lunedì 9 gennaio 2012

La Stampa 9.1.12
Intervista
Bersani: “Ora i partiti siano coinvolti di più”
Il leader Pd al premier: nuovo metodo con chi sostiene il governo
di Federico Geremicca


Ha detto
La globalizzazione ha imposto una ideologia nuova e micidiale: in economia i mercati hanno sempre ragione Da questa crisi si esce un passo dietro l’altro, e muovendo tutte e due le gambe La gamba italiana il suo lo sta facendo Il problema è ideologico Che le ideologie siano morte è uno dei grandi inganni degli ultimi decenni Occorre anche una battaglia politica Io credo molto a una piattaforma dei progressisti europei, abbiamo già fatto alcuni incontri C’è moltissimo da fare ma all’Italia, dopo quanto già fatto, non possono esser chieste altre manovre, magari recessive

ROMA Ex ministro Pierluigi Bersani, segretario del Pd, auspica che «si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella pessima che abbiamo oggi» La consulta A prescindere dall’esito del referendum, Bersani auspica una nuova legge elettorale
È chiaro che con l’anno che comincia bisogna darsi un metodo... ». Un metodo, dice Pier Luigi Bersani: che semplifichi il lavoro del governo nel suo confronto con i partiti e renda più trasparente il rapporto tra i partiti e tra loro e il Parlamento. Il tutto, naturalmente, per lavorare meglio e di più. Così, chi temeva (o sperava) di trovare alla ripresa un Bersani dubbioso circa le scelte fatte - e magari tentato da un qualche disimpegno ora sa come stanno le cose. Si va avanti ventre a terra, perché il Paese ne ha bisogno e soluzioni migliori all’orizzonte per ora non ce ne sono.
Naturalmente, bisogna cambiar passo. Prima di tutto in Europa, ma anche qui da noi: bisogna accelerare sul versante della crescita e correggere qualcosa di quanto fatto (sulle pensioni, per esempio). Ma sono soprattutto certi veti europei a preoccupare il leader del Pd, che dice: «Veti ideologici... La globalizzazione ha imposto una ideologia nuova e micidiale: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno difenda se stesso. Bene, per quanto mi riguarda non può essere così».
E’ un po’ che lei sembra più preoccupato da certe dinamiche europee che da quanto accade qui da noi.
«Non è precisamente così, ma è importante ricordare come da questa crisi si esce un passo dietro l’altro, e muovendo tutte e due le gambe. La gamba italiana il suo lo sta facendo, è ora che si muova quella europea».
Che è ferma, invece.
«L’universo degli economisti, degli osservatori e del mondo politico conviene sul fatto che non siamo su una strada corretta. In Europa ancora non facciamo gesti inequivocabili che dicano: difenderemo l’euro, di qui non si passa. Questo messaggio non è arrivato: anzi, non è neanche partito. Ora abbiamo un po’ di tempo per farlo: con gesti che non possono essere solo il pur importante bricolage di rafforzamento della disciplina dei bilanci».
E cosa pensa?
«A tre questioni. La prima: accelerare sul fondo salvastati, rendendolo credibile e dotandolo di risorse. Finché non saremo lì bisogna consentire maggiore possibilità di intervento alla Bce. La seconda: teniamola pure sullo sfondo, ma la partita degli eurobond deve essere avviata (un’anticipazione potrebbe essere, come chiede Monti, una emissione europea dedicata agli investimenti). La terza: nonostante quel che dicono gli inglesi, sempre tanto preoccupati per la city - ma noi non possiamo mangiare pane e city, perché alla fine non ci sarà più neanche il pane -, è ora che la finanza paghi qualcosa di quel che ha provocato. Insomma, una tassa sulle transazioni finanziarie va allestita».
Non chiede poco.
«Qualcosa di questo deve essere messo in moto. E senza che il giorno dopo, con una intervista o della Merkel o di Sarkozy, si dica: abbiamo scherzato. Perché è così che è andata fino a oggi, anche se tutti sanno che senza una qualche mossa di questo genere finiamo nei guai. Tutti: Germania compresa. Allora: perché non si fanno queste cose? ».
Già, perché non si fanno?
«Lo dico da due anni: il problema è ideologico. Che le ideologie siano morte è uno dei grandi inganni degli ultimi decenni. Forse sono morte quelle vecchie... Ma con la frusta della globalizzazione, sull’Europa è calata una nuova ideologia, interpretata dalla destra e subita troppo passivamente dalla sinistra. Una ideologia di ripiegamento, difensiva, corporativa, che dice: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno faccia gli affari suoi».
E quindi?
«Quindi occorre anche una battaglia politica. Io credo molto a una piattaforma dei progressisti europei, e su questo abbiamo già fatto molti incontri. E’ già fissato un appuntamento a marzo, in Francia, per avviare un’offensiva su questo tema. E’ ora che qualcuno dica alle opinioni pubbliche europee che da solo non si salva nessuno».
E l’Italia?
«Le forze che sostengono Monti - che dovrebbe andare in Europa a dire che c’è un Parlamento anche qui e non solo in Germania - possono affermare: abbiamo il 5% di avanzo primario e faremo il pareggio di bilancio nel 2013, cosa che non fa nessuno. Insomma, noi abbiamo dato: e a questo punto o c’è un altro passo europeo o non è che possono pensare di trattarci come la Grecia... ».
Vuol forse dire che in Italia non c’è altro da fare?
«C’è moltissimo da fare. Ma all’Italia, dopo quanto già fatto, non possono esser chieste altre manovre, magari recessive. Possono sollecitarci ad andare avanti in un processo di riforme, cioè di messa in efficienza del sistema. Politiche di crescita, insomma. E qui, è chiaro, abbiamo un campo enorme di cose da fare».
Crede che la politica, cioè il rapporto tra i partiti e il governo, lo permetterà? Insomma, quanto si può continuare così, con distinguo più o meno quotidiani?
«Adesso che si imposta il lavoro di un anno, bisogna stabilire un metodo. Che secondo me è fatto di tre punti. Sulle questioni europee e internazionali, Monti può trovare un rapporto diretto con i segretari dei partiti che gli consenta di rappresentare posizioni unitarie e nazionali su punti strategici; poi, occorre un modo ordinario e ordinato di avere una sede tra governo e gruppi parlamentari che consenta di costruire l’agenda di lavoro e renderla effettiva; infine, bisogna prendere una iniziativa - e io farò la mia parte - per definire un’agenda per riforme istituzionali e costituzionali: per altro, sulla modifica dei regolamenti parlamentari, sul bicameralismo e la riduzione dei membri di Camera e Senato c’è un lavoro sedimentato. Anche sulla legge elettorale si è cominciato a lavorare. E’ chiaro, inoltre, che questa terza questione accentuerebbe la stabilità del governo. Insomma: penso che sia ora che i leader dei partiti dicano esplicitamente e pubblicamente se sono disposti a convenire su un’agenda da affidare, poi, ai gruppi parlamentari».
Un’ultima domanda sulla Consulta e sul referendum. Che decisione auspica? E pensa anche lei che un sì al voto destabilizzerebbe il governo?
«Quel che auspico è che, referendum o non referendum, si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella pessima che abbiamo oggi. Anche un ritorno al “mattarellum” sarebbe meglio, ma l’esperienza ha dimostrato che quel sistema non è perfetto. Quanto a eventuali crisi, dico solo questo: penso che finché non saremo messi su binari solidi, abbiamo bisogno di non prendere la responsabilità di destabilizzare il Paese in un momento così. Non sarebbe capito da nessuno, né qui né in giro per il mondo... ».

Repubblica 9.1.12
XIV Rapporto Demos-Repubblica
Dal 14° sondaggio Demos & PI emerge un Paese in declino ma determinato a rialzarsi. Affidandosi più al pubblico che al privato
È ora di restituire lo Stato ai cittadini
di Ilvo Diamanti


Perdono credibilità le banche, le organizzazioni internazionali e persino i magistrati
I servizi privati non sono più preferiti ai pubblici. I giovani sono i più attivi nel cercare un riscatto
Crolla la fiducia nei politici ma per la prima volta anche nell´Europa. Si salvano solo Napolitano e le forze armate Il 14° sondaggio Demos & PI per "Repubblica" descrive un´Italia ancora piegata dalla crisi anche se finalmente pronta a reagire Soprattutto grazie a un rinnovato e forte desiderio di partecipazione

Come sono cambiati gli atteggiamenti degli italiani verso lo Stato e le istituzioni? Per rispondere possiamo utilizzare i dati dell´indagine di Demos-la Repubblica, giunta alla 14a edizione. Suggeriscono un´immagine nota, quanto consumata: il declino. Oggi è considerato un "fatto" indiscutibile, sotto il profilo economico. Ma lo è anche sul piano del civismo e del rapporto con lo Stato e le istituzioni.
1) La fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, infatti, scende in modo generalizzato, nell´ultimo anno, con poche eccezioni (fra cui la "scuola", che però perde credito rispetto a dieci anni fa). 2) In particolare, colpisce il livello - davvero basso - raggiunto dai principali attori su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Per primi, i partiti, a cui crede meno del 4% dei cittadini.Mentre la fiducia nel Parlamento viene espressa da circa il 9% degli intervistati. Oltre quattro punti meno di un anno fa.
3) Si tratta di una tendenza simile a quella che coinvolge - e travolge - gli organismi del sistema economico e finanziario.
Per prime le banche, verso cui manifesta "stima" il 15% dei cittadini; 7 punti meno di un anno fa. Ma la metà rispetto al 2001. Non molto più alta - intorno al 20% - risulta la considerazione verso le istituzioni economiche europee e internazionali: la Bce e il Fmi.
Appare basso anche il grado di consenso verso le rappresentanze delle categorie socioeconomiche: associazioni imprenditoriali (24%) e sindacato. Soprattutto la Cisl e la Uil, ben sotto il 20%.
4) Il sistema politico e quello economico appaiono, dunque, privi di riferimenti credibili fra i cittadini. Perfino le istituzioni di garanzia mostrano segni di debolezza. La "Magistratura", soprattutto, perde 8 punti di fiducia, nell´ultimo anno. Un altro segno della fine di un ciclo. Visto che il "consenso" verso i magistrati è sempre stato in stretta relazione con il "dissenso" verso Berlusconi.
5) Fra gli orientamenti che emergono da questa indagine, il più netto e appariscente è, forse, il crollo di fiducia nei confronti della Ue. Verso cui esprime (molta-moltissima) fiducia il 37% dei cittadini: oltre 13 punti meno di un anno fa, ma 16 rispetto al 2001. All´indomani dell´introduzione dell´euro. Quando la maggioranza assoluta degli italiani si diceva euro-convinta.
6) Ciò sottolinea la crisi di governabilità di cui soffre la società italiana. Che - da sempre - non crede nello Stato (di cui si fida meno del 30% dei cittadini), tanto meno nei partiti (quasi metà degli italiani ritiene che non siano necessari alla democrazia) e, quindi, nel Parlamento ("presidiato" dai partiti). Ma oggi diffida - molto - anche dell´Unione Europea. Mentre, in passato, i due orientamenti procedevano in modo simmetrico. Perché gli italiani compensavano la (e reagivano alla) sfiducia nello Stato e nel governo italiano con la fiducia nella Ue. E con una crescente identità locale Ma la speranza nei governi locali e nel federalismo appare, anch´essa, molto raffreddata, rispetto al passato.
7) Alla Bussola pubblica degli italiani restano, così, pochi punti cardinali. Le "forze dell´ordine", che riflettono il senso di insicurezza sociale. Oltre al Presidente della Repubblica, che è divenuto - negli ultimi dieci anni - il principale appiglio della domanda di identità nazionale degli italiani. Un sentimento rafforzato, nel 2011, dalle celebrazioni del 150enario. In questa indagine, il Presidente conferma la credibilità conquistata in questi anni. Ottiene, infatti, (molta-moltissima) fiducia da parte del 65% della popolazione. Eppure anch´egli arretra in misura sensibile rispetto al 2010: quasi 6 punti. Risente, probabilmente, dell´insoddisfazione sollevata presso alcuni settori sociali dalla manovra finanziaria del governo Monti. Un sentimento che si "scarica", in qualche misura, anche sul Presidente. Percepito, a ragione, come il principale sostegno (politico) a favore del governo (tecnico). Tanto più di fronte alla debolezza che affligge i partiti e il Parlamento. Ma anche le organizzazioni di mobilitazione e di integrazione sociale.
8) D´altronde, anche la fiducia verso la più importante istituzione religiosa, la Chiesa, appare in sensibile calo. Oggi si attesta al 45%: 2 punti meno di un anno fa, ma 14 rispetto al 2001.
Tutto ciò ripropone l´immagine del "declino" che ha coinvolto i principali riferimenti istituzionali e dell´identità sociale degli italiani. Non solo lo Stato, ma anche l´Europa, la Chiesa; e ancora, il mercato e le organizzazioni di rappresentanza.
L´indice di fiducia complessivo nelle istituzioni politiche e di governo, dal 2005 ad oggi, è sceso infatti, dal 42% al 33%. Mentre, nello stesso periodo, la fiducia nelle istituzioni sociali ed economiche, nell´insieme, cala dal 35% al 26%.
Più che di declino, forse, converrebbe parlare di "recessione".
9) Ciò marca una differenza profonda rispetto agli anni Novanta, quando la sfiducia nello Stato e nelle forme di partecipazione collettiva si accompagnò all´affermarsi del mito del mercato, del privato, dell´individuo, della concorrenza, dell´imprenditore. Oggi, al contrario, l´insoddisfazione verso i servizi privati è cresciuta molto più di quella verso i servizi pubblici. E la domanda di ridurre la presenza dello Stato nei servizi - scuola e sanità - si è ridotta al punto di apparire ormai residuale. Mentre il grado di partecipazione sociale non è "declinato", ma, negli ultimi anni, si è, anzi, allargato sensibilmente. In particolare, hanno conquistato ampio spazio le nuove forme di partecipazione sociale: il consumo critico, i movimenti di protesta, le mobilitazioni che si sviluppano, sempre più, attraverso la rete.
Comportamenti particolarmente diffusi fra i giovani e fra gli studenti. I più colpiti dalla crisi, ma anche dalla sfiducia.
10) Da ciò l´immagine di una "società senza Stato", (come recita il titolo di un libretto pubblicato di recente dal "Mulino"). Che, però, ha paura di restare senza Stato. E reagisce. Seguendo molte diverse vie. E vie molto diverse. La "sfiducia" - ma anche la "protesta" e la mobilitazione. Emerge, nel complesso, una diffusa resistenza alla "privatizzazione" dei servizi, all´individualizzazione dei riferimenti di valore e degli stili di comportamento, all´affermarsi delle logiche finanziarie e di mercato in ogni sfera della vita: a livello pubblico e privato. Sfiducia politica e partecipazione, dunque, coesistono presso le componenti sociali più vulnerabili. I ceti periferici, ma soprattutto i giovani, che manifestano incertezza e paura verso il presente, oltre che verso il futuro. E reagiscono insieme. Non solo per cercare soluzioni e per cambiare le cose. Ma per superare la solitudine e la frustrazione che li affliggono La partecipazione e la protesta agiscono, quindi, come una sorta di terapia. Contro la sfiducia e contro l´isolamento.
Si delinea, così, una stagione incerta. Un ciclo politico si è chiuso, dopo quasi vent´anni. Lasciandoci spaesati. Privi di riferimenti istituzionali e politici. Insoddisfatti del pubblico e delusi dal privato. Senza fiducia. Ma quel che verrà dopo non è chiaro - e un nuovo ciclo ancora non si vede. Tuttavia, la scelta di Monti di investire nel "civismo" - attraverso la centralità "mediatica" attribuita alla lotta all´evasione fiscale - appare una risposta poco "tecnica" e, invece, molto "politica" al problema sollevato da questa indagine. Restituire i cittadini allo Stato. Per restituire lo Stato ai cittadini.

Repubblica 9.1.12
Sempre meno stimati. E un italiano su due pensa al loro superamento
Se la democrazia fa a meno dei partiti
di Fabio Bordignon


Può funzionare una democrazia "senza partiti"? Quasi uno su due, tra gli italiani, è convinto di sì (48%). E tale opinione mette d´accordo un numero crescente di cittadini. Questo indicatore, rilevato dal rapporto annuale su Gli italiani e lo Stato, ha fatto segnare una crescita di dieci punti dal 2008 ad oggi.
L´anno che ci lasciamo alle spalle ha reso ancora più profonda la frattura tra cittadini e politica. Quasi otto persone su dieci pensano che le cose siano ulteriormente peggiorate, nel corso del 2011, sotto il cielo della politica, e l´insofferenza si indirizza, ancor più che in passato, nei confronti del Parlamento e dei partiti. È necessario interpellare più di venticinque persone, oggi, per trovarne una disposta a dare credito ai partiti (4%). Il loro già ridottissimo punteggio, in termini di fiducia, in dodici mesi si è addirittura dimezzato (spingendoli sempre più in fondo alla graduatoria delle istituzioni). Sembra prendere progressivamente corpo, così, l´idea che si possa "fare a meno" di essi. Tale orientamento, che sotto i 45 anni supera la soglia del 50%, suggerisce, in questa fase, almeno due chiavi di lettura.
1) Da un lato, il deficit di rappresentanza dei partiti ha allargato le istanze di coinvolgimento dei cittadini. Nel momento in cui i partiti non sono più in grado di garantire il governo per il popolo, si rafforza la domanda di governo del popolo. Questa spinta si è concretizzata, negli ultimi anni, in una crescita della partecipazione, nella nascita di nuovi movimenti, in una riscoperta della democrazia diretta. Il moltiplicarsi della mobilitazione su specifiche questioni e il successo dei quattro referendum tenutisi la scorsa primavera hanno sottolineato, parallelamente, come questa onda partecipativa abbia in larga misura scavalcato i canali più tradizionali (spiazzando gli stessi partiti).
2) Dall´altro lato, la crisi politica ed economica ha reso evidente l´incapacità dei partiti di individuare soluzioni nell´interesse del popolo, favorendo soggetti ritenuti in grado di affrontare le emergenze che gravano sull´Italia. Non a caso, i cittadini sembrano affidarsi, in questa fase, soprattutto ad attori a-partitici: tecnici e istituzionali. Soprattutto, guardano con fiducia il Capo dello Stato, che negli ultimi mesi ha svolto un ruolo determinante nel gestire il cambio di governo, consegnando il timone del paese ad un esecutivo di esperti.
Queste due prospettive mettono l´accento sulle criticità (e le contraddizioni) che caratterizzano, oggi, l´evoluzione della democrazia (italiana e non solo). Esse tracciano, infatti, percorsi che superano i confini della democrazia rappresentativa, e tra loro difficilmente conciliabili. La stessa esperienza del governo Monti presenta, secondo molti, tratti di "eccezionalità democratica". Ciò nondimeno, la sua sopravvivenza appare costantemente nelle mani delle (eterogenee) forze che lo sostengono.
Gli attuali partiti, in sintesi, risultano allo stesso tempo troppo forti e troppo deboli: al centro di un sistema che però faticano a governare. In questo senso, le aperture ad una democrazia "senza partiti" richiamano la necessità di contrastare l´indebolimento della stessa democrazia: un sistema che più di due italiani su tre continuano a giudicare come unica alternativa politica (sebbene nell´ultimo periodo siano cresciuti i sentimenti di indifferenza).
Dunque, se la democrazia (rappresentativa) appare ancora "impensabile senza i partiti", il problema è mettere a punto dei correttivi che garantiscano il suo funzionamento e la sua legittimazione: perché andare "oltre i partiti" non significhi andare "oltre la democrazia".

