martedì 10 gennaio 2012

l’Unità 10.1.121
Intervista a Giuliano Amato
«Capitalismo in crisi. Dovranno salvarlo le sinistre europee»
L’ex premier che nel ’92 affrontò un altro passaggio drammatico: «Non solo battersi per l’equità. Bisogna anche pensare al futuro e a un nuovo patto sociale»
di Federica Fantozzi


Nel settembre del 1992 l’Italia era in una crisi drammatica. Giuliano Amato, da presidente del Consiglio, varò una manovra di entità tale 90 mila miliardi di lire da permetterci il primo avvicinamento ai parametri di Maastricht, e dunque di avviare il percorso per l’ingresso nell’euro. Scoppiarono polemiche furiose, a cominciare da quella sul prelievo forzoso sui conti correnti. Si capì però che l’Italia era salva. Lo è rimasta per vent’anni ma ora vive un altro momento critico.
Che differenze vede tra la crisi di allora e quella di oggi?
«Dal punto di vista del riaggiustamento finanziario interno, quando c’è un debito pubblico troppo alto e ci sono titoli di Stato senza compratori le esigenze di pareggio dei conti si somigliano tutte. Ma questa crisi va molto al di là dell’Italia. Presenta variabili più grandi di noi». Affrontabili in qualche modo?
«Con un linguaggio vecchio direi: dove sta andando il capitalismo? Cosa gli succede? Sembra aver perso la bussola del funzionamento, le sue dinamiche vengono messe in discussione. Le diseguaglianze gigantesche che crea lo privano della legittimazione sociale che gli è necessaria».
Da tempo si dibatte sui difetti del capitalismo, ma non si è mai trovata un’alternativa valida.
«Questa non è la prima crisi a porre simili interrogativi: successe anche negli anni ’20. E infatti io non credo che cadrà il capitalismo, ma che si impongano esigenze di profondo rinnovamento proprio come negli anni ’30. Qualcuno ha scritto che il capitalismo, vivendo di profondi squilibri, ogni qualche decennio esce di carreggiata e servono dei correttivi».
Quali correttivi vedrebbe in questo inizio di millennio?
«Secondo me dobbiamo prima chiederci se siamo pronti a misurarci con questo problema. È un fatto che uno storico come Giuseppe Berta chiede su Il Mulino alla sinistra italiana ed europea se stia cercando risposte a questo cruciale interrogativo».
Significa che la sinistra italiana e quella europea non hanno la percezione che l’Italia e l’Europa, se non il mondo, stanno andando a sbattere?
«Significa che si muove su un orizzonte più basso di quello. È attenta a tutelare gli interessi che rappresenta, agli ammortizzatori sociali, all’equità dei sacrifici chiesti. Cose essenziali, sia chiaro. Ma rimettere in carreggiata la macchina esige una riflessione di più alto livello che spero cominci. Fra l’altro i partiti socialisti e di centrosinistra sono forse attesi alla prova di governo in Francia, in Germania e in Italia».
Le sinistre si attardano su pensioni, articolo 18, cassa integrazione, mentre il mondo si capovolge?
«Non dico che difendano troppo il passato, ma che non sanno vedere il futuro. E questa impossibilità le induce a un atteggiamento difensivo. Forse tornare a Marx è troppo, ma fermarsi agli ammortizzatori sociali è troppo poco».
Qualche suggerimento?
«Disponiamo di cervelli e di una accumulazione culturale sufficienti per elevare il livello dell’analisi. Sul merito, mi limito a ricordare che il capitalismo ha ripreso a funzionare quando è riuscito a ristabilire insieme capacità di sviluppo e di coesione sociale». Insomma, i tempi sono maturi per un nuovo patto sociale? Nuove forme di distribuzione del reddito?
«Sì, serve un diverso patto sociale, che peraltro non si può più stipulare entro i confini nazionali. E questo è parte cospicua del nuovo problema che abbiamo di fronte».
Siamo alla vigilia di un nuovo Trattato europeo. È l’ultima chiamata per l’Ue? Che prospettive vede?
«È possibile che da questo tormentato lavorio esca un’Europa più forte e integrata con un Regno Unito più distanziato dall’eurozona. La difesa della stabilità dell’euro in crisi ha reso ineludibile una maggiore integrazione fiscale. È questo l’accordo intergovernativo di cui si discute. Ma l’integrazione fiscale è a sua volta insostenibile senza un’adeguata integrazione politica. È il percorso che si intravede».
Integrazione fiscale e politica con Londra solo moderatamente euroscettica. Non è troppo ottimista?
«La questione che pesa sulle nostre teste come un macigno riguarda i tempi. L’Europa storicamente si muove a passo di mesi se non anni, ma questa crisi non ce lo consente. Tutti abbiamo in testa una domanda: ce la faremo? Ebbene, il sì dipende dai tempi che ci metteremo».
L’euro ce la farà?
«La moneta unica e il suo futuro dipendono dalla nostra tempestività. Io sono abbastanza fiducioso. Siamo vicini all’accordo sulla disciplina fiscale a cui tiene tanto la Merkel. A quel punto saremo in condizione di chiedere alla Germania, che non potrà rifiutare, un impegno solidale comune per la crescita dell’eurozona». Lei è un sostenitore storico della Tobin Tax. Ma se Sarkozy la applica e Cameron no?
«Monti è consapevole delle difficoltà. Se Cameron dice no si crea un bel problema. Merkel e Sarkozy ritengono che si convincerà. Ma io non ne sono affatto convinto».
La manovra del governo Monti è alle spalle ma gli effetti stanno arrivando. Il rigore c’è. L’equità sociale?
«Ho detto ai miei amici nel governo che avrei cominciato subito toccando in modo significativo redditi e pensioni alte. Fui il primo a introdurre il contributo solidale sulle pensioni alte: ora era giusto ripristinarlo e accentuarlo. L’abbrivio della manovra aveva suscitato molte critiche, poi alzando la soglia delle pensioni non indicizzate, si è raddrizzata la rotta».
Nessun altra critica?
«C’è stata una reazione negativa per l’aumento delle accise, benzina in particolare. Monti con signorilità se lo è accollato. Ma bisogna dire la verità: è stata una richiesta delle Regioni per finanziare il trasporto locale».
Il blitz del fisco a Cortina: demagogia o choc salutare per il Paese?
«Trovo giusta l’operazione in sé. Se ci vai quando non c’è nessuno sprechi solo tempo. Ma è stato opportuno non rendere pubblici casi singoli. È giusto perseguire chi danneggia il bene comune, ma bisogna evitare la sensazione che siamo tornati all’uso della gogna, di cui c’è gran voglia in questi tempi inquieti, ma che non appartiene ai metodi democratici». Secondo lei, la cosiddetta Seconda Repubblica è giunta alla fine? E sarebbe opportuno intervenire durante la fase Monti per ridisegnare un ordine istituzionale?
«A mio avviso è essenziale cambiare la legge elettorale a prescindere dal responso della Corte Costituzionale. Mentre lavorare sul ruolo del capo dello Stato perché ampliato in una fase di crisi sarebbe sbagliato e dimostrerebbe scarsa comprensione delle dinamiche del governo parlamentare in tempo di crisi».
Insomma, non c’è un presidenzialismo strisciante?
«È una lettura sbagliata. Ne ho viste tante in questo periodo».

Corriere della Sera 10.1.12
Le malattie del capitalismo tra eccessi e disillusioni
Il nuovo malessere verso il capitalismo Sotto accusa divario dei redditi e impoverimento del ceto medio
di Massimo Gaggi


C'era una volta la contrapposizione tra capitalismo anglosassone, basato sulla forza del mercato, poco generoso verso i perdenti ma anche capace di premiare i meritevoli e di produrre ricchezza, e il «modello renano» franco-tedesco: un capitalismo «corretto» da molte tutele sociali e dall'intervento pubblico in economia. Oggi, mentre l'Europa deve rivedere Welfare, ruolo e spesa dello Stato, anche il modello anglosassone, afflitto da pesanti squilibri, finisce nel mirino.
Un dibattito sempre più intenso sul suo futuro si sviluppa — tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti — tra leader delle forze produttive e della finanza, mondo politico, organismi sociali, accademici e analisti dei grandi media.
Il malessere nei confronti del capitalismo è ormai diffuso anche negli Usa: i sondaggi indicano che anche nel Paese storicamente più liberista, a fronte di un 50 per cento di cittadini a favore del mercato, c'è un 40 per cento di delusi (soprattutto giovani e minoranze etniche). Un clima che ha spinto anche grandi testate come il Financial Times, l'Atlantic, riviste politiche come Foreign Affairs e Foreign Policy a interrogarsi sul futuro del modello economico occidentale. Si passano al microscopio gli effetti di cambiamenti ormai consolidati come la globalizzazione e riforme fiscali che, soprattutto in America, hanno favorito una «polarizzazione» dei redditi e il progressivo impoverimento del ceto medio.
E si ragiona, come ha fatto ieri John Plender aprendo una grande inchiesta del quotidiano finanziario britannico, sugli eccessi del sistema finanziario che ha portato l'intero sistema creditizio sull'orlo del «meltdown» e ha innescato meccanismi spropositati di arricchimento e distorsioni del sistema retributivo che divengono sempre più inaccettabili man mano che le società occidentali subiscono il morso del loro progressivo impoverimento.
Patologie cresciute all'ombra di un'interpretazione troppo radicale del liberismo e di una «deregulation» che ha azzerato anche i controlli necessari, oltre a quelli puramente burocratici. Queste riflessioni trovano in Inghilterra molte voci favorevoli a una «rifondazione» del capitalismo, mentre negli Stati Uniti, con accenti diversi tra progressisti e conservatori, la tendenza è a proporre correttivi che non mettano, comunque, in discussione l'impianto generale.
Sempre sul Financial Times Larry Summers, docente di Harvard ex ministro del Tesoro di Bill Clinton e consigliere economico di Obama parla di un sistema da riformare ma senza rimetterne in discussione i cardini. Mentre i liberali britannici dell'Economist usano addirittura il termine «fatwa» per descrivere l'intransigenza degli slogan coi quali i candidati repubblicani alla Casa Bianca ripropongono un modello economico ultraliberista, basato sulla «deregulation» reaganiana.
Problemi del capitalismo e dell'impatto politico del cambiamento della distribuzione della ricchezza non certo nuovi (l'autore di questo articolo scrive da almeno sei anni di fine del ceto medio come conseguenza anche della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica) ma che sono diventati oggetto di discussioni «incendiarie» all'indomani del crollo della Lehman Brothers, nell'autunno del 2008. E che, dopo una pausa, sono riemerse nelle ultime settimane quando la tempesta ha travolto i Paesi dell'euro. Una vera crisi di sistema, se non proprio una crisi terminale, che ha portato molti a sottolineare i rischi per tutti i Paesi dell'Occidente di un drammatico divorzio tra capitalismo e democrazia, se non si riformano i meccanismi del mercato dando luogo a una sorta di «nuovo inizio» con meno eccessi della finanza, meno avidità e una distribuzione meno squilibrata dei redditi.
Sono discussioni difficili da sviluppare, negli Usa, in un periodo di confronto elettorale esasperato, in cui ognuno si trincera dietro le sue bandiere, con le accuse di usare un linguaggio classista venato di marxismo che non vengono rivolte solo dai repubblicani ad Obama, ma che rimbalzano anche all'interno del mondo politico conservatore: alla vigilia del voto in New Hampshire, ad esempio, per cercare di arrestare la corsa di Mitt Romney, Rick Santorum non ha trovato di meglio che accusare l'ex governatore del Massachusetts di criptosocialismo per aver usato l'espressione «classe media», a suo avviso imbevuta di cultura marxista.
Ma dopo le elezioni verrà il momento di riflettere seriamente sulla sostenibilità di molti meccanismi e il loro adeguamento a una realtà che è cambiata. Intanto nei «think tank» l'elaborazione è già iniziata, alimentata anche da analisi molto approfondite come l'indagine sulle radici ideologiche del sistema economico-sociale nel quale viviamo condotta dalla rivista americana Foreign Affairs.
Niente di nuovo, sostiene il Financial Times, ricordando come anche nell'Ottocento, dopo gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale, vennero le denunce degli squilibri e delle sofferenze sociali di scrittori come Charles Dickens, il marxismo e le riforme che corressero le durezze del capitalismo selvaggio. Oggi, forse, è tutto più complesso perché alle distorsioni del sistema economico si aggiungono due fenomeni nuovi e inediti come la globalizzazione e la diffusione delle tecnologie digitali che — a differenza di quelle meccaniche ed elettriche dei secoli scorsi — anziché produrre più posti di lavoro, favoriscono un calo degli occupati.

l’Unità 10.1.121
Contratto prevalente
e tutele ai neoassunti Definita la proposta Pd
Definita la proposta del Pd sulla riforma del mercato del lavoro: contratto prevalente d’ingresso e nessuna modifica dell’articolo 18. Bersani: «Malinconico dia spiegazioni sulla vicenda delle vacanze pagate da altri».
di Simone Collini


Un contratto prevalente che preveda un periodo formativo di massimo tre anni al termine del quale siano garantite tutte le tutele, articolo 18 compreso, indennizzo monetario per chi venisse licenziato nella fase d’ingresso, riduzione degli oneri contributivi per le aziende che stabilizzano. Anche le ultime limature sono state fatte e dopodomani Stefano Fassina illustrerà ai membri del forum Lavoro riuniti nella sala Berlinguer di Montecitorio la proposta con cui il Pd andrà al confronto col governo. Pier Luigi Bersani ha chiesto ai dirigenti del partito di evitare di entrare nel dibattito, ora che la partita sul mercato del lavoro è tutta giocata tra esecutivo e parti sociali. Ma al tempo stesso ha dato mandato al dipartimento Lavoro, guidato da Fassina, di mettere a punto un testo che tenga conto di quanto deciso all’Assemblea nazionale del maggio 2010 e alla Conferenza nazionale sul lavoro dell’estate scorsa.
L’ARTICOLO 18 NON SI TOCCA
Il responsabile Economia del Pd ha lavorato sul materiale approvato in quei due appuntamenti e sui contenuti delle proposte di legge presentate al Senato da Paolo Nerozzi (ispirata dalle teorie degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi e fortemente sostenuta da Franco Marini) e alla Camera da Cesare Damiano e da Marianna Madia. Nella bozza finale che verrà illustrata dopodomani ai parlamentari Pd membri delle commissioni Lavoro di Camera e Senato (ma sono stati invitati alla discussione anche il professore di economia alla Cattolica di Milano Carlo Dell’Aringa e altri docenti universitari) non vengono invece riprese le proposte di Pietro Ichino, primo firmatario di un progetto di legge che prevede un superamento dell’articolo 18 (quelli economici, tecnici e organizzativi vengono fatti rientrare tra i motivi per giusta causa per i licenziamenti individuali).
Il giuslavorista resta convinto che il modello della “flexsecurity” sia preferibile a quello centrato sul contratto prevalente d’ingresso, e la discussione non mancherà. Nel Pd si sta però lavorando per arrivare a un confronto senza aspre tensioni, e il fatto che Ichino abbia giudicato un «ottimo compromesso» la proposta di legge Nerozzi-Marini se la sua si rivelasse «non politicamente praticabile», fa ben sperare Bersani, che vuole chiudere l’Assemblea nazionale di Roma del 20 e 21 con un voto unitario sulla posizione del Pd sulla riforma del mercato del lavoro.
CAMBIAMENTO E COESIONE, INSIEME
Bersani, che ha fissato per i prossimi giorni un incontro col presidente del Consiglio Monti, valuta intanto positivamente che nel fronte sindacale tutti condividano la necessità di un confronto unitario. Per il leader del Pd «cambiamento e coesione devono andare insieme», cioè l’Italia può uscire dalla crisi solo se saranno approvate le riforme necessarie a garantire la crescita senza provocare lacerazioni nel tessuto sociale. Contratti tra il partito e le organizzazioni sindacali sono continui, in questi giorni. Così come tra partito e governo e anche con le altre forze che sostengono l’esecutivo in Parlamento, alle quali Bersani propone una piattaforma comune italiana da sostenere in Europa.
La riforma del mercato del lavoro è troppo delicata per non essere il più possibile condivisa. Così come altre riforme necessarie all’Italia per superare questo brutto momento. Bersani dice nel corso della puntata di “8 e mezzo” che quello Monti non lo giudica un governo tecnico, e che anzi un esecutivo come quello attuale «è preferibile a uno fatto col manuale Cencelli». Il leader del Pd sottolinea però durante la trasmissione televisiva anche se è vero che non tutta la politica è «sporca» è anche vero che ora bisogna «ripristinare un rapporto decente tra cittadini e istituzioni».
Bersani, intervistato da Lilli Gruber, lancia anche altri messaggi all’indirizzo del governo: in generale ad accelerare sulle liberlalizzazioni, a Monti ad avere «coraggio» e al sottosegretario Carlo Malinconico a dare spiegazioni sulla vicenda delle vacanze che gli sarebbero state pagate da imprenditori della “cricca” dei grandi appalti del G8: «Non so se il fatto sia vero o no ma l’idea della trasparenza è una esigenza dichiarata e conclamata. Dovrebbe dare spiegazioni»

l’Unità 10.1.121
La famiglia secondo Monti
Il Pd non deve tacere sui diritti civili
di Aurelio Mancuso


