venerdì 13 gennaio 2012

l’Unità 13.1.12
Radicali decisivi nel voto in Aula Nuova rottura con il gruppo Pd
Con i sei voti radicali, Cosentino sarebbe andato in carcere per un voto di differenza. Rosy Bindi li accusa di scorrettezza. Enzo Carra rincara la dose. Ma i loro voti erano già contati alla vigilia tra i contrari all’arresto
di Claudia Fusani


Sei voti «determinanti» punta il dito il presidente del Pd Rosi Bindi contro la pattuglia radicale. «Ancora una volta sono stati scorretti, se avessero votato con noi le cose oggi sarebbe andate in maniera diversa» insiste.
Sei voti decisivi. Se i sei deputati radicali avessero votato a favore dell’arresto di Cosentino, secondo le indicazioni del Pd, i sì sarebbero stati 304 e i no 303. Il deputato di Casal di Principe sarebbe cioè andato in cella per un voto.
Ma non inaspettati. I sei voti radicali, infatti, erano già contati mercoledì sera, alla vigilia del voto, nel monte dei 298 voti a disposizione dell’ex coordinatore del pdl campano. Il punto quindi è capire da quale banco dell’emiciclo sono arrivati gli altri undici voti in più.
Tutto si può dire ma non che il no dei Radicali fosse inaspettato. Maurizio Turco, membro della Giunta per le autorizzazioni, è uno dei più profondi conoscitori del caso Cosentino e di Gomorra di Casal di Principe. E questa volta, così come nel dicembre 2009, Turco non ha mai avuto dubbi: «Cosentino potrà anche essere il referente politico nazionale dei casalesi» è la sintesi del suo ragionamento «ma questo non viene fuori dalle carte». E di carte Turco ne ha lette tante in questi anni. Non solo quelle arrivate in Giunta: si è procurato libri e più che altro gli atti dei processi Spartakus 1, 2 e quello al boss «Sandokan» Schiavone. Come se non bastasse, si è messo anche a seguire le udienze del processo in corso a Santa Maria Capua a Vetere dove Cosentino è imputato per associazione mafiosa, voto di scambio e altri favori ai clan.
Una scelta, quindi, fatta in piena coscienza che ha convinto anche gli altri cinque deputati radicali, Rita Bernardini, Matteo Mecacci, Farina Coscioni, Marco Beltrandi e Elisabetta Zamparutti. «Cosentino è già a processo. Il dibattimento è già incardinato. vediamo cosa succede. Che senso ha arrestarlo?» ha insistito Turco. E poi parole destinate soprattutto ai compagni di maggioranza, i deputati del Pd seduti lì sotto: «I Radicali non condividono le tesi della maggioranza. Noi non giudichiamo gli altri e voi non giudicate noi. Non criminalizzate decisioni diverse da quelle del conformismo imperante».
Non basta per evitare gli strali che subito dopo il voto si scatenano sulla pattuglia radicale. Quelli di Rosi Bindi, prima di tutto. E quelli di Enzo Carra: «Con il voto di oggi i radicali hanno contribuito a strappare Cosentino dal regolare corso della giustizia. Si tratta di una scelta scorretta e gravissima».
I Radicali hanno votato a favore dell’arresto di Papa, Milanese e Angelucci. Ma lo scontro più grosso con il Pd è stato il giorno del voto sul rendiconto di bilancio. Quando furono, allora sì, decisivi per far scattare il quorum che salvò ancora per un mese Berlusconi.

il Fatto 13.1.12
Parlamento malato
di Furio Colombo


Un deputato come noi”. Così l’on. Contento, a nome di tanti, ha concluso alla Camera la sua appassionata arringa in difesa dell’on. Nicola Cosentino, imputato (leggo dalle carte processuali) “di concorso in falso in atti pubblici, di concorso in falso bancario, di concorso nel tentativo di reimpiego di denaro di illecita provenienza, tutti reati aggravati dall’essere stati commessi per favorire le organizzazioni camorristiche di Casal di Principe”. È il ritratto perfetto.
Non di Cosentino, di cui la magistratura di Napoli chiede invano l’arresto. È il ritratto del Parlamento, che infatti è scattato in un applauso scrosciante, quando ha saputo che la Camera ha rifiutato l’arresto e vuole libero il suo camorrista.
È stato un applauso lungo, di vendetta e furore, come quando le donne di Napoli si precipitano in strada per strappare i loro uomini alla Polizia che li sta ammanettando.
A chi dici, a chi spieghi che la Camera dei deputati non è tutta così? Cosentino è restato o no, rispettabile, servito, se necessario, dai commessi, seduto in alto a destra in questa Camera del Parlamento della Repubblica, per volontà della maggioranza dei suoi deputati? Più in basso, vediamo vari imputati a piede libero (il più vistoso e imponente è l’on. Verdini) voltati verso la loro parte come direttori dell’orchestra e del coro.
Signore e signori, c’è poco da sbracciarsi a chiarire: il Parlamento è questo, e per forza non può avere rispetto. È un corpo malato che giace inerte immobilizzando e umiliando la Repubblica. E non serve che molti di noi ripetano: siamo perbene. Hanno vinto loro, anche ieri.
Ps: i sei voti radicali per Cosentino pesano, disorientano e portano tristezza. Tortora era innocente, non era un camorrista al potere. Tutta un’altra storia.

il Fatto 13.1.121
Ci pensano Bossi e i Radicali a salvare Cosentino
Alla Camera 309 deputati contrari 298 favorevoli
di Paola Zanca


Sul banco da deputato ha un farmaco contro l'influenza. È senza voce, febbricitante. Ma contro la tosse insistente che gli ha rovinato la giornata, per Roberto Maroni non c'è medicinale che tenga. Il primo attacco gli è venuto poco prima di entrare in Aula a votare sull'arresto di Nicola Cosentino. Non sapeva ancora come sarebbe andata a finire ma il groppo in gola è arrivato in anticipo. Marco Milanese, il deputato Pdl che al carcere preventivo è sfuggito quest'estate, lo ha braccato per una ventina di minuti. Ha provato in tutti i modi a convincerlo che mandare in galera un collega non ha senso, che i giudici non hanno prove contro di lui, lo vogliono solo far parlare. Ma l'ex ministro dell'Interno non ha cambiato idea.
VOTA SÌ, e lo fa con il dito indice, lo stratagemma che rende palese il voto. Ma è il solo a farlo: sui 309 che hanno detto no all'arresto del coordinatore del Pdl campano resterà il segreto. L'unica certezza è che tra loro ci sono i sei radicali. E che sono stati determinanti. Senza il loro “no”, ora, Cosentino sarebbe in carcere. “Scorretti”, li bolla Rosy Bindi, presidente del Pd, il partito entro le cui liste sono stati eletti. “Inaccettabile”, replicano i Radicali, che le nostre scelte siano “criminalizzate” solo perché “diverse” dal “conformismo imperante”. Su loro cala la rabbia, ma non il mistero: attorno ai 51 voti che hanno salvato Cosentino (al di fuori di Pdl, Responsabili, Noi Sud e parte del gruppo misto), invece, è un fiorire di congetture. Sicuramente lì dentro c'è la Lega, ma il peso che il Carroccio ha avuto nella decisione è tutto da vedere. Luca Paolini dice che ci sono almeno 25/30 camicie verdi che hanno votato “no”, come lui del resto: “Sono molti quelli che non se la sono sentita di dire sì alle manette. Molti di più di quelli che si vogliono far credere”. Avrebbero riflettuto sulle parole che Umberto Bossi (che al voto non si è fatto vedere) ha pronunciato solo poco prima, in una riunione convocata alle 11. A dir la verità, mentre Paolini illustra in Aula la sua arringa in difesa di Cosentino (cita perfino Mastella, per un leghista un tempo sarebbe stata un'eresia) dai banchi del Carroccio applaudono in pochissimi. Lui è di spalle, non vede i suoi compagni di partito, sente solo battere le mani. A un certo punto lo sveglia Roberto Simonetti: “Coglione! Non lo vedi che ti applaude solo il Pdl? ”. Maroni non alza la testa dal suo I-Pad. È visibilmente nervoso, dice che la base non capirà. Lo trattano da sconfitto, ma i suoi raccontano un'altra storia: “Cosentino l'hanno salvato i reguzzoniani (dal nome del capogruppo fedelissimo di Bossi, ndr) I nostri 'no' sono stati 42”. Quindi, chi lo ha salvato Cosentino? “I voti sono arrivati dall’Udc e dal Pd’', accusa Maroni in persona. Si sarebbero spaventati, spiegano dietro le quinte, perchè avevano paura che con l'arresto il Pdl avrebbe staccato la spina al governo Monti (lo aveva minacciato Fabrizio Cicchitto solo l'altro ieri). Casini e Bersani negano con forza: noi siamo stati compatti.
A MONTI, in verità, pare che del voto su Cosentino non interessi un granché. I banchi del governo, pieni fino a un paio di ore prima per l'informativa “europea” del premier, sono stati deserti per tutto il resto della seduta. Quelli del Pdl, al contrario, si sono riempiti solo quando Monti se n'è andato. Berlusconi è arrivato qualche minuto prima che si aprisse la votazione. Non ha partecipato alla processione di abbracci e pacche sulle spalle che ha sfilato per due ore sotto allo scranno di Cosentino quando ancora non si sapeva che fine avrebbe fatto: Amedeo Laboccetta, Bruno Cesario, Mariastella Gelmini, Nunzia De Girolamo, Maria Rosaria Rossi, Claudio Scajola, Francesco Pionati. Al microfono si sperticano le sue lodi: “Nicola Cosentino, eterno indagato mai processato”, dice il Pdl Maurizio Paniz. “Noi siamo amici di Nicola Cosentino”, scandisce Arturo Iannaccone di Noi Sud. Poi Gianfranco Fini dichiara aperta la votazione. Si alzano le mani di chi ha problemi con la tessera elettronica. Urlano “Io! ” “Qui! ”. In ballo c'è la libertà del loro collega. “Onorevoli colleghi, calma! C'è tutto il tempo! ”, si stupisce il presidente della Camera. Poi il tabellone si accende: 309 no, 298 sì. L'ex detenuto Alfonso Papa, che in Parlamento è tornato da due giorni, si commuove e corre ad abbracciarlo. Quattro deputati campani escono dall'Aula gongolando: “Anna' passà sul nostro cadavere! ”. Un altro capannello attorno a Denis Verdini: “Adesso che abbiamo i numeri possiamo tornare”. Roberto Maroni esce quasi per ultimo. Dice: “Non so se l’elettorato della Lega capirà”. Poi si allontana: “Scusate, sono senza voce”.

il Fatto 13.1.12
Da Radio Padania e Radicale
La base gli dice “venduti” e urla “vergogna”
di Elisabetta Reguitti


Chi l’avrebbe detto? Militanti radicali e leghisti insieme, uniti nella lotta nel-l’insulto dopo il “no” della Camera all’arresto di Cosentino. Lanciano improperi ai rispettivi leader di partito. Frasi “contro” pronunciate all’unisono rimbalzate ieri dalle frequenze di Radio Radicale così come da Radio Padania.
I leghisti, per la verità, stravincono per la qualità delle pittoresche frasi con le quali hanno dato del “venduto” al loro capo massimo Umberto Bossi come Franco da Bergamo che ha poi aggiunto un elegante: “Buffoni”.
Più diplomatici i radicali nella loro danza del malcontento. “Vergogna” scrive un utente. E ancora “vero che adesso Cosentino vi permetterà di trasmettere stereo in Campania? ” oppure ancora “complimenti, avete iniziato bene il 2012”, siete disgustosi”.
L’apice della prosa padana è però: “Il salvataggio di un altro mafioso! Stronzi, non vi voterò più” che farebbe il paio con il Giulio-pensiero da Milano che domanda: “Cosentino è un altro rospo per il federalismo? ” Ma torniamo alle voci. Carlo da Brescia irrompe sul conduttore di Che aria tira (costretto a difendere il voto-salvagente degli onorevoli leghisti). “Cosentino era da arrestare. Come capiterebbe a tutti gli altri poveri cristi. Altro che privilegio perché è un parlamentare”. Da Varese un giovane padano non ha dubbi: “Avete salvato un altro camorrista nonostante aveste letto le carte”.
Il commento suscita la reazione del “sobrio” conduttore di Radio Padania che chiede: “Scusi ma se vengo a cena con lei che è uno stronzo, divento uno stronzo pure io? ” (inteso come curioso caso di transfert visto che Cosentino sarebbe, tra l’altro, andato a cena con mafiosi).
Che il dissenso non fosse gradito in Lega era chiaro già da tempo ma ieri, in diretta radio, i militanti contrari alla scelta di “coscienza” per il non-arresto di Cosentino, uscita da via Bellerio (un cambio di indicazione avvenuto alla vigilia del voto, voluto dal “cerchio magico” e annunciato dallo stesso Bossi) si sono presi in ordine, prima dell’ignorante e poi del cretino.
Povera Lega salvata dal satellite (che secondo il conduttore ieri non funzionava bene) in grado però di interrompere quel rosario di parolacce. Solo Ciro da Napoli riesce a dire: “Ringrazio Bossi e il trota per aver salvato Cosentino”. Il partenopeo si prende del “cefalo” dal giornalista della radio padana che, alla fine, dopo avere trascorso un pomeriggio in difesa finalmente abbassa la guardia e stremato ammette: “Io sono solo contento che i vari Papa, Cosentino e Tedesco non facciano parte della Lega”. Ma come? Non erano solo degli onorevoli perseguitati dalla magistratura?

Corriere della Sera 13.1.12
Il sotterraneo mercato delle indulgenze
di Giovanni Bianconi


È andata com'era prevedibile andasse dopo l'indicazione del capo leghista Umberto Bossi, che pare aver ricompattato — a parte la fronda maroniana e qualche smagliatura  nei rispettivi schieramenti — l'ex maggioranza che sosteneva il governo Berlusconi.
Con una decisione presa più al mercato della politica che valutando la singola vicenda giudiziaria di un deputato inquisito per camorra; ciò che era immaginabile alla vigilia, l'ha dimostrato  il dibattito parlamentare che ha accompagnato il voto.
Chi ha detto no all'arresto dell'onorevole Cosentino, magari dopo aver detto sì in Giunta, poteva almeno provare a dimostrare che c'era un po' di fumus persecutionis nella seconda richiesta dei magistrati. Non limitarsi a dirlo come fosse, quello sì, un «teorema», magari citando più o meno a sproposito le poco comparabili vicende di Strauss-Kahn o di Enzo Tortora. Il quale, peraltro, fu eletto al Parlamento europeo nelle liste radicali dopo essere finito ingiustamente in carcere, non prima, e si dimise dalla carica pur di affrontare i suoi giudici al pari di un cittadino qualunque; ogni paragone con la vicenda Cosentino, per rispetto di tutti, sembra davvero improponibile. La Camera era chiamata a stabilire se la richiesta di cattura fosse commisurata alla gravità delle accuse mosse al parlamentare (fondate non solo su dichiarazioni di pentiti e intercettazioni, ma anche su fotografie e pedinamenti di chi utilizzava i «buoni uffici» dell'uomo politico considerato il «referente politico» del clan dei Casalesi), come se si trattasse di un indagato qualunque; oppure se, al contrario, ci sia stato nei suoi confronti un particolare accanimento derivante proprio dalla sua attività politica e dal ruolo che ricopre. Insomma, Cosentino perseguitato politico: per bizzarro che possa apparire, è quel che ha proclamato l'assemblea di Montecitorio. Qui non si tratta di recriminare perché una persona, deputato o meno, non è andata in galera prima dell'eventuale condanna. Anzi. Buon per Cosentino che l'ha scampata, a differenza del suo collega Papa che ha dovuto pagare lo scotto di un altro momento politico, di altre strategie e altri messaggi che la Lega volle mandare all'interno della ex maggioranza. Il mondo perfetto sarebbe quello dove la carcerazione preventiva non avesse ragione di esistere. Ma quel mondo purtroppo non c'è. E quello in cui ci tocca vivere sarebbe forse un po' meno imperfetto se un parlamentare indagato per concorso con la camorra non riuscisse a evitare l'arresto solo perché un gruppo di pari grado politicamente schierati dalla sua parte decidono di non mandarcelo, a differenza degli altri indagati nello stesso procedimento. Questo, invece, è quel che è accaduto. Un rappresentante del Pdl, di professione avvocato, s'è lanciato in un'arringa difensiva in cui ha sostenuto che sul conto di Cosentino non ci sarebbe l'ombra di una prova, mentre altri personaggi coinvolti «sono effettivamente delinquenti». Alla faccia del garantismo. Qui la vera garanzia che sembra essere scattata non è quella, sacrosanta, dell'inquisito Cosentino che ha diritto al giusto processo e prima a un'indagine svolta nel rispetto delle regole, bensì quella dell'onorevole Cosentino che ha potuto approfittare di una ricomposizione politica decisa per motivi e prospettive che poco o nulla hanno a che vedere con la sua posizione giudiziaria. Tutto questo non fa bene all'immagine della politica, e rischia di allontanare ancora di più i cittadini da chi rappresenta le loro istituzioni; i sondaggi televisivi di ieri, per quanto valgono, lo fanno già intendere. Non solo. Il voto di ieri rischia di riproporre l'estenuante e asfissiante conflitto tra politica e magistratura, che si sperava potesse finalmente superarsi col cambio di governo. Per come è maturata, la decisione della Camera che per la seconda volta ha negato l'arresto dell'indagato-onorevole Cosentino suona pure come una sfida ai pubblici ministeri e ai giudici che l'avevano sollecitato. E sa molto di delegittimazione.