La Stampa 9.1.12
La pressione cinese per avere risposte subito Domani la fiaccolata
di Guido Ruotolo


ATTESI IN DIECIMILA Sta crescendo la rabbia dei connazionali delle vittime I timori per la manifestazione

ROMA Domenica nervosa, per gli investigatori romani che speravano, evidentemente, di aver già risolto il caso. E invece la sua soluzione sembra che si allontani, anche se speriamo di poche ore. Dal comando provinciale dei carabinieri di san Lorenzo in Lucina non si fa mistero del disappunto, della contrarietà per la fuga di notizie che avrebbe compromesso la soluzione del duplice omicidio in tempi ravvicinati.
La morte della piccola Joy e del suo papà Zhou non ha scosso soltanto la comunità cinese, è Roma e l’opinione pubblica nazionale che si sono sentite offese e umiliate da questa violenza crudele e bestiale. La pressione dei cittadini perché sia fatta giustizia legittimamente si fa sentire.
Ma gli investigatori avvertono anche le aspettative cinesi. È una indagine, questa, la cui soluzione avrà oggettivamente delle ripercussioni nelle relazioni tra l’Italia e la Cina. Il protagonismo dell’ambasciatore cinese a Roma, Ding Wei, l’annunciata fiaccolata romana di domani con presenze di almeno diecimila cinesi provenienti da tutta Europa, sono una conferma che Pechino guarda a Roma con severa attenzione.
Anche il sindaco della capitale, Gianni Alemanno, ha avvertito di aver sottovalutato - o di aver affrontato con uno schema antico e insufficiente - la vicenda della strage di Joy e di Zhou e ieri si è recato in via Giovannoli per deporre un mazzo di dodici rose bianche sul luogo dell’eccidio.
È comprensibile, dunque, l’attesa e la domanda di informazione su questo duplice omicidio.
Il fatto che siano stati già individuati i (presunti) colpevoli è un segnale dell’alta professionalità del Nucleo operativo e del Ros dei carabinieri di Roma. I rapinatori balordi diventati assassini hanno lasciato come Pollicino troppe tracce per non essere individuati. E, dunque, hanno le ore contate. Il comando provinciale dei carabinieri di san Lorenzo in Lucina aveva chiesto un silenzio stampa di 48 ore, evidentemente violato dai giornali e dai mass media. Per esempio, aver rivelato che sono state ritrovate le due borse con il cellulare e 16.000 euro, ha di fatto vanificato la possibilità che i due rapinatori assassini tornassero nel casolare diroccato di via Ettore Fieramosca e quindi venissero arrestati.
Una circostanza, va anche detto, che non necessariamente si sarebbe verificata in un regime di silenzio stampa. I due assassini evidentemente sono in fuga e catturarli impegnerà gli investigatori in un’attività di monitoraggio molto estesa.
Non sono italiani, gli assassini. E questo non può essere una magra consolazione per una città, Roma, in cui la soluzione dei conflitti sembra affidata all’uso della forza, alle gambizzazioni o agli omicidi.
Non è un caso che la città, silenziosa, attenda che la giustizia faccia il suo corso. Nessuna manifestazione di isteria collettiva, di pulsioni forcaiole o di guerra contro gli stranieri. È un buon segnale.
Non è la prima volta che si consuma un cortocircuito tra opinione pubblica e investigatori. Quando è in gioco la civiltà e la tenuta democratica di una città, che è la nostra capitale, non si può non essere intransigenti. E sperare che per gli assassini non ci sia scampo. [G. RU. ]

l’Unità 9.1.12
Corre la spesa militare soprattutto in Cina
L’America resta in testa
La corsa al riarmo di Pechino in dieci anni è pari al 189% Sale la spesa di altre potenze emergenti: Brasile e Sudafrica Ma al primo posto in questa graduatoria restano gli Usa
di U.D.G.


Uno sguardo sul mondo «militarizzato». Le spese militari nel 2010: è il rapporto più aggiornato, realizzato dall’Archivio Disarmo. La spesa militare mondiale per l’anno 2010 è risultata pari a 1.630 miliardi di dollari: ciò rappresenta un incremento dell’1.3% in termini reali rispetto all’anno 2009 e un incremento del 50% rispetto al 2001. La spesa militare globale costituisce il 2.6% del Pil mondiale, il che equivale a 236 dollari pro capite. Tale crescita è dovuta, quasi interamente, agli Stati Uniti: infatti, la spesa militare nel resto del mondo è aumentata solo dello 0.1%. Inoltre nel periodo 2001-2010 la spesa militare americana è cresciuta dell’81%, mentre quella del resto del mondo è aumentata del 32%. Tuttavia il trend della spesa militare varia considerevolmente da regione a regione: nel 2010, aumenti significativi si sono registrati in Sud America (5.8%) e in Africa (5.2%), mentre in Nord America (2.8%), in Medio Oriente (2.5%) e in Asia e Oceania (1.4%) gli aumenti sono stati inferiori rispetto agli anni precedenti. In Europa invece (per la prima volta dal 1998) si è registrato un calo (pari al 2,8%) della spesa militare.
In molti casi la diminuzione, o l’aumento più lento, della spesa militare rappresenta una reazione alla crisi economica mondiale che ha avuto inizio nel 2008. Tra i Paesi che hanno incrementato maggiormente le spese militari c’è la Cina. Ufficialmente la Cina presenta un budget per la difesa pari a 78 miliardi di dollari: tuttavia il Sipri valuta che la spesa militare totale cinese, per l’anno 2010, ammonti a circa 119 miliardi di dollari con un incremento del 3.8% in termini reali rispetto all’anno precedente. Tale percentuale, essendo inferiore al tasso di crescita medio annuo (pari al 12%) calcolato per il periodo 2001-2010, rappresenta un rallentamento nella crescita della spesa militare e riflette la minore crescita economica dell’anno 2009 causata dalla recessione mondiale. Tra gli anni 2001 e 2010 la spesa militare cinese è aumentata del 189% in termini reali e tale rapida crescita rinvia all’altrettanto rapida crescita economica che il Paese ha registrato negli ultimi anni e che lo ha condotto al secondo posto tra le economie mondiali.
Altro Paese in crescita quanto a spese militari è il Brasile. Nel 2010 la spesa militare del Brasile ammonta a 33.5 miliardi di dollari, il 9.3% in più, in termini reali, rispetto all’anno 2009. Tra il 2001 e il 2009 la spesa militare è cresciuta del 30%, con una media annuale del 2.9%. Significativo, in un quadro geopolitico, è anche il dato del Sudafrica. Il livello della spesa militare del Sudafrica risulta essere il più alto di tutta l’Africa sub-sahariana. Nel 2010, la spesa militare sudafricana ammonta a circa 4.5 miliardi di dollari, pari all’1.2% del Pil del Paese; rispetto al 2009 c’è stata una diminuzione del 20%, ma rispetto al 2001 c’è stato un aumento del 22%. Quanto alla Russia, la sua spesa militare, per l’anno 2010, è stata di 58.7 miliardi di dollari; si tratta dell’1.4% in meno rispetto al 2009, ma dell’82% in più rispetto al 2001.
Al primo posto del podio militarizzato restano gli Usa. Il tasso di crescita della spesa militare degli Usa ha subito un rallentamento nel corso dell’anno 2010: rispetto al decennio precedente, infatti, in cui si è registrato un tasso medio di crescita pari al 7.4%, nel 2010 la spesa militare è aumentata, solo, del 2.8%2. Tuttavia gli Stati Uniti, con una spesa militare pari a 689 miliardi di dollari, confermano il loro primato nel settore, che non sembra in discussione neanche alla luce del piano di riduzione del budget del Pentagono annunciato nei giorni da Barack Obama.

La Stampa 9.1.12
Viaggio nella Londra razzista dove i neri non trovano giustizia
La capitale è sempre più multietnica ma le differenze sociali sono più profonde
di Andrea Malaguti


Stephen Lawrence aveva 19 anni e studiava architettura Il 22 novembre 1993 una banda di minorenni lo bloccò alla fermata dell’autobus e lo accoltellò al grido di «Fottiti, sporco negro»La lapide in marmo di Stephen Lawrence, ucciso il 22 novembre 1993, è stata più volte bruciata sporcata graffiata e la famiglia l’ha sempre riparata. Ora la polizia ha montato delle telecamere di sorveglianza
LA DEPUTATA DI COLORE «I bianchi dividono e governano, non adeguiamoci al loro gioco»

Eltham, Sud di Londra. È qui che diciotto anni fa hanno ammazzato Stephen Lawrence, dove adesso c’è una distesa di fiori freschi che, da quando hanno condannato due dei suoi assassini tre giorni fa, la gente del quartiere continua a portare senza sosta. Una banda di cinque minorenni bianchi incontrò il ragazzo alla fermata dell’autobus e gli aprì il polmone destro con un coltello. Senza motivo. «Fottiti, sporco negro». Stephen aveva 19 anni e studiava architettura. Quelle furono le ultime parole che gli rimbalzarono in testa. Fece di corsa Well Hall Road, poi si accasciò come un pupazzo. Senza sangue, senza vita. Adesso, in questo pomeriggio con il cielo che sembra un tappeto sporco, la sua mamma, Doreen, è piegata sulla lapide nera che ricorda l’ultimo istante di vita di suo figlio. «In memoria di Stephen Lawrence, 13 settembre 1974-22 novembre 1993».
Attorno a lei un gruppo di persone le fa da cordone per permetterle di pregare. Gente di questo sobborgo diventato il simbolo dell’Inghilterra sbagliata. Una donna con un cappello azzurro, i capelli molto chiari, si avvicina a Doreen e l’abbraccia. Le dice: «Qui a Eltham siamo in tanti a essere fieri della sua battaglia». Lei abbozza quel che resta di un sorriso che un tempo deve avere avuto. «Aspetto ancora le altre condanne. Magari il Paese è cambiato. Ecco, forse la morte di Stephen è servita a fare aprire gli occhi alla gente». Altre mani, altri abbracci. Quasi tutte donne. Dall’altra parte della strada un van della polizia controlla la scena.
È una ruota che gira con una lentezza esasperante, quella che dovrebbe portare verso l’uguaglianza, ma da quel 22 novembre 1993 in effetti qualcosa è cambiato. Anche se nella Gran Bretagna del terzo millennio, in cui le minoranze etniche rappresentano il 9% della popolazione contro il 5% di allora, il colore della pelle continua a fare la differenza. «Il multiculturalismo è fallito», spiegò pochi mesi fa David Cameron. Aveva torto? Secondo i dati del Rapprto nazionale sul Sistema Giudiziario e le Statistiche sulla Razza, un ragazzo nero guadagna, a parità di lavoro, il 20% in meno di un collega bianco e ha il quadruplo di possibilità di morire ammazzato e il quintuplo di essere fermato dalla polizia. Identiche le percentuali all’interno dei tribunali dove, all’alta Corte di Giustizia, i giudici neri sono solo due, 1,6% del totale. Comunque due di più rispetto al 1993.
Anche la lunghezza delle pene varia a seconda dei colori. Un nero accusato di violenza sessuale sconta mediamente cinque anni di prigione. Un bianco quattro. L’attivista per i diritti umani Gubrux Singh sostiene che «è vero che la ruota gira, ma la recessione potrebbe riportarla indietro. Le rivolte di agosto a Tottenham lo dimostrano. Le differenze di razza saranno sostituite da quelle di classe. E di casta». Anche la politica fa passi avanti. Nel 1993 le minoranze etniche in Parlamento rappresentavano l’1% degli eletti (6 contro 645), oggi sono il 4% (28 contro 622). La prima donna di colore a essere eletta a Westminster fu la parlamentare laburista, tuttora in carica, Diane Abbott, che giusto 48 ore fa è stata costretta a scusarsi con il Paese per un tweet imbarazzante. Diceva: «I bianchi dividono e governano, non adeguiamoci al loro gioco». I bianchi. Ed Miliband, il leader del suo partito, le ha chiesto di ritrattare. Lei si è adeguata, ma è ovvio che il problema rimane. Ed è trasversale, come dimostra anche la Premier League, dove solo due allenatori sono neri e dove venerdì scorso Tom Adeyemi, terzino dell’Oldham, ha lasciato il campo del Liverpool in lacrime dopo essere stato inondato dagli insulti razzisti del pubblico.
Prima di abbandonare Well Hall Road, Doreen Lawrence si ferma con Elaine Cob e Gordon Newton. Sono due negozianti del Kent. Vendono lapidi. E sono loro che si prendono cura di quella che ricorda Stephen. Pochi giorni dopo che era stata fissata sul marciapiede qualcuno passò con un martello e la distrusse. Elaine e Gordon videro la scena in tv e telefonarono a Doreen: «D’ora in poi almeno questo non sarà più un tuo problema. Ci pensiamo noi». La lapide è stata bruciata, verniciata, graffiata. Loro sono sempre intervenuti. Finché la polizia ha deciso di montare delle telecamere per sorvegliarla 24 ore su 24. Il simbolo fisico di una sconfitta.

l’Unità 9.1.12
Il ritorno di Freud scrittore
Le storie cliniche del papà della psicoanalisi raccolte in un nuovo volume «Racconti analitici», pubblicato da Einaudi. Dove si evidenzia la rivoluzione estetica che aveva messo in crisi i canoni narrativi correnti del Novecento
di Albero Luchetti


È forse noto che la prima delle pazienti grazie alle quali si costruì la psicoanalisi freudiana, la famosa «Anna O.», con un termine inglese definì talking cure, «cura parlata», quella strana terapia cui si stava sottoponendo centotrenta anni fa e che affidava alla «magia lenta» della parola la possibilità di liberare dagli affetti collegati ad eventi traumatici rimossi. Meno noto è forse il fatto che la psicoanalisi sia però nata, almeno nella stessa misura, come writing cure, come «cura scritta»: la scrittura fu infatti il vero e proprio «mezzo», nel senso biologico della sostanza o ambiente in cui avviene un fenomeno, in cui germogliò e poi fiorì la nuova disciplina. Freud scrisse instancabilmente giorno e notte: non solo le migliaia di pagine dei suoi numerosissimi saggi e libri, ma migliaia di lettere a colleghi, amici e familiari (oltre novecento solo alla fidanzata). La sua stessa «autoanalisi» procedette per iscritto, diligentemente annotando quasi ogni giorno i propri sogni, i propri lapsus e dimenticanze e le libere associazioni ad essi. Peraltro, già da adolescente Freud, accanito lettore, per un decennio aveva scritto lettere all’amico Silberstein con cui aveva fondato una scherzosa «Accademia spagnola» ispirandosi a Cervantes, e inoltre aveva composto racconti, poesie ed altri tipi di composizione.
LEGAME CON LA LETTERATURA
Fin dall’origine, questo stretto legame della psicoanalisi con la scrittura si articolò con un altrettanto forte legame con la letteratura, in cui Freud ritrovava intuizioni che brillantemente avevano anticipato scoperte che solo con fatica il metodo psicoanalitico riusciva a corroborare scientificamente. Da opere letterarie classiche (Shakespeare, Schiller, Goethe, Heine, per citare solo alcuni autori) sono tratte non solo le innumerevoli citazioni che accompagnano i testi scientifici freudiani, ma altresì quei personaggi che diverranno figure emblematiche della stessa teoria psicoanalitica: uno per tutti, Edipo. Cosicché è comprensibile che, come racconta l’aneddoto, un fisico abbia potuto definire la psicoanalisi come la più scientifica delle discipline umanistiche ed un letterato come la più umanistica delle scienze, e che la sua opera valse a Freud, se non il premio Nobel, almeno l’altrettanto ambito «premio Goethe».
Il nodo che unisce psicoanalisi, scrittura e letteratura peraltro non è affatto formale né estrinseco, bensì intimo e sostanziale, giacché la psicoanalisi mira a fare scienza proprio di quell’inconscio che nell’essere umano è alla base tanto del suo funzionamento psichico e corporeo quanto delle sue creazioni più astratte e sublimi. Inevitabile però che tutto ciò gli procurasse l’accusa di raccontare «favole» inizialmente mossagli dal grande psichiatra dell’epoca Emil Kräpelin, e periodicamente riproposta dal demolitore di turno, nonostante lo stesso Freud subito ammettesse onestamente la propria sorpresa ed imbarazzo per il fatto che le storie cliniche che riferiva si leggessero «come novelle». Quell’accusa e questo imbarazzo egli finì però col ribaltarli in una ricerca narrativa altrettanto innovativa dell’impresa scientifica che aveva intrapreso, come ci mostra efficacemente il volume Racconti analitici recentemente pubblicato da Einaudi, progettato e introdotto da Mario Lavagetto, che raccoglie la maggior parte delle storie cliniche freudiane, tutte in una nuova traduzione di Giovanna Agabio, con note di Anna Buia e illustrazioni di Lorenzo Mattotti.
La tesi del libro, indicata nella esauriente e avvincente introduzione di Mario Lavagetto, è illustrare come Freud si sia trovato «preterintenzionalmente in sintonia con gli esiti di quella rivoluzione estetica che aveva messo in crisi la possibilità di organizzare le storie in base al sistema della verosimiglianza, al gioco di cause ed effetti, all’alternarsi di aspettative, sorprese, riconoscimenti e scioglimenti». Il contrasto tra i paradigmi acquisiti con la sua formazione nella Vienna della seconda metà dell’Ottocento e la necessità di mettere a punto una nuova forma narrativa si trasferirà all’interno della forma di racconto utilizzata per i suoi casi clinici. Storie che, come giustamente nota Lavagetto, «sarà sempre meno possibile leggere “come novelle” o almeno come novelle conformi a un prototipo collaudato».
Non c’è dunque da stupirsi se alla fine Freud stesso si trovasse «davanti la propria opera come qualcosa di “indipendente, perfino di estraneo”», come parallelamente capita in fondo a ogni persona che si affidi alla psicoanalisi per scrivere o riscrivere la propria storia e cercare di ridisegnare la propria vita, allorché le riscopre come qualcosa di altro da sé, nella misura in cui rivelano l’alterità che abita la stessa possibilità di dire «io». E nemmeno meraviglia che la letteratura scaturita dalla rivoluzione estetica a lui contemporanea possa scorgere nell’opera di Freud un sintomo del progressivo e inesorabile dissolversi delle forme classiche della narrazione, riconoscendolo come uno dei padri del pensiero novecentesco non solo in quanto scienziato dell’apparato dell’anima dell’essere umano, ma anche come scrittore.

La Stampa 9.1.12
Joyce, le tre epifanie che sconvolsero il ’900
Una nuova biografia mette in rapporto la vita dell’autore irlandese con il suo mondo letterario
di Richard Newbury


AGOSTO 1898 A 16 anni, una sera viene sedotto da una prostituta: e l’oscurità diventa una fonte di eccitazione
16 GIUGNO 1904 Nella Nassau Street di Dublino l’incontro fatale con Nora, la musa che ispirerà l’Ulisse
17 APRILE 1932 Dopo una crisi della figlia i temi della personalità disturbata entrano nella Veglia di Finnegan

