra il souvenir di un militare tedesco che probabilmente spedì la fotografia alla sua famiglia, cui apparteneva la credenza nel cui cassetto Harry Leeks la trovò quattro o cinque anni dopo. Questa foto racconta una storia, mi ha scritto Clive Burrage, quella dell’homo homini lupus (l’uomo è un lupo nei confronti dei suoi simili). La lettera di Clive è arrivata insieme alla lettera di un lettore, T.J. Forshaw, che – come Clive – è rimasto colpito dalla fotografia che abbiamo pubblicato poco tempo fa sull’Independent: ritraeva un ufficiale dell’Einsatzgruppen nazista mentre, nel 1942, sparava ad alcuni ebrei a Ivangorod, in Ucraina.
“È possibile che in alcune circostanze quasi chiunque – compreso chi le scrive – possa diventare un feroce assassino? ”, mi ha chiesto il lettore. “E se la risposta è affermativa, queste belve come possono dormire sonni tranquilli nei loro comodi letti senza sognare di suicidarsi? ”. Nemmeno a farlo apposta sempre lo stesso giorno mi è arrivato un biglietto di Wies de Graeve dell’Istituto Fiammingo per la Pace, che tre anni fa mi aveva invitato a tenere a Ypres una conferenza in occasione delle celebrazioni per l’armistizio.
Quest’anno il discorso a Ypres lo ha fatto Lakhdar Brahimi, lo statista algerino cui si deve il cessate il fuoco in Libano dopo 15 anni di sanguinosa guerra civile. Brahimi, che è una mia vecchia conoscenza ed è inoltre una persona molto per bene, parlando a Ypres ha sollevato lo stesso identico interrogativo che Clive e Forshaw sollevano nelle loro lettere: “I libanesi sono considerati da tutti – e si considerano – persone sofisticate, raffinate, dotate di una gran senso degli affari, amanti dell’arte, pacifiche e inclini a godersi la vita. Tuttavia a partire dai primi anni ’70 sorpresero il mondo, e se stessi per primi, combattendo con inaudita violenza e ferocia tra loro e contro l’invasore israeliano”. Naturalmente una cosa è combattere contro un invasore straniero, altra cosa è combattere contro i propri fratelli in una guerra civile. “A questa come a molte altre domande non sono riuscito a trovare risposte adeguate e pienamente soddisfacenti”, ha detto Brahimi. “Non ho trovato risposte né nei libri degli studiosi né nell’esperienza di vita. Forse la verità è più semplice di quanto siamo indotti a pensare: probabilmente noi esseri umani non siamo poi così diversi gli uni dagli altri sia individualmente che collettivamente nel senso che, a seconda dei casi, siamo capaci del meglio come del peggio. Sono le circostanze a renderci in un modo un certo giorno e nel modo opposto un altro giorno”.
È UNA spiegazione che non mi soddisfa. I soldati britannici, i soldati americani, i soldati “alleati” hanno fatto cose tremende, terribili, durante la seconda guerra mondiale, in Corea, in Malesia, in Indonesia durante la dominazione olandese, in Algeria e – sì! – in Afghanistan e in Iraq. La crudeltà di questi soldati era il prodotto della cultura dell’impunità, del colonialismo e del razzismo ispirato dai vari governi. La storiella ridicola e ingannevole delle “poche mele marce” ripetuta pappagallescamente da George W. Bush e da Tony Blair è una colossale sciocchezza. Ma i nazisti avevano qualcosa di intrinsecamente terribile: appartenevano a un regime irrecuperabilmente malvagio, a una società nella quale ogni singolo individuo poteva essere giudicato cattivo. Avner Less, consulente della pubblica accusa nel processo contro Adolf Eichmann celebrato in Israele, era convinto che Eichmann potesse essere prodotto solo da una dittatura, mai da uno Stato democratico. Ma nemmeno questa spiegazione mi convince del tutto. Stando alle esperienze degli ultimi decenni possiamo tranquillamente giungere alla conclusione che noi occidentali incoraggiamo, spingiamo e induciamo altri a commettere atti orribili senza assumercene alcuna responsabilità morale.
CERTO non si tratta di atti e comportamenti paragonabili a quelli di cui si macchiarono i nazisti. Ma il trasferimento di prigionieri verso Paesi totalitari nei quali dovevano essere torturati, le prigioni segrete, la tortura sistematica e di massa, le esecuzioni per mano dei nostri alleati (in Afghanistan, in Marocco, a Damasco su mandato della Cia e in Libia con la complicità britannica) sono vergognose manifestazioni di una inclinazione alla ferocia che appartiene a noi tutti. Forse non siamo più capaci di sporcarci le mani da soli. Il diritto internazionale – per lo meno ciò che ne è rimasto dopo i comportamenti criminali di George Bush e Tony Blair – continua a impedirci di trasformarci in nazisti. E temo proprio che tutti – nessuno escluso – dormiamo sonni profondi e senza incubi.
Una cosa è tendere una mano amichevole ai musulmani – come ha fatto Barack Obama al Cairo due anni fa – e a quanti si battono contro le dittature, altra cosa è fornire armi ai tiranni. Al Cairo ho avuto modo di vedere alcune cassette di granate sparate dalla polizia di Mubarak contro i dimostranti di piazza Tahrir. Sapete dove sono state fabbricate? A Jamestown, in Pennsylvania.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 8.1.12
Giovanna d’Arco & C. la politica arruola i fantasmi
Sarkozy strappa la Pulzella a Le Pen e divide la Francia Ma il Medioevo “addomesticato” dilaga in molti Paesi
In Italia i leghisti si sono appropriati di Alberto da Giussano sulla cui epopea non mancano i dubbi
di Massimiliano Panarari


Non c'è mai pace per la povera Giovanna d’Arco. In questi giorni la Francia sta celebrando il sesto centenario della nascita della patrona nazionale (avvenuta il 6 gennaio del 1412), e le polemiche esplodono con una durezza che non si ricordava da tempo. La ragione, naturalmente, risiede nel clima elettorale fattosi ormai incandescente e in un Nicolas Sarkozy che, divenuto timoroso riguardo le proprie chances di rielezione, non si fa scappare nessuna occasione promozionale. A tre mesi e mezzo dal voto, la visita di Sarkò alla casa natale di Giovanna a Donrémy, nei Vosgi, ha così dato fuoco alle polveri, con la sinistra che, sentendo stavolta il vento in poppa, non ci sta a farla trasformare in un santino elettorale a uso e consumo dell’Ump. E anche questo è un fatto nuovo, perché, da sempre, la Pulzella d’Orléans rappresenta innanzitutto un’icona della destra dura e pura, la quale riserverebbe (metaforicamente) al Presidente in carica una fine simile a quella che gli inglesi inflissero alla santa combattente, bruciata sul rogo come eretica (un’«imputazione» che la Chiesa cattolica cancellerà prontamente).
Ecco, allora, che dal Partito socialista, da sempre assai tiepido nei confronti della mistica condottiera (con l’eccezione di Ségolène Royal), si è levata più di una voce per ricordarne la valenza di simbolo di unità e concordia, da non strumentalizzare per la battaglia elettorale. E, dunque, Sarkò giù le mani da Giovanna d'Arco: parola di Harlem Désir (il vecchio leader di Sos Racisme, oggi numero 2 del Ps di Martine Aubry) e di Vincent Peillon (l’eurodeputato attualmente uomo chiave della campagna di François Hollande). Mentre, da altri lidi della variegata sinistra transalpina, Eva Joly (l’ex magistrato candidata dello schieramento ecologista) rimprovera al capo dello Stato di inseguire l’estremismo di destra esaltando un «simbolo ultranazionalista», quando il problema vero consisterebbe, invece, nel rilanciare la solidarietà tra europei di fronte alla crisi drammatica che stiamo vivendo. E, naturalmente, fuoco e fiamme contro Sarkozy vengono da Marine Le Pen (anch’essa temutissima candidata alle presidenziali), che lo accusa di scippo, rivendicando la maternità della memoria dell’eroina che «ha buttato gli inglesi fuori dalla Francia», recuperata a metà degli anni Ottanta dal Front national di suo papà per venire riconvertita nella testimonial di una serie di dure campagne anti-immigrati e a difesa della «purezza della stirpe» francese. Peraltro con le sue innegabili (ancorché discutibili) buone ragioni, perché se la Pulzella è stata spesso invocata anche dai laici governanti della Terza Repubblica, il top della popolarità l’ha sempre raggiunto in seno all’arcipelago della destra estrema, dall'Action française protagonista, a inizio secolo scorso, di una violenta diatriba con un famoso professore di liceo, Amédée Thalamas, «reo» di avere sollevato alcuni dubbi storiografici sulla vulgata che circondava l'eroina al regime collaborazionista di Vichy, dai monarchici ai cattolici tradizionalisti.
La storia, si sa, è terreno di scontro ideologico da sempre, ma l'«affaire Giovanna d'Arco» di questi giorni sembra confermare una tendenza peculiare di questa nostra temperie postmoderna, ovvero la predilezione della politica a dividersi su personaggi ed eventi del Medioevo. In diversi (da ultimo il bel libro di Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante, edito da Einaudi) ci hanno spiegato come l'Evo di mezzo sia massicciamente entrato nell’immaginario collettivo degli ultimi decenni, senza risparmiare quella dimensione dell’identità che una parte della politica, vedova (consolabilissima) di sistemi di pensiero e idee forti, ha pensato bene di proiettare su una galleria di figure eroiche collocate in epoche assai lontane e con il vantaggio di essere spesso circonfuse di una sorta di aura leggendaria. Un fenomeno che spiega molto bene il ritorno prepotente dei nomi e dei simboli di cavalieri e condottieri medievali sui tremendi campi di battaglia delle guerre etniche dell'ex Jugoslavia, per nobilitare la rinnovata volontà di potenza della Russia di Vladimir Putin o per puntellare il governo nazionalista e xenofobo nella triste Ungheria di Viktor Orbán. Altrettante reinvenzioni della tradizione per scopo politico. Come quella, per rimanere nei prati di casa nostra, che la Lega Nord ha operato a proposito di Alberto da Giussano, il mitico condottiero del XII secolo grazie al quale i Comuni italiani sbaragliarono le armate imperiali di Federico Barbarossa (tanto da meritarsi, secoli dopo, un costoso kolossal cinematografico sotto l’ultimo governo Berlusconi). Mitico o, forse, assai più verosimilmente «mitologico», come ritiene la gran parte della comunità storiografica internazionale, per la quale dell’esistenza del comandante militare della Lega Lombarda non esistono nei documenti tracce attendibili (da leggere, per rendersene conto, il libro del medievista Paolo Grillo, Legnano 1176, Laterza). Insomma, un falso pluricentenario.

Corriere della Sera 8.1.12
Se i musei chiudono per ragioni «etniche»
di Pierluigi Panza


Alcune tra le più antiche istituzioni culturali della Bosnia Erzegovina stanno chiudendo per una mancanza di finanziamenti causata dalle controversie in atto tra i politici dei suoi tre diversi gruppi etnici. Nel 2011 ben sette istituzioni, tra le quali il Museo Nazionale (la cui collezione comprende il famoso manoscritto ebraico conosciuto come la «Haggadah» di Sarajevo) non hanno praticamente ricevuto finanziamenti. Di conseguenza, la Biblioteca Nazionale e il Museo Storico hanno chiuso nelle scorse settimane; la Galleria Nazionale la scorsa estate mentre il Museo Nazionale prevede di chiudere nelle prossime settimane perché non è più in grado di pagare le bollette della luce. «Ci siamo trovati nel mezzo di una battaglia politica e siamo diventati un problema», ha dichiarato Adnan Busuladzic, direttore del Museo.
Una delle ragioni profonde delle chiusure è l'assenza di una memoria condivisa tra i leader politici serbi, croati erzegovini e musulmani del Paese e il conseguente disaccordo su come gestire il patrimonio culturale. Sarajevo e la Bosnia, sono l'esito di un sovrapporsi di identità e culture, e ciò costituisce il vero e proprio genius loci da conservare. Ma questo è difficile da accettare per chi esce da conflitti sanguinosi. Così sui musei bosniaci si è aperto uno scontro sul modello di governance da adottare che è il riflesso di uno scontro ideologico: i serbi si oppongono al controllo del governo centrale sui siti culturali perché ritengono che ciascuno di essi abbia una propria identità; i bosniaci, invece, vedono nella governance centrale un modo per formare una storia della Bosnia. Il ministro della cultura, Salmir Kaplan ha dichiarato che il governo pagherà le bollette. Quello che manca è la volontà di accettare una pluralità di tradizioni.

Corriere della Sera La Lettura 8.1.12
Umori illiberali sotto la barba di Marx
Ma Ciliberto lo riscopre e lo elogia come profeta della democrazia
di Gaetano Pecora

qui
http://www.scribd.com/doc/77525416

Repubblica 8.1.12
Karl Marx, arrivano gli inediti "So solo che non sono marxista"
Migliaia di pagine ancora da catalogare Centinaia di volumi ancora da pubblicare Analisi e profezie ancora da studiare Nell'anno della crisi, viaggio (con sorpresa) negli archivi del padre del comunismo
di Andrea Tarquini


BERLINO. Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali.

Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore critico sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali e alle nuove tecnologie. Credeva nella democrazia e nella libertà di parola molto più di quanto non si pensi, le riteneva irrinunciabili. E la crisi odierna del capitalismo attuale lui l´aveva a suo modo prevista, molto più di come ce lo tramandarono le dittature totalitarie realsocialiste. Riemerge dal passato come un moderno newlabourista, un progressista tedesco o un liberal americano dai suoi scritti di migliaia di pagine ingiallite ma spolverate con cura in un bel palazzo neoclassico qui a Berlino, al numero 22/23 della Jaegerstrasse.
Qui nella splendida Mitte a un passo da Gendarmenmarkt, la piazza delle cerimonie prussiane e del Kaiser, forse la più bella della capitale. Eccoci al quarto piano della Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, l´Accademia delle scienze che rivede la sua opera e un volume dopo l´altro ne prepara la pubblicazione completa: 114 tomi, di qui al 2020 e chi sa come allora sarà il mondo. «Certo lui lo aveva studiato e previsto molto meglio di come ci fu detto dai poteri che lo usarono post mortem», spiega il dottor Gerald Hubmann, responsabile a fianco del professor Manfred Neuhaus del grande lavoro. Ma insomma, di chi stiamo parlando? Di Karl Marx, proprio lui. Qui i suoi scritti, volumi, appunti, epistolari, vengono studiati, riletti in modo critico e pubblicati passo dopo passo. E lui, «il vecchio barbone» come lo chiamarono affettuosi e riverenti generazioni di militanti di sinistra, insieme a Friedrich Engels torna attuale in un´altra luce.
È un tuffo nella storia, quello in Jaegerstrasse 22/23. Un tuffo sereno nella doccia fredda inquietante della crisi del mondo globale. I volumi, rieditati in versione critica e scientifica, uno dopo l´altro si accatastano nelle stanze degli accademici. Mega, come "grande" in greco antico, si chiama il progetto dell´opera completa di Marx ed Engels rivista in modo critico. Mega in tedesco è una sigla: Marx-Engels GesamtAusgabe. Frugando nelle carte consunte dal tempo si scoprono cose che i contemporanei di Marx vollero ignorare, e che il marxismo-leninismo ufficiale preferì censurare. Le Tesi su Feuerbach, spiega Hubmann, non furono all´inizio parte de L´ideologia tedesca. Vi furono inserite solo dopo, e il tutto, secondo Marx, era solo una collezione di appunti «destinata ai topi». Appunti di agitazione politica consegnati ai manoscritti suoi dell´epoca, tutti a penna con correzioni e cancellature, i disegnini di volti spesso femminili magari schizzati da Engels accanto. Slogan politici trasformati in ortodossia nell´Urss. Insomma: la teoria secondo cui l´esistenza materiale determina la coscienza, base del materialismo storico, spiega Hubmann, era un´idea in cui Marx non credeva. Guardi qui, dice mostrando un volume riedito, Marx disse: «Tutto quello che so è che non sono un marxista».
«Un volume dopo l´altro», spiega ancora Hubmann, «noi curatori di Mega scopriamo un altro Marx. Non un "cane morto", non un ideologo del passato, bensì un politologo e scienziato attuale. Un uomo che continuò a ricercare con curiosità fino alla vecchiaia e seppe vedere e prevedere le radici della crisi di oggi. Studiò nei suoi tardi anni l´evoluzione del capitalismo, da capitalismo industriale a sistema sempre più basato sul credito e sulla finanza e quindi esposto alle sue oscillazioni e alle sue incertezze», a crisi ingovernabili a danno di tutti. La svolta, la sua fase dopo Il Capitale, cominciò con lo studio dell´economia americana: i grandi spazi, l´esigenza di costruire in fretta ferrovie e altre infrastrutture, la crescente fame di materie prime, il boom dell´agricoltura, spiegano gli accademici, imposero la crescente dipendenza dell´economia reale dal credito: serviva sempre più denaro. Mega, II/13: ecco le analisi di Marx anziano sui nuovi processi di circolazione del capitale, sul suo sviluppo col turbo come sistema sempre più finanziario. Sembra di leggere pagine sulla crisi dei nostri giorni, invece sono vecchie di un secolo e mezzo. È un caso, un accidente della storia, se il progetto Mega ha potuto vedere la luce. Opere, carteggi, epistolario e appunti di Marx ed Engels erano in mano all´archivio della Spd. Dopo la rivoluzione bolscevica, nacque un fitto lavoro comune di scienziati socialdemocratici tedeschi e del Pcus per sistematizzarle. Parte del materiale fu portata a Mosca, altra parte restò nella vivace Berlino della fragile Repubblica di Weimar. Furono le radici dell´opera completa, ma i drammi di quegli anni le seccarono. La ricerca di quegli scienziati e filosofi cadde troppo presto sotto l´occhio sospettoso della Nkvd, la polizia segreta di Stalin. Al dittatore, racconta Hubmann, non piacque scoprire certe pagine critiche, certi appunti sull´esigenza della libertà di parola e del libero confronto tra forze politiche e sociali. Meno che mai gli piacque scoprire che Marx ed Engels avevano scritto molto più di Lenin e non teorizzavano un totalitarismo né tantomeno i gulag. Con la brutale svolta autoritaria in Urss gli scienziati marxisti finirono male. A cominciare dal loro capo David Rjazanov, giustiziato per tradimento nel 1938, poco prima del patto Hitler-Stalin. Altri finirono sorvegliati e solo la grande fama li salvò dal plotone d´esecuzione. Fu il caso di György Lukács, il padre ungherese del marxismo critico.
Ma se Mosca piangeva, Berlino non rideva. Venne il ´33, la democrazia di Weimar fu rovesciata da Hitler. Gli archivi della Spd si salvarono per caso: i socialdemocratici, sfidando la Gestapo, li portarono da amici accademici olandesi. «Chi sa perché, ma anni dopo narra Hubmann nell´Olanda occupata, Gestapo e polizia collaborazionista non pensarono mai di frugare nei sotterranei dell´accademia di Amsterdam, non scoprirono mai quanto avrebbero volentieri distrutto». Venne il 1945, la disfatta dell´Asse e la Guerra fredda con la Germania divisa. Urss e Ddr ripresero il lavoro di edizione completa dopo la morte di Stalin, ma Breznev lo bloccò: troppi manoscritti critici, troppe pericolose idee di invito al dubbio. Il lavoro fu congelato fino all´89 della caduta del Muro di Berlino. «E per quanto possa sembrare strano», notano i professori di Jaegerstrasse, «se lavoriamo liberi e con rigore scientifico al Mega lo dobbiamo anche a Helmut Kohl, certo non sospetto di simpatie marxiste. Il cancelliere della riunificazione che amava la storia, decise che, magari sottotono, la ricerca su quelle tonnellate di manoscritti che la Ddr aveva chiuso in cantina avrebbe dovuto riprendere nella Germania unita».
Sono passati più di vent´anni da quell´ennesima svolta in cui i manoscritti ingialliti dei due barbuti riuscirono a sopravvivere. Adesso il lavoro continua, diviso tra Berlino, Amsterdam e Mosca. Con l´interesse crescente dei preparatissimi scienziati ufficiali cinesi, che forse vi cercano nuove idee per la futura prima potenza mondiale. Scoprono anche loro un altro Marx. L´uomo che perseguitato quasi ovunque in Europa si guadagnò da vivere come corrispondente del New York Daily Tribune. Rivediamo quelle pagine: narrava come un grande inviato le scosse politiche e sociali o le crisi economiche dell´Europa di allora, persino i primi movimenti operai in Italia o Spagna. Non c´erano le comunicazioni moderne: Marx ed Engels inviavano gli articoli a New York col piroscafo, dovevano scriverli pensando a non farli invecchiare. Jenny Marx, l´amata moglie, teneva la contabilità d´ogni spedizione. Cominciò anche a conservare i più curiosi, incredibili scritti del marito anziano. Karl aveva rinunciato alla politica, annotava la sua fiducia nel libero dibattito e confronto tra idee e forze politiche. E prese a studiare le scienze: ecco appunti e schizzi perfetti sulla geologia, sulla fisica, sui primi passi della scienza nucleare.
Ed ecco, infine ma non ultimo, la scoperta forse più affascinante. Marx ed Engels, nell´Europa del capitalismo senza internet né jet di linea, crearono una rete di scambi epistolari internazionali. Con leader operai, con politici, con scienziati, gente d´ogni corrente di pensiero o tendenza: a suo modo, dicono soddisfatti gli accademici di Jaegerstrasse, fu il primo social network. Funzionò per anni. Bentornato, caro vecchio Marx, e scusaci: troppi opposti estremismi del Ventesimo secolo ti avevano tramandato male. Arrivederci al 2020. Forse ci servirai quando chi sa che volto avrà il capitalismo.

Repubblica 8.1.12
Mercato senza sviluppo la causa della crisi
di Karl Marx


L´enorme quantità e la varietà delle merci disponibili sul mercato non dipendono soltanto dalla quantità e dalla varietà dei prodotti, ma sono in parte determinate dall´entità della parte di prodotti prodotti come merci, che dovranno dunque essere immessi nel mercato per la vendita in qualità di merci. La grandezza di questa parte delle merci dipenderà, a sua volta, dal grado di sviluppo del modo di produzione capitalistico che produce i propri prodotti solo come merci e dal grado in cui tale modo di produzione domina in tutte le sfere della produzione. Deriva da qui un grande squilibrio nello scambio tra paesi capitalistici sviluppati, come l´Inghilterra, per esempio, e paesi come l´India o la Cina. Questo squilibrio è una delle cause delle crisi.
Causa totalmente trascurata dagli asini che si accontentano di studiare la fase dello scambio di un prodotto con un altro prodotto e che scordano che il prodotto non è pertanto in alcun caso merce scambiabile in quanto tale.Questo costituisce anche la spina nel fianco che spinge gli inglesi, tra gli altri, a voler stravolgere il modo di produzione tradizionale esistente in Cina, in India eccetera, per trasformarlo in una produzione di merci e, in particolare, in una produzione basata sulla divisione internazionale del lavoro (vale a dire, nella forma di produzione capitalistica). Riescono in parte in questo intento, per esempio, quando danneggiano i filatori della lana o del cotone svendendo i loro prodotti o rovinando il loro modo di produzione tradizionale, che non è in grado di competere con il modo di produzione capitalistico o con il modo capitalistico di immettere le merci sul mercato. Anche se il capitale produttivo, per sua stessa natura, è disponibile sul mercato, vale a dire è offerto in vendita, il capitalista può (per un periodo di tempo lungo o breve, secondo la natura della merce) tenerlo lontano dal mercato se le condizioni non gli sono favorevoli o al fine di speculare o altro. Il capitalista può sottrarre il capitale produttivo al mercato delle merci, ma in un momento successivo sarà costretto a riimmetterlo. Ciò non ha effetti al fine della definizione del concetto, ma è importante nell´osservazione della concorrenza.
La sfera della circolazione delle merci, il mercato, è in quanto tale distinta anche fisicamente dalla sfera della produzione, esattamente come sono distinti temporalmente il processo di circolazione e l´effettivo processo di produzione. Le merci ora pronte restano depositate nei magazzini e nei depositi dei capitalisti che le hanno prodotte (eccetto il caso in cui siano vendute direttamente) quasi sempre solo in modo passeggero prima di essere spedite verso altri mercati. Per le merci si tratta di una stazione di preparazione dalla quale saranno immesse nell´effettiva sfera di circolazione, esattamente come i fattori della produzione disponibili restano in attesa, in una fase preparatoria, prima di essere convogliati nell´effettivo processo di produzione.
La distanza fisica tra i mercati (considerati dal punto di vista della loro localizzazione) e il luogo del processo di produzione delle merci all´interno di uno stesso paese, e successivamente fuori da esso, costituisce un elemento importante, perché è proprio la produzione capitalistica a far sì che per una buona parte dei suoi prodotti il mercato sia costituito dal mercato mondiale. (Le merci possono essere anche acquistate per essere ritirate immediatamente dal mercato, ma questo elemento dovrebbe essere esaminato altrove, così come la menzione precedente alle merci che i produttori tengono lontane dal mercato).
Conseguentemente, occorre che il mercato si espanda in continuazione. Inoltre, in ogni singola sfera della produzione, ogni capitalista produce secondo il capitale che gli è offerto, indipendentemente da ciò che fanno gli altri capitalisti. Tuttavia, non sarà il suo prodotto, bensì il prodotto totale del capitale investito in quella particolare sfera di produzione a costituire il capitale produttivo, il quale offre in vendita questa e ogni singola altra sfera di produzione. È un dato di fatto empirico che nonostante la dilatazione della produzione capitalistica porti a un incremento, a una moltiplicazione del numero delle sfere di produzione, ovvero delle sfere di investimento del capitale, nei paesi a produzione capitalistica avanzata, questa variazione non tenga mai il passo con l´accumulo del capitale stesso.
Traduzione di Guiomar Parada

La Stampa 8.1.12
La Patria, un’idea di sinistra
di Carlo Bertini


Nel 1936, pochi mesi prima di essere assassinato in Francia con il fratello Nello, Carlo Rosselli si scaglia contro l’appoggio dell’Italia fascista ai franchisti spagnoli usando questo argomento: «Noi siamo nati nazione in nome della libertà e della autodeterminazione dei popoli. I nostri profeti si chiamano Garibaldi e Mazzini... sangue italiano ha bagnato tutte le giovani patrie rinascenti». Ecco, in questo passaggio del libro Patria , scritto dal senatore del Pd Roberto Della Seta e dallo storico del diritto Emanuele Conte (Garzanti, pagine 173, euro 14,60), è racchiusa la fotografia di una querelle che ha tenuti impegnati intellettuali e pensatori delle più varie radici culturali. Perché così come gli azionisti fecero del «patriottismo democratico» una virtù dotata di intrinseca nobiltà, la destra ha per anni brandito il patriottismo come sinonimo di nazionalismo, mentre la sinistra l’ha snobbato come una sorta di brodo di coltura dei peggiori istinti imperialisti di antica memoria.
Gli autori di questo saggio sostengono piuttosto che Patria sia un’idea di sinistra connaturata ai valori di socialità e di solidarietà, che necessita solo di esser depurata dai germi del nazionalismo che l’hanno infettata per decenni. La nostra storia, quella recente e anche preunitaria, è ricca di fili comuni che hanno fatto degli italiani un popolo: grandi progetti dai Comuni medievali al Rinascimento, dal Risorgimento alla Resistenza, e poi due caratteri collettivi squisitamente italiani, la tradizione civica e la vocazione conviviale. Se queste impronte vaste non si sono tradotte in un senso condiviso di appartenenza patriottica, la ragione sta nell’estraneità delle classi dirigenti, soprattutto nell’Italia repubblicana e soprattutto a sinistra, all’idea di patria. Della Seta e Conte citano come manifesto emblematico di questo «scetticismo patriottico» delle nostre élite la rivendicata militanza «anti-italiana» di tanti intellettuali, da Flaiano a Longanesi, da Bocca a Pasolini, da Montanelli a Prezzolini. E se oggi siamo un Paese diviso tra Nord e sud, segnato da una spaccatura tra cittadini e rappresentanza politica, esposto alle scosse della globalizzazione e ai colpi della crisi economica, è anche perché non ci sentiamo una comunità.

il Riformista 8.1.12
Il vento dell’ateismo spira lontano


Con il supporto di un imponente massa di dati (raccolte in 3.160 interviste personali domiciliari, rappresentative dell’intero universo della popolazione), Franco Garelli, docente all’Università di Torino, presenta una “fotografia” dell’anima religiosa dell’Italia contempo-
ranea, un’eccezione nel panorama europeo. Nonostante la secolarizzazione stia proseguendo anche nel nostro Paese (crisi delle vocazioni, diminuzione dei praticanti, minor seguito della Chiesa in campo etico, attenuazione della religiosità popolare), infatti, siamo ancora uno dei paesi occidentali in cui il sentimento religioso è più diffuso (circa l’80% crede in Dio, contro, ad esempio, il 53% dei francesi). Da noi l’insieme dei “non credenti” e dei “senza religione” si mantiene costante rispetto al passato, non risentendo del vento dell’ateismo che da anni spira con forza in altre nazione europee. Sebbene la ricerca sul campo segnali un’area d’insofferenza contro alcune prese di posizione della Chiesa sui temi della bioetica, il bisogno di spiritualità da un lato e il prevalere di un sentimento di insicurezza e di paura del futuro dall’altro, favoriscono la persistenza dell’ancoraggio alla lunga tradizione di cultura e di socializzazione religiosa tipicamente italiana. La maggioranza degli italiani continua così ad essere favorevole alla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, all’ 8x1.000 e all’ora di religione nella scuola, sebbene emergano critiche per l’eccessivo protagonismo delle gerarchie nelle vicende politiche.
RELIGIONE ALL’ITALIANA di Franco Garelli Il Mulino, pp. 254, euro 17,00

il Riformista 8.1.12
Il comunismo che si liquefa


Il ventesimo anniversario della dissoluzione dell’Unione Sovietica (dicembre 1991) è passato quasi inosservato. In contro tendenza, Marcello Flores, docente di storia contemporanea all’Università di Siena, nel suo libro “Fine del comunismo” si cimenta nell’impresa di le tappe essenziali di un evento che non soltanto ripercorrere e analizzare
ha segnato il Novecento, ma ha ridisegnato la mappa culturale e geopolitica del mondo contemporaneo. In aperto disaccordo con le interpretazioni prevalenti che considerano il crollo del comunismo come la sorte inevitabile di un regime autoritario e immobile, Flores sottolinea l’importanza dell’elezione a segretario generale del Pcus di Michail Gorbacëv (1985) e il suo ruolo fondamentale nel favorire le trasformazioni che si diffonderanno a macchia d’olio negli anni successivi. La perestroika, infatti, non si limiterà a produrre effetti a Mosca, ma favorirà e alimenterà le istanze di cambiamento in tutta l’Europa dell’Est, la legalizzazione di Solidarnosc in Polonia per tutti. «Ciò che è accaduto nel mondo comunista dell’Est scrive Flores è stato un vero e proprio evento storico, uno di quei momenti che accelerano e trasformano il corso della storia e lo sviluppo della società nel suo insieme». Non bisogna dimenticare, infatti, che se nei regimi dell’Europa orientale la pressione popolare è stata determinante per il crollo finale, altrettanto non avviene in Urss dove il comunismo si liquefa senza che si manifesti una esplicita volontà della maggioranza dei cittadini.
LA FINE DEL COMUNISMO di Marcello Flores Bruno Mondadori, pp. 190, euro 18,00

il Riformista 8.1.12
La natura implosiva della caduta dell’Urss
di Sergio Bertolissi