T ra le tante crisi che stiamo vivendo, sicuramente, ce n’è una che dalla classe dirigente italiana non è considerata degna di attenzione, e che invece contribuisce all’attuale fase di enorme difficoltà. Si tratta della scomparsa dal dibattito pubblico dei diritti civili e delle libertà individuali. In Italia le sinistre politiche, intellettuali e sociali non ritengono questo tema decisivo per il cambiamento, anzi come sappiamo, si giudica fastidioso, fonte di divisione da rimandare a tempi migliori (che non arrivano mai).
Nel Pd, è stata istituita molti mesi fa una commissione ad hoc presieduta da Rosy Bindi e nulla trapela sulla discussione in atto e i tempi per l’elaborazione di una proposta. Per fortuna almeno su una questione, i diritti delle persone migranti, il Pd ha preso posizione con chiarezza, impegnandosi fuori e dentro il Parlamento affinché sul voto e la cittadinanza, si facciano passi in avanti. Assai positiva anche la recente battaglia sull’abolizione della tassa per il rinnovo dei permessi di soggiorno, che è un balzello apertamente razzista e che colpisce chi è in difficoltà. Le sinistre, che siano riformiste o antagoniste, però non riescono a poco più di un anno dalla data fissata per le elezioni politiche, a occuparsi del fatto che fuoriuscire dalle crisi, significa occuparsi della modernizzazione della legislazione che riguarda l’organizzazione sociale, le relazioni familiari, la salvaguardia dei diritti dei minori, dei giovani e delle donne.
Stupisce che Monti, che di Europa dovrebbe intendersi, abbia per ora fornito risposte di retroguardia, conservative di visioni ideologiche che non hanno alcuna rispondenza nella realtà. Aver per esempio introdotto una sorta di quoziente familiare nella nuova Imu, è un fatto grave, tanto più che i gruppi parlamentari del Pd, avrebbero dovuto riflettere sul fatto che fare sconti alle famiglie sulla base del numero di figli senza agganciarli al reddito, si prefigura come una vera e propria ingiustizia. Vedremo quali proposte avanzerà il neo ministro alla famiglia (purtroppo declinata al singolare), certo è che avergli attribuito questa delega e quella sulle attività antidiscriminatorie togliendole alle Pari Opportunità e al Welfare, è un messaggio preciso: diritti civili e diritti sociali devono rimanere separati, perché non si devono intrecciare in un progetto complessivo di riforma. Perché il Pd, ma nemmeno le altre sinistre dentro e fuori il Parlamento, hanno taciuto? Illudersi che la questione dei diritti umani e civili potrà essere in quest’anno elusa, per poi poterla trattare con insufficienza nei programmi elettorali, significa perdere sempre più contatto con la società italiana.

l’Unità 10.1.121
Un governo dignitoso? Rispetto al precedente,,,
di Enzo Costa


Vi riporto qui di seguito, testualmente, una conversazione che ascolto da qualche settimana, sempre uguale, avente per oggetto la politica italiana, i suoi protagonisti passati e presenti, il loro incidere nella nostra vita quotidiana, nel nostro futuro, nella nostra percezione delle cose. È un colloquio anche acceso, ma sempre civile e soprattutto illuminante, che avviene fra me e me: come dialogo è lievemente asimmetrico, quanto a parole pronunciate, ma al di là della differente capacità di sintesi entrambi gli interlocutori, a mio avviso, posseggono una certa eloquenza. Dice una parte minoritaria di me: «Ma è possibile? Ma è possibile che tu ti accontenti del governo Monti anche solo da un punto di vista estetico-stilistico? Ma è possibile che tu prenda già come manna dal Cielo il fatto che adesso, dopo tanta vergogna, non ci vergogniamo più, avendo un Premier affidabile e presentabile, che parla un ottimo italiano ed un buon inglese, che essendo dotato di un raffinato senso dell’umorismo non racconta barzellette terrificanti, che non considera la politica come la prosecuzione del bunga bunga con altri mezzi e qualche vestito, che viene accolto in Europa con stima e considerazione, e non con risatine di scherno? Ma è possibile che tu trovi motivi di conforto anche soltanto dal fatto di avere ministri seri, competenti e preparati, al posto di macchiette da talk-show, esecutori di pernacchie e santanché, a prescindere da quello che questi nuovi ministri hanno fatto, stanno facendo e si accingono a fare? Ma è possibile che ti sia sufficiente la certezza di essere uscito dal tunnel dei neutrini per scorgere davanti a te una luce calda, forte e rassicurante, quando in realtà stiamo attraversando tutti quanti il buio di una crisi sempre più nera? Ma è possibile che ti basti questo per reggere provvedimenti economici pesanti, non sempre equi, che uno di sinistra come te avrebbe di sicuro voluto meno onerosi per i ceti più deboli, un po’ più duri nei confronti di quelli più agiati, e molto, molto, molto più duri verso furbi, furbetti ed evasori? Ma è possibile che tu arrivi al punto di digerire misure indigeribili, di sopportare tagli insopportabili, di accettare rinvii inaccettabili, di tollerare prudenze intollerabili, soltanto perché tutto ciò proviene da un governo finalmente composto da persone antropologicamente, prima ancora che politicamente, dignitose?». La parte maggioritaria di me, che è più laconica, incalzata da questa travolgente filippica in forma di impietose domande, valuta con attenzione gli argomenti ascoltati, ci pensa su, ci ripensa ancora un po’, e poi, infine, risponde: «Sì, è possibile».

Repubblica 10.1.12
I partiti alla ricerca della fiducia perduta
di Guido Crainz


Doveva cacciarlo senza aspettare che montasse la vergogna e sarebbe stata alta politica se Mario Monti l´avesse licenziato in diretta tv.
Anacronistici da tempo, e resi sempre più intollerabili dalla crisi che l´Italia attraversa e dai costi altissimi che è costretta a pagare (costretta, in primo luogo, dalla irresponsabilità del ceto politico che ha governato). Resi intollerabili, anche, dall´improntitudine con cui alcuni parlamentari hanno persino negato la realtà, presentandosi come i meno pagati d´Europa: spesso sono gli stessi pronti a scendere in campo in difesa dei "poveri ricchi" e a bollare un normale e doveroso controllo come ingiusta vessazione e nefanda lotta di classe.
Mi colpì dolorosamente molti anni fa un rapporto del prefetto di Belluno conservato negli archivi dello Stato e scritto subito dopo il Capodanno del 1964. Segnalava il "vasto malumore, specie nel Cadore" per i blocchi stradali "effettuati dai superstiti del Vajont": avevano disturbato coloro che si recavano a festeggiare il nuovo anno a Cortina. Che persone indelicate, quegli abitanti di Erto, Casso e Longarone: chissà cosa ne avrebbero detto Daniela Santanchè e Fabrizio Cicchitto.
Colpisce l´arroganza esibita nel difendere privilegi e immunità che nacquero per opposte ragioni. Nell´Italia liberale l´elezione al Parlamento tutelò i dirigenti dei Fasci siciliani ingiustamente incarcerati o i socialisti e i democratici colpiti dalla repressione del 1898: quella, per capirci, iniziata con le cannonate del generale Bava Beccaris. Che c´entrano, di grazia, i Cosentino e i Papa con Nicola Barbato e Filippo Turati?
Colpisce ancor di più la pervicacia con cui un "sistema dei partiti senza partiti" sta impedendo una riduzione dei propri costi immediata e radicale come i sacrifici imposti ai cittadini. Sono cecità che abbiamo già visto in passato, assieme alle loro devastanti conseguenze.
È esemplare la storia del finanziamento pubblico, varato nel 1974 per moralizzare la politica – si disse – dopo che le "tangenti petrolifere" avevano mostrato una corruzione diffusa e metodica, con percentuali fisse. Fu zittito chi chiedeva controlli rigorosi, e già quattro anni dopo un referendum portò alla luce le inaspettate dimensioni del disagio e la montante protesta dei cittadini. Quella legge fu poi generosamente rifinanziata ma l´inesistenza di controlli reali fu confermata e alimentò anch´essa il crescere della corruzione. E il discredito della politica, nella totale cecità dei partiti: ancora nel 1991 Craxi pensava che quel discredito fosse largamente sopravvalutato (lo ha testimoniato Luigi Covatta in un bel libro, Menscevichi). Quel ceto politico ostentò una immobilità statuaria, come fu detto, di fronte alle voragini che si stavano aprendo: e fu poi travolto dal crollo. Dilagò così un´antipolitica che aveva in realtà al suo interno tutti i peggiori guasti della "prima Repubblica".
La stessa immobilità statuaria si ripropone oggi, e di nuovo i partiti sembrano del tutto inconsapevoli delle conseguenze disastrose del suo prolungarsi: a prescindere anche dagli ulteriori scampoli di indecenza offerti dal Pdl e dalle sue sparse propaggini.
Anche oggi, infine, tutto ciò avviene nella sostanziale assenza di alternative. Allora il Pci-Pds pagò a carissimo prezzo non solo il proprio coinvolgimento, sia pur parziale, nella corruzione ma anche la sua incapacità di proporre modalità diverse della politica: lasciò così campo libero all´esito peggiore di quella crisi.
Questo stesso nodo si ripropone oggi ed è decisivo per tutti che la spirale si inverta, che si inneschi davvero un processo di ricostruzione. Fa malissimo il Partito democratico a sottovalutare il logoramento crescente della sua stessa credibilità: cioè la credibilità dell´unica forza che può realizzare il cambiamento. E ha fatto un gravissimo errore a perdere sin qui tutte le occasioni possibili. A non dare segnali forti. A non avanzare proposte radicali su questo terreno. È un banco di prova urgentissimo, forse l´ultima possibilità di riaprire il dialogo con i cittadini: solo il 4% di essi, secondo l´indagine Demos-la Repubblica pubblicata ieri, ha ancora fiducia nei partiti. E quasi un italiano su due pensa che la democrazia possa funzionare senza di essi. Anche al di là di questa indagine, del resto, sono sempre più numerosi gli elettori del Partito democratico che vincolano il proprio voto futuro a scelte nette, e nettamente alternative all´esistente. Scelte che contribuiscano a far cessare, anche, l´occupazione partitica dello Stato e degli enti pubblici, e da questo punto di vista la Rai è uno snodo essenziale: non a caso il Pdl è insorto in forze appena Monti ha espresso la sacrosanta e benemerita intenzione di affrontare anche questa materia.
Qualche mese fa Mario Pirani propose al centrosinistra di presentare progetti chiari contro i costi della politica e di rafforzarli con scelte unilaterali, concrete e simboliche al tempo stesso: ivi compresa la riduzione dei compensi dei propri parlamentari, consiglieri regionali e così via, impegnando il denaro rimanente in forme di solidarietà sociale (Gli stipendi da dimezzare, "la Repubblica", 20 luglio 2011).
Tutte le ragioni sottese a quella proposta sono state drammaticamente confermate in questi mesi: in primo luogo l´estrema gravità della situazione economica e la pericolosità delle derive che essa può alimentare. Il bisogno assoluto, quindi, di una proposta politica credibile, limpida nelle sue modalità e nei soggetti che la propongono.

La Stampa 10.1.12
I “senza speranza” in Europa sono 8 milioni: uno su tre è italiano
L’impietoso quadro del rapporto Eurostat vede l’Italia all’ultimo posto nella Ue
di Rosaria Talarico


La differenza col nostro paese è data anche dai sussidi a chi si iscrive nelle liste di disoccupati
11,3%" Solo in Italia La percentuale degli italiani che hanno rinunciato a trovarlo
2,7 Milioni di rassegnati Il totale delle persone che in Italia hanno perso la speranza di lavorare
"1,3% Così in Germania Nel paese più virtuoso solo l’1,3 per cento ha smesso di cercare lavoro
3,5% La media nella Ue a 27 La percentuale rispetto al totale della forza lavoro in Europa"
1,1% Gli arresi in Francia Buon risultato anche per la Francia dove solo l’1,1% non lo cerca più
8,3% La percentuale della Bulgaria Coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro,meno che in Italia
In Germania è molto alto il part-time che da noi si traduce spesso in lavoro sommerso

L’esercito degli sfiduciati italiani è il più numeroso d'Europa. Nel nostro Paese il numero di «scoraggiati» (come l'Istat definisce coloro i quali non hanno un lavoro né lo cercano più) è pari alla metà europea. A dirlo è un nuovo rapporto Eurostat. Nell' Europa a 27 ammontano a 8 milioni 250 mila coloro che non cercano un impiego, ma sono disponibili a lavorare (3,5% della forza lavoro). E l'Italia è il Paese con il più alto numero: ne conta ben 2,7 milioni (l'11,1% della forza lavoro). Vuol dire che è italiana quasi una persona su tre senza più speranza di trovare impiego. Se poi si restringe lo sguardo ai soli paesi dell'area euro, il numero di chi è disponibile a lavorare ma non cerca più è di 5,5 milioni e uno su due è italiano.
Tra i Paesi con le percentuali più alte di «senza speranza» ci sono Bulgaria (8,3%) e Lettonia (8,0%). Mentre Stati come Belgio (0,7%), Francia (1,1%) e Germania (1,3%) vantano le quote minime, che evidenziano come, nonostante la crisi, in questi Paesi il mercato del lavoro è ancora in grado di dare speranza a chi è senza occupazione. Prova a dare una spiegazione tecnica l'economista Irene Tinagli: «In molti paesi europei esistono sussidi alla disoccupazione che prevedono che si abbia un ruolo attivo nella ricerca del lavoro e obbligano ad essere iscritti nelle liste. Quindi è fisiologico che le quote siano più basse. In Italia non è così ed anche per questo abbiamo più sfiduciati e meno disoccupati, a differenza della Spagna ad esempio».
Bruno Manghi, sociologo ed ex sindacalista della Cisl, invita invece a considerare come questo sia un effetto della crisi che «morde dove c'è operosità. È scontato che la quota di scoraggiati sia a Catanzaro, meno che sia a Varese o Novara. L'aggressività della crisi si vede proprio dal fatto che tocca i posti dove un tempo le imprese si contendevano i lavoratori». Manghi invita anche a usare cautela verso «queste fotografie statistiche che sono valide in un dato momento. Quel che non sappiamo è la cronicizzazione. Se chi è scoraggiato resta in questa situazione più di un anno siamo di fronte a un problema sociale molto grave, se invece c'è una rotazione è diverso. Quel che conta nella disoccupazione è la lunga durata». Per Manghi, però, «la condizione materiale tra noi e l'Europa non è così dissimile. In paesi virtuosi come la Germania c'è un numero straordinario di part-time a basso reddito (400 euro al mese) che fa emergere una quota che da noi va invece verso il sommerso. È quella la differenza sostanziale, l'arrangiarsi non regolare». Sulla stessa linea l'economista Stefano Zamagni: «L'economia sommersa in Italia vale 270 miliardi l'anno, una cifra enorme. Oltre questo problema, bisogna pensare a cambiare il modello di organizzazione delle imprese. Il taylorismo è finito. Oggi non basta più un capo che pensa, ma devono farlo tutti. E ciò è possibile solo se i lavoratori sono trattati come persone e non come merci. Bisogna recuperare la lezione dell'economista inglese Alfred Marshall: «L'impresa deve essere un luogo di formazione del carattere umano».
Per quanto riguarda gli scoraggiati la spiegazione di Zamagni è da economista puro: «Cercare lavoro comporta delle spese, il cosiddetto costo di transazione, che razionalmente si decide di non sostenere più nel momento in cui la probabilità di avere un lavoro è molto bassa».