Londra. Una biografia è un romanzo che promette di dire la verità; i romanzi di solito sono autobiografie inaffidabili, avvalorate dal credo aristotelico che la poesia è più vera della storia. Per Gordon Bowker - l’autore di James Joyce - A Biography, da poco uscito a Londra -, «i racconti di Joyce sono fortemente autobiografici e perciò hanno dato forma a ciò che lui si prefiggeva scrivendo e presentandosi al mondo come artista». Gente di Dublino ebbe effettivamente molte difficoltà a trovare un editore a causa delle minacciate denunce di diffamazione, ma introdusse la sua rivoluzionaria tecnica narrativa. Il Ritratto dell’artista da giovane è un’ampia confessione fatta da Joyce, che rigettò violentemente il cattolicesimo ma non l’educazione gesuitica che aveva ricevuto. Ulisse porta il lettore in un giro di 24 ore attraverso i monologhi interiori di Stephen/James e dell’ebreo Leopold Bloom, l’uomo qualunque, per le strade di Dublino il 16 giugno 1904 - il fatidico giorno in cui Joyce/Dante incontrò Nora/Beatrice. La veglia di Finnegan è un’onda travolgente di giochi di prestigio verbali, che parte da vecchi miti per crearne di nuovi, e sibillini. Come disse lo stesso Joyce, « Ulisse tratta di un giorno e una notte di mente consapevole; La veglia di Finnegan invece della mente inconsapevole, del sonno di un’unica notte di un personaggio polimorfo».
Bowker ha cercato di spiegare al lettore questi complessi alter ego con il contesto biografico di un uomo pieno di contraddizioni nei confronti dei suoi genitori e dell’Irlanda, di cui aborriva la romantizzazione. Un uomo cresciuto nel culto del nazionalismo irlandese che però odiava l’Irlanda folkloristica clericale che esso aveva creato; un uomo che adorava la lingua inglese ma la sovvertì e la reinventò; un uomo ambivalente anche nei confronti della Gran Bretagna, dove si recò, a differenza dell’Irlanda dopo il 1912, e di cui rimase cittadino.
Bowker mette a confronto Yeats e Joyce: «Yeats è figlio dell’influenza protestante, affascinato dall’aristocrazia e dalla superstizione contadina. Joyce proviene dalla piccola borghesia cattolica ed è incuriosito dal demi-monde dublinese; Yeats abbraccia la bellezza della natura, Joyce è attirato dalla bruttezza della città; Yeats vede Omero come l’autentica espressione della grande arte, Joyce preferisce Dante e il viaggio all’inferno andata/ritorno. Erano due forme diverse di intelligenza creativa - l’originalità di Yeats modellata da considerazioni di forma poetica, Joyce sempre voglioso di traboccare in forme oltre la forma. Yeats era devoto al nazionalismo culturale, che invece Joyce considerava un tradimento del genio poetico».
Bowker illumina tre nuovi aspetti di Joyce. Vivendo a Trieste, Joyce vede delle analogie tra la situazione difficile di Dublino e quella di Trieste, città italiana in mezzo a un impero austro-ungarico che le è estraneo, mentre i suoi tanti amici e studenti ebrei non praticanti, come Italo Svevo - cui si ispirò per Harold Blooom - sono simili agli irlandesi sradicati che hanno dimenticato la loro cultura.
Bowker vede anche nella sua vita tre di quelle che Joyce chiamava «epifanie». Nell’agosto 1898, quando era un pio gesuita sedicenne con una forte vocazione religiosa, si era eccitato giocando e tornando a casa era stato sedotto da una prostituta. Da quel momento l’oscurità non fu più il covo dei malvagi ma qualcosa di eccitante oltre ogni immaginazione e la vocazione artistica soppiantò quella sacerdotale.
Il 16 giugno 1904, nella Nassau Street, a Dublino, calamitato da una lussureggiante testa di capelli rossi, si levò il cappello da marinaio e convinse la scaltra incantatrice a incontrarlo di nuovo. Il maestro era appena inciampato nella sua musa irlandese, e il corso della letteratura del XX secolo era cambiato.
Domenica 17 aprile 1932, sui binari per Calais della Gare du Nord di Parigi, una ragazzina all’improvviso si mette a strillare e urlare in modo incontenibile. Anziché partire per Londra, padre madre e figlia restano a Parigi. Dopo questa scenata fatta dalla figlia Lucia, mentalmente instabile - che poi sarà respinta dal segretario del padre, Samuel Beckett - il lavoro di Joyce intorno alla Veglia di Finnegan rallenta fin quasi a fermarsi. «Quando riprese», scrive Bowker, «i temi della personalità disturbata avrebbero cominciato a intrecciarsi nel testo, lasciando Joyce aperto all’oscurità e ai sospetti pruriginosi».
A chi gli chiese, dopo la Rivolta di Pasqua del 1916, se aspettasse con ansia una Irlanda indipendente, Joyce rispose: «Sì, in modo da potermi dichiarare il suo primo nemico». Dopo il 1922 si rifiutò di appoggiare lo Stato libero d’Irlanda o di entrare nell’Accademia irlandese delle Lettere. Di fatto, se fosse tornato alla realtà della sua fantasticata Irlanda, sarebbe stato arrestato per oscenità. E quando la moglie Dora, sul letto di morte a Zurigo nel 1941, offrì di rimpatriare il corpo del più grande scrittore irlandese - nonostante i Nobel G. B. Shaw, W. B. Yeats, Samuel Beckett e Seamus Heaney - il governo clerical-nazionalista del primo ministro De Valera rifiutò l’offerta. Odio puro, che Joyce avrebbe gustato!
Traduzione di Marina Verna

«Oggi, posso dire, il cattolicesimo in Irlanda è finito»
Corriere della Sera 9.1.12
«La mia Irlanda, terra irriconoscibile»
Lo scrittore Colm Tóibín torna per esplorare il suo Paese «La crisi, gli scandali. Qui anche il cattolicesimo è finito»
di Ranieri Polese


«All'apice del boom, in questo strano, piccolo Paese, i prezzi si alzarono quasi fossero Icaro, che ignorò l'avvertimento del padre e le cui ali furono sciolte dal calore del sole splendente». Lo strano, piccolo Paese è l'Irlanda di questi ultimi anni, coinvolta da una frenesia finanziaria che poi la crisi ha fatto crollare. Chi lo descrive così è Colm Tóibín, giornalista scrittore docente di letteratura nato 57 anni fa a Enniscorthy, nella contea di Wexford, nel Sudest dell'Irlanda. Con i suoi romanzi e racconti (The Master, Madri e figli, Brooklyn) ha raccolto molti premi. Ha insegnato letteratura in varie università americane, fra cui Austin, Texas e Princeton, tiene corsi di scrittura creativa all'Università di Manchester.
Ora esce da Bompiani la traduzione della sua seconda raccolta di racconti, La famiglia vuota, e la citazione è presa proprio dal racconto che dà il titolo al volume. Alcuni dei protagonisti di queste storie, irlandesi che tornano a casa, non si ritrovano più: le strade di Dublino sono cambiate, ci sono nuovi edifici tirati su nel breve periodo della ricchezza facile. Poi, però, la parentesi dell'euforia si è chiusa, «oggi il Paese si sta riprendendo, ma la vita è difficile».
Lui, Tóibín, da quel piccolo, strano Paese, se n'era andato via molti anni prima: chi era giovane, nell'Irlanda «grigia e povera» degli anni Settanta, non poteva fare altrimenti dice al telefono da Dublino. «Io partii la prima volta nel '75, destinazione Barcellona. Ci sono rimasto tre anni, lavoravo come insegnante d'inglese». Da quel soggiorno sono nati un romanzo, Sud e ora il racconto Barcellona, 1975. Giovane, gay, in cerca di una vita non più condizionata dai pregiudizi del piccolo Paese, Tóibín arriva durante la interminabile agonia di Francisco Franco e lì vive i primi anni della ritrovata libertà dove niente è più proibito e nel sesso non ci sono tabù. Seguiranno anni di lavoro giornalistico, di viaggi («Mi interessavano i Paesi cattolici, dal Sud America ai Paesi dell'Est: volevo scoprire i tratti comuni e le differenze con l'Irlanda»), di reportage, i primi incarichi di insegnamento. Negli ultimi anni è stato ospite, più volte, della Fondazione Santa Maddalena, vicino a Firenze, dove la vedova di Gregor von Rezzori, Beatrice Monti della Corte («È la migliore ambasciatrice dell'Italia» dice), raduna ogni anno scrittori di tutto il mondo. Oggi Tóibín vive una parte dell'anno in Irlanda, l'altra in America, dove insegna, e in Spagna: «Mi sono comprato una casa, sui Pirenei, tutti i posti di mare sono stati distrutti dal turismo».
Perché decise di partire?
«Andando via, volevo un distacco netto dal mio passato emotivo e sentimentale. Così ho finito per vivere molto all'estero, ma con in mente sempre un qualcosa che chiamavo casa. Qualche anno fa sono tornato a Enniscorthy, mi sono preso una casa da cui si gode la stessa vista che vedevo cinquant'anni fa. Eppure so che non è più la stessa. Quello che chiamavo casa non significa più niente. Ecco, nei racconti di questo libro c'è il senso di un qualcosa che una volta c'era e che ormai non c'è più. È la realtà delle emozioni che conta, è quella che cambia. Non c'è disperazione in quello che scrivo, c'è una sorta di malinconia, in termini musicali si chiama tonalità minore. Parlo di una delusione, non di una tragedia».
Un tempo, per molto tempo, l'Irlanda è stato un Paese di emigranti.
«È la nostra storia, ma prima si andava via per necessità, per fuggire dalla miseria, in cerca di una vita più tollerabile. I personaggi dei miei racconti non partono più spinti dalla povertà».
Si potrebbe dire che sono emigranti esistenziali.
«Sì, non possono restare dove sono nati. Poi, quando sono lontani, non riescono a cancellare i ricordi di casa, e quando tornano non ritrovano più niente di quello che nel passato aveva contato per loro. I luoghi appaiono diversi, gli amori di un tempo non sono più raggiungibili».
Alcuni dei racconti di «La famiglia vuota» sembrano autobiografici.
«Sì, tre di questi lo sono».
Oltre a «Barcellona, 1975», quali sono gli altri due?
«"Uno meno uno" e "La famiglia vuota"».
Nel primo c'è un insegnante irlandese ad Austin, Texas, che ricorda la morte di sua madre, avvenuta sei anni prima: era tornato a casa appena in tempo per vederla spirare, e al funerale, ricorda, aveva rivisto il suo ex compagno che ora vorrebbe di nuovo accanto a sé. Anche ne «La famiglia vuota» c'è un ritorno a casa, nella contea di Wexford, quella dov'è nato Tóibín: l'Irlanda è cambiata, la nostalgia per un antico amore provoca una strana melanconia. E il protagonista non sa se restare o ripartire.
Lo scandalo dei preti pedofili, che ha occupato per anni le cronache irlandesi, compare solo in uno di questi racconti. È «I pescatori di perle» (un ricordo lontano degli anni di scuola, quando i ragazzi furono portati a teatro, alle prove dell'opera di Bizet) che parla di un prete che ha abusato di una studentessa sedicenne. Lei, una volta, ha detto in un'intervista di non aver mai subito molestie o violenze sessuali nelle scuole dei preti, anche se trovava alcuni di loro particolarmente attraenti.
«È vero, nessun prete ha mai abusato di me. Certo, la questione della pedofilia è stata ed è ancora molto viva e dolorosa. Oggi, posso dire, il cattolicesimo in Irlanda è finito. Tant'è che circa due mesi fa, con grande risentimento di Roma, il governo ha ritirato la rappresentanza diplomatica in Vaticano».
Nella raccolta di saggi «Amore in un tempo oscuro» pubblicata alcuni anni fa, lei ha dedicato una decina di ritratti a scrittori e artisti omosessuali, da Oscar Wilde a Pedro Almodovar, passando per Thomas Mann, Francis Bacon, James Baldwin.
«Per la maggior parte di loro, l'omosessualità doveva restare segreta e vivevano la loro condizione dolorosamente, come un dramma. Molti appartenevano a tempi in cui quell'amore era proibito. Oggi le cose sono in parte cambiate, c'è maggiore libertà. Ma come per il cattolicesimo, ci sono tante diverse forme di vita omosessuale, a seconda dei Paesi».
In questa raccolta, c'è «Silenzio», in cui viene rielaborato un episodio della vita di Lady Gregory, una delle animatrici della rinascita letteraria irlandese. Sposata a un uomo di 35 anni più vecchio di lei, da cui ha avuto un figlio, incontra un giovane poeta e s'innamora di lui appassionatamente. Inizia una relazione fatta di incontri clandestini, resi ancora più intensi dalla paura della donna di venire scoperta. Poi, quando la storia finisce, lei consegnerà all'ex amante dei sonetti scritti da lei, sul loro amore, chiedendogli di pubblicarli nel suo prossimo libro di poesie. Anni dopo, ormai vedova, a una cena siede accanto a Henry James, uno scrittore che ammira. Vorrebbe confidare a lui il suo segreto (se nessun altro lo conosce, pensa, è come se non fosse successo niente), ma invece gli racconta una storia diversa, di un ecclesiastico che scopre che la giovane che ha appena sposato aveva un amante.
Il segreto, il bisogno di raccontarlo a qualcuno e insieme la paura di venire giudicati per ciò che si confida, è un tema ricorrente nei suoi racconti.
«La letteratura attinge dalla vita, ma la reinventa, cambia, introduce variazioni. Una cosa è la confidenza, un'altra il romanzo. C'è la necessità, è vero, di raccontare a qualcuno i propri segreti, anch'io la provo, ma per scrivere un racconto, un romanzo, questo non basta. Si deve reinventare la storia. È questa la natura della letteratura. Per questo, quando prima dicevo che alcuni di questi racconti sono autobiografici, devo precisare: piu o meno autobiografici. Traggono spunto da esperienze vissute, poi diventano qualcosa d'altro. È come se acquistassero una vita propria».

Corriere della Sera 9.1.12
Le due destre nell’età di Vichy
di Giovanni Belardelli


Il crollo della Francia nel giugno del 1940, con l'esodo di milioni di civili da Nordest a Sudovest (quella specie di 8 settembre d'Oltralpe descritto da Irène Némirovsky in Suite francese), ebbe la sua causa anche in correnti profonde della cultura del Paese, anzitutto in un sentimento di disaffezione per la democrazia che s'era diffuso negli anni precedenti. È anche di questo che tratta un libro importante di Maurizio Serra (La Francia di Vichy. Una cultura dell'autorità, Le Lettere, pp. 292, € 28), che analizza appunto le radici culturali della sconfitta e i caratteri del progetto autoritario formulato a Vichy dal maresciallo Pétain, capo del governo nella Francia rimasta formalmente indipendente. Ma il volume studia — ed è la parte più interessante — quel fenomeno cupo e inquietante che fu il collaborazionismo degli intellettuali nella Parigi occupata dai tedeschi.
Pétain apparve ai francesi come colui che, garantendo l'indipendenza di una parte almeno del Paese, aveva salvato la Francia una seconda volta (la prima era stata, nel 1916, a Verdun). Il consenso estesissimo del quale godeva lo indusse a formulare un ambizioso progetto di «rivoluzione nazionale» che riformasse la società francese alla luce del trinomio «lavoro, famiglia, patria». Progetto che riprendeva le tradizionali critiche dell'estrema destra al regime democratico e alla rivoluzione francese, irrealistico vista la debolezza di uno Stato che di fatto dipendeva dai tedeschi.
Dal libro di Serra emerge bene la differenza tra questo progetto autoritario e reazionario e le posizioni di una nuova destra intellettuale che si coagulò in quegli stessi anni a Parigi, nella zona occupata dai tedeschi (ma dal novembre 1942 l'occupazione si sarebbe estesa anche alla Francia di Vichy), in un clima per molti aspetti ambiguo e paradossale. La Parigi controllata dai nazisti è una città ricca di fermenti culturali e artistici: vi si pubblicano libri importanti, da Antigone di Anouilh a Lo straniero di Camus; vi si rappresentano opere teatrali di rilievo; nel solo 1942 vengono girati ben 72 film. Ma è anche la città che subisce la razzia di molte opere d'arte e dove, nel maggio 1943, vengono distrutti migliaia di quadri di pittori «degenerati», come i nazisti definivano gli artisti appartenenti alle correnti di avanguardia e perciò soggetti al «morbo giudaico».
È lì che alcuni intellettuali francesi sposano la causa del nazismo, visto come l'occasione per un'estrema sfida alla società borghese, lo strumento per distinguersi — in una scelta politica ed estetica — dalle masse e dagli uomini comuni. Scriverà Drieu La Rochelle nel diario: «Sono stato tra gli happy few, tra quei pochi ragazzi che nel collaborazionismo non c'erano per collaborare, ma per non essere altrove, nel gregge che sudava paura e odio». Se i collaborazionisti militanti furono pochi, nota Serra, molti di più furono i fiancheggiatori o simpatizzanti. Più che una corrente vera e propria, gli intellettuali collaborazionisti impersonarono un insieme di aspirazioni, fobie, atteggiamenti fondati sul rifiuto di ogni posizione intellettualmente coerente, sulla critica dell'Occidente materialistico e della «contaminazione ebraica», sul richiamo alla «sana violenza giovanile», senza più alcuna nostalgia per l'esaltazione nazionalistica di ciò che è tradizionalmente francese. Un'esaltazione che trovava posto invece nell'ideologia ufficiale di Vichy.
Erano posizioni che rifiutavano la distinzione tra destra e sinistra, affiancando alla simpatia per Hitler quella per Stalin, all'apprezzamento per il fascismo quello per il comunismo, entrambi definiti da Robert Brasillach «la poesia stessa del XX secolo». Tutto questo in un'atmosfera di esaltato nichilismo, di fascinazione per la rovina e la morte. E con la morte si concluse nel 1945 l'esistenza sia di Drieu sia di Brasillach, i due scrittori forse più rappresentativi del collaborazionismo parigino: suicida il primo, giustiziato il secondo, nonostante un appello in suo favore firmato anche da intellettuali che avevano partecipato alla Resistenza. Per una singolare coincidenza nei loro ultimi giorni entrambi, come ricorda Serra, si erano dedicati alla lettura di Shakespeare.

l’Unità 9.1.12
Particelle, la caccia continua
Anche se gli esperimenti sul «bosone di Higgs» hanno fatto grossi passi avanti la fisica ha bisogno di nuove scoperte perché i conti tornino
di Pietro Greco


La caccia non è finita. Che Lhc abbia trovato o meno il «bosone di Higgs», occorrerà che in ogni caso continui il suo lavoro e trovi nuove particelle se vuol fare tornare i conti della fisica. A sostenerlo, su Nature, è John Ellis, fisico teorico del King’s College di Londra e da anni collaboratore del Cern di Ginevra. Naturalmente Ellis non è il solo a pensarlo. Ha semplicemente messo in chiaro cosa c’è da fare ora che l’acceleratore Lhc ha trovato forti indizi (ma non la prova definitiva)
dell’esistenza del bosone di Higgs (la cossidetta particella di Dio) in una regione di energia di compresa tra 124 e 126 GeV.
In realtà dopo il 13 dicembre – data dell’annuncio della probabile scoperta del bosone di Higgs da parte di Fabiola Gianotti e Guido Tonelli, leader di Atlas e Cms, due tra i principali esperimenti condotti con Lhc – nuove particelle il grande acceleratore le ha già trovate: un gruppo di fisici inglesi studiando proprio i dati di Atlas, ha reso noto a fine anno di aver individuato la particella Chi-b(3P). Si tratta di un mesone e, come tutti i mesoni, è composta da un quark (in questo caso il quark beauty) e dalla sua antiparticella. Ma Ellis non si riferiva a Chi-b(3P). O, almeno, non solo a quela. Ma a particelle cruciali, capaci di tenere in piedi il Modello Standard delle Alte Energie e di andare oltre questa teoria. Ellis prospetta diversi scenari. Nel primo e, a questo punto, nel più probabile, Lhc conferma la scoperta del bosone di Higgs intorno a 125 GeV. Proprio come previsto dal Modello Standard. Se è così siamo in un bel guaio. Perché se il bosone di Higgs è così leggero, allora calcoli teorici considerati affidabili dicono che il nostro universo si trova in uno stato energetico altamente instabile. E che – in un tempo indefinito – potrebbe collassare su se stesso, alla ricerca di uno stato energetico più stabile.
CATASTROFE COSMICA
Lo scenario della catastrofe cosmica – che finora non si è verificata e che lascia scettici molti colleghi di Ellis – può essere evitato solo se Lhc continua la sua caccia e trova, appunto, nuove particelle. Incrociamo dunque le dita, perché il destino dell’universo è nella mani di Susy (la teoria supersimmetrica). Tra qualche mese sapremo se Atlas e Cms si sono sbagliati o no. Se il bosone di Higgs esiste ed è leggero, come sembra. Nel caso, ormai improbabile ma non nullo, che si sia sbagliato, le possibilità sono tre. 1) Il bosone esiste, ma nella regione di energia superiore a 600 GeV, come previsto da alcune varianti del Modello Standard. In questo caso occorrerebbe che: Lhc trovi il bosone in questa regione; che trovi tracce di nuove interazione tra particelle note; che, infine, trovi «nuova fisica» in grado di discernere tra le infinite interazioni possibili di cui sarebbe responsabile un bosone di Higgs così pesante.
2) Il bosone esiste, in una regione compresa tra 130 e 600 GeV. I dati raccolti da Lhc escludono questo scenario. Ma se il bosone esiste in questa regione di energia, allora occorrerebbe trovare le prove o di nuove forme di decadimento, non previste dal Modello Standard, della particella che regala la massa a molte altre; oppure di diversi tempi di decadimento.
3) Lo scenario forse per i fisici più allettante. Il bosone di Higgs non esiste affatto e, dunque, non sarà trovato. Allora bisognerà trovare nuovi modi, che vanno ben oltre il Modello Standard, di spiegare perché alcune particelle elementari hanno una massa e altre no. In ogni caso, qualsiasi sia lo scenario che emergerà ci sarà lavoro per i fisici. Sia per i «cacciatori di particelle», gli sperimentali che dovranno catturare nuove, minuscole prede; sia per i teorici che dovranno illuminare nuove zone di quella grande cattedrale che è la teoria fisica delle alte energie.

