giovedì 12 gennaio 2012

l’Unità 12.1.12
Aerei, satelliti, missili:
la difesa italiana costa 20 miliardi di euro
Rapporto di «Archivio Disarmo» sulle spese militari in Italia nel 2011:
una struttura sovradimensionata rispetto alle esigenze delle Forze armate
di Umberto De Giovannangeli


Troppi. Costosi. E, in alcuni casi, velleitari. È il quadro aggiornato della spesa militare in Italia 2011, così come emerge dal Rapporto dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, curato da Luigi Barbato. La premessa: «In un contesto di crisi economica rimarca il Rapporto i sacrifici richiesti ai cittadini, sia in termini di maggiore fiscalità che di tagli allo stato sociale, impongono una doverosa riflessione sulla sostenibilità economica dell’attuale modello. Inoltre prosegue il Rapporto sarebbe opportuna anche una aperta discussione in sede politica della congruità di alcuni programmi di acquisizione di armamenti particolarmente costosi e di dubbia rispondenza anche al modello di Di-
fesa attualmente in vigore. In particolare si fa riferimento al progetto dei cacciabombardieri F35, il cui costo appare eccessivo e che rischia di monopolizzare quelle non infinite risorse che forse dovrebbero essere comunque rivolte all’esercizio (addestramento, carburanti, manutenzione...)».
Il bilancio per la Difesa 2011 ammonta a 20.557 milioni di euro. Ai 20 miliardi e mezzo di euro del 2011, però, spiega Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo, vanno aggiunti circa 3 miliardi di euro inscritti nei bilanci di altri ministeri per scopi militari. «Il ministero dell’Economia e Finanze stanzia 754,3 milioni di euro per il Fondo di riserva per le spese derivanti dalla proroga delle missioni internazionali di pace – rileva l’Archivio Disarmo -, il ministero dello Sviluppo economico stanzia 1.483 milioni di euro destinato ad Interventi agevolativi per il settore aeronautico, 510 milioni di euro destinato ad interventi per lo sviluppo e l’acquisizione delle unità navali della classe Fremm (fregata europea multimissione) e una percentuale del budget del Miur viene destinata a progetti in ambito spaziale e satellitare delle forze armate. A questi vanno aggiunti il miliardo e mezzo di tutte le missioni di peacekeeping».
Non è finita. Nei capitoli di spesa degli anni a venire l’Italia ha già qualcosa da inserire.
«Sul bilancio dello Stato – spiega Simoncelli all’Agenzia Dire attualmente, esistono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d’arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. C’è anche il discorso del soldato del futuro: si parla di 25 miliardi nell’arco di 20 anni come se niente fosse. Si tratta di una serie di ipoteche sui bilanci degli anni prossimi che adesso non appaiono nei bilanci della Difesa, ma sono programmi che vengono approvati. E tutto questo proprio quando a tutti gli italiani è chiesto di fare sacrifici».
Della preponderanza oltre il 63% del bilancio delle spese per il personale, l’Unità ne ha dato conto in precedenti articoli.
Il Rapporto dell’Archivio Disarmo ci permette di aprire un altro capitolo, non meno interessante: quello relativo alle spese per l’investimento, suddivise per tipologia di programma. A fare la parte del leone è la componente aerea. Per mezzi aerei, infatti, l’Italia ha speso, o a in programma di spendere, 1.444,7 milioni di euro. Seguono mezzi navali, 324,7 milioni di euro, sistemi comando e controllo, 298,5 milioni, sistemi missilistici, 248,3 milioni. Per mezzi terrestri, la spesa scende a 78,9 milioni. Nel dettaglio, per una nuova portaerei Nave Cavour l’Italia ha già stanziato, nel bilancio 2011, 46, 2 milioni di euro, per sommergibili di nuova generazione U-212 -1ma e 2nda serie, 168,9 milioni di euro. Sono solo spese iniziali. Perché, rileva il Rapporto, gli oneri globali legati alla nuova portaerei saranno pari a 1.390 milioni di euro. Completamento previsto: 2016.
Spese mezzi aerei. Dei 131 F35 si è discusso e polemizzato ampiamente in queste settimane. Meno si è discusso su altri programmi. Come lo Sviluppo Velivolo Joint Strike Fighter (Jsf), 468,6 milioni di euro. Si tratta di un programma in cooperazione con Usa, Regno Unito, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia, Turchia. Per la fase di sviluppo (Sdd) l’investimento complessivo è di circa 1.028 milioni di dollari. Completamento previsto: 2012; per il programma relativo allo sviluppo, industrializzazione e supporto alla produzione (Psdf), la spesa prevista è di circa 900 milioni di dollari. Completamente previsto: 2047.
Altro capitolo preponderante è quello relativo a Eurofighter: programma, in cooperazione con Germania, Regno Unito e Spagna, relativo allo sviluppo e all’acquisizione di velivoli per la difesa aerea, con compito primario di contrasto delle forze aeree avversarie e con capacità secondaria di svolgere missioni di attacco al suolo. Oneri globali pari a circa 18.100 milioni di euro.
«Alcuni di questi progetti oltre a rappresentare una spesa onerosa, sono velleitari»: a sostenerlo, in una recente intervista a l’Unità, è il generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo. Il rapporto dell’Archivio Disarmo conforta questa valutazione. Il dibattito è aperto. Le scelte irrinviabili.

l’Unità 12.1.12
La crisi del ’29 e quella di oggi
Nessun punto di contatto fra i due periodi di instabilità finanziaria. Dalle pagine di Antonio Gramsci ci viene una lezione: non si può valutare una difficile situazione economica fuori dal suo contesto
di Giuseppe Vacca


Nel febbraio del 1933 Antonio Gramsci scrisse un commento alla crisi mondiale del 1929-1932 che inviterei a rileggere. È il paragrafo 5 del Quaderno 15, intitolato Passato e presente. La crisi, e potrebbe essere un utile punto di riferimento nella discussione attuale su quella che comunemente si definisce una «crisi finanziaria», cominciata negli Stati Uniti nel 2007 e divenuta progressivamente una crisi economica globale. Mi limito a riprendere alcuni spunti dello scritto di Gramsci che mi sembrano particolarmente fecondi.
Vorrei innanzitutto osservare che quando ci si trova in presenza di una crisi economica di proporzioni mondiali è erroneo e fuorviante isolarne un aspetto o cercarne una causa sola; si deve invece ricostruire un intero periodo storico nel quale le manifestazioni economiche della crisi, che variano nel tempo e si differenziano da Paese a Paese, possano essere spiegate in modo utile a risolverla. In altre parole, è necessario non isolare gli aspetti puramente economici del fenomeno se non per comodità analitica, purché vengano inquadrati in una ricostruzione storica complessiva nella quale si possano individuare gli attori e le strategie necessarie a creare nuovi equilibri e stabilità.
Applicando questo criterio all’andamento della crisi tra il 1929 e il 1932, Gramsci ne individuava l’origine nel contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica, e perciò proponeva di iscrivere il quadriennio in un periodo storico molto più lungo, caratterizzato dal manifestarsi di quella contraddizione e dalla inettitudine delle classi dirigenti a risolverla nell’unico modo possibile, cioè adeguando le forme e gli spazi della regolazione politica a quelli di un’economia sempre più compiutamente mondiale. Dal 2007 i paragoni fra la crisi attuale e quella del 1929 ricorrono di frequente, ma sono quasi sempre impropri e superficiali, poiché si coniugano con spiegazioni della crisi odierna riassunte in slogan del tipo «la globalizzazione della finanza espropria la politica», oppure con la denuncia dell’enorme crescita delle disuguaglianze redistributive come causa degli squilibri dell’economia mondiale o, infine, con l’accusa alla «speculazione» di creare le crisi dei debiti sovrani. Ma, per fare solo un esempio, come si fa a spiegare con uno o l’altro di quei concetti l’esplosione dei debiti sovrani in Europa quando è del tutto evidente che l’apprezzamento o la svalutazione dell’euro, per non dire dello spread fra i titoli del debito tedesco e quelli del debito di altri Paesi europei, dipendono dalla politica del governo germanico? Rileggere lo scritto di Gramsci può servire, quindi, ad attivare qualche difesa immunitaria contro quelle narrazioni o quanto meno a eliminare gli aspetti contraddittori di ricostruzioni più articolate, in cui però può capitare di ascoltare nello stesso discorso un racconto puntuale del modo unilaterale e aggressivo in cui la Germania ha esercitato la sua leadership nell’Europa dell’euro fino a determinarne la crisi, e spiegazioni della crisi complessiva fondate su un presunto, fatale predominio dell’economia sulla politica.
C’è stato un breve periodo, durante il 2010, in cui le vicende dell’economia mondiale venivano raccontate dai media come guerra delle monete. Anche questa era una interpretazione inadeguata, ma almeno sollecitava le menti a domandarsi: quando è cominciata «la guerra»? chi fa la guerra a chi? E come se ne può uscire? Insomma, era un modo di raccontare le vicende più vicino a una narrazione storica e quindi al senso comune dei cittadini, che vorrebbero essere aiutati a trovare delle spiegazioni plausibili e a individuare delle responsabilità, e non sentirsi oppressi dall’impotenza dinanzi a fantasmi indecifrabili come «l’economia che espropria la politica», la «speculazione internazionale» che minaccia la sovranità degli Stati, e simili. Ma quel periodo è finito proprio quando quell’approccio avrebbe dovuto essere affinato per investigare la crisi dell’euro.
Se il contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica squassava il mondo già nella prima metà del 900, esso appare ancora più acuto nel periodo attuale, in cui la globalizzazione dell’economia è più estesa, le classi dirigenti imputabili di nazionalismo sono ben più numerose e al tempo stesso sono inclini a un «neomercantilismo continentale» piuttosto che al nazionalismo politico o economico tradizionale.
La chiave di lettura dei loro comportamenti potrebbe quindi ricavarsi dalla ricostruzione dei loro successi e dei loro fallimenti nel governare le interdipendenze e le asimmetrie di potenza che caratterizzano la struttura del mondo da 40 anni. Non mi pare proponibile, invece, il paragone fra la crisi odierna e quella del ’29 sotto altri aspetti. Innanzi tutto, i Paesi protagonisti del conflitto economico mondiale di allora potevano ricorrere alla guerra mentre, per il bene dell’umanità, questa possibilità sembra oggi preclusa. D’altro canto, il numero maggiore dei partner dell’economia mondiale odierna rende ancora più imprevedibili la durata della crisi e il raggiungimento di accordi che generino un nuovo equilibrio come fu quello dei tre decenni successivi alla II Guerra mondiale.
In secondo luogo, un anno dopo aver scritto quel testo Gramsci mise ordine fra le note dedicate all’«americanismo» e individuò nel taylorismo e nel fordismo le leve di un nuovo industrialismo, che avrebbe potuto espandersi mondialmente e sovvertire le strutture antiquate della vecchia Europa. Poteva indicare, così, un nuovo modello di organizzazione delle masse e dell’economia che, diffondendosi nel mondo più sviluppato, avrebbe modificato e reso più controllabile quella contraddizione, con effetti incredibilmente progressivi. Non mi pare che nella crisi attuale si possa ravvisare nulla di paragonabile a cui appellarsi. Appare molto più plausibile, invece, il raffronto con un altro aspetto dell’analisi gramsciana: la stabilità monetaria internazionale come risorsa anticiclica dell’economia mondiale. È l’elemento oggi evocato da quanti auspicano «una nuova Bretton Woods». Naturalmente una moneta o un paniere di monete di riserva negoziato a livello mondiale non potrebbe coincidere con nessuna moneta nazionale e anche questo non consente di prevedere se e quando si potrà raggiungere l’obiettivo.
In conclusione vorrei osservare che le economie nord-atlantiche costituiscono nel loro insieme il più grande aggregato di risorse che potrebbero essere messe a disposizione di un nuovo ordine mondiale. Ma non si vede come potranno concorrere a creare nuovi equilibri e una nuova stabilità senza superare preliminarmente il dualismo fra euro e dollaro, il cui antagonismo è forse la vera causa delle crisi parallele, americana e europea, dell’ultimo decennio.

La Stampa 12.1.12
Intervista
“Rivoluzione Facebook? No, ha vinto la piazza”
Asma, attivista tunisina: non tradite la primavera araba
di Marco Bresolin


TORINO E smettetela di dire che la primavera araba è stata la rivoluzione dei social network. È stata la rivoluzione della piazza, dei martiri. Facebook e Twitter sono stati solo dei mezzi di comunicazione, proprio come lo erano il telefono o le lettere nei decenni scorsi». Asma Heidi Nairi, 23 anni, attivista di Amnesty International e protagonista della «rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia, scuote la testa quando sente parlare di «movimenti che hanno trovato una spinta nella Rete». A un anno esatto dalle sommosse popolari, che hanno causato la caduta di Ben Ali, la studentessa tunisina è oggi a Torino per l’incontro «Primavera araba, un anno dopo», in programma alle 18 al centro conferenze Campus Onu, a cui interverranno anche il direttore de «La Stampa», Mario Calabresi, e Domenico Quirico, inviato del nostro quotidiano.
Cosa resta oggi della rivoluzione tunisina?
«Una totale libertà d’espressione. Abbiamo finalmente ritrovato l’ossigeno, anche se la libertà d’informazione nel nostro Paese ora è in una situazione paradossale. Quasi tutti i gruppi che controllano i grandi media sono di sinistra, di opposizione. E pur di contraddire il governo ci bombardano ogni giorno con notizie false. Meno male che abbiamo Internet e i canali televisivi stranieri che smascherano tutte queste bugie».
Internet è stato il simbolo della vostra rivoluzione, un mezzo...
«Un mezzo, punto e basta. La rivoluzione l’abbiamo fatta andando in strada, mica stando davanti al pc. Purtroppo in Occidente c’è questa convinzione, perché voi la nostra rivoluzione che non è stata raccontata dai media tunisini l’avete vissuta solo grazie alla Rete. Ma per noi non è stato così».
La dittatura di Ben Ali, però, è intervenuta censurando il web.
«Chiaro, hanno cercato in ogni modo di zittirci. Per esempio entrando nelle nostre caselle di posta elettronica. La mia è stata bloccata più volte e ho perso centinaia di contatti. E se nelle nostre mail c’erano critiche al governo, il destinatario spesso riceveva messaggi criptati, con foto pornografiche o addirittura con annunci di automobili... Ma la censura non era solo nella Rete: per noi di Amnesty era impossibile riuscire a trovare un hotel che ci affittasse una sala per le nostre riunioni».
Qual è la situazione dei diritti delle donne, ora, in Tunisia?
«Esattamente come prima. Da noi la parità c’è sempre stata e Ben Ali usava proprio questa parità come arma per dire: “visto che siamo un Paese libero? ”. Le donne tunisine, nel mondo arabo, sono da sempre considerate le più emancipate. Tanto che si dice: “Non sposare mai una tunisina”... ».
Crede che la rivoluzione dei gelsomini sia stata determinante anche per far cadere le altre dittature, come ad esempio quelle in Libia o in Egitto?
«Certamente. Nel mondo arabo c’è una forte solidarietà e se succede qualcosa in un Paese anche gli altri si sentono toccati. Inoltre Ben Ali era considerato il più forte e così gli egiziani, piuttosto che i libici, hanno detto: “se ce l’hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi”. Ma credo che la stessa spinta sia arrivata anche molto più lontano, basta vedere gli indignati in Spagna o a Wall Street».
L’Italia è una delle mete dei migranti tunisini: cosa è cambiato dopo la caduta di Ben Ali?
«Sono cambiate le destinazioni. Ora molti tunisini preferiscono andare in Libia, in Qatar oppure a Dubai. Anche perché ci si sente molto meno discriminati. Ci si sente più sicuri in tema di diritti dell’uomo».
Religione e politica spesso si saldano nei Paesi arabi, anche ora che le dittature sono crollate. Quanto la seconda deve essere influenzata dalla prima?
«La mia risposta è una domanda: in Italia sono consentiti i matrimoni omosessuali? ».