La Stampa 10.1.12
Il “riscatto” dei partiti passa per la legge elettorale
di Marcello Sorgi


La ripresa politica dopo la parentesi delle festività trova i partiti, e non solo quelli della larga maggioranza che sostiene il governo, in difficoltà. Nessuno lo ammetterà mai esplicitamente, ma è evidente che si sta allargando la distanza tra il presidente del consiglio proiettato a negoziare in Europa con Francia, Germania e Inghilterra le strategie anticrisi, e le forze politiche italiane, da destra a sinistra, impegnate a misurarsi sui contenuti della fase due del governo, dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, per cercare di contenerne gli effetti sul proprio elettorato.
Nei corridoi di Montecitorio si parla apertamente di una sorta di «resa» della politica al «ciclone» Monti, e dopo le prime, deboli reazioni di domenica sera, l'intervista del premier a Fabio Fazio su Rai 3 è stata letta come l'annuncio di una nuova serie di iniziative del governo sulle quali ai partiti resterà ben poco da dire. E che il Parlamento non potrà che approvare sollecitamente, sotto la spinta, sia dei mercati, sia di tutti gli indicatori di crisi che continuano ad essere allarmanti rispetto all'Italia.
Nell'immediato i due banchi di prova su cui la politica potrebbe cercare riscatto sono la legge elettorale e la riforma del mercato del lavoro. Sulla prima si comincia a vedere qualcosa di più di segnali di fumo tra centrodestra e centrosinistra, e la decisione della Corte costituzionale sui referendum, attesa per domani, non potrà che funzionare da acceleratore di un confronto fin qui pigro, specie se la sentenza che uscirà dal Palazzo della Consulta sarà a favore dell'ammissibilità delle consultazioni. Accanto alle due ipotesi prevalenti di sistemi più proporzionali, copiati da quello tedesco o da quello spagnolo, comincia a circolare un'ipotesi, ufficiosa, a maturata tra i promotori dei referendum, di una specie di Mattarellum diluito, metà maggioritario con collegi uninominali e metà (non più un quarto, com'era fino al 2001) proporzionale: un tentativo di aggirare le resistenze del Terzo polo, che vedono nel ritorno alla vecchia legge, che potrebbe uscire dalle urne referendarie, un modo di riobbligarlo a dichiarare le proprie alleanze prima del voto.
Quanto al lavoro, il Pd sembra vicino all'uscita dal lungo travaglio che lo ha tormentato in queste settimane e al parto di una proposta unitaria sulla flessibilità che dovrebbe essere sottoposta al governo. Una svolta destinata ad influire anche sul confronto tra la ministra del lavoro Fornero e i sindacati, che fin qui ha segnato il passo.

La Stampa 10.1.12
Monti osservato speciale sabato in visita dal Papa
Poi vedrà Bertone e Bagnasco: sul piatto questioni ardue come l’Imu alla Chiesa
di Ugo Magri


Se vorrà una benedizione speciale del Santo Padre (e solo lui sa quanto ne avrebbe bisogno), Mario Monti dovrà meritarsela. Ne ha l’occasione: il presidente del Consiglio sabato sarà ricevuto Oltretevere. In sé, nulla di clamoroso. Fa parte della consuetudine che ogni nuovo capo del governo domandi di vedere il Papa (Monti aveva inoltrato di persona la richiesta profittando del saluto a Ratzinger in partenza per il Benin). Ed è nella prassi che l’appuntamento venga concesso con garbata sollecitudine. Monti è lì da due mesi, quindi siamo nei tempi. Il Papa e il presidente del Consiglio si vedranno a quattr’occhi. Seguirà un saluto ai familiari nonché ai principali collaboratori del premier. Gli unici due «strappi» alla consuetudine vennero fatti per D’Alema, quando il primo presidente del Consiglio ex-Pci venne ricevuto solennemente da Wojtyla (che nella caduta del Muro aveva avuto un ruolo), e poi per Berlusconi. Al suo colloquio privato venne ammesso eccezionalmente Letta in quanto Gentiluomo di Sua Santità, sebbene siano in molti a sospettare che partecipò perché Benedetto XVI gradiva un testimone.
La conversazione con Monti si snoderà lungo i binari che di qui a sabato verranno fissati d’intesa col segretario di Stato vaticano, cardinal Bertone, e con il presidente della Cei, Bagnasco. Mentre con il Numero Uno il discorso volerà alto, su temi generalissimi e forse un filino accademici trattandosi in fondo di due professori, con Bertone e con Bagnasco il premier si confronterà su questioni concrete. Non solo l’applicazione dell’Imu ai beni ecclesiastici, dove si registrano passi avanti però tanta strada resta da fare; ma anche il sostegno alle scuole paritarie in tempi di crisi; i pagamenti agli ospedali e alle cliniche religiose che le Regioni pospongono all’infinito; gli aiuti alle famiglie, da garantire meglio attraverso la prospettata riforma degli ammortizzatori sociali. E poi i giovani, le opere di carità, i nodi della bioetica su cui il Parlamento non ha ancora cavato un ragno dal buco...
C’è tutto un mondo politico che attende i tre colloqui con un mix di speranza e di apprensione. Si tratta della variegata platea post-Dc, la quale punta sul governo Monti come ultimo salvagente dell’Italia, e giacché c’è pure come terreno d’incontro tra le varie anime cattoliche in vista di nuovi equilibri: quelli discussi al convegno di Todi appena tre mesi fa. Un buon esito della visita sarebbe di grande incoraggiamento. Il presidente del Consiglio per certi versi l’ha propiziato con due gesti di devozione: la Messa a Sant’Ivo della Sapienza alla vigilia dell’incarico, e l’omaggio alla tomba di Wojtyla con Donna Elsa la mattina di Capodanno. Ma il mondo vaticano è solcato da diffidenze millenarie. Per esempio, nei Sacri Palazzi avrebbero gradito interlocutori più fidati nei ministeri di indirizzo e di spesa, dove ai tempi del Cavaliere bastava una telefonata per risolvere situazioni rognose. Proprio ieri Benedetto XVI ha rievocato, con accenti alla Jemolo, gli alti e bassi delle relazioni StatoChiesa, auspicando che «l’Italia continui a promuovere un rapporto equilibrato, costituendo così un esempio». Parole cortesi ma circospette perché, appunto, la «raccomandazione» lassù molto in alto Monti se la dovrà guadagnare.

Corriere della Sera 10.1.12
Pablo Neruda, d'amore e di politica
La dittatura di Pinochet vedeva in lui un nemico Le sue parole sono più forti di qualsiasi ambiguità
di Antonio Moscato


Pablo Neruda non è mai stato dimenticato, anche negli anni più duri della dittatura di Pinochet. Al suo funerale, mentre ancora carceri e stadi traboccavano di detenuti, sfilarono tremila coraggiosi. A distanza di quasi quarant'anni il Partito comunista cileno ha chiesto la riesumazione del suo corpo per accertare con l'autopsia se a ucciderlo fu il cancro alla prostata con cui conviveva da qualche tempo o un'iniezione di veleno. Una richiesta che comunque non può aggiungere molto a quello che si sa: il Messico aveva inviato un aereo per portare in salvo il poeta, e proprio il giorno prima della partenza era avvenuto l'improvviso e imprevisto aggravamento che lo aveva stroncato in poche ore.
La giunta militare guidata da Pinochet (che oggi in Cile secondo il ministro dell'Educazione di Piñera non si dovrebbe più chiamare «dittatura») continuava a braccare i militanti della sinistra anche all'estero, uccidendoli a volte senza processo, e ha continuato a farlo per anni. Per Augusto Pinochet, Pablo Neruda era certamente un problema non facile. Il poeta era ammirato all'estero (nel 1971 aveva ottenuto il Premio Nobel per la letteratura), ma era soprattutto popolarissimo in patria, per i suoi versi e anche per i resoconti degli avventurosi viaggi giovanili, da Rangoon a Singapore a Batavia (Giacarta). In Estremo Oriente aveva cominciato prestissimo la sua carriera diplomatica, che si era poi spostata in Europa. Con brevi interruzioni dovute a governi ultraconservatori, era durata fino a poco prima della morte.
Pablo Neruda (che in realtà si chiamava Neftalí Ricardo Reyes Basoalto, e aveva scelto quello pseudonimo per le sue pubblicazioni già nel 1920, quando aveva solo sedici anni), aveva partecipato attivamente a molte campagne elettorali, ed era stato più volte eletto senatore. Nel 1938, dopo la vittoria del primo governo di Fronte popolare guidato da don Pedro Aguirre, era stato nominato console a Parigi con l'incarico di mettere in salvo il maggior numero di repubblicani spagnoli. Nel 1948 era stato destituito da senatore dal regime conservatore di Gabriel González Videla che aveva messo fuori legge il Partito comunista: Neruda era stato braccato per un anno e, prima che riuscisse la sua fuga in Argentina, in tutto il mondo era stato creduto morto. D'altra parte in molti Paesi, compresa l'Italia, aveva subito spesso molestie e vessazioni poliziesche. Nel 1970, quando fu eletto presidente Salvador Allende, era stato nominato ambasciatore nella sua amata Francia, e aveva così mantenuto intatta la sua popolarità, evitando di prendere posizione nella turbolenta vita interna della coalizione di Unidad Popular.
Logico quindi che già il giorno della sua morte si fossero diffusi sospetti su una possibile causa dolosa, accresciuti dalla barbara distruzione della sua casa e dal saccheggio dei cimeli raccolti in una vita di viaggi. L'autopsia, richiesta recentemente sull'onda di quella ottenuta per Salvador Allende (che ha confermato che si uccise per non cadere nelle mani dei militari), non è ancora conclusa, ma cambierà poco: non c'è dubbio che in Neruda la giunta militare vedesse non il poeta, ma un uomo che poteva diventare dal Messico un punto di riferimento credibile per la resistenza. In ogni caso era un simbolo di tutto quello che il golpe voleva distruggere.
La popolarità di Pablo Neruda era indiscussa, ma la sua figura non era priva di contraddizioni. Le convinzioni politiche di Neruda hanno risentito fortemente del clima in cui si erano formate. Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, (edizione italiana SugarCo, 1979), dice che «anche se la tessera l'ho ricevuta molto più tardi in Cile, quando entrai ufficialmente nel partito, credo di essermi definito di fronte a me stesso come comunista durante la guerra di Spagna».
La guerra di Spagna lo aveva sorpreso a Madrid, dove era arrivato in qualità di console, dopo esserlo stato anche a Barcellona. Subito dopo il Levantamiento di Franco, Neruda fu privato dell'incarico di console dal presidente Arturo Alessandri (un cognome che ritorna spesso nella storia del Cile). Anche come semplice cittadino, Neruda ebbe però subito un ruolo importante nella mobilitazione europea e delle Americhe in difesa del legittimo governo spagnolo. Ma mentre denunciava appassionatamente le atrocità franchiste, tanto più quando tra le vittime c'erano amici carissimi come Federico García Lorca o Miguel Hernández, la sua inesperienza politica lo portava a non vedere l'altro aspetto della guerra, la repressione di anarchici e trotskisti, veri o presunti, da parte degli uomini di Stalin.
Non era solo la sua ingenuità di neofita a determinare il rapporto ambiguo con lo stalinismo, ma la fedeltà cieca al Partito comunista cileno, che manterrà fino alla morte. Dice di aver avuto amici anarchici ma nelle sue memorie, finite pochi giorni prima della scomparsa, continua a ripetere le denigrazioni staliniane su di loro. E paradossalmente finisce per estendere le stesse accuse a tutta la tendenza guevarista in America Latina, sostenendo che mentre nel Partito comunista cileno, che era «di origine strettamente proletaria», erano difficili le infiltrazioni della Cia, le organizzazioni guerriglieriste «hanno spalancato le porte a ogni tipo di spia», inondando il continente di tesi che screditavano i vecchi gloriosi partiti. Salva soltanto la persona di Guevara, perché era stato colpito profondamente (tanto che ne parla più volte nelle sue memorie) dall'ammirazione per la sua poesia manifestata dal Che, che anche nell'ultima impresa boliviana si era portato nello zaino il suo Canto general. Neruda ha navigato senza problemi e senza dubbi nel mondo staliniano, al punto che di Stalin traccia (nel 1973!) un quadro abbastanza grottesco: il dittatore georgiano sarebbe stato un «uomo di principi e bonaccione, sobrio come un anacoreta, titanico difensore della rivoluzione russa».
È poco noto invece un episodio che aveva molto turbato Neruda: nel 1966 un gruppo di intellettuali cubani, tra cui Roberto Fernández Retamar, raccolsero migliaia di firme anche in altri Paesi su un appello che denunciava il poeta cileno come complice dell'imperialismo per aver accettato un invito a tenere conferenze negli Stati Uniti. Senza tener conto che a New York Neruda parlava in difesa della rivoluzione cubana! Era un pretesto per attaccare indirettamente il suo partito, allora in polemica con quello cubano. Ma a Neruda non appare chiaro. Nelle sue memorie si consola dicendo che col tempo «ogni ombra è stata eliminata» e «tra i due partiti comunisti più importanti dell'America Latina esiste un'intesa chiara e un rapporto fraterno». Gli sfugge che l'intesa era stata resa possibile dalla svolta filosovietica di Cuba dopo la morte di Guevara. Insomma, un'ennesima conferma che a un poeta va chiesto solo di essere un buon poeta, senza pretendere che possa essere anche una guida politica.

Repubblica 10.1.12
Alcuni esperimenti mostrano che agiscono anche nei bambini
Nessuno spenga i neuroni specchio
Funzionano fin da piccoli, ma possono venire inibiti dall´ambiente circostante
di Massimo Ammaniti


La scoperta dei neuroni specchio prima nel cervello delle scimmie e poi nell´uomo ha aperto un nuovo capitolo per studiare i meccanismi di apprendimento sociale e di condivisione affettiva fra le persone. I due libri di Rizzolatti e Sinigaglia So quel che fai (Cortina) e di Marco Iacoboni I neuroni specchio (Bollati Boringhieri) hanno ampiamente divulgato anche fra il pubblico non specializzato l´importanza dei neuroni specchio nella vita relazionale di ogni giorno, in cui costantemente cerchiamo di interpretare in modo inconsapevole le intenzioni e gli stati d´animo delle altre persone in modo da prevedere ciò che può avvenire e comportarci di conseguenza.
Sono molti gli interrogativi che emergono da queste ricerche: che ruolo hanno i neuroni specchio nella vita sociale di ogni giorno? Perché verso alcune persone si prova simpatia e condivisione, mentre per altre si avverte distacco o estraniazione se non addirittura rifiuto? Perché alcune persone hanno maggiori capacità empatiche di altre?
Ancora non si è risposto a molti di questi interrogativi ma si può ipotizzare, sulla base di queste ricerche sul cervello, che nell´incontro con altre persone si attivi il meccanismo di simulazione incarnata. In altre parole se si incontra una persona che prova gioia, dolore oppure tristezza si avverte una risonanza affettiva sostenuta dall´attivazione di aree cerebrali corrispondenti. E´ una specie di "appaiamento", come scrive Husserl nel linguaggio fenomenologico, una corrispondenza che fa assimilare l´altro a noi stessi.
Un analogo processo era stato descritto da Freud a proposito dell´identificazione che comporta l´introiezione delle caratteristiche dei genitori, filtrate dall´elaborazione personale. Ma mentre per Freud l´identificazione rappresenta una relazione molto selettiva con le figure più significative, la risonanza affettiva legata ai neuroni specchio è estesa anche a scambi più ampi.
Ma quando cominciano ad attivarsi i neuroni specchio? In alcuni classici studi sui neonati si era visto che fin dalle prime ore di vita un neonato è in grado di imitare le espressioni facciali di un adulto, stabilendo un´equivalenza con un´altra persona. Sulla base di queste osservazioni si è ipotizzato che questa imitazione precoce sia legata al sistema dei neuroni specchio, che farebbero parte della dotazione biologica dei mammiferi.
La ricerca neurobiologica sta cercando di confermare questa ipotesi, anche se in campo umano si pongono problemi complessi. Un gruppo di ricercatori, fra cui Pierfrancesco Ferrari del Dipartimento di Parma, ha registrato l´attività cerebrale nei macachi fin dal primo giorno di vita mentre osservavano ed imitavano le espressioni facciali di una persona, quando apriva e chiudeva la bocca oppure faceva le boccacce. Le registrazioni cerebrali hanno confermato che nei macachi neonati vengono attivate le aree dei neuroni specchio fin dalla nascita.
Come già era avvenuto con le prime scoperte il trasferimento in campo umano è il passo successivo, quasi inevitabile. Ancora non ci sono dati sul sistema dei neuroni specchio nei primi giorni di vita, anche se sono stati messi in luce alla fine del primo anno. E´ indubbio che l´evoluzione umana ha provveduto a fornire ai neonati questo sistema cerebrale che ha molti vantaggi. In primo luogo l´imitazione facilita la comunicazione, basta vedere la madre e il bambino nei primi mesi dopo la nascita.
Il bambino guarda la madre ed imita le sue espressioni e la madre a sua volta imita il figlio quasi per gioco confermando che fra loro c´è un´intesa e una comprensione. E poi attraverso l´imitazione si accelera l´apprendimento, perché guardando come un´altra persona risolve un compito si saltano le tappe senza dover necessariamente trovare da soli la soluzione. In questo modo le conoscenze accumulate vengono trasmesse alle generazioni successive. Vi è un altro aspetto rilevante, con l´imitazione e la risonanza si riduce la distanza nei confronti degli altri e si crea un senso di condivisione e di familiarità. Ma a volte l´incontro con l´altro può fallire e l´altro diventa allora una presenza distante, estranea se non addirittura minacciosa. L´intolleranza e il razzismo ne sono un esempio.
A livello cerebrale, come esistono meccanismi di attivazione, ugualmente si verificano disattivazioni e si può ritenere che il sistema dei neuroni specchio possa essere bloccato in alcune circostanze. La paura e l´allarme verso gli altri rende ciechi e distanti, ma sicuramente anche il contesto in cui si cresce, se ad esempio favorisce l´apertura verso il mondo oppure suscita diffidenze e chiusure soprattutto per quanti sono semplicemente diversi. Pertanto se la natura ci ha fornito i neuroni specchio per interagire con gli altri è fondamentale il clima in cui si viene educati che può rinforzare le potenzialità individuali oppure scoraggiarle fino ad inibirle.

