mercoledì 11 gennaio 2012

il Fatto 11.1.12.
Nella fascia “C” la pillola del giorno dopo
Dietro la battaglia sui farmaci c’è la mano forte del Vaticano
di Marco Politi


Per la scienza la pillola del giorno dopo non è un farmaco abortivo poiché impedisce la fecondazione e blocca l’impianto nell’utero dell’ovulo fecondato
Centinaia di migliaia di giovani, coppie e single attendono di conoscere le decisioni del governo Monti in tema di vendita dei farmaci. Per una questione esistenziale. Avere o no un bambino. O meglio poter pianificare serenamente il momento in cui diventare genitori. La questione del luogo di vendita dei “farmaci di fascia C”, infatti, non riguarda solamente il rapporto Stato e Ordine dei farmacisti, ma tocca direttamente la vita sessuale degli italiani.
Dice Filomena Gallo, presidente di Amica Cicogna e segretario dell’associazione Luca Coscioni, che la “Chiesa sta facendo pressioni sul governo e sta solidarizzando con i farmacisti per evitare la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, di cui fanno parte Norlevo e EllaOne: cioè rispettivamente pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo”. Non è un allarme a vuoto. Dagli stessi ambienti ecclesiastici nelle settimane trascorse è trapelata la soddisfazione perché in prima battuta era stata frenata l’intenzione del governo di passare la vendita dei farmaci di fascia C alle parafarmacie. Una liberalizzazione che – è giusto sottolinearlo – non significa mettere nelle mani di commessi inesperti la distribuzione di farmaci ma affidare comunque a venditori farmacisti laureati il controllo delle ricette mediche, che prescrivono un farmaco pagato interamente dal paziente.
Le pressioni ecclesiastiche dietro le quinte fanno parte di una lunga campagna tesa a bollare come abortiva la pillola del giorno dopo e a incoraggiare l’obiezione di coscienza dei farmacisti cattolici. In realtà l’obiezione di coscienza dei farmacisti – che anzi hanno l’obbligo di dispensare un farmaco prescritto dal medico in quanto svolgono un servizio pubblico – non è assolutamente prevista dalla legge e configura una di quelle situazioni di prepotenza extra-legale che si sono manifestate a più riprese in ospedali pubblici in situazioni di interruzioni di gravidanza, quando anestesisti (adducendo ragioni di fede) si sono rifiutati di praticare l’anestesia a donne in preda a forti dolori benché l’obiezione ammessa dalla legge riguardi solo gli atti abortivi diretti e specifici.
SUL PIANO scientifico la pillola del giorno dopo non è minimamente abortiva poiché impedisce la fecondazione ed eventualmente blocca l’impianto nell’utero dell’ovulo fecondato. E senza impianto non c’è inizio di gravidanza. Ciò nonostante, da anni, è in atto un’offensiva delle autorità vaticane e della Cei. Il Papa si è espresso in favore dell’obiezione di coscienza dei farmacisti e la posizione della conferenza episcopale italiana è che ”obiezione di coscienza è anche un diritto che deve essere riconosciuto ai farmacisti” dal momento che “è prevista dalla legge sull’aborto per i medici”.
Sull’onda di tali interventi si sono verificati in alcune parti d’Italia dei rifiuti opposti da farmacisti fondamentalisti a donne regolarmente munite di ricetta medica. È successo a Roma, è successo con contestazioni clamorose a Bologna, è successo altrove. Uno dei casi di obiettori illegali, ricorda Lisa Canitano presidente di “Vita di Donna”, riguarda lo stesso presidente dell’Unione cattolica farmacisti italiani, Pietro Uroda, titolare di una farmacia a Fiumicino. Episodi da non sottovalutare per lo stress psicologico della donna, costretta a trovare entro 72 ore una farmacia “disponibile”. Cosa facile nelle città, molto difficile nei paesi dove si trovasse un obiettore.
Come documenta nella sua ottima ricerca sull’obiezione facile in Italia Chiara Lalli (C’è chi dice no, ed. Saggiatore) la pressione ecclesiastica ha portato nell’aprile 2010 alla presentazione di un disegno di legge Pdl per legalizzare ciò che legale non è. Tanto più che a suo tempo il presidente dell’Ordine dei farmacisti Giacomo Leopardi aveva dichiarato che il farmacista ha il dovere di dispensare un prodotto su presentazione della prescrizione medica.
Vendere nelle parafarmacie le pillole del giorno dopo significa dunque facilitare l’accesso delle donne ai contraccettivi d’emergenza. Tanto più che nella maggioranza dei paesi europei e negli Stati Uniti (per le maggiorenni), come sottolinea Filomena Gallo, la pillola del giorno si vende senza prescrizione.

il Fatto 11.1.12
Carlo Malinconico

I bonifici ai giornali e la notizia sparisce
La sordina sullo scandalo e l’ossigeno a molti quotidiani grazie all’uomo di Palazzo Chigi
di Carlo Tecce


Forse è un semplice vuoto di memoria. Un disturbo che s'insinua nel corpo e ti impedisce di pronunciare o scrivere due parole: Carlo Malinconico.
La lista è lunga, ex vittime che adesso riprendono le corrette funzioni con le dimissioni del sottosegretario di Mario Monti: L'Unità, Il Manifesto, Il Riformista, Europa. Libero soltanto ieri ha rilanciato la notizia. Giornali diversi, sinteticamente opposti, che per un paio di giorni o di più ignorano l'imbarazzo di un uomo di governo che soggiornava in camere di lusso con i soldi di una cricca che voleva controllare appalti e palazzi. Il vacanziere Carlo Malinconico ricordava, certamente, il sottosegretario all'editoria. Più che un rappresentante del governo, Malinconico era la chiave che apre e chiude il forziere con i milioni di euro per i quotidiani e le agenzie di stampa. E una chiave, se si indurisce, non entra nella serratura.
Malinconico è arrivato giusto in tempo per distribuire 150 milioni di fondi pubblici ai giornali: 62 già erogati, 32 pronti per gennaio, 56 rinviati per documenti mancati. Come previsto per legge, un numeroso gruppo di testate ha ricevuto a dicembre il bonifico bancario rianimando un po’ i conti: 5,9 milioni per Avvenire; 5,2 per L'Unità; 3,4 per La Padania; 3,2 per Il Manifesto; 2,9 per Liberazione; 2,1 per La Discussione, 2 per Terra. Per un cavillo, che prestò sarà risolto, il Foglio (2,9 milioni) e il Secolo d'Italia (2,4 milioni) dovranno aspettare.
In attesa che finisca la partita giudiziaria fra la famiglia Angelucci e l'Autorità di garanzia per le comunicazioni, l'ormai ex sottosegretario Malinconico aveva accantonato 5,8 milioni per Libero e 2,2 per Il Riformista (adesso con una nuova proprietà). Da segnalare anche i 2,2 milioni bloccati per L'Avanti che fu di Valterino Lavitola. L'ex presidente degli editori italiani è riuscito, in pochi mesi, a rinnovare le convenzioni con le agenzie di stampa senza penalizzare l'Ansa, che temeva tagli e lamentava rischi. Ma le decisioni più importanti, per il futuro, Malinconico le avrebbe prese nei prossimi mesi: il fondo 2012 si riduce a 53 milioni di euro, impossibile accontentare i 288 giornali che si rivolgono al Dipartimento. Malinconico aveva il potere di vita e di morte su decine di testate, un milione in meno e un milioni in più cambiano il bilancio e il destino. Con un'esposizione così forte, non è complicato cadere nel vuoto di memoria. Più semplice ricordarsi il ruolo di Malinconico, che iniziò il mandato con un’intervista al Fatto. Proponeva di incentivare i giornali più piccoli e deboli, anche quelli di partito, a trasferire il giornale in Rete risparmiando i costi di carta e distribuzione. Chi restava in edicola, invece, poteva mantenere i soldi di sempre anche se diminuiva la concorrenza. Mentre il predecessore Paolo Bonaiuti continuava a fare il portavoce del Cavaliere anche se fisicamente in uffici separati, Malinconico voleva pure informatizzare le edicole, creare un cervellone telematico per rintracciare copie smarrite o non vendute che lo Stato pagava. L’avvocato conosceva il potere mediatico e sapeva esercitarlo. Gli edicolanti aveva proclamato uno sciopero, adesso che è andato via, tocca pazientare un po’.

il Fatto 11.1.12.
Sant’Egidio e Finmeccanica
“Parlate di pace, ma prendete i soldi da chi fabbrica armi”
di Roberta Zunini


Dal 2 gennaio gira sul web una lettera aperta in cui associazioni e privati cittadini fanno alcune domande “sensibili” alla comunità di Sant'Egidio e a al neo ministro Andrea Riccardi, che la fondò nel 1968. Il testo chiama in causa il ministro della cooperazione internazionale e integrazione, a causa delle sue prime mosse nel governo Monti. E si rivolge alla comunità per chiedere conto di una contraddizione non da poco: “... Come fa la comunità di Sant'Egidio a organizzare una marcia per la pace quando, come risulta dalla stampa, la sua solidarietà va a braccetto con la vendita delle armi, accettando finanziamenti da una azienda come Finmeccanicam che costruisce armi? O quando il suo fondatore, Andrea Riccardi, come ministro dell'attuale governo, ha approvato il totale rifinanziamento delle nostre spese militari?... ”, scrivono i promotori.
L'AUTOREVOLEZZA e il prestigio della comunità di San'Egidio è cresciuta negli anni fino a renderla una vera e propria istituzione in grado di mediare anche su questioni politiche estremamente delicate in ambito internazionale, in particolare per quanto riguarda l'Africa. Durante la guerra in Libia, Sant'Egidio invitò i nuovi vertici libici a Roma. Era un momento difficile per le relazioni tra l'allora governo Berlusconi, noto per “il trattato di amicizia” con Gheddafi e coloro che stavano prendendo il suo posto. La forza di Sant'Egidio è conosciuta dalla diplomazie di mezzo mondo. La notizia pubblicata un anno fa da Nigrizia - il settimanale dei padri comboniani - sui finanziamenti elargiti da Finmeccanica alla comunità, inizialmente era passata sotto silenzio. In seguito alcune testate la ripresero ma nessuno di Sant’Egidio si sentì in dovere di spiegare il perchè di questa “liason” se non pericolosa, quantomeno inopportuna. “Tendiamo a non rispondere mai, anche se ciò che viene scritto è falso e ci danneggia”, spiega al Fatto Mario Marazziti, portavoce della comunità. Salvo poi specificare che è falso, ma da un certo punto in poi. “Abbiamo ricevuto finanziamenti da Fin-meccanica per un periodo limitato, poi abbiamo declinato - continua il portavoce - e in ogni caso non si è mai trattato, come è stato scritto, di ingenti finanziamenti ma di una sorta di colletta che i dipendenti di Finmeccanica avevano fatto di loro iniziativa”. Secondo il settimanale dei padri comboniani invece le cose non stavano così e i soldi di Finmeccanica servirono anche a finanziare un progetto per l’accesso gratuito alle cure per l’Aids, iniziato nel 2000.
CONFERMATO dalla stessa Finmeccanica nel cui sito si leggeva: “Finmeccanica ha già reso possibile l'acquisto di un immobile per la realizzazione di un centro Dream presso la città di Conakry, in Guinea, nonché l'inizio dei lavori di ristrutturazione e dei corsi di formazione per gli operatori coinvolti nel progetto”. L’azienda avrebbe donato alla Comunità circa 280mila euro fra il 2004 e il 2005. Nella lettera aperta si fa riferimento anche ai finanziamenti che provengono dalle cosiddette “banche armate”. Marazziti sostiene che Sant’Egidio non considera questo tipo di finanziamento incompatibile con la sua missione di pace. “Grazie a banche come Unicredit e Banca Intesa possiamo salvare migliaia di persone perché possono accedere gratuitamente alle cure. Del resto non penso che gli italiani che hanno acceso mutui con queste banche si sentano complici delle guerre in corso nel mondo solo perché queste attraverso questi istituti bancari transitano anche i soldi derivati dalla compravendita legale di armamenti”. Per quanto riguarda il rifinanziamento delle spese militari, la segreteria del ministro Riccardi risponde che è errato: “Riccardi, in quanto ministro della cooperazione ha rifinanziato solo le missioni di peacekeeping per quanto riguarda il settore civile. Per la prima volta c’è stato addirittura un aumento del budget previsto per il settore non militare”.

Repubblica 11.1.12
Lo scrittore Gyorgy Konrad boccia la proposta del governo di correggere le leggi liberticide
“L’Europa non creda alla destra ungherese, false promesse che uccidono la democrazia"
Orbàn deve lasciare, solo così potremo evitare il fallimento
di Andrea Tarquini


Berlino - «Non è più democrazia da noi, è autocrazia. Spero che presto ce ne libereremo, spero nell´Europa». Così dice Gyorgy Konrad, il Guenter Grass e il Sakharov ungherese: massimo scrittore magiaro vivente, dissidente ieri e oggi, nell´ora decisiva. Il regime promette correzioni alle leggi liberticide (specie quella che abroga l´indipendenza della Banca centrale) a poche ore dall´incontro tra il negoziatore ungherese Tamas Fellegi e la presidente del Fmi, Christine Lagarde. Senza i 20 miliardi di dollari del Fmi e della Ue il default è alle porte. Szolidaritàs, l´organizzazione-ponte dei democratici, invia a Bruxelles migliaia di lettere di ungheresi che chiedono aiuto, "vogliamo restare cittadini europei". L´ex premier tecnico di sinistra Gordon Bajnai propone un governo d´emergenza. Oggi a Roma la Fnsi organizza alle 17 un sit-in all´ambasciata d´Ungheria, Via dei Villini, per la libertà di stampa.
Signor Konrad, come andrà a finire?
«L´Ungheria presto o tardi si libererà da questo governo. Non sarà facile, siamo al limite. Rassicurare i mercati, il mondo, sarà possibile solo quando il governo, e soprattutto Orbàn, si dimetteranno. Finché lui resta non ci sarà fiducia tra la gente, nel mondo, nella Ue, né nel Fmi. Orbàn ha perduto ogni credibilità».
La situazione economica è catastrofica, che ne pensa?
«Orbàn, è un uomo cattivo, la sua energia è la vendetta. Non può essere parte della soluzione, è il problema. Diffamazioni, accuse, licenziamenti, quindi repressione: non crea più fiducia. Risveglia i peggiori spettri del nostro passato, complicità con Hitler e l´Olocausto fino all´ultimo, il contrario di polacchi e cèchi al fronte con gli Alleati. E lui non ama Budapest, proprio come l´ammiraglio Horthy».
E le promesse di concessioni a Fmi e Ue?
«Ue e Fmi rifletteranno attentamente, se ha senso concedere credito a un uomo che ogni giorno dice il contrario. Qui la gente prende i soldi dalle banche e li porta in paesi vicini al sicuro».
È ottimista sul futuro?
«A medio termine sì, a breve no. Ci vuole un credibile governo di esperti, qualcosa come Monti dopo Berlusconi».
L´Ungheria è ancora una democrazia?
«Credo di no. Non siamo più una democrazia: si fanno e disfano da un giorno all´altro leggi che cambiano radicalmente la situazione, abbiamo perso la certezza dello Stato di diritto. È autocrazia dipendente dall´arbitrio di Orbàn. Un Putin ungherese, triste eccezione nella Ue. Ha sempre più potere, non è Stato di diritto, è una specie di socialismo reale di destra».
L´Europa perderà l´Ungheria?
«Non parlo contro il mio paese, non è l´Ungheria a rigettare la Ue. Orbàn dice che possiamo vivere senza Ue, ma lo pensa solo lui. La Ue deve premere per un governo di esperti. Pian piano cominciano a far sentire la loro voce. I Popolari europei capiranno che il partito di Orbàn, oggi nei loro ranghi, non ha più a che vedere con i democratici conservatori Adenauer, de Gasperi e Kohl. Speriamo facciano presto, c´è poco tempo».