Corriere della Sera 12.1.12
Sinistra. Insegnamento anche per il presente nel volume curato da Acquaviva e Gervasoni
Il duello che nessuno vinse
Così fallirono i disegni contrapposti di Craxi e Berlinguer
di Michele Salvati


«Perché l'Italia fu teatro di un lungo, acceso e spesso aspro "duello a sinistra"?... Perché questa lotta politica ebbe l'esito infausto che conosciamo, che nel 1992-94 si espresse nella morte del Psi e nell'involuzione dell'esperienza del Pci?... Quali conseguenze ebbe questo esito traumatico nel favorire il crollo della "Repubblica dei partiti"?». Non si tratta di «questioni archeologiche», sostiene Gennaro Acquaviva nella nota introduttiva da cui ho tratto la citazione. Ha ragione: ora che (forse) siamo all'epilogo della Seconda Repubblica, è illuminante riflettere sull'epilogo della Prima: due sistemi politici all'apparenza molto diversi, l'uno il frutto della crisi dell'altro, ma entrambi incapaci di assicurare all'Italia un buon governo ed entrambi conclusi da una grave crisi politica ed economica. Così grave da richiedere governi «tecnici», Ciampi e Dini nel 1993-95, Monti oggi.
La raccolta di saggi Socialisti e comunisti negli anni di Craxi (Marsilio, pagine 398, 29), curata da Acquaviva e da Marco Gervasoni, si riferisce alla fase finale della Prima Repubblica, alla sua crisi, e in particolare ai rapporti tra due dei suoi tre grandi protagonisti: socialisti e comunisti. Trattandosi di lavori seri, i vizi originari del sistema politico che si formò in Italia nel dopoguerra sono però sempre presenti. Ed è sempre presente il terzo grande protagonista, la Democrazia cristiana: se non direttamente, lo è attraverso i riflessi sugli altri due. E l'aver fissato l'attenzione sui difficili rapporti tra Psi e Pci ha il grande merito di concentrarsi sul nucleo centrale dell'anomalia italiana, al quale va fatto risalire il cattivo governo del nostro Paese nei lunghi trent'anni del centrosinistra: il predominio del Partito comunista nella sinistra e di conseguenza — nelle condizioni internazionali di allora — la conventio ad excludendum e l'impossibilità di alternanza. Conseguenza di questa conseguenza: quando la Dc e i partiti laici minori non furono più in grado di ottenere la maggioranza e un tentativo di riforma elettorale maggioritaria non andò a buon fine («legge truffa», 1953), l'alleanza tra Dc e Psi, il centrosinistra, divenne inevitabile. E fu inevitabile un cattivo governo, composto da partiti costretti a stare insieme ma con orientamenti e interessi profondamente diversi, tallonati da un partito escluso ma forte nella società e nelle istituzioni, radicato nel movimento sindacale. L'eccezionale inflazione degli anni Settanta e Ottanta e l'accumulazione del debito pubblico che ancora ci portiamo appresso — due indicatori importanti di cattivo governo economico — si manifestano proprio con il centrosinistra.
Questo è lo scheletro della storia. I nervi e i muscoli, i diversi aspetti del «duello a sinistra», sono analizzati in modo illuminante da tredici saggi di storici seri — di prevalente orientamento socialista, ma capaci di tener distinte le loro inclinazioni ideologiche dal mestiere di studioso — e sono arricchiti da tre gruppi di testimonianze di politici socialisti e comunisti di allora. Impossibile dare un'idea di 480 dense pagine in una breve recensione: la semplice indicazione dei nomi degli autori e degli argomenti trattati porterebbe via troppo spazio. Mi limito allora al saggio di Marc Lazar, non perché sia migliore di altri, ma perché la sua analisi comparata dei rapporti tra socialisti e comunisti in Italia e in Francia lo porta più vicino allo scheletro della nostra storia. Anche in Francia i comunisti emersero dalla Seconda guerra mondiale più forti dei socialisti e così restarono — anche se la sproporzione era minore che in Italia — per tutta la Quarta Repubblica e ben oltre l'inizio della Quinta. Che cosa determinò l'inversione dei rapporti di forza, l'accesso della sinistra al governo con un'alleanza Pcf-Ps a predominio socialista (Mitterrand, 1981) e poi il rapido declino dei comunisti?
Tanti sono i fattori finemente analizzati da Lazar e mi limito a sottolineare i tre che mi sembrano più importanti: le riforme costituzionali di de Gaulle, abilmente usate contro le intenzioni di chi le aveva proposte; l'attenzione di Mitterrand verso i comunisti — non un «duello a sinistra» — in vista di una possibile alleanza contro i «partiti borghesi» (e si trattava di una attenzione credibile, perché praticata da un partito, il Ps, che con i partiti borghesi non aveva contratto un accordo organico di centrosinistra, come invece aveva fatto il Psi); la maggiore libertà d'azione della sinistra in un Paese vincitore della guerra, cui gli americani non potevano imporre una conventio ad excludendum. Al di là dei diversi caratteri personali, queste erano le condizioni — insieme alla maggior forza del Pci rispetto al Pcf — che impedirono a Craxi di diventare il Mitterrand italiano.
Anche se sono frequenti, in saggi scritti nel 2010, i riferimenti successivi alla crisi politica del 1992-94, e dunque all'esperienza della Seconda Repubblica, nella sostanza i contributi di questo libro si attengono al tema che era stato loro proposto: il «duello a sinistra» tra socialisti e comunisti nella sua fase finale, nella crisi della Prima Repubblica. Non affrontano dunque il problema politico che li rende interessanti, «non archeologici», per un lettore di oggi.
Comunisti e socialisti non ci sono più, almeno come grandi forze politiche; prima l'alternanza non era possibile e oggi lo è; nella Prima Repubblica il sistema elettorale era proporzionale e ora è maggioritario: a queste differenze viene spesso attribuita la responsabilità del cattivo governo che condusse alla crisi e alla necessità di governi tecnici tra il 1993 e il 1996. Come mai, allora, ci troviamo oggi nella stessa situazione? La domanda è urgente, se ci preoccupiamo di che cosa accadrà dopo il governo Monti: ricadremo ancora in un cattivo governo «politico»? A questa domanda il nostro libro non può rispondere, ma fornisce buoni materiali per riflettere e soprattutto per escludere risposte superficiali.

Repubblica 12.1.12
Il teorema di Gramsci
Se gli esperti di politica non applicano il buon senso
Il clima d’opinione generale oggi più di ieri deve fare i conti con le mediazioni locali e micro-sociali, utili a capire fenomeni più ampi
Bisogna esplorare in profondità i luoghi dove le istituzioni, la democrazia, i partiti trovano le basi della loro legittimazione
di Ilvo Diamanti


La dissonanza fra pre-visioni e realtà, la stessa difficoltà a rilevarla e a riconoscerla, non possono non sollevare dubbi sull´adeguatezza degli strumenti teorici e metodologici adottati. Ho il sospetto, cioè, che gli approcci prevalenti negli studi e tra gli specialisti politici stentino a comprendere i cambiamenti, ma anche gli avvenimenti e i fenomeni più importanti dei nostri tempi. Perché concentrano la loro attenzione – spesso in modo esclusivo – sulle istituzioni e sugli attori politici a livello "macro" mentre sottovalutano, in particolare, quel che si muove nella società. Non solo, ma si disinteressano delle percezioni che si formano e prevalgono nelle relazioni interpersonali e locali. Ambiti ritenuti poco rilevanti, dal punto di vista euristico ma, prima ancora, epistemologico. Variabili socio-centriche inadatte, in quanto tali, a spiegare i fenomeni politici.
Tuttavia, è difficile considerare "dipendenti" le variabili che attengono ai fenomeni locali e micro-sociali – perché e in quanto tali. Il "clima d´opinione", in particolare, non può essere considerato "solo" il prodotto della comunicazione progettata e dispiegata dalle istituzioni, dai poteri, dai media a livello centrale. I messaggi che definiscono l´Opinione Pubblica, oggi ancor più di ieri, sono infatti mediati dai "micro-climi d´opinione". Intendo sottolineare, in questo modo, come il "clima d´opinione generale" debba fare i conti con le "mediazioni" locali e micro-sociali. Con mentalità e leader d´opinione che reinterpretano i messaggi generali. Li traducono e li trasmettono attraverso le reti sociali e personali che costellano il territorio, attribuendo loro un significato diverso e, talora, opposto rispetto alle intenzioni di chi li ha lanciati. Secondo un´eterogenesi dei fini che genera effetti non previsti e non desiderati dai protagonisti. (...)
Oggi stesso, d´altronde, nelle aree a forte presenza elettorale leghista, e quindi nelle province del Nord, gli elettori e i simpatizzanti del Carroccio sembrano convinti che la Lega, nonostante sia alleata di Berlusconi e al governo insieme a lui da un decennio (con la breve parentesi del governo Prodi), in effetti stia all´opposizione. La percepiscono come un Sindacato del Nord, impegnato a Roma a difendere gli interessi padani. A "portare a casa" il federalismo. Contro tutti. A ogni costo.
Per cui ogni responsabilità dei problemi economici e sociali che, in questa fase, preoccupano il Paese, ogni mancata riforma, ogni spiacevole conseguenza delle politiche pubbliche, da molti settori della popolazione del Nord (e non solo), viene spiegata rivolgendo gli occhi altrove. Anche quando i motivi di insoddisfazione coinvolgono il governo, gli elettori leghisti non si sentono coinvolti. Preferiscono spostare all´esterno la loro frustrazione. E talora ciò avviene anche tra gli elettori del centrodestra, in generale.
Racconto, a titolo di esempio "pop", un fatto capitato qualche tempo fa, che mi è stato raccontato da una testimone privilegiata, ai miei occhi credibile e attendibile. Mia suocera. Recatasi al supermercato vicino a casa nostra, in fila davanti alle casse si trovò accanto a una "vecchina" (così la definì mia suocera, che, peraltro, ha ottant´anni). Intenta a guardare il carrello, quasi vuoto, l´anziana signora si lamentava. Perché il carrello ogni mese era sempre più vuoto, visto che la pensione le permetteva un potere d´acquisto sempre più ridotto. Ce l´aveva con i politici, responsabili della sua condizione. Ce l´aveva soprattutto con il governo, per definizione primo e diretto "colpevole" dei suoi problemi personali di bilancio. E inveiva apertamente, neppure in modo troppo silenzioso. Tanto che al colmo della rabbia esplose in un´invettiva contro quel «p… di Prodi». Il principale colpevole. Sempre lui. Anche se da anni governava Berlusconi. E Prodi, ormai, non faceva (e non fa) più politica attiva. Ma il "senso comune" le impediva di accettare e riconoscere la realtà. Di mettere in discussione le sue convinzioni, le sue certezze. Più e prima che "politiche": "personali". Incardinate nella sua visione del mondo e della vita. Condivise con la sua cerchia di relazioni quotidiane. (...)
È dunque difficile capire quel che succede nella politica senza tenere conto della vita quotidiana, del senso comune, del territorio. Senza esplorare in profondità i luoghi dove i partiti, le istituzioni, la democrazia trovano le basi della loro legittimazione e del loro consenso. Assecondando la convinzione – superstizione? – che la comunicazione mediatica e in particolare la televisione risolvano tutto. Che i media, gli attori politici, in tempi di campagna permanente, possano manipolare ad arte e a loro piacimento il "consenso" dei cittadini. Al più, possono contribuire a cogliere e a plasmare il "senso comune", come suggerisce la teoria della "spirale del silenzio" di Elisabeth Noelle-Neumann. Secondo cui gli individui cercano approvazione e conferma da parte degli altri, nei loro luoghi di vita. In quanto temono, soprattutto, di essere stigmatizzati se si pongono in contrasto con le opinioni che ritengono prevalenti. Per usare una categoria già richiamata in precedenza (e formulata proprio dalla Noelle-Neumann), esiste un esteso conformismo sociale, condizionato dal "clima d´opinione" dominante, che induce al silenzio coloro che si percepiscano minoranza. Ciò riguarda soprattutto (ma non solo) gli elettori "marginali", definiti così perché stanno ai margini della scena politica e non hanno convinzioni forti. Temono, tuttavia, di sentirsi isolati e "perdenti" e, per questo, cercano di cogliere il pensiero della maggioranza.
Dispongono, a questo fine, di una «competenza quasistatistica» (come la chiama ancora la Noelle-Neumann) che esercitano nel rapporto con l´ambiente sociale ma, soprattutto, attraverso l´esposizione ai media. I quali diventano doppiamente influenti nel formare il "clima d´opinione". Da una parte, perché gli individui-spettatori attingono da essi informazioni e giudizi che vengono poi dati per scontati, diventano "reali" proprio perché legittimati dai media. Dall´altra parte, perché i media (soprattutto la televisione) condizionano le opinioni dell´ambiente sociale, dei gruppi e delle reti di relazioni in cui gli individui sono inseriti. E a cui gli individui chiedono conferma e rassicurazione. Da ciò il "silenzio" di quanti, per non sentirsi esclusi, preferiscono non sfidare il "senso comune".
In fondo, qualcosa di simile l´aveva (de) scritto, qualche tempo fa, Antonio Gramsci. Il quale distingueva tra "buon senso" e "senso comune". E citava, a questo fine, Alessandro Manzoni. Il quale nei Promessi sposi annotava che al tempo della peste «c´era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione, contro l´opinione volgare diffusa». Perché, aggiungeva Manzoni, «il buon senso c´era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». Un ragionamento che, senza voler apparire irriguardosi, potremmo applicare anche a noi stessi. Alla comunità scientifica di cui facciamo parte. Il "buon senso", cioè, ci spingerebbe a interrogarci maggiormente su quel che avviene a livello locale e micro-sociale, nella sfera personale e interpersonale. A esplorare altre teorie e altri orientamenti metodologici. Ma il "senso comune" della comunità scientifica e degli specialisti, che con Kuhn potremmo definire "paradigma dominante" (in tempi di "scienza normale"), ci induce a far finta di nulla. A negare la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osserviamo. Dall´alto e di lontano.