Repubblica 9.1.12
La fine della reputazione
Così l´identità è diventata un brand pubblicitario
di Stefano Bartezzaghi


L´identità di ognuno ha una faccia interiore e una esteriore, la privacy e la pubblicità. I due poli opposti, uno centripeto e l´altro centrifugo, trovano un punto di contatto nell´area di ciò da cui la privacy viene difesa e su cui la pubblicità compie un´opera di costruzione: la reputazione.
È un buon periodo per parlare di reputazione. «It´s not about the money»: la battuta di Wall Street 2 è stata ripresa dalla filosofa Gloria Origgi in un articolo (il Fatto quotidiano) in cui ha mostrato come le poste reali del gioco finanziario siano affidabilità, credibilità, credito e quindi reputazione. Fra gli arbitri di tale gioco grande peso ha un´agenzia il cui nome, «Moody´s», per una coincidenza a modo suo illuminante,allude all´essere umorale e lunatico.
«Le imprese si governano con la riputazione»: non a imprese commerciali, industriali o finanziarie, allude il proverbio, né alle imprese amorose a cui si potrebbe pensare sapendo che ne è stato autore Pietro Aretino (che in realtà parlava di Giovanni dalle Bande Nere e di imprese guerresche). Si vede come già nel 1526 il termine aveva assunto il significato odierno. In origine, il reputare latino significava «fare i conti per bene» o anche «mettere in conto a qualcuno». Ma il suo significato neutro di «opinione condivisa nei riguardi di una persona» sembra il più delle volte specializzarsi nel senso di «opinione condivisa e favorevole». Lo stesso succede ad alcuni suoi parasinonimi, come stima, nome, considerazione o a una parola come fortuna. Sono nomi che stanno per una categoria (buona e cattiva reputazione; buona e cattiva sorte) ma sono anche i termini non marcati della categoria, ovvero i significati di default. La «reputazione» (come la fortuna) è quella buona, altrimenti viene specificato (il contrario avviene con la nomea, che di default è negativa). Lo si vede per esempio da tre versi di Lorenzo de´ Medici, proprio a proposito di privacy e reputazione: «Chi regge imperio e in capo tien corona / sanza reputazion non par che imperi / ne puossi dir sia privata persona».
Il concetto di reputazione, però, non pare godere (o aver goduto) proprio sempre della medesima reputazione. Non sempre, cioè, la reputazione positiva ha a sua volta una reputazione positiva. Nel principio di pubblicità e visibilità, per esempio, è implicito il famigerato «bene o male, basta che se ne parli», che rende positive espressioni come «chiacchierato» o l´inglese «the talk of the town». Addirittura è la reputazione negativa ad avere una reputazione positiva nei casi di «adorabile mascalzone», a cui si ispirano tutti i maledetti, gli antibuonisti e i cultori del politically uncorrect il cui decalogo si riassume nel comandamento «La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca» (da Sgarbi in poi, ce n´è un intero star system, il mainstream della trasgressione).
La cosa più interessante è però il rovescio: non quando la reputazione cattiva ha una reputazione buona, ma quando è la reputazione, anche buona, ad averne una cattiva. Altro che essere chiacchierato! Nelle famiglie aristocratiche si diceva che sui giornali ci si deve andare due volte: alla nascita e alla morte. A Voltaire si attribuisce la battuta con cui, a chi gli parlava di una certa Accademia di provincia «figlia dell´Académie Française», rispose: «Deve essere una figlia molto virtuosa, perché non ha mai fatto parlare di sé». L´inappariscenza e l´indistinzione, la vita appartata, quel «Per favore mi lasci nell´ombra» con cui Carlo Emilio Gadda si appellava invano all´intervistatore avevano la loro controparte nell´esistenza, oggi impensabile nel mondo del commercio, delle «società anonime».
Nel primo capitolo dei Promessi Sposi, don Abbondio ricorda di quando in passato aveva difeso la «riputazione» di don Rodrigo: per puro timore, non conoscendolo affatto. Esiste dunque la possibilità di una reputazione teorica, astratta quando non assolutamente immaginaria. È il tipo di reputazione che, negli stessi anni di Pietro Aretino, veniva studiata da Niccolò Machiavelli come strumento di dominio dell´opinione pubblica: «El fine suo non è quello adquisto o quella victoria, ma è darsi reputazione ne´ popoli sua e tenerli sospesi con la multiplicità delle faccende». Mostrarsi affaccendato, più che fare; «il fare» come sostantivo ed etichetta vuota anziché come verbo e azione effettiva e il «fatto!» come opinione autocelebrativa. Come anche la politica contemporanea dimostra (né possiamo illuderci di avere al proposito voltato pagina definitivamente) la reputazione perde il suo sostrato (quell´identità immateriale ma concreta e comprovabile, verificabile perché falsificabile, fatta di storia personale e memoria collettiva) e assume l´evanescenza dell´immagine. Brand, costruzione puramente comunicativa, ectoplasma di un´entità inconsistente e semi-fantasma, l´immagine (o reputazione immaginaria) cerca di divenire icona e di mettere così al riparo da ogni revisione storica. Nel mondo contemporaneo, chi è stato proclamato brutto, efficiente, spiritoso, scaltro, maldestro, saggio tende a rimanerlo. Sostituire l´articolato e mutevole dispiegarsi della reputazione al pregiudizio marmoreo dell´icona non è facile né gradito, perché è proporre le virtù della Cosa, opaca, ruvida e spigolosa, contro la trasparenza artificiale ma avvolgente del Mito. Nel mondo d´oggi, è come sostenere le virtù della pioggia contro quelle del solleone. O, a proposito di caldo e siccità, come predicare nel deserto.

Repubblica 9.1.12
La lingua come strumento di libertà nel pamphlet di Marramao
Quella letteratura contro il potere
Le opere di Kafka, Canetti e Müller al centro della disputa ingaggiata dal filosofo
di Nadia Fusini


L´ultimo libro del filosofo Giacomo Marramao (Contro il potere, Bompiani) si presenta col taglio agile del pamphlet – una forma espressiva dagli intenti polemici, che nel Settecento usò in maniera sublime uno scrittore sofisticato come Jonathan Swift. Esemplare la sua modesta proposta di risolvere la miseria dei nullatenenti irlandesi cattolici, ricchi però di figli, vendendo le loro creature, a tale scopo opportunamente ingrassate, ai proprietari anglo-irlandesi, perché se ne cibassero… E aggiungeva anche deliziose ricette. C´è poco da ridere, ci fu chi disse. In realtà, in tempi estremi, di fronte a mali estremi, la ragione non può che procedere per paradossi. Non a caso, negli ultimi tempi, il pamphlet, in quanto forma, ha ripreso vigore.
Secondo questa nuova tonalità, Marramao oggi riprende temi, su cui altre volte in modo più propriamente filosofico s´era soffermato: il potere, la politica, la potenza, il desiderio. Un´urgenza nuova sembra spingerlo a quelle stesse domande, applicandosi all´ascolto di scrittori-pensatori, che di fronte all´aporia della ragione si sono affidati alla "scrittura".
La scrittura e la differenza intitolava Jacques Derrida un testo giustamente famoso della fine degli anni ´60, dove per l´appunto si dimostrava come la filosofia non fosse un "genere" chiuso, ma costitutivamente aperto a contaminazioni feconde con la letteratura. Sì che, via via leggendo, la congiunzione paratattica del titolo del libro apriva a un´altra figura, quella retorica dell´endiadi, dove due termini esprimono un unico concetto. Allo stesso modo, nel libro di Marramao il potere e l´identità si stringono. Diventano la stessa cosa.
A questa conoscenza il filosofo – è lui a riconoscere il debito – arriva grazie alla frequentazione di Elias Canetti, che allena la sua mente a cogliere il dispostivo anti-metamorfico del potere; e alla lettura dei racconti di Franz Kafka, dove registra una nuova specie di critica dell´esperienza, quasi che il potere lo si conoscesse davvero solo così, nella violenza del contatto sensibile. Non c´è più grande esperto del potere di Kafka, afferma Marramao. Mentre l´incontro con Herta Müller, la scrittrice tedesca nata in Romania, esule nella sua propria lingua, accende nel filosofo italiano l´intuizione di come la disappropriazione dal proprio sé sia, pur nella sventura, una via d´accesso privilegiata alla verità dell´essere. Cui da sempre la filosofia ambisce. Il potere in rapporto alla verità è invece in difetto. Addirittura, alla verità dell´essere il potere si dimostra antagonista per la sua innata vocazione a contrastare il dinamismo, la molteplicità, la pluralità che appartengono al divenire. All´essere in potenza.
Mi è piaciuto questo libro, perché restituisce alla letteratura il prestigio di una speciale intimità con il senso dell´esistenza. Non a caso la polemica, nel senso di controversia e disputa, che Marramao ingaggia "contro il potere" prende avvio dalla figura dello "scrittore" – custode di un´idea della creatura umana in quanto essere in potenza; in potenza, non di potere. Potenza di cui dà testimonianza nella sua esaltazione della capacità di metamorfosi della lingua, nella lingua. È proprio nel linguaggio, che l´uomo si conosce capace di flessibilità; proprio perché gioca con la lingua si ritrova libero, in potenza, di potere congedarsi dalle vette del concetto per celebrare l´esperienza.
Nelle pagine finali la polemica stringe il fuoco sull´epoca nostra chiamando in scena, guarda caso, un linguista, Raffaele Simone. Si disegna qui la figura che sostiene tutto il libro: quella di una vera e propria Auseinandersetzung, un dibattimento in cui l´uno e l´altro si confrontano soprattutto sul bisogno reciproco – a ribadire che il pensiero vivo è di necessità dramma.

domenica 8 gennaio 2012

l’Unità 8.1.12
Colloquio con Pier Luigi Bersani
Bersani: unire subito  i progressisti europei
Il colloquio «Non c’è tempo da perdere. L’Europa rischia grosso. Tocca a noi guidare la battaglia per l’integrazione e la crescita»
di Ninni Andriolo


Adesso bisogna stringere con le decisioni, perché non è che i mercati abbiano bisogno di cavare informazioni dalla libera stampa, visto che sanno già tutto e speculano sui nostri tentennamenti e sulle nostre divisioni. Bisogna dare un segnale inequivocabile adesso: l'Euro costi quel che costi lo si difende assieme». Unico leader di partito presente alle celebrazioni del 215 ̊ anniversario del Tricolore, Pier Luigi Bersani, lascia il Valli dopo aver ascoltato il presidente del Consiglio pronunciare parole «di verità» sulla realtà dell'emergenza economico-finanziaria che investe l'Italia, e l'Europa.
Frasi che capovolgono il “tutto va bene” distribuito a piene mani in questi anni. Dietro le transenne c’è la gente che applaude il nuovo premier e ci sono indignados, leghisti e militanti di Rifondazione che lo contestano chiedendo elezioni. «Vedo la Lega laggiù commenta Bersani Ecco fin quando si tratta di indignati o di Rifondazione nulla da dire. Ma la Lega no. Ha governato otto degli ultimi dieci anni, ci ha parcheggiati davanti a un baratro e adesso tutto può fare tranne che contestare». È preoccupato il segretario del Pd. La moneta unica è sotto attacco, mentre l'Europa non stringe, stenta a decidere. «La mia idea è che, come riflesso alla globalizzazione, sia venuto fuori purtroppo un punto di vista ideologico di ripiegamento che è più duro della pietra, un meccanismo difensivo dal quale non si vuol venire fuori. Vedi le cose che dovresti fare ma non le fai, e questo è veramente assurdo. Uno può dire normalmente che se tutti sono d'accordo quella certa cosa si farà. Ma il dramma, qui, è che non è detto che a prevalere sia la ragione...».
Non è vero che le ideologie sono finite, ripete Bersani, «ne sopravvive una profondissima che produce nel cuore dell'Europa, e anche da noi, un meccanismo di chiusura che fa pascolare gli egoismi». Soprattutto in Germania. E i mercati giocano sull'indecisione, sugli irrigidimenti e sui ripiegamenti nazionali. Bersani ha visto Mario Monti, un incontro riservato seppure breve. Per il presidente del Consiglio l'Italia ha fatto la sua parte, e «adesso tocca all'Europa». Ma da Prodi, a Bersani, a Castagnetti, tra gli esponenti politici del centrosinistra presenti a Reggio Emilia si respira un clima sospeso, d'attesa disincantata. «Con Sarkozy è andata bene commenta Bersani, alludendo al vertice dell'Eliseo Anche la Francia comincia ad essere preoccupata perché qui siamo veramente agli Orazi e Curiazi. Il fatto è che se non c'è la difesa comune dell'euro ci sarà sempre, per definizione, un Paese che è più sull'argine. Ed è matematico che man mano che ne fanno fuori uno ce ne sia un altro che rischia di precipitare. Dopo di che quella nazione che pensa di farcela da sola ha già avuto una riduzione degli ordinativi industriali di 4 punti...». Di questo passo, quindi, rischia perfino la Germania. Si dia qualche regolata,
allora, in modo tale che, «quando si arriva ai vertici, si arrivi a qualche decisione».
Trilaterale Monti, Merkel, Sarkozy; Eurogruppo; Consiglio europeo. Di qui alla fine di gennaio sono molte le occasioni per “stringere”. E Berlino «deve mollare, deve dare una mano a fare girare un po' d'economia se non vuole che vada sotto anche lei». E deve sconfiggere quel pregiudizio che circola nella sua opinione pubblica. «Loro che con l'euro altroché se ci hanno guadagnato sono convinti invece che ci hanno rimesso», commenta Bersani.
Si passeggia sotto i portici del Teatro, il leader Pd stringe molte mani, saluta, riconosce, parla in dialetto emiliano. Ascolta un “compagno”, costretto su una carrozzella da un handicap, che si sfoga contro la manovra. «Conosco bene la vostra situazione», dice il segretario del Pd. Poi ricorda «quel passaggio del discorso del presidente del Consiglio sull' equità particolarmente azzeccato. Perché qui non si tratta di fare Robespierre, ma di arrivare a un tasso di fedeltà fiscale comparabile con quello di altri Paesi europei. E se il governo ha iniziato ad agire, secondo noi c'è anche altro che si può ancora fare. Per questo abbiamo avanzato proposte e continueremo a non mollare».
Ma è l'Europa il cruccio, il nodo da sciogliere per ripartire. «Il presidente del Consiglio mi sembra impegnatissimo sul fronte europeo ma ognuno deve lavorare dal suo lato.
Noi lo facciamo da quello dei progressisti europei. Una piattaforma, in ogni caso, si sta determinando. Anzi già c'è. Tra gli economisti e in tanti governi avanza l'idea che bisogna imboccare una direzione precisa per non sbattere contro il muro». Sul trattato salva-euro, ad esempio, «la situazione è in evoluzione, stanno girando le carte, si lavorerà perché ci siano delle correzioni. Il Parlamento europeo, tra l'altro, sta assumendo una posizione unitaria, più aperta. I margini ci sono per migliorare l'intesa intergovernativa». Ma da solo, secondo Bersani, quel terreno non basterà a placare la speculazione. «Sto dicendo che ci vuole anche dell'altro, qualche novità ancora...». Quale? «Quella di dare più risorse al fondo salva Stati snellendone le istituzioni. Nel frattempo, però, perché l'emergenza va affrontata subito, andrà dato qualche mandato in più alla Bce e si dovrà sbloccare la prospettiva degli Eurobond. Certo, tutto questo va accompagnato da regole di disciplina sui bilanci, e nessuno nega questa esigenza. Ma bisogna dare l'idea che si va verso una certa prospettiva comune per stoppare il mercato che vuol distruggere l'euro. E mettiamoci sopra tutti i soldi che servono per salvarlo. Tanto, secondo me, se si seguisse questa strada, non ci sarebbe nemmeno bisogno di usarli alla fine..».
Tutto questo, ormai, «è parte integrante della piattaforma dei progressisti sulla base della quale faremo a marzo un’iniziativa in Francia per sostenere Hollande. Ci saremo tutti annuncia Bersani e rilanceremo anche l'idea di un maggiore coordinamento delle iniziative economiche». Per il segretario Pd «serve la politica». Un'iniziativa coordinata dei progressisti europei, quindi. Perché «un conto è se si alza un partito in Germania o in Italia e dice: basta ragazzi, se ognuno va per i fatti suoi tutti poi andiamo alla rovina, altra cosa è se l'Spd in Germania, il Pse in Francia, il Pd in Italia sviluppano insieme tra le opinioni pubbliche battaglie ideali, culturali e politiche». Troppo tardi? «Speriamo di no risponde Bersani con un sospiro Certo, se tre anni fa si fosse spento sul nascere l'incendio che poi è divampato in Grecia, tutto ci sarebbe costato meno. Guarda un po’, invece, dove siamo arrivati oggi per colpa delle ideologie».

l’Unità 8.1.12
Intervista a Giuliano Pisapia
«Un centrosinistra ampio e coeso per uscire col voto dalla crisi»
Il sindaco di Milano apprezza «la generosità e la responsabilità del Pd» nel sostenere Monti. Ma invita a prepararsi alle elezioni, senza divisioni e polemiche
di Rinaldo Gianola


Sostenere il governo Monti è stata una scelta generosa, responsabile. Il Pd ha fatto bene, anche se penso che avrebbe vinto facilmente le elezioni. Non potevamo far affogare il Paese con conseguenze drammatiche soprattutto per i ceti più deboli. Ma oggi bisogna anche evitare che ad annegare sia il centrosinistra. Dobbiamo porci l’obiettivo delle elezioni per uscire dalla crisi con una svolta progressista, di cambiamento profondo della politica e delle scelte sociali ed economiche».
Giuliano Pisapia guarda al futuro del Paese iniziando il nuovo anno sul fronte dell’”Area C”, cioè la zona del centro di Milano dove dal 16 gennaio le auto potranno circolare solo a pagamento. È un provvedimento forte, europeo, che alimenta polemiche e divisioni, ma per il sindaco di Milano questa battaglia segna il passaggio dalla fase dell’emergenza allo sviluppo, al cambiamento anche culturale della città. È un esperimento importante, assieme ad altri progetti, perchè misura la credibilità di un’amministrazione di dare risposte ai cittadini, con la consultazione, la trasparenza delle decisioni giuste o sbagliate che siano, la determinazione nel difendere gli interessi prevalenti della comunità. Di Milano «che può ripartire nel 2012» e della crisi che «ci lascerà ben diversi dal passato» il sindaco parla con l’Unità.
Sindaco Pisapia, qual è il suo giudizio sul governo Monti e la sua prima manovra?
«Monti è una necessità, anzi è un imperativo nella situazione in cui ci aveva trascinato Berlusconi. Penso che solo un governo come questo sia in grado di decidere velocemente i provvedimenti indispensabili a salvare il Paese, provvedimenti tanto impopolari quanto è grave la nostra situazione. La credibilità e la capacità, anche tecnica, del governo Monti sono oggi i fattori su cui deve fare affidamento anche la politica per evitare che il Paese affondi».
In altri tempi avremmo definito Monti e la sua manovra semplicemente di “destra”. È l’emergenza che fa cambiare i giudizi?
«Questa crisi ci sta cambiando e ci lascerà profondamente diversi dal passato. Non mi sfugge che i provvedimenti di Monti sono pesanti e colpiscono chi già fa il suo dovere. Per questo mi aspetto al più presto una correzione, proposte finalizzate a una maggiore equità e giustizia sociale, sostegni alla ripresa e per i ceti sociali più deboli. Monti ha deciso misure straordinarie perchè questo momento è straordinario nella sua gravità, ma la stagione dell’emergenza deve avere un limite. È necessario, anche per confermare le nostre basi democratiche, che siano gli elettori a scegliere i governi».
Le ipotesi di riforma del mercato del lavoro hanno riproposto la modifica dello Statuto dei lavoratori e il superamento dell’art.18. Cosa ne pensa? «Penso che il governo tecnico non possa ripercorrere una strada dove hanno già fallito politicamente Berlusconi e Sacconi. Spero che il governo abbia capito che oggi non c’è bisogno di creare e alimentare altre tensioni sociali. È poi il problema non è certo l’articolo 18, non è questo che frena lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro. Lo sanno tutti, compresi gli imprenditori, almeno quelli che non sognano vendette ideologiche».
Non teme che il centrosinistra possa uscire logorato da un lungo sostegno al governo tecnico?
«Questo è il momento della responsabilità. Ma il centrosinistra deve prepararsi a una nuova stagione politica, deve essere pronto per la prova elettorale, con un programma, un disegno politico preciso e credibile, aperto alla società e alle associazioni. Sostenere Monti e pensare al voto non è una contraddizione, serve anche a evitare lacerazioni nel centrosinistra. Questa crisi e dico anche le dure scelte di Monti approvate dal Pd devono servire per costruire una proposta nuova, seria, credibile per il futuro del Paese. Possiamo farcela se ripartiamo dal basso, se evitiamo divisioni e polemiche inutili, se ci poniamo l’ambizione di uscire a “sinistra” dalla crisi. Dobbiamo puntare su un allargamento delle alleanze, su un centrosinistra ampio e coeso».
Lei è sindaco di Milano da sei mesi. In che punto si trova?
«Penso di essere uscito dalla drammatica emergenza in cui la mia amministrazione si è trovata nei primi mesi a causa delle scelte realizzate dalle giunte di destra. Abbiamo riavviato il progetto Expo 2015, abbiamo sistemato i conti e rispettato il Patto di stabilità e ora penso che, malgrado la crisi del Paese, Milano possa ripartire nel 2012. Dico che Milano riparte perchè vedo in città una grande partecipazione e disponibilità da parte di tanti soggetti, dal mondo del lavoro alle imprese, dalla società alle associazioni». Come sta incidendo la crisi economica sul tessuto sociale?
«In città ci sono sacche di povertà, anche di nuove povertà, preoccupanti. C’è chi ha perso il lavoro, lavoratori in cassa integrazione che non ce la fanno, famiglie in difficoltà. L’obiettivo prioritario dall’amministrazione è fronteggiare queste situazioni, mobilitando tutte le risorse possibili e chiedendo la partecipazione di tutte le forze sociali. Oltre alla Fondazione Welfare che ha iniziato ad operare, in questi giorni abbiano recuperato 5 milioni di euro nelle pieghe del bilancio da utilizzare in aiuto dei precari».
Lei ha deciso di vendere una quota della Sea (la società che gestisce gli scali di Linate e Malpensa) per rispettare il Patto di stabilità. Altri suoi colleghi, invece, pensano di violarlo.... «Penso che il Patto vada cambiato, ma Milano ha deciso di rispettarlo e vogliamo restare un comune virtuoso. Abbiamo venduto la quota Sea, di cui manteniamo comunque il 51%, anche per pagare le centinaia di aziende che attendevano i soldi all’amministrazione, abbiamo dato una mano all’economia. Le precedenti giunte di Milano abbellivano i bilanci grazie al fatto che non pagavano le fatture. Oggi siamo nelle condizioni di far ripartire gli investimenti, di realizzare progetti e tutti i giorni ricevo sollecitazioni, offerte da parte di governi e imprese, soprattutto delle economie emergenti, interessati a investire a Milano». Come conseguenza del riassetto azionario della Edison si è aperta una discussione sul futuro di A2A, la società di cui il Comune di Milano assieme a Brescia ha una ricca partecipazione. La venderete?
«Il dibattito di questi giorni è surreale. La giunta non ha affrontato il tema, lo discuteremo insieme al bilancio 2012. A titolo personale mi pare che A2A, oltre a generare dividendi che servono sempre, possa essere il perno di un grande progetto industriale che potrebbe coinvolgere le altre ex municipalizzate del Nord. È possibile pensare che Milano, Brescia, Bologna, Torino lavorino insieme alla creazione di un forte operatore industriale, a controllo pubblico? Questo mi sembra la sfida dei prossimi mesi».
I poteri economici e finanziari di Milano stanno cambiando. Berlusconi non è più al governo, Ligresti è in gravi difficoltà, il San Raffaele ha perso il suo leader Don Verzè e avrà presto una nuova proprietà. C’è un filo che lega questi fatti?
«Non entro nel merito di singole vicende imprenditoriali. Ogni azienda ha la sua storia e i suoi problemi. Quello che posso dire, in linea generale, è che c’è un cambiamento profondo in città nei rapporti tra i poteri dell’economia, della finanza e la politica. La mia amministrazione non dipenderà mai da quei poteri, da quegli interessi che, in passato, hanno sempre fatto quello che volevano»