Repubblica 11.1.12
Il paradosso della freccia
Da Zenone al big bang, qual è il senso del tempo
di Piergiorgio Odifreddi


Il saggio di Carroll esplora i misteri di uno dei concetti più affascinanti della fisica: perché certi fenomeni sono reversibili e altri no?
Le leggi di Newton ci offrono un mondo dove è possibile tornare indietro: ma queste non valgono sempre
Questo testo ci permette di sondare le diverse teorie scientifiche sull’entropia

Duemilacinquecento anni fa, Zenone di Elea decretò che una freccia in volo non può muoversi, visto che in ogni istante è ferma. E ne dedusse che aveva ragione il suo maestro Parmenide, a sostenere che il tempo non esiste. E che allora non esiste neppure il cambiamento, in mancanza di un tempo nel quale le cose possano cambiare.
Oggi il ragionamento di Zenone non ci sorprende più, perché il cinema l´ha reso popolare tra gli spettatori. Tutti sappiamo che nei film in realtà non accade niente. La storia è tutta nella pellicola, "anzitempo". E il divenire cinematografico non è altro che un´illusione, riducibile a una successione di istantanee statiche e "compresenti". Gli spettatori normali non vanno oltre queste ovvie constatazioni, ma i filosofi e gli scienziati sì. E si domandano se le cose stiano così solo al cinema, o anche nella vita al di fuori della sala. In particolare, si domandano se il tempo e il cambiamento esistano per davvero o se non siano un´illusione analoga a quella cinematografica.
C´è una specifica illusione temporale che il cinema non riesce a procurarci. Ed è invertire la direzione della freccia del tempo, semplicemente facendo girare la pellicola al contrario. La cosa non funziona, perché un film visto al contrario è completamente paradossale. Nessuno, infatti, ha mai visto una frittata disfarsi nelle uova intere. Un tuffatore, uscire dall´acqua per i piedi. Un vecchio, diventare giovane. E un morto, resuscitare.
L´ovvia constatazione è che così va il mondo. Ma la scienza non si accontenta delle constatazioni: vuole, e deve, anche capire perché il mondo va così. In particolare, vuole, e deve, capire da dove arriva la freccia del tempo, e come si accorda con il resto delle cose che essa ha già capito. Cioè, con il complesso delle leggi che formano collettivamente il sapere scientifico.
Benché queste leggi facciano regolarmente intervenire il tempo nelle loro formulazioni, a partire dai concetti basilari della velocità e dell´accelerazione, il problema della freccia del tempo è lungi dall´essere stato risolto in maniera soddisfacente. Ma talmente tanti passi avanti sono stati fatti verso la sua soluzione, che anche solo per enumerarli e illustrarli è necessario un denso libro di cinquecento pagine: Dall´eternità a qui di Sean Carroll (Adelphi), di cui proviamo a riassumere le tappe principali.
In principio fu la fisica newtoniana. Essa si interessa del moto di un piccolo numero di particelle isolate, come le palle di un biliardo o i pianeti di un sistema solare. Il loro moto avviene in una certa direzione, ma non sarebbe affatto paradossale che avvenisse nell´altra. Il film dello scontro fra due palle da biliardo, o di un´orbita planetaria, si può dunque proiettare al contrario, senza provocare nessuna sensazione di straniamento. Detto altrimenti, le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, e non prevedono una freccia del tempo. Quest´ultima interessa invece fenomeni molto diversi da quelli studiati da Newton, come il calore. Benché la freccia del tempo sia stata così battezzata solo nel 1927, dall´astronomo Arthur Eddington, la sua prima formulazione fu data nel 1850 da Rudolf Clausius, nella forma della cosiddetta seconda legge della termodinamica: «Il calore si trasferisce spontaneamente dai corpi caldi a quelli freddi, ma non viceversa». Cosa sia il calore, lo si può intuire dal fatto che quando si scalda dell´acqua, le sue molecole si muovono più velocemente, fino ad arrivare a un moto turbolento nell´ebollizione. Nel 1859 James Clerk Maxwell precisò questa intuizione, definendo la temperatura di un corpo come una misura dell´energia media delle particelle che lo compongono: più le particelle si muovono, e più sale la temperatura.
In maniera analoga si possono ridurre tutte le proprietà di un gas al comportamento statistico delle particelle che lo compongono e si scopre che la termodinamica non è altro che l´estensione della fisica newtoniana allo studio di un gran numero di particelle. In particolare, nel 1872 Ludwig Boltzmann adottò questo approccio per definire l´entropia di un sistema macroscopico come una misura del suo disordine, calcolato in base al (logaritmo del) numero delle sue configurazioni microscopiche indistinguibili.
Una volta definita l´entropia, Boltzmann la usò per spiegare l´emergenza della freccia del tempo. Il suo teorema H dimostrò infatti che «un sistema isolato evolve spontaneamente da stati a bassa entropia a stati ad alta entropia, ma non viceversa». Ma nel 1876 Johann Loschmidt notò che la cosa era paradossale: se le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, da esse non dovrebbe essere possibile dedurre l´esistenza di un processo irreversibile, come la crescita di entropia.
Per risolvere il dilemma, Boltzmann propose l´ipotesi che il nostro "universo" non sia altro che una bolla a bassa entropia di un multiverso a massima entropia. L´esistenza del multiverso non ha bisogno di giustificazioni, perché il suo stato di completo disordine è a massima probabilità. L´esistenza del nostro universo si giustifica invece in base a una delle tante fluttuazioni, più o meno ordinate, che alla lunga devono prima o poi accadere. Quanto al perché noi siamo proprio in una di queste fluttuazioni a bassa probabilità, si spiega con il principio antropico: in fondo, possiamo essere soltanto nei luoghi che permettono la vita, come appunto quelli a bassa entropia.
Le idee di Boltzmann erano state sviluppate nell´ambito della termodinamica dell´Ottocento, ma sono state riformulate nell´ambito della cosmologia del Novecento. Il multiverso viene ora interpretato come il vuoto quantistico, e il nostro universo come una sua fluttuazione, in due possibili modi: o come un universo bolla, galleggiante nel vuoto, oppure come un baby universo, che se n´è distaccato. In entrambi i casi, come possibile conseguenza dell´inflazione primordiale proposta da Alan Guth nel 1979.
Perché la cosa abbia un senso, bisogna che il vuoto sia uno stato di massima entropia. A prima vista sembrerebbe il contrario, ma Roger Penrose ha notato che effettivamente l´entropia cresce, man mano che la freccia del tempo parte dal Big Bang, passa attraverso la formazione delle strutture galattiche e la loro dissoluzione in buchi neri, e va verso l´evaporazione di questi ultimi. Quanto all´entropia del vuoto, deriva dall´energia oscura responsabile dell´accelerazione dell´espansione dell´universo, scoperta nel 1998 da Saul Perlmutter, Brian Schmidt e Adam Riess, e premiata nel 2011 con il premio Nobel per la fisica.
Come si vede, oggi per parlare del tempo non bastano più frasi come quella di Agostino nelle Confessioni: «Se non mi chiedi cos´è, lo so, ma se me lo chiedi, non lo so». O aforismi come quello di Wittgenstein nel Tractatus: «Il mondo è tutto ciò che accade», e non «tutto ciò che c´è». Bisogna avere invece una solida informazione scientifica, per procurarsi la quale non ci sono vie regie, ma per iniziarsi alla quale Dall´eternità a qui costituisce un´ottima introduzione.

Repubblica 11.1.12
Un libro di Sconcerti sull’origine del primo re di Roma
La vita di Romolo tra storia e mito
Un racconto che tocca episodi noti e meno noti. E che s’intreccia allo sviluppo dell’Urbe
di Maurizio Crosetti


Passando con disinvoltura da Totti a Romolo, cioè dall´ultimo re di Roma al primo, Mario Sconcerti realizza insieme una specie di inchiesta e un´intervista con la storia, ma anche una cronaca minuto per minuto, tempi supplementari compresi. Il prodotto di tutto questo lavoro è un libro dal titolo inevitabile, Romolo (Dalai Editore, pagg. 304, euro 16,50). Intrigante il sottotitolo, e rivelatore: L´alba di Roma da riscrivere.
Siccome i giornalisti, anche più degli storici, amano le domande, la misteriosa vicenda del fondatore di Roma ne contiene molte. Chi era Romolo, anche se non è mai esistito? Chi ha avuto la necessità di inventarlo, e perché? Chi era la Lupa? Forse una generosa, materna bestia, o più probabilmente una prostituta? Perché Romolo uccide Remo? Fu proprio lui l´assassino? E chi è il padre dei due gemelli?
Come in ogni buona inchiesta, molte domande troveranno risposta: e per le altre, non trovarla è forse già una risposta. Il libro ruota attorno a un concetto: già poco dopo l´inizio della sua storia, Roma aveva bisogno di un passato. E nell´infinito derby con i Greci, servivano gli dèi per giustificare e innervare la nascita dell´Urbe. Qui comincia il lunghissimo viaggio di Sconcerti nei miti e nelle leggende che hanno portato alla nascita di Roma, alla sua spiegazione e all´evoluzione storica. Neppure su Internet ci sono più cose, al riguardo, di quelle che si trovano nel reportage sul misterioso Romolo, anzi sul mistero Romolo.
Siccome senza Remo non esisterebbe la grandezza del fratello dominante e sopravvissuto, il rapporto tra i due costituisce forse il nucleo più interessante del libro. È anche una storia di caratteri, non solo di caratteristiche. Remo è il più forte fisicamente, il più gradasso ed "eroico", però è il meno astuto, il meno politico e scaltro: alla fine pagherà il limite. Attorno ai figliastri della lupa, la storia di Roma diventa così una bella serie di intuizioni e atti di coraggio, cominciando dal diritto d´asilo concesso da Romolo a chiunque diventasse romano (e fu un esordio di banditi e delinquenti, però vivace e tutto sommato democratico, considerando l´epoca), per finire al ratto delle Sabine: operazione ignobile, se vista con gli occhi del presente, ma necessaria in quel tempo di uomini senza donne, fondatori di città bisognosi non solo di amore ma di figli, discendenza e futuro.
L´ordinata ricerca di Sconcerti sulle tracce del primo re di Roma diventa una specie di apologo sull´epilogo: come un potente invecchia, cambia, s´intorbida. Ecco che il brillante, scaltro Romolo si trasforma in un sessantenne sprezzante e tirannico, annoiato dal tempo che scorre e pieno soltanto di sé. Così passa anche la sua gloria, prima di essere "rapito in cielo" per diventare un dio col bollino blu, più probabilmente ucciso dai senatori umiliati e poi fatto a pezzi, perché non ne restasse neppure una briciola. A quel punto, però, la grande Roma aveva già trovato il suo passato, l´uomo dell´aratro e una data di fondazione: 21 aprile 753 avanti Cristo. Lo dicono anche i libri di scuola, senza però risolvere il mistero.

Repubblica 11.1.12
Torna il reportage che il critico italiano fece sull’incontro tra intellettuali europei
Il primo festival culturale con Jaspers, Benda e Contini
Filosofi e studiosi si videro nel 1946 per cercare di ricostruire l’identità continentale dopo la guerra. Ponendosi problemi molto simili a quelli di oggi
di Roberto Esposito


La prima sensazione che procura la lettura del brillantissimo reportage giornalistico, redatto da un giovane Gianfranco Contini, dell´incontro internazionale tra intellettuali europei svoltosi a Ginevra nel 1946 – adesso edito da Quodlibet con il titolo Dove va la cultura europea?, per la cura di Luca Baranelli e con un´introduzione di Daniele Giglioli – è quella di un contrasto acuto tra la marcata lontananza dell´orizzonte postbellico, e anche dei protagonisti, e la singolare attualità di alcune notazioni del «critico nelle spoglie del cronista», come egli stesso si presenta. Notazioni profonde, nei confronti di un evento certo non anodino, come poteva essere il primo dibattito europeo dopo la sconfitta non solo del nazismo, ma per certi versi dell´intera l´Europa; ma insieme caustiche, espresse in punta di penna e senza reticenze diplomatiche, da parte di un "inviato" del calibro di Contini, appena reduce dalla lotta partigiana e anche da una personale esperienza di governo nella breve stagione repubblicana dell´Ossola, come ricordato nel libro in forma di intervista Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini (Mondadori 1989).
Sembra quasi di vedere, nello scenario svizzero ricostruito con incomparabile verve narrativa dall´autore, «l´erta canizie romantica» del «simpatico ed eruditissimo» Francesco Flora «fra le tante teste pettinate (come, molto affettata, la perdurante frangia ascetica di Benda)» o il contrasto, non solo di idee, tra Karl Jaspers, «gentiluomo altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero e grigio» e «il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampi?, la zazzera centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape». Il tutto non senza notare, da parte del critico-cronista, la vistosa carenza di italiani, rappresentati dal solo Flora, dal momento che Croce, alla notizia di una probabile "calata di Sartre", aveva esclamato «E allora che ci andiamo a fare ?». D´altra parte non c´era poi da sorprendersi che i francesi, veri padroni di casa, non avessero fatto ponti d´oro a coloro che, con Hitler quasi a Parigi, li avevano aggrediti alle spalle. Il che non toglie che Contini potesse legittimamente lamentare l´assenza non solo dei Moravia, degli Alvaro o dei Bacchelli, ma anche dei "giovani filosofi" Calogero e Capitini, Antoni e Bobbio, Luporini e Del Noce – tutti, ad eccezione degli ultimi due, della sua stessa provenienza azionista.
Davanti alle macerie ancora fumanti della guerra, a un anno dalla scoperta di Auschwitz e dall´esplosione di Hiroshima, la domanda intorno a cui ruotano le giornate di Ginevra non è poi tanto diversa da quella del primo Congresso degli scrittori antifascisti tenutosi alla Mutualité di Parigi nel giugno del ´35 (su cui si veda Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, a cura di Sandra Teroni, Carocci 2002). Dal resto il motivo della décadence europea era stato intonato da tempo, prima ancora che dai vari Husserl, Heidegger, Spengler, da un ispirato Valéry, all´epilogo dell´altra guerra, quando, all´interrogativo «Che cosa è, dunque, questa Europa», poteva già rispondere che essa «è una sorta di capo del vecchio continente, una appendice occidentale dell´Asia» in La Crise de l´esprit. Note (o L´Européen). Certo, rispetto ad allora un´orda di barbari aveva passato il Reno minacciando di travolgere una civiltà bimillenaria. E già s´intravedeva, tra i vincitori americani e russi, uno scontro di egemonia, foriero, se scatenato, di una catastrofe ancora peggiore. È in questo quadro incandescente e incerto che Contini esercita la propria critica affilata, prendendo debita distanza innanzitutto dal proposito, in quell´occasione un po´ goffo, prima ancora che reazionario, di tenere a riparo la cultura europea dal vento della politica.
Da qui, da questa opzione esplicita a favore di un impegno sobrio ma fermo, discendono tutti i suoi giudizi. Da quello, impietoso, per «l´ircocervo di sciocchezze, di logica e finezza victorhughiane» di Bernanos, «clown perfetto» con la sua «oratoria catastrofica di cassandra non inascoltata» a quello, rispettoso, nei confronti del marxista Lukács, nonostante la netta distanza ideologica che li separava; a quello, aperto ma perplesso, su Jaspers, ricco di pathos esistenziale, ma privo di coerenza interiore e di necessità speculativa. Ciò cui, contro le ipotesi totalizzanti di destra come di sinistra, Contini sembra piuttosto rimandare, nell´ora della ricostruzione, è il senso del limite e dell´equilibrio tra le polarità opposte che, nella loro dialettica, hanno costituito la risorsa profonda della storia europea – l´oscillazione continua tra ragione e fede, autorità e libera ricerca, ordine e rivoluzione. La stessa Resistenza, nella memoria freschissima dell´autore, si configura come una vicenda fatta di ingredienti diversi, ma non priva, nella sua vocazione al sacrificio, di un impulso religioso.
Ma perché l´Europa possa ancora attingere a quella fonte, apparentemente inaridita – questa mi pare la conclusione che possiamo trarre dalle terse pagine di Contini – deve rinnovare radicalmente, prima ancora che il rapporto con le potenze che la circondano, quello con se stessa. Non solo vincere il demone nazionalista che per troppo tempo ha portato dentro rischiando di farsene strangolare, ma anche ripensare a fondo la fatale categoria di sovranità, allargandola progressivamente dai confini dei singoli Stati a quello dell´intera comunità europea. Nella relazione di apertura dell´incontro di Ginevra (oggi interamente leggibile in rete) Julien Benda pronuncia parole che, a sessantacinque anni di distanza, non hanno perso nulla della loro pregnanza: «oggi l´idea di nazione sembra aver terminato la sua carriera, a favore dell´idea di Europa. Ma non facciamoci illusioni; non crediamo che tale idea trionferà naturalmente; sappiamo che essa troverà, da parte di quella che intende detronizzare, una forte opposizione e una resistenza tenace. La verità è che le nazioni, per fare veramente l´Europa, dovranno abbandonare, non certo tutto, ma qualcosa della loro particolarità in favore di un´entità più generale».