Repubblica 12.1.12
Perché far pagare le tasse è una rivoluzione culturale
di Stefano Rodotà


Il blitz di Cortina e la campagna per gli scontrini mostrano come la battaglia sul fisco stia diventando politica, contro le disuguaglianze e per l´equità
Una questione capitale che sembra destinata a sconvolgere equilibri colpire interessi consolidati e mettere fine ad antiche compiacenze
Siamo alla radice dell´obbligazione sociale: se "tutti" non significa veramente "tutti", allora il legame di solidarietà viene infranto

Nella controversa agenda politica di questa difficile stagione ha fragorosamente fatto ingresso la lotta all´evasione fiscale. Non più come tema polemico, non più come rivendicazione di qualche buon esito di un´azione amministrativa di contrasto, ma come questione capitale, destinata a sconvolgere equilibri, colpire interessi, revocare in dubbio compiacenze. Questo è avvenuto con due mosse fortemente simboliche. Il blitz a Cortina e una dichiarazione del Presidente del consiglio che ha indicato negli evasori quelli che «mettono le mani nelle tasche dei contribuenti onesti». Non siamo solo di fronte allo smascheramento dell´ipocrita vulgata berlusconiana, ma alla denuncia di una inaccettabile redistribuzione alla rovescia delle risorse, per cui oggi sono soprattutto i meno abbienti a pagare servizi di cui, troppe volte, sono proprio i più ricchi ad avvantaggiarsi (si pensi solo al caso dell´istruzione universitaria, alla quale spesso non riescono poi ad accedere i figli di chi maggiormente la finanzia). Ed è giusto ricordare quel che disse Tommaso Padoa Schioppa: «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l´istruzione e l´ambiente».
Ironie e dileggi accolsero questo limpido richiamo alle virtù civiche. E oggi sono violente le reazioni dei molti che ritengono inaccettabile una priorità come la lotta all´evasione, certamente incompatibile con il melmoso immoralismo che si è fatto cemento sociale e nel quale si è cercato il consenso politico. Ma i gesti simbolici sono importanti, a condizione che siano poi accompagnati da inflessibile volontà politica e da quella adeguata strumentazione tecnica ricordata da Alessandro Penati, con una sottolineatura significativa: la necessità di modificare "i comportamenti individuali e collettivi".
Qui si gioca la partita vera. Certo, «non si cambia la società per decreto» – ammoniva Michel Crozier. È indispensabile, allora, un lavoro che vada nel profondo e rimetta in onore principi fondativi abbandonati. E, poiché questi sono tempi in cui è così insistente il richiamo ai doveri (magari per rendere più debole l´appello ai diritti), bisogna partire dai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» previsti dall´articolo 2 della Costituzione. Ma contro la solidarietà sono state spese negli anni passati parole di fuoco, denunciandone i "pericoli" e, muovendo da questa premessa, si sono organizzate "marce contro il fisco". Si è così cercato di svuotare di senso sociale e di valore civile l´articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e secondo criteri di progressività. Da quest´insieme di doveri, invece, non si può "evadere".
Arriviamo così alla radice dell´obbligazione sociale e del patto tra cittadini e Stato. Nel momento in cui "tutti" non significa davvero "tutti", e emerge con nettezza che il contributo alla spesa pubblica appare inversamente proporzionale alla capacità contributiva, con i meno abbienti che pagano più dei ricchi, allora si rompe il legame sociale tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Il ritorno pieno al principio di solidarietà, come valore fondativo, è la via obbligata per interrompere questa deriva e la Costituzione, parlandone come di un insieme di doveri inderogabili, individua un criterio ordinatore dell´insieme delle relazioni tra i soggetti, anzi un connotato della cittadinanza.
Abbandonando quel riferimento, infatti, si innescano processi che dissolvono la stessa obbligazione politica. Torna alla memoria un´espressione icastica e fortunata, legata alla rivoluzione americana: «No taxation without representation» nessuna tassa senza rappresentanza politica, principio che ritroviamo nell´articolo 22 della Costituzione che affida solo alla legge, dunque a un atto del Parlamento, l´imposizione di prestazioni patrimoniali. Ma, una volta garantito il rispetto di tale principio da parte delle istituzioni pubbliche, il rapporto così istituito vincola il cittadino a fare la sua parte. L´evasione, allora, lo delegittima come partecipante a pieno titolo alla comunità politica.
Sono questi i punti di riferimento, rispetto ai quali valgono poco gli esercizi intorno al ruolo da riconoscere alla ricchezza. Questa, benedizione di Dio o sterco del diavolo, fa semplicemente nascere un dovere sociale. Non è una penalizzazione, dunque, un vera lotta all´evasione, ma lo strumento indispensabile per ricostituire una delle condizioni di base per il funzionamento di un sistema democratico. Ma il rigore non deve essere necessariamente declinato nei termini dell´emergenza. Come il contrasto alla criminalità non rende legittimo il ripescaggio delle perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, così la lotta all´evasione deve rifuggire da strumenti sbrigativi, e non in linea con le indicazioni europee, come quelle riguardanti la segnalazione di ogni movimento d´un conto corrente.
Ricordiamo, poi, che già l´articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789 parlava del diritto del cittadino di "seguire l´impiego" dei contributi versati. Una vera lotta all´evasione, dunque, ha come complemento necessario una totale trasparenza pubblica, una implacabile lotta alla corruzione, l´inaccettabilità d´ogni forma di uso privato di risorse pubbliche.

Repubblica 12.1.12
A Londra aliquote basse e Stato inflessibile
L’altra faccia del diritto
di John Lloyd


Il fatto che contribuire equivalga a godere della democrazia forse spiega la percentuale relativamente bassa di persone che tenta di sfuggire all´imposizione Ma negli ultimi anni questo numero è in aumento
L’evasione fiscale continuava a essere assai diffusa, soprattutto fra i lavoratori autonomi
Il miracolo economico aveva reso più evidenti i fenomeni di evasione fiscale
Razza padrona... cesellatori dell´evasione fiscale, surfers dello off shore

Al cuore della vita nazionale e civile c´è il diritto che un governo ha di imporre tasse. Sin dai primordi della vita in Gran Bretagna tale diritto è stato messo in rapporto con la democrazia: nella Magna Charta – l´importante documento dettato al debole re Giovanni nel 1215 dai potenti baroni – il re approvò che le tasse non sarebbero state imposte "fuorché da una decisione comune del nostro regno", prima forma di richiesta di voto sulle tasse che un re potesse esigere.
Quello, indubbiamente, fu un primo piccolo passo avanti, ma la richiesta dei baroni di fatto esprimeva un nuovo principio: tutte le persone fuorché il sovrano avevano tanto diritti quanto doveri. L´idea di uno stato più grande di colui che governa fu poi espressa compiutamente per la prima volta da Niccolò Machiavelli, ma ad anticiparla in un certo senso furono i baroni inglesi e tale criterio entrò a far parte delle consuetudini a mano a mano che il parlamento divenne più potente.
L´importanza che la regolamentazione fiscale ha assunto nella storia britannica e il fatto che equivalga all´avere diritti civili spiegano la percentuale relativamente bassa di evasione fiscale. Percentuale relativamente bassa di evasione non significa necessariamente che essa sia bassa in assoluto: da varie stime si calcola che l´elusione fiscale (lecita) e l´evasione fiscale (illecita) costino al Tesoro fino a 40 miliardi di sterline l´anno. Tale cifra è in ogni caso di gran lunga inferiore agli stimati 275 miliardi di euro che vanno persi nell´economia sommersa italiana, in buona parte per evasione fiscale, ed è ancor più inferiore agli stimati 500 miliardi di euro che gli italiani custodiscono all´estero e non dichiarano come facenti parte dei loro beni.
Come si spiega questo fenomeno? Prima di tutto c´è il presupposto che nel Regno Unito le tasse debbano essere pagate sic et simpliciter – retaggio in parte storico, in parte dovuto al timore che si ha del fisco, particolarmente severo nei confronti di chi prova a evadere. Le autorità del fisco britannico non danno per scontato – come spesso affermano quelle italiane o i politici italiani stessi – che sia impossibile prendere chi evade le tasse o assicurare alla giustizia quel gran numero di imprenditori, lavoratori autonomi e in proprio che dichiarano redditi di gran lunga inferiori a quelli reali.
In secondo luogo la forma più comune di tassazione, quella sui redditi, è relativamente bassa e benché il governo abbia alzato la percentuale massima per i più abbienti portandola al 50 per cento, ha anche detto che la ridurrà quanto prima possibile.
In ogni caso, però, l´elusione e l´evasione fiscale sono aumentate nel Regno Unito, sia da parte delle aziende sia dei singoli cittadini. Le piccole aziende ormai chiedono sistematicamente pagamenti in contanti così da poter evitare di dichiararli come introito, e le società – soprattutto del settore finanziario – reclutano intere squadre di consulenti fiscali il cui unico compito è quello di spostare i capitali verso attività e giurisdizioni dall´imposizione fiscale più bassa possibile. Come in Italia, anche l´attuale coalizione di governo in Gran Bretagna ha dichiarato guerra agli "evasori fiscali", ben sapendo che il fardello dell´evasione ricade su coloro che sono ligi al pagamento delle tasse. Il principio dell´obbligatorietà democratica di pagare le tasse è andato scomparendo: sia David Cameron sia Mario Monti credono di poterlo riaffermare, ma il primo ministro italiano farà più fatica.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 12.1.12
Contribuenti infedeli dall’impero romano a oggiLe rivolte e i furbetti
di Giorgio Ruffolo


Francesi e britannici reagirono in modo diverso alle imposte eccessive dovute alle guerre e alle imprese coloniali. Gli uni con la rivoluzione, gli altri con un duro confronto politico tra Comuni e sovrano

Secondo una ricerca americana si possono contare oltre duecento famose rivolte fiscali nella storia dell´era cristiana, dal primo secolo ad oggi: da quelle legate ai grandi movimenti popolari di lotta per la libertà – le grandi rivoluzioni americana francese russa – alle ribellioni popolari contro la tassa sul whiskey negli Stati Uniti o all´insurrezione provocata dalla bella Lady Godiva a Coventry nel 1067 contro il marito che aveva inflitto alla popolazione una tassa intollerabile, fino al punto di sfidarlo cavalcando nuda per la città.
Altre però sono le rivolte popolari contro l´oppressione fiscale, altri i fenomeni di evasione fiscale. Le prime sono condotte in nome della giustizia e della solidarietà, gli altri attraverso il privilegio e la diserzione. Tre sono le principali caratteristiche dell´evasione fiscale: l´indifferenza, la differenza, la privatezza. Indifferenza verso la solidarietà sociale; differenza proclamata o praticata verso concittadini di altri luoghi o altri credi; privatezza, chiusura dei rapporti di solidarietà entro l´ambito familistico.
Può senz´altro contribuire ad alimentare questi sentimenti una eccessiva pressione fiscale. È il caso, nell´antichità, della persecuzione dei cittadini romani oppressi dal fisco nella tarda età imperiale: intollerabile fino al punto da indurli a rifugiarsi nelle terre dei barbari, Ma, in primo luogo, l´evasione si manifesta anche in presenza di regimi fiscali ragionevoli. Inoltre, la reazione sociale ad una pressione fiscale pesante è diversa secondo il contesto sociale. Ad esempio, all´inizio dell´età moderna, la pressione fiscale delle grandi monarchie europee divenne particolarmente invadente: in Francia a causa delle continue guerre provocate dall´irresponsabile aggressività di Luigi XIV che esigeva un massiccio finanziamento degli eserciti. In Inghilterra a causa delle conquiste coloniali, che comportavano l´onere di una grande flotta. Il peso rispettivo delle imposte nei due paesi era grosso modo equivalente. Ma la reazione politica fu diversa. In Francia, la borghesia reagì con una contestazione sempre più accanita, che sfociò poco più tardi nella rivoluzione. In Inghilterra in una contrapposizione certo energica tra i Comuni e la Corte, che tuttavia non giunse, se non in un breve periodo, a pregiudicare l´unità politica del paese. La diversa reazione si deve al diverso grado di coesione sociale.
Quello dell´Italia, è il caso di un paese nel quale, a differenza della Francia e dell´Inghilterra, la nazione non si è consolidata nella forma dello Stato nazionale moderno, ma in quella di un conglomerato di Stati regionali prosperi per ricchezza, smaglianti per cultura, ma militarmente e politicamente fragili. L´Italia ha pagato la sua secolare egemonia con una secolare servitù che ha fiaccato il nerbo della coscienza civile e ostacolato la formazione di una coscienza nazionale. Ora, è proprio sulla coscienza civile e nazionale che si fonda in ultima analisi il rispetto dello Stato e la solidarietà dei cittadini, entrambe gravemente carenti nel nostro paese. La particolare gravità dell´evasione fiscale, di dieci punti superiore, ancora oggi, a quella della media europea, testimonia di questa inferiorità sociale e morale. Di cui è espressione eloquente il benign neglect verso l´evasione fiscale di un recente Presidente del Consiglio che in nessun altro paese moderno avrebbe potuto manifestarlo.
Per consolarsi in qualche modo si può ricordare che al momento dell´unificazione, centocinquanta anni fa, non pagavano le tasse la metà degli italiani. Sono stati ridotti a 25 per cento cinquanta anni fa e a 17 per cento oggi. Il tempo, almeno quello, è galantuomo.