Repubblica 13.1.12
Il patto scellerato
Io so quali sono i suoi interessi, quelli che sono più remunerativi del danaro perché portano obbedienza
Onorevole Cosentino, lei per me è colpevole di cose che vanno al di là della fedina penale
di Roberto Saviano


Non tiri un sospiro di sollievo, Onorevole Cosentino, trattenga ancora il fiato. Non creda che questa congiura dell´omertà che si è frapposta tra lei e le richieste della magistratura, possa sottrarla dal dovere di rispondere di anni di potere politico esercitato in uno dei territori più corrotti del mondo occidentale. Non tiri un sospiro di sollievo, Onorevole Cosentino, perché quel fiato non dovrà usarlo solo per rispondere ai giudici. Il fiato che risparmierà lo deve usare per rispondere a chi ha visto come lei ha amministrato – e lo ha fatto nel peggiore dei modi possibile – la provincia di Caserta, plasmando una forma di contiguità, i tribunali diranno se giudiziaria ma sicuramente culturale, con la camorra.
Onorevole Cosentino, per quanto ancora con sicumera risponderà che le accuse contro di lei sono vacue accuse di collaboratori di giustizia tossicodipendenti. I pentiti non accusano nessuno, dovrebbe saperlo. I pentiti fanno dichiarazioni e confessioni; i pm ne riscontrano l´attendibilità ed è l´Antimafia a formulare l´accusa, non certo criminali o assassini. Lei, ribadisco, non è accusato da pentiti, lei è accusato dall´Antimafia di Napoli.
Ma anche qualora i tribunali dovessero assolverla, lei per me non sarebbe innocente. E la sua colpevolezza ha poco a che fare con la fedina penale. La sua colpa è quella di avere, per anni, partecipato alla costruzione di un potere che si è alimentato di voti di scambio, della selezione dei politici e degli imprenditori peggiori, il cui unico talento era l´attitudine al servilismo, all´obbedienza, alla fame di ricchezza facile. Alla distruzione del territorio. La ritengo personalmente responsabile di aver preso decisioni che hanno devastato risorse pubbliche, impedito che nelle nostre terre la questione rifiuti fosse gestita in maniera adeguata. Io so chi è lei: ho visto il sistema che lei ha contribuito a produrre e a consolidare che consente lavoro solo agli amici e alle sue condizioni. Ho visto come pretendevate voti da chi non aveva altro da barattare che una "x" sulla scheda elettorale. Sono nato e cresciuto nelle sue terre, Onorevole Cosentino, e so come si vincono le elezioni. So dei suoi interessi e con questo termine non intendo direttamente interessi economici, ma anche politici, quegli interessi che sono più remunerativi del danaro perché portano consenso e obbedienza. Interessi nella centrale di Sparanise, interessi nei centri commerciali, nell´edilizia, nei trasporti di carburante, so dei suoi interessi nel centro commerciale che si doveva edificare nell´Agro aversano e per cui lei, da quanto emerge dalle indagini, ha fatto da garante presso Unicredit per un imprenditore legato ad ambienti criminali.
Onorevole Cosentino, per anni ha taciuto sul clan dei casalesi e qualche comparsata ai convegni anticamorra o qualche fondo stanziato per impegni antimafia non possono giustificare le sue dichiarazioni su un presunto impegno antimafia nato quando le luci nazionali e internazionali erano accese sul suo territorio. Racconta che don Peppe Diana sia suo parente e continua a dire essere stato suo sostenitore politico. La prego di fermarsi e di non pronunciare più quel nome con tanta disinvoltura. È un uomo già infangato per anni, i cui assassini sono stati difesi dal suo collega di partito Gaetano Pecorella, peraltro presidente della commissione bicamerale sulle ecomafie e membro della Commissione Giustizia. Perché non è intervenuto a difendere la sua memoria quando l´Onorevole Pecorella dichiarava che il movente dell´omicidio di Don Diana "non era chiaro" gettando, a distanza di anni, ancora ombre su quella terribile morte? Come mai questo suo lungo silenzio, Onorevole Cosentino? Sono persuaso che lei sappia benissimo quanto conti questo silenzio. È il valore che ha trattato in queste ultime ore con i suoi alleati politici. È questo suo talento per il silenzio a proteggerla ora. E´ scandaloso che in Parlamento si sia riformata una maggioranza che l´ha sottratta ai pubblici ministeri. Ma in questo caso nessuno, nemmeno Bossi - anche al prezzo di spaccare la Lega- poteva disubbidire agli ordini di un affannato Berlusconi.
Perché lei, Onorevole Cosentino, rappresenta la storia di Forza Italia in Campania e la storia del Pdl. E lei può raccontare, qualora si sentisse tradito dai suoi sodali, molto sulla gestione dei rifiuti, e sulle assegnazioni degli appalti in Campania. Può raccontare di come il centro sinistra con Bassolino, abbia vinto le elezioni con i voti di Caserta e come magicamente proprio a Caserta il governo di centro sinistra sia caduto due anni dopo. Lei sa tutto, Onorevole Cosentino, e proprio ciò che lei sa ha fatto tremare colleghi parlamentari non solo della sua parte politica. Sì perché lei in Campania è stato un uomo di "dialogo". Col centro sinistra ha spartito cariche e voti. Onorevole Cosentino, so che il fiato che la invito a risparmiare in questo momento lo vorrebbe usare come fece con Stefano Caldoro, suo rivale interno alla presidenza della Regione. Ha cercato di far pubblicare dati sulla sua vita privata. Ha cercato di trovare vecchi pentiti che potessero accusarlo di avere rapporti con le organizzazioni criminali. Pubblicamente lo abbracciava, e poi lanciava batterie di cronisti nel tentativo di produrre fango. Onorevole Cosentino, so che in queste ore sta pensando a quanti affari potrebbe perdere, all´affare che più degli altri in questo momento le sta a cuore. Più del centro commerciale mai costruito, più dei rifiuti, più del potere che ha avuto sul governo Berlusconi. Mi riferisco alla riconversione dell´ex aeroporto militare di Grazzanise in aeroporto civile. Si ricorda la morte tragica di Michele Orsi, ammazzato in pieno centro a Casal di Principe? Si ricorda la moglie di Orsi cosa disse? Disse che lei e Nicola Ferraro eravate interessati alla morte di suo marito. Anche in quel caso ci fu silenzio. Michele Orsi aveva deciso di collaborare con i magistrati e stava raccontando di come i rifiuti diventano soldi e poi voti e poi aziende e poi finanziamenti e poi potere.
Lei si è fatto forte per anni di un potere basato sull´intimidazione politica e mi riferisco al sistema delle discariche del Casertano che a un solo suo cenno avrebbero potuto essere chiuse perché la maggior parte dei sindaci di quel territorio erano stati eletti grazie al suo potere: il destino della monnezza a Napoli - cui tanto si era legato Berlusconi - era nelle sue mani. Onorevole Cosentino, non tiri un sospiro di sollievo, conservi il fiato perché le assicuro che c´è un´Italia che non dimenticherà ciò che ha fatto e che potrebbe fare. Non si senta privilegiato, non la sto accusando di essere il male assoluto, è solo uno dei tanti, ahimè l´ennesimo.
Lei per me non è innocente e non lo sarà mai perché la camorra che domina con potere monopolistico ha trovato in lei un interlocutore. Non aver mai portato avanti vere politiche di contrasto, vero sviluppo economico in condizioni di leale concorrenza e aver difeso la peggiore imprenditoria locale, è questo a non renderle l´innocenza che la Camera dei Deputati oggi le ha tributato con voto non palese. Onorevole Cosentino prenderà questo atto d´accusa come lo sfogo di una persona che la disprezza, può darsi sia così, ma veniamo dalla stessa terra, siamo cresciuti nello stesso territorio, abbiamo visto lo stesso sangue e abbiamo visto comandare le stesse persone, ma mai, come dice lei, siamo stati dalla stessa parte.

Repubblica 13.1.12
Monti prepara l´incontro con il Papa ecco la rete del Professore in Vaticano
Da Bagnasco a Bertone, i contatti favoriti dal "gruppo di Todi"
Il premier non gli bacerà l’anello né s’inginocchierà davanti al Pontefice
Gode dell’appoggio pieno di Ratzinger che lo ha definito "il capo del nostro governo"
di Marco Ansaldo


CITTA’ DEL VATICANO - «Mario Monti è cattolico. Molto cattolico. Va a messa, ma solo la domenica, giorno in cui preferisce lasciare il lavoro e riposare. Si confessa, fa la comunione, ed è più credente di quanto la gente sappia. Però, da "grand commis" europeo prima, e da uomo di governo ora, non è persona che ostenta la sua fede. Non lo farà mai. Né la userà in qualche modo per i suoi fini politici».
Domattina alle 10,55 l´auto italiana del presidente del Consiglio varcherà il portone di Sant´Anna, in Vaticano, salutata sull´attenti dalle guardie svizzere. Salirà lungo l´acciottolato che porta oltre il primo arco grande, fin dentro il cuore della Santa Sede. E una volta giunta nel cortile di San Damaso si fermerà davanti ai commessi pontifici. Monti verrà accompagnato al celebre ascensore che sale ai piani alti del Palazzo Apostolico, e uscirà a quello della Biblioteca vaticana. Ad attenderlo nella sala affrescata ci sarà un Benedetto XVI trepidante, che fonti dell´Appartamento papale descrivono finalmente felice di parlare a tu per tu con il nuovo capo del governo italiano. Anzi, del «nostro governo», come Joseph Ratzinger ha detto il 18 dicembre scorso alla messa nel carcere di Rebibbia, e davanti al ministro della Giustizia, Paola Severino. «Il nostro ministro», precisò il Pontefice.
E allora quello che spiega oggi una persona molto vicina al presidente del Consiglio, e che ne tratteggia bene tanto le caratteristiche di governo quanto quelle di indole personale e di fede, è da ritenersi una mappa sulla geografia dei rapporti del premier con il mondo cattolico, e di come si svolgerà il colloquio fra Ratzinger e Monti. «Due professori», si sottolinea. Che, dunque, si intenderanno anche per la comune origine accademica.
Il presidente del Consiglio non si inginocchierà davanti al Papa. Né tantomeno gli bacerà l´anello. «Perché - spiega chi lo conosce - è un uomo con un alto senso dello Stato che ha il massimo rispetto per la laicità dell´istituzione». Piuttosto, come ha già fatto nel primo informale incontro all´aeroporto di Ciampino il 16 novembre scorso, quando andò a salutare il Pontefice in partenza per l´Africa, parlandogli fitto per tre minuti, l´uno a fianco dell´altro lungo il tappeto rosso srotolato sulla pista fra l´elicottero pontificio e la scaletta dell´aereo, Monti farà un leggero inchino con il capo. Silvio Berlusconi da Ratzinger si lanciò nel 2008 in un baciamano, e poi in una raffica di battute. Massimo D´Alema da Giovanni Paolo II portò moglie e figli. Monti arriverà con la consorte Elsa, ma avrà con sé anche due ministri, quello degli Esteri, Giulio Terzi, e il responsabile delle Politiche comunitarie, Enzo Moavero.
Il Papa ha addirittura accelerato la procedura per l´udienza, concedendola dopo nemmeno due mesi dall´insediamento del governo. Il colloquio andrà sul concreto. Con il Pontefice, Monti parlerà di sostegno alle scuole cattoliche, di aiuti alle famiglie, di Italia ed Europa. Ma entrerà poi nelle misure anti-crisi, spiegando i provvedimenti economici previsti. Ed è probabile che affronti l´applicazione dell´Imu ai beni ecclesiastici, nel tentativo di regolare il nodo Ici-Chiesa, primo approccio di una questione che verrà dopo seguita dai tecnici.
Non parteciperanno all´udienza i ministri identificati come cattolici doc. Ma è noto quanto il presidente del Consiglio si fidi di quelli usciti dal convegno di Todi, come Corrado Passera, Andrea Riccardi, Lorenzo Ornaghi. Oppure del vicesegretario generale alla Presidenza del Consiglio, Federico Silvio Toniato, uomo dai solidi rapporti Oltretevere. O del ministro della Sanità, Renato Balduzzi. Alcuni di loro fungono da ufficiali mediatori con il mondo della Chiesa. I suoi rapporti con il mondo ecclesiastico sono ottimi. Diretti quelli con l´ex arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi. Il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, è solito telefonargli. Da monitorare il suo contatto con il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, relazione destinata a misurarsi e a rafforzarsi nei colloqui diretti. Monti trova qualche diffidenza nel mondo millenario della Chiesa, che nel suo predecessore aveva incontrato un interlocutore prono. E suscita attese. Ma gode del pieno appoggio del Papa, fornitogli a cominciare dalla telefonata partita dallo studio di Benedetto per incoraggiarlo durante la formazione dell´esecutivo. Più tardi, nel momento delle scelte sui sottosegretari, arriveranno quelle che ora vengono definite come «discrete pressioni partite qua e là dal mondo ecclesiastico».
Chi lo conosce è certo che Monti supererà l´esame brillantemente. C´è un esempio che dal passato gli assomiglia? Risposta: «Possiamo cercarlo in De Gasperi o in Einaudi. Ma non è un "cattolico adulto", alla Prodi. Piuttosto un laico cattolico o un laico realista. Soprattutto, non è uno che usa il Vaticano per fare politica. E, tantomeno, farà lezioni alla Chiesa».

l’Unità 13.1.12
Intervista a Giampaolo Di Paola
«Non solo gli F-35, rivedere tutti i programmi ma senza ideologie»
Il ministro della Difesa: «Data la crisi il taglio alle spese militari è doveroso Ma va affrontato sapendo che siamo la quarta economia dell’Unione europea»
di Umberto De Giovannangeli