il Fatto 8.1.12
Teologia della crisi italiana
di Furio Colombo


Scende e si deposita su articoli e discorsi, su prese di posizione e proteste un alone di magistero religioso. È il momento fondativo di una fede o del rigetto di una fede. Lo vedi, lo constati: una parte si avvia a credere con devozione. Una parte è composta di miscredenti o di atei. Scende e si deposita su articoli e discorsi, su prese di posizione e proteste un alone di magistero religioso. È il momento fondativo di una fede o del rigetto di una fede. Lo vedi, lo constati: una parte si avvia a credere con devozione. Una parte è composta di miscredenti o di atei. I due gruppi però ora sono tutt’altro che omogenei, fatti di gente molto diversa, fra imposizione e fiducia da una parte, fra scetticismo e rivolta (qualcuno teme rivolta violenta) dall’altra. Sia i leader delle nuove tavole della legge, sia coloro che sono decisi (non tutti decisi allo stesso modo) a restare fuori dal tempio, sono consapevoli che l’evento è unico, che il momento è decisivo. Vibra intorno a tutti (anche i miscredenti) la percezione di una eccezionalità che dà un peso enorme a ogni frase, a ogni gesto, trasforma tutto in simbolo. Salvezza e perdizione sono i due modi per definire lo spazio e i limiti dello spazio. “Adesso, subito” oppure “prima parliamone” sono i due modi di qualificare la percezione del tempo. Come sempre, la grazia non può aspettare. Il rifiuto della grazia, intesa come salvezza, è il peccato. Il peccato si annuncia col trascinamento nel tempo. “Discutiamone” è la tipica via d’uscita di chi non ha fede. Di che cosa sto parlando? Il lettore ha capito che sto parlando di Europa in questi giorni, che sto parlando dell’Italia.
Ho detto della contrapposizione tra salvezza e perdizione, ma la parola giusta è esclusione. Esclusione dalla comunità dei salvati. È la vera sanzione del peccato: fuori dal benessere, fuori dalla crescita, fuori dal futuro, fuori dall’euro, fuori dal-l’Europa. Il peccato è rifiutare il sacrificio. È vero che il sacrificio non è uguale per tutti, ma questo avviene in tutte le religioni, dove alcuni, per la stessa fede, pagano prezzi immensi e altri no.
NELLE RELIGIONI classiche si dice che Qualcuno o Qualcosa provvederà, in un’altra ambientazione di fatti e di tempi, a rimborsare chi ha dovuto eccedere nel-l’offerta (“beati i poveri”). In questa, che stiamo vivendo e discutendo, il rimborso è affidato a una speranza che prudentemente rimane inespressa. Al massimo ti dicono che, se il sistema tornerà a produrre ricchezza, non potrà che distribuirla. Tranne che in casi di guerra o di estrema calamità naturale, nessuna autorità ha mai preteso, nei sistemi democratici, una così rigorosa accettazione indiscussa di regole tanto dure che però non assicurano alcuna certezza, solo una chance. Esigono, ma non promettono. “Forse” è già un articolo di fede. Cerco di essere preciso. Tutto ciò di cui sto parlando non è il capitalismo. Del capitalismo ci sono, e vengono ripetute, regole e comportamenti che costituivano buona parte di quel disegno di costruzione sociale basata, come si ama dire, sul merito, e fondata, nella vita reale, su occasioni, ben raccolte e bene usate, di privilegio. Non sto parlando – lo vedete – di corruzione. Perché i corrotti non sono mai fra i miscredenti, non si contrappongono mai a un sistema religioso. La corruzione – così come aveva visto per tempo Martin Lutero per il cattolicesimo – si nasconde nelle migliori pratiche di fede. E perciò, in attesa di una “riforma”, sulla corruzione sospendiamo il discorso.
Mi premeva dire che la strana, mistica avventura che stiamo vivendo non è un ritorno o una rivincita del capitalismo. Il capitalismo è freddo e pragmatico e non perde tempo con le sue vittime. Spiana dove deve costruire, e costruisce, se deve, anche murando la tua finestra. Per giunta il capitalismo è privo di preoccupazioni che non siano “l’affare”, non si volta indietro, dialoga solo con soci e con partner.
Qui siamo in un tempio. Le lacrime non sono finzione, la preoccupazione anche grave non è una messa in scena, la parola deve essere ascoltata non per sottomissione alla autorità ma perché in essa chi partecipa al nuovo rito riconosce la verità. Da quella verità non si sfugge perché è l’unica possibilità di salvezza. Non fornisce tutti i dati del “come” si arriverà alla salvezza, ma una cosa è certa: questa è l’unica strada. Una religione prevale quando anche i miscredenti gravitano su di essa, nel senso che discutono, anche accanitamente, ma voltati verso l’altare, ovvero il punto sacro e caldo del tempio, quello in cui deve avvenire il miracolo. I più non stanno dicendo che la strada è un’altra. I più stanno invocando un cambiamento o attenuazione o dilazione di regole per me, o per te o per loro. In inglese la parola è advocacy. Significa che la nuova fede è più forte dei miscredenti e li sta portando, con tutte le differenze e le eresie, a un unico punto caldo? Di sicuro dimostra che non stiamo parlando di rivincita e ritorno del capitalismo puro, che non si è mai proposto come salvezza ma come naturale espressione tecnica ed economica della democrazia liberale. E non stiamo parlando di un battibecco tra destra e sinistra, fra conservatori e liberal.
No, signori, qui c’è fede, dunque vita, morte, salvezza o dannazione (nella forma della esclusione), via d’uscita o precipizio (il baratro viene continuamente invocato, e anche il baratro non è una figura del capitalismo, se non come fallimento di una impresa, e danno grave per qualcuno, quasi sempre a beneficio di qualcun altro). La strada della salvezza invece la imbocchi per fede, non perchè ti forniscono le prove.
A essere sinceri non siamo sicuri neppure del peccato originale che ci ha portato così vicini alla perdizione. Ogni paese ha il suo, in Europa. Ma la passione religiosa si estende all’America, dove il candidato repubblicano (uno di loro, Romney, ma a nome di tutti) dichiara: “Non un dollaro per salvare l’Europa”. Che vuol dire: mai finanziare il peccato. Tutto ciò porta a non notare che – proprio in America – una solida e pericolosa congrega di atei, guidata dai premi Nobel per l’economia Krugman, Stieglitz e Amartya Sen, sostiene che la nuova chiesa si fonda sull’errore. Alle dovute condizioni e con le dovute regole, si deve spendere per salvarsi, non risparmiare. E cominciare con il salvare i poveri (molti) e ridare speranza ai quasi poveri (moltissimi).
È tollerabile una simile eresia? È tollerabile se la si isola in un ghetto universitario-giornalistico, lontano dai governi. I governi tagliano, in Europa e in America, per non essere esclusi dal tempio. Dunque la decisione è terribile e semplice: abbracciare o no la fede. Tanto più che si diffonde l’inquietante sensazione che fuori dal tempio e sopra e lontano, abiti un dio potente che non ha ancora svelato il suo volto.

l’Unità 8.1.12
La nuova scritta «Assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato. I camerati»
Presenti Giorgia Meloni e un assessore capitolino. L’imbarazzo del sindaco Alemanno
Strage di Acca Larentia. La targa della vergogna davanti all’ex ministra
Giorgia Meloni insieme all’assessore Ghera e al consigliere comunale Mollicone era presente alla cerimonia, e non ha trovato nulla da ridire. Alemanno: «Si rischia di percorrere una strada ideologica»
di Massimo Solani


Si temevano incidenti ma la commemorazione del trentaquattresimo anniversario della strage di Acca Larentia, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta furono uccisi da alcuni colpi di arma da fuoco davanti alla sede del Msi mentre Stefano Recchioni fu colpito a morte da un proiettile esploso da un carabiniere nel corso di alcuni scontri esplosi alcune ore dopo, quest’anno porta con se soltanto le polemiche esplose per la targa inaugurata ieri per ricordare l’assassinio dei tre militanti missini a sostituzione di quella affissa nel 1978. «Morti per la libertà e per un’Italia migliore», c’era scritto prima. «Assassinati dall’odio comunista e dai servi dello Stato», si legge adesso sotto ai nomi delle tre vittime, firmato «i camerati». Parole di fronte alle quali non hanno trovato nulla da protestare nemmeno l’ex ministro Giorgia Meloni, l'assessore ai Lavori pubblici di Roma Capitale Fabrizio Ghera e il presidente della Commissione Cultura in Campidoglio Federico Mollicone che hanno preso parte alla commemorazione depositando una corona. Rappresentanti dello Stato, eppure niente affatto a disagio sotto la grande bandiera nera con la celtica. I motivi del cambio di dicitura della targa li ha spiegati Carlo Giannotta, responsabile della sede Autonoma di Acca Larentia. «Gianfranco Fini e il suo gruppo la sua versione tra cui Gasparri e La Russa, fecero la promessa di una Italia migliore quando nel ‘78 misero la vecchia targa. Promessa poi non rispettata. Per questo noi l’abbiamo sostituita ed abbiamo specificato l’ideologia che ha assassinato quei tre ragazzi».
ALEMANNO: STRADE IDEOLOGICHE
Parole che imbarazzano il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che non ha partecipato alla commemorazione. «È corretto mantenere su queste lapidi la dicitura: “Vittime della violenza politica”». Secondo Alemanno, infatti, «andare più nello specifico significa rischiare di ripercorrere una strada di carattere ideologico. Noi dobbiamo condannare a prescindere la violenza ideologica». Di rimuovere la targa però, come ha chiesto Fabio Nobile, consigliere regionale del Lazio del PdCI-Fds, e il senatore dell’Idv Stefano Pedica, il sindaco ha preferito non parlare. Una brutta pagina in una giornata di ricordo cui si era unito anche il presidente della Provincia Nicola Zingaretti. «Roma deve rendere omaggio ai ragazzi assassinati ad Acca Larentia cosi come a tutte le altre vittime di destra e di sinistra stroncate da una idea esasperata del conflitto politico le sue parole Dobbiamo con forza e coraggio tenere viva la memoria perché quello che è accaduto non possa più succedere».
I CORI DEL PRESIDIO
Un invito alla concordia arrivato dopo giorni di tensione e polemiche, con un corteo organizzato da Forza Nuova e Casa Pound annunciato, contestato dall’Anpi e dalla sinistra, e infine annullato anche per il timore di incidenti. Anche perché nel frattempo, non lontano dalla sede di Acca Larentia, era stato organizzato un presidio antifascista che ieri si è tenuto regolarmente sotto il controllo delle forze dell’ordine. Duecento, non di più, le persone che hanno risposto alla convocazione riunendosi all’Alberone. Abbastanza, però, perché dal presidio si alzassero cori come «10, 100, 1000 Acca Larentia» e «fascista basco nero, il tuo posto è al cimitero». Parole che hanno permesso alla destra di gettarsi alle spalle gli imbarazzi causati dalla nuova lapide per tornare ad attaccare a testa bassa. «Questi slogan fanno rabbrividire e devono indurre tutti a riflettere, in particolare una sinistra strabica che vede solo i rischi dell’estremismo di destra ha commentato Alemanno Credo che in anniversari come quelli di Acca Larentia come in quelli che hanno visto ucciso dei giovani di sinistra, tutte le istituzioni e tutte le parti politiche responsabili dovrebbero tenere un tono molto basso e molto rispettoso del sangue versato». «Forse chi si lamentava del ricordo dei ragazzi di destra uccisi a via Acca Larentia voleva che ci fosse una manifestazione di sinistra che inneggiasse a quella strage si è accodato Maurizio Gasparri Ora che c’è stata saranno contenti? O si vergogneranno della loro intollerabile faziosità? Chi fa apologia di un martirio dovrebbe finire in galera. Spero che le forze dell’ordine identifichino i responsabili di questo scempio». Il tutto mentre davanti alla sede di via Acca Larentia decine di braccia tese nel saluto romano salutavano i nomi dei «camerati» morti. In mezzo alla folla anche il senatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico e l’ex presidente dell'Ama Marco Daniele Clarke.

Corriere della Sera 8.1.12
I cinesi preparano la fiaccolata «In diecimila da tutta Europa»
di Alessandro Capponi


ROMA — «Arriveranno da tutte le parti, dalla Francia, dalla Spagna, e soprattutto da molte zone d'Italia, da Milano e Prato come dal Sud. In otto-diecimila, almeno». Le novità non riguardano solo i numeri di questa manifestazione-fiaccolata, perché c'è quest'altra frase che Lucia King, incaricata dell'organizzazione, pronuncia subito dopo l'incontro all'ambasciata cinese, ieri sera: «I presidenti di tutte le associazioni presenti si sono impegnati a mantenere la calma. Ma è inutile nascondere che ci sentiamo tutti colpiti, sia da quello che è accaduto alla piccola Joy e a suo padre, sia da questi furti e rapine che subiamo di continuo, ormai da mesi». Da molti punti di vista martedì non si annuncia come una giornata semplice, per Roma.
Nella serata di ieri appare chiaro che la richiesta di autorizzazione precedente, quella per «cinque-seicento persone» presentata al commissariato di Tor Pignattara, si può anche strappare. La fiaccolata si farà, sì, ma non muoverà dal quartiere dell'agguato che ha ucciso la piccola Joy e suo padre: l'appuntamento, visti i numeri annunciati dei soli partecipanti di origine asiatica, è stato spostato in piazza Vittorio, nel multietnico e centrale rione Esquilino. Da lì, poi, intorno alle cinque del pomeriggio, il corteo vorrebbe spostarsi e raggiungere, a piedi, la via dell'agguato. Quasi quattro chilometri da percorrere, in un giorno feriale, a metà pomeriggio: il traffico, nel quadrante est della città e non solo, rischia di impazzire. «Adesso vedremo se sarà possibile — spiega il capogruppo pd del quartiere del duplice omicidio, Gianluca Santilli — ma noi di certo contribuiremo alla riuscita della manifestazione con almeno cento persone per il servizio d'ordine. Almeno, perché i numeri potrebbero essere imponenti: oltre ai cinesi saranno presenti i moltissimi romani indignati per quanto accaduto mercoledì sera. Noi comunque faremo di tutto per evitare che tra i partecipanti qualcuno possa reagire al dolore in modo sconsiderato». I parenti della piccola Joy sono arrivati ieri dalla Cina: hanno visto la piccola nella bara bianca, all'obitorio, accanto a quella del padre, e, all'esterno, si sono sentite urla disperate.
Nel corteo non ci saranno bandiere di partito: «Ma di fronte a una ferocia mai vista in città, questa fiaccolata sarà la risposta più importante». La comunità cinese lo sa: «Noi manifesteremo per esprimere vicinanza alle vittime di quella violenza inaudita, ma anche per chiedere la protezione che spetta alle nostre vite e ai nostri beni». Subito dopo, Lucia King aggiunge un'unica frase: «Sarà pacifica». La ripete tre volte, come se qualcuno non le credesse.

Il Fatto 8.1.12
Scuole per pochi con i soldi di tutti
di Marina Boscaino


Mi chiedo se le parole di Maria Grazia Colombo, presidente dell’Associazione genitori scuole cattoliche (Agesc), intervistata da La Stampa, siano più ridicole o più irresponsabili. In ogni caso non mi sembrano coerenti con l’orientamento religioso e morale della signora. Colombo afferma: “Proprio in questo momento di crisi economica, il sistema paritario costituisce un elemento di novità. Nonostante ciò, veniamo penalizzati”. Che il sistema paritario sia una novità è relativamente vero: facciamo i conti con questa realtà – che coinvolge soprattutto scuole cattoliche – dal 2000, quando con la L. 62 le scuole private hanno potuto chiedere la parità con quelle statali. Quanti di voi, avendo deciso di non usare i trasporti pubblici, pretenderebbero il rimborso della benzina consumata per raggiungere il posto di lavoro? È ciò che le scuole paritarie hanno ottenuto e continuano a esigere, con lo Stato che – persino in un momento grave come quello che stiamo attraversando – concede loro finanziamenti, pur sottraendoli alla scuola pubblica, che esiste e offre un servizio per tutti.
Colombo scocca tutte le frecce che crede di avere al proprio arco per sostenere la sua singolare tesi: “Le differenze, tra spesa per alunno che frequenta la scuola statale e alunno della paritaria, generanoperloStatounrisparmiosulla spesa complessiva destinata alla scuola di 6.245 milioni di euro all’anno”. La presidente dell’Agesc continua: “È evidente che il mantenimento e lo sviluppo del sistema paritario risulta una voce a favore dello Stato, in quanto attua un vero e proprio sistema sussidiario all’incontrario”. Ringraziando la pia Colombo per la provvidenziale indicazione di come risolvere la crisi e cercando di non annoiare con la disamina di quanto lo Stato spende per ciascun alunno di scuola statale e paritaria (oggettivamente di più nella prima), vorrei osservare che non è questo il punto. I dati vanno letti correttamente: l’Agesc si riferisce al bilancio (parziale) dello Stato e non a quello (complessivo, non formalizzato, ma reale) della Nazione, intesa come insieme di cittadini e di famiglie. Se tutti ci pagassimo sanità e scuola privata, lo Stato avrebbe un enorme avanzo di bilancio. Chi manda i figli alle paritarie, se non le evade, paga sia le tasse – che finanziano anche la scuola pubblica – sia la retta. Lo studente paritario costa meno allo Stato perché costa di più alle famiglie. Meglio: a quelle che se lo possono permettere. Il problema è dunque decidere se istruzione e sanità siano diritti costituzionali per tutti, principi fondanti la nostra società e se lo Stato consideri imprescindibile perseguirli e sostenerli; o se invece siano uno spreco. Colombo suggerisce la seconda interpretazione. Se abolissimo istruzione, sanità, difesa, giustizia, assistenza agli anziani e continuassimo a far pagare le tasse, lo Stato andrebbe subito in attivo. Colombo sarebbe soddisfatta? Mi auguro di no, considerata la sua fede. Non bisogna poi dimenticare che in molti casi questo tipo di ragionamento suggerisce in modo implicito che mandare i figli alla paritaria dovrebbe implicare l’esenzione dalle tasse per la pubblica: meno tasse, chi può si paga la scuola di serie A, e chi non può va in quella di serie B. La formula proposta da Colombo – oltre che di facile impatto immediato, ma profondamente scorretta – porta a una società disomogenea, che determina diritti e doveri dei cittadini in base a censo e a potere d’acquisto di chi li esercita. Che fine ha fatto la morale cattolica? Inviterei Colombo, anziché a strumentalizzare le esigenze di bilancio per portare acqua al mulino della scuola paritaria confessionale, a riflettere sulla necessità di contrastare la lotta all’evasione che – ne sono certa – si annida anche tra coloro che mandano i figli alla paritaria cattolica. E a pensare un po’ di più alle esigenze di equità, di giustizia e – persino! – di carità cristiana.