Repubblica 12.1.12
Dalla matematica alla fisica le formule per capire il mondo
Da domani con "Repubblica" una nuova collana di libri a un euro. Venti volumi con lezioni d’autore e testi scelti
di Piergiorgio Odifreddi


Perché fare una serie di libretti sulla scienza? Si potrebbe rispondere, semplicemente, cosa disse l´alpinista George Mallory al giornalista che gli domandava perché mai volesse scalare l´Everest: «Perché c´è». Naturalmente, si tratta di evitare di fare la sua stessa fine, rimanendo stecchiti e congelati sulle vette del pensiero.
Che anche la scienza ci sia, è un fatto. Se non ci fosse, non ci sarebbe neppure la tecnologia che su di essa si basa, e la nostra vita sarebbe sicuramente molto diversa: niente auto, aerei, telefonini, televisioni, computer, frigoriferi, cibi conservati, medicine… Torneremmo al medioevo, e per molti di noi non sarebbe una bella prospettiva.
Anzi, per tutti. Perché anche coloro che credono che il mondo sia popolato e influenzato da spiriti, quando si muovono da una città all´altra, mica ci vanno volando a cavallo di una scopa. E quelli che credono che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni, quando si ammalano, magari pregano o fanno gli scongiuri, ma corrono pure loro dal medico o in ospedale, a fare esami e farsi prescrivere medicine.
Dunque, semmai ci sarebbe da domandarsi perché così tardi una serie di libretti sulla scienza. Comunque sia, meglio tardi che mai. E il problema è diventato come farla, questa serie. Un bel problema, perché si trattava di comprimere millenni di una storia intensissima e bellissima, in soli venti libretti.
La scelta è stata di concentrarsi sui grandi nomi: quelli noti a tutti, anche se quasi nessuno sa bene perché. Abbiamo dunque deciso di raccontare le storie, personali e professionali, di coloro che hanno forgiato le nostre vite intellettuali e influenzato le nostre vite materiali: Pitagora, Archimede, Copernico, Galileo, Newton, Darwin, Maxwell, Mendeleev, Pasteur, Einstein, Planck…
E abbiamo fatto raccontare le loro storie agli "espositori" italiani più noti. Quegli scienziati, cioè, che sono generosamente usciti dal castello d´avorio della ricerca, per avvicinare il grande pubblico alla scienza. Quelli che scrivono sulle pagine culturali, che pubblicano libri divulgativi, che fanno conferenze popolari. Insomma, quelli che già facevano ciò che abbiamo loro chiesto di fare, e che i lettori già conoscono.
Ma la scienza non è un museo egizio o un obitorio, popolato solo di mummie o di cadaveri da sezionare. È fatta da scienziati tra i quali abbiamo reclutato alcuni dei grandi nomi del presente: quattro premi Nobel (Watson per la medicina, Kroto per la chimica, Glashow per la fisica, Nash per l´economia), una medaglia Fields (Witten), e il matematico più famoso del mondo (Wiles). E abbiamo chiesto loro di raccontare le proprie scoperte: la doppia elica del Dna, la molecola a forma di pallone da calcio, l´unificazione elettrodebole, la teoria dei giochi, la teoria delle stringhe, la dimostrazione del teorema di Fermat.
Per noi è stato un privilegio collaborare con tutti gli espositori. Ora ci auguriamo che sia un piacere per il pubblico leggerli.

il Riformista 12.1.12
Israele ricorda alle altre nazioni che nessuno è autoctono
Donatella Di Cesare nel suo “Se Auschwitz è nulla”, ricostruisce le tesi negazioniste e le loro ripercussioni sulla storia recente
di Corrado Ocone


Il negazionismo, la tesi che tende appunto a negare o semplicemente a ridimensionare il fenomeno dello sterminio in massa nelle camere a gas degli ebrei da parte dei nazisti, non può essere giudicato e condannato sul terreno meramente storiografico, come finora per lo più si è fatto. Non si tratta infatti di una tesi storica, per quanto aberrante, ma di un progetto politico. Lo stesso che mosse i nazisti nella loro opera di “purificazione” antisemita. Fra quell’annientamento e questa negazione c’è un sottile filo rosso. E i primi negazionisti sono stati proprio i nazisti. È questa la tesi forte di un pamphlet appassionato, informato e limpido nella scrittura che esce oggi per i tipi de Il Melangolo: Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (pagine 127, euro 8).
Autore è Donatella Di Cesare, ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, già allieva prediletta di Gadamer a Heidelberg e ora vicepresidente della Heidegger Gesellschaft: «Himmler affermadisse agli ufficiali delle SS che la “gloriosa” pagina di storia, che stavano per scrivere, era una pagina che non era mai stata scritta e che non sarebbe mai stata scritta».
Il volumetto si legge con intensità ed è pieno di notizie e fatti, spesso non conosciuti ai molti, sulla Shoah. Contiene anche una ricostruzione delle tesi negazioniste, da quelle più sfacciate a quelle più mascherate da intenti scientifici e quindi più pericolose (la critica delle tesi di Nolte è da questo punto di vista illuminante e calzante). Le stesse odierne farneticazioni di un Ahmadinejad vengono ricondotte dall’autrice ad un filone, poco esplo-
rato, di promozione e diffusione del nazismo nei paesi musulmani iniziato addirittura nel 1939 quando il Terzo Reich sponsorizzò la traduzione in arabo del Mein Kampf di Hitler e dei falsi Protocolli dei Savi di Sion (la vicenda è ricostruita in Propaganda nazista nel mondo arabo di Herf Jeffrey, che esce in questi giorni in traduzione italiana per le edizioni dell’Altana, pagine 464, euro 19).
Il fatto tuttavia che il libro sia stato scritto da una filosofa presenta sicuramente un valore aggiunto perché evita di cadere in alcuni tranelli teorici che, se sviluppati logicamente, potrebbero mettere in crisi la memoria condivisa dello sterminio. La stessa celebre espressione di Adorno sulla impossibilità di pensare dopo Auschwitz, e quindi sulla sua “singolarità” o “unicità”, va concepita, secondo la Di Cesare, non come un vuoto che si sarebbe creato nel processo storico ma proprio come la reiterazione sempre possibile nel futuro di un evento che non può dirsi mai appartenente solo al passato. Sottrarre alla comprensione storica lo sterminio potrebbe cioè causare proprio l’effetto della non comprensione delle dinamiche sempre in atto che hanno permesso di realizzarlo. L’autrice ci mette poi in guardia anche su un altro argomento capzioso molto in voga, soprattutto a sinistra: la distinzione fra antisionismo e antisemitismo, con la connessa messa in discussione della legittimità storica e democratica dello Stato di Israele in quanto lesivo dei diritti del popolo autoctono. A parte il fatto che gli insediamenti ebraici in quello che è oggi Israele erano già numerosi prima della Shoah, «si possono sfidare tutti i popoli a provare il loro diritto. Nessuno è autoctono». La conclusione è che «Israele irrita la sovrana autocoscienza delle nazioni ricordando a sé e agli altri che sulla terra siamo tutti ospiti temporanei e che forse è venuto il tempo di pensare alla possibilità di un nuovo abitare».

Corriere della Sera 12.1.12
Il drago della Speranza
«Facciamo una festa insieme per dire grazie della solidarietà, contro la paura e la violenza»
di Paolo Conti


«Invitiamo i cittadini romani e italiani ad accogliere questo nuovo anno insieme a noi anche per dire "no" alla violenza e alla paura. Il dolore che proviamo per la perdita di due nostri connazionali, per giunta di una bambina così piccola, vittime di un atroce delitto, deve far riflettere. Non ci si deve rassegnare alla violenza e alla criminalità. Sarebbe una vittoria degli aggressori violenti».
La dottoressa Yang Yenyen è la responsabile della comunicazione dell'Ambasciata cinese. E risponde con molta pacatezza a una domanda inevitabile: perché la Comunità cinese (più di duecentomila persone in tutta Italia, sicuramente più di 20.000 nella sola Capitale) ha deciso, in accordo con l'Ambasciata, di confermare l'appuntamento del grande Capodanno cinese convocato per sabato 14 gennaio a Roma, in piazza del Popolo? L'assassinio di Zhou Zeng e della sua piccola Joy non avrebbe dovuto suggerire una sospensione?
Proprio ieri, in prima pagina sul Corriere, Dario Di Vico ha sottolineato come questo tragico episodio abbia prodotto, proprio durante il grande corteo di solidarietà organizzato a Roma, un «segnale di apertura reciproca» tra la comunità cinese e quella italiana. Esattamente ciò che sostiene Yang Yenyen: «La festa sarà anche un'occasione per ringraziare la comunità italiana della solidarietà che ci ha dimostrato in questi giorni. Un proverbio cinese dice: un dolore condiviso si dimezza, una gioia condivisa si raddoppia».
Dunque l'appuntamento per sabato 14 gennaio non solo è confermato ma verrà esplicitamente dedicato alle due vittime dell'agguato di via Giovannoli. Tutto comincerà alle 14.30 in piazza Augusto Imperatore: corteo di 160 artisti verso piazza del Popolo, poi l'accoglienza da parte dell'orchestra della Polizia Municipale di Roma Capitale, l'ambasciatore cinese Ding Wei e il sindaco di Roma Gianni Alemanno che dipingono di rosso gli occhi di due draghi (come impone la tradizione) e poi spettacoli di danza, di acrobazie, di musica, estrazione della lotteria del Drago e infine, alle 18, i famosi fuochi artificiali cinesi.
Il Capodanno cinese 2012 non è solo l'inizio del nuovo anno tradizionale lunisolare che si concluderà il 9 febbraio 2013. Soprattutto, nel nostro Paese, è la conclusione dell'Anno della cultura cinese in Italia, fortemente sostenuto dai vertici della Repubblica Popolare e inaugurato nell'ottobre 2010 dal premier Wen Jiabao durante la sua visita in Italia e anche come segno per la celebrazione del 40° anniversario dell'apertura delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina. In tutto 200 manifestazioni culturali organizzate nel 2011 dalla Cina in tutto il territorio italiano, in particolare in dodici regioni e trenta comuni col coinvolgimento complessivo di un milione di spettatori.
Dice l'ambasciatore Ding Wei in una dichiarazione: «Questo anno culturale è stato una grande opportunità di scambio e dialogo fra le nostre due antiche civiltà e soprattutto ha promosso un'ampia piattaforma di collaborazione in diversi settori fondamentali, dalla politica al commercio, dalle conoscenze scientifiche all'insegnamento, dal turismo alla letteratura e alla difesa dei diritti delle donne. Attraverso gli eventi portati in Italia abbiamo voluto offrire un'immagine della Cina aperta e collaborativa, ci siamo proposti infatti come partner affidabile per molti progetti di collaborazione». I dati commerciali forniti dall'ambasciatore sono confortanti: volume commerciale aumentato del 19.5% tra i due Paesi, esportazioni dell'Italia verso la Cina che segnano un +27,8% con un volume di 14.5 miliardi di dollari, le esportazioni della Cina in Italia registrano un +15,7% con un volume di 29.9 miliardi di dollari. Nei primi dieci mesi del 2011 il volume ha raggiunto quota 44 miliardi di dollari, con un aumento del 19.5% L'ambasciatore cinese ha un progetto: «Se la celebrazione del Capodanno diventasse una ricorrenza fissa annuale, sarebbe un'occasione preziosa per condividere i valori di questa festa e migliorare l'integrazione e la conoscenza reciproca tra le nostre due comunità».
Ora comincerà l'anno del Drago, immagine molto positiva in Cina, simbolo antico dell'imperatore e quindi di nobiltà e di imprese gloriose, animale di grande potenza capace di volare in cielo e di nuotare nelle acque. Un ottimo auspicio, per la Cina come per l'Italia.

mercoledì 11 gennaio 2012

il Fatto 11.1.12.
Nella fascia “C” la pillola del giorno dopo
Dietro la battaglia sui farmaci c’è la mano forte del Vaticano
di Marco Politi