Qual è il motivo (o i motivi) che ha spinto Cervetti (Ragioni, 18 dicembre) a impostare il suo articolo sul ventennale della caduta dell’Unione Sovietica sulla differente datazione che essa avrebbe configurato nella realtà? Egli, infatti, distingue tra un primo momento: il «sistema sociopolitico del cosiddetto “socialismo reale” termina di esistere nei giorni dell’ agosto 1991 immediatamente successivi al famoso golpe organizzato dalla parte più conservatrice e retriva della dirigenza comunista», e un secondo, quando l’Unione Sovietica «cessa di esistere nel dicembre dello stesso anno, con la dichiarazione dei presidenti di Russia, Bielorussia, Ucraina (..) e con le successive dimissioni di Gorbaciov da presidente dell’Urss».
Immediatamente di seguito, Cervetti indica il nodo politico, e storico, che portò a quel crollo: «Non c’è dubbio che il carattere fondamentale del sistema sociopolitico sovietico è consistito in quell’insieme di rapporti economici(proprietà collettiva, pianificazione,etc.) che per una scelta politico-ideologica e per loro consolidata natura, hanno garantito per un certo periodo, lo sviluppo delle forze produttive e forme di modernizzazione, trasformandosi poi in inefficienza e in stagnazione». E allora?
A me sembra che il nodo storico della caduta dell’Unione Sovietica, risieda nel suo carattere implosivo e non esplosivo (come arditamente preannunciato da Hélène Carrère d’Encausse nel lontano 1979), il che a mio avviso significa, naturalmente, che le ragioni profonde della caduta di quel sistema risiedono tutte nella sua natura, così come si è venuta costituendo dalla rivoluzione d‘Ottobre alla sua fine, basata sulla forza del partito unico, e sullo strumento dell’economia pianificata. L’esistenza dell’Unione Sovietica, come insieme di 15 repubbliche associate per un fine ideologico, è in realtà eredità dell’Impero zarista ed elemento fondante il nuovo Impero e la sua politica di grande potenza, si è dissolta senza colpo ferire, per buona sorte, ed ognuna di quelle realtà diverse tra loro da sempre, ha preso una sua strada distinta.
I tentativi di costituire una qualche forma di unione tra pari, la Comunità degli stati indipendenti ad esempio, si sono rilevati effimeri, venuto meno qualsiasi terreno di incontro, dopo più di 70 anni di coabitazione più o meno forzata, e rimangono ora singoli accordi sul piano della collaborazione nel settore petrolifero. L’Unione Sovietica, costruita sul ruolo del partito comunista, costituzionalizzato addirittura (nel 1977) come ricorda Cervetti è caduta con esso, senza ulteriori distinzioni possibili.

La risposta
Si può effettivamente condividere l’affermazione di Bertolissi, attento e intelligente studioso di cose sovietiche, secondo la quale «le ragioni profonde della caduta di quel sistema risiedono tutte nella sua natura». E ciò anche se un così perentorio tutte indica a ritenere il sistema in oggetto immune da ogni influenza altrui e impermeabile a qualsiasi forza ed eventi esterni, il che è difficile da sostenere soprattutto nelle condizioni del mondo moderno. È, invece, non proprio accettabile e condivisibile – almeno da parte mia – l’idea secondo cui la natura anche di un sistema compatto (partito unico, pianificazione centralizzata, ecc) come il sovietico sia presentata e considerata sotto specie di entità data una volta per sempre e che fino dall’inizio (rivoluzione d’Ottobre) contiene la sua fine.
Ma, si dirà, la fine è stata quella e non altra. E allora? Allora, così concludendo, si cade – sempre a mio modesto parere – nel determinismo che, si sa, non lascia spazio all’intervento di individui singoli o associati e che, inoltre, permette allo storico di capovolgere il senso del famoso detto shakespeariano per giungere a pensare, lo storico, che esistono più cose nella propria “filosofia” di quante se ne contino “in cielo e in terra”. (Gianni Cervetti)

sabato 7 gennaio 2012

l’Unità 7.1.12
Bersani punta su Forum lavoro e Assemblea nazionale per mettere in chiaro la posizione del partito
Convergenza tra le proposte Nerozzi, Damiano e Madia. Ichino: «È meglio la flexsecurity»
Pd, sì al contratto prevalente Ma non si tocca l’articolo 18
Contratto prevalente d’ingresso e nessuna modifica dell’articolo 18: è la posizione del Pd, che Bersani vuol far emergere con chiarezza dalla riunione del Forum lavoro e dall’Assemblea nazionale di fine mese.
di Simone Collini


Disboscare la giungla di tipologie contrattuali oggi esistenti dando vita a un contratto d’inserimento che può durare da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni, senza toccare l’articolo 18. È con questa proposta che il Pd andrà al confronto con il governo, quando la discussione sulla riforma del mercato del lavoro entrerà nel vivo.
Pier Luigi Bersani segue con attenzione la partita che si è aperta tra ministero del Welfare e parti sociali. Il leader dei Democratici evita di commentare le indiscrezioni giornalistiche su ipotesi governative di riforma che nascono e muoiono nell’arco di ventiquattr’ore e ha chiesto ai dirigenti del suo partito di fare altrettanto. Però ha pianificato una road map ben precisa per rendere chiaro qual è “la” posizione del Pd, che a tempo debito verrà sostenuta in Parlamento. Il primo passo è la convocazione del Forum lavoro, che giovedì si riunisce nella sala Berlinguer di Montecitorio. Il secondo è l’Assemblea nazionale del 20 e 21, che discuterà di mercato del lavoro e non solo, e che si chiuderà con un voto teso a precisare una volta per tutte qual è la linea del Pd: intoccabilità dell’articolo 18 e possibilità di inserire un contratto prevalente d’ingresso, no al modello flexsecurity.
LA POSIZIONE DEL PD
Di fatto, come spiega il responsabile Lavoro del partito Stefano Fassina, «non c’è niente da decidere, visto che il Pd una posizione chiara già l’ha presa all’Assemblea nazionale di Roma del maggio 2010 e poi alla Conferenza sul lavoro di Genova del giugno 2011». In entrambi gli appuntamenti sono approvati dei documenti favorevoli a riunificare il mercato del lavoro oggi diversificato in una miriade di tipologie contrattuali (un recente studio della Cgil ha individuate 46 differenti modalità di assunzione) con un contratto di apprendistato sostanzialmente unico «a garanzie crescenti» e una riduzione degli oneri contributivi per le imprese che stabilizzano.
Si tratta di un’impostazione contenuta in diverse proposte di legge presentate dal Pd, in quella depositata un anno e mezzo fa al Senato a prima firma Paolo Nerozzi (ricalca la riforma ipotizzata dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi ed è sostenuta anche da Franco Marini, oltre che da esponenti di tutte le anime del Pd) e in quelle presentate alla Camera a prima firma Cesare Damiano e Marianna Madia. In esse viene previsto un contratto d’inserimento tendenzialmente unico (sarebbero esclusi settori specifici che hanno reali esigenze di flessibilità come turismo e dell’agricoltura) che può durare da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni. Durante tale periodo, come hanno spiegato nei giorni scorsi su “l’Unità” Damiano e Tiziano Treu, il lavoratore sarebbe licenziabile «ma al termine della prova va agevolata l’assunzione a tempo indeterminato, compresa la tutela dell’articolo 18».
Ichino, che pure ha firmato la proposta di legge Nerozzi e oggi rivela che diede «anche un contributo forse non secondario alla sua stesura tecnica», vede però in questo progetto «due difetti» (riguardanti la soglia dei tre anni e gli ammortizzatori sociali) risolti, scrive su “Europa”, dal suo progetto di flexsecurity. Nella proposta del senatore Pd il quale ora dice che se la soluzione da lui proposta si rivelasse «non politicamente praticabile» sarebbe «un ottimo compromesso» il progetto Boeri-Garibaldi se accompagnato dalla «sperimentazione» della flexsecurity sulla base di accordi aziendali, regionali o provinciali c’è un contratto unico per i neoassunti e un parziale superamento dell’articolo 18 (tra le giuste cause per i licenziamenti rientrerebbero i motivi economici, tecnici ed organizzativi). Il modello riceve consensi nella minoranza del Pd (dai Modem Morando e Tonini a Marino), ma è duramente contrastata dalla segreteria e dalla stragrande maggioranza del partito. Come Bersani vuol far emergere dai prossimi appuntamenti in cui si discuterà la questione.

l’Unità 7.1.12
Giovani democratici, niente personalismi
Sarà il primo congresso vero, non roviniamolo con i tecnicismi e le carte bollate. Parliamo dei problemi veri, della precarietà, dell’accesso
al mondo del lavoro, della crisi europea, del rilancio della ricerca
di Donato Mondibello
, coordinatore segreteria GD

Dobbiamo darci una mossa. La realtà sta strozzando sogni e prospettive e noi Giovani Democratici ne siamo ben consapevoli. Conosciamo, come ogni ventenne o trentenne italiano, i problemi di questo Paese e abbiamo ben chiare anche le possibili soluzioni: rivitalizzare e adeguare il sistema politico al dinamismo della società e dare risposte concrete alle difficoltà e alle aspettative dei giovani di questo Paese.
Così, come Giovani Democratici abbiamo deciso, tutti insieme e con regole unanimemente concordate, dopo tre anni di costruzione e radicamento dell’organizzazione, di svolgere il nostro primo vero congresso.
Vogliamo partire dai problemi, dalla precarietà, dalle poche prospettive post laurea, dallo sfruttamento mascherato in stage e tirocini, dalla difficoltà di uscire di casa e di arrivare alla fine del mese. Dalla realtà, della crisi, dunque e dalla costruzione di un orizzonte che ci porti fuori da questi anni bui, che per noi si chiama società della conoscenza.
In questo primo congresso, parleremo di politica, di come investire sul sapere e di come renderlo accessibile a tutti. Lo facciamo per rilanciare il paese attraverso l’innovazione e la ricerca, riformando il mondo del lavoro e garantendo un accesso sicuro ai giovani. Parleremo di costruire quell’Europa politica, economica e sociale che oggi non c’è.
Senza dimenticare la riforma degli assetti istituzionali, fondamentale per aumentarne la rappresentatività e la partecipazione. Dobbiamo ridare alla politica quell’autorevolezza e quella forza per ritornare ad essere una guida seria ed affidabile e buttarci finalmente alle spalle decenni di governo scriteriato e offensivo della dignità dell’Italia.
Purtroppo, in questi giorni, la discussione rischia di allontanarsi da questi obiettivi e di spostarsi su personalismi, tecnicismi e carte bollate, rappresentando i Giovani Democratici come una gelida burocrazia sconnessa dalla realtà e mettendo a rischio il lavoro che tutti abbiamo fatto in questi tre anni. E’ un vecchio modo di fare politica e non ci appartiene.
In questi tre anni abbiamo fatto cose importanti: siamo stati a Torre del lago, per affermare che un paese civile parte dal riconoscimento dei diritti per tutti, a L’Aquila, a parlare di lavoro e futuro, abbiamo provato ad immaginare a Bologna il futuro del nostro sistema politico fuori dalla seconda repubblica, siamo stati in prima linea nelle scuole e nelle università italiane, nelle piazze con i precari e sempre a difesa del lavoro, abbiamo sostenuto e vinto insieme a migliaia di giovani italiani le battaglie referendarie sui beni comuni, eletto migliaia di giovani amministratori. Non c’è stato grande dibattito nel quale non siamo intervenuti. Abbiamo sempre provato a rappresentare la nostra generazione e dare un contributo alla crescita del Pd che più volte ci è stato riconosciuto: eravamo un tavolo di trentacinque persone e in tre anni siamo diventati la prima organizzazione giovanile d’Italia.
Noi abbiamo fatto politica e continueremo a parlare di politica: ci appassiona poco la burocrazia e di più le discussioni aperte su temi reali e che toccano la pelle delle persone. I problemi regolamentari non ci riguardano ed avremmo preferito sapere su quali grandi questioni ci sono punti di vista diversi, ma non sono ancora emerse.
È per questo che, non essendo emerse fin ora evidenti distinzioni politiche, è importante svolgere un congresso veramente aperto e plurale in grado di parlare fuori da noi, che permetta a ogni giovane italiano che studia, che lavora o sta cercando un lavoro, che vive ogni giorno le difficoltà dei giovani di questo Paese, di sentire che abbiamo a cuore la sua vita più delle nostre questioni interne. Vogliamo fare un congresso aperto, dopo cui pubblicare il nostro libro bianco di proposte, alla cui stesura potranno partecipare gli iscritti e i non iscritti ai Gd. Vogliamo le primarie, ma quelle delle idee. In questo modo parleremo di proposte e di progetti concreti, mettendo alla porta i votifici e i personalismi che hanno ingessato la discussione politica italiana negli ultimi anni. Ritengo che sia importante quello che Brando Benifei, un nostro dirigente nazionale, ha scritto su L’Unità di qualche giorno fa, quando afferma che “il mio progetto politico può rimanere in piedi – così come la mia candidatura – anche all’interno di un congresso per tesi.” Questo è senza dubbio un passo in avanti. Infatti, in questi giorni sembrava che il congresso a tesi non permettesse più di un candidato. Ora per fortuna si dice e si riconosce una cosa che doveva essere già chiara: il congresso a tesi non solo permette a ciascuno di modificare la linea politica dell’organizzazione, ma permette a chiunque abbia un minimo di consenso di candidarsi a segretario nazionale.
Quali che siano le deliberazioni sulle questioni regolamentari non verrà mai meno la nostra difesa del pluralismo, della nostra autonomia, che non permettiamo a nessuno di mettere in discussione, e della nostra voglia di fare politica. Crediamo che si possa cambiare passo.

l’Unità 7.1.12
Intervista a Fabio Mini
«Per le Forze armate è necessaria una riforma profonda e strutturale»
L’ex comandante Kfor «Non siamo americani né russi né cinesi, e se continuiamo così, neanche europei. Non possiamo certo prendere a modello chi ha mire globali»
di Umberto De Giovannangeli