Repubblica 10.1.12
Relazioni digitali
"Amici e nuovi legami, Internet aumenta il capitale sociale"

Intervista a Antonio Casilli

"Lo spazio virtuale è una teoria nata dalla letteratura, invece viviamo in una realtà mista"
"Le rivoluzioni non le fanno Twitter e Facebook, ma le persone che vanno in piazza"
Intervista allo studioso Antonio Casilli, che ha pubblicato in Francia un saggio dove smentisce molti luoghi comuni sull´universo informatico

PARIGI Trasformando la nostra percezione dello spazio, del corpo e delle relazioni sociali, l´universo delle nuove tecnologie digitali ci costringe a riflettere criticamente sulla natura profonda della realtà in cui viviamo. Una riflessione a cui si dedica proficuamente Antonio Casilli, specialista delle culture digitali che da diversi anni si è trasferito in Francia, dove le sue analisi sulle nuove forme di socialità della rete sono molto apprezzate e discusse. Nel suo ultimo saggio, Les liaisons numériques (Seuil, pagg. 331, euro 20), lo studioso critica radicalmente i falsi miti che hanno accompagnato lo sviluppo delle nuove tecnologie, a cominciare da quello relativo alle minacce dello spazio virtuale: «La teoria della smaterializzazione del reale prodotta dalle nuove tecnologie digitali è una teoria figlia della letteratura degli anni Ottanta», spiega Casilli, che dopo aver lavorato all´École des Haute Etudes en Sciences Sociales, oggi insegna a Telecom Paris Tech. «Più che nella dicotomia tra spazio reale e spazio virtuale, noi tutti oggi viviamo in una realtà mista, che potremmo definire una realtà aumentata, dove il reale è aumentato, amplificato, trasformato dal virtuale. La nostra vita quotidiana si svolge in una continua sovrapposizione di spazi reali e spazi cognitivi digitali. Ad esempio, mentre siamo in auto o in treno, ci spostiamo fisicamente nello spazio ma contemporaneamente, grazie agli smartphone, ci muoviamo anche in un´altra dimensione virtuale».
La nostra relazione con la spazio ne risulta modificata?
«Lo spazio diventa ibrido e noi lo percepiamo come tale, riconfigurandolo di continuo. Ne è un esempio la separazione tra spazio privato e spazio pubblico che è in continuo movimento. Prima di Internet, la frontiera era abbastanza definita, ora invece i media sociali consentono di proiettare lo spazio privato in rete, vale a dire in un contesto pubblico. Facebook o Twitter rimettono costantemente in discussione le nostre categorie di privato, il quale certo non si dissolve ma si riconfigura.»
La privacy non è più quella di una volta?
«Oggi la privacy non è più "il diritto di essere da soli", come diceva Louis Brandeis. La definizione della privacy è mobile e va rinegoziata di continuo a seconda delle persone e delle situazioni. Twitter ci obbliga a interrogarci continuamente sul confine tra pubblico e privato. Questa ginnastica mentale è molto faticosa. Per reimparare da adulti cosa condividere e cosa no, si spendono molte energie e si rischiano errori che poi si pagano. In fondo, tutti noi oggi stiamo facendo un apprendistato collettivo dei nuovi media sociali. E naturalmente non è facile trovare la giusta misura».
In questa evoluzione il corpo diventa un´interfaccia tra noi e il mondo digitale...
«Lo spazio digitale invita il corpo a mettersi in scena nella realtà virtuale. Anche i blog sono una maniera di mettersi in scena, confrontandosi con gli altri, il che implica sempre una ridefinizione della percezione del nostro corpo sulla scorta dell´immagine rinviata dagli altri. Nei media sociali gli altri intervengono a convalidare la rappresentazione di noi stessi. Così, il corpo, che era progetto di sé, diventa progetto di noi, per usare la terminologia di Michel Foucault. Naturalmente, se questa è un´opportunità che consente di arricchire costantemente la nostra personalità, è anche vero che tale situazione può produrre una crisi d´identità.»
A proposito delle relazioni tra corpo e mondo digitale, c´è chi mette in guardia contro i rischi cognitivi della nostra dipendenza dalle nuove tecnologie. Lei che ne pensa?
«L´informatica è un prolungamento delle mnemotecniche del passato, le quali naturalmente non erano votate a svuotare il nostro cervello ma a renderlo più efficace. I computer vanno quindi considerati come un´estensione della memoria e non come una minaccia per le capacità cognitive. L´universo informatico è per noi una sorta di prolunga cognitiva, nonché sociale che ci consente un maggior numero di relazioni. L´agenda del telefonino o la lista di amici su Facebook ampliano la cerchia delle conoscenze con cui restiamo in contatto».
Internet però è spesso accusato di desocializzare gli individui...
«È un falso mito. In realtà Internet produce nuove forme di socialità che ci consentono di modulare meglio l´equilibrio tra legami forti e legami deboli, vale a dire quei legami potenziali che sollecitiamo in modo discontinuo. Su Facebook, se all´inizio prevalgono i contatti con le persone che per noi sono più importanti, in seguito, diventando amici di amici, allarghiamo la cerchia dei legami deboli, facendoli durare nel tempo. Alla fine, la proporzione tra legami forti e deboli è molto diversa da quella presente nella vita reale. Di conseguenza, i media sociali offrono una socialità più ricca, che ci consente di entrare in contatto con ambienti che in precedenza ci erano preclusi. Prima di Internet vivevamo in una società di piccole scatole – la famiglia, il paese, il lavoro, ecc. – al cui interno eravamo uniti agli altri da legami forti. Con Internet, queste piccole scatole continuano ad esistere, ma inoltre disponiamo di passerelle verso molte altre scatole, vale a dire altre realtà sociali, con le quali magari conserviamo solo legami deboli. Insomma, ci troviamo al centro di reti glocali, nel senso che sono globali e locali allo stesso tempo».
Cosa cambia per l´individuo?
«I vantaggi sono molteplici, soprattutto in termini di capitale sociale, vale a dire l´insieme delle risorse sociali che ogni individuo ha a disposizione per realizzarsi sul piano personale, professionale, sociale, culturale, ecc. I media sociali, ci consentono d´incrementare e modulare meglio il capitale sociale. Gli amici in rete sono una risorsa sociale».
Ciò ci obbliga a ripensare la concezione dell´amicizia?
«In effetti, per secoli abbiamo privilegiato la definizione umanistica dell´amicizia. Basandoci su Cicerone, Seneca o Montaigne, abbiamo pensato l´amicizia come un legame disinteressato, privato e caratterizzato da una cooperazione forte. In rete, all´amicizia tradizionale, che comunque continua ad esistere, si sovrappone un altro tipo di legame che può essere anche utilitaristico. Questo legame, oltre ad essere pubblico e registrato in un database, può dar luogo a una cooperazione non simmetrica. Nell´amicizia classica infatti la relazione è sempre reciproca, non si può esser amici di qualcuno che non ci è amico. Su Twitter possiamo seguire qualcuno che non ci segue».
Modificando le relazioni tra le persone, Internet trasforma anche le modalità dell´azione politica?
«I più ottimisti sottolineano le virtù democratiche della rete, ricordando ad esempio che la primavera araba sarebbe il tipico prolungamento di questo spirito democratico. Io però penso che Internet sia soprattutto uno stile politico, che può essere adottato da realtà ideologiche molto diverse tra loro. Lo si vede in America, dove sia i Tea Party che Occupy Wall Street sfruttano a fondo i media sociali, dando luogo a un´organizzazione orizzontale senza gerarchia e a geometria variabile. Questa struttura può essere molto efficace, ma non bisogna farsi eccessive illusioni. Le rivoluzioni non le fanno Twitter o Facebook. Le fanno sempre le persone reali scendendo in piazza. I media sociali possono solo coordinare, scambiare e amplificare le ricadute del reale. Ma senza mai sostituirsi ad esso».

il Riformista 10.1.12
“La chiave di Sara” La Shoah come indagine familiare
Kristin Scott-Thomas è la protagonista del film di Gilles PaquetBrenner, nelle sale italiane questo venerdì. Una giornalista alle prese con un’inchiesta sul rastrellamento ordinato da Pétain nel 1942, che finirà per riguardare la sua stessa vita
di Michele Anselmi


«Perché lo fai?» chiede preoccupata la sorella da New York. «Perché è giusto» taglia corto al telefono Julia Jarmond, ovvero Kristin Scott-Thomas. La giornalista americana vive da vent’anni a Parigi, ha sposato un architetto francese, sta per traslocare in una bella casa del centro storico, ma di colpo si ritrova a fare i conti con una scelta personale da far tremare e le vene e i polsi.
La chiave di Sara è uno dei tanti, troppi, bei film d’autore che escono nelle sale italiane venerdì prossimo, con il rischio di cannibalizzarsi a vicenda. Il consiglio è di andarlo a vedere subito, per poi orientarsi su Shame e La Talpa. Non si ride in nessuno dei tre, e forse è giusto così: di commedie insulse e generazionali se ne fanno a iosa in Italia.
Il dilemma morale con cui deve confrontarsi Julia è presto detto. Lavorando a un’inchiesta su quella che i francesi chiamano “la rafle”, la giornalista incappa in un segreto imbarazzante, diciamo una vergogna infamante. Tutto risale al 15 luglio 1942, quando, con atto abominevole e atroce, il governo collaborazionista del maresciallo Pétain mise in pratica, dopo accurata e burocratica preparazione, il rastrellamento di 13 mila ebrei parigini. I comandi tedeschi avevano suggerito il 14, giorno della presa della Bastiglia, ma sembrò troppo. Così si fecero passare altre 48 ore e, all’alba di quella calda giornata d’estate, la polizia francese legata al regime di Vichy irruppe nel quartiere di
Montmartre e sequestrò uomini, donne, bambini, vecchi. Dovevano essere ancora di più, 24 mila, ma molti israeliti riuscirono a nascondersi, in quelle ore concitate, grazie all’aiuto dei parigini.
Gli sventurati vennero rinchiusi nel Vélodrome d’Hiver, in condizioni igieniche spaventose, senza acqua, cibo, medicine, e già lì cominciarono a morire o a suicidarsi. Appena cinque giorni dopo sarebbero stati avviati in vari campi di concentramento, quasi tutti in quello tristemente noto di Beaune-La-Rolande. Prossima tappa: le camere a gas in Polonia. Solo 25, di quei 13 mila, tornarono a casa alla fine della guerra, nessuno dei bambini.
Il romanzo di Tatiana de Rosnay (Mondadori), da cui il film di Gilles Paquet-Brenner è tratto, immagina invece che uno di quei bambini, appunto la Sara Starzynski del titolo, riesca a scappare dal lager francese prima di finire nelle camere a gas di Hitler. Per tornare, grazie all’aiuto di una coppia di contadini, nell’appartamento lasciato precipitosamente quella mattina di luglio, dopo aver nascosto il fratellino in un armadio a muro, conservando la chiave per tutto il tempo. Troverà una terribile, doppia verità: il ragazzino è morto da mesi e nessuno se n’è accorto, nonostante il fetore che traspirava dalle pareti; la casa è occupata da una famiglia francese, che l’ha avuta praticamente gratis, essendo stata requisita agli ebrei.
Esattamente sessant’anni dopo Sara diventa un’ossessione per Julia. Che fine ha fatto? È viva, è morta, ha avuto dei figli? Abita ancora in Francia? L’inchiesta giornalistica si trasforma lentamente in una sorta di j’accuse morale nei confronti di quella verità nascosta, rimossa, sotterrata, e la trafittura si farà più acuta, per la donna sospesa tra radici americane e vita europea, quando Julia scoprirà che la casa ristrutturata nella quale sta per trasferirsi col marito è proprio quella di Sara.
Il tema della “rafle” non è inedito nel cinema francese. Giusto un anno fa uscì da noi Vento di primavera della regista Rose Bosch, didascalico e bruttarello, ma deciso a riaprire senza tanti complimenti quella ferita mai rimarginata. Una macchia nera per certi versi incancellabile. Perché furono migliaia, a partire dai 9mila poliziotti che operarono materialmente il rastrellamento, i francesi coinvolti nella deportazione degli ebrei, in un crescendo di odio razziale e atti meschini, umiliazioni inflitte e ruberie legalizzate. Solo nel 1995 il presidente Jacques Chirac chiese ufficialmente scusa, parlando di «ore buie che macchieranno per sempre la nostra storia, un insulto al passato e alle nostre tradizioni». Il minimo che potesse fare.
Ma La chiave di Sara va oltre la ricostruzione dell’abominio collaborazionista, e anzi la forza del film, più che nel resoconto dell’inferno patito dagli sventurati ebrei francesi nel 1942, sta nello sguardo impietoso della giornalista-detective. Donna non più giovane alle prese con una maternità complicata che il marito rifiuta, Julia scardina la congiura del silenzio, costringe la famiglia acquisita a misurarsi con quel passato che ritorna, infine si mette alla ricerca di Sara, forse emigrata negli Stati Uniti.
Il film è toccante ma non piagnone, classico ma non prevedibile, romanzesco ma non divagante. L’andirivieni temporale serve a ricordare l’orrore razzista di ieri e a mostrare l’ipocrisia borghese di oggi. E intanto Julia, incarnata con dolente fierezza dall’attrice inglese stabilitasi da anni a Parigi (che bello sentirla parlare in francese nella versione originale), diventa la voce di Sara, che mai guarì davvero dalla tragica esperienza.
Difficile non pensare al gran saggio autobiografico di Primo Levi I sommersi e i salvati. Per tante ragioni. E una coincidenza cruciale.

lunedì 9 gennaio 2012

La Stampa 9.1.12
Intervista
Bersani: “Ora i partiti siano coinvolti di più”
Il leader Pd al premier: nuovo metodo con chi sostiene il governo
di Federico Geremicca


Ha detto
La globalizzazione ha imposto una ideologia nuova e micidiale: in economia i mercati hanno sempre ragione Da questa crisi si esce un passo dietro l’altro, e muovendo tutte e due le gambe La gamba italiana il suo lo sta facendo Il problema è ideologico Che le ideologie siano morte è uno dei grandi inganni degli ultimi decenni Occorre anche una battaglia politica Io credo molto a una piattaforma dei progressisti europei, abbiamo già fatto alcuni incontri C’è moltissimo da fare ma all’Italia, dopo quanto già fatto, non possono esser chieste altre manovre, magari recessive