Per la scienza la pillola del giorno dopo non è un farmaco abortivo poiché impedisce la fecondazione e blocca l’impianto nell’utero dell’ovulo fecondato
Centinaia di migliaia di giovani, coppie e single attendono di conoscere le decisioni del governo Monti in tema di vendita dei farmaci. Per una questione esistenziale. Avere o no un bambino. O meglio poter pianificare serenamente il momento in cui diventare genitori. La questione del luogo di vendita dei “farmaci di fascia C”, infatti, non riguarda solamente il rapporto Stato e Ordine dei farmacisti, ma tocca direttamente la vita sessuale degli italiani.
Dice Filomena Gallo, presidente di Amica Cicogna e segretario dell’associazione Luca Coscioni, che la “Chiesa sta facendo pressioni sul governo e sta solidarizzando con i farmacisti per evitare la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, di cui fanno parte Norlevo e EllaOne: cioè rispettivamente pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo”. Non è un allarme a vuoto. Dagli stessi ambienti ecclesiastici nelle settimane trascorse è trapelata la soddisfazione perché in prima battuta era stata frenata l’intenzione del governo di passare la vendita dei farmaci di fascia C alle parafarmacie. Una liberalizzazione che – è giusto sottolinearlo – non significa mettere nelle mani di commessi inesperti la distribuzione di farmaci ma affidare comunque a venditori farmacisti laureati il controllo delle ricette mediche, che prescrivono un farmaco pagato interamente dal paziente.
Le pressioni ecclesiastiche dietro le quinte fanno parte di una lunga campagna tesa a bollare come abortiva la pillola del giorno dopo e a incoraggiare l’obiezione di coscienza dei farmacisti cattolici. In realtà l’obiezione di coscienza dei farmacisti – che anzi hanno l’obbligo di dispensare un farmaco prescritto dal medico in quanto svolgono un servizio pubblico – non è assolutamente prevista dalla legge e configura una di quelle situazioni di prepotenza extra-legale che si sono manifestate a più riprese in ospedali pubblici in situazioni di interruzioni di gravidanza, quando anestesisti (adducendo ragioni di fede) si sono rifiutati di praticare l’anestesia a donne in preda a forti dolori benché l’obiezione ammessa dalla legge riguardi solo gli atti abortivi diretti e specifici.
SUL PIANO scientifico la pillola del giorno dopo non è minimamente abortiva poiché impedisce la fecondazione ed eventualmente blocca l’impianto nell’utero dell’ovulo fecondato. E senza impianto non c’è inizio di gravidanza. Ciò nonostante, da anni, è in atto un’offensiva delle autorità vaticane e della Cei. Il Papa si è espresso in favore dell’obiezione di coscienza dei farmacisti e la posizione della conferenza episcopale italiana è che ”obiezione di coscienza è anche un diritto che deve essere riconosciuto ai farmacisti” dal momento che “è prevista dalla legge sull’aborto per i medici”.
Sull’onda di tali interventi si sono verificati in alcune parti d’Italia dei rifiuti opposti da farmacisti fondamentalisti a donne regolarmente munite di ricetta medica. È successo a Roma, è successo con contestazioni clamorose a Bologna, è successo altrove. Uno dei casi di obiettori illegali, ricorda Lisa Canitano presidente di “Vita di Donna”, riguarda lo stesso presidente dell’Unione cattolica farmacisti italiani, Pietro Uroda, titolare di una farmacia a Fiumicino. Episodi da non sottovalutare per lo stress psicologico della donna, costretta a trovare entro 72 ore una farmacia “disponibile”. Cosa facile nelle città, molto difficile nei paesi dove si trovasse un obiettore.
Come documenta nella sua ottima ricerca sull’obiezione facile in Italia Chiara Lalli (C’è chi dice no, ed. Saggiatore) la pressione ecclesiastica ha portato nell’aprile 2010 alla presentazione di un disegno di legge Pdl per legalizzare ciò che legale non è. Tanto più che a suo tempo il presidente dell’Ordine dei farmacisti Giacomo Leopardi aveva dichiarato che il farmacista ha il dovere di dispensare un prodotto su presentazione della prescrizione medica.
Vendere nelle parafarmacie le pillole del giorno dopo significa dunque facilitare l’accesso delle donne ai contraccettivi d’emergenza. Tanto più che nella maggioranza dei paesi europei e negli Stati Uniti (per le maggiorenni), come sottolinea Filomena Gallo, la pillola del giorno si vende senza prescrizione.

il Fatto 11.1.12
Carlo Malinconico

I bonifici ai giornali e la notizia sparisce
La sordina sullo scandalo e l’ossigeno a molti quotidiani grazie all’uomo di Palazzo Chigi
di Carlo Tecce


Forse è un semplice vuoto di memoria. Un disturbo che s'insinua nel corpo e ti impedisce di pronunciare o scrivere due parole: Carlo Malinconico.
La lista è lunga, ex vittime che adesso riprendono le corrette funzioni con le dimissioni del sottosegretario di Mario Monti: L'Unità, Il Manifesto, Il Riformista, Europa. Libero soltanto ieri ha rilanciato la notizia. Giornali diversi, sinteticamente opposti, che per un paio di giorni o di più ignorano l'imbarazzo di un uomo di governo che soggiornava in camere di lusso con i soldi di una cricca che voleva controllare appalti e palazzi. Il vacanziere Carlo Malinconico ricordava, certamente, il sottosegretario all'editoria. Più che un rappresentante del governo, Malinconico era la chiave che apre e chiude il forziere con i milioni di euro per i quotidiani e le agenzie di stampa. E una chiave, se si indurisce, non entra nella serratura.
Malinconico è arrivato giusto in tempo per distribuire 150 milioni di fondi pubblici ai giornali: 62 già erogati, 32 pronti per gennaio, 56 rinviati per documenti mancati. Come previsto per legge, un numeroso gruppo di testate ha ricevuto a dicembre il bonifico bancario rianimando un po’ i conti: 5,9 milioni per Avvenire; 5,2 per L'Unità; 3,4 per La Padania; 3,2 per Il Manifesto; 2,9 per Liberazione; 2,1 per La Discussione, 2 per Terra. Per un cavillo, che prestò sarà risolto, il Foglio (2,9 milioni) e il Secolo d'Italia (2,4 milioni) dovranno aspettare.
In attesa che finisca la partita giudiziaria fra la famiglia Angelucci e l'Autorità di garanzia per le comunicazioni, l'ormai ex sottosegretario Malinconico aveva accantonato 5,8 milioni per Libero e 2,2 per Il Riformista (adesso con una nuova proprietà). Da segnalare anche i 2,2 milioni bloccati per L'Avanti che fu di Valterino Lavitola. L'ex presidente degli editori italiani è riuscito, in pochi mesi, a rinnovare le convenzioni con le agenzie di stampa senza penalizzare l'Ansa, che temeva tagli e lamentava rischi. Ma le decisioni più importanti, per il futuro, Malinconico le avrebbe prese nei prossimi mesi: il fondo 2012 si riduce a 53 milioni di euro, impossibile accontentare i 288 giornali che si rivolgono al Dipartimento. Malinconico aveva il potere di vita e di morte su decine di testate, un milione in meno e un milioni in più cambiano il bilancio e il destino. Con un'esposizione così forte, non è complicato cadere nel vuoto di memoria. Più semplice ricordarsi il ruolo di Malinconico, che iniziò il mandato con un’intervista al Fatto. Proponeva di incentivare i giornali più piccoli e deboli, anche quelli di partito, a trasferire il giornale in Rete risparmiando i costi di carta e distribuzione. Chi restava in edicola, invece, poteva mantenere i soldi di sempre anche se diminuiva la concorrenza. Mentre il predecessore Paolo Bonaiuti continuava a fare il portavoce del Cavaliere anche se fisicamente in uffici separati, Malinconico voleva pure informatizzare le edicole, creare un cervellone telematico per rintracciare copie smarrite o non vendute che lo Stato pagava. L’avvocato conosceva il potere mediatico e sapeva esercitarlo. Gli edicolanti aveva proclamato uno sciopero, adesso che è andato via, tocca pazientare un po’.

il Fatto 11.1.12.
Sant’Egidio e Finmeccanica
“Parlate di pace, ma prendete i soldi da chi fabbrica armi”
di Roberta Zunini


Dal 2 gennaio gira sul web una lettera aperta in cui associazioni e privati cittadini fanno alcune domande “sensibili” alla comunità di Sant'Egidio e a al neo ministro Andrea Riccardi, che la fondò nel 1968. Il testo chiama in causa il ministro della cooperazione internazionale e integrazione, a causa delle sue prime mosse nel governo Monti. E si rivolge alla comunità per chiedere conto di una contraddizione non da poco: “... Come fa la comunità di Sant'Egidio a organizzare una marcia per la pace quando, come risulta dalla stampa, la sua solidarietà va a braccetto con la vendita delle armi, accettando finanziamenti da una azienda come Finmeccanicam che costruisce armi? O quando il suo fondatore, Andrea Riccardi, come ministro dell'attuale governo, ha approvato il totale rifinanziamento delle nostre spese militari?... ”, scrivono i promotori.
L'AUTOREVOLEZZA e il prestigio della comunità di San'Egidio è cresciuta negli anni fino a renderla una vera e propria istituzione in grado di mediare anche su questioni politiche estremamente delicate in ambito internazionale, in particolare per quanto riguarda l'Africa. Durante la guerra in Libia, Sant'Egidio invitò i nuovi vertici libici a Roma. Era un momento difficile per le relazioni tra l'allora governo Berlusconi, noto per “il trattato di amicizia” con Gheddafi e coloro che stavano prendendo il suo posto. La forza di Sant'Egidio è conosciuta dalla diplomazie di mezzo mondo. La notizia pubblicata un anno fa da Nigrizia - il settimanale dei padri comboniani - sui finanziamenti elargiti da Finmeccanica alla comunità, inizialmente era passata sotto silenzio. In seguito alcune testate la ripresero ma nessuno di Sant’Egidio si sentì in dovere di spiegare il perchè di questa “liason” se non pericolosa, quantomeno inopportuna. “Tendiamo a non rispondere mai, anche se ciò che viene scritto è falso e ci danneggia”, spiega al Fatto Mario Marazziti, portavoce della comunità. Salvo poi specificare che è falso, ma da un certo punto in poi. “Abbiamo ricevuto finanziamenti da Fin-meccanica per un periodo limitato, poi abbiamo declinato - continua il portavoce - e in ogni caso non si è mai trattato, come è stato scritto, di ingenti finanziamenti ma di una sorta di colletta che i dipendenti di Finmeccanica avevano fatto di loro iniziativa”. Secondo il settimanale dei padri comboniani invece le cose non stavano così e i soldi di Finmeccanica servirono anche a finanziare un progetto per l’accesso gratuito alle cure per l’Aids, iniziato nel 2000.
CONFERMATO dalla stessa Finmeccanica nel cui sito si leggeva: “Finmeccanica ha già reso possibile l'acquisto di un immobile per la realizzazione di un centro Dream presso la città di Conakry, in Guinea, nonché l'inizio dei lavori di ristrutturazione e dei corsi di formazione per gli operatori coinvolti nel progetto”. L’azienda avrebbe donato alla Comunità circa 280mila euro fra il 2004 e il 2005. Nella lettera aperta si fa riferimento anche ai finanziamenti che provengono dalle cosiddette “banche armate”. Marazziti sostiene che Sant’Egidio non considera questo tipo di finanziamento incompatibile con la sua missione di pace. “Grazie a banche come Unicredit e Banca Intesa possiamo salvare migliaia di persone perché possono accedere gratuitamente alle cure. Del resto non penso che gli italiani che hanno acceso mutui con queste banche si sentano complici delle guerre in corso nel mondo solo perché queste attraverso questi istituti bancari transitano anche i soldi derivati dalla compravendita legale di armamenti”. Per quanto riguarda il rifinanziamento delle spese militari, la segreteria del ministro Riccardi risponde che è errato: “Riccardi, in quanto ministro della cooperazione ha rifinanziato solo le missioni di peacekeeping per quanto riguarda il settore civile. Per la prima volta c’è stato addirittura un aumento del budget previsto per il settore non militare”.

Repubblica 11.1.12
Lo scrittore Gyorgy Konrad boccia la proposta del governo di correggere le leggi liberticide
“L’Europa non creda alla destra ungherese, false promesse che uccidono la democrazia"
Orbàn deve lasciare, solo così potremo evitare il fallimento
di Andrea Tarquini


Berlino - «Non è più democrazia da noi, è autocrazia. Spero che presto ce ne libereremo, spero nell´Europa». Così dice Gyorgy Konrad, il Guenter Grass e il Sakharov ungherese: massimo scrittore magiaro vivente, dissidente ieri e oggi, nell´ora decisiva. Il regime promette correzioni alle leggi liberticide (specie quella che abroga l´indipendenza della Banca centrale) a poche ore dall´incontro tra il negoziatore ungherese Tamas Fellegi e la presidente del Fmi, Christine Lagarde. Senza i 20 miliardi di dollari del Fmi e della Ue il default è alle porte. Szolidaritàs, l´organizzazione-ponte dei democratici, invia a Bruxelles migliaia di lettere di ungheresi che chiedono aiuto, "vogliamo restare cittadini europei". L´ex premier tecnico di sinistra Gordon Bajnai propone un governo d´emergenza. Oggi a Roma la Fnsi organizza alle 17 un sit-in all´ambasciata d´Ungheria, Via dei Villini, per la libertà di stampa.
Signor Konrad, come andrà a finire?
«L´Ungheria presto o tardi si libererà da questo governo. Non sarà facile, siamo al limite. Rassicurare i mercati, il mondo, sarà possibile solo quando il governo, e soprattutto Orbàn, si dimetteranno. Finché lui resta non ci sarà fiducia tra la gente, nel mondo, nella Ue, né nel Fmi. Orbàn ha perduto ogni credibilità».
La situazione economica è catastrofica, che ne pensa?
«Orbàn, è un uomo cattivo, la sua energia è la vendetta. Non può essere parte della soluzione, è il problema. Diffamazioni, accuse, licenziamenti, quindi repressione: non crea più fiducia. Risveglia i peggiori spettri del nostro passato, complicità con Hitler e l´Olocausto fino all´ultimo, il contrario di polacchi e cèchi al fronte con gli Alleati. E lui non ama Budapest, proprio come l´ammiraglio Horthy».
E le promesse di concessioni a Fmi e Ue?
«Ue e Fmi rifletteranno attentamente, se ha senso concedere credito a un uomo che ogni giorno dice il contrario. Qui la gente prende i soldi dalle banche e li porta in paesi vicini al sicuro».
È ottimista sul futuro?
«A medio termine sì, a breve no. Ci vuole un credibile governo di esperti, qualcosa come Monti dopo Berlusconi».
L´Ungheria è ancora una democrazia?
«Credo di no. Non siamo più una democrazia: si fanno e disfano da un giorno all´altro leggi che cambiano radicalmente la situazione, abbiamo perso la certezza dello Stato di diritto. È autocrazia dipendente dall´arbitrio di Orbàn. Un Putin ungherese, triste eccezione nella Ue. Ha sempre più potere, non è Stato di diritto, è una specie di socialismo reale di destra».
L´Europa perderà l´Ungheria?
«Non parlo contro il mio paese, non è l´Ungheria a rigettare la Ue. Orbàn dice che possiamo vivere senza Ue, ma lo pensa solo lui. La Ue deve premere per un governo di esperti. Pian piano cominciano a far sentire la loro voce. I Popolari europei capiranno che il partito di Orbàn, oggi nei loro ranghi, non ha più a che vedere con i democratici conservatori Adenauer, de Gasperi e Kohl. Speriamo facciano presto, c´è poco tempo».