Quello che dobbiamo fare oggi per il futuro, oltre ai risparmi possibili e indispensabili, è programmare, nero su bianco, la transizione dalla struttura di Difesa attuale a quella ridotta di molto, che l’impegno comune europeo ci vorrà chiedere». A sostenerlo è il generale Fabio Mini, ex Capo di Stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo nel periodo 2002-2003.
Generale Mini, avverte il rischio, paventato nell’intervista a l’Unità dall’ex Capo di Stato Maggiore, generale Vincenzo Camporini, che le nostre Forze Armate si trasformino in uno «stipendificio»?
«Stipendificio è una espressione denigratoria che non tiene conto della realtà economica e sociale del Paese . Allora, “stipendificio” sarebbe anche mantenere in piedi un apparato di polizia che è il più numeroso al mondo in termini di rapporto cittadini/forze di sicurezza. Allora, sarebbe “stipendificio” anche la Cassa integrazione guadagni che va a beneficio di lavoratori che non dipendono dalla Pubblica amministrazione. Mi sembra anche disonesto intellettualmente affrontare questo argomento come se il personale fosse responsabile dei debiti e gli armamenti fossero più importanti del personale, e come se i tagli sulla sopravvivenza e la dignità delle persone dovessero compensare i lussi della tecnologia».
Ma allora, a suo avviso, che cosa è davvero necessario fare per ridisegnare complessivamente, in termini di assetti, costi, funzioni, la Difesa italiana?
«Innanzitutto, occorre cercare di far cassa sui programmi che non incidono sugli equilibri sociali. E qui bisogna vedere quali sono i programmi di armamento non indispensabili nella qualità e nella quantità. In secondo luogo, è fondamentale ridisegnare completamente al Difesa con una riforma strutturale profonda, che deve, a mio avviso, avere le sue basi concettuali da alcune considerazioni strategiche...».
Quali?
«Essenzialmente tre: 1) La minaccia militare alla sopravvivenza dell’Italia non esiste e quand’anche si manifestasse, sarebbe affrontabile anche con poco; 2) Non siamo soli nella difesa e nella gestione della sicurezza. Dobbiamo chiedere e dobbiamo dare un equo contributo alla sicurezza comune. Equo vuole dire non solo sostenibile dal punto di vista finanziario, ma soprattutto come impegno politico nella difesa. In terza istanza, noi non siamo né americani, né russi, né cinesi, e se continuiamo così, rischiamo di non essere più nemmeno europei. Non possiamo, non dobbiamo prendere i modelli altrui che hanno mire globali, per imitare maldestramente i grandi. Finora abbiamo contribuito alla sicurezza internazionale partecipando con una quota assolutamente non equa rispetto agli impegni degli altri. Ci siamo fatti grandi di essere il terzo Paese contributore di forze militari alle missioni internazionali, credendo che questo, di per sé, ci consentisse di essere anche terzi nella considerazione mondiale. Una illusione. Perché in realtà abbiamo visto che questo non è vero, e i nostri sforzi militari, per quanto encomiabili, sono stati vanificati da atteggiamenti politici velleitari e non pari alla dignità dello sforzo della sicurezza. Quello che dobbiamo fare oggi per il futuro, oltre ai risparmi a cui ho fatto riferimento, è programmare, nero su bianco, la transizione dalla struttura attuale a quella, ridotta di molto, che l’impegno comune europeo ci vorrà chiedere».
Ma quanto può durare questa transizione?
«Per gli armamenti non c’è problema. Si può cominciare da subito a individuare i mezzi che saranno necessari da qui ai prossimi dieci anni. Per il personale, la transizione durerà per il periodo minimo indispensabile a fare in modo che gli esuberi vengano assorbiti senza penalizzare il personale, e che le nuove immissioni da subito siano calibrate alla struttura del futuro. Se la crisi continua per due, tre anni, si potrà parlare della fine della transizione tra otto-dieci anni. Ma allora non avremo lo stesso strumento di oggi, diventato ancora più inefficiente, ma avremo uno strumento piccolo che ci darà la possibilità di esprimere con dignità la nostra posizione politica sullo scenario internazionale».
Resta il fatto che il dibattito e le polemiche di questi giorni si sono concentrate sul programma di acquisto di 131 F35. Qual è in proposito la sua opinione?
«Sugli F35 non contesto la scelta tecnica. Si tratta certo di un aereo migliore di quelli che abbiamo, e ci mancherebbe altro visto quanto ci costano...È però, l’F35, un aereo che è già meno sofisticato di quelli che stanno uscendo adesso e per i fanatici della tecnologia, sarà vecchio quando entrerà in servizio da noi. Quello che è ormai insostenibile, è la base concettuale sulla quale è stato fatto il programma: era velleitaria la pretesa italiana di volersi dotare di aerei che nemmeno gli Usa avevano in quel momento; era velleitario il programma numerico che nessuno in Europa si poteva permettere. Ed era velleitario, alla fine, perché non si capiva, e non si continua a capire, contro chi quel programma doveva essere impiegato».
Il presidente Obama ha annunciato per i prossimi anni un taglio di 450 miliardi di dollari al bilancio del Pentagono. È un esempio da seguire?
«È da seguire ma dobbiamo stare molto attenti perché, probabilmente, le lobby americane faranno pressioni sulla Nato affinché gli europei non solo mantengano gli impegni presi ma ne assumano altri per compensare nel nome di una condivisione dei sacrifici le riduzioni Usa».

l’Unità 7.1.12
Senza totem né tabù: così si cambia la difesa
di Federica Mogherini


Come per la gestione della crisi, anche per il settore della difesa quelli del governo Berlusconi sono stati anni persi. Dietro la retorica costosa della mini-naja e la cecità dei tagli lineari, non si è affrontato nessuno dei nodi strutturali del modello di difesa. Ora il velo è stato impietosamente alzato, e l’insostenibilità dello strumento militare è diventata evidente. Perché costa più di quanto possiamo spendere, e perché manca un’analisi degli scenari di minaccia alla nostra sicurezza, e di conseguenza degli strumenti necessari per farvi fronte. A dieci anni dall'abolizione della leva, è ora di fare una valutazione di quanto il nostro modello di difesa sia funzionale agli obiettivi che gli scenari internazionali richiedono. A partire da quest’analisi ha senso ragionare di cosa e come tagliare, avendo chiaro il contesto internazionale. Va rilanciato il faticoso processo di integrazione europea, frenato da protezionismi nazionali e solitarie fughe in avanti di singoli paesi, e va risolta la crisi d’identità della Nato, in una fase di passaggio non solo per i tagli ai bilanci della difesa, ma perché la natura dell'Alleanza è sempre meno tradizionalmente difensiva e sempre più chiamata dall’Onu a fare i conti con minacce asimmetriche e crisi regionali che mettono in pericolo la stabilità globale e non sempre è attrezzata per affrontare efficacemente queste sfide, come la vicenda afghana dimostra, e come l'inedita formula dell'intervento in Libia ci ricorda.
Siamo in una fase di «crisi» nel senso originario del termine (opportunità, cambiamento), di ripensamento del ruolo degli assetti militari. E di certo, dopo mezzo secolo di guerra fredda e un decennio di scontro di civiltà, questi anni di crisi economica ci portano a rivalutare diplomazia e soft power. L’Italia ha quindi l'opportunità di fare di necessità virtù: investendo nella prevenzione dei conflitti e nella
cooperazione; ridimensionando e ridistribuendo le risorse della difesa tra le voci di bilancio (a cosa serve avere piloti e aerei che non si hanno poi le risorse per far volare?); favorendo il rinnovamento delle forze armate, appesantite da una quantità anomala di ufficiali e sottufficiali, e penalizzate dalla precarizzazione dei meccanismi di ingresso dei giovani; revisionando i programmi di acquisto per capire quali sono funzionali a esigenze reali e quali invece possono essere ridotti, sostituiti, sospesi o cancellati. Anche il dibattito sugli F35 va inserito in quest'ottica, senza farne né un totem né un tabù, ma l’oggetto di una scelta razionale. Il programma ha subito una lievitazione dei costi, un moltiplicarsi di criticità tecniche, un rallentamento notevole nei tempi; tutti i partner del progetto, Usa compresi, ne stanno ridimensionando la portata; il modello di cui l'Italia ha più bisogno la versione a decollo verticale, compatibile con la portaerei Cavour è quella che presenta maggiori problemi tecnici e minori acquirenti, tanto che la sua produzione non è affatto certa. Anche solo queste valutazioni, al netto delle difficoltà di bilancio, dovrebbero indurre a considerare un congelamento della nostra partecipazione al programma, almeno fino a quando non sarà chiaro cosa verrà prodotto, in quali tempi e con quali costi. È necessario che il livello di trasparenza e di democraticità di questo processo di revisione sia il massimo possibile. Questo governo ha la possibilità di capire e gestire la complessità delle scelte da compiere, e l’interesse a fare del Parlamento il luogo di una profonda revisione del modello di difesa. Ci vuole trasparenza, coraggio, realismo, e consapevolezza del mondo. Si può, si deve fare.
*Deputata e responsabile globalizzazione Pd

l’Unità 7.1.12
Città senza guida e senza progetto
Roma volti pagina
di David Sassoli


Anche il sindaco di Roma, per la ferocia che si è scatenata a Torpignattara, ha scoperto che in città vi sono una violenza organizzata che fa girare armi e droga e una violenza diffusa disseminata in un territorio non controllato che mette a rischio il diritto dei cittadini alla vita. L’escalation è impressionante e i morti ammazzati nel 2011 lo dimostrano. In città girano “troppe armi e troppa droga”, ha detto il sindaco Alemanno, scaricando sulle forze dell’ordine la responsabilità della mancata sicurezza. Armi e droga nella disponibilità di potenti organizzazioni criminali. La mancata vigilanza del sindaco è ormai cosa nota. Per Giorgio Magliocca, sindaco di Pignataro Maggiore e collaboratore di Alemanno arrestato per camorra, il tribunale di Napoli ha chiesto 7 anni di carcere e la sentenza è attesa per febbraio. La sottovalutazione del fenomeno criminale, d’altronde, è stata per lungo tempo una costante dell’amministrazione capitolina, tanto che i risultati che porta in dote sono sotto gli occhi di tutti: in città ci sono violenza e paura. E sono sentimenti diffusi, che colpiscono i quartieri più diversi e gli ambienti più distanti. In periferia certo, il morbo è soffocante perché vaste aree sono abbandonate e invitate a fare tutto da sole. Pochi sanno che vi sono zone dove non arrivano beni primari come l’acqua e l’elettricità e quartieri dormitorio edificati anche di recente senza servizi, dove non arrivano neppure gli autobus. Roma è una città senza governo perché è senza progetto, ed è per questo che perde la sua anima, come ha detto bene l’ex sindaco Veltroni. Ed è una città faticosa, dove tutto è difficile a differenza delle grandi città europee. A Roma sono i cittadini a dover andare a
cercare l’amministrazione; altrove è l’amministrazione ad andare incontro ai cittadini. C’è bisogno di voltare pagina rapidamente e un anno e mezzo è un tempo davvero troppo lungo. Lo sanno bene i commercianti, gli imprenditori, gli artigiani. Crescevamo al ritmo del 7 per cento l’anno – più della media nazionale – e sono bastate poche stagioni per precipitare nella depressione economica e morale. Eppure le risorse ci sono. Se non le possiede Roma quale città ne possiede altrettante in Italia e in Europa? E invece, siamo diventati una fabbrica di disoccupazione ed esclusione. Una città paurosa ed egoista, governata da un ceto politico autoreferenziale e clientelare. Mancano progetti per la città del futuro, per la città che lasceremo ai nostri figli. Sconfiggere la rassegnazione è oggi una priorità. Perché, anche in controtendenza rispetto alla grave crisi economica, Roma ha possibilità di crescita e capitale umano in grado di invertire ogni tendenza negativa. In questi anni è stato sfregiato anche il volto spirituale della Capitale, tanto da far dire al cardinale Agostino Vallini che Roma deve ritrovare “quel sussulto morale che le permetta di tornare ad essere una comunità accogliente, solidale, rispettosa della dignità e della vita di ogni essere umano”. Quando si usano queste parole vuol dire che tanto è stato perduto e tanto c’è da recuperare. Far tornare le persone a vivere la città è il tema di questa stagione. Un tempo che si presenta opaco e doloroso, ma allo stesso modo carico di energie inespresse che solo un forte rinnovamento della classe politica può valorizzare per cercare di ricomporre il puzzle di una comunità dispersa.
*Presidente delegazione Pd al Parlamento europeo


Repubblica 7.1.12
La rabbia di Chinatown "Italiani sempre più razzisti oggi odiamo questo paese"
di Attilio Bolzoni

ROMA - Ore 18, all´Esquilino la Befana splende solo di luci cinesi. È tutta loro questa città di insegne con dragoni e polli fritti, cianfrusaglie, orologi taroccati, pentole e fiori di plastica, sale massaggi sempre piene e botteghe di vestiti sempre vuote. Stasera c´è anche l´odore della paura, qui all´Esquilino.
Sono asserragliati dietro le loro vetrine scintillanti, in una Chinatown romana che ha una rabbia sorda, soffocata. Qualcuno sta andando in piazza Vittorio per fare una colletta, vuole assumere guardie del corpo per difendere i commercianti. Non ne possono più di scippi e rapine. E oggi c´è anche il morto. Uno di loro.
Parla Wang Chi: «A me dicono "cinese di merda" almeno una volta al giorno e ne conosco almeno venti di miei connazionali che sono stati derubati negli ultimi tre mesi». È commesso in un negozio di via Napoleone III e adesso è seduto in un ristorante deserto al civico 16 di via Foscolo. Lui lo conosceva Zhou Zheng, il cinese ammazzato con la sua piccola a Tor Pignattara. Ricorda Wang: «Da dieci anni che ci incontravamo ma non ho mai avuto molto a che fare con lui, solo saluti veloci. Non sappiamo ancora perché l´hanno ucciso. Qui, a Roma, per noi sta diventando davvero difficile sopravvivere. Gli italiani stanno diventando molto razzisti».
In cucina ci sono sette ragazzi e una ragazza, tagliano tranci di un grosso pesce, carne scura, quasi nera, sembra un tonno imbalsamato. Sistemano piatti di riso alla cantonese dietro il bancone, ripetono in coro: «Razzisti, sì, italiani razzisti». Tutti sanno di quel che è accaduto sulla Casilina, tutti però ne parlano malvolentieri. Ti guardano con quella faccia imperturbabile, sussurrano due parole e poi si chiudono in un silenzio cupo.
Dietro piazza Vittorio, su per via di San Vito non c´è più un esercizio commerciale di proprietà o gestito da un romano. Da un po´ di anni i cinesi hanno buttato fuori anche i magrebini. Cinese è anche la ragazza del bar all´angolo, "Il Piccolo Caffè" che vende panini a 1,50 euro: «Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave, qui in Italia ci detestano, ci trattano male tutti». Odia l´Italia? «Forse sì, forse stasera odio l´Italia», risponde lei. «Odio l´Italia», lo dice anche una vicina di casa del povero Zhou, una dei 20 o 30mila cinesi che abitano nella capitale italiana. Il numero esatto non lo conosce nessuno. Però tremano tutti nella Roma "gialla".
Qualche mese fa, i commercianti dell´Esquilino si sono già tassati una prima volta. Hanno assunto guardaspalle, sei, quattro italiani di un´agenzia di sicurezza e due di loro che gli fanno da traduttori. «Il problema della criminalità nella nostra comunità è gravissimo», spiega Hu Lanbo, una signora cinese di cinquantadue anni e che da ventidue, dopo aver sposato un italiano, vive a Roma. Hu dirige un mensile bilingue – "Cina in Italia" – dove in ogni numero scrive del disagio e delle paure degli emigranti di Pechino. «La situazione è peggiorata moltissimo nelle ultime settimane, ma mai avremmo immaginato che potesse accadere qualcosa di così crudele». Secondo lei c´è davvero odio per gli italiani, come in queste ore dice qualche cinese in preda all´emozione? «No, non credo che ci sia odio per l´Italia e per gli italiani, c´è odio per gli assassini».
Via Carlo Alberto, un´altra delle strade solo cinesi di Roma. Su un neon c´è scritto Xin Shin, dentro sono in due, fratello e sorella che vendono niente a nessuno. Il locale è pieno di borse, di scarponi, piatti, giocattoli, televisori. Lei al computer e lui è sprofondato in una poltrona. Lei alza gli occhi e racconta: «Noi abbiamo paura, per strada ci insultano, ci trattano male, l´altra settimana hanno fatto uno scippo a una mia amica: così, solo perché era cinese». Lui non apre bocca. Poi si alza e bisbiglia: «Io non voglio parlare di queste cose, io non so niente, non so nulla di quello morto sulla Casilina». Poco più su c´è la parrucchiera Xin Chao. È piena di donne. Shampoo e piega 8 euro. Shampoo, piega e taglio 10 euro. Donne sospettosisime. Dice una: «Chissà perché l´hanno ucciso in quel modo». Dice un´altra: «Non c´è lavoro, noi stranieri siamo troppi e molti italiani si arrangiano, diventano criminali. Magari li prenderanno e diranno che sono sbandati, drogati..».
Via Rattazzi, via di Sant´Antonio all´Esquilino, via Emanuele Filiberto. I nomi dei negozi sono mischiati come i caratteri. Vita bella. Piccola Cina. Lago Azzurro. Ruye Sciarpe. È una linea continua di insegne, di money transfer, di internet cafè. Una folla che va e viene in ogni angolo tranne che nei grandi magazzini di abbigliamento. Lì dentro non vola una mosca. Mai un cliente. Mai una vendita al dettaglio. E sui marciapiedi davanti alle vetrine i Suv dei padroni , Bmw, Mercedes, Volvo. Suzuki. È l´altra faccia della Chinatown romana. Quella più nascosta che poi è anche quella più visibile. Sono lì in bella mostra automobili da 80 mila e da 100 mila euro e non un´anima viva fra i manichini spogli. Sembrano intoccabili questi signori delle griffe fasulle. Altri misteri di una Chinatown che sta scivolando nel terrore.