Corriere della Sera 8.1.12
Il capitale umano che manca all'Italia
Siamo tra gli ultimi per diplomati e laureati. Peggio di Estonia e Polonia
di Paolo Conti


«Il 54% della popolazione ha un titolo di diploma nel nostro Paese, contro una media Ocse del 73%. È troppo poco. Dobbiamo studiare di più. Se l'Italia cresce meno di altri Paesi europei dobbiamo migliorare il nostro capitale umano». Parole di Mario Monti a Reggio Emilia, durante la festa del Tricolore. Le cifre dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, sono chiarissime. Solo il 54% degli italiani tra i 25 e i 64 anni ha ottenuto un diploma di scuola media secondaria. La media Ocse è del 73%: ma siamo lontanissimi non solo dall'85% della Germania, dall'88% del Canada, dall'89% degli Stati Uniti ma anche dal 91% della Repubblica Ceca, dall'89% dell'Estonia, dall'88% della Polonia. Nelle nuove generazioni, fascia 25-34, noi italiani siamo ancorati a un non esaltante 70%.
Commenta il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo: «Scontiamo un pregresso di bassa scolarità nella fascia alta della popolazione. Tra i 19-25 approdiamo finalmente all'81% di diplomati. Un primo intervento deve riguardare l'orientamento, per cercare di limitare al massimo la dispersione scolastica. Bisogna fornire nuove modalità per orientare le scelte, optando per percorsi coerenti con le aspettative ma anche con le caratteristiche personali. E sarà necessario informare i giovani sulle ricadute occupazionali delle loro scelte». Poi Profumo pensa a «un tutoraggio nelle fasi transitorie dei cambiamenti di livello di istruzione, medie-superiori e superiori-università. Questi passaggi avvengono nell'età critica dell'adolescenza, quando i percorsi personali sono meno chiari. Quindi un tutoraggio attento, rivolto non solo ai contenuti della didattica ma soprattutto alla necessità di insegnare ai giovani metodi, organizzazione del lavoro di studio e, insieme, un ascolto delle problematiche legate alla loro crescita».
Profumo progetta «un intervento deciso nelle aree di difficoltà che non si trovano soltanto al Sud, ma anche nelle grandi aree urbane». Il ministro sottolinea che «qui si concentra maggiormente l'abbandono scolastico che si sovrappone maggiormente proprio con le aree di maggiore povertà. Sarà necessaria una maggiore integrazione tra scuola dell'obbligo e superiore che potrebbe essere in molti casi di tipo professionale, verticalizzando in un solo plesso più gradi di istruzione (per dare riferimenti certi e continuità a ragazzi che non li hanno in casa e nella società) e fornendo agli studenti delle professionalità specifiche. Così si potrà dare continuità formativa e un mestiere (il cuoco, l'idraulico, il falegname, l'elettricista, l'elettrauto)».
Scuola e formazione. Un binomio che Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, studia da anni: «La carenza di capitale umano di cui giustamente parla il presidente Monti ha motivazioni storiche. Per questo non basta dire che ci sono pochi diplomati. Bisogna parlare anche di "quali" diplomati. Nel 1993 l'industria italiana, ogni 100 assunzioni, richiedeva solo 11 tecnici, in Germania erano 17. Oggi ne chiede ben 22. Eppure vent'anni fa su 100 ragazzi solo 20 sceglievano un liceo e 45 un'istruzione tecnica, oggi siamo con 42 al liceo e solo 33 a un istituto tecnico. E così ci ritroviamo con una gran mole di disoccupati in un'area di "genericismo indeciso" dell'istruzione e con industrie che non trovano tecnici. Urge un migliore orientamento migliorando ovviamente la qualità dell'istruzione anche tecnica».
Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe-per una società dell'apprendimento continuo (che da anni si occupa di miglioramento della qualità dell'education) invita a osservare il problema da un'altra prospettiva: «Le cifre sulle nuove generazioni dovrebbero spingerci a un moderato ottimismo. Ma sarebbe un errore. Lo scarto con gli altri Paesi in termini di capitale umano misurato con i titoli di studio diventa più spaventoso se calcoliamo che il 20-25% dei ragazzi esce dalla scuola senza alcun titolo di studio mentre la media europea è del 10-15% con l'obiettivo di ridurlo all'11% secondo la strategia di Lisbona. Una catastrofe. Si prova sgomento pensando che nel 2020, secondo le proiezioni del Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale, in Italia il 37% delle forze di lavoro avrà un basso livello di qualificazione, contro il 20% dell'Europa. Avrà livelli alti di qualificazione solo il 18% della forza di lavoro italiana, contro il 32% dell'Europa».
Un'Italia condannata a diventare un fanalino di coda? Oliva vorrebbe cavarsela con una battuta: «Difficile rimanere troppo a lungo ricchi e ignoranti... Ricordo che nell'era laburista in Gran Bretagna si diceva: the more you learn, the more you earn, più sai e più guadagni». Proposte per una soluzione? «I ragazzi e le famiglie dovrebbero responsabilizzarsi, analizzare le prospettive e comportarsi di conseguenza. In quanto ai governanti, dirò questo. Abbiamo una scuola antichissima che ha strutture, programmi e metodi identici ai tempi in cui l'istruzione riguardava il 20% della popolazione. Per esempio l'uso del computer e l'approccio verso le nuove tecnologie è ridottissimo. E i dipendenti di quel settore, più di un milione, sono governati senza alcuna tecnica del personale ma in modo egualitario e burocratico senza selezione, formazione, prospettiva di carriera, incentivi. Di conseguenza la qualità dell'insegnamento è troppo modesta, ed eccone i risultati».
Dice Tullio De Mauro, linguista, ex ministro dell'Istruzione: «Sono lietamente sorpreso che un capo del governo italiano analizzi questo aspetto del nostro sviluppo. Come uscire dalla crisi? Investendo nella qualità degli insegnanti e nella stessa edilizia scolastica. Ma vorrei aggiungere un dato che proprio l'Ocse ci contesta da anni: la completa mancanza di educazione per gli adulti. Quando si esce dalla scuola fatalmente si regredisce. Il risultato è che il 71% degli italiani adulti non è in grado di leggere correntemente un documento, un giornale, meno che mai un libro. Monti, che conosce l'Europa dove certe cose funzionano, lo sa. Basterebbe un piccolo investimento per tenere aperte le scuole nel pomeriggio e organizzare corsi di varie discipline per "rieducare" quegli adulti ancora attivi ma condannati a una progressiva, inesorabile marginalità culturale e sociale».
Parla anche Andrea Caradini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, da sempre fautore della meritocrazia e animatore sul Corriere della Sera di polemiche sul basso livello dell'istruzione in Italia: «Monti ha tutte le ragioni e finalmente questo governo apre un capitolo nuovo che da tempo andava affrontato. L'Italia non ha mai avuto un vero progetto culturale. Quindi: qual è il ruolo della conoscenza nel nostro futuro sviluppo economico? E quale contributo può dare la produzione culturale alla crescita del Paese?»

La Stampa 8.1.12
Israele - Palestina
I pericoli di uno stato binazionale
di Abraham Yehoshua


In un articolo pubblicato il 23 dicembre scorso sul quotidiano Haaretz Abraham Burg formula una nuova ipotesi secondo la quale è giunto il momento di prendere in considerazione la possibilità che Israele proceda ciecamente e inesorabilmente verso la creazione di uno Stato unico, o binazionale.
A eccezione dei sostenitori dello schieramento religioso (per via della struttura stessa dell’identità religiosa), di quelli della destra radicale laica (per via delle loro fantasie di violenza), e di quelli della sinistra post-sionista (per via dei loro ideali umanisticosmopoliti), tutte le altre fazioni politiche e ideologiche di Israele capiscono e dichiarano che uno Stato israeliano binazionale sarebbe un’eventualità pessima e pericolosa, sia a breve che, ovviamente, a lungo termine. Ciò nonostante procediamo ineluttabilmente verso la realizzazione di tale possibilità che, in determinati periodi della storia sionista, è stata considerata ragionevole e accettabile da certi ambienti.
Anche se molti di noi credono che si possa evitare la creazione di uno Stato binazionale grazie a un'incisiva azione politica, abbiamo tuttavia il dovere di prepararci, ideologicamente ed emotivamente, a una tale eventualità (così come ci si prepara ad altre potenziali emergenze) affinché essa non sconvolga la struttura democratica di Israele e non distrugga completamente l'identità israeliana-ebraica consolidatasi negli ultimi decenni.
Va compreso che uno Stato binazionale potrebbe sorgere non solo in seguito all'operato di Israele ma anche a una cooperazione segreta fra le diverse fazioni palestinesi, sia all'interno del territorio israeliano sia in Giudea e in Samaria. Persino gli esponenti più pragmatici di Hamas vorrebbero trascinare Israele in una prima fase di tale processo. Non solo per via del discutibile presupposto che ciò che è male per gli ebrei è certamente bene per i palestinesi ma perché per i palestinesi uno Stato binazionale nella terra di Israele sarebbe, a lungo termine, una possibilità più allettante del controllo sul territorio spezzettato e smembrato che potrebbero, con grande sforzo e probabile spargimento di sangue, estrarre dalle fauci di Israele.
Uno Stato binazionale, anche solo in parte democratico, potrebbe garantire ai palestinesi, grazie alla solida economia israeliana e ai suoi legami forti e profondi con l'Occidente, una vita migliore e più sicura, ma soprattutto un territorio più ampio che, entro qualche decina di anni, potrebbe diventare Palestina in toto.
Ovunque sentiamo parlare del sogno palestinese di uno Stato binazionale. E questo può forse spiegare l'insistenza dell'Olp a Camp David nel 2000, dell'Autorità palestinese durante i colloqui con il governo Olmert e anche nel corso dei recenti approcci dell'attuale governo israeliano, a non addentrarsi in negoziati seri con l'intenzione di arrivare a una vera conclusione. Questo sogno spiega anche l'incomprensibile paralisi dei palestinesi nell'organizzare una protesta civile e non violenta contro gli insediamenti, e forse pure il loro profondo sopore notturno quando dei vandali bruciavano le loro moschee. A differenza dei loro fratelli in Siria o in altri Paesi arabi che affrontano a torso nudo i proiettili dell'esercito i palestinesi osservano passivamente l'accelerato ampliamento degli insediamenti trascinandoci, con pazienza, verso uno Stato binazionale. Al tempo stesso gli ebrei, forti di una «competenza» millenaria, tornano a insediarsi e a intrecciarsi nella trama dell'identità di un popolo straniero parte dell'enorme nazione araba come hanno fatto per secoli in Ucraina, in Polonia, nello Yemen, in Iraq o in Germania, lasciandosi trascinare con timore, o forse con entusiasmo, in una situazione che ha causato loro grandi catastrofi ma che soprattutto potrebbe distruggere definitivamente la possibilità di normalizzazione della sovranità israeliana.
Alla gran maggioranza dei religiosi estremisti, o anche parzialmente moderati, l'ideale di uno Stato binazionale non appare tanto minaccioso. Chi ha saputo mantenere la propria identità per secoli in ogni parte del mondo per mezzo di testi scritti e di una vita comunitaria ristretta riuscirebbe di certo a serbarla anche in un singolo avamposto circondato da villaggi arabi con una compagine militare a garantirne la sicurezza. Gli estremisti di destra, dal canto loro, che considerano Israele una gigantesca portaerei statunitense (secondo le parole del ministro Uzi Landau), credono che quella confusa potenza concederà loro di risolvere il problema demografico al momento opportuno con una serie di silenziosi trasferimenti di popolazione. E nemmeno gli umanisti cresciuti nell'ideale di fratellanza fra i popoli secondo gli insegnamenti dei movimenti politici Hashomer Hatzair e Brith Shalom non vedrebbero nulla di male nella futura presenza di uffici di Hamas nelle torri Azrieli di Tel Aviv, fintanto che questi non intralcino il loro approccio umanistico.
Ma per chi ha creduto e sognato un'identità ebraica indipendente che metta alla prova, nel bene e nel male, i propri valori in una realtà territoriale nazionale, uno Stato binazionale spezzerebbe dolorosamente questo sogno e sarebbe fonte di duri conflitti, come dimostra il fallimento di altri Stati binazionali costituiti da popoli molto più vicini sotto un profilo religioso, economico, storico e di valori comuni di quanto lo siano ebrei e palestinesi.
È ancora possibile evitare il male che ci aspetta? Riusciremo a convincere i palestinesi a realizzare l'ideale di due Stati per due popoli (anche nel quadro di una federazione)? È ancora possibile convincere i sostenitori di Israele negli Stati Uniti e in Europa a mostrare risolutezza morale e a impedire a Israele di seguire l'ambigua via che ha intrapreso? E nel caso in cui il binazionalismo dovesse diventare realtà, come potremmo limitarne i danni? Come potremmo prepararci senza che esso distrugga l'indipendenza laica israeliana e non ci schiacci fra la discriminazione femminile di stampo ebraico e quella di stampo musulmano? Queste sono domande serie e nuove alle quali anche i sostenitori della pace devono trovare una risposta.

il Riformista 8.1.12
Tra passato e futuro
I sentieri lunghi della primavera araba
Tunisia Egitto Siria
Spread in Piazza Affari, sangue a piazza Tahrir, il libro di Francesca Corrao, il vecchio imprenditore mazziniano di Tunisi: «Qui era una pentola a pressione».
di Giuseppe Provenzano


Il ‘68 non fu solo il Sessantotto, si sa, ma già un po’ il ’67 e il ’69 soprattutto. E se il ’48 fu proprio un Quarantotto, il ’49 non sarebbe stato meno. E come poteva allora il 2011 arabo compiersi nell’anno appena scorso? L’esercito siriano spara ancora sulla folla e continuano le violenze nello Yemen, le milizie gheddafiste resistono al governo transitorio della Libia e in Egitto il travagliato processo democratico dei militari, pure in questo tempo di elezioni, si macchia nelle galere o nelle piazze del sangue del popolo, delle donne, specialmente.
Persino in Tunisia, dove tutto cominciò col rogo umano a Sidi Bouzid in quello scampolo finale del 2010, protagonisti e studiosi meno improvvisati avvertono che se date e anniversari sono simboli importanti e necessari il 14 gennaio della cacciata del dittatore, a cui già intitolano piazze e che ci s’appresta a celebrare – la Primavera non può durare un solo anno, non dura tutto l’anno, in altre stagioni bisogna attendere i frutti, molte volte ancora sarà sfiorito e rifiorito il gelsomino. Sorprendente, l’anno vecchio. Prepotente, la voglia di giustizia e libertà sulla sponda Sud del mare nostro, ci colse di sorpresa. Ci mancavano gli “antefatti”, quelli che Francesca M. Corrao – nel lungo captolo che apre il recente volume da lei curato, Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea, Mondadori Università – ricostruisce in due secoli di storia politica e processi culturali e sociali. Eminente arabista, andata e venuta dal Nord Africa e dal Medio Oriente, e specialmente dall’Egitto (che molto ritorna nelle pagine del libro), in decenni di studio e passione, offre uno sguardo sui rivolgimenti politici, i mutamenti nelle strutture sociali, i processi (talvolta effimeri) di modernizzazione, oltre il velo di un orientalismo mitico troppo usato o la coltre fumosa con cui recentemente abbiamo avvolto un mondo vario nell’immaginario “popolo islamico”, «dai contorni poco definiti, ma vagamente tendenti al fanatismo».
Fa saltare molti meccanismi di «invenzione dell’altro»: quelli perfezionati nel chiacchiericcio occidentale sulla donna araba, a cui è dedicato un capitolo decisivo, che arriva al ruolo delle donne «con o senza velo» negli eventi rivoluzionari svolgendo il filo di una riflessione complessa sulla condizione femminile; o quelli ridotti alla logica più spietata e disumana che l’Europa per nostra mano ha messo in campo a Lampedusa, tutta un’estate in cui abbiamo volto in inferno la loro primavera.
Al di là del crimine, qui peserà l’errore politico d’aver lacerato le «trame mediterranee», una storia lunga di scontro e incontro con «l’altro»: quelle percorse nel libro, quelle che hanno ammantato il “Sogno mediterraneo”, la curiosa intraprendenza e l’intelligente lungimiranza di Ludovico Corrao, tragicamente scomparso nell’agosto siciliano di questo terribile anno vecchio – a cui il libro della figlia è inevitabilmente dedicato.
Il pregio migliore dei saggi raccolti – oltre al valore squisitamente “didattico” dell’insieme (utile la lunga cronologia finale che risale al Settecento e ricchi i riferimenti bibliografici) – è di aver mantenuto la promessa introduttiva di sfatare i troppi luoghi comuni. L’approfondimento politico sui tre paesi – Tunisia, Egitto e Siria – che per diverse ragioni svolgono un ruolo cruciale ed egemone nell’area, è preceduto da una messa a fuoco degli elementi «che hanno svolto un ruolo cruciale prima e durante le rivoluzioni»: il processo di emancipazione femminile, la democratizzazione della società civile, i media arabi e i new media. Nella «crescita culturale, tecnologica e demografica» vanno dunque ricercati i fili conduttori alla crescita economica e alla consapevolezza delle disuguaglianze, e finalmente al rivolgimento politico.
Il carattere generazionale che ha guidato i movimenti di protesta in tutta l’area, benché non si presti a eccessive semplificazioni, ci dice «cosa si muove in queste società in rapida crescita che, pur sviluppandosi autonomamente, interagiscono con noi»: la «forza demografica che manca alla sponda Nord» e che «contribuirà in modo decisivo a delineare il futuro del Mediterraneo».
Le parole dei poeti (e letterati, artisti, registi, filosofi, intellettuali), spesso tradotti e frequentati dalla Corrao, impreziosiscono un volume che suggerisce «sentieri nuovi» alla riflessione: il racconto e l’analisi geopolitica, socio-economica e strategica, talvolta rischia di perdere di vista «l’humanitas e le ragioni profonde» che possono dar conto della «valanga di collera crescente» e «voce ai protagonisti che dietro le quinte hanno promosso il progresso di questi paesi e infine hanno dato anima e corpo alle rivoluzioni».
La suggestione di questi due secoli di storia, aneliti di libertà e repressioni politiche o religiose, si faceva immagine per le strade di Tunisi. Un gioco a nascondersi e a specchiarsi con «l’altro», un groviglio di rimandi e coincidenze – le più banali e inquietanti: Primavera araba e crisi dell’Europa, spread in Piazza Affari e sangue a Piazza Tahrir – mi ha condotto per rue de Russie, oltre le balle di filo spinato che circondano l’ambasciata d’Italia, alle porte aperte del palazzo di fronte, sotto l’insegna “Imprimerie Finzi”.
«All’inizio del Novecento qui era una palude, mio nonno ci veniva a caccia». Non dice, Elia Finzi, il vecchio patriarca della comunità degli italiani in Tunisia, stampatore da cinque generazioni ed editore (la cui attività ora è proseguita, più industrialmente, dal figlio Claudio), quanto dev’essere costato al nonno Vittorio e al padre Giuseppe, lasciare la prima sede della stamperia del 1829, il palazzo Gnecco nel cuore della Medina, per «la città nuova, che gli italiani contribuirono a costruire», per questo edificio che vide la prima linotype del Maghreb e che ora è la sede del Corriere di Tunisi.
Il vecchio Elia, ottantasette anni, lo dirige con tenacia e ci accoglie nel suo studio rialzato. «Quel palazzo nella Medina era luogo di esuli politici, mazziniani e liberali, fuggiti dall’Italia prima del 1848». Giulio Finzi fu uno dei primi ad arrivare, carbonaro livornese scappato ai fallimenti dei moti del ‘20 e ‘21. «Vi si costituì la Giovane Italia e ci passò anche Garibaldi, costretto poi a fuggire per aver insidiato tutte le belle signore dell’alta borghesia tunisina».
Elia parla con voce roca, fioca, in un bellissimo italiano depurato da ogni inflessione che lo rende un po’ straniero. «La storia della mia famiglia la trova sui libri», taglia corto. Grandi idealisti, laici e democratici, «veri eredi della Rivoluzione francese», animatori della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, «cittadini del mondo» che hanno attraversato tutte le vicende politiche italiane e tunisine degli ultimi due secoli: il Risorgimento e il regime beylicale, il Fascismo e il protettorato francese, la Repubblica e l’indipendenza tunisina, Bourghiba e Ben Alì, Craxi e Berlusconi. «Non è stato certo facile. Durante la guerra, noi eravamo nemici di tutti». Sulla storia che ripercorriamo, avverte l’uomo cresciuto a pane e tolleranza, non ha giudizi da esprimere, «solo opinioni».
Così sulla Primavera, sui Gelsomini: «Esattamente un anno fa, in quei giorni, mi trovavo tra la vita e la morte, in un letto d’ospedale». Da lì, dettava editoriali incoraggianti alla Rivoluzione per il suo giornale e diceva al figlio, pur nell’incertezza e crisi di liquidità, di trovare il modo di «continuare a pagare gli operai», gli oltre cento tunisini che lavorano nella loro impresa. «Certo che si può essere imprenditori di sinistra», sorride. Parla di pane e lavoro, pance troppo piene e pance vuote: «Non è solo la libertà, è anche la giustizia sociale. Qui era una pentola a pressione. Era evidente che sarebbe esplosa. L’Europa era distratta».
È più di un’ora che siamo nella stanza. Alle pareti le sue foto con Pertini e con Napolitano. «E quindi se n’è andato davvero, quello là?», e quasi non ci crede. «Come finirà qui, chi po’ saperlo? Chi poteva immaginare che dopo il 1789 sarebbe arrivato il terrore...». Non gli manca certo l’entusiasmo, eppure frena i nostri, per prudenza. Sale lenta per le scale, con sobria eleganza d’abito e d’occhiali scuri, la signora Lea. Interviene decisa nella discussione, e ci invita risoluta a non fare troppe domande: «Basta andare davanti a una qualsiasi Moschea». È francese, la signora Finzi, e si capisce. Ha origini genovesi, «e chi non ha origini italiane»? Torniamo a parlare d’emigrazione. Allora riprendo le suggestioni, azzardo il parallelismo – quasi personale, stavolta – tra quel suo avo e i compatrioti fuggiti per la lotta nel Risorgimento italiano ed europeo, Primavera dei popoli, accolti in Tunisia dove hanno prosperato, e quei ragazzi tunisini e arabi che, nei giorni della loro Primavera, rinchiudevamo a Lampedusa o a Manduria. «Loro ci hanno aperto le porte. Noi invece le sbarriamo». E com’è che in Tunisia non se ne parla? «Tra la gente del popolo, la tragedia si sente». Mi invita a sporgermi dalla finestra. Di fronte, è l’ambasciata. «Lo vedi il filo spinato? Tutti i giorni venivano le madri a gridare, a chiedere dei loro figli».
S’è fatto tardi, ora. Elia forse s’è stancato. «Spiace, alla mia età, non poter seguire la situazione a lungo, in pieno». Nella stanza, è il piccolo Claudio, figlio di Emanuela e di Michele, osservatore internazionale per il processo costituente. Il suo primo anno, appena compiuto, lo ha trascorso in Tunisia. Piange forte e si dimena, non sente ragioni. S’è stancato pure lui. Elia lo guarda, azzurro negli occhi. «Hai ragione tu».