Dalla contestata acquisizione di 131 F-35 al “rischio-stipendificio” per le nostre Forze Armate: temi spinosi a cui il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, non si sottrae. E in questa intervista esclusiva a l’Unità, difende e rilancia la sua idea di Difesa. «Attaccando»...
Signor ministro, partirei dalla questione al centro da giorni di un vivace dibattito e di aspre polemiche: il programma di acquisizione di 131 F-35. C’è chi la definisce una spesa eccessiva, chi un investimento velleitario, e chi sollecita un ripensamento, quanto meno nel numero dei cacciabombardieri acquistati. Cosa può dirci in proposito?
«Noi stiamo rivedendo lo strumento militare. L’ho detto in maniera chiara e inequivocabile, ben prima che iniziasse qualsiasi discussione. Rivedere tutti gli aspetti dello strumento militare e dunque anche i programmi, e quindi i mezzi, e i piani d’investimento. Occorre operare in tal senso innanzitutto perché una revisione d’insieme è doverosa, e poi perché la situazione di compatibilità finanziaria lo impone. Ma questa revisione, è bene ribadirlo, interessa tutti i programmi. Perciò ritengo che l’accanimento verso uno specifico programma sia espressione di visioni anguste, settoriali che non mi sento di condividere. Sia chiaro: quando parlo di una revisione di tutti i programmi intendo anche quello relativo agli F-35, e in questo quadro generale bisogna tener conto che c’è una esigenza fondamentale...». Quale?
«Lo strumento militare italiano ha bisogno di una capacità aereo tattica: questa capacità l’abbiamo e va rinnovata. E dal punto di vista operativo, l’F-35 è la risposta corretta a questa esigenza. Che tipo di configurazione complessiva questo programma debba avere, questo è oggetto della revisione, e siccome la revisione è in corso è inutile che mi si venga a chiedere se si può ridurre di uno, dieci, venti, cento... La Difesa è una cosa seria, così come lo sono i programmi e gli investimenti. Al termine di questa revisione, noi ne motiveremo gli esiti, ma che il programma sia di alta valenza operativa, su questo non ho dubbi. E per un ministro della Difesa, quella operativa è una componente importante. Come lo sono l’alta valenza tecnologica del programma in questione, la valenza industriale e occupazionale. Uno può rinunciare a tutto, pure ad avere una Difesa, però l’argomento va affrontato e gestito seriamente e non piegato a posizioni ideologiche o che magari nascondono interessi di parte».
C’è chi sostiene che gli F-35 sono strumenti offensivi, tali da delineare un ruolo dell’Italia che contrasta con la Carta costituzionale e l’articolo 11... «Questa è una visione fortemente ideologizzata che non mi appartiene e che non corrisponde alla realtà. Qualunque armamento è offensivo o difensivo a seconda di come lo usi. Non è che l’F-35 è offensivo, l’Eurofighter è difensivo, il carro armato è offensivo o difensivo. È l’uso che se ne fa che conta. È come noi abbiamo utilizzato, con l’approvazione del Parlamento e delle Nazioni Unite, gli AMX, i Tornado, gli AV-8B. Sì, delle Nazioni Unite, perché le operazioni in Libia e in Afghanistan sono state sancite, legittimate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e in quelle azioni sono stati utilizzati gli aerei a cui ho fatto riferimento. Mezzi che vanno rinnovati, e non vedo perché l’F-35 di per sé sia offensivo. È chiaro che lo strumento militare viene considerato, in quanto militare, in violazione dell’articolo 11 della Costituzione, beh, allora io dico chiudiamo lo strumento militare. Ma lo strumento militare esiste da quando esiste la nostra Costituzione, e il suo articolo 11, il quale, peraltro, andrebbe letto nella sua interezza e non fermandosi alla sua prima riga. E a dirlo non sono io, ma qualcuno ben più autorevole: il presidente Giorgio Napolitano».
In una recente intervista a l’Unità, l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Vincenzo Camporini, analizzando il bilancio della Difesa ha paventato il rischio che le nostre Forze Armate si trasformino sempre più in uno “stipendificio”. C’è davvero questo rischio?
«Vorrei dare una risposta più articolata, il che non significa evadere la sua domanda. Si dice: in Italia spendiamo un sacco di soldi per la Difesa, l’Italia è la decima potenza militare al mondo... Punto primo: l’Italia è la quarta economia dell’Unione Europea, tra le prime dieci economie del mondo, e va da sé che a questa dimensione economica corrispondano nei vari settori bilanci di un certo livello. Però, se si analizzano con onestà e correttezza i dati, la quota parte che l’Italia destina al bilancio della Difesa, è considerevolmente più bassa rispetto al rapporto Difesa/Pil di altri Paesi europei. Alle Forze Armate Esercito, Marina, Aeronautica e dunque alla Difesa, il bilancio per l’anno 2012 assegna 13,5 miliardi di euro, lo 0,84 del Pil. Mi permetta di fare alcuni raffronti con alcuni Paesi europei: la Francia destina alla Difesa, l’1,5 del suo Pil; la Germania 1,22%, Gran Bretagna 2,13%, la Svezia 1,3%, Polonia 1,3%. Non sto citando gli Usa... So benissimo che oggi e in futuro a medio termine non avremo un aumento quantitativo del nostro bilancio della Difesa, e non sto qui a dire: datemi l’1,5, l’1,3 come gli altri. Dico solo di essere realisti, e non posso non ribellarmi quando sento dire che spendiamo troppo per la nostra Difesa...». Resta lo «stipendificio»... «Indubbiamente si tratta di un grosso problema, non lo nascondo. Il bilancio della Difesa, oggi destina circa due terzi delle risorse al personale.
Ma c’è una ragione che lo spiega...».
E quale sarebbe questa ragione, signor ministro?
«Dieci anni fa, il Parlamento sovrano quando fece la riforma del modello della Difesa, disegnò un modello tutto volontario di una certa dimensione: 190mila uomini. Un sistema di queste dimensioni non si mantiene con le risorse che il Paese ha ritenuto nell’arco di 10 anni di destinare alla Difesa. Perseguendo quei livelli di dimensionamento, inevitabilmente le dinamiche del personale hanno determinato, come in ogni altro Paese del mondo, la crescita delle spese ad esso relative, comprimendo in maniera forte le altre due voci di bilancio, qualitativamente importanti: l’esercizio, vale a dire l’operatività delle Forze Armate e quindi la formazione, l’addestramento, la manutenzione, l’impiego e l’ investimento, la parte dedicata ai mezzi, al rinnovamento, al futuro. In questa situazione, non parlerei di rischio ma di realtà: la quota destinata al personale è talmente elevata che non siamo più in grado di mantenere, rendendolo utilizzabile, lo strumento militare nelle attuali dimensioni. Bisogna dunque ricalibrare lo strumento in base alle risorse che il Paese decide liberamente di destinare, il che comporta affrontare con serietà anche il discorso, che spesso produce levate di scudi, di un ridimensionamento degli organici. A questo impegno non mi sottraggo».
Un nuovo modello di Difesa non chiede più Europa, in termini di cooperazione integrata e di difesa condivisa? «Direi proprio di sì. Ma anche qui, occorre intenderci ed essere corretti. Sono convinto che l’Italia debba credere e spingere nella direzione di una sempre maggiore integrazione europea, e quello della sicurezza e difesa rappresenta una delle dimensioni fondamentali di questo percorso. D’altro canto, gli stessi partner americani ci incoraggiano in questa direzione, perché si rendono perfettamente conto che una politica europea più integrata rafforza la partnership Usa-Europa nel campo della sicurezza e della difesa. Ma più Europa, però, non vuol dire che l’Italia si sfila dalla Difesa. Più Europa significa che tutti quanti, noi europei, inclusa l’Italia, ci si muova con coerenza e convinzione su un percorso condiviso. Al mio Paese chiedo solo di essere in sintonia con l’operato di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania, Polonia, Svezia, Olanda. Paesi che stanno lavorando a un disegno di difesa europea operativamente efficace, anche nell’investimento aereo-navale. Di questo disegno, l’Italia può e deve essere parte attiva, avendo la consapevolezza, peraltro, che un Esercito europeo non può prescindere da un Governo europeo».

l’Unità 13.1.12
Contratto d’ingresso e dopo tre anni l’articolo 18. «Larga convergenza» sul documento di Fassina
Critico Ichino: «Impuntura nominalistica priva di senso». Botta e risposta col responsabile Economia
Lavoro, c’è la proposta Pd Bersani oggi vede Monti
Ratificata la proposta del Pd sul mercato del lavoro: contratto d’ingresso e poi garanzia dell’articolo 18. Fassina: «Larghissima condivisione». Ichino critico: «Impuntura nominalistica». Bersani oggi vede Monti.
dio Simone Collini


Il titolo è «Per l’occupazione giovanile e femminile» e in dieci punti sintetizza la proposta di riforma del Pd sul mercato del lavoro. I vertici del partito ne parlano come di un «contributo» al confronto tra governo e parti sociali. E che oggi Pier Luigi Bersani porterà con sé all’incontro a Palazzo Chigi con Mario Monti, insieme ai «correttivi necessari» alla riforma delle pensioni («serve maggiore gradualità e bisogna tener conto dei casi particolari che oggi non hanno né lavoro né pensione») e alle 41 proposte di liberalizzazioni che avrebbero «effetto immediato» sul fronte delle professioni, dell’energia, dei trasporti, delle banche e delle assicurazioni.
ASSUMERE NON LICENZIARE
In particolare sul mercato del lavoro per Bersani (che vedrà il presidente del Consiglio dopo che a Palazzo Chigi saranno andati anche Alfano e Casini) va assicurata «flessibilità senza toccare l’articolo 18, perché oggi il problema è assumere, non licenziare, che è diventato molto facile». E la proposta ratificata ieri dopo quasi quattro ore di riunione del Forum Lavoro Pd è stata pensata in questo senso. Prevede «un contratto per l’ingresso dei giovani e per il reingresso dei lavoratori e delle lavoratrici deboli al lavoro stabile». Può durare dai sei mesi ai tre anni con retribuzione crescente. Per le aziende che stabilizzano ci sarebbero agevolazioni contributive e dopo tre anni i lavoratori avrebbero tutte le tutele, articolo 18 incluso. Durante la fase iniziale sarebbe invece possibile il licenziamento e il lavoratore riceverebbe «una compensazione monetaria crescente in riferimento alla durata del rapporto di lavoro».
Stefano Fassina, che ha lavorato alla proposta muovendosi «in coerenza» con quanto votato all’Assemblea nazionale Pd del maggio 2010 e alla Conferenza per il lavoro dell’estate scorsa, dice che al di là delle norme prospettate il messaggio che i Democratici vogliono mandare è anche di tipo politico, e cioè che ora «va giudicato centrale il percorso unitario tra i sindacati e un confronto vero tra governo e parti sociali». Il responsabile Economia e lavoro del Pd giudica positivamente la «larghissima condivisione» registrata sul documento con cui ha aperto i lavori. Nella sala Berlinguer di Montecitorio, oltre ai membri del Pd delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, sono arrivati anche Guglielmo Epifani e il segretario generale Fisac-Cgil Agostino Megale, il vicesegretario Cisl Giorgio Santini, il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy. Tutti d’accordo sulla necessità, sottolineata da Fassina, di intervenire con emergenza sugli ammortizzatori sociali e di sostenere «lo sforzo unitario dei sindacati e l'intenzione del governo di farne un momento serio».
LE CRITICHE DI ICHINO
Molto critico con la proposta ratificata dal Forum Lavoro è invece Pietro Ichino, che ha presentato al Senato una proposta di legge favorevole all’introduzione della “flexsecurity”. L’idea della segreteria, per il giuslavorista, «è del tutto inadeguata rispetto agli obbiettivi programmatici enunciati dal premier Mario Monti» e così «si rischia di essere tagliati fuori dal processo di riforma del mercato del lavoro». Per il senatore Pd il testo ratificato «si discosta» anche dalla proposta Nerozzi-Marini e il contratto d’ingresso sarebbe «a termine». Per Ichino (sostenuto in questo da Salvatore Vassallo) nella difesa dell’articolo 18 c’è «una impuntatura nominalistica totalmente priva di senso, basata oltretutto su di un preteso “principio” che non ha alcun fondamento». La norma che impedisce i licenziamenti non per giusta causa, insiste il giuslavorista, «oggi si applica soltanto al 3 per cento della forza-lavoro complessiva dell' Unione europea e non può essere considerata come un diritto fondamentale immodificabile perché non ha carattere di universalità».
Critiche che non convincono Fassina, che fa notare come non sia specificato da nessuna parte che il contratto d’ingresso sia a termine. Né accetta di sentir dire che la battaglia in difesa dell’articolo 18 sia «nominalistica». Il Forum Lavoro ha ratificato e Bersani ha apprezzato, ma non è detto che dell’argomento non si torni a discutere all’Assemblea del Pd fissata per venerdì e sabato della prossima settimana.

Corriere della Sera 13.1.12
La frenesia cinese da grattacielo «È il sintomo del crac in arrivo»
Studio inglese: le bancarotte precedute dai boom edilizi
di Marco Del Corona


PECHINO — Le inaugurazioni sono faccende gioiose. I funzionari, i drappi rossi, i fiori, molte parole pompose. Il 19 settembre scorso, a Pechino, c'era pure una schiera di scavatrici ingentilite per l'occasione da delle specie di fiocchi, rigorosamente rossi. A due passi incombeva la sghemba sede della Cctv di Rem Koolhaas, che i pechinesi irridono come «i mutandoni»: lì, nel cuore del Central business district, si inaugurava la costruzione del grattacielo più alto di Pechino, il China Zun, 510 metri e 108 piani, che il gruppo Citic annuncia come un gioiello dell'ecologicamente corretto.
Sull'inaugurazione non si allungava ancora l'ombra delle fosche previsioni degli analisti di Barclays Capital: ogni boom di grattacieli precede un tonfo dell'economia, e dunque se la Cina (ma il discorso vale anche per l'India) vive questo gigantismo edificatorio, si prepari «entro 5 anni» a un altro boom, quello della bolla che scoppia.
Parla la storia. La New York che aveva innalzato l'Empire State Building e il Chrysler sprofondò nella Grande depressione. Il collasso finanziario di Dubai, due anni fa, ha inghiottito l'euforia che aveva accompagnato la costruzione del Burj Khalifa, appena sotto gli 830 metri. Si possono aggiungere la Chicago del '74 e la Malaysia del '97.
Se la lettura di Barclays Capital è corretta, la Cina — che da sola ospita più di metà dei grattacieli in costruzione nel mondo — si prepara allo scossone. La miscela tra prezzi dei terreni alti e accesso facile al credito, in un clima generale di ottimismo, secondo gli analisti è la premessa di un crollo: «I boom edilizi sono un segno di un eccesso di credito», ha sintetizzato Andrew Lawrence, l'analista che nel '99 ha formulato l'«indice dei grattacieli» che mette in relazione torri e crisi economiche.
Il China Zun prende nome da un antico contenitore per bevande alcoliche, di cui evoca la forma. Quasi un monumento all'ubriacatura immobiliare di un Paese. Sarà in 5 anni il più alto edificio di Pechino (ora lo è la terza fase del China World, non distante, 330 metri) ma non della Cina: se già adesso lo Shanghai World Financial Center raggiunge i 492 metri, cinque delle torri ora in costruzione supereranno il China Zun, con il Pingan International Finance Center di Shenzhen che toccherà i 660. L'India, che arrancava con solo due grattacieli esistenti, accelera con 14 in costruzione: la Tower of India di Mumbai sarà seconda solo al mostro di Dubai.
In realtà, il 2011 della Cina racconta un'atmosfera mista. Di gru scatenate ma anche di consapevolezza. E di preoccupazione. Grattacieli a parte, dopo che l'edilizia ha sostenuto per anni un Pil a due cifre, si è assistito a un arroventarsi del mercato che ha reso i prezzi delle abitazioni irragionevolmente alti. Dalla stretta al credito delle banche a limiti all'acquisto di terze e seconde case fino agli stanziamenti per alloggi di Stato e dunque accessibili, le autorità centrali hanno cercato di tamponare la bolla. E il congresso del Partito comunista che in autunno rinnoverà la leadership non consente sbagli. Ma quando i prezzi hanno preso a calare di pochi punti, e soprattutto i palazzinari hanno lanciato sconti per riempire appartamenti invenduti, chi si era svenato anche solo una settimana prima ha protestato.
E non è finita. Il calo dell'inflazione (4,1% a dicembre, dato di ieri, ma era a 6,5% in luglio) porterà a qualche ammorbidimento sul credito. Pechino è attesa da esercizi di equilibrismo acrobatico. Che solo sulla cima di un grattacielo si possono comprendere appieno.

il Fatto 13.1.12
Un nuovo studio neuronale
“Fatti” di Internet come di alcool e droga
di Federico Mello


Negli scorsi anni la materia ha visto contrapposti, l’uno contro l’altro di (pochi) argomenti armati, apocalittici e integrati. Dipendenza da web: questo il tema. Da una parte indignati di professione dicevano tutto il male possibile della Rete, di come questa svilisse i rapporti umani, assorbisse la “vita vera” e portasse all’isolamento (stessa accusa venne fatta al walkman negli anni Ottanta). Dall’altra parte, molti blogger e smanettoni in generale, decantavano le magnifiche e progressive sorti di Internet, di quanto questo avrebbe cambiato le nostre giornate e di come, presto, anche il sesso sarebbe passato attraverso soddisfacenti connessioni di bit.
Ora che Internet è pane quotidiano per moltissimi (secondo Audiweb la metà degli italiani è connesso) è tempo per discussioni più ragionate. Sempre più sono le pubblicazioni, gli studi, i saggi – anche di successo – su come la Rete influisce sulle nostre vite e su come, a volte, il nostro stato di connessione perenne ci sfugga di mano. Ora una nuova ricerca ha trovato riscontri importanti sulla dipendenza da Internet, questa volta facendo un salto scientifico, perché ciò che è stato osservato avviene a livello neuronale, non più psicologico.
Un gruppo di ricercatori cinesi, diretti da Hao Lei dell’Accademia cinese delle scienze di Wuhan (lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Plos One”), ha mappato il cervello dei 17 giovani – di entrambi i sessi, tra i 14 e i 21 anni – affetti da “Internet addiction disorder ”, dipendenza da web. Grazie a una speciale risonanza magnetica hanno rilevato per la prima volta alcuni cambiamenti nella materia bianca del cervello (la parte che contiene le fibre nervose). Hanno trovato, in particolare, segni di un’interruzione nelle connessioni delle fibre nervose che collegano aree cerebrali coinvolte in emozioni, processo decisionale e autocontrollo. “Nel complesso – ha spiegato Hao Lei – i risultati indicano che questa modernissima forma di dipendenza può generare crisi di astinenza paragonabili a quelle causate da alcool e droghe”. Gunter Schumann, titolare della cattedra di Psichiatria biologica al King’s College di Londra, ha spiegato alla Bbc che “simili riscontri si sono avuti anche nelle persone dipendenti dai videogame”.
BISOGNA però spiegare a cosa si riferisce il termine “webdipendenza”. Da un punto di vista clinico, il disturbo (riscontrato soprattutto per quanto riguarda pornografia, videogaming e giochi d’azzardo online), si registra in chi passa almeno 40-50 ore a settimana perennemente davanti a uno schermo. Inoltre, come tutte le altre malattie, la situazione diventa clinica quando condiziona le nostre abitudini quotidiane. Chi passa la giornata in ufficio davanti al computer, insomma, può stare tranquillo. Eppure la nuova ricerca indica anche una tendenza che, seppur a livelli più blandi, è presente nella nostra società: quella che ci porta ad un uso ossessivo delle connessioni. Questo è un tema che riguarda davvero tutti: basta che ognuno faccia un rapido calcolo di quante volte al giorno controlla la posta elettronica o il profilo Facebook, anche se non aspetta o non cerca nulla di particolare. Internet è tra noi, ma bisogna imparare a gestirlo, capire come il suo utilizzo si riflette anche su gesti, sensazioni e sentimenti. Questo, a parte i disagi clini, uno dei compiti per i prossimi anni.

il Fatto Saturno 13.1.12
Razzismi
Stranieri da Campiello
Niente cittadinanza linguistica per gli scrittori immigrati, anche se scrivono in italiano o sono nati qui. Ma la letteratura oggi è meticcia, come dimostrano Ben Jelloun e Kureishi
di Daniela Padoan