l’Unità 11.1.12
Le passioni fallite di Cartesio
Il romanzo storico di Raffaele Simone mette a fuoco gli ultimi mesi della vita del filosofo francese quando si recò in Svezia chiamato dalla regina Cristina. Un’esperienza che gli amareggiò il carattere e ne affrettò la morte
di Giulio Ferroni


Il romanzo scritto da Raffaele Simone (Le passioni dell’anima, Garzanti, settembre 2011, pp.318, €. 19,60), dopo tanti importanti lavori di linguistica e tanti saggi di ampio orizzonte filosofico e politico-culturale, non si confonde con i tanti romanzi di professori giunti al culmine della carriera, che abbandonano il tradizionale abito accademico per esibirsi in narrazioni narcisistiche, artificiose, esornative. Questo libro non mira a costruire un inutile monumento di sé, una misurazione di passioni e esibizioni personali, ma si rivolge alla vicenda storica di un grande filosofo del passato, il francese René Descartes (Cartesio il suo nome latinizzato), presenza determinante della cultura del Seicento europeo, che seppe dare alla filosofia un essenziale rilievo pubblico, aprendo la strada verso un modello di una razionalità pura, verso la moderna disposizione della ragione a misurare la realtà, a illuminare in modo chiaro e distinto ogni aspetto dell’esperienza.
Si seguono qui gli ultimi mesi della vita di Descartes, dal 1 settembre 1649, con la sua partenza dall’Olanda, a lungo sua dimora, il suo viaggio verso la Svezia (dove era stato chiamato dalla giovane regina Cristina di Svezia, desiderosa di apprendere la filosofia direttamente da lui) e le difficoltà del suo soggiorno nella gelida Stoccolma, fino alla sua morte, l’11 febbraio 1650, all’età di cinquantaquattro anni. Un romanzo storico, quindi, ma ben diverso dai tanti romanzi storici che vanno oggi di moda, perlopiù esteriormente attualizzanti, paradossalmente privi di senso storico: Simone fa parlare direttamente i personaggi, attraverso tutta una serie di lettere e frammenti di diario, che in parte riprendono documenti reali, in parte sono frutto di un’invenzione che rispetta l’orizzonte storico, il colore e il respiro del Seicento, qui tanto più lontano e tanto più remoto, in quanto dislocato tra i ghiacci di una Svezia per molti tratti ancora «barbarica», tra personaggi spesso insondabili ed enigmatici, come in primo luogo quella singolare regina (che peraltro negli anni successivi si convertì al cattolicesimo e visse tra varie traversie e manovre politiche, fino a passare la parte finale della sua vita a Roma, riunendo intorno a sé una piccola corte, da cui doveva poi scaturire l’accademia dell’Arcadia).
INTRECCI DI VOCI
L’intreccio tra la voce di Descartes e quelle dei vari personaggi con cui si trova in contatto è scandito da varie citazioni dell’ultimo trattato del grande filosofo, di cui del resto il romanzo ripete il titolo, Le passioni dell’anima: trattato apparso in Olanda alla fine del 1649, proprio quando l’autore ormai si trovava in Svezia. Simone si serve delle varie definizioni lì date dalle passioni, in termini di razionale rigore, per scandire le passioni che agitano e complicano la vita che si svolge intorno a Descartes, la realtà con cui egli viene ad incontrarsi o che vede insinuarsi dentro di sé. In quella dimora dislocata quelle passioni dell’anima non sono più oggetto di uno sguardo superiore e distaccato, ma vengono a configgere con la vita stessa dell’autore, a modificarne radicalmente le condizioni e il carattere. La vita del filosofo era votata tutta al pensiero e alla scienza: era riuscita esemplarmente a sottrarsi ai turbinosi conflitti del presente, fissandosi in un modello di razionalità pura, come in una scarnificata astrazione intellettuale; o almeno così se ne propagava il modello nella cultura europea (fino a lasciare echi e suggestioni ancora nel Novecento, come rivela l’epigrafe apposta da Paul Valéry al suo Monsieur Teste: «Vita Cartesii est simplicissima»).
LA CORTE SVEDESE
L’incontro con la corte di Svezia, con un mondo ostile ed estraneo, con le pretese e la volubilità della regina (poco accogliente in effetti, e ben presto delusa per il suo incontro col filosofo, costretto a recarsi da lei nel gelo delle cinque di mattina) viene come a mettere sotto assedio quel modello di vita, la stessa filosofia cartesiana, la sua percezione del mondo e dell’esistenza: e conduce al fallimento il sogno, che forse aveva motivato l’accettazione dell’invito regale, quel sogno che nel secolo successivo avrebbe animato la grande cultura illuministica, di un attivo rapporto della cultura con il potere, di un insediamento della ragione al vertice della vita statale.
Nel pieno rispetto della verità e della distanza storica, pur tra nuovi sguardi agli universi su cui il filosofo fuori del suo ambiente consueto era costretto ad affacciarsi, il libro di Simone offre una tesa immagine del confronto dell’esperienza intellettuale con il fallimento e con la fine: di come la vita simplicissima dello studioso venga ad esporsi alla contraddizione, ad un’invadenza delle passioni che ne mettono in questione il modello e la conducono al naufragio. La pura razionalità dello scienziato giunge qui ad affacciarsi sul proprio disgregarsi e contraddirsi: dietro la figura di Descartes si affaccia quella del suo contrario secentesco, don Chisciotte. Simone lo porta infatti a conoscere il personaggio di Cervantes per l’iniziativa di un pittore spagnolo che egli incontra a Stoccolma, che amichevolmente lo invita a tener conto dell’esperienza estetica, verso cui era di solito rimasto indifferente, e di tutto ciò che sfugge al controllo della ragione: e lo conduce a scoprire la contraddizione, il doppio, l’obliquità, la resistenza insondabile del reale.
UNA PROSA RIGOROSA
La prosa rigorosa e splendente di Simone procede con formidabile misura sintattica e si carica di suggestive tensioni, come catturando dentro di sé gli echi di quella contraddittoria realtà storica, l’eterogeneità delle voci che vengono messe in campo: voci che illuminano la figura del filosofo, dell’intellettuale totale, in tutte le sue sfumature, nell’ostinata fedeltà al proprio essere, nella più umile quotidianità, nella desolazione e nel senso di sconfitta, nel gelo della fine che man mano se ne si impossessa. Questo è un libro davvero raro e prezioso, antidoto alla banalità che domina le classifiche: parlando di un tempo lontano e della fine di un grande filosofo, ci parla anche di oggi, della solitudine dell’intellettuale, del fallimento del sogno di imprimere sulla realtà il sigillo della cultura e della ragione.

l’Unità 11.1.12
Processo a Galileo: atti in mostra


Tra codici, pergamene, manoscritti, anche gli atti del processo a Galileo: per la prima volta cento originali e preziosi documenti (dall’VIII al XX secolo) lasceranno l’Archivio vaticano per una mostra ai Musei Capitolini di Roma: «Lux in arcana. L’Archivio segreto vaticano si rivela», che spiega cos’è e come funziona l’Archivio dei Papi. Dal 1 marzo al 9 settembre.

l’Unità 11.1.12
Karl Marx: l’ombrello riscoperto
di Bruno Gravagnuolo


E bravo Andrea Tarquini, che sale al quarto piano dell’ Accademia berlinese delle scienze, al numero 22/23 della Jaegerstrasse. Dove si riedita l’opera completa di Marx ed Engels . E su Repubblica annuncia sconvolgenti novità. Tipo: il barbone diceva di non essere «marxista». Ma va! Che le Tesi su Feuerbach non erano parte dell’Ideologia tedesca, e che i fogli delle une e dell’altra furono destinate da Marx alla «critica roditrice dei topi». Sul serio? E poi che Marx aveva capito la crescente dipendenza dell’economia capitalista dal credito. Noo! Che studiava le scienze, e voleva la libertà di stampa, anche perché come giornalista si occupava di America, Russia, India, etc. Incredibile.
Altra rivelazione: la storia dei manoscritti in mano alla Spd. Poi in parte passati a Mosca sotto la direzione di Riazanov, e poi ancora nascosti ai nazi in Olanda, e ritornati nella Rdt dopo la guerra, per essere a poco a poco riversati nell’edizione completa interrotta da Stalin e Breznev. Ma insomma, è tutta roba arcinota. Mica c’era bisogno di andare nella Jaegerstrasse, per ripeterci tutte queste belle cose! E poi che modo è quello di fare giornalismo culturale, pubblicando a corredo un «inedito» (?) su «mercato, accumulazione e sfere di produzione», senza indicare collocazione, anno e provenienza?
Morale: Tarquini poteva sforzarsi un po’ di più nel farsi raccontare il seguito dei 114 volumi da rieditare. Intanto però accontentiamoci del già noto, che non è conosciuto, ma è attualissimo: Marx nel Capitale scrive che la finanza distrugge e volatilizza l’accumulazione capitalista. Che a sua volta ha bisogno della finanza, vi si mescola, per poi scaricare il tutto sullo stato e ripartire, dopo aver asservito e impoverito la società. A meno che i «proletari»... Ecco, ricominciamo di qui. Lo hanno capito persino i capitalisti ormai!

Corriere della Sera 11.1.12
Giovanni Amendola
La bestia nera del fascismo
Mussolini era convinto che Giovanni Amendola fosse il suo oppositore più ostinato e pericoloso
di Paolo Macry


Ci sono periodi, nella storia d'Italia, che richiedono dalla politica e dai politici un coraggio inusuale, perfino fisico. Era capitato ai giovani nazionalisti di metà Ottocento, cresciuti tra i miti letterari della patria oppressa e il pericolo delle forche asburgiche. E capiterà alla generazione di Giovanni Amendola, che vive i furori del 1915, poi le lacerazioni della guerra e infine la sfida violenta della «rivoluzione fascista». Tempi esigenti e rischiosi. Collaboratore della prezzoliniana «Voce» e poi del «Corriere della Sera» di Albertini, antigiolittiano, interventista, ministro del governo Facta, il liberale Amendola si espone nella lotta politica senza riserve, fino a pagarne il prezzo più alto. Aggredito più volte dagli squadristi, è vittima nel luglio del 1925 di un agguato particolarmente feroce, massacrato di botte, colpito al volto e alla testa. Ne morirà alcuni mesi dopo, a 44 anni, malgrado un paio di operazioni chirurgiche.
A differenza degli eroi risorgimentali, però, ad Amendola non basterà il martirio per guadagnarsi l'attenzione del Paese. Già negli anni Trenta, il regime ha fatto il vuoto intorno alle sue vittime. «Ben pochi di noi giovani — ricorderà Ruggero Zangrandi — intesero mai, in quell'epoca, anche solo pronunciare i nomi di Gramsci, Amendola e Gobetti». Né gli sarà prodigo di riconoscimenti un dopoguerra dominato da culture politiche — la comunista e la cattolica — che sono refrattarie al suo liberalismo democratico di ascendenza mazziniana. E neppure gli presteranno adeguata attenzione gli storici: non quelli di matrice gramsciana, non uno studioso liberale come Renzo De Felice, non i suoi allievi. Amendola rimane un personaggio poco studiato, anche perché viene usualmente coinvolto nel giudizio molto severo che la storiografia ha formulato sulla sconfitta della galassia liberale a opera del fascismo.
Ed è certamente vero, come ha scritto Giovanni Sabbatucci, che quei liberali prendono «un colossale abbaglio collettivo circa le vere intenzioni di Mussolini». Ma altrettanto vero è che gli spazi per un'opposizione costruttiva sono realmente stretti. Il fascismo non si limita al terrore delle squadre, ma sta mettendo radici nell'establishment e nella società: a fine 1923, per dirne una, il Pnf sfiora gli ottocentomila iscritti. E il Paese appare stanco ed «esige pace, ordine, continuità di governo», come ben comprende Amendola. Per altro, le fratture del quadro politico sono drastiche e incrostate dal tempo, al punto che Salvemini, ancora dopo la marcia su Roma, può dire di preferire Mussolini a Turati, mentre lo stesso Gobetti, nei mesi della crisi Matteotti, sembra temere soprattutto una «resurrezione di Giolitti». Per non parlare di Gramsci, il quale non trova di meglio che accusare Amendola di «semifascismo». È in questo quadro di debolezze reali e spaccature ideologiche che matura il fallimento dei liberali.
Ma poi è necessario distinguere. Non tutti dicono le stesse cose e non tutti si accorgono della minaccia con eguale ritardo. Se l'illusione di normalizzare il fascismo è molto diffusa, esistono pur sempre le mosche bianche. E Amendola appare diverso da una vecchia classe dirigente, la quale dapprima dialoga e talvolta collabora con Mussolini, intendendo usarlo in chiave antisocialista, e poi arriva a votare la sua devastante riforma elettorale. Ed è diverso, sebbene ne avverta l'influenza, anche da quel Nitti, che nel 1922 ha escluso categoricamente la possibilità di un «governo di reazione» e che sembra sottovalutare la violenza squadrista perfino all'indomani della devastazione della sua casa romana, avvenuta l'anno dopo. «Si tratta senza dubbio di una volgarità di bande irregolari», scriverà proprio ad Amendola.
Con altra intensità, Amendola è ostile al sovversivismo fascista. Lo attacca a più riprese e, nell'imminenza della marcia su Roma, spinge Facta a preparare il decreto sullo stato d'assedio, che poi il re non vorrà firmare. Più di altri sembra in grado di cogliere i caratteri della congiuntura e più precocemente vede la minaccia di una svolta di lungo periodo. Non aspetta le leggi speciali per definire il fascismo come «sistema totalitario», avvertendo gli illusi che non sarà «un incidente temporaneo», ed è consapevole che la morte annunciata delle libertà chiede un impegno politico straordinario e personalmente costoso. «La vita consueta — dirà a Croce — deve essere interrotta per dar luogo a un periodo di milizia».
Lui, la sua milizia, la sta portando avanti con fermezza. In risposta agli abusi delle elezioni del '24, minaccia l'abbandono della Camera e, poche settimane più tardi, reagisce al delitto Matteotti promuovendo con un centinaio di deputati la stagione controversa dell'Aventino. È un atto estremo, a forte caratura morale, ma Amendola non dimentica la politica. A fine '24, nel tentativo di mobilitare il Paese, fonda un nuovo partito, l'Unione nazionale. Poi, con grande coraggio, pubblica sul «Mondo», il suo quotidiano, quel memoriale di Cesare Rossi che accusa direttamente Mussolini per l'omicidio del leader socialista. Qualche mese dopo, propone a Croce di scrivere il Manifesto degli intellettuali antifascisti, in risposta a quello gentiliano degli intellettuali fascisti. Sebbene l'agibilità politica e fisica dell'opposizione sia ridotta ai minimi termini, continua una battaglia che sta diventando temeraria. Con lui, come con Matteotti, il fascismo non ha modo di usare il bastone e la carota. «Amendola era fatto di un'altra pasta», ha scritto Salvatore Lupo.
Paradossalmente, sarà poi Mussolini, durante le conversazioni avute con il giornalista Yvon de Begnac, a riconoscergli un ruolo del tutto particolare negli anni Venti e a smentire l'accusa di attendismo che, in seguito, gli avrebbero rivolto gli storici. Amendola, dice a un certo punto Mussolini, «non rimandava, come gli operaisti, la propria rivoluzione al consumarsi della rivoluzione nostra. Voleva muoverci guerra immediatamente». E ancora: «era il più forte avversario che il Paese potesse proporre, era la vera opposizione costituzionale al fascismo, era il solo italiano capace di opporsi alla rivoluzione dell'ottobre 1922».