ROMA Ex ministro Pierluigi Bersani, segretario del Pd, auspica che «si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella pessima che abbiamo oggi» La consulta A prescindere dall’esito del referendum, Bersani auspica una nuova legge elettorale
È chiaro che con l’anno che comincia bisogna darsi un metodo... ». Un metodo, dice Pier Luigi Bersani: che semplifichi il lavoro del governo nel suo confronto con i partiti e renda più trasparente il rapporto tra i partiti e tra loro e il Parlamento. Il tutto, naturalmente, per lavorare meglio e di più. Così, chi temeva (o sperava) di trovare alla ripresa un Bersani dubbioso circa le scelte fatte - e magari tentato da un qualche disimpegno ora sa come stanno le cose. Si va avanti ventre a terra, perché il Paese ne ha bisogno e soluzioni migliori all’orizzonte per ora non ce ne sono.
Naturalmente, bisogna cambiar passo. Prima di tutto in Europa, ma anche qui da noi: bisogna accelerare sul versante della crescita e correggere qualcosa di quanto fatto (sulle pensioni, per esempio). Ma sono soprattutto certi veti europei a preoccupare il leader del Pd, che dice: «Veti ideologici... La globalizzazione ha imposto una ideologia nuova e micidiale: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno difenda se stesso. Bene, per quanto mi riguarda non può essere così».
E’ un po’ che lei sembra più preoccupato da certe dinamiche europee che da quanto accade qui da noi.
«Non è precisamente così, ma è importante ricordare come da questa crisi si esce un passo dietro l’altro, e muovendo tutte e due le gambe. La gamba italiana il suo lo sta facendo, è ora che si muova quella europea».
Che è ferma, invece.
«L’universo degli economisti, degli osservatori e del mondo politico conviene sul fatto che non siamo su una strada corretta. In Europa ancora non facciamo gesti inequivocabili che dicano: difenderemo l’euro, di qui non si passa. Questo messaggio non è arrivato: anzi, non è neanche partito. Ora abbiamo un po’ di tempo per farlo: con gesti che non possono essere solo il pur importante bricolage di rafforzamento della disciplina dei bilanci».
E cosa pensa?
«A tre questioni. La prima: accelerare sul fondo salvastati, rendendolo credibile e dotandolo di risorse. Finché non saremo lì bisogna consentire maggiore possibilità di intervento alla Bce. La seconda: teniamola pure sullo sfondo, ma la partita degli eurobond deve essere avviata (un’anticipazione potrebbe essere, come chiede Monti, una emissione europea dedicata agli investimenti). La terza: nonostante quel che dicono gli inglesi, sempre tanto preoccupati per la city - ma noi non possiamo mangiare pane e city, perché alla fine non ci sarà più neanche il pane -, è ora che la finanza paghi qualcosa di quel che ha provocato. Insomma, una tassa sulle transazioni finanziarie va allestita».
Non chiede poco.
«Qualcosa di questo deve essere messo in moto. E senza che il giorno dopo, con una intervista o della Merkel o di Sarkozy, si dica: abbiamo scherzato. Perché è così che è andata fino a oggi, anche se tutti sanno che senza una qualche mossa di questo genere finiamo nei guai. Tutti: Germania compresa. Allora: perché non si fanno queste cose? ».
Già, perché non si fanno?
«Lo dico da due anni: il problema è ideologico. Che le ideologie siano morte è uno dei grandi inganni degli ultimi decenni. Forse sono morte quelle vecchie... Ma con la frusta della globalizzazione, sull’Europa è calata una nuova ideologia, interpretata dalla destra e subita troppo passivamente dalla sinistra. Una ideologia di ripiegamento, difensiva, corporativa, che dice: in economia i mercati hanno sempre ragione, in politica ognuno faccia gli affari suoi».
E quindi?
«Quindi occorre anche una battaglia politica. Io credo molto a una piattaforma dei progressisti europei, e su questo abbiamo già fatto molti incontri. E’ già fissato un appuntamento a marzo, in Francia, per avviare un’offensiva su questo tema. E’ ora che qualcuno dica alle opinioni pubbliche europee che da solo non si salva nessuno».
E l’Italia?
«Le forze che sostengono Monti - che dovrebbe andare in Europa a dire che c’è un Parlamento anche qui e non solo in Germania - possono affermare: abbiamo il 5% di avanzo primario e faremo il pareggio di bilancio nel 2013, cosa che non fa nessuno. Insomma, noi abbiamo dato: e a questo punto o c’è un altro passo europeo o non è che possono pensare di trattarci come la Grecia... ».
Vuol forse dire che in Italia non c’è altro da fare?
«C’è moltissimo da fare. Ma all’Italia, dopo quanto già fatto, non possono esser chieste altre manovre, magari recessive. Possono sollecitarci ad andare avanti in un processo di riforme, cioè di messa in efficienza del sistema. Politiche di crescita, insomma. E qui, è chiaro, abbiamo un campo enorme di cose da fare».
Crede che la politica, cioè il rapporto tra i partiti e il governo, lo permetterà? Insomma, quanto si può continuare così, con distinguo più o meno quotidiani?
«Adesso che si imposta il lavoro di un anno, bisogna stabilire un metodo. Che secondo me è fatto di tre punti. Sulle questioni europee e internazionali, Monti può trovare un rapporto diretto con i segretari dei partiti che gli consenta di rappresentare posizioni unitarie e nazionali su punti strategici; poi, occorre un modo ordinario e ordinato di avere una sede tra governo e gruppi parlamentari che consenta di costruire l’agenda di lavoro e renderla effettiva; infine, bisogna prendere una iniziativa - e io farò la mia parte - per definire un’agenda per riforme istituzionali e costituzionali: per altro, sulla modifica dei regolamenti parlamentari, sul bicameralismo e la riduzione dei membri di Camera e Senato c’è un lavoro sedimentato. Anche sulla legge elettorale si è cominciato a lavorare. E’ chiaro, inoltre, che questa terza questione accentuerebbe la stabilità del governo. Insomma: penso che sia ora che i leader dei partiti dicano esplicitamente e pubblicamente se sono disposti a convenire su un’agenda da affidare, poi, ai gruppi parlamentari».
Un’ultima domanda sulla Consulta e sul referendum. Che decisione auspica? E pensa anche lei che un sì al voto destabilizzerebbe il governo?
«Quel che auspico è che, referendum o non referendum, si arrivi ad una nuova legge elettorale meditata e migliore di quella pessima che abbiamo oggi. Anche un ritorno al “mattarellum” sarebbe meglio, ma l’esperienza ha dimostrato che quel sistema non è perfetto. Quanto a eventuali crisi, dico solo questo: penso che finché non saremo messi su binari solidi, abbiamo bisogno di non prendere la responsabilità di destabilizzare il Paese in un momento così. Non sarebbe capito da nessuno, né qui né in giro per il mondo... ».

Repubblica 9.1.12
XIV Rapporto Demos-Repubblica
Dal 14° sondaggio Demos & PI emerge un Paese in declino ma determinato a rialzarsi. Affidandosi più al pubblico che al privato
È ora di restituire lo Stato ai cittadini
di Ilvo Diamanti


Perdono credibilità le banche, le organizzazioni internazionali e persino i magistrati
I servizi privati non sono più preferiti ai pubblici. I giovani sono i più attivi nel cercare un riscatto
Crolla la fiducia nei politici ma per la prima volta anche nell´Europa. Si salvano solo Napolitano e le forze armate Il 14° sondaggio Demos & PI per "Repubblica" descrive un´Italia ancora piegata dalla crisi anche se finalmente pronta a reagire Soprattutto grazie a un rinnovato e forte desiderio di partecipazione

Come sono cambiati gli atteggiamenti degli italiani verso lo Stato e le istituzioni? Per rispondere possiamo utilizzare i dati dell´indagine di Demos-la Repubblica, giunta alla 14a edizione. Suggeriscono un´immagine nota, quanto consumata: il declino. Oggi è considerato un "fatto" indiscutibile, sotto il profilo economico. Ma lo è anche sul piano del civismo e del rapporto con lo Stato e le istituzioni.
1) La fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, infatti, scende in modo generalizzato, nell´ultimo anno, con poche eccezioni (fra cui la "scuola", che però perde credito rispetto a dieci anni fa). 2) In particolare, colpisce il livello - davvero basso - raggiunto dai principali attori su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Per primi, i partiti, a cui crede meno del 4% dei cittadini.Mentre la fiducia nel Parlamento viene espressa da circa il 9% degli intervistati. Oltre quattro punti meno di un anno fa.
3) Si tratta di una tendenza simile a quella che coinvolge - e travolge - gli organismi del sistema economico e finanziario.
Per prime le banche, verso cui manifesta "stima" il 15% dei cittadini; 7 punti meno di un anno fa. Ma la metà rispetto al 2001. Non molto più alta - intorno al 20% - risulta la considerazione verso le istituzioni economiche europee e internazionali: la Bce e il Fmi.
Appare basso anche il grado di consenso verso le rappresentanze delle categorie socioeconomiche: associazioni imprenditoriali (24%) e sindacato. Soprattutto la Cisl e la Uil, ben sotto il 20%.
4) Il sistema politico e quello economico appaiono, dunque, privi di riferimenti credibili fra i cittadini. Perfino le istituzioni di garanzia mostrano segni di debolezza. La "Magistratura", soprattutto, perde 8 punti di fiducia, nell´ultimo anno. Un altro segno della fine di un ciclo. Visto che il "consenso" verso i magistrati è sempre stato in stretta relazione con il "dissenso" verso Berlusconi.
5) Fra gli orientamenti che emergono da questa indagine, il più netto e appariscente è, forse, il crollo di fiducia nei confronti della Ue. Verso cui esprime (molta-moltissima) fiducia il 37% dei cittadini: oltre 13 punti meno di un anno fa, ma 16 rispetto al 2001. All´indomani dell´introduzione dell´euro. Quando la maggioranza assoluta degli italiani si diceva euro-convinta.
6) Ciò sottolinea la crisi di governabilità di cui soffre la società italiana. Che - da sempre - non crede nello Stato (di cui si fida meno del 30% dei cittadini), tanto meno nei partiti (quasi metà degli italiani ritiene che non siano necessari alla democrazia) e, quindi, nel Parlamento ("presidiato" dai partiti). Ma oggi diffida - molto - anche dell´Unione Europea. Mentre, in passato, i due orientamenti procedevano in modo simmetrico. Perché gli italiani compensavano la (e reagivano alla) sfiducia nello Stato e nel governo italiano con la fiducia nella Ue. E con una crescente identità locale Ma la speranza nei governi locali e nel federalismo appare, anch´essa, molto raffreddata, rispetto al passato.
7) Alla Bussola pubblica degli italiani restano, così, pochi punti cardinali. Le "forze dell´ordine", che riflettono il senso di insicurezza sociale. Oltre al Presidente della Repubblica, che è divenuto - negli ultimi dieci anni - il principale appiglio della domanda di identità nazionale degli italiani. Un sentimento rafforzato, nel 2011, dalle celebrazioni del 150enario. In questa indagine, il Presidente conferma la credibilità conquistata in questi anni. Ottiene, infatti, (molta-moltissima) fiducia da parte del 65% della popolazione. Eppure anch´egli arretra in misura sensibile rispetto al 2010: quasi 6 punti. Risente, probabilmente, dell´insoddisfazione sollevata presso alcuni settori sociali dalla manovra finanziaria del governo Monti. Un sentimento che si "scarica", in qualche misura, anche sul Presidente. Percepito, a ragione, come il principale sostegno (politico) a favore del governo (tecnico). Tanto più di fronte alla debolezza che affligge i partiti e il Parlamento. Ma anche le organizzazioni di mobilitazione e di integrazione sociale.
8) D´altronde, anche la fiducia verso la più importante istituzione religiosa, la Chiesa, appare in sensibile calo. Oggi si attesta al 45%: 2 punti meno di un anno fa, ma 14 rispetto al 2001.
Tutto ciò ripropone l´immagine del "declino" che ha coinvolto i principali riferimenti istituzionali e dell´identità sociale degli italiani. Non solo lo Stato, ma anche l´Europa, la Chiesa; e ancora, il mercato e le organizzazioni di rappresentanza.
L´indice di fiducia complessivo nelle istituzioni politiche e di governo, dal 2005 ad oggi, è sceso infatti, dal 42% al 33%. Mentre, nello stesso periodo, la fiducia nelle istituzioni sociali ed economiche, nell´insieme, cala dal 35% al 26%.
Più che di declino, forse, converrebbe parlare di "recessione".
9) Ciò marca una differenza profonda rispetto agli anni Novanta, quando la sfiducia nello Stato e nelle forme di partecipazione collettiva si accompagnò all´affermarsi del mito del mercato, del privato, dell´individuo, della concorrenza, dell´imprenditore. Oggi, al contrario, l´insoddisfazione verso i servizi privati è cresciuta molto più di quella verso i servizi pubblici. E la domanda di ridurre la presenza dello Stato nei servizi - scuola e sanità - si è ridotta al punto di apparire ormai residuale. Mentre il grado di partecipazione sociale non è "declinato", ma, negli ultimi anni, si è, anzi, allargato sensibilmente. In particolare, hanno conquistato ampio spazio le nuove forme di partecipazione sociale: il consumo critico, i movimenti di protesta, le mobilitazioni che si sviluppano, sempre più, attraverso la rete.
Comportamenti particolarmente diffusi fra i giovani e fra gli studenti. I più colpiti dalla crisi, ma anche dalla sfiducia.
10) Da ciò l´immagine di una "società senza Stato", (come recita il titolo di un libretto pubblicato di recente dal "Mulino"). Che, però, ha paura di restare senza Stato. E reagisce. Seguendo molte diverse vie. E vie molto diverse. La "sfiducia" - ma anche la "protesta" e la mobilitazione. Emerge, nel complesso, una diffusa resistenza alla "privatizzazione" dei servizi, all´individualizzazione dei riferimenti di valore e degli stili di comportamento, all´affermarsi delle logiche finanziarie e di mercato in ogni sfera della vita: a livello pubblico e privato. Sfiducia politica e partecipazione, dunque, coesistono presso le componenti sociali più vulnerabili. I ceti periferici, ma soprattutto i giovani, che manifestano incertezza e paura verso il presente, oltre che verso il futuro. E reagiscono insieme. Non solo per cercare soluzioni e per cambiare le cose. Ma per superare la solitudine e la frustrazione che li affliggono La partecipazione e la protesta agiscono, quindi, come una sorta di terapia. Contro la sfiducia e contro l´isolamento.
Si delinea, così, una stagione incerta. Un ciclo politico si è chiuso, dopo quasi vent´anni. Lasciandoci spaesati. Privi di riferimenti istituzionali e politici. Insoddisfatti del pubblico e delusi dal privato. Senza fiducia. Ma quel che verrà dopo non è chiaro - e un nuovo ciclo ancora non si vede. Tuttavia, la scelta di Monti di investire nel "civismo" - attraverso la centralità "mediatica" attribuita alla lotta all´evasione fiscale - appare una risposta poco "tecnica" e, invece, molto "politica" al problema sollevato da questa indagine. Restituire i cittadini allo Stato. Per restituire lo Stato ai cittadini.

Repubblica 9.1.12
Sempre meno stimati. E un italiano su due pensa al loro superamento
Se la democrazia fa a meno dei partiti
di Fabio Bordignon


Può funzionare una democrazia "senza partiti"? Quasi uno su due, tra gli italiani, è convinto di sì (48%). E tale opinione mette d´accordo un numero crescente di cittadini. Questo indicatore, rilevato dal rapporto annuale su Gli italiani e lo Stato, ha fatto segnare una crescita di dieci punti dal 2008 ad oggi.
L´anno che ci lasciamo alle spalle ha reso ancora più profonda la frattura tra cittadini e politica. Quasi otto persone su dieci pensano che le cose siano ulteriormente peggiorate, nel corso del 2011, sotto il cielo della politica, e l´insofferenza si indirizza, ancor più che in passato, nei confronti del Parlamento e dei partiti. È necessario interpellare più di venticinque persone, oggi, per trovarne una disposta a dare credito ai partiti (4%). Il loro già ridottissimo punteggio, in termini di fiducia, in dodici mesi si è addirittura dimezzato (spingendoli sempre più in fondo alla graduatoria delle istituzioni). Sembra prendere progressivamente corpo, così, l´idea che si possa "fare a meno" di essi. Tale orientamento, che sotto i 45 anni supera la soglia del 50%, suggerisce, in questa fase, almeno due chiavi di lettura.
1) Da un lato, il deficit di rappresentanza dei partiti ha allargato le istanze di coinvolgimento dei cittadini. Nel momento in cui i partiti non sono più in grado di garantire il governo per il popolo, si rafforza la domanda di governo del popolo. Questa spinta si è concretizzata, negli ultimi anni, in una crescita della partecipazione, nella nascita di nuovi movimenti, in una riscoperta della democrazia diretta. Il moltiplicarsi della mobilitazione su specifiche questioni e il successo dei quattro referendum tenutisi la scorsa primavera hanno sottolineato, parallelamente, come questa onda partecipativa abbia in larga misura scavalcato i canali più tradizionali (spiazzando gli stessi partiti).
2) Dall´altro lato, la crisi politica ed economica ha reso evidente l´incapacità dei partiti di individuare soluzioni nell´interesse del popolo, favorendo soggetti ritenuti in grado di affrontare le emergenze che gravano sull´Italia. Non a caso, i cittadini sembrano affidarsi, in questa fase, soprattutto ad attori a-partitici: tecnici e istituzionali. Soprattutto, guardano con fiducia il Capo dello Stato, che negli ultimi mesi ha svolto un ruolo determinante nel gestire il cambio di governo, consegnando il timone del paese ad un esecutivo di esperti.
Queste due prospettive mettono l´accento sulle criticità (e le contraddizioni) che caratterizzano, oggi, l´evoluzione della democrazia (italiana e non solo). Esse tracciano, infatti, percorsi che superano i confini della democrazia rappresentativa, e tra loro difficilmente conciliabili. La stessa esperienza del governo Monti presenta, secondo molti, tratti di "eccezionalità democratica". Ciò nondimeno, la sua sopravvivenza appare costantemente nelle mani delle (eterogenee) forze che lo sostengono.
Gli attuali partiti, in sintesi, risultano allo stesso tempo troppo forti e troppo deboli: al centro di un sistema che però faticano a governare. In questo senso, le aperture ad una democrazia "senza partiti" richiamano la necessità di contrastare l´indebolimento della stessa democrazia: un sistema che più di due italiani su tre continuano a giudicare come unica alternativa politica (sebbene nell´ultimo periodo siano cresciuti i sentimenti di indifferenza).
Dunque, se la democrazia (rappresentativa) appare ancora "impensabile senza i partiti", il problema è mettere a punto dei correttivi che garantiscano il suo funzionamento e la sua legittimazione: perché andare "oltre i partiti" non significhi andare "oltre la democrazia".