BENCHÉ tra una cinquantina d’anni, a detta dell’Istat, un quarto della popolazione residente in Italia sarà composta da immigrati, gli scaffali delle librerie continuano a essere divisi in autori italiani e stranieri: nel settore degli italiani alloggia, in ordine alfabetico, la vasta famiglia che va da Arpino a Vittorini, passando per la Brianza di Gadda e le Langhe di Fenoglio, mentre gli scrittori dai nomi esotici – non importa se di lingua italiana o addirittura nati in Italia – sono abitualmente collocati in ordine di appartenenza geografica sugli scaffali della letteratura straniera.
Ma cos’è, oggi, la letteratura italiana? Da quali materiali narrativi è composta? Che posto hanno, nel nostro immaginario, Younis Tawfik, giornalista e scrittore iracheno in esilio in Italia dal 1979, Anilda Ibrahimi, scrittrice albanese a Roma dal 1977, Igiaba Scego, giornalista e scrittrice nata in Italia da una famiglia di origine somala, Amara Lakhous, scrittore algerino a Roma dal 1995? L’elenco dei nostri “stranieri” è lungo; comprende il rumeno Mihai Mircea Butcovan, il persiano Hamid Ziarati, l’argentino Adrian Bravi, l’albanese Ornela Vorpsi – che continua a scrivere in italiano benché si sia trasferita in Francia – l’egiziana-congolese Ingy Mubiayi, e potrebbe andare avanti ancora.
Bijan Zarmandili, scrittore nato a Teheran ed esule in Italia da cinquant’anni – capace di usare la lingua italiana con tale libertà e raffinatezza da piegarla tanto alla sontuosità della poesia persiana che alla povertà mistica dei dervisci e dei sufi – fin dal suo esordio narrativo ha combattuto per essere considerato un autore italiano. «Tutti gli scrittori in esilio», spiega, «sentono voci provenienti dai luoghi della loro infanzia; voci dei tempi in cui erano in sintonia con altri volti, con gli affetti, gli odori, i colori, i rumori, persino i silenzi della propria origine. La trascrizione di tutto questo non può che dar luogo a una scrittura ibrida, bastarda nella forma e nel contenuto, perché, se pure nello scrittore che viene da un altro paese resta il tormento della provenienza, il paesaggio in cui si colloca è radicalmente mutato. È importante riflettere sull’ibridismo dell’autore esiliato, perché la letteratura d’immigrazione o, come preferisco dire, la letteratura dell’esilio, nasce da un immenso e straordinario movimento di massa: milioni di uomini e di donne che si spostano da un continente all’altro, dando luogo a una cultura fatta di elementi che impongono una metamorfosi a tutte le culture coinvolte nel processo. Questa umanità bastarda contiene, inevitabilmente, molteplici talenti poetici e intellettuali, ed è in grado di trasferire le proprie esperienze in opere letterarie che assumono sonorità e stratificazioni proprio nell’incontrarsi e nel confliggere delle lingue di provenienza e di quelle adottive; l’esito di un simile processo dialettico, tuttavia, non sta solo in una straordinaria e vitale produzione poetica, ma in una continua risignificazione dell’esistente. È per questo che, quando vengo presentato come uno “scrittore iraniano”, avverto un profondo disagio: ridurre l’identità di uno scrittore alla sua origine implica negargli il senso di questo movimento».
L’attribuzione di una piena cittadinanza linguistica agli scrittori di origine straniera – una sorta di ius soli per chi abbia avuto nascita alla scrittura nella nostra lingua – sembra l’ultimo tabù della nostra globalizzazione; la loro opera non ha ancora una nominazione condivisa, e le definizioni più usate (“letteratura migrante in lingua italiana”, “letteratura transnazionale”, “letteratura italofona”, “letteratura postcoloniale”) si tengono in un’ambiguità tra riconoscimento di valore letterario, giudizio politico e sguardo antropologico. «Quando la musica delle sillabe e la coerenza dei ritmi vengono utilizzate non dai poeti che hanno avuto maternità in una certa lingua, ma dai suoi figli illegittimi, confrontarsi con l’ibridismo di chi lavora con le parole diventa una vicenda complessa», dice ancora Zarmandili. «In Italia c’è sempre il rischio che questa scrittura venga ghettizzata, etichettata, risospinta verso la sua origine, ma è proprio la novità epocale costituita dall’immigrazione a dare nuova linfa all’Italia di oggi; a darci conto del caos di questo mondo che, meraviglioso e vivificante, si riflette su di noi, chiedendoci un pensiero estetico e politico».
Quindici anni dopo aver lasciato il Marocco per trasferirsi a Parigi, Tahar Ben Jelloun si vide assegnare il prestigiosissimo premio Goncourt, che ne fece uno scrittore di lingua francese a tutto tondo, e Hanif Kureishi, nato a Londra da padre pakistano e madre inglese, è considerato un autore inglese, non un pakistano anglofono. Un passo avanti potrebbe essere l’attribuzione di uno Strega, un Campiello a uno dei nostri autori ibridi, a sottolineare la loro piena appartenenza alla cultura, alla letteratura italiana.

il Fatto Saturno 13.1.12
Poesia e politica
Pound, fascista senza casa
di Nicola Gardini


ALL’INIZIO del prossimo novembre saranno passati quarant’anni dalla morte di Ezra Pound, il poeta più influente degli Stati Uniti. E il più scomodo. Disse, infatti, cose imbarazzanti sul suo paese durante la guerra, gridò il suo antisemitismo e si espresse con aperto consenso sul regime fascista italiano, a voce e per iscritto, privatamente e pubblicamente, con la poesia e con il proclama più prosastico. Per salvarlo dalla condanna a morte gli amici americani dovettero farlo passare per pazzo. La prigionia pisana, l’avvilente processo e la prolungata detenzione nell’ospedale psichiatrico St Elizabeths di Washington hanno ripulito la sua persona delle macchie che quei discorsi ci avevano lasciato sopra. La longevità, poi, gli ha permesso di navigare verso la fine da profeta, con quegli occhi stanchi, quel silenzio impenetrabile, quella corona di capelli bianchi simile a un’aureola che vediamo in alcune fotografie tarde. Quando è morto, Ezra Pound era un simbolo. Non di quello che aveva affermato, ma di quello che era diventato: un sopravvissuto alle confusioni della storia; un illuso di genio; insomma, un martire; e un martire fuori classe, che aveva alle spalle non tanto un’attività di filofascista, non una serie di errori, ma un’opera da poeta sommo, i Cantos, trionfo intramontabile. Oggi un centro sociale di estrema destra, nato a Roma, diffonde il nome del vate come una bandiera: “CasaPound”. Da molte parti sono salite le proteste, a partire dalla figlia dello stesso Pound, Mary de Rachewiltz. E comprensibilmente. Pound disse cose da fascista e da antisemita, e questo resta (molti e ben documentati gli studi critici sull’argomento), per quanto gli apologeti di sinistra si ostinino a evadere il problema. I fascisti, però, non devono confondere la poesia con la politica. La poesia di Pound non è fascista, neanche quando sembra applaudire a Mussolini; né tanto meno è un invito all’uccisione dello straniero. La poesia è poesia, non è mai propaganda per sua stessa natura. E il nome Pound significa poesia prima di qualunque altra cosa. Contrapporsi alle strumentalizzazioni onomastiche di CasaPound è un atto di giustizia che deve insegnarci non tanto a dimenticare le contestabili idee politiche dell’uomo che fu Pound nell’Italia della guerra (amnistie del genere, se rientrano nella logica della storia, comunque sarebbero assurde a così poco tempo dalla sua scomparsa) quanto a fornirci un’occasione per saper distinguere una volta di più la letteratura dal letterato. Quella – la letteratura – rappresenta la complessità del mondo, l’infinità dei punti di vista, il mistero dell’interiorità; e ha sempre ragione. Questo – il letterato – è un miope schiavo della complessità, nella quale si impiglia come un povero insetto; e, se sbaglia, ha torto.
Perché i membri di “CasaPound”, per avere una copertura ideologica certa, non hanno scelto di chiamarsi “CasaMussolini”?

il Fatto Saturno 13.1.12
Geografia antica
Il mostro Gerione fa i fanghi ad Abano
Un “Dizionario” ci guida nei luoghi della mitologia classica. Dall’India di Dioniso alle Terme padovane
di Giorgio Ieranò


PER PRIMA COSA andate alla voce “Nisa”. Nisa è una terra mistica, sacra a Dioniso, dove satiri e baccanti celebrano in eterno i riti orgiastici del dio dell’ebbrezza. Per i greci esisteva senz’altro, in qualche parte dell’universo, ma ciascuno la situava nei posti più diversi e impensati. Ecco alcune ipotesi registrate da Anna Ferrari nel suo Dizionario dei luoghi del mito: «Si ricorda un’identificazione di Nisa con un’area localizzata tra il fiume odierno Kabul (anticamente Cofen) e l’Indo; o con la città di Nagarahara/Dionisopoli presso l’odierna Jalalabad, o in un punto imprecisato del Nuristan». Così, in poche righe, il lettore ha già fatto un viaggio intorno alla propria stanza, alla maniera di Xavier De Maistre, perdendosi lungo le vie carovaniere dell’Oriente al seguito del corteo dionisiaco. E imparando che la geografia del mito greco non si racchiude nei confini della Grecia.
Sconfina, per esempio, nelle terre immense del-l’Asia, fin verso l’India, dove Dioniso e poi, sulle sue orme, Alessandro Magno si erano inoltrati inseguendo grandiosi sogni di conquista. Ma il favoloso si annida anche sotto casa. La prima voce del Dizionario è “Abano”, che è esattamente la non esotica località di Abano Terme, provincia di Padova. Qui, secondo alcuni testi antichi, abitava il mostro tricorpore Gerione, ucciso da Ercole in una delle sue Dodici Fatiche. Anche se altri dicono che questo Gerione non era un mostro ma una divinità benefica. Era il nume di quelle acque termali che guarivano gli uomini dai loro dolori: proprio da questo deriverebbe anche il nome di Abano (dal greco aponos, “senza dolore”).
La forma del lessico onomastico, o del catalogo delle meraviglie, scelta da Anna Ferrari per raccontare il mito, sarebbe piaciuta ai greci. Per i quali ogni mito era agganciato a un luogo così come ogni luogo era consacrato da un mito. È naturale, perché la mitologia greca nasce dall’aggregazione di tradizioni locali per lungo tempo trasmesse oralmente. E, sfogliando il dizionario (il cui sottotitolo è Geografia reale e immaginaria del mondo classico), si capisce subito che distinguere tra luoghi fantastici e luoghi reali non è facile. Vi sono località non segnate su alcuna mappa. Come Cobalusa, immaginata da Luciano nella sua Storia Vera: un’isola abitata da una razza di donne antropofaghe, con le zampe d’asino, che seducevano i naviganti di passaggio per poi divorarli. Ma in genere le terre immaginarie vanno in cerca di un ancoraggio su un suolo conosciuto. Mentre, viceversa, i luoghi fisici diventano, come lo specchio di Alice, una finestra aperta su sconfinati territori di favola. L’Olimpo è un monte che appartiene contemporaneamente al nostro e all’altro mondo, alla dimensione degli uomini e a quella degli immortali. Alcune terre sono divinità esse stesse, come la piccola Delo, ninfa e isola vagante per l’Egeo, finché Apollo non l’ancorò alla vicina Mykonos, grato per l’ospitalità offerta a sua madre Latona.
Esemplare il caso dei toponimi costruiti sulla radice della parola greca “leukòs”, che significa bianco. La tradizione conosceva una “Rupe bianca”, un luogo magico da cui saltavano in mare gli innamorati infelici, in un rito che serviva a liberarli dalle pene d’amore. Così avrebbe fatto, secondo la leggenda, anche Saffo, vittima di un amore non corrisposto per il barcaiolo Faone. Questa rupe incantata fu identificata con un promontorio dell’isola del Mar Jonio che ancora oggi si chiama Leucade. Ma la sua topografia continuò a essere
sempre in bilico tra mito e realtà. Il bianco, per i greci, era il colore del lutto e dei demoni della morte. Omero conosce una “Rupe bianca” che sorge tra le Porte del Sole e il Paese dei Sogni, all’ingresso degli Inferi. In una “Isola bianca”, Leuké, venivano accolte le anime degli eroi: qui, dopo la sua morte, Achille avrebbe trascorso l’eternità tra le braccia di Elena. Non l’aveva mai conosciuta da vivo: si sarebbe innamorato di lei soltanto sentendone parlare, come negli amori dei Trovatori provenzali. Alla fine quanto si scopre, viaggiando tra Abano e Nisa, Leucade e Cobalusa, è che il mondo non è mai solo ciò che appare.
Anna Ferrari, Dizionario dei luoghi del mito, Rizzoli, pagg. 1036, • 19,90

il Fatto Saturno 13.1.12
Fanon e la follia coloniale
di Marco Filoni


RACCONTA lo scrittore Tahar Ben Jelloun di una straordinaria insegnante che, nel suo liceo di Tangeri, un giorno portò in classe un libro destinato a diventare il manifesto di tutta la sua generazione. Il libro era I dannati della terra di Frantz Fanon, e si inseriva in un clima rovente nel Nord-Africa. Il volume compariva poche settimane prima della morte del suo autore, nel ’61, con una lunga prefazione di Jean-Paul Sartre. Lo psichiatra Fanon diveniva così un autore feticcio per Ben Jelloun e tutti quelli che come lui sentivano il bisogno di confrontarsi con il razzismo, l’uso della violenza per la liberazione, la lotta per la dignità dei popoli colonizzati. E con questi temi, dei quali era divenuto indiscusso portavoce, Fanon conobbe la popolarità e si trovò nel bel mezzo di accesi dibattiti: per alcuni era un anti-europeista e apologeta della violenza; per altri un classico della decolonizzazione e dell’autodeterminazione dei popoli – tanto che fu coniato il termine fanonisme come sinonimo della rivolta spontanea delle masse oppresse. Non durò a lungo. Morto a soli 36 anni di leucemia, nel 1961, il suo nome cadde presto nel dimenticatoio. Così come i suoi scritti: svanirono tanto velocemente quanto veloce fu il processo di pulitura delle coscienze occidentali dalle nefandezze coloniali. E a nulla è servito sapere che negli Stati Uniti il pensiero di Fanon è stato uno dei maggiori riferimenti della riflessione teorica che va sotto il nome di «post-colonial studies». Ancora qualche settimana fa, in occasione del cinquantenario della sua morte, di Fanon non si è parlato (salvo rarissime eccezioni). Va dunque salutata con molto interesse sia la raccolta Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale (ombre corte 2011), curata da Roberto Beneduce, sia l’inedito Introduzione ai disturbi della sessualità nei nordafricani pubblicato nel numero di dicembre della rivista «Alfabeta2» (accompagnato da un ineccepibile saggio di Cesare Bermani). Qui emerge una chiave interpretativa che rende inscindibile la lettura psichiatrica da quella politica. Quando nel 1953 arrivò all’ospedale di Blida, in Algeria, il giovane psichiatra si scontrò con una dura realtà. Anzitutto il “primitivismo”, la dottrina regnante in psicopatologia. Poi la guerra d’Algeria, con il clima di atroci violenze e torture. Fanon iniziò così a studiare e concepire gli effetti prodotti sulle coscienze dalla situazione coloniale, individuando una sorta di “depersonalizzazione” che questa realtà causava. Nel farlo rivoluzionò la pratica medica, andando all’ascolto dei malati e interessandosi alle «soggettività sofferenti». Rivendicando tutta una serie di diritti dei popoli nordafricani: un impegno che gli costerà la censura dei suoi libri in Francia e l’espulsione dall’Algeria. Rileggerlo oggi significa comprendere quelle istanze politico-sociali ricondotte alla psichiatria e al suo esercizio in Nordafrica negli anni Cinquanta. È passato molto tempo da allora. Ma se ai termini della realtà di Fanon, «oppressione coloniale», «terzo-mondo», «autodeterminazione dei popoli», sostituiamo «frattura sociale», «esclusione», «scarto fra Nord e Sud del mondo», riusciremo a intravedere un’attualità ancora viva: un bagliore delle nostre coscienze.
Frantz Fanon, Decolonizzare la follia, ombre corte, pagg. 173, • 16,00

il Fatto Saturno 13.1.12
Scienza e mente
Psicologi della domenica
di Yamina Oudai Celso


VOX POPULI, VOX DEI? Mai fidarsi del buon vecchio adagio che santifica stereotipi popolari e luoghi comuni, quando c’è di mezzo la scienza. Se poi la branca scientifica in questione coincide con una disciplina così pervasiva e apparentemente accessibile a tutti come la psicologia, il rischio di confondere evidenze e pregiudizi aumenta esponenzialmente a tal punto da aver indotto un pool di quattro psicologi americani a mettere nero su bianco una corposa rassegna di falsità, approssimazioni o cliché in cui spesso incorrono non solo i dilettanti della domenica ma talvolta anche gli studenti o addirittura qualche titolato addetto ai lavori. I grandi miti della psicologia popolare assume come bersaglio polemico le cosiddette psicomitologie della divulgazione mediatica, ovvero quella dei manuali di auto-aiuto, delle trasmissioni televisive di massa ma anche del repertorio cinematografico o letterario. Con un’ambizione pressoché esaustiva, il volume articola i cinquanta miti in altrettanti capitoli raggruppati per macro-aree tematiche, quasi a mo’ di manuale. Non limitandosi, però, a evidenziare i fraintendimenti comuni più grossolani, ma entrando anche nel merito – bibliografia sperimentale alla mano – di questioni assai più complesse e controverse tra gli stessi esperti della materia. Così, se da un lato si ammonisce il lettore a non confondere la schizofrenia con il disturbo da personalità multipla, a non coltivare l’illusione che un atteggiamento psicologico positivo possa apportare un contributo sostanziale alla cura del cancro, o che la cosiddetta macchina della verità riesca effettivamente a smascherare chi mente, riguardo ad altri argomenti il libro propone più che clamorose smentite o radicali capovolgimenti di prospettiva, una serie di rettifiche, approfondimenti o parziali aggiustamenti di rotta. Ad esempio, criticando la diffusa convinzione che la catarsi o altre analoghe pratiche di sfogo emotivo possano giovare alla gestione dell’aggressività, corre tuttavia l’obbligo di ammettere che «l’espressione della rabbia è utile solo se è accompagnata da un’attività costruttiva di risoluzione del problema che ha dato origine alla rabbia stessa». O ancora, a proposito delle differenze di approccio cognitivo e comunicativo tra uomo e donna gli autori, confutando il titolo del celebre best-seller di John Gray Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, giungono comunque alla conclusione che «è più probabilmente corretto dire che “gli uomini vengono dal Nord Dakota e le donne dal Sud Dakota”». A riprova del fatto che, ferma restando la lodevole verve smitizzante del volume, in realtà i tanto vituperati “miti” spesso e volentieri non sono altro che «esagerazioni di tesi contenenti un nocciolo di verità».
S. O. Lilienfeld, S. J. Lynn, J. Ruscio, B. L. Beyerstein, I grandi miti della psicologia popolare. Contro i luoghi comuni, Raffaello Cortina, pagg. 373, • 26,00

il Riformista 13.1.12
Paradossi del carcere e della malattia mentale
di Danilo Di Matteo