Repubblica 11.1.12
Il paradosso della freccia
Da Zenone al big bang, qual è il senso del tempo
di Piergiorgio Odifreddi


Il saggio di Carroll esplora i misteri di uno dei concetti più affascinanti della fisica: perché certi fenomeni sono reversibili e altri no?
Le leggi di Newton ci offrono un mondo dove è possibile tornare indietro: ma queste non valgono sempre
Questo testo ci permette di sondare le diverse teorie scientifiche sull’entropia

Duemilacinquecento anni fa, Zenone di Elea decretò che una freccia in volo non può muoversi, visto che in ogni istante è ferma. E ne dedusse che aveva ragione il suo maestro Parmenide, a sostenere che il tempo non esiste. E che allora non esiste neppure il cambiamento, in mancanza di un tempo nel quale le cose possano cambiare.
Oggi il ragionamento di Zenone non ci sorprende più, perché il cinema l´ha reso popolare tra gli spettatori. Tutti sappiamo che nei film in realtà non accade niente. La storia è tutta nella pellicola, "anzitempo". E il divenire cinematografico non è altro che un´illusione, riducibile a una successione di istantanee statiche e "compresenti". Gli spettatori normali non vanno oltre queste ovvie constatazioni, ma i filosofi e gli scienziati sì. E si domandano se le cose stiano così solo al cinema, o anche nella vita al di fuori della sala. In particolare, si domandano se il tempo e il cambiamento esistano per davvero o se non siano un´illusione analoga a quella cinematografica.
C´è una specifica illusione temporale che il cinema non riesce a procurarci. Ed è invertire la direzione della freccia del tempo, semplicemente facendo girare la pellicola al contrario. La cosa non funziona, perché un film visto al contrario è completamente paradossale. Nessuno, infatti, ha mai visto una frittata disfarsi nelle uova intere. Un tuffatore, uscire dall´acqua per i piedi. Un vecchio, diventare giovane. E un morto, resuscitare.
L´ovvia constatazione è che così va il mondo. Ma la scienza non si accontenta delle constatazioni: vuole, e deve, anche capire perché il mondo va così. In particolare, vuole, e deve, capire da dove arriva la freccia del tempo, e come si accorda con il resto delle cose che essa ha già capito. Cioè, con il complesso delle leggi che formano collettivamente il sapere scientifico.
Benché queste leggi facciano regolarmente intervenire il tempo nelle loro formulazioni, a partire dai concetti basilari della velocità e dell´accelerazione, il problema della freccia del tempo è lungi dall´essere stato risolto in maniera soddisfacente. Ma talmente tanti passi avanti sono stati fatti verso la sua soluzione, che anche solo per enumerarli e illustrarli è necessario un denso libro di cinquecento pagine: Dall´eternità a qui di Sean Carroll (Adelphi), di cui proviamo a riassumere le tappe principali.
In principio fu la fisica newtoniana. Essa si interessa del moto di un piccolo numero di particelle isolate, come le palle di un biliardo o i pianeti di un sistema solare. Il loro moto avviene in una certa direzione, ma non sarebbe affatto paradossale che avvenisse nell´altra. Il film dello scontro fra due palle da biliardo, o di un´orbita planetaria, si può dunque proiettare al contrario, senza provocare nessuna sensazione di straniamento. Detto altrimenti, le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, e non prevedono una freccia del tempo. Quest´ultima interessa invece fenomeni molto diversi da quelli studiati da Newton, come il calore. Benché la freccia del tempo sia stata così battezzata solo nel 1927, dall´astronomo Arthur Eddington, la sua prima formulazione fu data nel 1850 da Rudolf Clausius, nella forma della cosiddetta seconda legge della termodinamica: «Il calore si trasferisce spontaneamente dai corpi caldi a quelli freddi, ma non viceversa». Cosa sia il calore, lo si può intuire dal fatto che quando si scalda dell´acqua, le sue molecole si muovono più velocemente, fino ad arrivare a un moto turbolento nell´ebollizione. Nel 1859 James Clerk Maxwell precisò questa intuizione, definendo la temperatura di un corpo come una misura dell´energia media delle particelle che lo compongono: più le particelle si muovono, e più sale la temperatura.
In maniera analoga si possono ridurre tutte le proprietà di un gas al comportamento statistico delle particelle che lo compongono e si scopre che la termodinamica non è altro che l´estensione della fisica newtoniana allo studio di un gran numero di particelle. In particolare, nel 1872 Ludwig Boltzmann adottò questo approccio per definire l´entropia di un sistema macroscopico come una misura del suo disordine, calcolato in base al (logaritmo del) numero delle sue configurazioni microscopiche indistinguibili.
Una volta definita l´entropia, Boltzmann la usò per spiegare l´emergenza della freccia del tempo. Il suo teorema H dimostrò infatti che «un sistema isolato evolve spontaneamente da stati a bassa entropia a stati ad alta entropia, ma non viceversa». Ma nel 1876 Johann Loschmidt notò che la cosa era paradossale: se le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, da esse non dovrebbe essere possibile dedurre l´esistenza di un processo irreversibile, come la crescita di entropia.
Per risolvere il dilemma, Boltzmann propose l´ipotesi che il nostro "universo" non sia altro che una bolla a bassa entropia di un multiverso a massima entropia. L´esistenza del multiverso non ha bisogno di giustificazioni, perché il suo stato di completo disordine è a massima probabilità. L´esistenza del nostro universo si giustifica invece in base a una delle tante fluttuazioni, più o meno ordinate, che alla lunga devono prima o poi accadere. Quanto al perché noi siamo proprio in una di queste fluttuazioni a bassa probabilità, si spiega con il principio antropico: in fondo, possiamo essere soltanto nei luoghi che permettono la vita, come appunto quelli a bassa entropia.
Le idee di Boltzmann erano state sviluppate nell´ambito della termodinamica dell´Ottocento, ma sono state riformulate nell´ambito della cosmologia del Novecento. Il multiverso viene ora interpretato come il vuoto quantistico, e il nostro universo come una sua fluttuazione, in due possibili modi: o come un universo bolla, galleggiante nel vuoto, oppure come un baby universo, che se n´è distaccato. In entrambi i casi, come possibile conseguenza dell´inflazione primordiale proposta da Alan Guth nel 1979.
Perché la cosa abbia un senso, bisogna che il vuoto sia uno stato di massima entropia. A prima vista sembrerebbe il contrario, ma Roger Penrose ha notato che effettivamente l´entropia cresce, man mano che la freccia del tempo parte dal Big Bang, passa attraverso la formazione delle strutture galattiche e la loro dissoluzione in buchi neri, e va verso l´evaporazione di questi ultimi. Quanto all´entropia del vuoto, deriva dall´energia oscura responsabile dell´accelerazione dell´espansione dell´universo, scoperta nel 1998 da Saul Perlmutter, Brian Schmidt e Adam Riess, e premiata nel 2011 con il premio Nobel per la fisica.
Come si vede, oggi per parlare del tempo non bastano più frasi come quella di Agostino nelle Confessioni: «Se non mi chiedi cos´è, lo so, ma se me lo chiedi, non lo so». O aforismi come quello di Wittgenstein nel Tractatus: «Il mondo è tutto ciò che accade», e non «tutto ciò che c´è». Bisogna avere invece una solida informazione scientifica, per procurarsi la quale non ci sono vie regie, ma per iniziarsi alla quale Dall´eternità a qui costituisce un´ottima introduzione.

Repubblica 11.1.12
Un libro di Sconcerti sull’origine del primo re di Roma
La vita di Romolo tra storia e mito
Un racconto che tocca episodi noti e meno noti. E che s’intreccia allo sviluppo dell’Urbe
di Maurizio Crosetti


Passando con disinvoltura da Totti a Romolo, cioè dall´ultimo re di Roma al primo, Mario Sconcerti realizza insieme una specie di inchiesta e un´intervista con la storia, ma anche una cronaca minuto per minuto, tempi supplementari compresi. Il prodotto di tutto questo lavoro è un libro dal titolo inevitabile, Romolo (Dalai Editore, pagg. 304, euro 16,50). Intrigante il sottotitolo, e rivelatore: L´alba di Roma da riscrivere.
Siccome i giornalisti, anche più degli storici, amano le domande, la misteriosa vicenda del fondatore di Roma ne contiene molte. Chi era Romolo, anche se non è mai esistito? Chi ha avuto la necessità di inventarlo, e perché? Chi era la Lupa? Forse una generosa, materna bestia, o più probabilmente una prostituta? Perché Romolo uccide Remo? Fu proprio lui l´assassino? E chi è il padre dei due gemelli?
Come in ogni buona inchiesta, molte domande troveranno risposta: e per le altre, non trovarla è forse già una risposta. Il libro ruota attorno a un concetto: già poco dopo l´inizio della sua storia, Roma aveva bisogno di un passato. E nell´infinito derby con i Greci, servivano gli dèi per giustificare e innervare la nascita dell´Urbe. Qui comincia il lunghissimo viaggio di Sconcerti nei miti e nelle leggende che hanno portato alla nascita di Roma, alla sua spiegazione e all´evoluzione storica. Neppure su Internet ci sono più cose, al riguardo, di quelle che si trovano nel reportage sul misterioso Romolo, anzi sul mistero Romolo.
Siccome senza Remo non esisterebbe la grandezza del fratello dominante e sopravvissuto, il rapporto tra i due costituisce forse il nucleo più interessante del libro. È anche una storia di caratteri, non solo di caratteristiche. Remo è il più forte fisicamente, il più gradasso ed "eroico", però è il meno astuto, il meno politico e scaltro: alla fine pagherà il limite. Attorno ai figliastri della lupa, la storia di Roma diventa così una bella serie di intuizioni e atti di coraggio, cominciando dal diritto d´asilo concesso da Romolo a chiunque diventasse romano (e fu un esordio di banditi e delinquenti, però vivace e tutto sommato democratico, considerando l´epoca), per finire al ratto delle Sabine: operazione ignobile, se vista con gli occhi del presente, ma necessaria in quel tempo di uomini senza donne, fondatori di città bisognosi non solo di amore ma di figli, discendenza e futuro.
L´ordinata ricerca di Sconcerti sulle tracce del primo re di Roma diventa una specie di apologo sull´epilogo: come un potente invecchia, cambia, s´intorbida. Ecco che il brillante, scaltro Romolo si trasforma in un sessantenne sprezzante e tirannico, annoiato dal tempo che scorre e pieno soltanto di sé. Così passa anche la sua gloria, prima di essere "rapito in cielo" per diventare un dio col bollino blu, più probabilmente ucciso dai senatori umiliati e poi fatto a pezzi, perché non ne restasse neppure una briciola. A quel punto, però, la grande Roma aveva già trovato il suo passato, l´uomo dell´aratro e una data di fondazione: 21 aprile 753 avanti Cristo. Lo dicono anche i libri di scuola, senza però risolvere il mistero.

Repubblica 11.1.12
Torna il reportage che il critico italiano fece sull’incontro tra intellettuali europei
Il primo festival culturale con Jaspers, Benda e Contini
Filosofi e studiosi si videro nel 1946 per cercare di ricostruire l’identità continentale dopo la guerra. Ponendosi problemi molto simili a quelli di oggi
di Roberto Esposito


La prima sensazione che procura la lettura del brillantissimo reportage giornalistico, redatto da un giovane Gianfranco Contini, dell´incontro internazionale tra intellettuali europei svoltosi a Ginevra nel 1946 – adesso edito da Quodlibet con il titolo Dove va la cultura europea?, per la cura di Luca Baranelli e con un´introduzione di Daniele Giglioli – è quella di un contrasto acuto tra la marcata lontananza dell´orizzonte postbellico, e anche dei protagonisti, e la singolare attualità di alcune notazioni del «critico nelle spoglie del cronista», come egli stesso si presenta. Notazioni profonde, nei confronti di un evento certo non anodino, come poteva essere il primo dibattito europeo dopo la sconfitta non solo del nazismo, ma per certi versi dell´intera l´Europa; ma insieme caustiche, espresse in punta di penna e senza reticenze diplomatiche, da parte di un "inviato" del calibro di Contini, appena reduce dalla lotta partigiana e anche da una personale esperienza di governo nella breve stagione repubblicana dell´Ossola, come ricordato nel libro in forma di intervista Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini (Mondadori 1989).
Sembra quasi di vedere, nello scenario svizzero ricostruito con incomparabile verve narrativa dall´autore, «l´erta canizie romantica» del «simpatico ed eruditissimo» Francesco Flora «fra le tante teste pettinate (come, molto affettata, la perdurante frangia ascetica di Benda)» o il contrasto, non solo di idee, tra Karl Jaspers, «gentiluomo altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero e grigio» e «il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampi?, la zazzera centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape». Il tutto non senza notare, da parte del critico-cronista, la vistosa carenza di italiani, rappresentati dal solo Flora, dal momento che Croce, alla notizia di una probabile "calata di Sartre", aveva esclamato «E allora che ci andiamo a fare ?». D´altra parte non c´era poi da sorprendersi che i francesi, veri padroni di casa, non avessero fatto ponti d´oro a coloro che, con Hitler quasi a Parigi, li avevano aggrediti alle spalle. Il che non toglie che Contini potesse legittimamente lamentare l´assenza non solo dei Moravia, degli Alvaro o dei Bacchelli, ma anche dei "giovani filosofi" Calogero e Capitini, Antoni e Bobbio, Luporini e Del Noce – tutti, ad eccezione degli ultimi due, della sua stessa provenienza azionista.
Davanti alle macerie ancora fumanti della guerra, a un anno dalla scoperta di Auschwitz e dall´esplosione di Hiroshima, la domanda intorno a cui ruotano le giornate di Ginevra non è poi tanto diversa da quella del primo Congresso degli scrittori antifascisti tenutosi alla Mutualité di Parigi nel giugno del ´35 (su cui si veda Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, a cura di Sandra Teroni, Carocci 2002). Dal resto il motivo della décadence europea era stato intonato da tempo, prima ancora che dai vari Husserl, Heidegger, Spengler, da un ispirato Valéry, all´epilogo dell´altra guerra, quando, all´interrogativo «Che cosa è, dunque, questa Europa», poteva già rispondere che essa «è una sorta di capo del vecchio continente, una appendice occidentale dell´Asia» in La Crise de l´esprit. Note (o L´Européen). Certo, rispetto ad allora un´orda di barbari aveva passato il Reno minacciando di travolgere una civiltà bimillenaria. E già s´intravedeva, tra i vincitori americani e russi, uno scontro di egemonia, foriero, se scatenato, di una catastrofe ancora peggiore. È in questo quadro incandescente e incerto che Contini esercita la propria critica affilata, prendendo debita distanza innanzitutto dal proposito, in quell´occasione un po´ goffo, prima ancora che reazionario, di tenere a riparo la cultura europea dal vento della politica.
Da qui, da questa opzione esplicita a favore di un impegno sobrio ma fermo, discendono tutti i suoi giudizi. Da quello, impietoso, per «l´ircocervo di sciocchezze, di logica e finezza victorhughiane» di Bernanos, «clown perfetto» con la sua «oratoria catastrofica di cassandra non inascoltata» a quello, rispettoso, nei confronti del marxista Lukács, nonostante la netta distanza ideologica che li separava; a quello, aperto ma perplesso, su Jaspers, ricco di pathos esistenziale, ma privo di coerenza interiore e di necessità speculativa. Ciò cui, contro le ipotesi totalizzanti di destra come di sinistra, Contini sembra piuttosto rimandare, nell´ora della ricostruzione, è il senso del limite e dell´equilibrio tra le polarità opposte che, nella loro dialettica, hanno costituito la risorsa profonda della storia europea – l´oscillazione continua tra ragione e fede, autorità e libera ricerca, ordine e rivoluzione. La stessa Resistenza, nella memoria freschissima dell´autore, si configura come una vicenda fatta di ingredienti diversi, ma non priva, nella sua vocazione al sacrificio, di un impulso religioso.
Ma perché l´Europa possa ancora attingere a quella fonte, apparentemente inaridita – questa mi pare la conclusione che possiamo trarre dalle terse pagine di Contini – deve rinnovare radicalmente, prima ancora che il rapporto con le potenze che la circondano, quello con se stessa. Non solo vincere il demone nazionalista che per troppo tempo ha portato dentro rischiando di farsene strangolare, ma anche ripensare a fondo la fatale categoria di sovranità, allargandola progressivamente dai confini dei singoli Stati a quello dell´intera comunità europea. Nella relazione di apertura dell´incontro di Ginevra (oggi interamente leggibile in rete) Julien Benda pronuncia parole che, a sessantacinque anni di distanza, non hanno perso nulla della loro pregnanza: «oggi l´idea di nazione sembra aver terminato la sua carriera, a favore dell´idea di Europa. Ma non facciamoci illusioni; non crediamo che tale idea trionferà naturalmente; sappiamo che essa troverà, da parte di quella che intende detronizzare, una forte opposizione e una resistenza tenace. La verità è che le nazioni, per fare veramente l´Europa, dovranno abbandonare, non certo tutto, ma qualcosa della loro particolarità in favore di un´entità più generale».