Corriere della Sera 11.1.12
Ma Gramsci non è un maestro di liberalismo
di Giuseppe Bedeschi


Su l'Unità del 4 gennaio Giuseppe Vacca formula osservazioni di grande interesse a proposito di una recente affermazione del presidente della Repubblica. In un'appassionata riflessione sull'Europa, pubblicata sulla rivista Reset, Napolitano ha scritto: «Per comprendere e affrontare le sfide di un'economia di mercato globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche nel nostro Paese, la lezione di Luigi Einaudi può suggerire riflessioni molto stimolanti». Perciò Napolitano ha dato un giudizio severo sui «dogmatismi e schematismi» che, a seguito dell'incipiente guerra fredda, spensero nella sinistra la capacità di «distinguere le verità del "liberismo" einaudiano e più in generale dell'approccio ideale e politico liberale, nella varietà delle sue voci».
Nel suo commento su l'Unità Giuseppe Vacca approva senz'altro le affermazioni di Napolitano, ma, direi, con alcune significative restrizioni e precisazioni. Scrive infatti Vacca (e vale la pena di riportare per esteso le sue parole): «Non mi pare dubbio che Giorgio Napolitano si riferisca principalmente all'azione di governo di Einaudi ministro dell'Economia per un anno del primo governo centrista di De Gasperi. È l'Einaudi della stretta deflativa dell'estate 1947 che costò "lacrime e sangue" ai lavoratori e nella retorica delle sinistre divenne il primo atto della "restaurazione capitalistica". La ricerca storica ha fatto giustizia di quel giudizio: la manovra economica di Einaudi spense la divorante inflazione, diede impulso agli investimenti industriali e stabilizzò la moneta consentendo all'Italia (...) di creare le premesse per cui (...) poté avere inizio quella straordinaria stagione di riforme che consentì la creazione di una moderna "economia mista", di concorrere alla nascita della Cee e di gettare le basi del successivo "miracolo economico"». Queste considerazioni di Vacca sulla politica economica einaudiana del dopoguerra mi sembrano senz'altro condivisibili, e, certo, fa piacere che la cultura postcomunista getti alle ortiche gli aspri giudizi che il Pci (e il Psi) diedero sulla «manovra Einaudi» del 1947. Fa tanto più piacere in quanto ancor oggi si leggono, in storie della «prima Repubblica» redatte da studiosi di sinistra, le stesse condanne che vennero formulate allora, nel 1947, verso l'azione di Einaudi.
Detto questo, però, a me pare che l'interpretazione che Vacca dà delle affermazioni di Napolitano in qualche misura le depotenzi e le limiti fortemente. A me sembra infatti che il presidente della Repubblica abbia voluto fare qualcosa di più che rivalutare la «manovra Einaudi» del 1947: egli ha voluto dire che «l'approccio ideale e politico liberale, nella varietà delle sue voci», è una strumentazione concettuale fondamentale per orientarsi negli enormi problemi del mondo di oggi, e per affrontarli. Cioè ha fatto una riflessione assai più ampia e di più largo respiro.
Del resto colpisce che, nel corso del suo articolo, Vacca senta il bisogno di riesumare la distinzione «fra il liberismo come politica economica e il liberismo come bandiera ideologica agitata propagandisticamente per nascondere determinati propositi e interessi». E per suffragare meglio tale distinzione Vacca cita una nota dei Quaderni del carcere di Gramsci, in cui il pensatore sardo afferma che «anche il liberismo è una "regolamentazione" di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione spontanea, automatica del fatto economico». Pertanto, conclude Gramsci, anche il liberismo «è un programma politico».
Su queste osservazioni del pensatore sardo si può, io credo, convenire senz'altro. Infatti non c'è liberismo (liberalismo economico) senza Stato liberale: teorici liberali come Einaudi o come von Hayek lo sapevano benissimo, com'è ovvio, e attribuivano un'importanza fondamentale, in primo luogo, alla legislazione antimonopolistica.
E tuttavia, detto ciò, colpisce, come ho già rilevato, che volendo rivalutare (a sinistra) Einaudi e il liberalismo, Vacca a un certo punto invochi Gramsci. Perché, certo, c'è molto da apprendere da questo eminente pensatore, ma una cosa è sicura: che in tutta la sua opera egli ha criticato nel modo più acerbo Luigi Einaudi. In un acuminato articolo del 1919 (intitolato Einaudi o dell'utopia liberale) Gramsci scriveva: «Einaudi rimarrà nella storia economica come uno degli scrittori che più hanno lavorato a edificare sulla sabbia. Serio come un bambino che s'interessa al gioco, ha tessuto un'infinita tela di Penelope che la crudele realtà gli ha continuamente disfatto. (...) La verità è che la scienza economica liberale ha solo la parvenza della serietà, e il suo rigore sperimentale non è che una superficiale illusione». Dunque Gramsci può certo insegnarci molte cose, ma non ci dà gli strumenti concettuali per intendere Einaudi e il pensiero liberale.

Corriere della Sera 11.1.12
Da Pico a Ermete Trismegisto la lunga cavalcata della magia
Aria di apocalisse e segreti nell'ultimo romanzo di Martigli
di Roberta Scorranese


Millequattrocentonovantasette: Firenze brucia. Bruciano le vanità dei ricchi, i gioielli e le stoffe pregiate, bruciano i libri e gli eretici, i malati e i ribelli. Ossuto e rauco, fra' Savonarola terrorizza le folle annunciando un inferno incombente, purificatore, mentre a Roma i Borgia proliferano nella loro garantita lussuria, protetti da forze inspiegabili. Ma, come all'epoca andava ripetendo l'inquieto Marsilio Ficino, «la natura della bellezza è nella verità». Così nella Firenze dei roghi sta arrivando un terribile (nel senso di «portentoso») segreto. Un'epifania che sconquasserà il ventre della cristianità potente e corrotta.
Definirlo il «Dan Brown di casa nostra» sarebbe fuorviante: Carlo A. Martigli (la A sta per Adolfo) difficilmente cede alle furbizie romanzesche e agli effetti speciali, cari al thriller esoterico. Per una ragione precisa: sa bene che basta la nuda storia di Pico della Mirandola e delle sue tesi, o la leggenda di Gesù tramandata in Tibet a comporre uno straordinario affresco, teso e drammatico. Ecco perché nel suo ultimo romanzo, L'eretico, non si troveranno facili incursioni nel contemporaneo, eroi inverosimili o pressappochismi da editing frettoloso. Ma si troveranno tracce di lunghi anni trascorsi a studiare la vicenda di Pico e del suo sogno di una religione unificata; si vedrà la passione di un uomo poliedrico che passa dall'arte alla scienza, dosando una difficile ambizione: essere tante cose insieme.
O tutte? Come ordiva il bellissimo Giovanni Pico, conte di Mirandola, pronto a sguainar la spada per difendere un amore o un'idea. E Martigli riparte proprio da lui, riallacciandosi al suo precedente racconto, 999 L'ultimo custode (Castelvecchi), incentrato sull'eresia delle 99 tesi perdute di Pico, rivelatrici di segreti inconfessabili e letali per il potere temporale e spirituale della Chiesa. L'eretico si apre invece con lo scenario successivo alla morte del conte, avvenuta per avvelenamento: Savonarola tiene sotto scacco Firenze e i poteri forti, la cristianità si arrocca sull'esercizio dispotico di una sovranità temporale che ha allontanato la dinastia dei Medici e si nutre della corruzione del papato. In segreto, l'eredità di Pico è nelle mani di Ferruccio de Mola, discendente di Jacques de Molay, l'ultimo dei Templari.
Fin qui, siamo nell'ordinario filone esoterico. Ma Martigli fa un passo avanti, che è insieme vigore e elemento di rischio per il romanzo: intreccia le vicende occidentali con quelle orientali e inserisce il lungo cammino di due monaci che dal Tibet stanno portando con sé il racconto di una rivoluzionaria vita di Gesù (o Issa), quella degli Ipsissima Verba, fatta di un profeta che attraversa avventure terrene, vive a contatto con bizzarri mercanti siriani, va incontro a una fine misteriosa ed equivoca. E sposta l'asse verso la politica del sultano turco, apparentemente pronto ad appoggiare una rivolta libertaria nel centro Italia. Risultato: quasi 500 pagine che miracolosamente (anzi: meravigliosamente, nel senso della «meraviglia» primitiva di Giordano Bruno) non si traducono in un insopportabile polpettone eso-misterico, ma in racconto robusto, vivo.
L'esoterismo di Martigli è da prendere alla lettera: «riservato agli iniziati». Perché chi si muove a proprio agio nel mondo di Papus (mago e medico francese) e dei Rosacroce, di Ermete Trismegisto e del Tempio di Salomone, «berrà» questo mezzo migliaio di pagine con una golosa piacevolezza. Per il pubblico essoterico, dei non iniziati, resta il fascino di una rigorosa ricostruzione storico-sociale dell'epoca (notevoli le immagini sulla crudezza delle flagellazioni), della scoperta di un Gesù completamente diverso da quello a cui siamo abituati. E anche di un mondo, quello di fine '400, inaspettatamente globalizzato, in cui Oriente e Occidente dialogano.
Si perdonerà quindi qualche sparuta cedevolezza allo spirito della fiction letteraria, come quella che ci mostra un inverosimile, quasi comico, Savonarola che si apposta dietro una colonna, pronto a trame malefiche (ma perché?).
Mezzo ligure e mezzo toscano, Martigli ha fatto il giornalista, ha studiato filosofia del diritto e abbandonato una carriera ai vertici di una famosa banca per mettersi a scrivere. Una lunga gavetta paziente fatta di libri per ragazzi, di saggi sui miracoli delle religioni non cattoliche. Una dedizione, la sua, compensata da un inatteso successo in classifica (oltre centomila copie vendute in Italia con 999 L'ultimo custode), che ha favorito il passaggio alla Longanesi, il cui battesimo avviene proprio con L'eretico. La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un autore che si muove a proprio agio nel mondo narrativo che ha scelto. Memore forse delle parole del nolano Bruno: «La materia dell'arte è una cosa formata già della natura».
Il libro di Carlo A. Martigli «L'eretico», editore Longanesi, pp. 491, 17,60

martedì 10 gennaio 2012

l’Unità 10.1.121
Intervista a Giuliano Amato
«Capitalismo in crisi. Dovranno salvarlo le sinistre europee»
L’ex premier che nel ’92 affrontò un altro passaggio drammatico: «Non solo battersi per l’equità. Bisogna anche pensare al futuro e a un nuovo patto sociale»
di Federica Fantozzi