Gli ospedali psichiatrici, nati con ben altre intenzioni, finirono per somigliare a ghetti e a carceri, spesso per ergastolani. Ecco: og- gi si discute di sovraffollamento dei luoghi di pena, delle condi- zioni disumane nelle quali si trovano i detenuti, dei casi di suicidio che li vedono protagonisti. Sarebbe però opportuno riflettere con maggior lu- cidità sul mondo del disturbo psichiatrico e su quello carcerario.
Si tratta di realtà che viviamo come distanti. Eppure sia la giustizia che i problemi psico(pato)logici riguardano porzioni non piccole del- la popolazione. Non solo: se la psichiatria nacque anche per distinguere i folli dai criminali, una fetta significativa della popolazione reclusa presenta ad esempio disturbi di personalità. E la percentuale tanto ele- vata di tossicodipendenti negli istituti di pena è in sé la spia di un profondo malessere psicofisico. Per non dire del disagio degli agenti della polizia penitenziaria. Il muro di indifferenza che circonda i due mondi rappresenta forse il tentativo di esorcizzare le nostre paure di sempre: il timore di impazzire, ad esempio, quello del degrado, della miseria e della morte, il sospetto nei confronti del diverso, l’angoscia della solitudine e dell’isolamento. E talora, in effetti, i “reietti” insi- diano la nostra sicurezza e persino la nostra integrità fisica. Ma né il ghetto né il mito del territorio riescono a migliorare la situazione: i pro- blemi vengono solo elusi o spostati.
Il paradosso di fondo è un altro: disagio mentale e carcere sono specchio e metafora della nostra realtà quotidiana, eppure vorremmo ignorarli e rimuoverli, quasi a scacciarli dal campo visivo. Un tenta- tivo vano, inutile dirlo, che ci fa vivere tutti peggio.

La Stampa 13.1.12
Quelle signorine che incantavano Flaubert e Picasso
In un saggio di Giuseppe Scaraffia storie di artisti, letterati e prostitute
I bordelli. Quasi tutti gli scrittori furono assidui di tali istituzioni con entusiasmo o con imbarazzo
di Masolino D’Amico


Le ragazze di Avignone Les Demoiselles d’Avignon è uno dei più celebri dipinti di Pablo Picasso, realizzato nel 1907. È conservato al MoMA di New York. Mostra cinque prostitute in un bordello di calle Avignon, a Barcellona

Due cose che hanno in comune Gustave Flaubert, Alphonse Daudet, Lev Tolstoj e Gabriele d’Annunzio? Una, che tutti scrissero romanzi; un’altra, che tutti ebbero la prima esperienza sessuale, tra i tredici e i sedici anni a seconda dei casi, in un bordello. I sunnominati lo fecero di propria iniziativa, o istigati dai compagni; altri loro colleghi di penna vi furono spinti dai genitori, magari, come nel caso di Marcel Proust, senza troppo successo.
Le signore della notte di Giuseppe Scaraffia - sottotitolo, Storia di prostitute, artisti e scrittori - si presenta come una rassegna molto ampia sulla presenza di questo personaggio nella letteratura degli ultimi tre secoli, sia nella pagina sia nella vita personale degli scrittori. Alla meretrice come personaggio è dedicata tutta la seconda parte, che setaccia un materiale quasi sconfinato solo cinque autori, ma tra i sommi, nel Settecento, ma poi più di venti nell’Ottocento, e addirittura più di ottanta nel
Novecento. Nel Settecento campeggiano com’è doveroso Defoe ( Moll Flanders ), Cleland ( Fanny Hill ), e poi Voltaire, Diderot e il divino marchese, i quali tutti diedero vita a memorabili avventuriere e alle loro spregiudicate attività erotiche, mentre il bordello cominciava a diventare un luogo dove ambientare situazioni (a questo proposito si poteva forse aggiungere Richardson e la casa equivoca dove l’aspirante seduttore attira l’inconsapevole protagonista di Clarissa ). Nel secolo seguente sia la maison du plaisir sia le sue inquiline sono frequentati regolarmente dalla narrativa, e gli esempi come dicevo sono molteplici, da Dickens a Flaubert, da Hugo a Dostoevskij, da Zola a Huysmans a Cechov, quasi tutti peraltro quasi dei neofiti davanti all’esperto e insaziabile Maupassant. Nell’epoca moderna poi non c’è quasi autore di fiction che non abbia messo in scena, chi una volta chi addirittura ricorrentemente, dispensatrici dell’amore mercenario, spesso ritraendole nell’ambiente dove queste esercitano. Scaraffia elenca il catalogo con l’impassibilità di un Leporello, e in ordine cronologico, cominciando con Schnitzler, Wedekind e altri nordici trasgressivi e poi continuando tramite, ne cito solo alcuni, Mann, Joyce, Federigo Tozzi, Saint-Exupéry, Orwell, Vittorini, Pavese, Savinio, John fante, Malaparte, Salinger, Koestler, Steinbeck, Updike, Toulouse Lautrec, Picasso, Bassani, Primo Levi, Soldati, Simenon (of course), Vàzquez Montalbàn, Ghaham Greene, James Ellroy, Houellebecq, Coelho... Per ciascuno di questi e molti altri viene data sinteticamente solo una scheda relativa all’eroina in questione, con pochi elementi descrittivi, il che favorisce un’impressione di monotonia (i capelli rossi, relativamente rari tra le persone normali, sembrano invece molto comuni tra questo genere di femmine di romanzo). Ma proprio da tale ripetitività emerge, senza che Scaraffia lo sottolinei più che tanto, una sorta di impaccio dello scrittore davanti alla meretrice come creatura umana, come se la professione bastasse a caratterizzarla e non ci fosse bisogno di troppi altri elementi tranne quelli convenzionali (uno frequente è il fatidico cuor d’oro). Di norma un romanziere non si contenta di farci sapere che una sua creazione è, mettiamo, medico o architetto, ma dopo procede a dotarla di altri attributi. Della puttana però gli basta dirci che è tale. La sua attenzione va solo al di lei aspetto fisico, che può essere repellente (vecchia e patetica, giovane e macilenta) o appetitoso (gran seno).
Il che ci porta alla prima e forse più interessante parte del libro, una serie di brevi ed estrosi capitoli dedicati appunto a mignotte e casini ma autentici, e ovviamente raccontati in lettere, diari o simili). Quasi tutti gli scrittori furono assidui di tali istituzioni, a volte con entusiasmo, a volte con imbarazzo, a volte per curiosità (magari con accompagnatrici camuffate), a volte per necessità fisica. Qui non faccio i nomi, ma Scaraffia non li tace. Il materiale esaminato arriva alla fine del secolo scorso, ma in realtà l’argomento cessa con la chiusura delle case chiuse (scusate la tautologia), dopo la quale le cose continuarono in modo meno ordinato. Con la testa ancora immersa nei suoi narratori, complessati o un po’ troppo ansiosamente proclamanti di non esserlo, Scaraffia conclude domandandosi come mai anche nei nostri tempi permissivi la prostituzione «ispiri un oscuro ribrezzo», e il rapporto sesso-denaro continui a causare disagio. Qui mi frego gli occhi. Ma non vede i media? La escort non è forse diventata, oggi, un modello da ammirare e se possibile imitare? Altro che «Nouvelle lise des plus jolies femmes de Paris», ghiottamente pubblicato alla macchia nel 1891. Provate a andare su Internet.

La Stampa 13.1.12
Art Spiegelman: Il fumetto è come la memoria
Parla l’autore di Maus , in arrivo a Torino, che racconta in un nuovo libro la nascita della sua opera sulla Shoah
di Hillary Chute


MetaMaus è il nuovo libro di Spiegelman, uscito negli Usa a 25 anni di distanza da Maus (in Italia lo pubblicherà in primavera Einaudi): con una serie di vignette, estratti di taccuini, appunti e riflessioni, ricostruisce la nascita del celebre fumetto in cui raccontò la vicenda vera del proprio padre Vladek, internato ad Auschwitz, con gli ebrei raffigurati come topi e i nazisti come gatti. Un dvd allegato al volume raccoglie anche il racconto di Vladek Spiegelman, registrato dal figlio

Verso la fine degli Anni 70, quando aveva già cominciato a lavorare a Maus, Art Spiegelman, iniziando un nuovo taccuino, scriveva in apertura: «Perché un fumetto? ». E la risposta alla sua stessa domanda era: «Forse i fumetti, così popolari, semi-illetterati, disordinati, sono un modo appropriato per dire l’indicibile».
La pensi ancora così, Art?
«Non posso più farlo, perché il mondo è cambiato. Per prima cosa l’indicibile è detto in dieci minuti, e in secondo luogo i fumetti non sono più fumetti di una volta. Sono vecchio abbastanza per ricordare com’erano i fumetti, dominanti nella cultura dei mass media ma del tutto snobbati dalle librerie e dagli studiosi, che ora sono i più grandi alleati del graphic novel odierno. Così l’idea di quel mezzo si è evoluta e ha mutato di significato. Era difficile che avvenisse proprio in quel modo, ma ciò che ho iniziato a pensare più recentemente è: dopotutto Dante ha tratto l’italiano dal latino, i fumetti sono un linguaggio vernacolare».
Ora, per farti un’altra domanda più formale sui fumetti, in passato hai spesso parlato della relazione tra i fumetti e la memoria, dicendo anche che il fumetto è il mezzo perfetto per descrivere la memoria. Vogliamo approfondire?
«Certo, lo credo ancora. Non sempre concordo con me stesso, ma questo rimane centrale. Sai, se si pensa a una striscia a tre vignette, così come appariva sui quotidiani (che riposino in pace), ebbene, le vignette appaiono tutte insieme e prima di decodificarle uno le ha già viste tutti, perché sono in un unico spazio. Ma questo implica un passato, un presente e un futuro, che le tre vignette rappresentano in sequenza ma che sono tutte presenti allo stesso tempo. Ma il lettore può spaziare, saltando da una all’altra, leggendo prima una e poi l’altra. Questa è una vera mappa del tempo e inserisce la storia in un alternarsi di sequenze tra passato e presente: io posso vedere la vicenda globalmente prima di andare a cercare la parte del ricordo».
una particolare pagina di Maus che a me pare illuminante sul tema della memoria. È quella che racconta di tuo padre che dice di non ricordare un’orchestra ad Auschwitz e tu rispondi: non so, ma è tutto molto ben documentato. Potresti parlarci un po’ del tuo approccio a quella pagina?
«Ok, quella è una pagina che io sapevo di dover mettere da qualche parte nel libro, anche se non sapevo bene dove e come. Ma l’avevo in mente anni prima di disegnarla. A proposito, vorrei fare un inciso per dire che a volte sono molto diffidente verso gli accademici, ma il motivo per cui ho permesso a Hillary di entrare nella mia vita è stato leggere uno dei suoi primi scritti in cui, benché fosse solo una studentessa appena diplomata in letteratura, dimostrava di saper guardare alle cose in modo differente, senza usare un linguaggio in codice, e così era in grado di cogliere aspetti visivi in Maus che di solito sfuggivano alla gente che leggeva avidamente il mio racconto».
Grazie per questo complimento non previsto.
«Ma qui era necessario cercare di spiegare un rapporto tra me - che in quel caso ero l’intervistatore, la persona che stava creando e dando forma al libro - e mio padre, e il punto era che il ricordo è impreciso e parziale, perché è così che lavora la memoria. E avevo la necessità di usare con mio padre un argomento in qualche modo visivo per mostrargli come avviene, ed ecco, qui è scritto [mostra la striscia su uno schermo, ndr] “Ogni giorno, marciavo per andare al lavoro sperando di vedere di nuovo Mancie, era possibile che avesse notizie di Anna”, e si vede il flusso dei prigionieri che passa davanti all’orchestra, poi, passando al presente [indica la vignetta successiva, ndr], “Ho appena letto dell’orchestra da campo che suonava mentre voi uscivate dal cancello a passo di marcia", “Un’orchestra? " ribatte il padre. E poi, nella vignetta seguente: “No, non ricordo nessuna orchestra, solo che marciavamo. Dal cancello le guardie ci portavano al laboratorio. Come avrebbe potuto esserci un’orchestra? ”. “Non lo so, ma è molto ben documentato”. “No, al cancello io sentivo solo le urla delle guardie”. Così, questa era una situazione ben documentata, e quindi c’era un luogo in cui la cosa poteva essere contestualizzata.
«Quindi, nel primo quadro si vede l’orchestra nel suo insieme, per come ho capito, e questo esprime la mia opinione, poi si vedono i prigionieri che avanzano e nascondono l’orchestra, e questo in omaggio ai ricordi di mio padre, però mostro la cima di un violoncello, un paio di strumenti, come a dire, ehi lì c’era davvero un’orchestra, e poi ho fatto in modo che sullo sfondo la struttura degli assi di legno apparisse come un pentagramma. Ma questo non l’ha notato nessuno, tranne tu e io. E poi la marcia continua, fino alla vignetta successiva. E ciò porta a questo scontro di opinioni sulla memoria perduta, anche se ho capito che poteva essere semplicemente fuorviata quando, sempre a quel tempo, ho iniziato a studiare dove Vladek andava a lavorare: non doveva passare necessariamente dal cancello principale, poteva essere un cancello secondario per andare al laboratorio e in tal caso non sarebbe passato davanti all’orchestra. E quando è stato portato al campo non è arrivato con il treno, da dove si vedeva l’orchestra, ma su un camion, con appena una ventina di persone, la notte che venne arrestato.
«Così, è di certo possibile che non abbia mai visto nulla dell’orchestra, una bella combinazione. Ma io avevo necessità di avere quell’argomento, perché dovevo chiarire che stavo creando quell’opera. E una delle cose di cui sono grato a questo Meta-Maus è che tutto il libro è visto attraverso questo dvd che lo approfondisce e che permette, tra molte altre cose, di ascoltare le registrazioni delle conversazioni con mio padre e di sentirne la voce e ascoltare da lui la verità. E se io non posso togliere una volta per tutte la mia maschera da topo, lui può farlo e raccontare la storia con un’eloquenza che rappresenta la sua versione».
Copyright 92y Traduzione di Carla Reschia

giovedì 12 gennaio 2012

l’Unità 12.1.12
Aerei, satelliti, missili:
la difesa italiana costa 20 miliardi di euro
Rapporto di «Archivio Disarmo» sulle spese militari in Italia nel 2011:
una struttura sovradimensionata rispetto alle esigenze delle Forze armate
di Umberto De Giovannangeli