l’Unità 11.1.12
Le passioni fallite di Cartesio
Il romanzo storico di Raffaele Simone mette a fuoco gli ultimi mesi della vita del filosofo francese quando si recò in Svezia chiamato dalla regina Cristina. Un’esperienza che gli amareggiò il carattere e ne affrettò la morte
di Giulio Ferroni


Il romanzo scritto da Raffaele Simone (Le passioni dell’anima, Garzanti, settembre 2011, pp.318, €. 19,60), dopo tanti importanti lavori di linguistica e tanti saggi di ampio orizzonte filosofico e politico-culturale, non si confonde con i tanti romanzi di professori giunti al culmine della carriera, che abbandonano il tradizionale abito accademico per esibirsi in narrazioni narcisistiche, artificiose, esornative. Questo libro non mira a costruire un inutile monumento di sé, una misurazione di passioni e esibizioni personali, ma si rivolge alla vicenda storica di un grande filosofo del passato, il francese René Descartes (Cartesio il suo nome latinizzato), presenza determinante della cultura del Seicento europeo, che seppe dare alla filosofia un essenziale rilievo pubblico, aprendo la strada verso un modello di una razionalità pura, verso la moderna disposizione della ragione a misurare la realtà, a illuminare in modo chiaro e distinto ogni aspetto dell’esperienza.
Si seguono qui gli ultimi mesi della vita di Descartes, dal 1 settembre 1649, con la sua partenza dall’Olanda, a lungo sua dimora, il suo viaggio verso la Svezia (dove era stato chiamato dalla giovane regina Cristina di Svezia, desiderosa di apprendere la filosofia direttamente da lui) e le difficoltà del suo soggiorno nella gelida Stoccolma, fino alla sua morte, l’11 febbraio 1650, all’età di cinquantaquattro anni. Un romanzo storico, quindi, ma ben diverso dai tanti romanzi storici che vanno oggi di moda, perlopiù esteriormente attualizzanti, paradossalmente privi di senso storico: Simone fa parlare direttamente i personaggi, attraverso tutta una serie di lettere e frammenti di diario, che in parte riprendono documenti reali, in parte sono frutto di un’invenzione che rispetta l’orizzonte storico, il colore e il respiro del Seicento, qui tanto più lontano e tanto più remoto, in quanto dislocato tra i ghiacci di una Svezia per molti tratti ancora «barbarica», tra personaggi spesso insondabili ed enigmatici, come in primo luogo quella singolare regina (che peraltro negli anni successivi si convertì al cattolicesimo e visse tra varie traversie e manovre politiche, fino a passare la parte finale della sua vita a Roma, riunendo intorno a sé una piccola corte, da cui doveva poi scaturire l’accademia dell’Arcadia).
INTRECCI DI VOCI
L’intreccio tra la voce di Descartes e quelle dei vari personaggi con cui si trova in contatto è scandito da varie citazioni dell’ultimo trattato del grande filosofo, di cui del resto il romanzo ripete il titolo, Le passioni dell’anima: trattato apparso in Olanda alla fine del 1649, proprio quando l’autore ormai si trovava in Svezia. Simone si serve delle varie definizioni lì date dalle passioni, in termini di razionale rigore, per scandire le passioni che agitano e complicano la vita che si svolge intorno a Descartes, la realtà con cui egli viene ad incontrarsi o che vede insinuarsi dentro di sé. In quella dimora dislocata quelle passioni dell’anima non sono più oggetto di uno sguardo superiore e distaccato, ma vengono a configgere con la vita stessa dell’autore, a modificarne radicalmente le condizioni e il carattere. La vita del filosofo era votata tutta al pensiero e alla scienza: era riuscita esemplarmente a sottrarsi ai turbinosi conflitti del presente, fissandosi in un modello di razionalità pura, come in una scarnificata astrazione intellettuale; o almeno così se ne propagava il modello nella cultura europea (fino a lasciare echi e suggestioni ancora nel Novecento, come rivela l’epigrafe apposta da Paul Valéry al suo Monsieur Teste: «Vita Cartesii est simplicissima»).
LA CORTE SVEDESE
L’incontro con la corte di Svezia, con un mondo ostile ed estraneo, con le pretese e la volubilità della regina (poco accogliente in effetti, e ben presto delusa per il suo incontro col filosofo, costretto a recarsi da lei nel gelo delle cinque di mattina) viene come a mettere sotto assedio quel modello di vita, la stessa filosofia cartesiana, la sua percezione del mondo e dell’esistenza: e conduce al fallimento il sogno, che forse aveva motivato l’accettazione dell’invito regale, quel sogno che nel secolo successivo avrebbe animato la grande cultura illuministica, di un attivo rapporto della cultura con il potere, di un insediamento della ragione al vertice della vita statale.
Nel pieno rispetto della verità e della distanza storica, pur tra nuovi sguardi agli universi su cui il filosofo fuori del suo ambiente consueto era costretto ad affacciarsi, il libro di Simone offre una tesa immagine del confronto dell’esperienza intellettuale con il fallimento e con la fine: di come la vita simplicissima dello studioso venga ad esporsi alla contraddizione, ad un’invadenza delle passioni che ne mettono in questione il modello e la conducono al naufragio. La pura razionalità dello scienziato giunge qui ad affacciarsi sul proprio disgregarsi e contraddirsi: dietro la figura di Descartes si affaccia quella del suo contrario secentesco, don Chisciotte. Simone lo porta infatti a conoscere il personaggio di Cervantes per l’iniziativa di un pittore spagnolo che egli incontra a Stoccolma, che amichevolmente lo invita a tener conto dell’esperienza estetica, verso cui era di solito rimasto indifferente, e di tutto ciò che sfugge al controllo della ragione: e lo conduce a scoprire la contraddizione, il doppio, l’obliquità, la resistenza insondabile del reale.
UNA PROSA RIGOROSA
La prosa rigorosa e splendente di Simone procede con formidabile misura sintattica e si carica di suggestive tensioni, come catturando dentro di sé gli echi di quella contraddittoria realtà storica, l’eterogeneità delle voci che vengono messe in campo: voci che illuminano la figura del filosofo, dell’intellettuale totale, in tutte le sue sfumature, nell’ostinata fedeltà al proprio essere, nella più umile quotidianità, nella desolazione e nel senso di sconfitta, nel gelo della fine che man mano se ne si impossessa. Questo è un libro davvero raro e prezioso, antidoto alla banalità che domina le classifiche: parlando di un tempo lontano e della fine di un grande filosofo, ci parla anche di oggi, della solitudine dell’intellettuale, del fallimento del sogno di imprimere sulla realtà il sigillo della cultura e della ragione.

l’Unità 11.1.12
Processo a Galileo: atti in mostra


Tra codici, pergamene, manoscritti, anche gli atti del processo a Galileo: per la prima volta cento originali e preziosi documenti (dall’VIII al XX secolo) lasceranno l’Archivio vaticano per una mostra ai Musei Capitolini di Roma: «Lux in arcana. L’Archivio segreto vaticano si rivela», che spiega cos’è e come funziona l’Archivio dei Papi. Dal 1 marzo al 9 settembre.

l’Unità 11.1.12
Karl Marx: l’ombrello riscoperto
di Bruno Gravagnuolo


E bravo Andrea Tarquini, che sale al quarto piano dell’ Accademia berlinese delle scienze, al numero 22/23 della Jaegerstrasse. Dove si riedita l’opera completa di Marx ed Engels . E su Repubblica annuncia sconvolgenti novità. Tipo: il barbone diceva di non essere «marxista». Ma va! Che le Tesi su Feuerbach non erano parte dell’Ideologia tedesca, e che i fogli delle une e dell’altra furono destinate da Marx alla «critica roditrice dei topi». Sul serio? E poi che Marx aveva capito la crescente dipendenza dell’economia capitalista dal credito. Noo! Che studiava le scienze, e voleva la libertà di stampa, anche perché come giornalista si occupava di America, Russia, India, etc. Incredibile.
Altra rivelazione: la storia dei manoscritti in mano alla Spd. Poi in parte passati a Mosca sotto la direzione di Riazanov, e poi ancora nascosti ai nazi in Olanda, e ritornati nella Rdt dopo la guerra, per essere a poco a poco riversati nell’edizione completa interrotta da Stalin e Breznev. Ma insomma, è tutta roba arcinota. Mica c’era bisogno di andare nella Jaegerstrasse, per ripeterci tutte queste belle cose! E poi che modo è quello di fare giornalismo culturale, pubblicando a corredo un «inedito» (?) su «mercato, accumulazione e sfere di produzione», senza indicare collocazione, anno e provenienza?
Morale: Tarquini poteva sforzarsi un po’ di più nel farsi raccontare il seguito dei 114 volumi da rieditare. Intanto però accontentiamoci del già noto, che non è conosciuto, ma è attualissimo: Marx nel Capitale scrive che la finanza distrugge e volatilizza l’accumulazione capitalista. Che a sua volta ha bisogno della finanza, vi si mescola, per poi scaricare il tutto sullo stato e ripartire, dopo aver asservito e impoverito la società. A meno che i «proletari»... Ecco, ricominciamo di qui. Lo hanno capito persino i capitalisti ormai!

Corriere della Sera 11.1.12
Giovanni Amendola
La bestia nera del fascismo
Mussolini era convinto che Giovanni Amendola fosse il suo oppositore più ostinato e pericoloso
di Paolo Macry