Nel settembre del 1992 l’Italia era in una crisi drammatica. Giuliano Amato, da presidente del Consiglio, varò una manovra di entità tale 90 mila miliardi di lire da permetterci il primo avvicinamento ai parametri di Maastricht, e dunque di avviare il percorso per l’ingresso nell’euro. Scoppiarono polemiche furiose, a cominciare da quella sul prelievo forzoso sui conti correnti. Si capì però che l’Italia era salva. Lo è rimasta per vent’anni ma ora vive un altro momento critico.
Che differenze vede tra la crisi di allora e quella di oggi?
«Dal punto di vista del riaggiustamento finanziario interno, quando c’è un debito pubblico troppo alto e ci sono titoli di Stato senza compratori le esigenze di pareggio dei conti si somigliano tutte. Ma questa crisi va molto al di là dell’Italia. Presenta variabili più grandi di noi». Affrontabili in qualche modo?
«Con un linguaggio vecchio direi: dove sta andando il capitalismo? Cosa gli succede? Sembra aver perso la bussola del funzionamento, le sue dinamiche vengono messe in discussione. Le diseguaglianze gigantesche che crea lo privano della legittimazione sociale che gli è necessaria».
Da tempo si dibatte sui difetti del capitalismo, ma non si è mai trovata un’alternativa valida.
«Questa non è la prima crisi a porre simili interrogativi: successe anche negli anni ’20. E infatti io non credo che cadrà il capitalismo, ma che si impongano esigenze di profondo rinnovamento proprio come negli anni ’30. Qualcuno ha scritto che il capitalismo, vivendo di profondi squilibri, ogni qualche decennio esce di carreggiata e servono dei correttivi».
Quali correttivi vedrebbe in questo inizio di millennio?
«Secondo me dobbiamo prima chiederci se siamo pronti a misurarci con questo problema. È un fatto che uno storico come Giuseppe Berta chiede su Il Mulino alla sinistra italiana ed europea se stia cercando risposte a questo cruciale interrogativo».
Significa che la sinistra italiana e quella europea non hanno la percezione che l’Italia e l’Europa, se non il mondo, stanno andando a sbattere?
«Significa che si muove su un orizzonte più basso di quello. È attenta a tutelare gli interessi che rappresenta, agli ammortizzatori sociali, all’equità dei sacrifici chiesti. Cose essenziali, sia chiaro. Ma rimettere in carreggiata la macchina esige una riflessione di più alto livello che spero cominci. Fra l’altro i partiti socialisti e di centrosinistra sono forse attesi alla prova di governo in Francia, in Germania e in Italia».
Le sinistre si attardano su pensioni, articolo 18, cassa integrazione, mentre il mondo si capovolge?
«Non dico che difendano troppo il passato, ma che non sanno vedere il futuro. E questa impossibilità le induce a un atteggiamento difensivo. Forse tornare a Marx è troppo, ma fermarsi agli ammortizzatori sociali è troppo poco».
Qualche suggerimento?
«Disponiamo di cervelli e di una accumulazione culturale sufficienti per elevare il livello dell’analisi. Sul merito, mi limito a ricordare che il capitalismo ha ripreso a funzionare quando è riuscito a ristabilire insieme capacità di sviluppo e di coesione sociale». Insomma, i tempi sono maturi per un nuovo patto sociale? Nuove forme di distribuzione del reddito?
«Sì, serve un diverso patto sociale, che peraltro non si può più stipulare entro i confini nazionali. E questo è parte cospicua del nuovo problema che abbiamo di fronte».
Siamo alla vigilia di un nuovo Trattato europeo. È l’ultima chiamata per l’Ue? Che prospettive vede?
«È possibile che da questo tormentato lavorio esca un’Europa più forte e integrata con un Regno Unito più distanziato dall’eurozona. La difesa della stabilità dell’euro in crisi ha reso ineludibile una maggiore integrazione fiscale. È questo l’accordo intergovernativo di cui si discute. Ma l’integrazione fiscale è a sua volta insostenibile senza un’adeguata integrazione politica. È il percorso che si intravede».
Integrazione fiscale e politica con Londra solo moderatamente euroscettica. Non è troppo ottimista?
«La questione che pesa sulle nostre teste come un macigno riguarda i tempi. L’Europa storicamente si muove a passo di mesi se non anni, ma questa crisi non ce lo consente. Tutti abbiamo in testa una domanda: ce la faremo? Ebbene, il sì dipende dai tempi che ci metteremo».
L’euro ce la farà?
«La moneta unica e il suo futuro dipendono dalla nostra tempestività. Io sono abbastanza fiducioso. Siamo vicini all’accordo sulla disciplina fiscale a cui tiene tanto la Merkel. A quel punto saremo in condizione di chiedere alla Germania, che non potrà rifiutare, un impegno solidale comune per la crescita dell’eurozona». Lei è un sostenitore storico della Tobin Tax. Ma se Sarkozy la applica e Cameron no?
«Monti è consapevole delle difficoltà. Se Cameron dice no si crea un bel problema. Merkel e Sarkozy ritengono che si convincerà. Ma io non ne sono affatto convinto».
La manovra del governo Monti è alle spalle ma gli effetti stanno arrivando. Il rigore c’è. L’equità sociale?
«Ho detto ai miei amici nel governo che avrei cominciato subito toccando in modo significativo redditi e pensioni alte. Fui il primo a introdurre il contributo solidale sulle pensioni alte: ora era giusto ripristinarlo e accentuarlo. L’abbrivio della manovra aveva suscitato molte critiche, poi alzando la soglia delle pensioni non indicizzate, si è raddrizzata la rotta».
Nessun altra critica?
«C’è stata una reazione negativa per l’aumento delle accise, benzina in particolare. Monti con signorilità se lo è accollato. Ma bisogna dire la verità: è stata una richiesta delle Regioni per finanziare il trasporto locale».
Il blitz del fisco a Cortina: demagogia o choc salutare per il Paese?
«Trovo giusta l’operazione in sé. Se ci vai quando non c’è nessuno sprechi solo tempo. Ma è stato opportuno non rendere pubblici casi singoli. È giusto perseguire chi danneggia il bene comune, ma bisogna evitare la sensazione che siamo tornati all’uso della gogna, di cui c’è gran voglia in questi tempi inquieti, ma che non appartiene ai metodi democratici». Secondo lei, la cosiddetta Seconda Repubblica è giunta alla fine? E sarebbe opportuno intervenire durante la fase Monti per ridisegnare un ordine istituzionale?
«A mio avviso è essenziale cambiare la legge elettorale a prescindere dal responso della Corte Costituzionale. Mentre lavorare sul ruolo del capo dello Stato perché ampliato in una fase di crisi sarebbe sbagliato e dimostrerebbe scarsa comprensione delle dinamiche del governo parlamentare in tempo di crisi».
Insomma, non c’è un presidenzialismo strisciante?
«È una lettura sbagliata. Ne ho viste tante in questo periodo».

Corriere della Sera 10.1.12
Le malattie del capitalismo tra eccessi e disillusioni
Il nuovo malessere verso il capitalismo Sotto accusa divario dei redditi e impoverimento del ceto medio
di Massimo Gaggi


C'era una volta la contrapposizione tra capitalismo anglosassone, basato sulla forza del mercato, poco generoso verso i perdenti ma anche capace di premiare i meritevoli e di produrre ricchezza, e il «modello renano» franco-tedesco: un capitalismo «corretto» da molte tutele sociali e dall'intervento pubblico in economia. Oggi, mentre l'Europa deve rivedere Welfare, ruolo e spesa dello Stato, anche il modello anglosassone, afflitto da pesanti squilibri, finisce nel mirino.
Un dibattito sempre più intenso sul suo futuro si sviluppa — tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti — tra leader delle forze produttive e della finanza, mondo politico, organismi sociali, accademici e analisti dei grandi media.
Il malessere nei confronti del capitalismo è ormai diffuso anche negli Usa: i sondaggi indicano che anche nel Paese storicamente più liberista, a fronte di un 50 per cento di cittadini a favore del mercato, c'è un 40 per cento di delusi (soprattutto giovani e minoranze etniche). Un clima che ha spinto anche grandi testate come il Financial Times, l'Atlantic, riviste politiche come Foreign Affairs e Foreign Policy a interrogarsi sul futuro del modello economico occidentale. Si passano al microscopio gli effetti di cambiamenti ormai consolidati come la globalizzazione e riforme fiscali che, soprattutto in America, hanno favorito una «polarizzazione» dei redditi e il progressivo impoverimento del ceto medio.
E si ragiona, come ha fatto ieri John Plender aprendo una grande inchiesta del quotidiano finanziario britannico, sugli eccessi del sistema finanziario che ha portato l'intero sistema creditizio sull'orlo del «meltdown» e ha innescato meccanismi spropositati di arricchimento e distorsioni del sistema retributivo che divengono sempre più inaccettabili man mano che le società occidentali subiscono il morso del loro progressivo impoverimento.
Patologie cresciute all'ombra di un'interpretazione troppo radicale del liberismo e di una «deregulation» che ha azzerato anche i controlli necessari, oltre a quelli puramente burocratici. Queste riflessioni trovano in Inghilterra molte voci favorevoli a una «rifondazione» del capitalismo, mentre negli Stati Uniti, con accenti diversi tra progressisti e conservatori, la tendenza è a proporre correttivi che non mettano, comunque, in discussione l'impianto generale.
Sempre sul Financial Times Larry Summers, docente di Harvard ex ministro del Tesoro di Bill Clinton e consigliere economico di Obama parla di un sistema da riformare ma senza rimetterne in discussione i cardini. Mentre i liberali britannici dell'Economist usano addirittura il termine «fatwa» per descrivere l'intransigenza degli slogan coi quali i candidati repubblicani alla Casa Bianca ripropongono un modello economico ultraliberista, basato sulla «deregulation» reaganiana.
Problemi del capitalismo e dell'impatto politico del cambiamento della distribuzione della ricchezza non certo nuovi (l'autore di questo articolo scrive da almeno sei anni di fine del ceto medio come conseguenza anche della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica) ma che sono diventati oggetto di discussioni «incendiarie» all'indomani del crollo della Lehman Brothers, nell'autunno del 2008. E che, dopo una pausa, sono riemerse nelle ultime settimane quando la tempesta ha travolto i Paesi dell'euro. Una vera crisi di sistema, se non proprio una crisi terminale, che ha portato molti a sottolineare i rischi per tutti i Paesi dell'Occidente di un drammatico divorzio tra capitalismo e democrazia, se non si riformano i meccanismi del mercato dando luogo a una sorta di «nuovo inizio» con meno eccessi della finanza, meno avidità e una distribuzione meno squilibrata dei redditi.
Sono discussioni difficili da sviluppare, negli Usa, in un periodo di confronto elettorale esasperato, in cui ognuno si trincera dietro le sue bandiere, con le accuse di usare un linguaggio classista venato di marxismo che non vengono rivolte solo dai repubblicani ad Obama, ma che rimbalzano anche all'interno del mondo politico conservatore: alla vigilia del voto in New Hampshire, ad esempio, per cercare di arrestare la corsa di Mitt Romney, Rick Santorum non ha trovato di meglio che accusare l'ex governatore del Massachusetts di criptosocialismo per aver usato l'espressione «classe media», a suo avviso imbevuta di cultura marxista.
Ma dopo le elezioni verrà il momento di riflettere seriamente sulla sostenibilità di molti meccanismi e il loro adeguamento a una realtà che è cambiata. Intanto nei «think tank» l'elaborazione è già iniziata, alimentata anche da analisi molto approfondite come l'indagine sulle radici ideologiche del sistema economico-sociale nel quale viviamo condotta dalla rivista americana Foreign Affairs.
Niente di nuovo, sostiene il Financial Times, ricordando come anche nell'Ottocento, dopo gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale, vennero le denunce degli squilibri e delle sofferenze sociali di scrittori come Charles Dickens, il marxismo e le riforme che corressero le durezze del capitalismo selvaggio. Oggi, forse, è tutto più complesso perché alle distorsioni del sistema economico si aggiungono due fenomeni nuovi e inediti come la globalizzazione e la diffusione delle tecnologie digitali che — a differenza di quelle meccaniche ed elettriche dei secoli scorsi — anziché produrre più posti di lavoro, favoriscono un calo degli occupati.

l’Unità 10.1.121
Contratto prevalente
e tutele ai neoassunti Definita la proposta Pd
Definita la proposta del Pd sulla riforma del mercato del lavoro: contratto prevalente d’ingresso e nessuna modifica dell’articolo 18. Bersani: «Malinconico dia spiegazioni sulla vicenda delle vacanze pagate da altri».
di Simone Collini


Un contratto prevalente che preveda un periodo formativo di massimo tre anni al termine del quale siano garantite tutte le tutele, articolo 18 compreso, indennizzo monetario per chi venisse licenziato nella fase d’ingresso, riduzione degli oneri contributivi per le aziende che stabilizzano. Anche le ultime limature sono state fatte e dopodomani Stefano Fassina illustrerà ai membri del forum Lavoro riuniti nella sala Berlinguer di Montecitorio la proposta con cui il Pd andrà al confronto col governo. Pier Luigi Bersani ha chiesto ai dirigenti del partito di evitare di entrare nel dibattito, ora che la partita sul mercato del lavoro è tutta giocata tra esecutivo e parti sociali. Ma al tempo stesso ha dato mandato al dipartimento Lavoro, guidato da Fassina, di mettere a punto un testo che tenga conto di quanto deciso all’Assemblea nazionale del maggio 2010 e alla Conferenza nazionale sul lavoro dell’estate scorsa.
L’ARTICOLO 18 NON SI TOCCA
Il responsabile Economia del Pd ha lavorato sul materiale approvato in quei due appuntamenti e sui contenuti delle proposte di legge presentate al Senato da Paolo Nerozzi (ispirata dalle teorie degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi e fortemente sostenuta da Franco Marini) e alla Camera da Cesare Damiano e da Marianna Madia. Nella bozza finale che verrà illustrata dopodomani ai parlamentari Pd membri delle commissioni Lavoro di Camera e Senato (ma sono stati invitati alla discussione anche il professore di economia alla Cattolica di Milano Carlo Dell’Aringa e altri docenti universitari) non vengono invece riprese le proposte di Pietro Ichino, primo firmatario di un progetto di legge che prevede un superamento dell’articolo 18 (quelli economici, tecnici e organizzativi vengono fatti rientrare tra i motivi per giusta causa per i licenziamenti individuali).
Il giuslavorista resta convinto che il modello della “flexsecurity” sia preferibile a quello centrato sul contratto prevalente d’ingresso, e la discussione non mancherà. Nel Pd si sta però lavorando per arrivare a un confronto senza aspre tensioni, e il fatto che Ichino abbia giudicato un «ottimo compromesso» la proposta di legge Nerozzi-Marini se la sua si rivelasse «non politicamente praticabile», fa ben sperare Bersani, che vuole chiudere l’Assemblea nazionale di Roma del 20 e 21 con un voto unitario sulla posizione del Pd sulla riforma del mercato del lavoro.
CAMBIAMENTO E COESIONE, INSIEME
Bersani, che ha fissato per i prossimi giorni un incontro col presidente del Consiglio Monti, valuta intanto positivamente che nel fronte sindacale tutti condividano la necessità di un confronto unitario. Per il leader del Pd «cambiamento e coesione devono andare insieme», cioè l’Italia può uscire dalla crisi solo se saranno approvate le riforme necessarie a garantire la crescita senza provocare lacerazioni nel tessuto sociale. Contratti tra il partito e le organizzazioni sindacali sono continui, in questi giorni. Così come tra partito e governo e anche con le altre forze che sostengono l’esecutivo in Parlamento, alle quali Bersani propone una piattaforma comune italiana da sostenere in Europa.
La riforma del mercato del lavoro è troppo delicata per non essere il più possibile condivisa. Così come altre riforme necessarie all’Italia per superare questo brutto momento. Bersani dice nel corso della puntata di “8 e mezzo” che quello Monti non lo giudica un governo tecnico, e che anzi un esecutivo come quello attuale «è preferibile a uno fatto col manuale Cencelli». Il leader del Pd sottolinea però durante la trasmissione televisiva anche se è vero che non tutta la politica è «sporca» è anche vero che ora bisogna «ripristinare un rapporto decente tra cittadini e istituzioni».
Bersani, intervistato da Lilli Gruber, lancia anche altri messaggi all’indirizzo del governo: in generale ad accelerare sulle liberlalizzazioni, a Monti ad avere «coraggio» e al sottosegretario Carlo Malinconico a dare spiegazioni sulla vicenda delle vacanze che gli sarebbero state pagate da imprenditori della “cricca” dei grandi appalti del G8: «Non so se il fatto sia vero o no ma l’idea della trasparenza è una esigenza dichiarata e conclamata. Dovrebbe dare spiegazioni»

l’Unità 10.1.121
La famiglia secondo Monti
Il Pd non deve tacere sui diritti civili
di Aurelio Mancuso