Troppi. Costosi. E, in alcuni casi, velleitari. È il quadro aggiornato della spesa militare in Italia 2011, così come emerge dal Rapporto dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, curato da Luigi Barbato. La premessa: «In un contesto di crisi economica rimarca il Rapporto i sacrifici richiesti ai cittadini, sia in termini di maggiore fiscalità che di tagli allo stato sociale, impongono una doverosa riflessione sulla sostenibilità economica dell’attuale modello. Inoltre prosegue il Rapporto sarebbe opportuna anche una aperta discussione in sede politica della congruità di alcuni programmi di acquisizione di armamenti particolarmente costosi e di dubbia rispondenza anche al modello di Di-
fesa attualmente in vigore. In particolare si fa riferimento al progetto dei cacciabombardieri F35, il cui costo appare eccessivo e che rischia di monopolizzare quelle non infinite risorse che forse dovrebbero essere comunque rivolte all’esercizio (addestramento, carburanti, manutenzione...)».
Il bilancio per la Difesa 2011 ammonta a 20.557 milioni di euro. Ai 20 miliardi e mezzo di euro del 2011, però, spiega Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo, vanno aggiunti circa 3 miliardi di euro inscritti nei bilanci di altri ministeri per scopi militari. «Il ministero dell’Economia e Finanze stanzia 754,3 milioni di euro per il Fondo di riserva per le spese derivanti dalla proroga delle missioni internazionali di pace – rileva l’Archivio Disarmo -, il ministero dello Sviluppo economico stanzia 1.483 milioni di euro destinato ad Interventi agevolativi per il settore aeronautico, 510 milioni di euro destinato ad interventi per lo sviluppo e l’acquisizione delle unità navali della classe Fremm (fregata europea multimissione) e una percentuale del budget del Miur viene destinata a progetti in ambito spaziale e satellitare delle forze armate. A questi vanno aggiunti il miliardo e mezzo di tutte le missioni di peacekeeping».
Non è finita. Nei capitoli di spesa degli anni a venire l’Italia ha già qualcosa da inserire.
«Sul bilancio dello Stato – spiega Simoncelli all’Agenzia Dire attualmente, esistono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d’arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. C’è anche il discorso del soldato del futuro: si parla di 25 miliardi nell’arco di 20 anni come se niente fosse. Si tratta di una serie di ipoteche sui bilanci degli anni prossimi che adesso non appaiono nei bilanci della Difesa, ma sono programmi che vengono approvati. E tutto questo proprio quando a tutti gli italiani è chiesto di fare sacrifici».
Della preponderanza oltre il 63% del bilancio delle spese per il personale, l’Unità ne ha dato conto in precedenti articoli.
Il Rapporto dell’Archivio Disarmo ci permette di aprire un altro capitolo, non meno interessante: quello relativo alle spese per l’investimento, suddivise per tipologia di programma. A fare la parte del leone è la componente aerea. Per mezzi aerei, infatti, l’Italia ha speso, o a in programma di spendere, 1.444,7 milioni di euro. Seguono mezzi navali, 324,7 milioni di euro, sistemi comando e controllo, 298,5 milioni, sistemi missilistici, 248,3 milioni. Per mezzi terrestri, la spesa scende a 78,9 milioni. Nel dettaglio, per una nuova portaerei Nave Cavour l’Italia ha già stanziato, nel bilancio 2011, 46, 2 milioni di euro, per sommergibili di nuova generazione U-212 -1ma e 2nda serie, 168,9 milioni di euro. Sono solo spese iniziali. Perché, rileva il Rapporto, gli oneri globali legati alla nuova portaerei saranno pari a 1.390 milioni di euro. Completamento previsto: 2016.
Spese mezzi aerei. Dei 131 F35 si è discusso e polemizzato ampiamente in queste settimane. Meno si è discusso su altri programmi. Come lo Sviluppo Velivolo Joint Strike Fighter (Jsf), 468,6 milioni di euro. Si tratta di un programma in cooperazione con Usa, Regno Unito, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia, Turchia. Per la fase di sviluppo (Sdd) l’investimento complessivo è di circa 1.028 milioni di dollari. Completamento previsto: 2012; per il programma relativo allo sviluppo, industrializzazione e supporto alla produzione (Psdf), la spesa prevista è di circa 900 milioni di dollari. Completamente previsto: 2047.
Altro capitolo preponderante è quello relativo a Eurofighter: programma, in cooperazione con Germania, Regno Unito e Spagna, relativo allo sviluppo e all’acquisizione di velivoli per la difesa aerea, con compito primario di contrasto delle forze aeree avversarie e con capacità secondaria di svolgere missioni di attacco al suolo. Oneri globali pari a circa 18.100 milioni di euro.
«Alcuni di questi progetti oltre a rappresentare una spesa onerosa, sono velleitari»: a sostenerlo, in una recente intervista a l’Unità, è il generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo. Il rapporto dell’Archivio Disarmo conforta questa valutazione. Il dibattito è aperto. Le scelte irrinviabili.

l’Unità 12.1.12
La crisi del ’29 e quella di oggi
Nessun punto di contatto fra i due periodi di instabilità finanziaria. Dalle pagine di Antonio Gramsci ci viene una lezione: non si può valutare una difficile situazione economica fuori dal suo contesto
di Giuseppe Vacca


Nel febbraio del 1933 Antonio Gramsci scrisse un commento alla crisi mondiale del 1929-1932 che inviterei a rileggere. È il paragrafo 5 del Quaderno 15, intitolato Passato e presente. La crisi, e potrebbe essere un utile punto di riferimento nella discussione attuale su quella che comunemente si definisce una «crisi finanziaria», cominciata negli Stati Uniti nel 2007 e divenuta progressivamente una crisi economica globale. Mi limito a riprendere alcuni spunti dello scritto di Gramsci che mi sembrano particolarmente fecondi.
Vorrei innanzitutto osservare che quando ci si trova in presenza di una crisi economica di proporzioni mondiali è erroneo e fuorviante isolarne un aspetto o cercarne una causa sola; si deve invece ricostruire un intero periodo storico nel quale le manifestazioni economiche della crisi, che variano nel tempo e si differenziano da Paese a Paese, possano essere spiegate in modo utile a risolverla. In altre parole, è necessario non isolare gli aspetti puramente economici del fenomeno se non per comodità analitica, purché vengano inquadrati in una ricostruzione storica complessiva nella quale si possano individuare gli attori e le strategie necessarie a creare nuovi equilibri e stabilità.
Applicando questo criterio all’andamento della crisi tra il 1929 e il 1932, Gramsci ne individuava l’origine nel contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica, e perciò proponeva di iscrivere il quadriennio in un periodo storico molto più lungo, caratterizzato dal manifestarsi di quella contraddizione e dalla inettitudine delle classi dirigenti a risolverla nell’unico modo possibile, cioè adeguando le forme e gli spazi della regolazione politica a quelli di un’economia sempre più compiutamente mondiale. Dal 2007 i paragoni fra la crisi attuale e quella del 1929 ricorrono di frequente, ma sono quasi sempre impropri e superficiali, poiché si coniugano con spiegazioni della crisi odierna riassunte in slogan del tipo «la globalizzazione della finanza espropria la politica», oppure con la denuncia dell’enorme crescita delle disuguaglianze redistributive come causa degli squilibri dell’economia mondiale o, infine, con l’accusa alla «speculazione» di creare le crisi dei debiti sovrani. Ma, per fare solo un esempio, come si fa a spiegare con uno o l’altro di quei concetti l’esplosione dei debiti sovrani in Europa quando è del tutto evidente che l’apprezzamento o la svalutazione dell’euro, per non dire dello spread fra i titoli del debito tedesco e quelli del debito di altri Paesi europei, dipendono dalla politica del governo germanico? Rileggere lo scritto di Gramsci può servire, quindi, ad attivare qualche difesa immunitaria contro quelle narrazioni o quanto meno a eliminare gli aspetti contraddittori di ricostruzioni più articolate, in cui però può capitare di ascoltare nello stesso discorso un racconto puntuale del modo unilaterale e aggressivo in cui la Germania ha esercitato la sua leadership nell’Europa dell’euro fino a determinarne la crisi, e spiegazioni della crisi complessiva fondate su un presunto, fatale predominio dell’economia sulla politica.
C’è stato un breve periodo, durante il 2010, in cui le vicende dell’economia mondiale venivano raccontate dai media come guerra delle monete. Anche questa era una interpretazione inadeguata, ma almeno sollecitava le menti a domandarsi: quando è cominciata «la guerra»? chi fa la guerra a chi? E come se ne può uscire? Insomma, era un modo di raccontare le vicende più vicino a una narrazione storica e quindi al senso comune dei cittadini, che vorrebbero essere aiutati a trovare delle spiegazioni plausibili e a individuare delle responsabilità, e non sentirsi oppressi dall’impotenza dinanzi a fantasmi indecifrabili come «l’economia che espropria la politica», la «speculazione internazionale» che minaccia la sovranità degli Stati, e simili. Ma quel periodo è finito proprio quando quell’approccio avrebbe dovuto essere affinato per investigare la crisi dell’euro.
Se il contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica squassava il mondo già nella prima metà del 900, esso appare ancora più acuto nel periodo attuale, in cui la globalizzazione dell’economia è più estesa, le classi dirigenti imputabili di nazionalismo sono ben più numerose e al tempo stesso sono inclini a un «neomercantilismo continentale» piuttosto che al nazionalismo politico o economico tradizionale.
La chiave di lettura dei loro comportamenti potrebbe quindi ricavarsi dalla ricostruzione dei loro successi e dei loro fallimenti nel governare le interdipendenze e le asimmetrie di potenza che caratterizzano la struttura del mondo da 40 anni. Non mi pare proponibile, invece, il paragone fra la crisi odierna e quella del ’29 sotto altri aspetti. Innanzi tutto, i Paesi protagonisti del conflitto economico mondiale di allora potevano ricorrere alla guerra mentre, per il bene dell’umanità, questa possibilità sembra oggi preclusa. D’altro canto, il numero maggiore dei partner dell’economia mondiale odierna rende ancora più imprevedibili la durata della crisi e il raggiungimento di accordi che generino un nuovo equilibrio come fu quello dei tre decenni successivi alla II Guerra mondiale.
In secondo luogo, un anno dopo aver scritto quel testo Gramsci mise ordine fra le note dedicate all’«americanismo» e individuò nel taylorismo e nel fordismo le leve di un nuovo industrialismo, che avrebbe potuto espandersi mondialmente e sovvertire le strutture antiquate della vecchia Europa. Poteva indicare, così, un nuovo modello di organizzazione delle masse e dell’economia che, diffondendosi nel mondo più sviluppato, avrebbe modificato e reso più controllabile quella contraddizione, con effetti incredibilmente progressivi. Non mi pare che nella crisi attuale si possa ravvisare nulla di paragonabile a cui appellarsi. Appare molto più plausibile, invece, il raffronto con un altro aspetto dell’analisi gramsciana: la stabilità monetaria internazionale come risorsa anticiclica dell’economia mondiale. È l’elemento oggi evocato da quanti auspicano «una nuova Bretton Woods». Naturalmente una moneta o un paniere di monete di riserva negoziato a livello mondiale non potrebbe coincidere con nessuna moneta nazionale e anche questo non consente di prevedere se e quando si potrà raggiungere l’obiettivo.
In conclusione vorrei osservare che le economie nord-atlantiche costituiscono nel loro insieme il più grande aggregato di risorse che potrebbero essere messe a disposizione di un nuovo ordine mondiale. Ma non si vede come potranno concorrere a creare nuovi equilibri e una nuova stabilità senza superare preliminarmente il dualismo fra euro e dollaro, il cui antagonismo è forse la vera causa delle crisi parallele, americana e europea, dell’ultimo decennio.

La Stampa 12.1.12
Intervista
“Rivoluzione Facebook? No, ha vinto la piazza”
Asma, attivista tunisina: non tradite la primavera araba
di Marco Bresolin


TORINO E smettetela di dire che la primavera araba è stata la rivoluzione dei social network. È stata la rivoluzione della piazza, dei martiri. Facebook e Twitter sono stati solo dei mezzi di comunicazione, proprio come lo erano il telefono o le lettere nei decenni scorsi». Asma Heidi Nairi, 23 anni, attivista di Amnesty International e protagonista della «rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia, scuote la testa quando sente parlare di «movimenti che hanno trovato una spinta nella Rete». A un anno esatto dalle sommosse popolari, che hanno causato la caduta di Ben Ali, la studentessa tunisina è oggi a Torino per l’incontro «Primavera araba, un anno dopo», in programma alle 18 al centro conferenze Campus Onu, a cui interverranno anche il direttore de «La Stampa», Mario Calabresi, e Domenico Quirico, inviato del nostro quotidiano.
Cosa resta oggi della rivoluzione tunisina?
«Una totale libertà d’espressione. Abbiamo finalmente ritrovato l’ossigeno, anche se la libertà d’informazione nel nostro Paese ora è in una situazione paradossale. Quasi tutti i gruppi che controllano i grandi media sono di sinistra, di opposizione. E pur di contraddire il governo ci bombardano ogni giorno con notizie false. Meno male che abbiamo Internet e i canali televisivi stranieri che smascherano tutte queste bugie».
Internet è stato il simbolo della vostra rivoluzione, un mezzo...
«Un mezzo, punto e basta. La rivoluzione l’abbiamo fatta andando in strada, mica stando davanti al pc. Purtroppo in Occidente c’è questa convinzione, perché voi la nostra rivoluzione che non è stata raccontata dai media tunisini l’avete vissuta solo grazie alla Rete. Ma per noi non è stato così».
La dittatura di Ben Ali, però, è intervenuta censurando il web.
«Chiaro, hanno cercato in ogni modo di zittirci. Per esempio entrando nelle nostre caselle di posta elettronica. La mia è stata bloccata più volte e ho perso centinaia di contatti. E se nelle nostre mail c’erano critiche al governo, il destinatario spesso riceveva messaggi criptati, con foto pornografiche o addirittura con annunci di automobili... Ma la censura non era solo nella Rete: per noi di Amnesty era impossibile riuscire a trovare un hotel che ci affittasse una sala per le nostre riunioni».
Qual è la situazione dei diritti delle donne, ora, in Tunisia?
«Esattamente come prima. Da noi la parità c’è sempre stata e Ben Ali usava proprio questa parità come arma per dire: “visto che siamo un Paese libero? ”. Le donne tunisine, nel mondo arabo, sono da sempre considerate le più emancipate. Tanto che si dice: “Non sposare mai una tunisina”... ».
Crede che la rivoluzione dei gelsomini sia stata determinante anche per far cadere le altre dittature, come ad esempio quelle in Libia o in Egitto?
«Certamente. Nel mondo arabo c’è una forte solidarietà e se succede qualcosa in un Paese anche gli altri si sentono toccati. Inoltre Ben Ali era considerato il più forte e così gli egiziani, piuttosto che i libici, hanno detto: “se ce l’hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi”. Ma credo che la stessa spinta sia arrivata anche molto più lontano, basta vedere gli indignati in Spagna o a Wall Street».
L’Italia è una delle mete dei migranti tunisini: cosa è cambiato dopo la caduta di Ben Ali?
«Sono cambiate le destinazioni. Ora molti tunisini preferiscono andare in Libia, in Qatar oppure a Dubai. Anche perché ci si sente molto meno discriminati. Ci si sente più sicuri in tema di diritti dell’uomo».
Religione e politica spesso si saldano nei Paesi arabi, anche ora che le dittature sono crollate. Quanto la seconda deve essere influenzata dalla prima?
«La mia risposta è una domanda: in Italia sono consentiti i matrimoni omosessuali? ».

Corriere della Sera 12.1.12
Sinistra. Insegnamento anche per il presente nel volume curato da Acquaviva e Gervasoni
Il duello che nessuno vinse
Così fallirono i disegni contrapposti di Craxi e Berlinguer
di Michele Salvati


«Perché l'Italia fu teatro di un lungo, acceso e spesso aspro "duello a sinistra"?... Perché questa lotta politica ebbe l'esito infausto che conosciamo, che nel 1992-94 si espresse nella morte del Psi e nell'involuzione dell'esperienza del Pci?... Quali conseguenze ebbe questo esito traumatico nel favorire il crollo della "Repubblica dei partiti"?». Non si tratta di «questioni archeologiche», sostiene Gennaro Acquaviva nella nota introduttiva da cui ho tratto la citazione. Ha ragione: ora che (forse) siamo all'epilogo della Seconda Repubblica, è illuminante riflettere sull'epilogo della Prima: due sistemi politici all'apparenza molto diversi, l'uno il frutto della crisi dell'altro, ma entrambi incapaci di assicurare all'Italia un buon governo ed entrambi conclusi da una grave crisi politica ed economica. Così grave da richiedere governi «tecnici», Ciampi e Dini nel 1993-95, Monti oggi.
La raccolta di saggi Socialisti e comunisti negli anni di Craxi (Marsilio, pagine 398, 29), curata da Acquaviva e da Marco Gervasoni, si riferisce alla fase finale della Prima Repubblica, alla sua crisi, e in particolare ai rapporti tra due dei suoi tre grandi protagonisti: socialisti e comunisti. Trattandosi di lavori seri, i vizi originari del sistema politico che si formò in Italia nel dopoguerra sono però sempre presenti. Ed è sempre presente il terzo grande protagonista, la Democrazia cristiana: se non direttamente, lo è attraverso i riflessi sugli altri due. E l'aver fissato l'attenzione sui difficili rapporti tra Psi e Pci ha il grande merito di concentrarsi sul nucleo centrale dell'anomalia italiana, al quale va fatto risalire il cattivo governo del nostro Paese nei lunghi trent'anni del centrosinistra: il predominio del Partito comunista nella sinistra e di conseguenza — nelle condizioni internazionali di allora — la conventio ad excludendum e l'impossibilità di alternanza. Conseguenza di questa conseguenza: quando la Dc e i partiti laici minori non furono più in grado di ottenere la maggioranza e un tentativo di riforma elettorale maggioritaria non andò a buon fine («legge truffa», 1953), l'alleanza tra Dc e Psi, il centrosinistra, divenne inevitabile. E fu inevitabile un cattivo governo, composto da partiti costretti a stare insieme ma con orientamenti e interessi profondamente diversi, tallonati da un partito escluso ma forte nella società e nelle istituzioni, radicato nel movimento sindacale. L'eccezionale inflazione degli anni Settanta e Ottanta e l'accumulazione del debito pubblico che ancora ci portiamo appresso — due indicatori importanti di cattivo governo economico — si manifestano proprio con il centrosinistra.
Questo è lo scheletro della storia. I nervi e i muscoli, i diversi aspetti del «duello a sinistra», sono analizzati in modo illuminante da tredici saggi di storici seri — di prevalente orientamento socialista, ma capaci di tener distinte le loro inclinazioni ideologiche dal mestiere di studioso — e sono arricchiti da tre gruppi di testimonianze di politici socialisti e comunisti di allora. Impossibile dare un'idea di 480 dense pagine in una breve recensione: la semplice indicazione dei nomi degli autori e degli argomenti trattati porterebbe via troppo spazio. Mi limito allora al saggio di Marc Lazar, non perché sia migliore di altri, ma perché la sua analisi comparata dei rapporti tra socialisti e comunisti in Italia e in Francia lo porta più vicino allo scheletro della nostra storia. Anche in Francia i comunisti emersero dalla Seconda guerra mondiale più forti dei socialisti e così restarono — anche se la sproporzione era minore che in Italia — per tutta la Quarta Repubblica e ben oltre l'inizio della Quinta. Che cosa determinò l'inversione dei rapporti di forza, l'accesso della sinistra al governo con un'alleanza Pcf-Ps a predominio socialista (Mitterrand, 1981) e poi il rapido declino dei comunisti?
Tanti sono i fattori finemente analizzati da Lazar e mi limito a sottolineare i tre che mi sembrano più importanti: le riforme costituzionali di de Gaulle, abilmente usate contro le intenzioni di chi le aveva proposte; l'attenzione di Mitterrand verso i comunisti — non un «duello a sinistra» — in vista di una possibile alleanza contro i «partiti borghesi» (e si trattava di una attenzione credibile, perché praticata da un partito, il Ps, che con i partiti borghesi non aveva contratto un accordo organico di centrosinistra, come invece aveva fatto il Psi); la maggiore libertà d'azione della sinistra in un Paese vincitore della guerra, cui gli americani non potevano imporre una conventio ad excludendum. Al di là dei diversi caratteri personali, queste erano le condizioni — insieme alla maggior forza del Pci rispetto al Pcf — che impedirono a Craxi di diventare il Mitterrand italiano.
Anche se sono frequenti, in saggi scritti nel 2010, i riferimenti successivi alla crisi politica del 1992-94, e dunque all'esperienza della Seconda Repubblica, nella sostanza i contributi di questo libro si attengono al tema che era stato loro proposto: il «duello a sinistra» tra socialisti e comunisti nella sua fase finale, nella crisi della Prima Repubblica. Non affrontano dunque il problema politico che li rende interessanti, «non archeologici», per un lettore di oggi.
Comunisti e socialisti non ci sono più, almeno come grandi forze politiche; prima l'alternanza non era possibile e oggi lo è; nella Prima Repubblica il sistema elettorale era proporzionale e ora è maggioritario: a queste differenze viene spesso attribuita la responsabilità del cattivo governo che condusse alla crisi e alla necessità di governi tecnici tra il 1993 e il 1996. Come mai, allora, ci troviamo oggi nella stessa situazione? La domanda è urgente, se ci preoccupiamo di che cosa accadrà dopo il governo Monti: ricadremo ancora in un cattivo governo «politico»? A questa domanda il nostro libro non può rispondere, ma fornisce buoni materiali per riflettere e soprattutto per escludere risposte superficiali.