La Stampa 9.1.12
La pressione cinese per avere risposte subito Domani la fiaccolata
di Guido Ruotolo


ATTESI IN DIECIMILA Sta crescendo la rabbia dei connazionali delle vittime I timori per la manifestazione

ROMA Domenica nervosa, per gli investigatori romani che speravano, evidentemente, di aver già risolto il caso. E invece la sua soluzione sembra che si allontani, anche se speriamo di poche ore. Dal comando provinciale dei carabinieri di san Lorenzo in Lucina non si fa mistero del disappunto, della contrarietà per la fuga di notizie che avrebbe compromesso la soluzione del duplice omicidio in tempi ravvicinati.
La morte della piccola Joy e del suo papà Zhou non ha scosso soltanto la comunità cinese, è Roma e l’opinione pubblica nazionale che si sono sentite offese e umiliate da questa violenza crudele e bestiale. La pressione dei cittadini perché sia fatta giustizia legittimamente si fa sentire.
Ma gli investigatori avvertono anche le aspettative cinesi. È una indagine, questa, la cui soluzione avrà oggettivamente delle ripercussioni nelle relazioni tra l’Italia e la Cina. Il protagonismo dell’ambasciatore cinese a Roma, Ding Wei, l’annunciata fiaccolata romana di domani con presenze di almeno diecimila cinesi provenienti da tutta Europa, sono una conferma che Pechino guarda a Roma con severa attenzione.
Anche il sindaco della capitale, Gianni Alemanno, ha avvertito di aver sottovalutato - o di aver affrontato con uno schema antico e insufficiente - la vicenda della strage di Joy e di Zhou e ieri si è recato in via Giovannoli per deporre un mazzo di dodici rose bianche sul luogo dell’eccidio.
È comprensibile, dunque, l’attesa e la domanda di informazione su questo duplice omicidio.
Il fatto che siano stati già individuati i (presunti) colpevoli è un segnale dell’alta professionalità del Nucleo operativo e del Ros dei carabinieri di Roma. I rapinatori balordi diventati assassini hanno lasciato come Pollicino troppe tracce per non essere individuati. E, dunque, hanno le ore contate. Il comando provinciale dei carabinieri di san Lorenzo in Lucina aveva chiesto un silenzio stampa di 48 ore, evidentemente violato dai giornali e dai mass media. Per esempio, aver rivelato che sono state ritrovate le due borse con il cellulare e 16.000 euro, ha di fatto vanificato la possibilità che i due rapinatori assassini tornassero nel casolare diroccato di via Ettore Fieramosca e quindi venissero arrestati.
Una circostanza, va anche detto, che non necessariamente si sarebbe verificata in un regime di silenzio stampa. I due assassini evidentemente sono in fuga e catturarli impegnerà gli investigatori in un’attività di monitoraggio molto estesa.
Non sono italiani, gli assassini. E questo non può essere una magra consolazione per una città, Roma, in cui la soluzione dei conflitti sembra affidata all’uso della forza, alle gambizzazioni o agli omicidi.
Non è un caso che la città, silenziosa, attenda che la giustizia faccia il suo corso. Nessuna manifestazione di isteria collettiva, di pulsioni forcaiole o di guerra contro gli stranieri. È un buon segnale.
Non è la prima volta che si consuma un cortocircuito tra opinione pubblica e investigatori. Quando è in gioco la civiltà e la tenuta democratica di una città, che è la nostra capitale, non si può non essere intransigenti. E sperare che per gli assassini non ci sia scampo. [G. RU. ]

l’Unità 9.1.12
Corre la spesa militare soprattutto in Cina
L’America resta in testa
La corsa al riarmo di Pechino in dieci anni è pari al 189% Sale la spesa di altre potenze emergenti: Brasile e Sudafrica Ma al primo posto in questa graduatoria restano gli Usa
di U.D.G.


Uno sguardo sul mondo «militarizzato». Le spese militari nel 2010: è il rapporto più aggiornato, realizzato dall’Archivio Disarmo. La spesa militare mondiale per l’anno 2010 è risultata pari a 1.630 miliardi di dollari: ciò rappresenta un incremento dell’1.3% in termini reali rispetto all’anno 2009 e un incremento del 50% rispetto al 2001. La spesa militare globale costituisce il 2.6% del Pil mondiale, il che equivale a 236 dollari pro capite. Tale crescita è dovuta, quasi interamente, agli Stati Uniti: infatti, la spesa militare nel resto del mondo è aumentata solo dello 0.1%. Inoltre nel periodo 2001-2010 la spesa militare americana è cresciuta dell’81%, mentre quella del resto del mondo è aumentata del 32%. Tuttavia il trend della spesa militare varia considerevolmente da regione a regione: nel 2010, aumenti significativi si sono registrati in Sud America (5.8%) e in Africa (5.2%), mentre in Nord America (2.8%), in Medio Oriente (2.5%) e in Asia e Oceania (1.4%) gli aumenti sono stati inferiori rispetto agli anni precedenti. In Europa invece (per la prima volta dal 1998) si è registrato un calo (pari al 2,8%) della spesa militare.
In molti casi la diminuzione, o l’aumento più lento, della spesa militare rappresenta una reazione alla crisi economica mondiale che ha avuto inizio nel 2008. Tra i Paesi che hanno incrementato maggiormente le spese militari c’è la Cina. Ufficialmente la Cina presenta un budget per la difesa pari a 78 miliardi di dollari: tuttavia il Sipri valuta che la spesa militare totale cinese, per l’anno 2010, ammonti a circa 119 miliardi di dollari con un incremento del 3.8% in termini reali rispetto all’anno precedente. Tale percentuale, essendo inferiore al tasso di crescita medio annuo (pari al 12%) calcolato per il periodo 2001-2010, rappresenta un rallentamento nella crescita della spesa militare e riflette la minore crescita economica dell’anno 2009 causata dalla recessione mondiale. Tra gli anni 2001 e 2010 la spesa militare cinese è aumentata del 189% in termini reali e tale rapida crescita rinvia all’altrettanto rapida crescita economica che il Paese ha registrato negli ultimi anni e che lo ha condotto al secondo posto tra le economie mondiali.
Altro Paese in crescita quanto a spese militari è il Brasile. Nel 2010 la spesa militare del Brasile ammonta a 33.5 miliardi di dollari, il 9.3% in più, in termini reali, rispetto all’anno 2009. Tra il 2001 e il 2009 la spesa militare è cresciuta del 30%, con una media annuale del 2.9%. Significativo, in un quadro geopolitico, è anche il dato del Sudafrica. Il livello della spesa militare del Sudafrica risulta essere il più alto di tutta l’Africa sub-sahariana. Nel 2010, la spesa militare sudafricana ammonta a circa 4.5 miliardi di dollari, pari all’1.2% del Pil del Paese; rispetto al 2009 c’è stata una diminuzione del 20%, ma rispetto al 2001 c’è stato un aumento del 22%. Quanto alla Russia, la sua spesa militare, per l’anno 2010, è stata di 58.7 miliardi di dollari; si tratta dell’1.4% in meno rispetto al 2009, ma dell’82% in più rispetto al 2001.
Al primo posto del podio militarizzato restano gli Usa. Il tasso di crescita della spesa militare degli Usa ha subito un rallentamento nel corso dell’anno 2010: rispetto al decennio precedente, infatti, in cui si è registrato un tasso medio di crescita pari al 7.4%, nel 2010 la spesa militare è aumentata, solo, del 2.8%2. Tuttavia gli Stati Uniti, con una spesa militare pari a 689 miliardi di dollari, confermano il loro primato nel settore, che non sembra in discussione neanche alla luce del piano di riduzione del budget del Pentagono annunciato nei giorni da Barack Obama.

La Stampa 9.1.12
Viaggio nella Londra razzista dove i neri non trovano giustizia
La capitale è sempre più multietnica ma le differenze sociali sono più profonde
di Andrea Malaguti


Stephen Lawrence aveva 19 anni e studiava architettura Il 22 novembre 1993 una banda di minorenni lo bloccò alla fermata dell’autobus e lo accoltellò al grido di «Fottiti, sporco negro»La lapide in marmo di Stephen Lawrence, ucciso il 22 novembre 1993, è stata più volte bruciata sporcata graffiata e la famiglia l’ha sempre riparata. Ora la polizia ha montato delle telecamere di sorveglianza
LA DEPUTATA DI COLORE «I bianchi dividono e governano, non adeguiamoci al loro gioco»

Eltham, Sud di Londra. È qui che diciotto anni fa hanno ammazzato Stephen Lawrence, dove adesso c’è una distesa di fiori freschi che, da quando hanno condannato due dei suoi assassini tre giorni fa, la gente del quartiere continua a portare senza sosta. Una banda di cinque minorenni bianchi incontrò il ragazzo alla fermata dell’autobus e gli aprì il polmone destro con un coltello. Senza motivo. «Fottiti, sporco negro». Stephen aveva 19 anni e studiava architettura. Quelle furono le ultime parole che gli rimbalzarono in testa. Fece di corsa Well Hall Road, poi si accasciò come un pupazzo. Senza sangue, senza vita. Adesso, in questo pomeriggio con il cielo che sembra un tappeto sporco, la sua mamma, Doreen, è piegata sulla lapide nera che ricorda l’ultimo istante di vita di suo figlio. «In memoria di Stephen Lawrence, 13 settembre 1974-22 novembre 1993».
Attorno a lei un gruppo di persone le fa da cordone per permetterle di pregare. Gente di questo sobborgo diventato il simbolo dell’Inghilterra sbagliata. Una donna con un cappello azzurro, i capelli molto chiari, si avvicina a Doreen e l’abbraccia. Le dice: «Qui a Eltham siamo in tanti a essere fieri della sua battaglia». Lei abbozza quel che resta di un sorriso che un tempo deve avere avuto. «Aspetto ancora le altre condanne. Magari il Paese è cambiato. Ecco, forse la morte di Stephen è servita a fare aprire gli occhi alla gente». Altre mani, altri abbracci. Quasi tutte donne. Dall’altra parte della strada un van della polizia controlla la scena.
È una ruota che gira con una lentezza esasperante, quella che dovrebbe portare verso l’uguaglianza, ma da quel 22 novembre 1993 in effetti qualcosa è cambiato. Anche se nella Gran Bretagna del terzo millennio, in cui le minoranze etniche rappresentano il 9% della popolazione contro il 5% di allora, il colore della pelle continua a fare la differenza. «Il multiculturalismo è fallito», spiegò pochi mesi fa David Cameron. Aveva torto? Secondo i dati del Rapprto nazionale sul Sistema Giudiziario e le Statistiche sulla Razza, un ragazzo nero guadagna, a parità di lavoro, il 20% in meno di un collega bianco e ha il quadruplo di possibilità di morire ammazzato e il quintuplo di essere fermato dalla polizia. Identiche le percentuali all’interno dei tribunali dove, all’alta Corte di Giustizia, i giudici neri sono solo due, 1,6% del totale. Comunque due di più rispetto al 1993.
Anche la lunghezza delle pene varia a seconda dei colori. Un nero accusato di violenza sessuale sconta mediamente cinque anni di prigione. Un bianco quattro. L’attivista per i diritti umani Gubrux Singh sostiene che «è vero che la ruota gira, ma la recessione potrebbe riportarla indietro. Le rivolte di agosto a Tottenham lo dimostrano. Le differenze di razza saranno sostituite da quelle di classe. E di casta». Anche la politica fa passi avanti. Nel 1993 le minoranze etniche in Parlamento rappresentavano l’1% degli eletti (6 contro 645), oggi sono il 4% (28 contro 622). La prima donna di colore a essere eletta a Westminster fu la parlamentare laburista, tuttora in carica, Diane Abbott, che giusto 48 ore fa è stata costretta a scusarsi con il Paese per un tweet imbarazzante. Diceva: «I bianchi dividono e governano, non adeguiamoci al loro gioco». I bianchi. Ed Miliband, il leader del suo partito, le ha chiesto di ritrattare. Lei si è adeguata, ma è ovvio che il problema rimane. Ed è trasversale, come dimostra anche la Premier League, dove solo due allenatori sono neri e dove venerdì scorso Tom Adeyemi, terzino dell’Oldham, ha lasciato il campo del Liverpool in lacrime dopo essere stato inondato dagli insulti razzisti del pubblico.
Prima di abbandonare Well Hall Road, Doreen Lawrence si ferma con Elaine Cob e Gordon Newton. Sono due negozianti del Kent. Vendono lapidi. E sono loro che si prendono cura di quella che ricorda Stephen. Pochi giorni dopo che era stata fissata sul marciapiede qualcuno passò con un martello e la distrusse. Elaine e Gordon videro la scena in tv e telefonarono a Doreen: «D’ora in poi almeno questo non sarà più un tuo problema. Ci pensiamo noi». La lapide è stata bruciata, verniciata, graffiata. Loro sono sempre intervenuti. Finché la polizia ha deciso di montare delle telecamere per sorvegliarla 24 ore su 24. Il simbolo fisico di una sconfitta.

l’Unità 9.1.12
Il ritorno di Freud scrittore
Le storie cliniche del papà della psicoanalisi raccolte in un nuovo volume «Racconti analitici», pubblicato da Einaudi. Dove si evidenzia la rivoluzione estetica che aveva messo in crisi i canoni narrativi correnti del Novecento
di Albero Luchetti


È forse noto che la prima delle pazienti grazie alle quali si costruì la psicoanalisi freudiana, la famosa «Anna O.», con un termine inglese definì talking cure, «cura parlata», quella strana terapia cui si stava sottoponendo centotrenta anni fa e che affidava alla «magia lenta» della parola la possibilità di liberare dagli affetti collegati ad eventi traumatici rimossi. Meno noto è forse il fatto che la psicoanalisi sia però nata, almeno nella stessa misura, come writing cure, come «cura scritta»: la scrittura fu infatti il vero e proprio «mezzo», nel senso biologico della sostanza o ambiente in cui avviene un fenomeno, in cui germogliò e poi fiorì la nuova disciplina. Freud scrisse instancabilmente giorno e notte: non solo le migliaia di pagine dei suoi numerosissimi saggi e libri, ma migliaia di lettere a colleghi, amici e familiari (oltre novecento solo alla fidanzata). La sua stessa «autoanalisi» procedette per iscritto, diligentemente annotando quasi ogni giorno i propri sogni, i propri lapsus e dimenticanze e le libere associazioni ad essi. Peraltro, già da adolescente Freud, accanito lettore, per un decennio aveva scritto lettere all’amico Silberstein con cui aveva fondato una scherzosa «Accademia spagnola» ispirandosi a Cervantes, e inoltre aveva composto racconti, poesie ed altri tipi di composizione.
LEGAME CON LA LETTERATURA
Fin dall’origine, questo stretto legame della psicoanalisi con la scrittura si articolò con un altrettanto forte legame con la letteratura, in cui Freud ritrovava intuizioni che brillantemente avevano anticipato scoperte che solo con fatica il metodo psicoanalitico riusciva a corroborare scientificamente. Da opere letterarie classiche (Shakespeare, Schiller, Goethe, Heine, per citare solo alcuni autori) sono tratte non solo le innumerevoli citazioni che accompagnano i testi scientifici freudiani, ma altresì quei personaggi che diverranno figure emblematiche della stessa teoria psicoanalitica: uno per tutti, Edipo. Cosicché è comprensibile che, come racconta l’aneddoto, un fisico abbia potuto definire la psicoanalisi come la più scientifica delle discipline umanistiche ed un letterato come la più umanistica delle scienze, e che la sua opera valse a Freud, se non il premio Nobel, almeno l’altrettanto ambito «premio Goethe».
Il nodo che unisce psicoanalisi, scrittura e letteratura peraltro non è affatto formale né estrinseco, bensì intimo e sostanziale, giacché la psicoanalisi mira a fare scienza proprio di quell’inconscio che nell’essere umano è alla base tanto del suo funzionamento psichico e corporeo quanto delle sue creazioni più astratte e sublimi. Inevitabile però che tutto ciò gli procurasse l’accusa di raccontare «favole» inizialmente mossagli dal grande psichiatra dell’epoca Emil Kräpelin, e periodicamente riproposta dal demolitore di turno, nonostante lo stesso Freud subito ammettesse onestamente la propria sorpresa ed imbarazzo per il fatto che le storie cliniche che riferiva si leggessero «come novelle». Quell’accusa e questo imbarazzo egli finì però col ribaltarli in una ricerca narrativa altrettanto innovativa dell’impresa scientifica che aveva intrapreso, come ci mostra efficacemente il volume Racconti analitici recentemente pubblicato da Einaudi, progettato e introdotto da Mario Lavagetto, che raccoglie la maggior parte delle storie cliniche freudiane, tutte in una nuova traduzione di Giovanna Agabio, con note di Anna Buia e illustrazioni di Lorenzo Mattotti.
La tesi del libro, indicata nella esauriente e avvincente introduzione di Mario Lavagetto, è illustrare come Freud si sia trovato «preterintenzionalmente in sintonia con gli esiti di quella rivoluzione estetica che aveva messo in crisi la possibilità di organizzare le storie in base al sistema della verosimiglianza, al gioco di cause ed effetti, all’alternarsi di aspettative, sorprese, riconoscimenti e scioglimenti». Il contrasto tra i paradigmi acquisiti con la sua formazione nella Vienna della seconda metà dell’Ottocento e la necessità di mettere a punto una nuova forma narrativa si trasferirà all’interno della forma di racconto utilizzata per i suoi casi clinici. Storie che, come giustamente nota Lavagetto, «sarà sempre meno possibile leggere “come novelle” o almeno come novelle conformi a un prototipo collaudato».
Non c’è dunque da stupirsi se alla fine Freud stesso si trovasse «davanti la propria opera come qualcosa di “indipendente, perfino di estraneo”», come parallelamente capita in fondo a ogni persona che si affidi alla psicoanalisi per scrivere o riscrivere la propria storia e cercare di ridisegnare la propria vita, allorché le riscopre come qualcosa di altro da sé, nella misura in cui rivelano l’alterità che abita la stessa possibilità di dire «io». E nemmeno meraviglia che la letteratura scaturita dalla rivoluzione estetica a lui contemporanea possa scorgere nell’opera di Freud un sintomo del progressivo e inesorabile dissolversi delle forme classiche della narrazione, riconoscendolo come uno dei padri del pensiero novecentesco non solo in quanto scienziato dell’apparato dell’anima dell’essere umano, ma anche come scrittore.