il Riformista 7.1.12
La questione cinese a Roma per il sindaco dell’insicurezza
I due morti della comunità orientale segnano il fallimento del primo cittadino eletto all’insegna della “tolleranza zero”. Interviene la ministra Cancellieri: da oggi 130 carabinieri e agenti in più in strada
di Sonia Oranges


«Libereremo Roma da paura, degrado e povertà»: parola di Gianni Alemanno, sindaco della Capitale dove mercoledì notte due rapinatori hanno sparato in faccia a Joy, una bambina di appena sei mesi, che era in braccio al padre, Zhou Zeng, commerciante cinese di 31 anni che rincasava insieme con la moglie a Torpignattara. Peccato che la perentoria promessa del primO cittadino sia stata pronunciata a febbraio del 2008, all’indomani della sua candidatura al Campidoglio, conquistata proprio cavalcando il tema della sicurezza e della tolleranza zero. Da allora, però, Roma è stata imbrattata da una lunga e sempre più densa scia di sangue, fino al maledetto proiettile dell’altra notte che ha ucciso la bambina e il padre, e ferito la madre. Mentre i due assassini sono scappati a mani vuote, senza neppure portar via l’incasso della giornata, che le vittime avevano con sé. «La pazienza è finita, inadeguate le misure adottate fino a oggi. Ci sono troppa droga e troppe armi nei quartieri a rischio. Le belve criminali vanno fermate»: Alemanno ieri è tornato a mostrare i muscoli, con parole roboanti e vocabolario da duro, arrivando a chiedere «misure emergenziali per riprendere il controllo del territorio, debellando un tessuto criminale che in questi mesi è cresciuto oltre ogni misura». Ma quella bimba uccisa da due disgraziati, racconta che mentre il Campidoglio si occupava di allestire dei ghetti in cui rinchiudere rom e immigrati, nel tessuto sociale qualcosa si rompeva, si stemperavano i contorni di quel confine tra il lecito e l’illecito persino nella mentalità criminale. Un confine oltre il quale è stato possibile puntare un revolver contro una neonata, e urlare: «Vi ammazzo come cani!». A pronunciare queste parole, però, non sono stati i tanto te-
muti immigrati rumeni, ma due romani. Probabilmente frequentatori abituali del quartiere, che conoscevano il bar delle vittime. Rapinatori per caso, per noia o per disperazione, di certo non professionisti vista la disorganizzazione. Forse tossicodipendenti. Forse arrabbiati con quegli “stranieri” che si guadagnavano da vivere e abitavano in un quartiere popolare, uno di quelli destinati a trasformarsi come il vicino Pigneto, ma ancora territorio che le vecchie categorie sociali avrebbero definito proletario.
Se, però, è ancora troppo presto per addentrarsi nelle ragioni del delitto, il duplice assassino ha aperto un varco nella comunità cinese, una delle più numerose ma anche la più chiusa. E da anni accusata di colonizzare città e centri storici, importando, non sempre legalmente, un modello di lavoro in cui i diritti non sono previsti. Ora, però, i cinesi d’Italia propongono un’altra versione del loro mondo imprenditoriale. «Non c’è sicurezza per nessuno, non soltanto per i cinesi, ma noi siamo più indifesi spiegava ieri il presidente dell’Associazione commercianti cinesi di Roma, Lin Jian Zhong C’è un problema di lingua, spesso molti di noi rinunciano a fare denuncia per questo; invece altri rinunciano perché hanno paura di ritorsioni». Già, perché secondo quanto denunciato dal presidente onorario di Associna, Marco Wong, diversi negozianti avrebbero ricevute telefonate di minaccia di dalle prime ore di ieri mattina: «Se non paghi, ti faccio fare la fine di quello lì». Tanto che l’ambasciata cinese ha sollecitato formalmente l’Italia «a prendere tutte le misure idonee a tutelare la sicurezza personale e patrimoniale dei cittadini cinesi».
La questione, però, oltrepassa i confini della comunità cinese e riguarda una criminalità che sembra diffondersi a macchia d’olio. «Sappiamo che ogni giorno a Roma sono rubate in media tre pistole, tutto materiale rimesso in circolo nel mercato illegale», segnalava ieri il delegato della sicurezza del Campidoglio Giorgio Ciardi. D’altra parte, i 12 agguati e le 33 vittime dello scorso anno, parlano da sé. E se il vicesindaco Sveva Belviso, al termione di un vertice ad hoc svoltosi al Viminale, ha annunciato che «da domani 130, tra carabinieri e polizia, saranno in servizio per potenziare la sicurezza di Roma», in campo è scesa anche la ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri: «Lo Stato è presente e lo dimostrerà».

l’Unità 7.1.12
Se Auschwitz diventa un’agenzia pubblicitaria
di Moni Ovadia


Alcuni esponenti del governo ultrareazionario in carica in Israele tra i quali il ministro della difesa Ehud Barak hanno espresso indignazione e costernazione per la manifestazione indetta da frange estremiste di
haredim, quelli che vengono genericamente definiti ultraortodossi, che nel corso della protesta hanno messo in scena una grottesca rappresentazione «travestendosi» da vittime della Shoà.
Per conferire drammaticità alla loro miserabile mascherata, hanno cucito la stella di David gialla sugli abiti dei loro bimbi, mentre gli adulti hanno indossato la divisa a strisce bianche e blu degli internati dei lager nazisti mimando da ultimo, davanti ai poliziotti israeliani, i gesti di resa degli ebrei nel Ghetto di Varsavia di fronte ai mitra spianati delle SS.
Lo scopo della sceneggiata, detto in sintesi, è quello di instaurare progressivamente nello stato di Israele, una sorta di shaaria biblica basata su un'interpretazione perversa e fanatica della Torah condita, fra le altre cose, di furore sessuofobico.
Qualcosa di molto simile alla shaaria intesa nell'accezione fanatica dell'estremismo islamico wahabita o salafita. Ma perché stupirsi dell'esito naturale di una politica perseguita con determinazione dalla destra israeliana, ovvero il ricatto degli ultraortodossi in cambio del potere? Quanto alla strumentalizzazione della Shoà, continuamente usata come una clava propagandistica da Bibi & Co, con gli haredim, i più titolati, raggiunge come era ovvio l'apice.
In fondo la parodia di se stessi è sempre efficace. Non rimane che attendere l'apertura a Gerusalemme di un’agenzia pubblicitaria di nome Auschwitz.

l’Unità 7.1.12
Sbarcati nell’isola dopo le rivolte di febbraio di loro si sono perse le tracce. Li cerca un’associazione
Versioni disparate: fuggiti verso la penisola, tornati in patria, morti in mare durante il ritorno
Il mistero dei tunisini: in 200 a Lampedusa scomparsi nel nulla
Arrivarono a Lampedusa quando la Tunisia era infiammata, nell’inverno scorso. Ma duecento di loro sono poi spariti nel nulla. Che fine hanno fatto? Un quotidiano tunisino ha acceso la miccia.
di Luigi Manconi, Valentina Brinis Valentina Calderoni


Questo è «il misterioso caso dei tunisini scomparsi». Che, poi, dietro ci sia una indecifrabile bizzarria della cronaca o una strage efferata, un imbroglio amministrativo o una scelta consapevole, una storia di estrema marginalità sociale o una complicata macchinazione diplomatica o, infine, una suggestiva leggenda metropolitana: tutto ciò è ancora da accertare. Ma il dato di partenza è incontestabile: da mesi un numero rilevante di tunisini, sbarcati a Lampedusa nei giorni successivi alle rivolte popolari del febbraio del 2011, si è come volatilizzato
nel nostro paese, non ha più dato notizie di sé, non è stato più segnalato e identificato, non ha più rapporti con i familiari rimasti in patria.
Dove sono finiti, quei tunisini?
Una domanda a cui vuole dare una risposta Rebecca Kraiem. La donna, rifugiata in Italia da 23 anni e dirigente dell’associazione tunisina “Giuseppe Verdi”, è alla ricerca dei suoi connazionali dallo scorso marzo. Gira l’Italia in lungo e in largo, dal Consolato di Palermo all’Ambasciata di Roma fino ad alcuni centri di identificazione e di espulsione. Ma questo suo lungo girovagare non ha prodotto ancora risultati significativi, non avendo trovato alcun supporto presso gli organismi di rappresentanza del governo tunisino in Italia.
VERSIONI DA PROVARE
Ma in Tunisia di questa vicenda si parla e non solo all’interno delle mura domestiche o nelle sedi politiche. Il 29 dicembre il giornale Assabah ha pubblicato un articolo che riporta i nomi di cento cittadini di cui non si ha più notizia; e una ricostruzione assai vaga della presunta dinamica che avrebbe portato gli scomparsi, dopo aver toccato il suolo italiano, a essere respinti e, infine, messi a morte nel tratto di mare tra l’Italia e l’Africa. Questo articolo, pur privo di riscontri oggettivi, ha avuto un effetto devastante sui familiari che continuano ad attendere invano informazioni capaci di smentire una versione così tragica del destino dei loro cari.
Ed è qui il cuore nero di questa vicenda. L’assoluta assenza di informazioni, da parte delle istituzioni italiane e, ancor prima e ancor più, da parte di quelle tunisine.
PROBLEMI INTERNI
In quel paese, dopo le rivolte dei mesi scorsi, l’assetto politico è mutato e si è insediata l’Assemblea Costituente. Ma, all’interno delle ambasciate e dei consolati, non si è realizzato un corrispondente cambiamento ed è rimasta pressoché inalterata a tutti i livelli la composizione del personale, costituito da sostenitori del precedente regime.
Questi ultimi restano attivamente ostili sia a quanti hanno partecipato alle manifestazioni di piazza, sia a quanti dalla Tunisia sono fuggiti. In un primo momento il Governo Italiano ha concesso una protezione temporanea ai tunisini sbarcati in Italia entro il 5 aprile 2011, rinnovandola dopo sei mesi. Ma tutti coloro che sono arrivati dopo quella data hanno validi motivi per temere il rimpatrio. Infatti la Tunisia non è più considerata un paese dove vengono conculcati i diritti umani e, dunque, dal quale si possa fuggire per ottenere altrove protezione. Tutto ciò potrebbe avvalorare l’ipotesi che i tunisini “spariti” siano trattenuti in alcuni Cie in Italia ma, dal momento che potrebbero aver fornito generalità fittizie (per paura di essere identificati come tunisini e quindi rimpatriati), rintracciarli è diventata un’impresa davvero ardua. Questa ipotesi ha trovato riscontro, seppure parziale, nell’ultimo viaggio di Rebecca Kraiem a Torino.
Qui, all’interno del Cie di Corso Brunelleschi, due tunisini hanno riconosciuto, in una foto mostrata loro, un connazionale scomparso che, circa cinque mesi fa, sarebbe passato per quel centro e, poi, sarebbe stato trasferito a Palermo. Sarà pure una traccia minima, ma vale la pena approfondirla: è in gioco la sorte di decine e decine di esseri umani. Chi scrive ha provveduto a informare dettagliatamente il ministro dell’Interno di questa vicenda così inquietante e, insieme, così evanescente. Non è affare che riguardi solo la Tunisia.

l’Unità 7.1.12
L’Ungheria nella bufera
«Siamo pronti a tutto per un accordo con l’Ue»
«È spazzatura»: Fitch declassa il rating di Budapest. Riunione d’emergenza nell’ufficio del premier: «Subito il prestito Fmi». L’Europa incalza sui diritti civili
di Roberto Brunelli


Spazzatura. Sarà un caso, ma la svolta è arrivata poco prima che il rating dell’Ungheria venisse degradato al livello di junk, spazzatura. Da BB+ a BBB-, con i cordiali saluti dell’agenzia Fitch. E sarà pure una coincidenza che il vertice d’emergenza convocato ieri di prima mattina dal premier ungherese Viktor Orban per piegarsi a ben più miti consigli nei confronti dell’Unione europea si concludesse mentre a Bruxelles si stava decidendo di aprire una procedura d’infrazione nei confronti di cinque Paesi europei che ancora non hanno formato le «prove necessarie» atte a dimostrare che stanno prendendo le misure atte a correggere drasticamente i loro deficit, prima di tutti, l’Ungheria. A seguire, Belgio, Cipro, Malta e Polonia, accomunati dall’avere un deficit superiore al tetto del 3 per cento del Pil.
Mai come in questo caso, in Europa si intrecciano la discussione sui valori democratici fondanti del Vecchio continente e le implicazioni della violenta tempesta economica che sta sconvolgendo l’Eurozona. «Cercheremo un accordo al più presto con il Fondo monetario e l’Ue», ha dichiarato un Orban quanto mai compito ieri alla conclusione del suo inedito «gabinetto di crisi», dopo che giovedì i mercati erano tracollati in buona parte proprio sulla scia della fuga dai titoli stato magiari ed il capitombolo del fiorino. Una situazione tale da far gridare i più compassati analisti al «panico» di fronte alla tutt’altro che remota prospettiva di bancarotta dell’Ungheria.
E così, eccoli qua, tutti intorno ad un tavolo: insieme al premier c’erano il ministro dell’economia e delle finanze Gyorgy Matolcsy, l’inviso (da Orban) governatore della Banca centrale Andras Simor, il negoziatore con il Fmi Tamas Fellegi ed il ministro della presidenza del consiglio Mihaly Varga. In ballo c’è ovviamente la richiesta di prestito (15-20 miliardi di euro) a Fmi e Ue, che fino a pochissimi giorni fa il premier snobbava vistosamente, «congelato» sulla scia della nuova Costituzione ungherese di stampo marcatamente ultra-nazionalista e antidemocratica, a cominciare dall’assoggettamento governativo della Banca centrale, per finire con un pesantissimo giro di vite sulla libera informazione e sui diritti civili. È la stessa Fitch, nelle motivazioni del suo downgrading, a mettere insieme i due elementi: la decisione sul rating, afferma l’agenzia, riflette ovviamente «l’ulteriore deterioramento della posizione di bilancio del Paese, delle sue condizioni di rifinanziamento e delle prospettive economiche», ma questo anche a causa di politiche «non ortodosse» che «stanno minando la fiducia degli investitori internazionali e compromettendo la possibilità» di un nuovo pacchetto di aiuti.
Com’è, come non è, guarda caso, Budapest inizia ad innestare una vistosissima inversione di marcia. «Siamo pronti ad una collaborazione stretta fra governo e Banca centrale», ha detto Orban, che fino a ieri l’altro ha cercato ogni mezzo per esautorare il governatore Andras Simor, ora fieramente presente al suo fianco. E ancora. «Siamo d’accordo sul fatto che l’interesse del Paese sia un’intesa al più presto possibile con il Fondo monetario. Faremo di tutto per un accordo. Il negoziatore Fellegi partirà domani stesso per Washington». Et voilà.
Un altro passo volto a rassenerare i mercati annunciato ieri a Budapest è la concertazione permanente fra il governatore e il ministero dell’economia in termini di un continuo monitoraggio dei fondamentali economici, e soprattutto la disponibilità, messa più o meno esplicitamente sul tavolo, di modificare la legge sulla Banca centrale, la cui indipendenza, secondo Fmi e Ue, risulta gravemente minata. Tanto per intendersi, per Bruxelles è proprio la modifica di questa legge il «prerequisito indispensabile» per ogni negoziato. Orban, secondo il quale ancora tre giorni fa un mancato accordo «non sarebbe stato una tragedia», ora sembra essersene accorto.
Sennonché, la tenaglia intorno al primo ministro si fa sempre più stretta. Anche sul fronte interno. La sinistra chiede esplicitamente le «dimissioni pacifiche» di Orban, «per evitare la catastrofe economica». Il settimanale Heti Világgazdaság pubblica una lettera di nientemeno che Vivian Reding, commissario europeo per i diritti fondamentali: Bruxelles, minaccia la Reding, utilizzerà «tutti i mezzi necessari» per garantire i diritti fondamentali e i valori europei in Ungheria. Ora il panico non regna più solo sui mercati, ma anche a casa Orban.