Repubblica 12.1.12
Il teorema di Gramsci
Se gli esperti di politica non applicano il buon senso
Il clima d’opinione generale oggi più di ieri deve fare i conti con le mediazioni locali e micro-sociali, utili a capire fenomeni più ampi
Bisogna esplorare in profondità i luoghi dove le istituzioni, la democrazia, i partiti trovano le basi della loro legittimazione
di Ilvo Diamanti


La dissonanza fra pre-visioni e realtà, la stessa difficoltà a rilevarla e a riconoscerla, non possono non sollevare dubbi sull´adeguatezza degli strumenti teorici e metodologici adottati. Ho il sospetto, cioè, che gli approcci prevalenti negli studi e tra gli specialisti politici stentino a comprendere i cambiamenti, ma anche gli avvenimenti e i fenomeni più importanti dei nostri tempi. Perché concentrano la loro attenzione – spesso in modo esclusivo – sulle istituzioni e sugli attori politici a livello "macro" mentre sottovalutano, in particolare, quel che si muove nella società. Non solo, ma si disinteressano delle percezioni che si formano e prevalgono nelle relazioni interpersonali e locali. Ambiti ritenuti poco rilevanti, dal punto di vista euristico ma, prima ancora, epistemologico. Variabili socio-centriche inadatte, in quanto tali, a spiegare i fenomeni politici.
Tuttavia, è difficile considerare "dipendenti" le variabili che attengono ai fenomeni locali e micro-sociali – perché e in quanto tali. Il "clima d´opinione", in particolare, non può essere considerato "solo" il prodotto della comunicazione progettata e dispiegata dalle istituzioni, dai poteri, dai media a livello centrale. I messaggi che definiscono l´Opinione Pubblica, oggi ancor più di ieri, sono infatti mediati dai "micro-climi d´opinione". Intendo sottolineare, in questo modo, come il "clima d´opinione generale" debba fare i conti con le "mediazioni" locali e micro-sociali. Con mentalità e leader d´opinione che reinterpretano i messaggi generali. Li traducono e li trasmettono attraverso le reti sociali e personali che costellano il territorio, attribuendo loro un significato diverso e, talora, opposto rispetto alle intenzioni di chi li ha lanciati. Secondo un´eterogenesi dei fini che genera effetti non previsti e non desiderati dai protagonisti. (...)
Oggi stesso, d´altronde, nelle aree a forte presenza elettorale leghista, e quindi nelle province del Nord, gli elettori e i simpatizzanti del Carroccio sembrano convinti che la Lega, nonostante sia alleata di Berlusconi e al governo insieme a lui da un decennio (con la breve parentesi del governo Prodi), in effetti stia all´opposizione. La percepiscono come un Sindacato del Nord, impegnato a Roma a difendere gli interessi padani. A "portare a casa" il federalismo. Contro tutti. A ogni costo.
Per cui ogni responsabilità dei problemi economici e sociali che, in questa fase, preoccupano il Paese, ogni mancata riforma, ogni spiacevole conseguenza delle politiche pubbliche, da molti settori della popolazione del Nord (e non solo), viene spiegata rivolgendo gli occhi altrove. Anche quando i motivi di insoddisfazione coinvolgono il governo, gli elettori leghisti non si sentono coinvolti. Preferiscono spostare all´esterno la loro frustrazione. E talora ciò avviene anche tra gli elettori del centrodestra, in generale.
Racconto, a titolo di esempio "pop", un fatto capitato qualche tempo fa, che mi è stato raccontato da una testimone privilegiata, ai miei occhi credibile e attendibile. Mia suocera. Recatasi al supermercato vicino a casa nostra, in fila davanti alle casse si trovò accanto a una "vecchina" (così la definì mia suocera, che, peraltro, ha ottant´anni). Intenta a guardare il carrello, quasi vuoto, l´anziana signora si lamentava. Perché il carrello ogni mese era sempre più vuoto, visto che la pensione le permetteva un potere d´acquisto sempre più ridotto. Ce l´aveva con i politici, responsabili della sua condizione. Ce l´aveva soprattutto con il governo, per definizione primo e diretto "colpevole" dei suoi problemi personali di bilancio. E inveiva apertamente, neppure in modo troppo silenzioso. Tanto che al colmo della rabbia esplose in un´invettiva contro quel «p… di Prodi». Il principale colpevole. Sempre lui. Anche se da anni governava Berlusconi. E Prodi, ormai, non faceva (e non fa) più politica attiva. Ma il "senso comune" le impediva di accettare e riconoscere la realtà. Di mettere in discussione le sue convinzioni, le sue certezze. Più e prima che "politiche": "personali". Incardinate nella sua visione del mondo e della vita. Condivise con la sua cerchia di relazioni quotidiane. (...)
È dunque difficile capire quel che succede nella politica senza tenere conto della vita quotidiana, del senso comune, del territorio. Senza esplorare in profondità i luoghi dove i partiti, le istituzioni, la democrazia trovano le basi della loro legittimazione e del loro consenso. Assecondando la convinzione – superstizione? – che la comunicazione mediatica e in particolare la televisione risolvano tutto. Che i media, gli attori politici, in tempi di campagna permanente, possano manipolare ad arte e a loro piacimento il "consenso" dei cittadini. Al più, possono contribuire a cogliere e a plasmare il "senso comune", come suggerisce la teoria della "spirale del silenzio" di Elisabeth Noelle-Neumann. Secondo cui gli individui cercano approvazione e conferma da parte degli altri, nei loro luoghi di vita. In quanto temono, soprattutto, di essere stigmatizzati se si pongono in contrasto con le opinioni che ritengono prevalenti. Per usare una categoria già richiamata in precedenza (e formulata proprio dalla Noelle-Neumann), esiste un esteso conformismo sociale, condizionato dal "clima d´opinione" dominante, che induce al silenzio coloro che si percepiscano minoranza. Ciò riguarda soprattutto (ma non solo) gli elettori "marginali", definiti così perché stanno ai margini della scena politica e non hanno convinzioni forti. Temono, tuttavia, di sentirsi isolati e "perdenti" e, per questo, cercano di cogliere il pensiero della maggioranza.
Dispongono, a questo fine, di una «competenza quasistatistica» (come la chiama ancora la Noelle-Neumann) che esercitano nel rapporto con l´ambiente sociale ma, soprattutto, attraverso l´esposizione ai media. I quali diventano doppiamente influenti nel formare il "clima d´opinione". Da una parte, perché gli individui-spettatori attingono da essi informazioni e giudizi che vengono poi dati per scontati, diventano "reali" proprio perché legittimati dai media. Dall´altra parte, perché i media (soprattutto la televisione) condizionano le opinioni dell´ambiente sociale, dei gruppi e delle reti di relazioni in cui gli individui sono inseriti. E a cui gli individui chiedono conferma e rassicurazione. Da ciò il "silenzio" di quanti, per non sentirsi esclusi, preferiscono non sfidare il "senso comune".
In fondo, qualcosa di simile l´aveva (de) scritto, qualche tempo fa, Antonio Gramsci. Il quale distingueva tra "buon senso" e "senso comune". E citava, a questo fine, Alessandro Manzoni. Il quale nei Promessi sposi annotava che al tempo della peste «c´era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione, contro l´opinione volgare diffusa». Perché, aggiungeva Manzoni, «il buon senso c´era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». Un ragionamento che, senza voler apparire irriguardosi, potremmo applicare anche a noi stessi. Alla comunità scientifica di cui facciamo parte. Il "buon senso", cioè, ci spingerebbe a interrogarci maggiormente su quel che avviene a livello locale e micro-sociale, nella sfera personale e interpersonale. A esplorare altre teorie e altri orientamenti metodologici. Ma il "senso comune" della comunità scientifica e degli specialisti, che con Kuhn potremmo definire "paradigma dominante" (in tempi di "scienza normale"), ci induce a far finta di nulla. A negare la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osserviamo. Dall´alto e di lontano.

Repubblica 12.1.12
Perché far pagare le tasse è una rivoluzione culturale
di Stefano Rodotà


Il blitz di Cortina e la campagna per gli scontrini mostrano come la battaglia sul fisco stia diventando politica, contro le disuguaglianze e per l´equità
Una questione capitale che sembra destinata a sconvolgere equilibri colpire interessi consolidati e mettere fine ad antiche compiacenze
Siamo alla radice dell´obbligazione sociale: se "tutti" non significa veramente "tutti", allora il legame di solidarietà viene infranto

Nella controversa agenda politica di questa difficile stagione ha fragorosamente fatto ingresso la lotta all´evasione fiscale. Non più come tema polemico, non più come rivendicazione di qualche buon esito di un´azione amministrativa di contrasto, ma come questione capitale, destinata a sconvolgere equilibri, colpire interessi, revocare in dubbio compiacenze. Questo è avvenuto con due mosse fortemente simboliche. Il blitz a Cortina e una dichiarazione del Presidente del consiglio che ha indicato negli evasori quelli che «mettono le mani nelle tasche dei contribuenti onesti». Non siamo solo di fronte allo smascheramento dell´ipocrita vulgata berlusconiana, ma alla denuncia di una inaccettabile redistribuzione alla rovescia delle risorse, per cui oggi sono soprattutto i meno abbienti a pagare servizi di cui, troppe volte, sono proprio i più ricchi ad avvantaggiarsi (si pensi solo al caso dell´istruzione universitaria, alla quale spesso non riescono poi ad accedere i figli di chi maggiormente la finanzia). Ed è giusto ricordare quel che disse Tommaso Padoa Schioppa: «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l´istruzione e l´ambiente».
Ironie e dileggi accolsero questo limpido richiamo alle virtù civiche. E oggi sono violente le reazioni dei molti che ritengono inaccettabile una priorità come la lotta all´evasione, certamente incompatibile con il melmoso immoralismo che si è fatto cemento sociale e nel quale si è cercato il consenso politico. Ma i gesti simbolici sono importanti, a condizione che siano poi accompagnati da inflessibile volontà politica e da quella adeguata strumentazione tecnica ricordata da Alessandro Penati, con una sottolineatura significativa: la necessità di modificare "i comportamenti individuali e collettivi".
Qui si gioca la partita vera. Certo, «non si cambia la società per decreto» – ammoniva Michel Crozier. È indispensabile, allora, un lavoro che vada nel profondo e rimetta in onore principi fondativi abbandonati. E, poiché questi sono tempi in cui è così insistente il richiamo ai doveri (magari per rendere più debole l´appello ai diritti), bisogna partire dai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» previsti dall´articolo 2 della Costituzione. Ma contro la solidarietà sono state spese negli anni passati parole di fuoco, denunciandone i "pericoli" e, muovendo da questa premessa, si sono organizzate "marce contro il fisco". Si è così cercato di svuotare di senso sociale e di valore civile l´articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e secondo criteri di progressività. Da quest´insieme di doveri, invece, non si può "evadere".
Arriviamo così alla radice dell´obbligazione sociale e del patto tra cittadini e Stato. Nel momento in cui "tutti" non significa davvero "tutti", e emerge con nettezza che il contributo alla spesa pubblica appare inversamente proporzionale alla capacità contributiva, con i meno abbienti che pagano più dei ricchi, allora si rompe il legame sociale tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Il ritorno pieno al principio di solidarietà, come valore fondativo, è la via obbligata per interrompere questa deriva e la Costituzione, parlandone come di un insieme di doveri inderogabili, individua un criterio ordinatore dell´insieme delle relazioni tra i soggetti, anzi un connotato della cittadinanza.
Abbandonando quel riferimento, infatti, si innescano processi che dissolvono la stessa obbligazione politica. Torna alla memoria un´espressione icastica e fortunata, legata alla rivoluzione americana: «No taxation without representation» nessuna tassa senza rappresentanza politica, principio che ritroviamo nell´articolo 22 della Costituzione che affida solo alla legge, dunque a un atto del Parlamento, l´imposizione di prestazioni patrimoniali. Ma, una volta garantito il rispetto di tale principio da parte delle istituzioni pubbliche, il rapporto così istituito vincola il cittadino a fare la sua parte. L´evasione, allora, lo delegittima come partecipante a pieno titolo alla comunità politica.
Sono questi i punti di riferimento, rispetto ai quali valgono poco gli esercizi intorno al ruolo da riconoscere alla ricchezza. Questa, benedizione di Dio o sterco del diavolo, fa semplicemente nascere un dovere sociale. Non è una penalizzazione, dunque, un vera lotta all´evasione, ma lo strumento indispensabile per ricostituire una delle condizioni di base per il funzionamento di un sistema democratico. Ma il rigore non deve essere necessariamente declinato nei termini dell´emergenza. Come il contrasto alla criminalità non rende legittimo il ripescaggio delle perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, così la lotta all´evasione deve rifuggire da strumenti sbrigativi, e non in linea con le indicazioni europee, come quelle riguardanti la segnalazione di ogni movimento d´un conto corrente.
Ricordiamo, poi, che già l´articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789 parlava del diritto del cittadino di "seguire l´impiego" dei contributi versati. Una vera lotta all´evasione, dunque, ha come complemento necessario una totale trasparenza pubblica, una implacabile lotta alla corruzione, l´inaccettabilità d´ogni forma di uso privato di risorse pubbliche.