La Stampa 9.1.12
Joyce, le tre epifanie che sconvolsero il ’900
Una nuova biografia mette in rapporto la vita dell’autore irlandese con il suo mondo letterario
di Richard Newbury


AGOSTO 1898 A 16 anni, una sera viene sedotto da una prostituta: e l’oscurità diventa una fonte di eccitazione
16 GIUGNO 1904 Nella Nassau Street di Dublino l’incontro fatale con Nora, la musa che ispirerà l’Ulisse
17 APRILE 1932 Dopo una crisi della figlia i temi della personalità disturbata entrano nella Veglia di Finnegan

Londra. Una biografia è un romanzo che promette di dire la verità; i romanzi di solito sono autobiografie inaffidabili, avvalorate dal credo aristotelico che la poesia è più vera della storia. Per Gordon Bowker - l’autore di James Joyce - A Biography, da poco uscito a Londra -, «i racconti di Joyce sono fortemente autobiografici e perciò hanno dato forma a ciò che lui si prefiggeva scrivendo e presentandosi al mondo come artista». Gente di Dublino ebbe effettivamente molte difficoltà a trovare un editore a causa delle minacciate denunce di diffamazione, ma introdusse la sua rivoluzionaria tecnica narrativa. Il Ritratto dell’artista da giovane è un’ampia confessione fatta da Joyce, che rigettò violentemente il cattolicesimo ma non l’educazione gesuitica che aveva ricevuto. Ulisse porta il lettore in un giro di 24 ore attraverso i monologhi interiori di Stephen/James e dell’ebreo Leopold Bloom, l’uomo qualunque, per le strade di Dublino il 16 giugno 1904 - il fatidico giorno in cui Joyce/Dante incontrò Nora/Beatrice. La veglia di Finnegan è un’onda travolgente di giochi di prestigio verbali, che parte da vecchi miti per crearne di nuovi, e sibillini. Come disse lo stesso Joyce, « Ulisse tratta di un giorno e una notte di mente consapevole; La veglia di Finnegan invece della mente inconsapevole, del sonno di un’unica notte di un personaggio polimorfo».
Bowker ha cercato di spiegare al lettore questi complessi alter ego con il contesto biografico di un uomo pieno di contraddizioni nei confronti dei suoi genitori e dell’Irlanda, di cui aborriva la romantizzazione. Un uomo cresciuto nel culto del nazionalismo irlandese che però odiava l’Irlanda folkloristica clericale che esso aveva creato; un uomo che adorava la lingua inglese ma la sovvertì e la reinventò; un uomo ambivalente anche nei confronti della Gran Bretagna, dove si recò, a differenza dell’Irlanda dopo il 1912, e di cui rimase cittadino.
Bowker mette a confronto Yeats e Joyce: «Yeats è figlio dell’influenza protestante, affascinato dall’aristocrazia e dalla superstizione contadina. Joyce proviene dalla piccola borghesia cattolica ed è incuriosito dal demi-monde dublinese; Yeats abbraccia la bellezza della natura, Joyce è attirato dalla bruttezza della città; Yeats vede Omero come l’autentica espressione della grande arte, Joyce preferisce Dante e il viaggio all’inferno andata/ritorno. Erano due forme diverse di intelligenza creativa - l’originalità di Yeats modellata da considerazioni di forma poetica, Joyce sempre voglioso di traboccare in forme oltre la forma. Yeats era devoto al nazionalismo culturale, che invece Joyce considerava un tradimento del genio poetico».
Bowker illumina tre nuovi aspetti di Joyce. Vivendo a Trieste, Joyce vede delle analogie tra la situazione difficile di Dublino e quella di Trieste, città italiana in mezzo a un impero austro-ungarico che le è estraneo, mentre i suoi tanti amici e studenti ebrei non praticanti, come Italo Svevo - cui si ispirò per Harold Blooom - sono simili agli irlandesi sradicati che hanno dimenticato la loro cultura.
Bowker vede anche nella sua vita tre di quelle che Joyce chiamava «epifanie». Nell’agosto 1898, quando era un pio gesuita sedicenne con una forte vocazione religiosa, si era eccitato giocando e tornando a casa era stato sedotto da una prostituta. Da quel momento l’oscurità non fu più il covo dei malvagi ma qualcosa di eccitante oltre ogni immaginazione e la vocazione artistica soppiantò quella sacerdotale.
Il 16 giugno 1904, nella Nassau Street, a Dublino, calamitato da una lussureggiante testa di capelli rossi, si levò il cappello da marinaio e convinse la scaltra incantatrice a incontrarlo di nuovo. Il maestro era appena inciampato nella sua musa irlandese, e il corso della letteratura del XX secolo era cambiato.
Domenica 17 aprile 1932, sui binari per Calais della Gare du Nord di Parigi, una ragazzina all’improvviso si mette a strillare e urlare in modo incontenibile. Anziché partire per Londra, padre madre e figlia restano a Parigi. Dopo questa scenata fatta dalla figlia Lucia, mentalmente instabile - che poi sarà respinta dal segretario del padre, Samuel Beckett - il lavoro di Joyce intorno alla Veglia di Finnegan rallenta fin quasi a fermarsi. «Quando riprese», scrive Bowker, «i temi della personalità disturbata avrebbero cominciato a intrecciarsi nel testo, lasciando Joyce aperto all’oscurità e ai sospetti pruriginosi».
A chi gli chiese, dopo la Rivolta di Pasqua del 1916, se aspettasse con ansia una Irlanda indipendente, Joyce rispose: «Sì, in modo da potermi dichiarare il suo primo nemico». Dopo il 1922 si rifiutò di appoggiare lo Stato libero d’Irlanda o di entrare nell’Accademia irlandese delle Lettere. Di fatto, se fosse tornato alla realtà della sua fantasticata Irlanda, sarebbe stato arrestato per oscenità. E quando la moglie Dora, sul letto di morte a Zurigo nel 1941, offrì di rimpatriare il corpo del più grande scrittore irlandese - nonostante i Nobel G. B. Shaw, W. B. Yeats, Samuel Beckett e Seamus Heaney - il governo clerical-nazionalista del primo ministro De Valera rifiutò l’offerta. Odio puro, che Joyce avrebbe gustato!
Traduzione di Marina Verna

«Oggi, posso dire, il cattolicesimo in Irlanda è finito»
Corriere della Sera 9.1.12
«La mia Irlanda, terra irriconoscibile»
Lo scrittore Colm Tóibín torna per esplorare il suo Paese «La crisi, gli scandali. Qui anche il cattolicesimo è finito»
di Ranieri Polese


«All'apice del boom, in questo strano, piccolo Paese, i prezzi si alzarono quasi fossero Icaro, che ignorò l'avvertimento del padre e le cui ali furono sciolte dal calore del sole splendente». Lo strano, piccolo Paese è l'Irlanda di questi ultimi anni, coinvolta da una frenesia finanziaria che poi la crisi ha fatto crollare. Chi lo descrive così è Colm Tóibín, giornalista scrittore docente di letteratura nato 57 anni fa a Enniscorthy, nella contea di Wexford, nel Sudest dell'Irlanda. Con i suoi romanzi e racconti (The Master, Madri e figli, Brooklyn) ha raccolto molti premi. Ha insegnato letteratura in varie università americane, fra cui Austin, Texas e Princeton, tiene corsi di scrittura creativa all'Università di Manchester.
Ora esce da Bompiani la traduzione della sua seconda raccolta di racconti, La famiglia vuota, e la citazione è presa proprio dal racconto che dà il titolo al volume. Alcuni dei protagonisti di queste storie, irlandesi che tornano a casa, non si ritrovano più: le strade di Dublino sono cambiate, ci sono nuovi edifici tirati su nel breve periodo della ricchezza facile. Poi, però, la parentesi dell'euforia si è chiusa, «oggi il Paese si sta riprendendo, ma la vita è difficile».
Lui, Tóibín, da quel piccolo, strano Paese, se n'era andato via molti anni prima: chi era giovane, nell'Irlanda «grigia e povera» degli anni Settanta, non poteva fare altrimenti dice al telefono da Dublino. «Io partii la prima volta nel '75, destinazione Barcellona. Ci sono rimasto tre anni, lavoravo come insegnante d'inglese». Da quel soggiorno sono nati un romanzo, Sud e ora il racconto Barcellona, 1975. Giovane, gay, in cerca di una vita non più condizionata dai pregiudizi del piccolo Paese, Tóibín arriva durante la interminabile agonia di Francisco Franco e lì vive i primi anni della ritrovata libertà dove niente è più proibito e nel sesso non ci sono tabù. Seguiranno anni di lavoro giornalistico, di viaggi («Mi interessavano i Paesi cattolici, dal Sud America ai Paesi dell'Est: volevo scoprire i tratti comuni e le differenze con l'Irlanda»), di reportage, i primi incarichi di insegnamento. Negli ultimi anni è stato ospite, più volte, della Fondazione Santa Maddalena, vicino a Firenze, dove la vedova di Gregor von Rezzori, Beatrice Monti della Corte («È la migliore ambasciatrice dell'Italia» dice), raduna ogni anno scrittori di tutto il mondo. Oggi Tóibín vive una parte dell'anno in Irlanda, l'altra in America, dove insegna, e in Spagna: «Mi sono comprato una casa, sui Pirenei, tutti i posti di mare sono stati distrutti dal turismo».
Perché decise di partire?
«Andando via, volevo un distacco netto dal mio passato emotivo e sentimentale. Così ho finito per vivere molto all'estero, ma con in mente sempre un qualcosa che chiamavo casa. Qualche anno fa sono tornato a Enniscorthy, mi sono preso una casa da cui si gode la stessa vista che vedevo cinquant'anni fa. Eppure so che non è più la stessa. Quello che chiamavo casa non significa più niente. Ecco, nei racconti di questo libro c'è il senso di un qualcosa che una volta c'era e che ormai non c'è più. È la realtà delle emozioni che conta, è quella che cambia. Non c'è disperazione in quello che scrivo, c'è una sorta di malinconia, in termini musicali si chiama tonalità minore. Parlo di una delusione, non di una tragedia».
Un tempo, per molto tempo, l'Irlanda è stato un Paese di emigranti.
«È la nostra storia, ma prima si andava via per necessità, per fuggire dalla miseria, in cerca di una vita più tollerabile. I personaggi dei miei racconti non partono più spinti dalla povertà».
Si potrebbe dire che sono emigranti esistenziali.
«Sì, non possono restare dove sono nati. Poi, quando sono lontani, non riescono a cancellare i ricordi di casa, e quando tornano non ritrovano più niente di quello che nel passato aveva contato per loro. I luoghi appaiono diversi, gli amori di un tempo non sono più raggiungibili».
Alcuni dei racconti di «La famiglia vuota» sembrano autobiografici.
«Sì, tre di questi lo sono».
Oltre a «Barcellona, 1975», quali sono gli altri due?
«"Uno meno uno" e "La famiglia vuota"».
Nel primo c'è un insegnante irlandese ad Austin, Texas, che ricorda la morte di sua madre, avvenuta sei anni prima: era tornato a casa appena in tempo per vederla spirare, e al funerale, ricorda, aveva rivisto il suo ex compagno che ora vorrebbe di nuovo accanto a sé. Anche ne «La famiglia vuota» c'è un ritorno a casa, nella contea di Wexford, quella dov'è nato Tóibín: l'Irlanda è cambiata, la nostalgia per un antico amore provoca una strana melanconia. E il protagonista non sa se restare o ripartire.
Lo scandalo dei preti pedofili, che ha occupato per anni le cronache irlandesi, compare solo in uno di questi racconti. È «I pescatori di perle» (un ricordo lontano degli anni di scuola, quando i ragazzi furono portati a teatro, alle prove dell'opera di Bizet) che parla di un prete che ha abusato di una studentessa sedicenne. Lei, una volta, ha detto in un'intervista di non aver mai subito molestie o violenze sessuali nelle scuole dei preti, anche se trovava alcuni di loro particolarmente attraenti.
«È vero, nessun prete ha mai abusato di me. Certo, la questione della pedofilia è stata ed è ancora molto viva e dolorosa. Oggi, posso dire, il cattolicesimo in Irlanda è finito. Tant'è che circa due mesi fa, con grande risentimento di Roma, il governo ha ritirato la rappresentanza diplomatica in Vaticano».
Nella raccolta di saggi «Amore in un tempo oscuro» pubblicata alcuni anni fa, lei ha dedicato una decina di ritratti a scrittori e artisti omosessuali, da Oscar Wilde a Pedro Almodovar, passando per Thomas Mann, Francis Bacon, James Baldwin.
«Per la maggior parte di loro, l'omosessualità doveva restare segreta e vivevano la loro condizione dolorosamente, come un dramma. Molti appartenevano a tempi in cui quell'amore era proibito. Oggi le cose sono in parte cambiate, c'è maggiore libertà. Ma come per il cattolicesimo, ci sono tante diverse forme di vita omosessuale, a seconda dei Paesi».
In questa raccolta, c'è «Silenzio», in cui viene rielaborato un episodio della vita di Lady Gregory, una delle animatrici della rinascita letteraria irlandese. Sposata a un uomo di 35 anni più vecchio di lei, da cui ha avuto un figlio, incontra un giovane poeta e s'innamora di lui appassionatamente. Inizia una relazione fatta di incontri clandestini, resi ancora più intensi dalla paura della donna di venire scoperta. Poi, quando la storia finisce, lei consegnerà all'ex amante dei sonetti scritti da lei, sul loro amore, chiedendogli di pubblicarli nel suo prossimo libro di poesie. Anni dopo, ormai vedova, a una cena siede accanto a Henry James, uno scrittore che ammira. Vorrebbe confidare a lui il suo segreto (se nessun altro lo conosce, pensa, è come se non fosse successo niente), ma invece gli racconta una storia diversa, di un ecclesiastico che scopre che la giovane che ha appena sposato aveva un amante.
Il segreto, il bisogno di raccontarlo a qualcuno e insieme la paura di venire giudicati per ciò che si confida, è un tema ricorrente nei suoi racconti.
«La letteratura attinge dalla vita, ma la reinventa, cambia, introduce variazioni. Una cosa è la confidenza, un'altra il romanzo. C'è la necessità, è vero, di raccontare a qualcuno i propri segreti, anch'io la provo, ma per scrivere un racconto, un romanzo, questo non basta. Si deve reinventare la storia. È questa la natura della letteratura. Per questo, quando prima dicevo che alcuni di questi racconti sono autobiografici, devo precisare: piu o meno autobiografici. Traggono spunto da esperienze vissute, poi diventano qualcosa d'altro. È come se acquistassero una vita propria».