il Fatto 7.1.12
Revisionismo cileno
Piñera riscrive i libri di storia: Pinochet? Non era dittatura
di Maurizio Chierici


In Cile la parola “dittatura” è sparita dai libri della scuola dell’obbligo. E i governi Pinochet diventano innocenti governi militari. Ritocco annunciato. Piñera, primo presidente della destra dalla caduta del generale, è cresciuto in una famiglia al servizio della dittatura. Fratello ministro dell’Economia addottorato alla scuola di Chicago’s Boys il cui liberismo selvaggio ha pietrificato la Santiago del dopo Allende. È rimasto fedele al generale fino al penultimo giorno proprio come il ministro della Cultura detronizzato l’estate scorsa dalla rivolta degli studenti guidati da una bella ragazza dagli occhi verdi: Camila Vallejo. Per due anni ha occupato le piazze contro la privatrizzazione dell’insegnamento disegnata da Joaquín Lavín, consigliere economico di Pinochet, già sindaco della Santiago dei notabili con l’orgoglio dell’appartenenza all’Opus Dei. Non accettava che il suo generale tanto amato e i parenti e gli amici in divisa fossero finiti negli zoo dei dittatori. Ecco il lungo avvicinamento alle parole da sfumare.
La generazione che Piñera e il suo governo sconsolatamente definiscono perduta, ha invece studiato la storia sui testi rinnovati dal presidente Lagos dieci anni fa. Sa bene cosa è successo e ha imparato a non fidarsi dei potenti impegnati ad addormentare le future generazioni così come Pinochet aveva addormentato le generazioni prima. Nei 27 anni segnati dalla sua autorità, la Storia del Cile, testo per le scuole primarie, edizione Zig Zag dell’Università Cattolica ha accompagnato con 37 edizioni, un milione di copie, gli allievi sui banchi fino a 14 anni.
L’AUTORE Salterio Millar scrive con tono amabile che “ogni avvenimento viene evidenziato” in modo “da far discendere un insegnamento morale”. Per capire quale morale: ecco come ricorda la morte di Allende: “La sua gestione politica aveva portato il paese a una grave crisi istituzionale. La maggior parte della gente e della stampa chiedeva al governo di tornare a casa per impedire l’avvento di una società socialista. Disordine e violenze avevano superato limiti accettabili. Questa era la situazione quando l’11 settembre 1973 le forze armate e i carabinieri per impedire gli scontri sanguinosi di una possibile guerra civile, hanno deciso di assumere il governo del Paese chiedendo al presidente Allende di andarsene. Allende non si è fidato delle garanzie personali che gli erano state offerte. Ha preferito suicidarsi nel palazzo della Moneda”. Fino al 2004 era il testo sul quale i ragazzi continuavano a preparare gli esami fino a quando il governo Lagos (primo socialista dopo Allende a tornare alla Moneda) ha distribuito una “storia” meno reticente e con tutte le verità. Più coltivata nelle analisi e confortata da numeri e statistiche, era la Nuova storia del Cile, manuale universitario sempre pubblicato dall’Università Cattolica, la più importante del paese dopo che Pinochet aveva disgregato ogni istituto pubblico. Il testo per nuovi laureati faceva capire con quali idee la classe dirigente veniva preparata ad affrontare la vita. 574 pagine, fitte, fitte, allargavano le stesse parole del testo dedicato ai ragazzi. Rottura sociale e fallimento politico del governo Allende. La chiesa prova a mediare ma non ce la fa. Presidente Allende che si toglie la vita e giunta militare che “assume il potere per rimettere in vigore le libertà istituzionali, far funzionare una giustizia corretta e salvare la popolazione dal totalitarismo marxista-leninista”. Poi Pinochet diventa presidente e “viene autorizzato a concentrare provvisoriamente un certo numero di poteri. Ma a differenza dei regimi totalitari di carattere fascista e comunista, i militari seguivano un impegno molto chiaro: eliminare le cause che avevano contribuito alla decadenza e alla disgregazione sociale”. È la sola volta che viene usato il verbo “eliminare”, parlando di cause che volevano dire migliaia di persone.
È LA CULTURA sulla quale si è formata la nuova classe dirigente. Ma l’arresto di Pinochet e l’invasione televisiva di Cnn, Cbs e altre catene americane con programmi in lingua spagnola, hanno riscritto la storia. I giovani cileni scoprono le realtà nascoste e ne sono disorientati. Ma 8 anni di informazioni corrette crescono una società dalle idee chiare, ragazzi guidati da una leader che scuote le piazze contro ogni ipocrisia. L’altro ieri le agenzie che misurano la popolarità dei protagonisti abbassano Piñera al 34%, mai tanto male un presidente negli ultimi 10 anni. Meglio Michelle Bachelet, ex capo dello Stato, di centrosinistra: 50; ma la sorpresa è Camila Vallejo: 44, la ragazza più amata del Paese (anche se ha perduto la guida degli studenti). L’impressione è che dopo le prossime elezioni la parola “dittatura” ritornerà ad accompagnare Pinochet sui libri di scuola.

il Fatto 7.1.12
La strana maledizione dei Navy Seals
Stress post-traumatico e incidenti
L’amaro destino dei Rambo anti-Bin Laden
di Giampiero Gramaglia


Fra i militari di ritorno dal fronte, i “rambo” super-addestrati delle squadre speciali sono quelli che più soffrono di Ptsd, la sigla che in italiano sta per disturbo post-traumatico da stress: una “malattia” già studiata dopo la Grande Guerra e la WW2, ma cui il Vietnam – a partire dall’intenso Tornando a casa di Hal Ashby, con Jon Voight e Jane Fonda – e l’Iraq hanno conferito dignità letteraria e cinematografica. Garry B. Trudeau vi dedica alcune delle strisce più amare del suo Doonesbury.
I Navy Seals sono gli uomini delle squadre speciali della U. S. Navy: sono stati loro, il 1 maggio 2011, a scovare e uccidere, nel suo covo di Abbottabad, in Pakistan, Osama bin Laden, il fondatore e il capo della rete terroristica al Qaida. Spesso eroi nelle cronache di guerra; e talora disadattati nelle cronache dopo il ritorno a casa: inclini alla violenza, in difficoltà nel ritrovare gli affetti “di prima” e la vita “normale”.
Qualche volta, sono tragedie vere: famiglie in frantumi, comportamenti asociali, sparatorie. Altre, sono episodi minori: più smargiassate da capitan Fracassa, che fanno dubitare della qualità dell’addestramento, che drammi, anche se poi lo diventano. È il caso del militare di 22 anni rimasto anonimo che lotta contro la morte in un letto d’ospedale nei pressi di San Diego, dopo essersi “accidentalmente” sparato alla testa con la sua pistola per fare colpo (letteralmente, ci è riuscito) su una ragazza appena conosciuta in un bar. I due avevano bevuto, lui decisamente troppo. Portatosi a casa la ragazza, il soldato non ha trovato di meglio che mostrarle le sue armi: lei, più lucida, s’è spaventata e gli ha chiesto di metterle via. E lui, per mostrarle che non c’era pericolo, s’è puntato alla testa la pistola, che credeva scarica, e ha premuto il grilletto: il colpo era in canna ed è partito. Pochi giorni or sono, i giornalisti americani avevano scelto l’uccisione di Osama come “top story” del 2011, davanti al terremoto in Giappone, alla Primavera araba e alla crisi del debito in Europa (messa prima delle difficoltà economiche degli Stati Uniti). Ed è nel pieno la polemica su una fuga di notizie – presunta – gestita dalla Casa Bianca per alimentare con un film sul raid di Abbottabad l’immagine vincente del presidente Obama (la pellicola uscirà durante la campagna elettorale).
Gli uomini delle squadre speciali non sono solo protagonisti di storie cruente, come in agosto, quando 22 Navy Seals morirono nello schianto in Afghanistan di un elicottero Chinook, forse abbattuto dai talebani: molti facevano parte del Team 6, quello dell’azione contro Osama, anche se nessuno vi aveva preso parte. A volte sono coinvolti in storie strappalacrime: commosse l’America la foto di Hawkeye, occhio di falco, il cane di uno dei seals deceduti su quel Chinook, immobile e prostrato sulla bara del padrone avvolta nella bandiera a stelle e strisce. “Era lui il suo figliolo”, commentò una cugina del soldato morto, più a suo agio con gli animali che con le persone.

il Fatto 7.1.12
“Conosco la mente di Dio, ma il mistero sono le donne”
Conversazione con l’astrofisico Stephen Hawking,
il più grande scienziato vivente che domani compirà 70 anni
di Donna Bowater


È nato l’8 gennaio 1942 il più grande scienziato vivente, l’astrofisico e cosmologo Stephen Hawking. Da circa mezzo secolo vive su una sedia a rotelle con il corpo devastato da una malattia che non gli consente più né di parlare né di muoversi. Le conseguenze della malattia sono evidenti, ma non suscitano compassione; stupore piuttosto. Nel 1963, l’ambizioso e brillante studente di Cambridge, fu colpito da una forma di Sla. Gli dettero due anni di vita, “non di più”. Servendosi di un computer che sintetizza la sua voce, a partire da impercettibili movimenti che fa con le guance, risponde: “Da 49 anni convivo con la morte, con l’idea di una morte prematura. Non ho paura di morire, ma non ho nemmeno fretta. Ho ancora un mucchio di cose da fare”. L’università di Cambridge si prepara a festeggiarlo con gli onori riservati a uno dei suoi allievi e professori più illustri. Alla conferenza organizzata dalla prestigiosa università interverranno 27 relatori che parleranno di buchi neri, cosmologia e fisica. Hawking ha visitato con la sua mente l’intero universo e ha sconfitto le leggi della medicina per poter riscrivere quelle della fisica. È stanco, non ha molta voglia di parlare, ma fa sempre sfoggio del suo leggendario senso dell’umorismo. Sulle pareti della sua stanza un po’ della sua vita: una lettera di Michelle Obama, immagini di un suo viaggio nell’isola di Pasqua e in Cina e una bella foto di Marilyn Monroe. “Quella è una mia ex fiamma”, dice Hawking e sembra di vederlo sorridere.
MA COME ha tenuto duro per così tanti anni? “Inizialmente – racconta – mi ha aiutato molto la musica di Wagner che ascoltavo per ore e ore. Non è affatto vero che alzassi il gomito per farmi coraggio. Lo hanno scritto molte volte, ma non è vero. Un bella spinta me la diede l’incontro con una studentessa di lingue, Jane Wilde, che divenne mia moglie nel 1965, la prima moglie per essere precisi”. In campo scientifico Stephen Hawking ha raggiunto la notorietà con la scoperta dei buchi neri e da anni insegue il sogno di fondere in un’unica teoria il molto grande (la relatività generale) con il molto piccolo (la meccanica quantistica) per dare vita alla cosiddetta gravità quantistica. Quale è stato il suo maggiore errore? “Per molto tempo ho pensato che all’interno dei buchi neri andassero distrutte tutte le informazioni. Poi ho cambiato idea. Ed è stato questo il mio maggiore errore, per lo meno in campo scientifico”. Quale scoperta rivoluzionerebbe più di ogni altra la nostra concezione dell’universo? “Probabilmente la scoperta delle particelle supersimmetriche che potrebbe esserci regalata dal Large Hadron Collider di Ginevra”. Quella di Hawking è stata una vita di successi in campo scientifico, ma non priva di cambiamenti sul versante personale. Da Jane ebbe tre figli – Lucy, Robert e Tim – ma si separarono nel 1991. Perché? “A ripensarci oggi, in parte per motivi religiosi. Una delle conseguenze della cosmologia quantistica è che la creazione e l’evoluzione dell’universo si possono spiegare semplicemente con le leggi della scienza senza ricorrere a un creatore”.

La Stampa 7.1.12
Intervista
“L’uomo è religioso dai tempi dell’australopiteco Lucy”
Il neo-cardinale Ries: “Il cristiano comprenda le altre culture”


L’uomo è stato fin dalla sua origine uomo religioso». Il sacerdote belga Julien Ries, 92 anni, a lungo docente all’università cattolica di Lovanio, è il fondatore di un nuovo campo del sapere, l’antropologia religiosa fondamentale. Fautore del dialogo tra le religioni, Ries sarà creato cardinale il prossimo 18 febbraio. La sua esistenza è stata dedicata agli studi sul sacro nelle diverse culture: ha una bibliografia immensa e la sua opera omnia viene pubblicata in italiano dall’Editoriale Jaca Book.
Lei arriva alla porpora dopo una vita di ricerca: è stato tra i primi a insistere sulla dimensione religiosa come originaria nell’uomo. Il senso religioso è davvero connaturato?
«Sono molto d’accordo con il paleoantropologo Yves Coppens, lo scopritore di Lucy, il quale da anni ripete che l’uomo è da subito uomo religioso».
Come si documenta questa affermazione?
«Consideriamo questo uomo religioso quale lo conosciamo attraverso i fatti e i gesti della storia: se analizziamo le sue pitture ritrovate in centinaia di grotte, sinora scoperte, le sue migliaia di incisioni rupestri, se esaminiamo il suo comportamento riguardo ai defunti, se cerchiamo di interpretare i gesti della sue mani levate verso la volta celeste – il “Ka” degli antichi egizi – siamo obbligati a pensare a un’esperienza di relazione vissuta in maniera cosciente dall’uomo arcaico con la realtà misteriosa e ultra terrena».
Qual è il ruolo dei testi sacri delle varie religioni?
«I libri sacri dell’umanità costituiscono un prodigioso patrimonio che storici e altri specialisti tentano di analizzare per comprendere il discorso con cui l’uomo religioso e simbolico ha tradotto la propria esperienza. L’insieme di questo discorso è coerente dal Paleolitico fino ai nostri giorni. Cosa che ci porta a pensare a un’unità dell’esperienza spirituale dell’umanità».
Oggi certi simboli religiosi sembrano dividere piuttosto che unire. È possibile la convivenza tra religioni differenti nelle nostre società?
«Il cristiano è tenuto a comprendere e a beneficiare dell’apporto delle altre culture. I padri della Chiesa avevano già compreso questo. Da ciò la ricchezza dell’epoca ellenistica per la cultura cristiana dei primi secoli e la grande importanza del Rinascimento. La sua domanda sottintende l’obiezione di Claude Levis Strauss che ha tentato di determinare il funzionamento dello spirito umano rifiutando però di cercare nei miti un senso che sarebbe rivelatore delle aspirazioni dell’umanità. Per lui i miti non dicono nulla sulle origini dell’uomo e sul suo destino. La sua ricerca sfocia in una visione completamente materialistica della cultura. Siamo così in presenza di un vero pessimismo».
Che novità ha portato il cristianesimo nella storia religiosa dell’umanità?
«Nel suo discorso costruito sotto forma di parabole, Gesù riprende in parte il simbolismo cosmico e lo pone al servizio dell’annuncio del Vangelo. Vi aggiunge allegorie tratte dalla vita quotidiana. È una teofania nel senso pieno del termine. E questa stessa esistenza è la più grande rivoluzione religiosa della storia. Cristo, dopo avere inviato lo Spirito sugli apostoli, mediante il suo corpo che è la Chiesa continua ad essere presente nella storia».
Quale considera essere la sua scoperta scientifica più importante?
«L’aver individuato la possibilità di costruire un nuovo campo del sapere, l’antropologia religiosa fondamentale. La prima sperimentazione di questa costruzione è stata organizzare su richiesta del mio editore Jaca Book, il Trattato di antropologia del sacro a cui hanno collaborato un centinaio di studiosi e in cui si documenta che il concetto di homo religiosus è operativo e fondamentale per la ricerca sulle religioni e sulle culture. Un lavoro che mette in evidenza l’uomo religioso e la sua esperienza del sacro basandosi sulle tre costanti dell’esperienza stessa: il simbolo, il mito e il rito. L’antropologia fondamentale affronta tutto questo e ci apre nuovi orizzonti sull’uomo anche in tempi di crisi come il nostro».
Che effetto le fa essere nominato cardinale a 92 anni?
«La nomina a cardinale mi riempie di gioia. Non mi riempie di gioia, invece, avere l’età che ho! ».