T ra le tante crisi che stiamo vivendo, sicuramente, ce n’è una che dalla classe dirigente italiana non è considerata degna di attenzione, e che invece contribuisce all’attuale fase di enorme difficoltà. Si tratta della scomparsa dal dibattito pubblico dei diritti civili e delle libertà individuali. In Italia le sinistre politiche, intellettuali e sociali non ritengono questo tema decisivo per il cambiamento, anzi come sappiamo, si giudica fastidioso, fonte di divisione da rimandare a tempi migliori (che non arrivano mai).
Nel Pd, è stata istituita molti mesi fa una commissione ad hoc presieduta da Rosy Bindi e nulla trapela sulla discussione in atto e i tempi per l’elaborazione di una proposta. Per fortuna almeno su una questione, i diritti delle persone migranti, il Pd ha preso posizione con chiarezza, impegnandosi fuori e dentro il Parlamento affinché sul voto e la cittadinanza, si facciano passi in avanti. Assai positiva anche la recente battaglia sull’abolizione della tassa per il rinnovo dei permessi di soggiorno, che è un balzello apertamente razzista e che colpisce chi è in difficoltà. Le sinistre, che siano riformiste o antagoniste, però non riescono a poco più di un anno dalla data fissata per le elezioni politiche, a occuparsi del fatto che fuoriuscire dalle crisi, significa occuparsi della modernizzazione della legislazione che riguarda l’organizzazione sociale, le relazioni familiari, la salvaguardia dei diritti dei minori, dei giovani e delle donne.
Stupisce che Monti, che di Europa dovrebbe intendersi, abbia per ora fornito risposte di retroguardia, conservative di visioni ideologiche che non hanno alcuna rispondenza nella realtà. Aver per esempio introdotto una sorta di quoziente familiare nella nuova Imu, è un fatto grave, tanto più che i gruppi parlamentari del Pd, avrebbero dovuto riflettere sul fatto che fare sconti alle famiglie sulla base del numero di figli senza agganciarli al reddito, si prefigura come una vera e propria ingiustizia. Vedremo quali proposte avanzerà il neo ministro alla famiglia (purtroppo declinata al singolare), certo è che avergli attribuito questa delega e quella sulle attività antidiscriminatorie togliendole alle Pari Opportunità e al Welfare, è un messaggio preciso: diritti civili e diritti sociali devono rimanere separati, perché non si devono intrecciare in un progetto complessivo di riforma. Perché il Pd, ma nemmeno le altre sinistre dentro e fuori il Parlamento, hanno taciuto? Illudersi che la questione dei diritti umani e civili potrà essere in quest’anno elusa, per poi poterla trattare con insufficienza nei programmi elettorali, significa perdere sempre più contatto con la società italiana.

l’Unità 10.1.121
Un governo dignitoso? Rispetto al precedente,,,
di Enzo Costa


Vi riporto qui di seguito, testualmente, una conversazione che ascolto da qualche settimana, sempre uguale, avente per oggetto la politica italiana, i suoi protagonisti passati e presenti, il loro incidere nella nostra vita quotidiana, nel nostro futuro, nella nostra percezione delle cose. È un colloquio anche acceso, ma sempre civile e soprattutto illuminante, che avviene fra me e me: come dialogo è lievemente asimmetrico, quanto a parole pronunciate, ma al di là della differente capacità di sintesi entrambi gli interlocutori, a mio avviso, posseggono una certa eloquenza. Dice una parte minoritaria di me: «Ma è possibile? Ma è possibile che tu ti accontenti del governo Monti anche solo da un punto di vista estetico-stilistico? Ma è possibile che tu prenda già come manna dal Cielo il fatto che adesso, dopo tanta vergogna, non ci vergogniamo più, avendo un Premier affidabile e presentabile, che parla un ottimo italiano ed un buon inglese, che essendo dotato di un raffinato senso dell’umorismo non racconta barzellette terrificanti, che non considera la politica come la prosecuzione del bunga bunga con altri mezzi e qualche vestito, che viene accolto in Europa con stima e considerazione, e non con risatine di scherno? Ma è possibile che tu trovi motivi di conforto anche soltanto dal fatto di avere ministri seri, competenti e preparati, al posto di macchiette da talk-show, esecutori di pernacchie e santanché, a prescindere da quello che questi nuovi ministri hanno fatto, stanno facendo e si accingono a fare? Ma è possibile che ti sia sufficiente la certezza di essere uscito dal tunnel dei neutrini per scorgere davanti a te una luce calda, forte e rassicurante, quando in realtà stiamo attraversando tutti quanti il buio di una crisi sempre più nera? Ma è possibile che ti basti questo per reggere provvedimenti economici pesanti, non sempre equi, che uno di sinistra come te avrebbe di sicuro voluto meno onerosi per i ceti più deboli, un po’ più duri nei confronti di quelli più agiati, e molto, molto, molto più duri verso furbi, furbetti ed evasori? Ma è possibile che tu arrivi al punto di digerire misure indigeribili, di sopportare tagli insopportabili, di accettare rinvii inaccettabili, di tollerare prudenze intollerabili, soltanto perché tutto ciò proviene da un governo finalmente composto da persone antropologicamente, prima ancora che politicamente, dignitose?». La parte maggioritaria di me, che è più laconica, incalzata da questa travolgente filippica in forma di impietose domande, valuta con attenzione gli argomenti ascoltati, ci pensa su, ci ripensa ancora un po’, e poi, infine, risponde: «Sì, è possibile».

Repubblica 10.1.12
I partiti alla ricerca della fiducia perduta
di Guido Crainz


Doveva cacciarlo senza aspettare che montasse la vergogna e sarebbe stata alta politica se Mario Monti l´avesse licenziato in diretta tv.
Anacronistici da tempo, e resi sempre più intollerabili dalla crisi che l´Italia attraversa e dai costi altissimi che è costretta a pagare (costretta, in primo luogo, dalla irresponsabilità del ceto politico che ha governato). Resi intollerabili, anche, dall´improntitudine con cui alcuni parlamentari hanno persino negato la realtà, presentandosi come i meno pagati d´Europa: spesso sono gli stessi pronti a scendere in campo in difesa dei "poveri ricchi" e a bollare un normale e doveroso controllo come ingiusta vessazione e nefanda lotta di classe.
Mi colpì dolorosamente molti anni fa un rapporto del prefetto di Belluno conservato negli archivi dello Stato e scritto subito dopo il Capodanno del 1964. Segnalava il "vasto malumore, specie nel Cadore" per i blocchi stradali "effettuati dai superstiti del Vajont": avevano disturbato coloro che si recavano a festeggiare il nuovo anno a Cortina. Che persone indelicate, quegli abitanti di Erto, Casso e Longarone: chissà cosa ne avrebbero detto Daniela Santanchè e Fabrizio Cicchitto.
Colpisce l´arroganza esibita nel difendere privilegi e immunità che nacquero per opposte ragioni. Nell´Italia liberale l´elezione al Parlamento tutelò i dirigenti dei Fasci siciliani ingiustamente incarcerati o i socialisti e i democratici colpiti dalla repressione del 1898: quella, per capirci, iniziata con le cannonate del generale Bava Beccaris. Che c´entrano, di grazia, i Cosentino e i Papa con Nicola Barbato e Filippo Turati?
Colpisce ancor di più la pervicacia con cui un "sistema dei partiti senza partiti" sta impedendo una riduzione dei propri costi immediata e radicale come i sacrifici imposti ai cittadini. Sono cecità che abbiamo già visto in passato, assieme alle loro devastanti conseguenze.
È esemplare la storia del finanziamento pubblico, varato nel 1974 per moralizzare la politica – si disse – dopo che le "tangenti petrolifere" avevano mostrato una corruzione diffusa e metodica, con percentuali fisse. Fu zittito chi chiedeva controlli rigorosi, e già quattro anni dopo un referendum portò alla luce le inaspettate dimensioni del disagio e la montante protesta dei cittadini. Quella legge fu poi generosamente rifinanziata ma l´inesistenza di controlli reali fu confermata e alimentò anch´essa il crescere della corruzione. E il discredito della politica, nella totale cecità dei partiti: ancora nel 1991 Craxi pensava che quel discredito fosse largamente sopravvalutato (lo ha testimoniato Luigi Covatta in un bel libro, Menscevichi). Quel ceto politico ostentò una immobilità statuaria, come fu detto, di fronte alle voragini che si stavano aprendo: e fu poi travolto dal crollo. Dilagò così un´antipolitica che aveva in realtà al suo interno tutti i peggiori guasti della "prima Repubblica".
La stessa immobilità statuaria si ripropone oggi, e di nuovo i partiti sembrano del tutto inconsapevoli delle conseguenze disastrose del suo prolungarsi: a prescindere anche dagli ulteriori scampoli di indecenza offerti dal Pdl e dalle sue sparse propaggini.
Anche oggi, infine, tutto ciò avviene nella sostanziale assenza di alternative. Allora il Pci-Pds pagò a carissimo prezzo non solo il proprio coinvolgimento, sia pur parziale, nella corruzione ma anche la sua incapacità di proporre modalità diverse della politica: lasciò così campo libero all´esito peggiore di quella crisi.
Questo stesso nodo si ripropone oggi ed è decisivo per tutti che la spirale si inverta, che si inneschi davvero un processo di ricostruzione. Fa malissimo il Partito democratico a sottovalutare il logoramento crescente della sua stessa credibilità: cioè la credibilità dell´unica forza che può realizzare il cambiamento. E ha fatto un gravissimo errore a perdere sin qui tutte le occasioni possibili. A non dare segnali forti. A non avanzare proposte radicali su questo terreno. È un banco di prova urgentissimo, forse l´ultima possibilità di riaprire il dialogo con i cittadini: solo il 4% di essi, secondo l´indagine Demos-la Repubblica pubblicata ieri, ha ancora fiducia nei partiti. E quasi un italiano su due pensa che la democrazia possa funzionare senza di essi. Anche al di là di questa indagine, del resto, sono sempre più numerosi gli elettori del Partito democratico che vincolano il proprio voto futuro a scelte nette, e nettamente alternative all´esistente. Scelte che contribuiscano a far cessare, anche, l´occupazione partitica dello Stato e degli enti pubblici, e da questo punto di vista la Rai è uno snodo essenziale: non a caso il Pdl è insorto in forze appena Monti ha espresso la sacrosanta e benemerita intenzione di affrontare anche questa materia.
Qualche mese fa Mario Pirani propose al centrosinistra di presentare progetti chiari contro i costi della politica e di rafforzarli con scelte unilaterali, concrete e simboliche al tempo stesso: ivi compresa la riduzione dei compensi dei propri parlamentari, consiglieri regionali e così via, impegnando il denaro rimanente in forme di solidarietà sociale (Gli stipendi da dimezzare, "la Repubblica", 20 luglio 2011).
Tutte le ragioni sottese a quella proposta sono state drammaticamente confermate in questi mesi: in primo luogo l´estrema gravità della situazione economica e la pericolosità delle derive che essa può alimentare. Il bisogno assoluto, quindi, di una proposta politica credibile, limpida nelle sue modalità e nei soggetti che la propongono.

La Stampa 10.1.12
I “senza speranza” in Europa sono 8 milioni: uno su tre è italiano
L’impietoso quadro del rapporto Eurostat vede l’Italia all’ultimo posto nella Ue
di Rosaria Talarico


La differenza col nostro paese è data anche dai sussidi a chi si iscrive nelle liste di disoccupati
11,3%" Solo in Italia La percentuale degli italiani che hanno rinunciato a trovarlo
2,7 Milioni di rassegnati Il totale delle persone che in Italia hanno perso la speranza di lavorare
"1,3% Così in Germania Nel paese più virtuoso solo l’1,3 per cento ha smesso di cercare lavoro
3,5% La media nella Ue a 27 La percentuale rispetto al totale della forza lavoro in Europa"
1,1% Gli arresi in Francia Buon risultato anche per la Francia dove solo l’1,1% non lo cerca più
8,3% La percentuale della Bulgaria Coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro,meno che in Italia
In Germania è molto alto il part-time che da noi si traduce spesso in lavoro sommerso

L’esercito degli sfiduciati italiani è il più numeroso d'Europa. Nel nostro Paese il numero di «scoraggiati» (come l'Istat definisce coloro i quali non hanno un lavoro né lo cercano più) è pari alla metà europea. A dirlo è un nuovo rapporto Eurostat. Nell' Europa a 27 ammontano a 8 milioni 250 mila coloro che non cercano un impiego, ma sono disponibili a lavorare (3,5% della forza lavoro). E l'Italia è il Paese con il più alto numero: ne conta ben 2,7 milioni (l'11,1% della forza lavoro). Vuol dire che è italiana quasi una persona su tre senza più speranza di trovare impiego. Se poi si restringe lo sguardo ai soli paesi dell'area euro, il numero di chi è disponibile a lavorare ma non cerca più è di 5,5 milioni e uno su due è italiano.
Tra i Paesi con le percentuali più alte di «senza speranza» ci sono Bulgaria (8,3%) e Lettonia (8,0%). Mentre Stati come Belgio (0,7%), Francia (1,1%) e Germania (1,3%) vantano le quote minime, che evidenziano come, nonostante la crisi, in questi Paesi il mercato del lavoro è ancora in grado di dare speranza a chi è senza occupazione. Prova a dare una spiegazione tecnica l'economista Irene Tinagli: «In molti paesi europei esistono sussidi alla disoccupazione che prevedono che si abbia un ruolo attivo nella ricerca del lavoro e obbligano ad essere iscritti nelle liste. Quindi è fisiologico che le quote siano più basse. In Italia non è così ed anche per questo abbiamo più sfiduciati e meno disoccupati, a differenza della Spagna ad esempio».
Bruno Manghi, sociologo ed ex sindacalista della Cisl, invita invece a considerare come questo sia un effetto della crisi che «morde dove c'è operosità. È scontato che la quota di scoraggiati sia a Catanzaro, meno che sia a Varese o Novara. L'aggressività della crisi si vede proprio dal fatto che tocca i posti dove un tempo le imprese si contendevano i lavoratori». Manghi invita anche a usare cautela verso «queste fotografie statistiche che sono valide in un dato momento. Quel che non sappiamo è la cronicizzazione. Se chi è scoraggiato resta in questa situazione più di un anno siamo di fronte a un problema sociale molto grave, se invece c'è una rotazione è diverso. Quel che conta nella disoccupazione è la lunga durata». Per Manghi, però, «la condizione materiale tra noi e l'Europa non è così dissimile. In paesi virtuosi come la Germania c'è un numero straordinario di part-time a basso reddito (400 euro al mese) che fa emergere una quota che da noi va invece verso il sommerso. È quella la differenza sostanziale, l'arrangiarsi non regolare». Sulla stessa linea l'economista Stefano Zamagni: «L'economia sommersa in Italia vale 270 miliardi l'anno, una cifra enorme. Oltre questo problema, bisogna pensare a cambiare il modello di organizzazione delle imprese. Il taylorismo è finito. Oggi non basta più un capo che pensa, ma devono farlo tutti. E ciò è possibile solo se i lavoratori sono trattati come persone e non come merci. Bisogna recuperare la lezione dell'economista inglese Alfred Marshall: «L'impresa deve essere un luogo di formazione del carattere umano».
Per quanto riguarda gli scoraggiati la spiegazione di Zamagni è da economista puro: «Cercare lavoro comporta delle spese, il cosiddetto costo di transazione, che razionalmente si decide di non sostenere più nel momento in cui la probabilità di avere un lavoro è molto bassa».