Repubblica 12.1.12
A Londra aliquote basse e Stato inflessibile
L’altra faccia del diritto
di John Lloyd


Il fatto che contribuire equivalga a godere della democrazia forse spiega la percentuale relativamente bassa di persone che tenta di sfuggire all´imposizione Ma negli ultimi anni questo numero è in aumento
L’evasione fiscale continuava a essere assai diffusa, soprattutto fra i lavoratori autonomi
Il miracolo economico aveva reso più evidenti i fenomeni di evasione fiscale
Razza padrona... cesellatori dell´evasione fiscale, surfers dello off shore

Al cuore della vita nazionale e civile c´è il diritto che un governo ha di imporre tasse. Sin dai primordi della vita in Gran Bretagna tale diritto è stato messo in rapporto con la democrazia: nella Magna Charta – l´importante documento dettato al debole re Giovanni nel 1215 dai potenti baroni – il re approvò che le tasse non sarebbero state imposte "fuorché da una decisione comune del nostro regno", prima forma di richiesta di voto sulle tasse che un re potesse esigere.
Quello, indubbiamente, fu un primo piccolo passo avanti, ma la richiesta dei baroni di fatto esprimeva un nuovo principio: tutte le persone fuorché il sovrano avevano tanto diritti quanto doveri. L´idea di uno stato più grande di colui che governa fu poi espressa compiutamente per la prima volta da Niccolò Machiavelli, ma ad anticiparla in un certo senso furono i baroni inglesi e tale criterio entrò a far parte delle consuetudini a mano a mano che il parlamento divenne più potente.
L´importanza che la regolamentazione fiscale ha assunto nella storia britannica e il fatto che equivalga all´avere diritti civili spiegano la percentuale relativamente bassa di evasione fiscale. Percentuale relativamente bassa di evasione non significa necessariamente che essa sia bassa in assoluto: da varie stime si calcola che l´elusione fiscale (lecita) e l´evasione fiscale (illecita) costino al Tesoro fino a 40 miliardi di sterline l´anno. Tale cifra è in ogni caso di gran lunga inferiore agli stimati 275 miliardi di euro che vanno persi nell´economia sommersa italiana, in buona parte per evasione fiscale, ed è ancor più inferiore agli stimati 500 miliardi di euro che gli italiani custodiscono all´estero e non dichiarano come facenti parte dei loro beni.
Come si spiega questo fenomeno? Prima di tutto c´è il presupposto che nel Regno Unito le tasse debbano essere pagate sic et simpliciter – retaggio in parte storico, in parte dovuto al timore che si ha del fisco, particolarmente severo nei confronti di chi prova a evadere. Le autorità del fisco britannico non danno per scontato – come spesso affermano quelle italiane o i politici italiani stessi – che sia impossibile prendere chi evade le tasse o assicurare alla giustizia quel gran numero di imprenditori, lavoratori autonomi e in proprio che dichiarano redditi di gran lunga inferiori a quelli reali.
In secondo luogo la forma più comune di tassazione, quella sui redditi, è relativamente bassa e benché il governo abbia alzato la percentuale massima per i più abbienti portandola al 50 per cento, ha anche detto che la ridurrà quanto prima possibile.
In ogni caso, però, l´elusione e l´evasione fiscale sono aumentate nel Regno Unito, sia da parte delle aziende sia dei singoli cittadini. Le piccole aziende ormai chiedono sistematicamente pagamenti in contanti così da poter evitare di dichiararli come introito, e le società – soprattutto del settore finanziario – reclutano intere squadre di consulenti fiscali il cui unico compito è quello di spostare i capitali verso attività e giurisdizioni dall´imposizione fiscale più bassa possibile. Come in Italia, anche l´attuale coalizione di governo in Gran Bretagna ha dichiarato guerra agli "evasori fiscali", ben sapendo che il fardello dell´evasione ricade su coloro che sono ligi al pagamento delle tasse. Il principio dell´obbligatorietà democratica di pagare le tasse è andato scomparendo: sia David Cameron sia Mario Monti credono di poterlo riaffermare, ma il primo ministro italiano farà più fatica.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 12.1.12
Contribuenti infedeli dall’impero romano a oggiLe rivolte e i furbetti
di Giorgio Ruffolo


Francesi e britannici reagirono in modo diverso alle imposte eccessive dovute alle guerre e alle imprese coloniali. Gli uni con la rivoluzione, gli altri con un duro confronto politico tra Comuni e sovrano

Secondo una ricerca americana si possono contare oltre duecento famose rivolte fiscali nella storia dell´era cristiana, dal primo secolo ad oggi: da quelle legate ai grandi movimenti popolari di lotta per la libertà – le grandi rivoluzioni americana francese russa – alle ribellioni popolari contro la tassa sul whiskey negli Stati Uniti o all´insurrezione provocata dalla bella Lady Godiva a Coventry nel 1067 contro il marito che aveva inflitto alla popolazione una tassa intollerabile, fino al punto di sfidarlo cavalcando nuda per la città.
Altre però sono le rivolte popolari contro l´oppressione fiscale, altri i fenomeni di evasione fiscale. Le prime sono condotte in nome della giustizia e della solidarietà, gli altri attraverso il privilegio e la diserzione. Tre sono le principali caratteristiche dell´evasione fiscale: l´indifferenza, la differenza, la privatezza. Indifferenza verso la solidarietà sociale; differenza proclamata o praticata verso concittadini di altri luoghi o altri credi; privatezza, chiusura dei rapporti di solidarietà entro l´ambito familistico.
Può senz´altro contribuire ad alimentare questi sentimenti una eccessiva pressione fiscale. È il caso, nell´antichità, della persecuzione dei cittadini romani oppressi dal fisco nella tarda età imperiale: intollerabile fino al punto da indurli a rifugiarsi nelle terre dei barbari, Ma, in primo luogo, l´evasione si manifesta anche in presenza di regimi fiscali ragionevoli. Inoltre, la reazione sociale ad una pressione fiscale pesante è diversa secondo il contesto sociale. Ad esempio, all´inizio dell´età moderna, la pressione fiscale delle grandi monarchie europee divenne particolarmente invadente: in Francia a causa delle continue guerre provocate dall´irresponsabile aggressività di Luigi XIV che esigeva un massiccio finanziamento degli eserciti. In Inghilterra a causa delle conquiste coloniali, che comportavano l´onere di una grande flotta. Il peso rispettivo delle imposte nei due paesi era grosso modo equivalente. Ma la reazione politica fu diversa. In Francia, la borghesia reagì con una contestazione sempre più accanita, che sfociò poco più tardi nella rivoluzione. In Inghilterra in una contrapposizione certo energica tra i Comuni e la Corte, che tuttavia non giunse, se non in un breve periodo, a pregiudicare l´unità politica del paese. La diversa reazione si deve al diverso grado di coesione sociale.
Quello dell´Italia, è il caso di un paese nel quale, a differenza della Francia e dell´Inghilterra, la nazione non si è consolidata nella forma dello Stato nazionale moderno, ma in quella di un conglomerato di Stati regionali prosperi per ricchezza, smaglianti per cultura, ma militarmente e politicamente fragili. L´Italia ha pagato la sua secolare egemonia con una secolare servitù che ha fiaccato il nerbo della coscienza civile e ostacolato la formazione di una coscienza nazionale. Ora, è proprio sulla coscienza civile e nazionale che si fonda in ultima analisi il rispetto dello Stato e la solidarietà dei cittadini, entrambe gravemente carenti nel nostro paese. La particolare gravità dell´evasione fiscale, di dieci punti superiore, ancora oggi, a quella della media europea, testimonia di questa inferiorità sociale e morale. Di cui è espressione eloquente il benign neglect verso l´evasione fiscale di un recente Presidente del Consiglio che in nessun altro paese moderno avrebbe potuto manifestarlo.
Per consolarsi in qualche modo si può ricordare che al momento dell´unificazione, centocinquanta anni fa, non pagavano le tasse la metà degli italiani. Sono stati ridotti a 25 per cento cinquanta anni fa e a 17 per cento oggi. Il tempo, almeno quello, è galantuomo.

Repubblica 12.1.12
Dalla matematica alla fisica le formule per capire il mondo
Da domani con "Repubblica" una nuova collana di libri a un euro. Venti volumi con lezioni d’autore e testi scelti
di Piergiorgio Odifreddi


Perché fare una serie di libretti sulla scienza? Si potrebbe rispondere, semplicemente, cosa disse l´alpinista George Mallory al giornalista che gli domandava perché mai volesse scalare l´Everest: «Perché c´è». Naturalmente, si tratta di evitare di fare la sua stessa fine, rimanendo stecchiti e congelati sulle vette del pensiero.
Che anche la scienza ci sia, è un fatto. Se non ci fosse, non ci sarebbe neppure la tecnologia che su di essa si basa, e la nostra vita sarebbe sicuramente molto diversa: niente auto, aerei, telefonini, televisioni, computer, frigoriferi, cibi conservati, medicine… Torneremmo al medioevo, e per molti di noi non sarebbe una bella prospettiva.
Anzi, per tutti. Perché anche coloro che credono che il mondo sia popolato e influenzato da spiriti, quando si muovono da una città all´altra, mica ci vanno volando a cavallo di una scopa. E quelli che credono che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni, quando si ammalano, magari pregano o fanno gli scongiuri, ma corrono pure loro dal medico o in ospedale, a fare esami e farsi prescrivere medicine.
Dunque, semmai ci sarebbe da domandarsi perché così tardi una serie di libretti sulla scienza. Comunque sia, meglio tardi che mai. E il problema è diventato come farla, questa serie. Un bel problema, perché si trattava di comprimere millenni di una storia intensissima e bellissima, in soli venti libretti.
La scelta è stata di concentrarsi sui grandi nomi: quelli noti a tutti, anche se quasi nessuno sa bene perché. Abbiamo dunque deciso di raccontare le storie, personali e professionali, di coloro che hanno forgiato le nostre vite intellettuali e influenzato le nostre vite materiali: Pitagora, Archimede, Copernico, Galileo, Newton, Darwin, Maxwell, Mendeleev, Pasteur, Einstein, Planck…
E abbiamo fatto raccontare le loro storie agli "espositori" italiani più noti. Quegli scienziati, cioè, che sono generosamente usciti dal castello d´avorio della ricerca, per avvicinare il grande pubblico alla scienza. Quelli che scrivono sulle pagine culturali, che pubblicano libri divulgativi, che fanno conferenze popolari. Insomma, quelli che già facevano ciò che abbiamo loro chiesto di fare, e che i lettori già conoscono.
Ma la scienza non è un museo egizio o un obitorio, popolato solo di mummie o di cadaveri da sezionare. È fatta da scienziati tra i quali abbiamo reclutato alcuni dei grandi nomi del presente: quattro premi Nobel (Watson per la medicina, Kroto per la chimica, Glashow per la fisica, Nash per l´economia), una medaglia Fields (Witten), e il matematico più famoso del mondo (Wiles). E abbiamo chiesto loro di raccontare le proprie scoperte: la doppia elica del Dna, la molecola a forma di pallone da calcio, l´unificazione elettrodebole, la teoria dei giochi, la teoria delle stringhe, la dimostrazione del teorema di Fermat.
Per noi è stato un privilegio collaborare con tutti gli espositori. Ora ci auguriamo che sia un piacere per il pubblico leggerli.

il Riformista 12.1.12
Israele ricorda alle altre nazioni che nessuno è autoctono
Donatella Di Cesare nel suo “Se Auschwitz è nulla”, ricostruisce le tesi negazioniste e le loro ripercussioni sulla storia recente
di Corrado Ocone


Il negazionismo, la tesi che tende appunto a negare o semplicemente a ridimensionare il fenomeno dello sterminio in massa nelle camere a gas degli ebrei da parte dei nazisti, non può essere giudicato e condannato sul terreno meramente storiografico, come finora per lo più si è fatto. Non si tratta infatti di una tesi storica, per quanto aberrante, ma di un progetto politico. Lo stesso che mosse i nazisti nella loro opera di “purificazione” antisemita. Fra quell’annientamento e questa negazione c’è un sottile filo rosso. E i primi negazionisti sono stati proprio i nazisti. È questa la tesi forte di un pamphlet appassionato, informato e limpido nella scrittura che esce oggi per i tipi de Il Melangolo: Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (pagine 127, euro 8).
Autore è Donatella Di Cesare, ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, già allieva prediletta di Gadamer a Heidelberg e ora vicepresidente della Heidegger Gesellschaft: «Himmler affermadisse agli ufficiali delle SS che la “gloriosa” pagina di storia, che stavano per scrivere, era una pagina che non era mai stata scritta e che non sarebbe mai stata scritta».
Il volumetto si legge con intensità ed è pieno di notizie e fatti, spesso non conosciuti ai molti, sulla Shoah. Contiene anche una ricostruzione delle tesi negazioniste, da quelle più sfacciate a quelle più mascherate da intenti scientifici e quindi più pericolose (la critica delle tesi di Nolte è da questo punto di vista illuminante e calzante). Le stesse odierne farneticazioni di un Ahmadinejad vengono ricondotte dall’autrice ad un filone, poco esplo-
rato, di promozione e diffusione del nazismo nei paesi musulmani iniziato addirittura nel 1939 quando il Terzo Reich sponsorizzò la traduzione in arabo del Mein Kampf di Hitler e dei falsi Protocolli dei Savi di Sion (la vicenda è ricostruita in Propaganda nazista nel mondo arabo di Herf Jeffrey, che esce in questi giorni in traduzione italiana per le edizioni dell’Altana, pagine 464, euro 19).
Il fatto tuttavia che il libro sia stato scritto da una filosofa presenta sicuramente un valore aggiunto perché evita di cadere in alcuni tranelli teorici che, se sviluppati logicamente, potrebbero mettere in crisi la memoria condivisa dello sterminio. La stessa celebre espressione di Adorno sulla impossibilità di pensare dopo Auschwitz, e quindi sulla sua “singolarità” o “unicità”, va concepita, secondo la Di Cesare, non come un vuoto che si sarebbe creato nel processo storico ma proprio come la reiterazione sempre possibile nel futuro di un evento che non può dirsi mai appartenente solo al passato. Sottrarre alla comprensione storica lo sterminio potrebbe cioè causare proprio l’effetto della non comprensione delle dinamiche sempre in atto che hanno permesso di realizzarlo. L’autrice ci mette poi in guardia anche su un altro argomento capzioso molto in voga, soprattutto a sinistra: la distinzione fra antisionismo e antisemitismo, con la connessa messa in discussione della legittimità storica e democratica dello Stato di Israele in quanto lesivo dei diritti del popolo autoctono. A parte il fatto che gli insediamenti ebraici in quello che è oggi Israele erano già numerosi prima della Shoah, «si possono sfidare tutti i popoli a provare il loro diritto. Nessuno è autoctono». La conclusione è che «Israele irrita la sovrana autocoscienza delle nazioni ricordando a sé e agli altri che sulla terra siamo tutti ospiti temporanei e che forse è venuto il tempo di pensare alla possibilità di un nuovo abitare».

Corriere della Sera 12.1.12
Il drago della Speranza
«Facciamo una festa insieme per dire grazie della solidarietà, contro la paura e la violenza»
di Paolo Conti


«Invitiamo i cittadini romani e italiani ad accogliere questo nuovo anno insieme a noi anche per dire "no" alla violenza e alla paura. Il dolore che proviamo per la perdita di due nostri connazionali, per giunta di una bambina così piccola, vittime di un atroce delitto, deve far riflettere. Non ci si deve rassegnare alla violenza e alla criminalità. Sarebbe una vittoria degli aggressori violenti».
La dottoressa Yang Yenyen è la responsabile della comunicazione dell'Ambasciata cinese. E risponde con molta pacatezza a una domanda inevitabile: perché la Comunità cinese (più di duecentomila persone in tutta Italia, sicuramente più di 20.000 nella sola Capitale) ha deciso, in accordo con l'Ambasciata, di confermare l'appuntamento del grande Capodanno cinese convocato per sabato 14 gennaio a Roma, in piazza del Popolo? L'assassinio di Zhou Zeng e della sua piccola Joy non avrebbe dovuto suggerire una sospensione?
Proprio ieri, in prima pagina sul Corriere, Dario Di Vico ha sottolineato come questo tragico episodio abbia prodotto, proprio durante il grande corteo di solidarietà organizzato a Roma, un «segnale di apertura reciproca» tra la comunità cinese e quella italiana. Esattamente ciò che sostiene Yang Yenyen: «La festa sarà anche un'occasione per ringraziare la comunità italiana della solidarietà che ci ha dimostrato in questi giorni. Un proverbio cinese dice: un dolore condiviso si dimezza, una gioia condivisa si raddoppia».
Dunque l'appuntamento per sabato 14 gennaio non solo è confermato ma verrà esplicitamente dedicato alle due vittime dell'agguato di via Giovannoli. Tutto comincerà alle 14.30 in piazza Augusto Imperatore: corteo di 160 artisti verso piazza del Popolo, poi l'accoglienza da parte dell'orchestra della Polizia Municipale di Roma Capitale, l'ambasciatore cinese Ding Wei e il sindaco di Roma Gianni Alemanno che dipingono di rosso gli occhi di due draghi (come impone la tradizione) e poi spettacoli di danza, di acrobazie, di musica, estrazione della lotteria del Drago e infine, alle 18, i famosi fuochi artificiali cinesi.
Il Capodanno cinese 2012 non è solo l'inizio del nuovo anno tradizionale lunisolare che si concluderà il 9 febbraio 2013. Soprattutto, nel nostro Paese, è la conclusione dell'Anno della cultura cinese in Italia, fortemente sostenuto dai vertici della Repubblica Popolare e inaugurato nell'ottobre 2010 dal premier Wen Jiabao durante la sua visita in Italia e anche come segno per la celebrazione del 40° anniversario dell'apertura delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina. In tutto 200 manifestazioni culturali organizzate nel 2011 dalla Cina in tutto il territorio italiano, in particolare in dodici regioni e trenta comuni col coinvolgimento complessivo di un milione di spettatori.
Dice l'ambasciatore Ding Wei in una dichiarazione: «Questo anno culturale è stato una grande opportunità di scambio e dialogo fra le nostre due antiche civiltà e soprattutto ha promosso un'ampia piattaforma di collaborazione in diversi settori fondamentali, dalla politica al commercio, dalle conoscenze scientifiche all'insegnamento, dal turismo alla letteratura e alla difesa dei diritti delle donne. Attraverso gli eventi portati in Italia abbiamo voluto offrire un'immagine della Cina aperta e collaborativa, ci siamo proposti infatti come partner affidabile per molti progetti di collaborazione». I dati commerciali forniti dall'ambasciatore sono confortanti: volume commerciale aumentato del 19.5% tra i due Paesi, esportazioni dell'Italia verso la Cina che segnano un +27,8% con un volume di 14.5 miliardi di dollari, le esportazioni della Cina in Italia registrano un +15,7% con un volume di 29.9 miliardi di dollari. Nei primi dieci mesi del 2011 il volume ha raggiunto quota 44 miliardi di dollari, con un aumento del 19.5% L'ambasciatore cinese ha un progetto: «Se la celebrazione del Capodanno diventasse una ricorrenza fissa annuale, sarebbe un'occasione preziosa per condividere i valori di questa festa e migliorare l'integrazione e la conoscenza reciproca tra le nostre due comunità».
Ora comincerà l'anno del Drago, immagine molto positiva in Cina, simbolo antico dell'imperatore e quindi di nobiltà e di imprese gloriose, animale di grande potenza capace di volare in cielo e di nuotare nelle acque. Un ottimo auspicio, per la Cina come per l'Italia.