La Stampa 7.1.12
Il concistoro

Se la Curia piglia tutto
di Andrea Tornilli

Il quarto Concistoro del pontificato di Benedetto XVI si terrà il prossimo febbraio con la creazione di 22 nuovi cardinali. Diciotto dei 22 nuovi cardinali hanno meno di 80 anni e dunque sono votanti in caso di conclave. La decisione del Papa conferma una tendenza che si è manifestata negli ultimi anni: aumenta il peso della Curia romana e in particolare dell’Italia.
Nella lista che il Papa ha letto ieri, infatti, ben dieci porporati con diritto di voto appartengono alla Curia, cinque di questi sono ex nunzi apostolici. Gli italiani contenuti nell’elenco sono sette, uno soltanto dei quali, Giuseppe Betori, è arcivescovo di una città del nostro Paese. Tutti gli altri ricoprono incarichi nei dicasteri e negli uffici vaticani. In caso di conclave, gli italiani elettori del nuovo Papa sarebbero trenta su 125.
A fronte di questa massiccia presenza curiale – nessuno di coloro che Oltretevere attendevano la berretta rossa è stato deluso – balzano agli occhi delle assenze quanto mai significative: quello del prossimo febbraio sarà un Concistoro senza neanche un cardinale africano, nonostante il successo del viaggio del Papa in Benin e la vitalità dimostrata dalle Chiese del Continente nero. Neanche una berretta rossa va ai vescovi residenziali dell’America Latina, in quello che in altri tempi fu definito «Continente della speranza», dove risiede più della metà dei cattolici del mondo, dove il Papa si recherà tra qualche mese e dove è già in programma la Giornata mondiale della Gioventù del 2013. Nessun vescovo del Medio Oriente diventa cardinale.
A parlare sono le cifre. Dopo il Concistoro i cardinali votanti europei saranno 67, che aggiunti ai nordamericani e a quelli dell’Oceania portano a ben 83 gli elettori del Papa appartenenti al Nord del mondo. America Latina, Africa e Asia messe insieme arrivano ad appena 41 elettori.
Notevolissimo, in questi equilibri, il peso della Curia: dopo il 18 febbraio, ben 44 dei 125 cardinali elettori, cioè più di un terzo, lavora o ha appena terminato di lavorare nei dicasteri e negli uffici romani.
Il quarto Concistoro di Benedetto XVI segna anche il culmine dell’influenza del suo Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, che ha ottenuto la nomina e la designazione cardinalizia di prelati a lui molto vicini. Per giustificare una tale preponderanza di curiali, è stata applicata la regola non scritta – adottata di volta in volta in modo ferreo o con eccezioni a seconda delle circostanze – che prevede di non dare la porpora agli arcivescovi di diocesi cardinalizie che abbiano il predecessore pensionato con meno di ottant’anni e dunque ancora votante in conclave. Così facendo si sono lasciati senza berretta i pastori di grandi diocesi come Rio de Janeiro, Santiago del Cile, Bogotá, Filadelfia, Los Angeles, Manila, Bruxelles. In base alla stessa regola è stato escluso anche l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia. Non esistono regole non scritte, invece, per chi sta in Curia: anche capi dicastero nominati da qualche mese o da poche ore in ruoli curiali cardinalizi hanno ottenuto immediatamente la porpora.

Corriere della Sera 7.1.12
Teatro «eretico», la mobilitazione dei cattolici

di Paola D'Amico

MILANO — La protesta contro il «teatro blasfemo» del regista Romeo Castellucci corre sul web da giorni. La prima della pièce «Sul concetto di volto nel Figlio di Dio» è in cartellone al Teatro Franco Parenti il 24 gennaio. E per quel giorno si annuncia una mobilitazione massiccia di cattolici da tutta Italia. Gli stessi che da giorni inondano di lettere la regista Andrée Ruth Shammah, direttrice del Parenti, chiedendole di togliere dalla programmazione lo spettacolo, contro cui lo scorso autunno, a Parigi, si erano già mobilitati 8 mila cattolici. Ieri, una lettera appello è stata inviata al cardinale Angelo Scola. Che viene chiamato in causa anche da Roberto de Mattei, il discusso storico del Concilio, spesso censurato per le sue idee e per la sua militanza cattolica, vincitore del prestigioso premio Acqui: «Sant'Ambrogio passò alla storia per aver sfidato l'Imperatore Teodosio, perché il cardinale Scola non dovrebbe sfidare il nuovo impero, quello dei media, pronto a scatenarsi contro chiunque alzi la voce contro la blasfemia».
Non nasconde disagio la Shammah, attenta a non cadere nella trappola di chi vorrebbe da questo caso aprire un dibattito sulla libertà di espressione. «L'ultima delle mie intenzioni è nascondermi dietro la libertà di parola. Non voglio offendere nessuno — spiega —. Il Teatro Franco Parenti ha una storia di attenzione alle voci più tormentate e complesse della nostra cultura contemporanea: da Testori a Pasolini, fino a un prossimo lavoro su Giobbe, attualmente in preparazione. Ogni pensiero, ogni identità, ogni espressione viene trattata con il massimo rispetto, nella convinzione che la libertà di espressione non debba mai prevalere sulla inderogabile necessità di non ledere le sensibilità, le storie, le fedi. La diffusa preoccupazione potrebbe facilmente dipendere dalla circolazione di informazioni incomplete o non corrette. L'edizione di "Sul concetto del volto del Figlio di Dio", che sarà presentata a Milano — aggiunge la regista —, non può in alcun modo essere considerata blasfema. La scena più discussa, nella quale bambini scagliano finte granate (erroneamente interpretate come escrementi) in direzione del ritratto di Cristo di Antonello da Messina, è stata tagliata, già due anni fa, in occasione degli accordi per l'adattamento legato all'ospitalità del teatro. Da Roma, però, si organizzano i cattolici di Militia Christi, i movimenti per la vita, Italia Cristiana, Ora et Labora, con veglie di preghiera, processioni, messe di riparazione «in forma straordinaria». Don Pier Paolo Petrucci, prossimo Superiore del distretto italiano della Fraternità San Pio X, è determinato: «Se al posto di Gesù ci fosse Maometto ci sarebbe un'insurrezione generale. Noi vorremmo cercare di suscitare la reazione di quel che resta dei cattolici in Italia. Non si può accettare passivamente che si insultino così i simboli della nostra fede sotto la scusa della cultura».
Il dibattito nel mondo cattolico è già aperto: «Io ho visto lo spettacolo — scrive Caterina Spadaro —. Castellucci qui non usa blasfemia del testo, né del gesto. Quel gesto teatrale di lancio contro il volto del dipinto di Antonello da Messina li turba? Sapessero quanto ne verrebbero toccati profondamente, li ispirerebbe». Ma dal fronte dei tradizionalisti la risposta non lascia aperture: «Le reazioni e le proteste contro lo spettacolo non venivano sempre da persone sprovvedute anche sul lato dottrinale e dogmatico — chiarisce Alessandro Galvanetti —. In Francia, tra le persone che hanno protestato si contano diversi vescovi».

Repubblica 7.1.12
Nostalgia di Foucault
Follia e potere, così tutti lo citano senza conoscerlo
Cinquant´anni fa usciva uno dei libri più importanti e più pubblicati del pensatore francese Eppure ancora oggi, nonostante gli studi, le sue lezioni non sono state capite fino in fondo
di Pier Aldo Rovatti


Il rapporto con lui spesso si è limitato ai convegni e agli omaggi evitando di affrontare i nodi del suo pensiero

Il 1961, poco più di cinquant´anni fa, fu un´annata eccezionale. Esce Folie et déraison di Michel Foucault (ovvero la Storia della follia nell´età classica), il primo dei suoi grandi libri, il capolavoro. Ma escono anche altri libri epocali come I dannati della terra di Frantz Fanon e Asylums di Erving Goffman. Tutto sembra girare attorno alla condizione del malato mentale e alla critica delle istituzioni psichiatriche, e bisognerebbe ricordare anche che nello stesso 1961 Franco Basaglia inizia a Gorizia quella straordinaria avventura che porterà alla chiusura del manicomio di Trieste e alla "legge 180". Ma c´è molto di più, qualcosa come un cambiamento di passo nella consapevolezza culturale, proprio grazie a una riflessione radicale sugli internati e sugli esclusi.
La Storia della follia di Foucault venne subito tradotta in italiano, non scomparve mai dalle librerie, e adesso disponiamo anche (e finalmente) di un´edizione completa, senza tagli né omissioni (sempre per i tipi Bur Rizzoli, a cura di Mario Galzigna). Tuttavia, quest´opera così importante è rimasta marginale, spesso svalutata, perfino dimenticata: non è mai entrata davvero nel dibattito teorico, come se su di essa fosse subito calato una specie di interdetto, che poi si è perpetuato negli anni, al punto che c´è da chiedersi se ancora oggi - quando ormai Foucault è diventato per tutti un "classico" - non ne resti un´ombra consistente.
Gli storici hanno storto il naso. I filosofi hanno il più delle volte fatto spallucce, domandandosi quale fosse il succo teoretico di quelle 500 pur affascinanti pagine. Storia di un "silenzio" (il silenzio sulla follia)? Racconto di come dal "grande internamento" del xvii secolo nasce la moderna psichiatria? Elogio postromantico di alcuni grandi folli (da Hölderlin a Van Gogh ad Artaud), intesi come voci che gridano nel deserto? Non erano cose per palati filosofici né per quegli intellettuali impegnati che avevano da fare con il marxismo umanistico. Neppure nel ´68 la Storia della follia venne presa davvero sul serio. La leggevano soltanto alcuni operatori intelligenti immersi nelle loro pratiche specifiche, e non erano neanche tanti.
Foucault, con il quale Sartre polemizzava, rimase a lungo lo "strutturalista" Foucault, quel provocatore che aveva sentenziato, nelle ultime righe di Le parole e le cose (1966), la "morte dell´uomo". Lentamente, in seguito, cominciarono a circolare le sue parole chiave: archeologia, genealogia, pratiche discorsive. Intanto lui era entrato nel prestigioso Collège de France, e di lì a poco avrebbe fatto capire anche ai sordi che il suo programma teorico aveva di mira essenzialmente il "potere" e l´obiettivo di costruire una inedita "microfisica del potere". L´etichetta di strutturalista sbiadiva così, ridicolmente, dinnanzi a libri come Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, per non parlare degli ultimi corsi dedicati alla biopolitica e al "governo di sé e degli altri" (fino all´ultimissimo del 1984 sul Coraggio della verità, appena tradotto).
Foucault è oggi noto e apprezzato in tutto il mondo, ha fornito strumenti di lavoro a una moltitudine di ricercatori. Eppure l´interdetto non sembra del tutto caduto. Ogni volta, all´inizio dei suoi corsi, Foucault ha ricordato, con incredibile chiarezza espositiva, le tappe del proprio itinerario, una linea di ricerca senza salti che va dalla follia alle prigioni, alla sessualità, attraverso un´indagine paziente dei dispositivi sociali, delle pratiche che le fanno funzionare piuttosto che sulle filosofie generali con cui pretendiamo di afferrarne dall´alto le ragioni.
Ecco dove, a mio parere, si è annidato il sospetto. Perché Foucault non ci dice cos´è la follia (cos´è il potere, cos´è la sessualità)? Che bisogno c´è di occuparsi del fatto che il folle sia stato trasformato in un malato mentale? Il malato mentale non è forse una realtà per noi acquisita? E perché mai - qui sta l´essenza del sospetto - la malattia mentale dovrebbe agire come un indicatore così importante da trasformarsi in una posta teorica e politica valida per l´intera società?
Mi dispiace affermarlo con tanta nettezza, ma porsi domande come queste, rivolgerle a Foucault, vuol dire rifiutarsi di entrare nel suo discorso e nel suo stile di pensiero. Significa non mettersi in sintonia neppure con una riga delle migliaia e migliaia che ha scritto, nonostante tutti ormai gli rendano omaggio, nonostante gli innumerevoli commenti e i prestigiosi convegni a lui consacrati. Se ragioniamo con attenzione sulla mancata ricezione della Storia della follia (come in parte ha tentato di fare l´ultimo fascicolo della rivista aut aut, dedicato specificamente a questo nodo), vediamo bene che non ha tutti i torti chi dice che non abbiamo ancora cominciato a "leggere" Foucault.

Repubblica 7.1.12
La verità e l’esempio di Socrate
di Maurizio Ferraris


Nel 1984 Michel Foucault tiene il suo ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della verità, mentre è entrato nello stato terminale dell´Aids che lo porterà via dopo pochi mesi. La trascrizione delle lezioni fissate esce ora in traduzione italiana a cura di Mario Galzigna (per Feltrinelli). Foucault è stanco ma vuole portare a termine il compito che si era assegnato l´anno prima: svolgere una storia della parresia, il dire la verità a costo della vita, dalla sua nascita in Grecia ai suoi sviluppi nel Medio Evo (la predica e l´università) sino ai moderni, dove il parresiaste sembra trasformarsi nella figura del rivoluzionario.
Per chi aveva legato il suo nome alla dottrina del potere-sapere, all´idea che si deve guardare con sospetto il sapere, perché è veicolo di potere, questo progetto è il segno di un´inversione di rotta. Sin dalla prima lezione Foucault precisa che interpretare le sue ricerche come "tentativo di ridurre il sapere al potere non può essere che una pura e semplice caricatura". Eppure, proprio il drammatico intreccio tra potere e sapere era stato il nocciolo del pensiero foucaultiano, come viene ribadito in L´ordine del discorso. E come leggiamo nella sintesi della Microfisica del potere: "l´esercizio del potere crea perpetuamente sapere e viceversa il sapere porta con sé effetti di potere".
Nella teoria del potere-sapere c´era una reincarnazione della Genealogia della morale, e si stabiliva un paradosso che sta al cuore del pensiero di Foucault così come di Nietzsche: si critica la verità non per gusto della mistificazione ma per il motivo contrario, per un amor di verità che vuole smascherare tutto, compresa la verità. Un gioco pericoloso, perché vedere nella verità un effetto di potere significa delegittimare la tradizione, che culmina con l´Illuminismo, per cui il sapere e la verità sono veicoli di emancipazione, strumenti di contropotere e di virtù. Per Nietzsche, l´esito era stato il mito, l´idea che la verità deve cedere il posto all´illusione e al dispiegarsi della potenza. Per Foucault l´esito è antitetico. Infatti, non è un caso che, accanto a questa apologia della verità come critica e come contrasto del potere, Foucault, qui, si impegni anche in una apologia dell´Illuminismo, come accade proprio in una lezione al Collège de France dell´anno prima.
Un percorso che si completa nelle ultime lezioni di Foucault, dove l´eroe terminale è proprio Socrate morente, ossia l´antieroe di Nietzsche, che ci vedeva quello che, morendo, aveva imposto la falsa equazione tra sapere, virtù e felicità. Per Foucault, invece, Socrate è il parresiaste per eccellenza. Socrate vuol dire la verità, in pubblico e a costo della vita. Il punto culminante è la lezione dedicata alla morte di Socrate, che si conclude così: "Come professore di filosofia, bisogna aver tenuto, almeno una volta nella propria vita, un corso su Socrate e sulla sua morte. L´ho fatto. Salvate animam meam". Salvate l´anima mia. L´invocazione è ironica, come sempre in Foucault, ma il tema non lo è affatto. Perché Socrate, per Foucault, rappresenta ora la quintessenza del rischio di una verità che rende liberi e non schiavi.