il Fatto 8.1.12
Quei cinque corpi appese, incubo di Varsavia
Ritrovate in un cassetto alcune foto perfetto esempio della banalità del male
di Robert Fisk


Clive Burrage mi ha scritto parlandomi di suo cognato, Harry Leekes, pilota di un bombardiere della Raf negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale e poi di stanza a Colonia nei primi mesi dell’occupazione della Germania a opera delle forze alleate. “Mentre cercava dei mobili, per caso ha trovato queste foto in un cassetto”, mi ha detto Clive quando gli ho telefonato. In una foto si vede Hitler che cammina nella strada di una città che sembra Varsavia, probabilmente nel 1939. In un’altra si vedono Hitler e Goering che giungono in una base aerea. La terza foto è agghiacciante: in una strada buia e fredda – soldati e civili indossano pesanti cappotti – si intravede l’insegna di un negozio verosimilmente in polacco mentre dal balcone del primo piano penzolano i cadaveri di cinque uomini impiccati.
LE MANI sono legate dietro la schiena. Sulla sinistra dell’immagine si scorge un soldato tedesco che scatta una foto dei cadaveri. Non avevo mai visto questa foto. Sembra il souvenir di un militare tedesco che probabilmente spedì la fotografia alla sua famiglia, cui apparteneva la credenza nel cui cassetto Harry Leeks la trovò quattro o cinque anni dopo. Questa foto racconta una storia, mi ha scritto Clive Burrage, quella dell’homo homini lupus (l’uomo è un lupo nei confronti dei suoi simili). La lettera di Clive è arrivata insieme alla lettera di un lettore, T.J. Forshaw, che – come Clive – è rimasto colpito dalla fotografia che abbiamo pubblicato poco tempo fa sull’Independent: ritraeva un ufficiale dell’Einsatzgruppen nazista mentre, nel 1942, sparava ad alcuni ebrei a Ivangorod, in Ucraina.
“È possibile che in alcune circostanze quasi chiunque – compreso chi le scrive – possa diventare un feroce assassino? ”, mi ha chiesto il lettore. “E se la risposta è affermativa, queste belve come possono dormire sonni tranquilli nei loro comodi letti senza sognare di suicidarsi? ”. Nemmeno a farlo apposta sempre lo stesso giorno mi è arrivato un biglietto di Wies de Graeve dell’Istituto Fiammingo per la Pace, che tre anni fa mi aveva invitato a tenere a Ypres una conferenza in occasione delle celebrazioni per l’armistizio.
Quest’anno il discorso a Ypres lo ha fatto Lakhdar Brahimi, lo statista algerino cui si deve il cessate il fuoco in Libano dopo 15 anni di sanguinosa guerra civile. Brahimi, che è una mia vecchia conoscenza ed è inoltre una persona molto per bene, parlando a Ypres ha sollevato lo stesso identico interrogativo che Clive e Forshaw sollevano nelle loro lettere: “I libanesi sono considerati da tutti – e si considerano – persone sofisticate, raffinate, dotate di una gran senso degli affari, amanti dell’arte, pacifiche e inclini a godersi la vita. Tuttavia a partire dai primi anni ’70 sorpresero il mondo, e se stessi per primi, combattendo con inaudita violenza e ferocia tra loro e contro l’invasore israeliano”. Naturalmente una cosa è combattere contro un invasore straniero, altra cosa è combattere contro i propri fratelli in una guerra civile. “A questa come a molte altre domande non sono riuscito a trovare risposte adeguate e pienamente soddisfacenti”, ha detto Brahimi. “Non ho trovato risposte né nei libri degli studiosi né nell’esperienza di vita. Forse la verità è più semplice di quanto siamo indotti a pensare: probabilmente noi esseri umani non siamo poi così diversi gli uni dagli altri sia individualmente che collettivamente nel senso che, a seconda dei casi, siamo capaci del meglio come del peggio. Sono le circostanze a renderci in un modo un certo giorno e nel modo opposto un altro giorno”.
È UNA spiegazione che non mi soddisfa. I soldati britannici, i soldati americani, i soldati “alleati” hanno fatto cose tremende, terribili, durante la seconda guerra mondiale, in Corea, in Malesia, in Indonesia durante la dominazione olandese, in Algeria e – sì! – in Afghanistan e in Iraq. La crudeltà di questi soldati era il prodotto della cultura dell’impunità, del colonialismo e del razzismo ispirato dai vari governi. La storiella ridicola e ingannevole delle “poche mele marce” ripetuta pappagallescamente da George W. Bush e da Tony Blair è una colossale sciocchezza. Ma i nazisti avevano qualcosa di intrinsecamente terribile: appartenevano a un regime irrecuperabilmente malvagio, a una società nella quale ogni singolo individuo poteva essere giudicato cattivo. Avner Less, consulente della pubblica accusa nel processo contro Adolf Eichmann celebrato in Israele, era convinto che Eichmann potesse essere prodotto solo da una dittatura, mai da uno Stato democratico. Ma nemmeno questa spiegazione mi convince del tutto. Stando alle esperienze degli ultimi decenni possiamo tranquillamente giungere alla conclusione che noi occidentali incoraggiamo, spingiamo e induciamo altri a commettere atti orribili senza assumercene alcuna responsabilità morale.
CERTO non si tratta di atti e comportamenti paragonabili a quelli di cui si macchiarono i nazisti. Ma il trasferimento di prigionieri verso Paesi totalitari nei quali dovevano essere torturati, le prigioni segrete, la tortura sistematica e di massa, le esecuzioni per mano dei nostri alleati (in Afghanistan, in Marocco, a Damasco su mandato della Cia e in Libia con la complicità britannica) sono vergognose manifestazioni di una inclinazione alla ferocia che appartiene a noi tutti. Forse non siamo più capaci di sporcarci le mani da soli. Il diritto internazionale – per lo meno ciò che ne è rimasto dopo i comportamenti criminali di George Bush e Tony Blair – continua a impedirci di trasformarci in nazisti. E temo proprio che tutti – nessuno escluso – dormiamo sonni profondi e senza incubi.
Una cosa è tendere una mano amichevole ai musulmani – come ha fatto Barack Obama al Cairo due anni fa – e a quanti si battono contro le dittature, altra cosa è fornire armi ai tiranni. Al Cairo ho avuto modo di vedere alcune cassette di granate sparate dalla polizia di Mubarak contro i dimostranti di piazza Tahrir. Sapete dove sono state fabbricate? A Jamestown, in Pennsylvania.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 8.1.12
Giovanna d’Arco & C. la politica arruola i fantasmi
Sarkozy strappa la Pulzella a Le Pen e divide la Francia Ma il Medioevo “addomesticato” dilaga in molti Paesi
In Italia i leghisti si sono appropriati di Alberto da Giussano sulla cui epopea non mancano i dubbi
di Massimiliano Panarari


Non c'è mai pace per la povera Giovanna d’Arco. In questi giorni la Francia sta celebrando il sesto centenario della nascita della patrona nazionale (avvenuta il 6 gennaio del 1412), e le polemiche esplodono con una durezza che non si ricordava da tempo. La ragione, naturalmente, risiede nel clima elettorale fattosi ormai incandescente e in un Nicolas Sarkozy che, divenuto timoroso riguardo le proprie chances di rielezione, non si fa scappare nessuna occasione promozionale. A tre mesi e mezzo dal voto, la visita di Sarkò alla casa natale di Giovanna a Donrémy, nei Vosgi, ha così dato fuoco alle polveri, con la sinistra che, sentendo stavolta il vento in poppa, non ci sta a farla trasformare in un santino elettorale a uso e consumo dell’Ump. E anche questo è un fatto nuovo, perché, da sempre, la Pulzella d’Orléans rappresenta innanzitutto un’icona della destra dura e pura, la quale riserverebbe (metaforicamente) al Presidente in carica una fine simile a quella che gli inglesi inflissero alla santa combattente, bruciata sul rogo come eretica (un’«imputazione» che la Chiesa cattolica cancellerà prontamente).
Ecco, allora, che dal Partito socialista, da sempre assai tiepido nei confronti della mistica condottiera (con l’eccezione di Ségolène Royal), si è levata più di una voce per ricordarne la valenza di simbolo di unità e concordia, da non strumentalizzare per la battaglia elettorale. E, dunque, Sarkò giù le mani da Giovanna d'Arco: parola di Harlem Désir (il vecchio leader di Sos Racisme, oggi numero 2 del Ps di Martine Aubry) e di Vincent Peillon (l’eurodeputato attualmente uomo chiave della campagna di François Hollande). Mentre, da altri lidi della variegata sinistra transalpina, Eva Joly (l’ex magistrato candidata dello schieramento ecologista) rimprovera al capo dello Stato di inseguire l’estremismo di destra esaltando un «simbolo ultranazionalista», quando il problema vero consisterebbe, invece, nel rilanciare la solidarietà tra europei di fronte alla crisi drammatica che stiamo vivendo. E, naturalmente, fuoco e fiamme contro Sarkozy vengono da Marine Le Pen (anch’essa temutissima candidata alle presidenziali), che lo accusa di scippo, rivendicando la maternità della memoria dell’eroina che «ha buttato gli inglesi fuori dalla Francia», recuperata a metà degli anni Ottanta dal Front national di suo papà per venire riconvertita nella testimonial di una serie di dure campagne anti-immigrati e a difesa della «purezza della stirpe» francese. Peraltro con le sue innegabili (ancorché discutibili) buone ragioni, perché se la Pulzella è stata spesso invocata anche dai laici governanti della Terza Repubblica, il top della popolarità l’ha sempre raggiunto in seno all’arcipelago della destra estrema, dall'Action française protagonista, a inizio secolo scorso, di una violenta diatriba con un famoso professore di liceo, Amédée Thalamas, «reo» di avere sollevato alcuni dubbi storiografici sulla vulgata che circondava l'eroina al regime collaborazionista di Vichy, dai monarchici ai cattolici tradizionalisti.
La storia, si sa, è terreno di scontro ideologico da sempre, ma l'«affaire Giovanna d'Arco» di questi giorni sembra confermare una tendenza peculiare di questa nostra temperie postmoderna, ovvero la predilezione della politica a dividersi su personaggi ed eventi del Medioevo. In diversi (da ultimo il bel libro di Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante, edito da Einaudi) ci hanno spiegato come l'Evo di mezzo sia massicciamente entrato nell’immaginario collettivo degli ultimi decenni, senza risparmiare quella dimensione dell’identità che una parte della politica, vedova (consolabilissima) di sistemi di pensiero e idee forti, ha pensato bene di proiettare su una galleria di figure eroiche collocate in epoche assai lontane e con il vantaggio di essere spesso circonfuse di una sorta di aura leggendaria. Un fenomeno che spiega molto bene il ritorno prepotente dei nomi e dei simboli di cavalieri e condottieri medievali sui tremendi campi di battaglia delle guerre etniche dell'ex Jugoslavia, per nobilitare la rinnovata volontà di potenza della Russia di Vladimir Putin o per puntellare il governo nazionalista e xenofobo nella triste Ungheria di Viktor Orbán. Altrettante reinvenzioni della tradizione per scopo politico. Come quella, per rimanere nei prati di casa nostra, che la Lega Nord ha operato a proposito di Alberto da Giussano, il mitico condottiero del XII secolo grazie al quale i Comuni italiani sbaragliarono le armate imperiali di Federico Barbarossa (tanto da meritarsi, secoli dopo, un costoso kolossal cinematografico sotto l’ultimo governo Berlusconi). Mitico o, forse, assai più verosimilmente «mitologico», come ritiene la gran parte della comunità storiografica internazionale, per la quale dell’esistenza del comandante militare della Lega Lombarda non esistono nei documenti tracce attendibili (da leggere, per rendersene conto, il libro del medievista Paolo Grillo, Legnano 1176, Laterza). Insomma, un falso pluricentenario.

Corriere della Sera 8.1.12
Se i musei chiudono per ragioni «etniche»
di Pierluigi Panza


Alcune tra le più antiche istituzioni culturali della Bosnia Erzegovina stanno chiudendo per una mancanza di finanziamenti causata dalle controversie in atto tra i politici dei suoi tre diversi gruppi etnici. Nel 2011 ben sette istituzioni, tra le quali il Museo Nazionale (la cui collezione comprende il famoso manoscritto ebraico conosciuto come la «Haggadah» di Sarajevo) non hanno praticamente ricevuto finanziamenti. Di conseguenza, la Biblioteca Nazionale e il Museo Storico hanno chiuso nelle scorse settimane; la Galleria Nazionale la scorsa estate mentre il Museo Nazionale prevede di chiudere nelle prossime settimane perché non è più in grado di pagare le bollette della luce. «Ci siamo trovati nel mezzo di una battaglia politica e siamo diventati un problema», ha dichiarato Adnan Busuladzic, direttore del Museo.
Una delle ragioni profonde delle chiusure è l'assenza di una memoria condivisa tra i leader politici serbi, croati erzegovini e musulmani del Paese e il conseguente disaccordo su come gestire il patrimonio culturale. Sarajevo e la Bosnia, sono l'esito di un sovrapporsi di identità e culture, e ciò costituisce il vero e proprio genius loci da conservare. Ma questo è difficile da accettare per chi esce da conflitti sanguinosi. Così sui musei bosniaci si è aperto uno scontro sul modello di governance da adottare che è il riflesso di uno scontro ideologico: i serbi si oppongono al controllo del governo centrale sui siti culturali perché ritengono che ciascuno di essi abbia una propria identità; i bosniaci, invece, vedono nella governance centrale un modo per formare una storia della Bosnia. Il ministro della cultura, Salmir Kaplan ha dichiarato che il governo pagherà le bollette. Quello che manca è la volontà di accettare una pluralità di tradizioni.

Corriere della Sera La Lettura 8.1.12
Umori illiberali sotto la barba di Marx
Ma Ciliberto lo riscopre e lo elogia come profeta della democrazia
di Gaetano Pecora

qui
http://www.scribd.com/doc/77525416

Repubblica 8.1.12
Karl Marx, arrivano gli inediti "So solo che non sono marxista"
Migliaia di pagine ancora da catalogare Centinaia di volumi ancora da pubblicare Analisi e profezie ancora da studiare Nell'anno della crisi, viaggio (con sorpresa) negli archivi del padre del comunismo
di Andrea Tarquini


BERLINO. Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali.

Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore critico sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali e alle nuove tecnologie. Credeva nella democrazia e nella libertà di parola molto più di quanto non si pensi, le riteneva irrinunciabili. E la crisi odierna del capitalismo attuale lui l´aveva a suo modo prevista, molto più di come ce lo tramandarono le dittature totalitarie realsocialiste. Riemerge dal passato come un moderno newlabourista, un progressista tedesco o un liberal americano dai suoi scritti di migliaia di pagine ingiallite ma spolverate con cura in un bel palazzo neoclassico qui a Berlino, al numero 22/23 della Jaegerstrasse.
Qui nella splendida Mitte a un passo da Gendarmenmarkt, la piazza delle cerimonie prussiane e del Kaiser, forse la più bella della capitale. Eccoci al quarto piano della Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, l´Accademia delle scienze che rivede la sua opera e un volume dopo l´altro ne prepara la pubblicazione completa: 114 tomi, di qui al 2020 e chi sa come allora sarà il mondo. «Certo lui lo aveva studiato e previsto molto meglio di come ci fu detto dai poteri che lo usarono post mortem», spiega il dottor Gerald Hubmann, responsabile a fianco del professor Manfred Neuhaus del grande lavoro. Ma insomma, di chi stiamo parlando? Di Karl Marx, proprio lui. Qui i suoi scritti, volumi, appunti, epistolari, vengono studiati, riletti in modo critico e pubblicati passo dopo passo. E lui, «il vecchio barbone» come lo chiamarono affettuosi e riverenti generazioni di militanti di sinistra, insieme a Friedrich Engels torna attuale in un´altra luce.
È un tuffo nella storia, quello in Jaegerstrasse 22/23. Un tuffo sereno nella doccia fredda inquietante della crisi del mondo globale. I volumi, rieditati in versione critica e scientifica, uno dopo l´altro si accatastano nelle stanze degli accademici. Mega, come "grande" in greco antico, si chiama il progetto dell´opera completa di Marx ed Engels rivista in modo critico. Mega in tedesco è una sigla: Marx-Engels GesamtAusgabe. Frugando nelle carte consunte dal tempo si scoprono cose che i contemporanei di Marx vollero ignorare, e che il marxismo-leninismo ufficiale preferì censurare. Le Tesi su Feuerbach, spiega Hubmann, non furono all´inizio parte de L´ideologia tedesca. Vi furono inserite solo dopo, e il tutto, secondo Marx, era solo una collezione di appunti «destinata ai topi». Appunti di agitazione politica consegnati ai manoscritti suoi dell´epoca, tutti a penna con correzioni e cancellature, i disegnini di volti spesso femminili magari schizzati da Engels accanto. Slogan politici trasformati in ortodossia nell´Urss. Insomma: la teoria secondo cui l´esistenza materiale determina la coscienza, base del materialismo storico, spiega Hubmann, era un´idea in cui Marx non credeva. Guardi qui, dice mostrando un volume riedito, Marx disse: «Tutto quello che so è che non sono un marxista».
«Un volume dopo l´altro», spiega ancora Hubmann, «noi curatori di Mega scopriamo un altro Marx. Non un "cane morto", non un ideologo del passato, bensì un politologo e scienziato attuale. Un uomo che continuò a ricercare con curiosità fino alla vecchiaia e seppe vedere e prevedere le radici della crisi di oggi. Studiò nei suoi tardi anni l´evoluzione del capitalismo, da capitalismo industriale a sistema sempre più basato sul credito e sulla finanza e quindi esposto alle sue oscillazioni e alle sue incertezze», a crisi ingovernabili a danno di tutti. La svolta, la sua fase dopo Il Capitale, cominciò con lo studio dell´economia americana: i grandi spazi, l´esigenza di costruire in fretta ferrovie e altre infrastrutture, la crescente fame di materie prime, il boom dell´agricoltura, spiegano gli accademici, imposero la crescente dipendenza dell´economia reale dal credito: serviva sempre più denaro. Mega, II/13: ecco le analisi di Marx anziano sui nuovi processi di circolazione del capitale, sul suo sviluppo col turbo come sistema sempre più finanziario. Sembra di leggere pagine sulla crisi dei nostri giorni, invece sono vecchie di un secolo e mezzo. È un caso, un accidente della storia, se il progetto Mega ha potuto vedere la luce. Opere, carteggi, epistolario e appunti di Marx ed Engels erano in mano all´archivio della Spd. Dopo la rivoluzione bolscevica, nacque un fitto lavoro comune di scienziati socialdemocratici tedeschi e del Pcus per sistematizzarle. Parte del materiale fu portata a Mosca, altra parte restò nella vivace Berlino della fragile Repubblica di Weimar. Furono le radici dell´opera completa, ma i drammi di quegli anni le seccarono. La ricerca di quegli scienziati e filosofi cadde troppo presto sotto l´occhio sospettoso della Nkvd, la polizia segreta di Stalin. Al dittatore, racconta Hubmann, non piacque scoprire certe pagine critiche, certi appunti sull´esigenza della libertà di parola e del libero confronto tra forze politiche e sociali. Meno che mai gli piacque scoprire che Marx ed Engels avevano scritto molto più di Lenin e non teorizzavano un totalitarismo né tantomeno i gulag. Con la brutale svolta autoritaria in Urss gli scienziati marxisti finirono male. A cominciare dal loro capo David Rjazanov, giustiziato per tradimento nel 1938, poco prima del patto Hitler-Stalin. Altri finirono sorvegliati e solo la grande fama li salvò dal plotone d´esecuzione. Fu il caso di György Lukács, il padre ungherese del marxismo critico.
Ma se Mosca piangeva, Berlino non rideva. Venne il ´33, la democrazia di Weimar fu rovesciata da Hitler. Gli archivi della Spd si salvarono per caso: i socialdemocratici, sfidando la Gestapo, li portarono da amici accademici olandesi. «Chi sa perché, ma anni dopo narra Hubmann nell´Olanda occupata, Gestapo e polizia collaborazionista non pensarono mai di frugare nei sotterranei dell´accademia di Amsterdam, non scoprirono mai quanto avrebbero volentieri distrutto». Venne il 1945, la disfatta dell´Asse e la Guerra fredda con la Germania divisa. Urss e Ddr ripresero il lavoro di edizione completa dopo la morte di Stalin, ma Breznev lo bloccò: troppi manoscritti critici, troppe pericolose idee di invito al dubbio. Il lavoro fu congelato fino all´89 della caduta del Muro di Berlino. «E per quanto possa sembrare strano», notano i professori di Jaegerstrasse, «se lavoriamo liberi e con rigore scientifico al Mega lo dobbiamo anche a Helmut Kohl, certo non sospetto di simpatie marxiste. Il cancelliere della riunificazione che amava la storia, decise che, magari sottotono, la ricerca su quelle tonnellate di manoscritti che la Ddr aveva chiuso in cantina avrebbe dovuto riprendere nella Germania unita».
Sono passati più di vent´anni da quell´ennesima svolta in cui i manoscritti ingialliti dei due barbuti riuscirono a sopravvivere. Adesso il lavoro continua, diviso tra Berlino, Amsterdam e Mosca. Con l´interesse crescente dei preparatissimi scienziati ufficiali cinesi, che forse vi cercano nuove idee per la futura prima potenza mondiale. Scoprono anche loro un altro Marx. L´uomo che perseguitato quasi ovunque in Europa si guadagnò da vivere come corrispondente del New York Daily Tribune. Rivediamo quelle pagine: narrava come un grande inviato le scosse politiche e sociali o le crisi economiche dell´Europa di allora, persino i primi movimenti operai in Italia o Spagna. Non c´erano le comunicazioni moderne: Marx ed Engels inviavano gli articoli a New York col piroscafo, dovevano scriverli pensando a non farli invecchiare. Jenny Marx, l´amata moglie, teneva la contabilità d´ogni spedizione. Cominciò anche a conservare i più curiosi, incredibili scritti del marito anziano. Karl aveva rinunciato alla politica, annotava la sua fiducia nel libero dibattito e confronto tra idee e forze politiche. E prese a studiare le scienze: ecco appunti e schizzi perfetti sulla geologia, sulla fisica, sui primi passi della scienza nucleare.
Ed ecco, infine ma non ultimo, la scoperta forse più affascinante. Marx ed Engels, nell´Europa del capitalismo senza internet né jet di linea, crearono una rete di scambi epistolari internazionali. Con leader operai, con politici, con scienziati, gente d´ogni corrente di pensiero o tendenza: a suo modo, dicono soddisfatti gli accademici di Jaegerstrasse, fu il primo social network. Funzionò per anni. Bentornato, caro vecchio Marx, e scusaci: troppi opposti estremismi del Ventesimo secolo ti avevano tramandato male. Arrivederci al 2020. Forse ci servirai quando chi sa che volto avrà il capitalismo.

Repubblica 8.1.12
Mercato senza sviluppo la causa della crisi
di Karl Marx


L´enorme quantità e la varietà delle merci disponibili sul mercato non dipendono soltanto dalla quantità e dalla varietà dei prodotti, ma sono in parte determinate dall´entità della parte di prodotti prodotti come merci, che dovranno dunque essere immessi nel mercato per la vendita in qualità di merci. La grandezza di questa parte delle merci dipenderà, a sua volta, dal grado di sviluppo del modo di produzione capitalistico che produce i propri prodotti solo come merci e dal grado in cui tale modo di produzione domina in tutte le sfere della produzione. Deriva da qui un grande squilibrio nello scambio tra paesi capitalistici sviluppati, come l´Inghilterra, per esempio, e paesi come l´India o la Cina. Questo squilibrio è una delle cause delle crisi.
Causa totalmente trascurata dagli asini che si accontentano di studiare la fase dello scambio di un prodotto con un altro prodotto e che scordano che il prodotto non è pertanto in alcun caso merce scambiabile in quanto tale.Questo costituisce anche la spina nel fianco che spinge gli inglesi, tra gli altri, a voler stravolgere il modo di produzione tradizionale esistente in Cina, in India eccetera, per trasformarlo in una produzione di merci e, in particolare, in una produzione basata sulla divisione internazionale del lavoro (vale a dire, nella forma di produzione capitalistica). Riescono in parte in questo intento, per esempio, quando danneggiano i filatori della lana o del cotone svendendo i loro prodotti o rovinando il loro modo di produzione tradizionale, che non è in grado di competere con il modo di produzione capitalistico o con il modo capitalistico di immettere le merci sul mercato. Anche se il capitale produttivo, per sua stessa natura, è disponibile sul mercato, vale a dire è offerto in vendita, il capitalista può (per un periodo di tempo lungo o breve, secondo la natura della merce) tenerlo lontano dal mercato se le condizioni non gli sono favorevoli o al fine di speculare o altro. Il capitalista può sottrarre il capitale produttivo al mercato delle merci, ma in un momento successivo sarà costretto a riimmetterlo. Ciò non ha effetti al fine della definizione del concetto, ma è importante nell´osservazione della concorrenza.
La sfera della circolazione delle merci, il mercato, è in quanto tale distinta anche fisicamente dalla sfera della produzione, esattamente come sono distinti temporalmente il processo di circolazione e l´effettivo processo di produzione. Le merci ora pronte restano depositate nei magazzini e nei depositi dei capitalisti che le hanno prodotte (eccetto il caso in cui siano vendute direttamente) quasi sempre solo in modo passeggero prima di essere spedite verso altri mercati. Per le merci si tratta di una stazione di preparazione dalla quale saranno immesse nell´effettiva sfera di circolazione, esattamente come i fattori della produzione disponibili restano in attesa, in una fase preparatoria, prima di essere convogliati nell´effettivo processo di produzione.
La distanza fisica tra i mercati (considerati dal punto di vista della loro localizzazione) e il luogo del processo di produzione delle merci all´interno di uno stesso paese, e successivamente fuori da esso, costituisce un elemento importante, perché è proprio la produzione capitalistica a far sì che per una buona parte dei suoi prodotti il mercato sia costituito dal mercato mondiale. (Le merci possono essere anche acquistate per essere ritirate immediatamente dal mercato, ma questo elemento dovrebbe essere esaminato altrove, così come la menzione precedente alle merci che i produttori tengono lontane dal mercato).
Conseguentemente, occorre che il mercato si espanda in continuazione. Inoltre, in ogni singola sfera della produzione, ogni capitalista produce secondo il capitale che gli è offerto, indipendentemente da ciò che fanno gli altri capitalisti. Tuttavia, non sarà il suo prodotto, bensì il prodotto totale del capitale investito in quella particolare sfera di produzione a costituire il capitale produttivo, il quale offre in vendita questa e ogni singola altra sfera di produzione. È un dato di fatto empirico che nonostante la dilatazione della produzione capitalistica porti a un incremento, a una moltiplicazione del numero delle sfere di produzione, ovvero delle sfere di investimento del capitale, nei paesi a produzione capitalistica avanzata, questa variazione non tenga mai il passo con l´accumulo del capitale stesso.
Traduzione di Guiomar Parada

La Stampa 8.1.12
La Patria, un’idea di sinistra
di Carlo Bertini


Nel 1936, pochi mesi prima di essere assassinato in Francia con il fratello Nello, Carlo Rosselli si scaglia contro l’appoggio dell’Italia fascista ai franchisti spagnoli usando questo argomento: «Noi siamo nati nazione in nome della libertà e della autodeterminazione dei popoli. I nostri profeti si chiamano Garibaldi e Mazzini... sangue italiano ha bagnato tutte le giovani patrie rinascenti». Ecco, in questo passaggio del libro Patria , scritto dal senatore del Pd Roberto Della Seta e dallo storico del diritto Emanuele Conte (Garzanti, pagine 173, euro 14,60), è racchiusa la fotografia di una querelle che ha tenuti impegnati intellettuali e pensatori delle più varie radici culturali. Perché così come gli azionisti fecero del «patriottismo democratico» una virtù dotata di intrinseca nobiltà, la destra ha per anni brandito il patriottismo come sinonimo di nazionalismo, mentre la sinistra l’ha snobbato come una sorta di brodo di coltura dei peggiori istinti imperialisti di antica memoria.
Gli autori di questo saggio sostengono piuttosto che Patria sia un’idea di sinistra connaturata ai valori di socialità e di solidarietà, che necessita solo di esser depurata dai germi del nazionalismo che l’hanno infettata per decenni. La nostra storia, quella recente e anche preunitaria, è ricca di fili comuni che hanno fatto degli italiani un popolo: grandi progetti dai Comuni medievali al Rinascimento, dal Risorgimento alla Resistenza, e poi due caratteri collettivi squisitamente italiani, la tradizione civica e la vocazione conviviale. Se queste impronte vaste non si sono tradotte in un senso condiviso di appartenenza patriottica, la ragione sta nell’estraneità delle classi dirigenti, soprattutto nell’Italia repubblicana e soprattutto a sinistra, all’idea di patria. Della Seta e Conte citano come manifesto emblematico di questo «scetticismo patriottico» delle nostre élite la rivendicata militanza «anti-italiana» di tanti intellettuali, da Flaiano a Longanesi, da Bocca a Pasolini, da Montanelli a Prezzolini. E se oggi siamo un Paese diviso tra Nord e sud, segnato da una spaccatura tra cittadini e rappresentanza politica, esposto alle scosse della globalizzazione e ai colpi della crisi economica, è anche perché non ci sentiamo una comunità.

il Riformista 8.1.12
Il vento dell’ateismo spira lontano


Con il supporto di un imponente massa di dati (raccolte in 3.160 interviste personali domiciliari, rappresentative dell’intero universo della popolazione), Franco Garelli, docente all’Università di Torino, presenta una “fotografia” dell’anima religiosa dell’Italia contempo-
ranea, un’eccezione nel panorama europeo. Nonostante la secolarizzazione stia proseguendo anche nel nostro Paese (crisi delle vocazioni, diminuzione dei praticanti, minor seguito della Chiesa in campo etico, attenuazione della religiosità popolare), infatti, siamo ancora uno dei paesi occidentali in cui il sentimento religioso è più diffuso (circa l’80% crede in Dio, contro, ad esempio, il 53% dei francesi). Da noi l’insieme dei “non credenti” e dei “senza religione” si mantiene costante rispetto al passato, non risentendo del vento dell’ateismo che da anni spira con forza in altre nazione europee. Sebbene la ricerca sul campo segnali un’area d’insofferenza contro alcune prese di posizione della Chiesa sui temi della bioetica, il bisogno di spiritualità da un lato e il prevalere di un sentimento di insicurezza e di paura del futuro dall’altro, favoriscono la persistenza dell’ancoraggio alla lunga tradizione di cultura e di socializzazione religiosa tipicamente italiana. La maggioranza degli italiani continua così ad essere favorevole alla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, all’ 8x1.000 e all’ora di religione nella scuola, sebbene emergano critiche per l’eccessivo protagonismo delle gerarchie nelle vicende politiche.
RELIGIONE ALL’ITALIANA di Franco Garelli Il Mulino, pp. 254, euro 17,00

il Riformista 8.1.12
Il comunismo che si liquefa


Il ventesimo anniversario della dissoluzione dell’Unione Sovietica (dicembre 1991) è passato quasi inosservato. In contro tendenza, Marcello Flores, docente di storia contemporanea all’Università di Siena, nel suo libro “Fine del comunismo” si cimenta nell’impresa di le tappe essenziali di un evento che non soltanto ripercorrere e analizzare
ha segnato il Novecento, ma ha ridisegnato la mappa culturale e geopolitica del mondo contemporaneo. In aperto disaccordo con le interpretazioni prevalenti che considerano il crollo del comunismo come la sorte inevitabile di un regime autoritario e immobile, Flores sottolinea l’importanza dell’elezione a segretario generale del Pcus di Michail Gorbacëv (1985) e il suo ruolo fondamentale nel favorire le trasformazioni che si diffonderanno a macchia d’olio negli anni successivi. La perestroika, infatti, non si limiterà a produrre effetti a Mosca, ma favorirà e alimenterà le istanze di cambiamento in tutta l’Europa dell’Est, la legalizzazione di Solidarnosc in Polonia per tutti. «Ciò che è accaduto nel mondo comunista dell’Est scrive Flores è stato un vero e proprio evento storico, uno di quei momenti che accelerano e trasformano il corso della storia e lo sviluppo della società nel suo insieme». Non bisogna dimenticare, infatti, che se nei regimi dell’Europa orientale la pressione popolare è stata determinante per il crollo finale, altrettanto non avviene in Urss dove il comunismo si liquefa senza che si manifesti una esplicita volontà della maggioranza dei cittadini.
LA FINE DEL COMUNISMO di Marcello Flores Bruno Mondadori, pp. 190, euro 18,00

il Riformista 8.1.12
La natura implosiva della caduta dell’Urss
di Sergio Bertolissi


Qual è il motivo (o i motivi) che ha spinto Cervetti (Ragioni, 18 dicembre) a impostare il suo articolo sul ventennale della caduta dell’Unione Sovietica sulla differente datazione che essa avrebbe configurato nella realtà? Egli, infatti, distingue tra un primo momento: il «sistema sociopolitico del cosiddetto “socialismo reale” termina di esistere nei giorni dell’ agosto 1991 immediatamente successivi al famoso golpe organizzato dalla parte più conservatrice e retriva della dirigenza comunista», e un secondo, quando l’Unione Sovietica «cessa di esistere nel dicembre dello stesso anno, con la dichiarazione dei presidenti di Russia, Bielorussia, Ucraina (..) e con le successive dimissioni di Gorbaciov da presidente dell’Urss».
Immediatamente di seguito, Cervetti indica il nodo politico, e storico, che portò a quel crollo: «Non c’è dubbio che il carattere fondamentale del sistema sociopolitico sovietico è consistito in quell’insieme di rapporti economici(proprietà collettiva, pianificazione,etc.) che per una scelta politico-ideologica e per loro consolidata natura, hanno garantito per un certo periodo, lo sviluppo delle forze produttive e forme di modernizzazione, trasformandosi poi in inefficienza e in stagnazione». E allora?
A me sembra che il nodo storico della caduta dell’Unione Sovietica, risieda nel suo carattere implosivo e non esplosivo (come arditamente preannunciato da Hélène Carrère d’Encausse nel lontano 1979), il che a mio avviso significa, naturalmente, che le ragioni profonde della caduta di quel sistema risiedono tutte nella sua natura, così come si è venuta costituendo dalla rivoluzione d‘Ottobre alla sua fine, basata sulla forza del partito unico, e sullo strumento dell’economia pianificata. L’esistenza dell’Unione Sovietica, come insieme di 15 repubbliche associate per un fine ideologico, è in realtà eredità dell’Impero zarista ed elemento fondante il nuovo Impero e la sua politica di grande potenza, si è dissolta senza colpo ferire, per buona sorte, ed ognuna di quelle realtà diverse tra loro da sempre, ha preso una sua strada distinta.
I tentativi di costituire una qualche forma di unione tra pari, la Comunità degli stati indipendenti ad esempio, si sono rilevati effimeri, venuto meno qualsiasi terreno di incontro, dopo più di 70 anni di coabitazione più o meno forzata, e rimangono ora singoli accordi sul piano della collaborazione nel settore petrolifero. L’Unione Sovietica, costruita sul ruolo del partito comunista, costituzionalizzato addirittura (nel 1977) come ricorda Cervetti è caduta con esso, senza ulteriori distinzioni possibili.

La risposta
Si può effettivamente condividere l’affermazione di Bertolissi, attento e intelligente studioso di cose sovietiche, secondo la quale «le ragioni profonde della caduta di quel sistema risiedono tutte nella sua natura». E ciò anche se un così perentorio tutte indica a ritenere il sistema in oggetto immune da ogni influenza altrui e impermeabile a qualsiasi forza ed eventi esterni, il che è difficile da sostenere soprattutto nelle condizioni del mondo moderno. È, invece, non proprio accettabile e condivisibile – almeno da parte mia – l’idea secondo cui la natura anche di un sistema compatto (partito unico, pianificazione centralizzata, ecc) come il sovietico sia presentata e considerata sotto specie di entità data una volta per sempre e che fino dall’inizio (rivoluzione d’Ottobre) contiene la sua fine.
Ma, si dirà, la fine è stata quella e non altra. E allora? Allora, così concludendo, si cade – sempre a mio modesto parere – nel determinismo che, si sa, non lascia spazio all’intervento di individui singoli o associati e che, inoltre, permette allo storico di capovolgere il senso del famoso detto shakespeariano per giungere a pensare, lo storico, che esistono più cose nella propria “filosofia” di quante se ne contino “in cielo e in terra”. (Gianni Cervetti)