Corriere della Sera 9.1.12
Le due destre nell’età di Vichy
di Giovanni Belardelli


Il crollo della Francia nel giugno del 1940, con l'esodo di milioni di civili da Nordest a Sudovest (quella specie di 8 settembre d'Oltralpe descritto da Irène Némirovsky in Suite francese), ebbe la sua causa anche in correnti profonde della cultura del Paese, anzitutto in un sentimento di disaffezione per la democrazia che s'era diffuso negli anni precedenti. È anche di questo che tratta un libro importante di Maurizio Serra (La Francia di Vichy. Una cultura dell'autorità, Le Lettere, pp. 292, € 28), che analizza appunto le radici culturali della sconfitta e i caratteri del progetto autoritario formulato a Vichy dal maresciallo Pétain, capo del governo nella Francia rimasta formalmente indipendente. Ma il volume studia — ed è la parte più interessante — quel fenomeno cupo e inquietante che fu il collaborazionismo degli intellettuali nella Parigi occupata dai tedeschi.
Pétain apparve ai francesi come colui che, garantendo l'indipendenza di una parte almeno del Paese, aveva salvato la Francia una seconda volta (la prima era stata, nel 1916, a Verdun). Il consenso estesissimo del quale godeva lo indusse a formulare un ambizioso progetto di «rivoluzione nazionale» che riformasse la società francese alla luce del trinomio «lavoro, famiglia, patria». Progetto che riprendeva le tradizionali critiche dell'estrema destra al regime democratico e alla rivoluzione francese, irrealistico vista la debolezza di uno Stato che di fatto dipendeva dai tedeschi.
Dal libro di Serra emerge bene la differenza tra questo progetto autoritario e reazionario e le posizioni di una nuova destra intellettuale che si coagulò in quegli stessi anni a Parigi, nella zona occupata dai tedeschi (ma dal novembre 1942 l'occupazione si sarebbe estesa anche alla Francia di Vichy), in un clima per molti aspetti ambiguo e paradossale. La Parigi controllata dai nazisti è una città ricca di fermenti culturali e artistici: vi si pubblicano libri importanti, da Antigone di Anouilh a Lo straniero di Camus; vi si rappresentano opere teatrali di rilievo; nel solo 1942 vengono girati ben 72 film. Ma è anche la città che subisce la razzia di molte opere d'arte e dove, nel maggio 1943, vengono distrutti migliaia di quadri di pittori «degenerati», come i nazisti definivano gli artisti appartenenti alle correnti di avanguardia e perciò soggetti al «morbo giudaico».
È lì che alcuni intellettuali francesi sposano la causa del nazismo, visto come l'occasione per un'estrema sfida alla società borghese, lo strumento per distinguersi — in una scelta politica ed estetica — dalle masse e dagli uomini comuni. Scriverà Drieu La Rochelle nel diario: «Sono stato tra gli happy few, tra quei pochi ragazzi che nel collaborazionismo non c'erano per collaborare, ma per non essere altrove, nel gregge che sudava paura e odio». Se i collaborazionisti militanti furono pochi, nota Serra, molti di più furono i fiancheggiatori o simpatizzanti. Più che una corrente vera e propria, gli intellettuali collaborazionisti impersonarono un insieme di aspirazioni, fobie, atteggiamenti fondati sul rifiuto di ogni posizione intellettualmente coerente, sulla critica dell'Occidente materialistico e della «contaminazione ebraica», sul richiamo alla «sana violenza giovanile», senza più alcuna nostalgia per l'esaltazione nazionalistica di ciò che è tradizionalmente francese. Un'esaltazione che trovava posto invece nell'ideologia ufficiale di Vichy.
Erano posizioni che rifiutavano la distinzione tra destra e sinistra, affiancando alla simpatia per Hitler quella per Stalin, all'apprezzamento per il fascismo quello per il comunismo, entrambi definiti da Robert Brasillach «la poesia stessa del XX secolo». Tutto questo in un'atmosfera di esaltato nichilismo, di fascinazione per la rovina e la morte. E con la morte si concluse nel 1945 l'esistenza sia di Drieu sia di Brasillach, i due scrittori forse più rappresentativi del collaborazionismo parigino: suicida il primo, giustiziato il secondo, nonostante un appello in suo favore firmato anche da intellettuali che avevano partecipato alla Resistenza. Per una singolare coincidenza nei loro ultimi giorni entrambi, come ricorda Serra, si erano dedicati alla lettura di Shakespeare.

l’Unità 9.1.12
Particelle, la caccia continua
Anche se gli esperimenti sul «bosone di Higgs» hanno fatto grossi passi avanti la fisica ha bisogno di nuove scoperte perché i conti tornino
di Pietro Greco


La caccia non è finita. Che Lhc abbia trovato o meno il «bosone di Higgs», occorrerà che in ogni caso continui il suo lavoro e trovi nuove particelle se vuol fare tornare i conti della fisica. A sostenerlo, su Nature, è John Ellis, fisico teorico del King’s College di Londra e da anni collaboratore del Cern di Ginevra. Naturalmente Ellis non è il solo a pensarlo. Ha semplicemente messo in chiaro cosa c’è da fare ora che l’acceleratore Lhc ha trovato forti indizi (ma non la prova definitiva)
dell’esistenza del bosone di Higgs (la cossidetta particella di Dio) in una regione di energia di compresa tra 124 e 126 GeV.
In realtà dopo il 13 dicembre – data dell’annuncio della probabile scoperta del bosone di Higgs da parte di Fabiola Gianotti e Guido Tonelli, leader di Atlas e Cms, due tra i principali esperimenti condotti con Lhc – nuove particelle il grande acceleratore le ha già trovate: un gruppo di fisici inglesi studiando proprio i dati di Atlas, ha reso noto a fine anno di aver individuato la particella Chi-b(3P). Si tratta di un mesone e, come tutti i mesoni, è composta da un quark (in questo caso il quark beauty) e dalla sua antiparticella. Ma Ellis non si riferiva a Chi-b(3P). O, almeno, non solo a quela. Ma a particelle cruciali, capaci di tenere in piedi il Modello Standard delle Alte Energie e di andare oltre questa teoria. Ellis prospetta diversi scenari. Nel primo e, a questo punto, nel più probabile, Lhc conferma la scoperta del bosone di Higgs intorno a 125 GeV. Proprio come previsto dal Modello Standard. Se è così siamo in un bel guaio. Perché se il bosone di Higgs è così leggero, allora calcoli teorici considerati affidabili dicono che il nostro universo si trova in uno stato energetico altamente instabile. E che – in un tempo indefinito – potrebbe collassare su se stesso, alla ricerca di uno stato energetico più stabile.
CATASTROFE COSMICA
Lo scenario della catastrofe cosmica – che finora non si è verificata e che lascia scettici molti colleghi di Ellis – può essere evitato solo se Lhc continua la sua caccia e trova, appunto, nuove particelle. Incrociamo dunque le dita, perché il destino dell’universo è nella mani di Susy (la teoria supersimmetrica). Tra qualche mese sapremo se Atlas e Cms si sono sbagliati o no. Se il bosone di Higgs esiste ed è leggero, come sembra. Nel caso, ormai improbabile ma non nullo, che si sia sbagliato, le possibilità sono tre. 1) Il bosone esiste, ma nella regione di energia superiore a 600 GeV, come previsto da alcune varianti del Modello Standard. In questo caso occorrerebbe che: Lhc trovi il bosone in questa regione; che trovi tracce di nuove interazione tra particelle note; che, infine, trovi «nuova fisica» in grado di discernere tra le infinite interazioni possibili di cui sarebbe responsabile un bosone di Higgs così pesante.
2) Il bosone esiste, in una regione compresa tra 130 e 600 GeV. I dati raccolti da Lhc escludono questo scenario. Ma se il bosone esiste in questa regione di energia, allora occorrerebbe trovare le prove o di nuove forme di decadimento, non previste dal Modello Standard, della particella che regala la massa a molte altre; oppure di diversi tempi di decadimento.
3) Lo scenario forse per i fisici più allettante. Il bosone di Higgs non esiste affatto e, dunque, non sarà trovato. Allora bisognerà trovare nuovi modi, che vanno ben oltre il Modello Standard, di spiegare perché alcune particelle elementari hanno una massa e altre no. In ogni caso, qualsiasi sia lo scenario che emergerà ci sarà lavoro per i fisici. Sia per i «cacciatori di particelle», gli sperimentali che dovranno catturare nuove, minuscole prede; sia per i teorici che dovranno illuminare nuove zone di quella grande cattedrale che è la teoria fisica delle alte energie.

Repubblica 9.1.12
La fine della reputazione
Così l´identità è diventata un brand pubblicitario
di Stefano Bartezzaghi


L´identità di ognuno ha una faccia interiore e una esteriore, la privacy e la pubblicità. I due poli opposti, uno centripeto e l´altro centrifugo, trovano un punto di contatto nell´area di ciò da cui la privacy viene difesa e su cui la pubblicità compie un´opera di costruzione: la reputazione.
È un buon periodo per parlare di reputazione. «It´s not about the money»: la battuta di Wall Street 2 è stata ripresa dalla filosofa Gloria Origgi in un articolo (il Fatto quotidiano) in cui ha mostrato come le poste reali del gioco finanziario siano affidabilità, credibilità, credito e quindi reputazione. Fra gli arbitri di tale gioco grande peso ha un´agenzia il cui nome, «Moody´s», per una coincidenza a modo suo illuminante,allude all´essere umorale e lunatico.
«Le imprese si governano con la riputazione»: non a imprese commerciali, industriali o finanziarie, allude il proverbio, né alle imprese amorose a cui si potrebbe pensare sapendo che ne è stato autore Pietro Aretino (che in realtà parlava di Giovanni dalle Bande Nere e di imprese guerresche). Si vede come già nel 1526 il termine aveva assunto il significato odierno. In origine, il reputare latino significava «fare i conti per bene» o anche «mettere in conto a qualcuno». Ma il suo significato neutro di «opinione condivisa nei riguardi di una persona» sembra il più delle volte specializzarsi nel senso di «opinione condivisa e favorevole». Lo stesso succede ad alcuni suoi parasinonimi, come stima, nome, considerazione o a una parola come fortuna. Sono nomi che stanno per una categoria (buona e cattiva reputazione; buona e cattiva sorte) ma sono anche i termini non marcati della categoria, ovvero i significati di default. La «reputazione» (come la fortuna) è quella buona, altrimenti viene specificato (il contrario avviene con la nomea, che di default è negativa). Lo si vede per esempio da tre versi di Lorenzo de´ Medici, proprio a proposito di privacy e reputazione: «Chi regge imperio e in capo tien corona / sanza reputazion non par che imperi / ne puossi dir sia privata persona».
Il concetto di reputazione, però, non pare godere (o aver goduto) proprio sempre della medesima reputazione. Non sempre, cioè, la reputazione positiva ha a sua volta una reputazione positiva. Nel principio di pubblicità e visibilità, per esempio, è implicito il famigerato «bene o male, basta che se ne parli», che rende positive espressioni come «chiacchierato» o l´inglese «the talk of the town». Addirittura è la reputazione negativa ad avere una reputazione positiva nei casi di «adorabile mascalzone», a cui si ispirano tutti i maledetti, gli antibuonisti e i cultori del politically uncorrect il cui decalogo si riassume nel comandamento «La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca» (da Sgarbi in poi, ce n´è un intero star system, il mainstream della trasgressione).
La cosa più interessante è però il rovescio: non quando la reputazione cattiva ha una reputazione buona, ma quando è la reputazione, anche buona, ad averne una cattiva. Altro che essere chiacchierato! Nelle famiglie aristocratiche si diceva che sui giornali ci si deve andare due volte: alla nascita e alla morte. A Voltaire si attribuisce la battuta con cui, a chi gli parlava di una certa Accademia di provincia «figlia dell´Académie Française», rispose: «Deve essere una figlia molto virtuosa, perché non ha mai fatto parlare di sé». L´inappariscenza e l´indistinzione, la vita appartata, quel «Per favore mi lasci nell´ombra» con cui Carlo Emilio Gadda si appellava invano all´intervistatore avevano la loro controparte nell´esistenza, oggi impensabile nel mondo del commercio, delle «società anonime».
Nel primo capitolo dei Promessi Sposi, don Abbondio ricorda di quando in passato aveva difeso la «riputazione» di don Rodrigo: per puro timore, non conoscendolo affatto. Esiste dunque la possibilità di una reputazione teorica, astratta quando non assolutamente immaginaria. È il tipo di reputazione che, negli stessi anni di Pietro Aretino, veniva studiata da Niccolò Machiavelli come strumento di dominio dell´opinione pubblica: «El fine suo non è quello adquisto o quella victoria, ma è darsi reputazione ne´ popoli sua e tenerli sospesi con la multiplicità delle faccende». Mostrarsi affaccendato, più che fare; «il fare» come sostantivo ed etichetta vuota anziché come verbo e azione effettiva e il «fatto!» come opinione autocelebrativa. Come anche la politica contemporanea dimostra (né possiamo illuderci di avere al proposito voltato pagina definitivamente) la reputazione perde il suo sostrato (quell´identità immateriale ma concreta e comprovabile, verificabile perché falsificabile, fatta di storia personale e memoria collettiva) e assume l´evanescenza dell´immagine. Brand, costruzione puramente comunicativa, ectoplasma di un´entità inconsistente e semi-fantasma, l´immagine (o reputazione immaginaria) cerca di divenire icona e di mettere così al riparo da ogni revisione storica. Nel mondo contemporaneo, chi è stato proclamato brutto, efficiente, spiritoso, scaltro, maldestro, saggio tende a rimanerlo. Sostituire l´articolato e mutevole dispiegarsi della reputazione al pregiudizio marmoreo dell´icona non è facile né gradito, perché è proporre le virtù della Cosa, opaca, ruvida e spigolosa, contro la trasparenza artificiale ma avvolgente del Mito. Nel mondo d´oggi, è come sostenere le virtù della pioggia contro quelle del solleone. O, a proposito di caldo e siccità, come predicare nel deserto.

Repubblica 9.1.12
La lingua come strumento di libertà nel pamphlet di Marramao
Quella letteratura contro il potere
Le opere di Kafka, Canetti e Müller al centro della disputa ingaggiata dal filosofo
di Nadia Fusini


L´ultimo libro del filosofo Giacomo Marramao (Contro il potere, Bompiani) si presenta col taglio agile del pamphlet – una forma espressiva dagli intenti polemici, che nel Settecento usò in maniera sublime uno scrittore sofisticato come Jonathan Swift. Esemplare la sua modesta proposta di risolvere la miseria dei nullatenenti irlandesi cattolici, ricchi però di figli, vendendo le loro creature, a tale scopo opportunamente ingrassate, ai proprietari anglo-irlandesi, perché se ne cibassero… E aggiungeva anche deliziose ricette. C´è poco da ridere, ci fu chi disse. In realtà, in tempi estremi, di fronte a mali estremi, la ragione non può che procedere per paradossi. Non a caso, negli ultimi tempi, il pamphlet, in quanto forma, ha ripreso vigore.
Secondo questa nuova tonalità, Marramao oggi riprende temi, su cui altre volte in modo più propriamente filosofico s´era soffermato: il potere, la politica, la potenza, il desiderio. Un´urgenza nuova sembra spingerlo a quelle stesse domande, applicandosi all´ascolto di scrittori-pensatori, che di fronte all´aporia della ragione si sono affidati alla "scrittura".
La scrittura e la differenza intitolava Jacques Derrida un testo giustamente famoso della fine degli anni ´60, dove per l´appunto si dimostrava come la filosofia non fosse un "genere" chiuso, ma costitutivamente aperto a contaminazioni feconde con la letteratura. Sì che, via via leggendo, la congiunzione paratattica del titolo del libro apriva a un´altra figura, quella retorica dell´endiadi, dove due termini esprimono un unico concetto. Allo stesso modo, nel libro di Marramao il potere e l´identità si stringono. Diventano la stessa cosa.
A questa conoscenza il filosofo – è lui a riconoscere il debito – arriva grazie alla frequentazione di Elias Canetti, che allena la sua mente a cogliere il dispostivo anti-metamorfico del potere; e alla lettura dei racconti di Franz Kafka, dove registra una nuova specie di critica dell´esperienza, quasi che il potere lo si conoscesse davvero solo così, nella violenza del contatto sensibile. Non c´è più grande esperto del potere di Kafka, afferma Marramao. Mentre l´incontro con Herta Müller, la scrittrice tedesca nata in Romania, esule nella sua propria lingua, accende nel filosofo italiano l´intuizione di come la disappropriazione dal proprio sé sia, pur nella sventura, una via d´accesso privilegiata alla verità dell´essere. Cui da sempre la filosofia ambisce. Il potere in rapporto alla verità è invece in difetto. Addirittura, alla verità dell´essere il potere si dimostra antagonista per la sua innata vocazione a contrastare il dinamismo, la molteplicità, la pluralità che appartengono al divenire. All´essere in potenza.
Mi è piaciuto questo libro, perché restituisce alla letteratura il prestigio di una speciale intimità con il senso dell´esistenza. Non a caso la polemica, nel senso di controversia e disputa, che Marramao ingaggia "contro il potere" prende avvio dalla figura dello "scrittore" – custode di un´idea della creatura umana in quanto essere in potenza; in potenza, non di potere. Potenza di cui dà testimonianza nella sua esaltazione della capacità di metamorfosi della lingua, nella lingua. È proprio nel linguaggio, che l´uomo si conosce capace di flessibilità; proprio perché gioca con la lingua si ritrova libero, in potenza, di potere congedarsi dalle vette del concetto per celebrare l´esperienza.
Nelle pagine finali la polemica stringe il fuoco sull´epoca nostra chiamando in scena, guarda caso, un linguista, Raffaele Simone. Si disegna qui la figura che sostiene tutto il libro: quella di una vera e propria Auseinandersetzung, un dibattimento in cui l´uno e l´altro si confrontano soprattutto sul bisogno reciproco – a ribadire che il pensiero vivo è di necessità dramma.