La Stampa 10.1.12
Il “riscatto” dei partiti passa per la legge elettorale
di Marcello Sorgi


La ripresa politica dopo la parentesi delle festività trova i partiti, e non solo quelli della larga maggioranza che sostiene il governo, in difficoltà. Nessuno lo ammetterà mai esplicitamente, ma è evidente che si sta allargando la distanza tra il presidente del consiglio proiettato a negoziare in Europa con Francia, Germania e Inghilterra le strategie anticrisi, e le forze politiche italiane, da destra a sinistra, impegnate a misurarsi sui contenuti della fase due del governo, dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, per cercare di contenerne gli effetti sul proprio elettorato.
Nei corridoi di Montecitorio si parla apertamente di una sorta di «resa» della politica al «ciclone» Monti, e dopo le prime, deboli reazioni di domenica sera, l'intervista del premier a Fabio Fazio su Rai 3 è stata letta come l'annuncio di una nuova serie di iniziative del governo sulle quali ai partiti resterà ben poco da dire. E che il Parlamento non potrà che approvare sollecitamente, sotto la spinta, sia dei mercati, sia di tutti gli indicatori di crisi che continuano ad essere allarmanti rispetto all'Italia.
Nell'immediato i due banchi di prova su cui la politica potrebbe cercare riscatto sono la legge elettorale e la riforma del mercato del lavoro. Sulla prima si comincia a vedere qualcosa di più di segnali di fumo tra centrodestra e centrosinistra, e la decisione della Corte costituzionale sui referendum, attesa per domani, non potrà che funzionare da acceleratore di un confronto fin qui pigro, specie se la sentenza che uscirà dal Palazzo della Consulta sarà a favore dell'ammissibilità delle consultazioni. Accanto alle due ipotesi prevalenti di sistemi più proporzionali, copiati da quello tedesco o da quello spagnolo, comincia a circolare un'ipotesi, ufficiosa, a maturata tra i promotori dei referendum, di una specie di Mattarellum diluito, metà maggioritario con collegi uninominali e metà (non più un quarto, com'era fino al 2001) proporzionale: un tentativo di aggirare le resistenze del Terzo polo, che vedono nel ritorno alla vecchia legge, che potrebbe uscire dalle urne referendarie, un modo di riobbligarlo a dichiarare le proprie alleanze prima del voto.
Quanto al lavoro, il Pd sembra vicino all'uscita dal lungo travaglio che lo ha tormentato in queste settimane e al parto di una proposta unitaria sulla flessibilità che dovrebbe essere sottoposta al governo. Una svolta destinata ad influire anche sul confronto tra la ministra del lavoro Fornero e i sindacati, che fin qui ha segnato il passo.

La Stampa 10.1.12
Monti osservato speciale sabato in visita dal Papa
Poi vedrà Bertone e Bagnasco: sul piatto questioni ardue come l’Imu alla Chiesa
di Ugo Magri


Se vorrà una benedizione speciale del Santo Padre (e solo lui sa quanto ne avrebbe bisogno), Mario Monti dovrà meritarsela. Ne ha l’occasione: il presidente del Consiglio sabato sarà ricevuto Oltretevere. In sé, nulla di clamoroso. Fa parte della consuetudine che ogni nuovo capo del governo domandi di vedere il Papa (Monti aveva inoltrato di persona la richiesta profittando del saluto a Ratzinger in partenza per il Benin). Ed è nella prassi che l’appuntamento venga concesso con garbata sollecitudine. Monti è lì da due mesi, quindi siamo nei tempi. Il Papa e il presidente del Consiglio si vedranno a quattr’occhi. Seguirà un saluto ai familiari nonché ai principali collaboratori del premier. Gli unici due «strappi» alla consuetudine vennero fatti per D’Alema, quando il primo presidente del Consiglio ex-Pci venne ricevuto solennemente da Wojtyla (che nella caduta del Muro aveva avuto un ruolo), e poi per Berlusconi. Al suo colloquio privato venne ammesso eccezionalmente Letta in quanto Gentiluomo di Sua Santità, sebbene siano in molti a sospettare che partecipò perché Benedetto XVI gradiva un testimone.
La conversazione con Monti si snoderà lungo i binari che di qui a sabato verranno fissati d’intesa col segretario di Stato vaticano, cardinal Bertone, e con il presidente della Cei, Bagnasco. Mentre con il Numero Uno il discorso volerà alto, su temi generalissimi e forse un filino accademici trattandosi in fondo di due professori, con Bertone e con Bagnasco il premier si confronterà su questioni concrete. Non solo l’applicazione dell’Imu ai beni ecclesiastici, dove si registrano passi avanti però tanta strada resta da fare; ma anche il sostegno alle scuole paritarie in tempi di crisi; i pagamenti agli ospedali e alle cliniche religiose che le Regioni pospongono all’infinito; gli aiuti alle famiglie, da garantire meglio attraverso la prospettata riforma degli ammortizzatori sociali. E poi i giovani, le opere di carità, i nodi della bioetica su cui il Parlamento non ha ancora cavato un ragno dal buco...
C’è tutto un mondo politico che attende i tre colloqui con un mix di speranza e di apprensione. Si tratta della variegata platea post-Dc, la quale punta sul governo Monti come ultimo salvagente dell’Italia, e giacché c’è pure come terreno d’incontro tra le varie anime cattoliche in vista di nuovi equilibri: quelli discussi al convegno di Todi appena tre mesi fa. Un buon esito della visita sarebbe di grande incoraggiamento. Il presidente del Consiglio per certi versi l’ha propiziato con due gesti di devozione: la Messa a Sant’Ivo della Sapienza alla vigilia dell’incarico, e l’omaggio alla tomba di Wojtyla con Donna Elsa la mattina di Capodanno. Ma il mondo vaticano è solcato da diffidenze millenarie. Per esempio, nei Sacri Palazzi avrebbero gradito interlocutori più fidati nei ministeri di indirizzo e di spesa, dove ai tempi del Cavaliere bastava una telefonata per risolvere situazioni rognose. Proprio ieri Benedetto XVI ha rievocato, con accenti alla Jemolo, gli alti e bassi delle relazioni StatoChiesa, auspicando che «l’Italia continui a promuovere un rapporto equilibrato, costituendo così un esempio». Parole cortesi ma circospette perché, appunto, la «raccomandazione» lassù molto in alto Monti se la dovrà guadagnare.

Corriere della Sera 10.1.12
Pablo Neruda, d'amore e di politica
La dittatura di Pinochet vedeva in lui un nemico Le sue parole sono più forti di qualsiasi ambiguità
di Antonio Moscato


Pablo Neruda non è mai stato dimenticato, anche negli anni più duri della dittatura di Pinochet. Al suo funerale, mentre ancora carceri e stadi traboccavano di detenuti, sfilarono tremila coraggiosi. A distanza di quasi quarant'anni il Partito comunista cileno ha chiesto la riesumazione del suo corpo per accertare con l'autopsia se a ucciderlo fu il cancro alla prostata con cui conviveva da qualche tempo o un'iniezione di veleno. Una richiesta che comunque non può aggiungere molto a quello che si sa: il Messico aveva inviato un aereo per portare in salvo il poeta, e proprio il giorno prima della partenza era avvenuto l'improvviso e imprevisto aggravamento che lo aveva stroncato in poche ore.
La giunta militare guidata da Pinochet (che oggi in Cile secondo il ministro dell'Educazione di Piñera non si dovrebbe più chiamare «dittatura») continuava a braccare i militanti della sinistra anche all'estero, uccidendoli a volte senza processo, e ha continuato a farlo per anni. Per Augusto Pinochet, Pablo Neruda era certamente un problema non facile. Il poeta era ammirato all'estero (nel 1971 aveva ottenuto il Premio Nobel per la letteratura), ma era soprattutto popolarissimo in patria, per i suoi versi e anche per i resoconti degli avventurosi viaggi giovanili, da Rangoon a Singapore a Batavia (Giacarta). In Estremo Oriente aveva cominciato prestissimo la sua carriera diplomatica, che si era poi spostata in Europa. Con brevi interruzioni dovute a governi ultraconservatori, era durata fino a poco prima della morte.
Pablo Neruda (che in realtà si chiamava Neftalí Ricardo Reyes Basoalto, e aveva scelto quello pseudonimo per le sue pubblicazioni già nel 1920, quando aveva solo sedici anni), aveva partecipato attivamente a molte campagne elettorali, ed era stato più volte eletto senatore. Nel 1938, dopo la vittoria del primo governo di Fronte popolare guidato da don Pedro Aguirre, era stato nominato console a Parigi con l'incarico di mettere in salvo il maggior numero di repubblicani spagnoli. Nel 1948 era stato destituito da senatore dal regime conservatore di Gabriel González Videla che aveva messo fuori legge il Partito comunista: Neruda era stato braccato per un anno e, prima che riuscisse la sua fuga in Argentina, in tutto il mondo era stato creduto morto. D'altra parte in molti Paesi, compresa l'Italia, aveva subito spesso molestie e vessazioni poliziesche. Nel 1970, quando fu eletto presidente Salvador Allende, era stato nominato ambasciatore nella sua amata Francia, e aveva così mantenuto intatta la sua popolarità, evitando di prendere posizione nella turbolenta vita interna della coalizione di Unidad Popular.
Logico quindi che già il giorno della sua morte si fossero diffusi sospetti su una possibile causa dolosa, accresciuti dalla barbara distruzione della sua casa e dal saccheggio dei cimeli raccolti in una vita di viaggi. L'autopsia, richiesta recentemente sull'onda di quella ottenuta per Salvador Allende (che ha confermato che si uccise per non cadere nelle mani dei militari), non è ancora conclusa, ma cambierà poco: non c'è dubbio che in Neruda la giunta militare vedesse non il poeta, ma un uomo che poteva diventare dal Messico un punto di riferimento credibile per la resistenza. In ogni caso era un simbolo di tutto quello che il golpe voleva distruggere.
La popolarità di Pablo Neruda era indiscussa, ma la sua figura non era priva di contraddizioni. Le convinzioni politiche di Neruda hanno risentito fortemente del clima in cui si erano formate. Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, (edizione italiana SugarCo, 1979), dice che «anche se la tessera l'ho ricevuta molto più tardi in Cile, quando entrai ufficialmente nel partito, credo di essermi definito di fronte a me stesso come comunista durante la guerra di Spagna».
La guerra di Spagna lo aveva sorpreso a Madrid, dove era arrivato in qualità di console, dopo esserlo stato anche a Barcellona. Subito dopo il Levantamiento di Franco, Neruda fu privato dell'incarico di console dal presidente Arturo Alessandri (un cognome che ritorna spesso nella storia del Cile). Anche come semplice cittadino, Neruda ebbe però subito un ruolo importante nella mobilitazione europea e delle Americhe in difesa del legittimo governo spagnolo. Ma mentre denunciava appassionatamente le atrocità franchiste, tanto più quando tra le vittime c'erano amici carissimi come Federico García Lorca o Miguel Hernández, la sua inesperienza politica lo portava a non vedere l'altro aspetto della guerra, la repressione di anarchici e trotskisti, veri o presunti, da parte degli uomini di Stalin.
Non era solo la sua ingenuità di neofita a determinare il rapporto ambiguo con lo stalinismo, ma la fedeltà cieca al Partito comunista cileno, che manterrà fino alla morte. Dice di aver avuto amici anarchici ma nelle sue memorie, finite pochi giorni prima della scomparsa, continua a ripetere le denigrazioni staliniane su di loro. E paradossalmente finisce per estendere le stesse accuse a tutta la tendenza guevarista in America Latina, sostenendo che mentre nel Partito comunista cileno, che era «di origine strettamente proletaria», erano difficili le infiltrazioni della Cia, le organizzazioni guerriglieriste «hanno spalancato le porte a ogni tipo di spia», inondando il continente di tesi che screditavano i vecchi gloriosi partiti. Salva soltanto la persona di Guevara, perché era stato colpito profondamente (tanto che ne parla più volte nelle sue memorie) dall'ammirazione per la sua poesia manifestata dal Che, che anche nell'ultima impresa boliviana si era portato nello zaino il suo Canto general. Neruda ha navigato senza problemi e senza dubbi nel mondo staliniano, al punto che di Stalin traccia (nel 1973!) un quadro abbastanza grottesco: il dittatore georgiano sarebbe stato un «uomo di principi e bonaccione, sobrio come un anacoreta, titanico difensore della rivoluzione russa».
È poco noto invece un episodio che aveva molto turbato Neruda: nel 1966 un gruppo di intellettuali cubani, tra cui Roberto Fernández Retamar, raccolsero migliaia di firme anche in altri Paesi su un appello che denunciava il poeta cileno come complice dell'imperialismo per aver accettato un invito a tenere conferenze negli Stati Uniti. Senza tener conto che a New York Neruda parlava in difesa della rivoluzione cubana! Era un pretesto per attaccare indirettamente il suo partito, allora in polemica con quello cubano. Ma a Neruda non appare chiaro. Nelle sue memorie si consola dicendo che col tempo «ogni ombra è stata eliminata» e «tra i due partiti comunisti più importanti dell'America Latina esiste un'intesa chiara e un rapporto fraterno». Gli sfugge che l'intesa era stata resa possibile dalla svolta filosovietica di Cuba dopo la morte di Guevara. Insomma, un'ennesima conferma che a un poeta va chiesto solo di essere un buon poeta, senza pretendere che possa essere anche una guida politica.

Repubblica 10.1.12
Alcuni esperimenti mostrano che agiscono anche nei bambini
Nessuno spenga i neuroni specchio
Funzionano fin da piccoli, ma possono venire inibiti dall´ambiente circostante
di Massimo Ammaniti


La scoperta dei neuroni specchio prima nel cervello delle scimmie e poi nell´uomo ha aperto un nuovo capitolo per studiare i meccanismi di apprendimento sociale e di condivisione affettiva fra le persone. I due libri di Rizzolatti e Sinigaglia So quel che fai (Cortina) e di Marco Iacoboni I neuroni specchio (Bollati Boringhieri) hanno ampiamente divulgato anche fra il pubblico non specializzato l´importanza dei neuroni specchio nella vita relazionale di ogni giorno, in cui costantemente cerchiamo di interpretare in modo inconsapevole le intenzioni e gli stati d´animo delle altre persone in modo da prevedere ciò che può avvenire e comportarci di conseguenza.
Sono molti gli interrogativi che emergono da queste ricerche: che ruolo hanno i neuroni specchio nella vita sociale di ogni giorno? Perché verso alcune persone si prova simpatia e condivisione, mentre per altre si avverte distacco o estraniazione se non addirittura rifiuto? Perché alcune persone hanno maggiori capacità empatiche di altre?
Ancora non si è risposto a molti di questi interrogativi ma si può ipotizzare, sulla base di queste ricerche sul cervello, che nell´incontro con altre persone si attivi il meccanismo di simulazione incarnata. In altre parole se si incontra una persona che prova gioia, dolore oppure tristezza si avverte una risonanza affettiva sostenuta dall´attivazione di aree cerebrali corrispondenti. E´ una specie di "appaiamento", come scrive Husserl nel linguaggio fenomenologico, una corrispondenza che fa assimilare l´altro a noi stessi.
Un analogo processo era stato descritto da Freud a proposito dell´identificazione che comporta l´introiezione delle caratteristiche dei genitori, filtrate dall´elaborazione personale. Ma mentre per Freud l´identificazione rappresenta una relazione molto selettiva con le figure più significative, la risonanza affettiva legata ai neuroni specchio è estesa anche a scambi più ampi.
Ma quando cominciano ad attivarsi i neuroni specchio? In alcuni classici studi sui neonati si era visto che fin dalle prime ore di vita un neonato è in grado di imitare le espressioni facciali di un adulto, stabilendo un´equivalenza con un´altra persona. Sulla base di queste osservazioni si è ipotizzato che questa imitazione precoce sia legata al sistema dei neuroni specchio, che farebbero parte della dotazione biologica dei mammiferi.
La ricerca neurobiologica sta cercando di confermare questa ipotesi, anche se in campo umano si pongono problemi complessi. Un gruppo di ricercatori, fra cui Pierfrancesco Ferrari del Dipartimento di Parma, ha registrato l´attività cerebrale nei macachi fin dal primo giorno di vita mentre osservavano ed imitavano le espressioni facciali di una persona, quando apriva e chiudeva la bocca oppure faceva le boccacce. Le registrazioni cerebrali hanno confermato che nei macachi neonati vengono attivate le aree dei neuroni specchio fin dalla nascita.
Come già era avvenuto con le prime scoperte il trasferimento in campo umano è il passo successivo, quasi inevitabile. Ancora non ci sono dati sul sistema dei neuroni specchio nei primi giorni di vita, anche se sono stati messi in luce alla fine del primo anno. E´ indubbio che l´evoluzione umana ha provveduto a fornire ai neonati questo sistema cerebrale che ha molti vantaggi. In primo luogo l´imitazione facilita la comunicazione, basta vedere la madre e il bambino nei primi mesi dopo la nascita.
Il bambino guarda la madre ed imita le sue espressioni e la madre a sua volta imita il figlio quasi per gioco confermando che fra loro c´è un´intesa e una comprensione. E poi attraverso l´imitazione si accelera l´apprendimento, perché guardando come un´altra persona risolve un compito si saltano le tappe senza dover necessariamente trovare da soli la soluzione. In questo modo le conoscenze accumulate vengono trasmesse alle generazioni successive. Vi è un altro aspetto rilevante, con l´imitazione e la risonanza si riduce la distanza nei confronti degli altri e si crea un senso di condivisione e di familiarità. Ma a volte l´incontro con l´altro può fallire e l´altro diventa allora una presenza distante, estranea se non addirittura minacciosa. L´intolleranza e il razzismo ne sono un esempio.
A livello cerebrale, come esistono meccanismi di attivazione, ugualmente si verificano disattivazioni e si può ritenere che il sistema dei neuroni specchio possa essere bloccato in alcune circostanze. La paura e l´allarme verso gli altri rende ciechi e distanti, ma sicuramente anche il contesto in cui si cresce, se ad esempio favorisce l´apertura verso il mondo oppure suscita diffidenze e chiusure soprattutto per quanti sono semplicemente diversi. Pertanto se la natura ci ha fornito i neuroni specchio per interagire con gli altri è fondamentale il clima in cui si viene educati che può rinforzare le potenzialità individuali oppure scoraggiarle fino ad inibirle.