La Stampa TuttoLibri 7.1.12
Vita e amore
Con Goethe «più luce»
di Anacleto Verrecchia


Di tanto in tanto gli dei si degnano di mandare qualche Mercurio sulla Terra, affinché ne diradi le tenebre e cerchi di illuminare la testa degli uomini, ma nessuno lo ascolta ed e già molto se non ci rimette la pelle e riesce a farla franca. Anche Goethe fu uno dei codesti Mercuri e anche lui e rimasto inascoltato, nonostante che su di lui si siano scritte montagne di libri. Scrivere un ennesimo libro su Goethe è un po’ come accendere un’altra candela sull’altare del miracolante Padre Pio o su quello della madonna di Lourdes. Eppure John Armstrong l’ha fatto ( Come essere felici in un mondo imperfetto. La vita e l’amore secondo Goethe Guanda, pp. 476, 23) e bisogna subito dire che la sua candela, tanto per non uscire di metafora, getta nuova luce su nuovi aspetti della vita del grande poeta. Il libro, infatti, è essenzialmente una biografia, genere letterario in cui gli inglesi sono maestri. L’autore comincia con una spassosa nota sulla pronuncia del nome Goethe, che «è un bel problema» Gli inglesi non se la cavano meglio degli italiani, dalla cui bocca escono incomprensibili «Ghéte» o «Goète». Solo a Torino, grazie alle vocali galliche, io lo sento pronunciare ben. Ma parliamo del libro. Più si va avanti nella letteura e più essa diventa appassionante. Ciò riguarda soprattutto la prima parte, più strettamente biografica e quindi più ricca di dati. Dove invece l’autore esprime il contenuto delle opere di Goethe ci può scappare, nonostante la bravura analitica, qualche lungagnata e quindi qualche sbadiglio. Ma nel complesso si tratta di un bel libro, ben pensato e ben scritto. La natura e il destino furono decisamente liberali con Goethe, che ebbe sempre la fortuna sulla visiera della berretta. Al suo battesimo c’erano Minerva per la testa e Mammona per le tasche. E c’era anche Venere, perché Goethe, oltre a tutto il resto, era anche un bell’uomo. «Più luce»: così avrebbe detto Goethe sul punto di morte. No, Sommo, Poeta, quando muore un uomo come te la luce si spegne!

La Stampa TuttoLibri 7.1.12
Roma capoccia anche nel Medioevo
di Alessandro Barbero

La scoperta Maire Vigueur riscrive la storia della città dopo i barbari: popolosa e vitale, tutt’altro che decaduta
San Gregorio in processione, miniatura da «Les Très Riches Heures du Duc de Berry» (XV secolo)
Jean-Claude Maire Vigueur L'ALTRA ROMA. UNA STORIA DEI ROMANI ALL'EPOCA DEI COMUNI (SECOLI XII-XIV) Einaudi, pp. 487, € 38

Quando si pensa alla storia di Roma, si procede di solito contrapponendo fasi di grandezza e fasi di decadenza: lo splendore imperiale dell’Antichità, poi la rovina e lo spopolamento seguiti alle invasioni barbariche, infine la Roma rinascimentale e soprattutto barocca, coi grandi investimenti edilizi che avrebbero riscattato la città da una decadenza millenaria dandole il volto che ancora conosciamo. Ebbene, come molte cose che credevamo di sapere, anche questa è falsa: quello che Jean-Claude Maire Vigueur chiama «l’uragano barocco» non ha ridato vita a un deserto di rovine, ma ha cancellato - non senza il concorso degli sventramenti sabaudi e mussoliniani - una grande città medievale, di straordinaria vivacità edilizia ed artistica.
Alla distruzione fisica della Roma medievale si è accompagnato l’oblio dell’importanza politica ed economica che la città ebbe nell’Italia dei comuni. L’archivio del comune romano è scomparso nel Sacco del 1527, e fino a poco tempo fa la storiografia sull’età comunale ha quasi del tutto ignorato Roma. Maire Vigueur, che da molti anni vive e insegna in Italia ed è uno dei massimi studiosi delle città medievali italiane, amplia e consolida nel suo nuovo libro le scoperte della ricerca più recente, che sconvolgono i luoghi comuni tradizionali. La Roma del Due e del Trecento era una città popolosa e vitale, con un’aristocrazia di imprenditori impegnati a far fruttare la terra in modi altrettanto moderni dei loro omologhi lombardi o toscani, e compagnie bancarie attive sul mercato internazionale. E il comune di Roma non vegetò stentatamente all’ombra del papato: ebbe una vita politica vigorosa quanto quella di qualunque comune del Centro-Nord. Quando alla fine si arrese e cedette i suoi poteri al papa rientrato da Avignone, nel 1398, comuni orgogliosi come Milano erano caduti già da un secolo sotto il dominio dei tiranni.
Ma al di là di questa interpretazione forte del passato, e dunque dell’identità stessa di Roma, Maire Vigueur ha scritto un libro straordinario per la sua capacità di evocare in modo vivido una città che non esiste più, e di cui molti non sanno neppure che è esistita. La città che appariva al viaggiatore o al pellegrino da Monte Mario, con l’immensa cerchia delle mura aureliane, che racchiudevano ben 1400 ettari di superficie; con le case addensate nell’ansa del Tevere, l’unica zona rimasta interamente urbanizzata, sormontate dalla foresta delle torri nobiliari fitte, dicono i testimoni dell’epoca, come le spighe in un campo di grano; e poi la vastissima distesa dei vigneti all’interno delle mura, punteggiati, qua e là, dai resti degli edifici antichi, da chiese e monasteri. La città delle basiliche costantiniane, due delle quali, San Giovanni in Laterano e San Pietro in Vaticano, ospitavano il potere papale in imponenti complessi di chiese, palazzi e giardini, descritti da Maire Vigueur con una precisione tale da farci dimenticare che gli edifici rinascimentali e barocchi hanno cancellato quelli del Medioevo senza lasciarne quasi più traccia.
La città che respirava attorno al grande mercato del sabato davanti al Campidoglio, quando tutte le botteghe erano chiuse per legge e tutti i commercianti e gli artigiani mettevano lì i loro banchi; lì circolavano notizie e rumori e lì cominciavano tutti i subbugli. La città dove i baroni avevano fortificato i monumenti antichi, come il Colosseo, il teatro di Marcello e il mausoleo di Augusto, e regnavano su interi quartieri dai loro poderosi complessi di case e torri; dove una ricca aristocrazia d’imprenditori gestiva la favolosa produzione di grano e gli allevamenti di greggi della Campagna romana, spopolata sì, ma tutt’altro che improduttiva; dove macellai e pescivendoli abili negli affari, boss dei grandi mercati quotidiani come quello del pesce a Sant’Angelo in Pescheria, potevano ammassare fortune colossali e far sposare i loro figli alle ragazze degli Orsini; dove il popolo organizzato in corporazioni di mestiere e in compagnie armate rionali vegliava gelosamente a difendere i diritti e i privilegi della città che dopo tutto continuava a vantarsi di incoronare gli imperatori. La Roma dei grandi riti collettivi che mobilitavano l’intera popolazione, come la processione dell’Assunta o i pazzeschi giochi del Testaccio, quando mandrie di tori e di maiali venivano precipitate giù dal colle, e gli animali pazzi di rabbia e di terrore erano inseguiti e uccisi a piedi e a cavallo da chi voleva provare «d’esser figlio di buona mamma». Una città ricca, violenta, brutale, dinamica, tutt’altro che domata e asservita al potere soporifico della Chiesa: una Roma ben diversa dalle altre che conosciamo, e che merita di riprendere il suo posto nella storia accanto a quella dei Cesari, a quella dei papi, e a quella d’oggi. "Non vegetò all’ombra del papato, c’erano imprenditori e banche come nei comuni del Centro-Nord Un mondo ricco e violento con torri fortificate, vigneti, campi di grano E un grande mercato al sabato in Campidoglio"

Corriere della Sera 7.1.12
Quello che le statistiche non dicono della nostra testa
di Eoardo Boncinelli


Il cervello, si sa, è uno degli organi prediletti dall'uomo e ogni novità che lo riguarda viene avidamente cercata e prontamente accolta anche se ben poco corrispondente alla realtà delle cose. Qualche anno fa un neurobiologo italoamericano fece un elenco delle idee sbagliate a carico di tale organo, dal fatto che ogni giorno morirebbe una quota fissa e rilevante delle cellule nervose che lo compongono, a quello che noi utilizziamo solo una piccola frazione del cervello stesso, a quello infine che l'emisfero sinistro sarebbe più discorsivo e logico e quello destro più artistico e immaginativo. Negli ultimi tempi siamo stati bombardati dalle «vere» differenze fra il cervello del maschio e della femmina, da quanto la dieta incida sull'attività e l'agilità dello stesso e dall'elenco degli «esercizi» che lo manterrebbero giovane. Ora è la volta di un imponente studio statistico che mostrerebbe che le nostre facoltà mentali declinano già a partire dai 45 anni, ma se si legge l'articolo si scopre poi che questo declino, misurato con enorme difficoltà, è appena del 3,6% nei primi anni dopo i 45. Seguono poi una serie di raccomandazioni per preservare il cervello da questo supposto invecchiamento precoce.
La notizia presenta due lati diversi, che come tali vanno considerati. Il primo, sacrosanto, è quello che un cervello sufficientemente ossigenato funziona meglio. Noi riteniamo usualmente di avere nella testa un organo superiore, capace dei voli più arditi e quasi sottratto alle miserie del corpo, ma si deve poi ammettere che tutta questa eccezionalità è strettamente legata alla sua integrità e quindi al suo rapporto con il resto del corpo. Il cervello rappresenta il 2% della massa del corpo, ma consuma il 20% dell'energia quotidiana che circola nello stesso. Ha quindi continuamente bisogno di essere nutrito e ripulito, di essere cioè attraversato da un costante e vivace flusso sanguigno. Pena la riduzione del funzionamento. Si sa da tempo che molte di quelle che un tempo venivano definite defaillance mentali precoci, o peggio, sono imputabili dovute a ridotta ossigenazione, dovuta alle cause più diverse. Occorre quindi andare da un dottore se la situazione si presenta critica e fare del sano moto in ogni caso, a ogni età, allo scopo di far «girare» il sangue.
Sul fatto poi che il cervello invecchi a questa o quella età, bisogna intendersi. Il cervello, come tutto il corpo, è al massimo intorno all'età riproduttiva, l'unica che la selezione naturale, come dire la Natura, riesca a «vedere», cioè a prendere in considerazione. Dopo comincia a declinare, anche se molto lentamente e non per tutti alla stessa velocità. Questa o quella facoltà e questa o quella prestazione cominciano a risentire del passare del tempo, con cinetiche molto diverse da individuo a individuo e da prestazione a prestazione. Si tratta ovviamente di differenze sottilissime, ma per certi aspetti rilevanti. Se si parla di uomini di scienza di creatività e rilevanza eccezionali si osserva un fenomeno ancora inspiegato. Un matematico ventenne è già abbondantemente in pista e a trenta anni comincia a perdere smalto; un fisico dà il suo meglio fra i venticinque e i trent'anni, creando edifici di pensiero imponenti e smaglianti, poi la sua creatività ritorna più «normale»; il biologo di punta è invece un po' meno precoce e più longevo: dà il suo massimo a trentacinque-quarant'anni. Perché? Non si sa, ma si può supporre che la punta di diamante dell'intelligenza più tagliente sia al suo massimo molto presto e dopo un po' sia meno «arrotata». Di poco, di pochissimo, si intende, ma non senza effetto. Conclusioni per i normali mortali? Non preoccuparsi degli altri, pensare a sé e alle proprie doti personali, che comunque sempre esistono e vanno continuamente esercitate, e fare scorrere il più possibile il sangue nelle proprie vene. Il resto sono chiacchiere.

Corriere della Sera 7.1.12
Saramago divorzia da Granada per il buffet di nozze
di Luca Mastrantonio


È finito il viaggio di nozze tra José Saramago e Castril, il paesino spagnolo in provincia di Granada di cui è originaria la famiglia della giornalista e traduttrice Pilar Del Río, sposata dal premio Nobel portoghese nel 1988 a Lisbona, con rito civile. Ribadito nel 2007, proprio a Castril, per tener fede alla promessa fatta alla madre di Pilar, in coincidenza con l'inaugurazione della cattedra dedicata a Saramago dall'Università di Granada. Grazie a Saramago, Castril è diventato un centro culturale molto attivo, con il Festival Siete Soles Siete Lunes e la fondazione a lui intitolata (nata nel 2003). Nel parco «Le piccole memorie», dedicato alla passione di Saramago per gli alberi, in particolare quelli da frutta, l'autore — che morirà nel 2010 — piantò un ciliegio.
Ora, però, la luna di miele è finita con la brutalità burocratica con cui terminano certi matrimoni d'interesse: a carte bollate. A fine dicembre del 2011, Pilar del Río ha chiesto di ritirare il nome di José Saramago dalla fondazione al presidente della provincia di Granada, Sebastián Pérez (del Partito popolare) e al nuovo sindaco Miguel Pérez Jiménez (popolare anche lui). La lettera è stata scritta da suo fratello Jesus, membro del Patronato della fondazione (dove c'è anche l'Università di Granada) ed è arrivata sui giornali spagnoli ieri. Il caso è letto come il primo regolamento di conti nella provincia in mano al Partito popolare.
La rottura era nell'aria, la scintilla è scattata quando un deputato provinciale popolare, denunciando pubblicamente presunte irregolarità della precedente giunta socialista nella gestione dei fondi pubblici della fondazione, ha parlato di una fattura di 9 mila euro con cui il Comune avrebbe pagato il buffet per Saramago e Pilar.
La vedova, a Los Angeles per il tour del documentario José e Pilar che, tra l'altro, mostra anche la cerimonia di Castril, non entra nel merito «fiscale» (alla replica ci ha pensato la sorella, Carmen del Río, su Twitter, @ClaresParaules, sostenendo che il rinfresco poi fu pagato dal sindaco). Critica il metodo: diffondendo una notizia senza verificarne la fondatezza, è stato «infangato il nome di José Saramago». Dunque la fondazione non merita quel nome. A Castril, ricorda Pilar, il patronato di Saramago fu concesso per «facilitare l'assegnazione delle sovvenzioni», ma la vera fondazione è a Lisbona. Di cui Pilar, peraltro, è presidentessa. Anzi, presidenta, come pretende d'esser chiamata.