Ci sono periodi, nella storia d'Italia, che richiedono dalla politica e dai politici un coraggio inusuale, perfino fisico. Era capitato ai giovani nazionalisti di metà Ottocento, cresciuti tra i miti letterari della patria oppressa e il pericolo delle forche asburgiche. E capiterà alla generazione di Giovanni Amendola, che vive i furori del 1915, poi le lacerazioni della guerra e infine la sfida violenta della «rivoluzione fascista». Tempi esigenti e rischiosi. Collaboratore della prezzoliniana «Voce» e poi del «Corriere della Sera» di Albertini, antigiolittiano, interventista, ministro del governo Facta, il liberale Amendola si espone nella lotta politica senza riserve, fino a pagarne il prezzo più alto. Aggredito più volte dagli squadristi, è vittima nel luglio del 1925 di un agguato particolarmente feroce, massacrato di botte, colpito al volto e alla testa. Ne morirà alcuni mesi dopo, a 44 anni, malgrado un paio di operazioni chirurgiche.
A differenza degli eroi risorgimentali, però, ad Amendola non basterà il martirio per guadagnarsi l'attenzione del Paese. Già negli anni Trenta, il regime ha fatto il vuoto intorno alle sue vittime. «Ben pochi di noi giovani — ricorderà Ruggero Zangrandi — intesero mai, in quell'epoca, anche solo pronunciare i nomi di Gramsci, Amendola e Gobetti». Né gli sarà prodigo di riconoscimenti un dopoguerra dominato da culture politiche — la comunista e la cattolica — che sono refrattarie al suo liberalismo democratico di ascendenza mazziniana. E neppure gli presteranno adeguata attenzione gli storici: non quelli di matrice gramsciana, non uno studioso liberale come Renzo De Felice, non i suoi allievi. Amendola rimane un personaggio poco studiato, anche perché viene usualmente coinvolto nel giudizio molto severo che la storiografia ha formulato sulla sconfitta della galassia liberale a opera del fascismo.
Ed è certamente vero, come ha scritto Giovanni Sabbatucci, che quei liberali prendono «un colossale abbaglio collettivo circa le vere intenzioni di Mussolini». Ma altrettanto vero è che gli spazi per un'opposizione costruttiva sono realmente stretti. Il fascismo non si limita al terrore delle squadre, ma sta mettendo radici nell'establishment e nella società: a fine 1923, per dirne una, il Pnf sfiora gli ottocentomila iscritti. E il Paese appare stanco ed «esige pace, ordine, continuità di governo», come ben comprende Amendola. Per altro, le fratture del quadro politico sono drastiche e incrostate dal tempo, al punto che Salvemini, ancora dopo la marcia su Roma, può dire di preferire Mussolini a Turati, mentre lo stesso Gobetti, nei mesi della crisi Matteotti, sembra temere soprattutto una «resurrezione di Giolitti». Per non parlare di Gramsci, il quale non trova di meglio che accusare Amendola di «semifascismo». È in questo quadro di debolezze reali e spaccature ideologiche che matura il fallimento dei liberali.
Ma poi è necessario distinguere. Non tutti dicono le stesse cose e non tutti si accorgono della minaccia con eguale ritardo. Se l'illusione di normalizzare il fascismo è molto diffusa, esistono pur sempre le mosche bianche. E Amendola appare diverso da una vecchia classe dirigente, la quale dapprima dialoga e talvolta collabora con Mussolini, intendendo usarlo in chiave antisocialista, e poi arriva a votare la sua devastante riforma elettorale. Ed è diverso, sebbene ne avverta l'influenza, anche da quel Nitti, che nel 1922 ha escluso categoricamente la possibilità di un «governo di reazione» e che sembra sottovalutare la violenza squadrista perfino all'indomani della devastazione della sua casa romana, avvenuta l'anno dopo. «Si tratta senza dubbio di una volgarità di bande irregolari», scriverà proprio ad Amendola.
Con altra intensità, Amendola è ostile al sovversivismo fascista. Lo attacca a più riprese e, nell'imminenza della marcia su Roma, spinge Facta a preparare il decreto sullo stato d'assedio, che poi il re non vorrà firmare. Più di altri sembra in grado di cogliere i caratteri della congiuntura e più precocemente vede la minaccia di una svolta di lungo periodo. Non aspetta le leggi speciali per definire il fascismo come «sistema totalitario», avvertendo gli illusi che non sarà «un incidente temporaneo», ed è consapevole che la morte annunciata delle libertà chiede un impegno politico straordinario e personalmente costoso. «La vita consueta — dirà a Croce — deve essere interrotta per dar luogo a un periodo di milizia».
Lui, la sua milizia, la sta portando avanti con fermezza. In risposta agli abusi delle elezioni del '24, minaccia l'abbandono della Camera e, poche settimane più tardi, reagisce al delitto Matteotti promuovendo con un centinaio di deputati la stagione controversa dell'Aventino. È un atto estremo, a forte caratura morale, ma Amendola non dimentica la politica. A fine '24, nel tentativo di mobilitare il Paese, fonda un nuovo partito, l'Unione nazionale. Poi, con grande coraggio, pubblica sul «Mondo», il suo quotidiano, quel memoriale di Cesare Rossi che accusa direttamente Mussolini per l'omicidio del leader socialista. Qualche mese dopo, propone a Croce di scrivere il Manifesto degli intellettuali antifascisti, in risposta a quello gentiliano degli intellettuali fascisti. Sebbene l'agibilità politica e fisica dell'opposizione sia ridotta ai minimi termini, continua una battaglia che sta diventando temeraria. Con lui, come con Matteotti, il fascismo non ha modo di usare il bastone e la carota. «Amendola era fatto di un'altra pasta», ha scritto Salvatore Lupo.
Paradossalmente, sarà poi Mussolini, durante le conversazioni avute con il giornalista Yvon de Begnac, a riconoscergli un ruolo del tutto particolare negli anni Venti e a smentire l'accusa di attendismo che, in seguito, gli avrebbero rivolto gli storici. Amendola, dice a un certo punto Mussolini, «non rimandava, come gli operaisti, la propria rivoluzione al consumarsi della rivoluzione nostra. Voleva muoverci guerra immediatamente». E ancora: «era il più forte avversario che il Paese potesse proporre, era la vera opposizione costituzionale al fascismo, era il solo italiano capace di opporsi alla rivoluzione dell'ottobre 1922».

Corriere della Sera 11.1.12
Ma Gramsci non è un maestro di liberalismo
di Giuseppe Bedeschi


Su l'Unità del 4 gennaio Giuseppe Vacca formula osservazioni di grande interesse a proposito di una recente affermazione del presidente della Repubblica. In un'appassionata riflessione sull'Europa, pubblicata sulla rivista Reset, Napolitano ha scritto: «Per comprendere e affrontare le sfide di un'economia di mercato globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche nel nostro Paese, la lezione di Luigi Einaudi può suggerire riflessioni molto stimolanti». Perciò Napolitano ha dato un giudizio severo sui «dogmatismi e schematismi» che, a seguito dell'incipiente guerra fredda, spensero nella sinistra la capacità di «distinguere le verità del "liberismo" einaudiano e più in generale dell'approccio ideale e politico liberale, nella varietà delle sue voci».
Nel suo commento su l'Unità Giuseppe Vacca approva senz'altro le affermazioni di Napolitano, ma, direi, con alcune significative restrizioni e precisazioni. Scrive infatti Vacca (e vale la pena di riportare per esteso le sue parole): «Non mi pare dubbio che Giorgio Napolitano si riferisca principalmente all'azione di governo di Einaudi ministro dell'Economia per un anno del primo governo centrista di De Gasperi. È l'Einaudi della stretta deflativa dell'estate 1947 che costò "lacrime e sangue" ai lavoratori e nella retorica delle sinistre divenne il primo atto della "restaurazione capitalistica". La ricerca storica ha fatto giustizia di quel giudizio: la manovra economica di Einaudi spense la divorante inflazione, diede impulso agli investimenti industriali e stabilizzò la moneta consentendo all'Italia (...) di creare le premesse per cui (...) poté avere inizio quella straordinaria stagione di riforme che consentì la creazione di una moderna "economia mista", di concorrere alla nascita della Cee e di gettare le basi del successivo "miracolo economico"». Queste considerazioni di Vacca sulla politica economica einaudiana del dopoguerra mi sembrano senz'altro condivisibili, e, certo, fa piacere che la cultura postcomunista getti alle ortiche gli aspri giudizi che il Pci (e il Psi) diedero sulla «manovra Einaudi» del 1947. Fa tanto più piacere in quanto ancor oggi si leggono, in storie della «prima Repubblica» redatte da studiosi di sinistra, le stesse condanne che vennero formulate allora, nel 1947, verso l'azione di Einaudi.
Detto questo, però, a me pare che l'interpretazione che Vacca dà delle affermazioni di Napolitano in qualche misura le depotenzi e le limiti fortemente. A me sembra infatti che il presidente della Repubblica abbia voluto fare qualcosa di più che rivalutare la «manovra Einaudi» del 1947: egli ha voluto dire che «l'approccio ideale e politico liberale, nella varietà delle sue voci», è una strumentazione concettuale fondamentale per orientarsi negli enormi problemi del mondo di oggi, e per affrontarli. Cioè ha fatto una riflessione assai più ampia e di più largo respiro.
Del resto colpisce che, nel corso del suo articolo, Vacca senta il bisogno di riesumare la distinzione «fra il liberismo come politica economica e il liberismo come bandiera ideologica agitata propagandisticamente per nascondere determinati propositi e interessi». E per suffragare meglio tale distinzione Vacca cita una nota dei Quaderni del carcere di Gramsci, in cui il pensatore sardo afferma che «anche il liberismo è una "regolamentazione" di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione spontanea, automatica del fatto economico». Pertanto, conclude Gramsci, anche il liberismo «è un programma politico».
Su queste osservazioni del pensatore sardo si può, io credo, convenire senz'altro. Infatti non c'è liberismo (liberalismo economico) senza Stato liberale: teorici liberali come Einaudi o come von Hayek lo sapevano benissimo, com'è ovvio, e attribuivano un'importanza fondamentale, in primo luogo, alla legislazione antimonopolistica.
E tuttavia, detto ciò, colpisce, come ho già rilevato, che volendo rivalutare (a sinistra) Einaudi e il liberalismo, Vacca a un certo punto invochi Gramsci. Perché, certo, c'è molto da apprendere da questo eminente pensatore, ma una cosa è sicura: che in tutta la sua opera egli ha criticato nel modo più acerbo Luigi Einaudi. In un acuminato articolo del 1919 (intitolato Einaudi o dell'utopia liberale) Gramsci scriveva: «Einaudi rimarrà nella storia economica come uno degli scrittori che più hanno lavorato a edificare sulla sabbia. Serio come un bambino che s'interessa al gioco, ha tessuto un'infinita tela di Penelope che la crudele realtà gli ha continuamente disfatto. (...) La verità è che la scienza economica liberale ha solo la parvenza della serietà, e il suo rigore sperimentale non è che una superficiale illusione». Dunque Gramsci può certo insegnarci molte cose, ma non ci dà gli strumenti concettuali per intendere Einaudi e il pensiero liberale.

Corriere della Sera 11.1.12
Da Pico a Ermete Trismegisto la lunga cavalcata della magia
Aria di apocalisse e segreti nell'ultimo romanzo di Martigli
di Roberta Scorranese


Millequattrocentonovantasette: Firenze brucia. Bruciano le vanità dei ricchi, i gioielli e le stoffe pregiate, bruciano i libri e gli eretici, i malati e i ribelli. Ossuto e rauco, fra' Savonarola terrorizza le folle annunciando un inferno incombente, purificatore, mentre a Roma i Borgia proliferano nella loro garantita lussuria, protetti da forze inspiegabili. Ma, come all'epoca andava ripetendo l'inquieto Marsilio Ficino, «la natura della bellezza è nella verità». Così nella Firenze dei roghi sta arrivando un terribile (nel senso di «portentoso») segreto. Un'epifania che sconquasserà il ventre della cristianità potente e corrotta.
Definirlo il «Dan Brown di casa nostra» sarebbe fuorviante: Carlo A. Martigli (la A sta per Adolfo) difficilmente cede alle furbizie romanzesche e agli effetti speciali, cari al thriller esoterico. Per una ragione precisa: sa bene che basta la nuda storia di Pico della Mirandola e delle sue tesi, o la leggenda di Gesù tramandata in Tibet a comporre uno straordinario affresco, teso e drammatico. Ecco perché nel suo ultimo romanzo, L'eretico, non si troveranno facili incursioni nel contemporaneo, eroi inverosimili o pressappochismi da editing frettoloso. Ma si troveranno tracce di lunghi anni trascorsi a studiare la vicenda di Pico e del suo sogno di una religione unificata; si vedrà la passione di un uomo poliedrico che passa dall'arte alla scienza, dosando una difficile ambizione: essere tante cose insieme.
O tutte? Come ordiva il bellissimo Giovanni Pico, conte di Mirandola, pronto a sguainar la spada per difendere un amore o un'idea. E Martigli riparte proprio da lui, riallacciandosi al suo precedente racconto, 999 L'ultimo custode (Castelvecchi), incentrato sull'eresia delle 99 tesi perdute di Pico, rivelatrici di segreti inconfessabili e letali per il potere temporale e spirituale della Chiesa. L'eretico si apre invece con lo scenario successivo alla morte del conte, avvenuta per avvelenamento: Savonarola tiene sotto scacco Firenze e i poteri forti, la cristianità si arrocca sull'esercizio dispotico di una sovranità temporale che ha allontanato la dinastia dei Medici e si nutre della corruzione del papato. In segreto, l'eredità di Pico è nelle mani di Ferruccio de Mola, discendente di Jacques de Molay, l'ultimo dei Templari.
Fin qui, siamo nell'ordinario filone esoterico. Ma Martigli fa un passo avanti, che è insieme vigore e elemento di rischio per il romanzo: intreccia le vicende occidentali con quelle orientali e inserisce il lungo cammino di due monaci che dal Tibet stanno portando con sé il racconto di una rivoluzionaria vita di Gesù (o Issa), quella degli Ipsissima Verba, fatta di un profeta che attraversa avventure terrene, vive a contatto con bizzarri mercanti siriani, va incontro a una fine misteriosa ed equivoca. E sposta l'asse verso la politica del sultano turco, apparentemente pronto ad appoggiare una rivolta libertaria nel centro Italia. Risultato: quasi 500 pagine che miracolosamente (anzi: meravigliosamente, nel senso della «meraviglia» primitiva di Giordano Bruno) non si traducono in un insopportabile polpettone eso-misterico, ma in racconto robusto, vivo.
L'esoterismo di Martigli è da prendere alla lettera: «riservato agli iniziati». Perché chi si muove a proprio agio nel mondo di Papus (mago e medico francese) e dei Rosacroce, di Ermete Trismegisto e del Tempio di Salomone, «berrà» questo mezzo migliaio di pagine con una golosa piacevolezza. Per il pubblico essoterico, dei non iniziati, resta il fascino di una rigorosa ricostruzione storico-sociale dell'epoca (notevoli le immagini sulla crudezza delle flagellazioni), della scoperta di un Gesù completamente diverso da quello a cui siamo abituati. E anche di un mondo, quello di fine '400, inaspettatamente globalizzato, in cui Oriente e Occidente dialogano.
Si perdonerà quindi qualche sparuta cedevolezza allo spirito della fiction letteraria, come quella che ci mostra un inverosimile, quasi comico, Savonarola che si apposta dietro una colonna, pronto a trame malefiche (ma perché?).
Mezzo ligure e mezzo toscano, Martigli ha fatto il giornalista, ha studiato filosofia del diritto e abbandonato una carriera ai vertici di una famosa banca per mettersi a scrivere. Una lunga gavetta paziente fatta di libri per ragazzi, di saggi sui miracoli delle religioni non cattoliche. Una dedizione, la sua, compensata da un inatteso successo in classifica (oltre centomila copie vendute in Italia con 999 L'ultimo custode), che ha favorito il passaggio alla Longanesi, il cui battesimo avviene proprio con L'eretico. La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un autore che si muove a proprio agio nel mondo narrativo che ha scelto. Memore forse delle parole del nolano Bruno: «La materia dell'arte è una cosa formata già della natura».
Il libro di Carlo A. Martigli «L'eretico», editore Longanesi, pp. 491, 17,60