Repubblica 10.1.12
Relazioni digitali
"Amici e nuovi legami, Internet aumenta il capitale sociale"

Intervista a Antonio Casilli

"Lo spazio virtuale è una teoria nata dalla letteratura, invece viviamo in una realtà mista"
"Le rivoluzioni non le fanno Twitter e Facebook, ma le persone che vanno in piazza"
Intervista allo studioso Antonio Casilli, che ha pubblicato in Francia un saggio dove smentisce molti luoghi comuni sull´universo informatico

PARIGI Trasformando la nostra percezione dello spazio, del corpo e delle relazioni sociali, l´universo delle nuove tecnologie digitali ci costringe a riflettere criticamente sulla natura profonda della realtà in cui viviamo. Una riflessione a cui si dedica proficuamente Antonio Casilli, specialista delle culture digitali che da diversi anni si è trasferito in Francia, dove le sue analisi sulle nuove forme di socialità della rete sono molto apprezzate e discusse. Nel suo ultimo saggio, Les liaisons numériques (Seuil, pagg. 331, euro 20), lo studioso critica radicalmente i falsi miti che hanno accompagnato lo sviluppo delle nuove tecnologie, a cominciare da quello relativo alle minacce dello spazio virtuale: «La teoria della smaterializzazione del reale prodotta dalle nuove tecnologie digitali è una teoria figlia della letteratura degli anni Ottanta», spiega Casilli, che dopo aver lavorato all´École des Haute Etudes en Sciences Sociales, oggi insegna a Telecom Paris Tech. «Più che nella dicotomia tra spazio reale e spazio virtuale, noi tutti oggi viviamo in una realtà mista, che potremmo definire una realtà aumentata, dove il reale è aumentato, amplificato, trasformato dal virtuale. La nostra vita quotidiana si svolge in una continua sovrapposizione di spazi reali e spazi cognitivi digitali. Ad esempio, mentre siamo in auto o in treno, ci spostiamo fisicamente nello spazio ma contemporaneamente, grazie agli smartphone, ci muoviamo anche in un´altra dimensione virtuale».
La nostra relazione con la spazio ne risulta modificata?
«Lo spazio diventa ibrido e noi lo percepiamo come tale, riconfigurandolo di continuo. Ne è un esempio la separazione tra spazio privato e spazio pubblico che è in continuo movimento. Prima di Internet, la frontiera era abbastanza definita, ora invece i media sociali consentono di proiettare lo spazio privato in rete, vale a dire in un contesto pubblico. Facebook o Twitter rimettono costantemente in discussione le nostre categorie di privato, il quale certo non si dissolve ma si riconfigura.»
La privacy non è più quella di una volta?
«Oggi la privacy non è più "il diritto di essere da soli", come diceva Louis Brandeis. La definizione della privacy è mobile e va rinegoziata di continuo a seconda delle persone e delle situazioni. Twitter ci obbliga a interrogarci continuamente sul confine tra pubblico e privato. Questa ginnastica mentale è molto faticosa. Per reimparare da adulti cosa condividere e cosa no, si spendono molte energie e si rischiano errori che poi si pagano. In fondo, tutti noi oggi stiamo facendo un apprendistato collettivo dei nuovi media sociali. E naturalmente non è facile trovare la giusta misura».
In questa evoluzione il corpo diventa un´interfaccia tra noi e il mondo digitale...
«Lo spazio digitale invita il corpo a mettersi in scena nella realtà virtuale. Anche i blog sono una maniera di mettersi in scena, confrontandosi con gli altri, il che implica sempre una ridefinizione della percezione del nostro corpo sulla scorta dell´immagine rinviata dagli altri. Nei media sociali gli altri intervengono a convalidare la rappresentazione di noi stessi. Così, il corpo, che era progetto di sé, diventa progetto di noi, per usare la terminologia di Michel Foucault. Naturalmente, se questa è un´opportunità che consente di arricchire costantemente la nostra personalità, è anche vero che tale situazione può produrre una crisi d´identità.»
A proposito delle relazioni tra corpo e mondo digitale, c´è chi mette in guardia contro i rischi cognitivi della nostra dipendenza dalle nuove tecnologie. Lei che ne pensa?
«L´informatica è un prolungamento delle mnemotecniche del passato, le quali naturalmente non erano votate a svuotare il nostro cervello ma a renderlo più efficace. I computer vanno quindi considerati come un´estensione della memoria e non come una minaccia per le capacità cognitive. L´universo informatico è per noi una sorta di prolunga cognitiva, nonché sociale che ci consente un maggior numero di relazioni. L´agenda del telefonino o la lista di amici su Facebook ampliano la cerchia delle conoscenze con cui restiamo in contatto».
Internet però è spesso accusato di desocializzare gli individui...
«È un falso mito. In realtà Internet produce nuove forme di socialità che ci consentono di modulare meglio l´equilibrio tra legami forti e legami deboli, vale a dire quei legami potenziali che sollecitiamo in modo discontinuo. Su Facebook, se all´inizio prevalgono i contatti con le persone che per noi sono più importanti, in seguito, diventando amici di amici, allarghiamo la cerchia dei legami deboli, facendoli durare nel tempo. Alla fine, la proporzione tra legami forti e deboli è molto diversa da quella presente nella vita reale. Di conseguenza, i media sociali offrono una socialità più ricca, che ci consente di entrare in contatto con ambienti che in precedenza ci erano preclusi. Prima di Internet vivevamo in una società di piccole scatole – la famiglia, il paese, il lavoro, ecc. – al cui interno eravamo uniti agli altri da legami forti. Con Internet, queste piccole scatole continuano ad esistere, ma inoltre disponiamo di passerelle verso molte altre scatole, vale a dire altre realtà sociali, con le quali magari conserviamo solo legami deboli. Insomma, ci troviamo al centro di reti glocali, nel senso che sono globali e locali allo stesso tempo».
Cosa cambia per l´individuo?
«I vantaggi sono molteplici, soprattutto in termini di capitale sociale, vale a dire l´insieme delle risorse sociali che ogni individuo ha a disposizione per realizzarsi sul piano personale, professionale, sociale, culturale, ecc. I media sociali, ci consentono d´incrementare e modulare meglio il capitale sociale. Gli amici in rete sono una risorsa sociale».
Ciò ci obbliga a ripensare la concezione dell´amicizia?
«In effetti, per secoli abbiamo privilegiato la definizione umanistica dell´amicizia. Basandoci su Cicerone, Seneca o Montaigne, abbiamo pensato l´amicizia come un legame disinteressato, privato e caratterizzato da una cooperazione forte. In rete, all´amicizia tradizionale, che comunque continua ad esistere, si sovrappone un altro tipo di legame che può essere anche utilitaristico. Questo legame, oltre ad essere pubblico e registrato in un database, può dar luogo a una cooperazione non simmetrica. Nell´amicizia classica infatti la relazione è sempre reciproca, non si può esser amici di qualcuno che non ci è amico. Su Twitter possiamo seguire qualcuno che non ci segue».
Modificando le relazioni tra le persone, Internet trasforma anche le modalità dell´azione politica?
«I più ottimisti sottolineano le virtù democratiche della rete, ricordando ad esempio che la primavera araba sarebbe il tipico prolungamento di questo spirito democratico. Io però penso che Internet sia soprattutto uno stile politico, che può essere adottato da realtà ideologiche molto diverse tra loro. Lo si vede in America, dove sia i Tea Party che Occupy Wall Street sfruttano a fondo i media sociali, dando luogo a un´organizzazione orizzontale senza gerarchia e a geometria variabile. Questa struttura può essere molto efficace, ma non bisogna farsi eccessive illusioni. Le rivoluzioni non le fanno Twitter o Facebook. Le fanno sempre le persone reali scendendo in piazza. I media sociali possono solo coordinare, scambiare e amplificare le ricadute del reale. Ma senza mai sostituirsi ad esso».

il Riformista 10.1.12
“La chiave di Sara” La Shoah come indagine familiare
Kristin Scott-Thomas è la protagonista del film di Gilles PaquetBrenner, nelle sale italiane questo venerdì. Una giornalista alle prese con un’inchiesta sul rastrellamento ordinato da Pétain nel 1942, che finirà per riguardare la sua stessa vita
di Michele Anselmi


«Perché lo fai?» chiede preoccupata la sorella da New York. «Perché è giusto» taglia corto al telefono Julia Jarmond, ovvero Kristin Scott-Thomas. La giornalista americana vive da vent’anni a Parigi, ha sposato un architetto francese, sta per traslocare in una bella casa del centro storico, ma di colpo si ritrova a fare i conti con una scelta personale da far tremare e le vene e i polsi.
La chiave di Sara è uno dei tanti, troppi, bei film d’autore che escono nelle sale italiane venerdì prossimo, con il rischio di cannibalizzarsi a vicenda. Il consiglio è di andarlo a vedere subito, per poi orientarsi su Shame e La Talpa. Non si ride in nessuno dei tre, e forse è giusto così: di commedie insulse e generazionali se ne fanno a iosa in Italia.
Il dilemma morale con cui deve confrontarsi Julia è presto detto. Lavorando a un’inchiesta su quella che i francesi chiamano “la rafle”, la giornalista incappa in un segreto imbarazzante, diciamo una vergogna infamante. Tutto risale al 15 luglio 1942, quando, con atto abominevole e atroce, il governo collaborazionista del maresciallo Pétain mise in pratica, dopo accurata e burocratica preparazione, il rastrellamento di 13 mila ebrei parigini. I comandi tedeschi avevano suggerito il 14, giorno della presa della Bastiglia, ma sembrò troppo. Così si fecero passare altre 48 ore e, all’alba di quella calda giornata d’estate, la polizia francese legata al regime di Vichy irruppe nel quartiere di
Montmartre e sequestrò uomini, donne, bambini, vecchi. Dovevano essere ancora di più, 24 mila, ma molti israeliti riuscirono a nascondersi, in quelle ore concitate, grazie all’aiuto dei parigini.
Gli sventurati vennero rinchiusi nel Vélodrome d’Hiver, in condizioni igieniche spaventose, senza acqua, cibo, medicine, e già lì cominciarono a morire o a suicidarsi. Appena cinque giorni dopo sarebbero stati avviati in vari campi di concentramento, quasi tutti in quello tristemente noto di Beaune-La-Rolande. Prossima tappa: le camere a gas in Polonia. Solo 25, di quei 13 mila, tornarono a casa alla fine della guerra, nessuno dei bambini.
Il romanzo di Tatiana de Rosnay (Mondadori), da cui il film di Gilles Paquet-Brenner è tratto, immagina invece che uno di quei bambini, appunto la Sara Starzynski del titolo, riesca a scappare dal lager francese prima di finire nelle camere a gas di Hitler. Per tornare, grazie all’aiuto di una coppia di contadini, nell’appartamento lasciato precipitosamente quella mattina di luglio, dopo aver nascosto il fratellino in un armadio a muro, conservando la chiave per tutto il tempo. Troverà una terribile, doppia verità: il ragazzino è morto da mesi e nessuno se n’è accorto, nonostante il fetore che traspirava dalle pareti; la casa è occupata da una famiglia francese, che l’ha avuta praticamente gratis, essendo stata requisita agli ebrei.
Esattamente sessant’anni dopo Sara diventa un’ossessione per Julia. Che fine ha fatto? È viva, è morta, ha avuto dei figli? Abita ancora in Francia? L’inchiesta giornalistica si trasforma lentamente in una sorta di j’accuse morale nei confronti di quella verità nascosta, rimossa, sotterrata, e la trafittura si farà più acuta, per la donna sospesa tra radici americane e vita europea, quando Julia scoprirà che la casa ristrutturata nella quale sta per trasferirsi col marito è proprio quella di Sara.
Il tema della “rafle” non è inedito nel cinema francese. Giusto un anno fa uscì da noi Vento di primavera della regista Rose Bosch, didascalico e bruttarello, ma deciso a riaprire senza tanti complimenti quella ferita mai rimarginata. Una macchia nera per certi versi incancellabile. Perché furono migliaia, a partire dai 9mila poliziotti che operarono materialmente il rastrellamento, i francesi coinvolti nella deportazione degli ebrei, in un crescendo di odio razziale e atti meschini, umiliazioni inflitte e ruberie legalizzate. Solo nel 1995 il presidente Jacques Chirac chiese ufficialmente scusa, parlando di «ore buie che macchieranno per sempre la nostra storia, un insulto al passato e alle nostre tradizioni». Il minimo che potesse fare.
Ma La chiave di Sara va oltre la ricostruzione dell’abominio collaborazionista, e anzi la forza del film, più che nel resoconto dell’inferno patito dagli sventurati ebrei francesi nel 1942, sta nello sguardo impietoso della giornalista-detective. Donna non più giovane alle prese con una maternità complicata che il marito rifiuta, Julia scardina la congiura del silenzio, costringe la famiglia acquisita a misurarsi con quel passato che ritorna, infine si mette alla ricerca di Sara, forse emigrata negli Stati Uniti.
Il film è toccante ma non piagnone, classico ma non prevedibile, romanzesco ma non divagante. L’andirivieni temporale serve a ricordare l’orrore razzista di ieri e a mostrare l’ipocrisia borghese di oggi. E intanto Julia, incarnata con dolente fierezza dall’attrice inglese stabilitasi da anni a Parigi (che bello sentirla parlare in francese nella versione originale), diventa la voce di Sara, che mai guarì davvero dalla tragica esperienza.
Difficile non pensare al gran saggio autobiografico di Primo Levi I sommersi e i salvati. Per tante ragioni. E una coincidenza cruciale.