domenica 15 gennaio 2012

l’Unità 15.1.12
Il leader Pd critica la linea Merkel-Sarkozy: «Serve difesa vera dell’euro»
Invito ai progressisti europei: piattaforma comune per combattere le destre
Bersani: è la politica dell’Europa che è finita in serie B
Assemblea del Pd lombardo, Bersani attacca la Germania e spinge per una piattaforma alternativa dei progressisti. «Basta con politiche che ci portano a fondo». «Il 2012 cruciale, il Pd deve incontrare l’Italia»
di Laura Matteucci


«La tripla A l’ha persa la politica Merkel-Sarkozy, che si dimostra non salva l’Europa». Pier Luigi Bersani chiude a Milano l’assemblea del Pd lombardo, lancia le nuove parole d’ordine per un anno definito «un passaggio cruciale e delicato», difende il governo Monti «adesso si discute di problemi reali» pur criticandone alcune scelte «che vanno aggiustate». E parlando di politiche nazionali non può sottrarsi ad uno sguardo europeo. Perché «un passo noi e un passo l’Europa», «altrimenti da questa crisi non ne veniamo fuori». I prossimi saranno passi di riforme, perché quanto a manovre l’Italia la sua parte l’ha fatta: «Non si può chiedere di più, a meno di innescare un meccanismo recessivo che farebbe saltare i conti». Per essere chiari: «Siamo ingombranti riprende il segretario Pd abbiamo la forza di dire basta con politiche sbagliate che ci portano a fondo». E non salvano l’Europa, appena bocciata da Standard & Poor’s: «È il meccanismo dei 10 piccoli indiani, uno a uno dice Bersani Senza una difesa vera dell’euro non si salva nessuno, a partire dal rafforzamento del fondo salva-Stati e dal coordinamento delle politiche macroeconomiche». Le stoccate maggiori sono per la Germania, che «dovrebbe ricordarsi che senza l’Europa non sarebbe così». L’invito è per tutti i progressisti europei, che accelerino la definizione di una piattaforma per combattere gli «ostacoli ideologici» che impediscono a Berlino di aprire a soluzioni condivise.
PRESENZA CRITICA
L’invito al Pd per quest’anno di preparazione alle elezioni, invece, è quello di «incontrare l’Italia»: «discutere i problemi», «essere presenti nei luoghi di sofferenza», «incrociare chi ci sta provando». E mantenere viva la battaglia politica. Con le critiche ai provvedimenti del governo, che già col Milleproroghe potrebbe mettere mano alle situazioni dei lavoratori precoci e di chi si trova senza lavoro e senza pensione. Paletti fermi anche sulle liberalizzazioni, in particolare dei farmaci, che deve servire «ad aprire un mercato concorrenziale liberalizzando prodotti, non ad aggiungere qualche posto a tavola ai monopolisti». Poi ci sono le proposte, come quella, già formulata, sulla riforma del mercato del lavoro: «Nel Pd c’è una posizione maggioritaria e un’altra, minoritaria. Ci avvaliamo di quella maggioritaria. Un messaggio che dicesse “rendo più facile lasciarti a casa” sarebbe assurdo», con riferimento alla polemica sull’articolo 18. Bocciatura secca anche per la vagheggiata flexsecurity alla danese: «A chi non piacerebbe? Il problema è che noi la vediamo col binocolo».
Battaglia politica significa anche messaggi chiari alle altre forze, avversarie e non. A Di Pietro, che sulla decisione della Consulta sul referendum per la legge elettorale «ha detto frasi che avevo sentite solo da Berlusconi. Comunque non voglio pensare si voti con la legge Calderoli». Alla Lega: «Ci hanno parcheggiato per 8 anni sull’orlo dell’abisso, adesso stiano zitti». In altri termini: «Dobbiamo andare ad alzo zero alla prima parola. Il caso Cosentino ha fatto riaffiorare vecchie logiche: l’incrocio tra populismi leghisti e berlusconiani è ancora vivo, funzionante e putrido».
La Lega, qui nella capitale del nord, dove domenica prossima Bossi tornerà di scena con una manifestazione, è sempre tema sensibile. Gli attacchi arrivano anche dal segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina: «Non le consentiremo dice di tornare su questi territori con l’idea assurda del secessionismo». «Attenzione però interviene Piero Fassino, sindaco di Torino, anche lui presente all’assemblea lombarda a non lasciare in mano loro la questione settentrionale, che esiste davvero come dicono anche le cifre, a partire dal fatto che il 70% del lavoro è concentrato qui, come pure il 75% del prelievo fiscale». La questione del nord, e degli Enti locali nel complesso, dev’essere quindi tra le priorità dell’agenda di governo. Come dice il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: «Se avremo risposte ai bisogni degli Enti locali, daremo forza al governo. E ce la faremo a cambiare, dopo Milano, la Lombardia e l’intero Paese».

l’Unità 15.1.12
«Stati Uniti d’Europa» Da socialisti e Pd un milione di firme
Martedì si vota per il capogruppo dei socialisti e progressisti al Parlamento europeo: in pole position l’austriaco Swoboda, ieri a Milano a un’iniziativa del Pd. I progressisti lanciano una petizione per gli Stati Uniti d’Europa
di La. Ma.


Almeno un milione di firme in almeno sette Stati: è l’obiettivo della petizione che il Pd e i progressisti europei hanno deciso di lanciare per costruire gli Stati Uniti d’Europa. «Ci vuole una grande mobilitazione spiega il capogruppo Pd a Bruxelles David Sassoli per invitare la Commissione a legiferare». Sassoli porta l’esempio di California e Grecia, «che sono nella stessa situazione, ma nessuno si sogna di attaccare la California perché ci sono gli Stati Uniti e la Federal Reserve». «Gli Stati Uniti d’Europa e l’elezione diretta del presidente dell’Unione aggiunge l’europarlamentare Antonio Panzeri È da qui che deve partire la sfida per cambiare il volto dell’Europa». All’iniziativa «Più Europa più futuro», organizzata a Milano dal Partito democratico lombardo, sono intervenuti anche i tre eurodeputati candidati alla successione a Martin Schulz alla guida dell’Alleanza dei socialisti e democratici, per la quale si vota martedì: la francese Catherine Trautmann, l’inglese Stephen Hughes e l’austriaco Hannes Swoboda, dato in pole position per l’elezione all’incarico.
CAMBIO DI PASSO
«Le agenzie di rating oggi sembrano essere bracci armati dice l’eurodeputata Patrizia Toia un pericolo che noi progressisti europei denunciamo da tempo». Il declassamento di mezza Europa deciso da Standard & Poor’s dimostra che ci vuole più Europa: di questo sono convinti gli europarlamentari dell’Alleanza progressista. «È necessaria una reazione forte dell’Europa», riprende Panzeri. Il che significa un fondo salva-Stati potenziato, l’ingresso nella «logica degli eurobond» e anche la necessità di «convincere il governo tedesco ad avere una posizione più morbida sia sulla revisione dei trattati, sia per la politica fiscale comune». Swoboda parla di risposta «caotica, tardiva e insufficiente» da parte dell’Europa alla crisi che la sta attraversando: «Il mercato aggiunge vuole dividere i Paesi, che invece sono tutti collegati tra loro», e ora «la risposta dev’essere comune».
Anche per la Trautmann, di fronte a quello che chiama «un meccanismo infernale, un gioco del domino», la reazione europea è stata «insufficiente sia dal punto di vista finanziario sia della solidarietà». «Noi aggiunge poi siamo ostili a un direttorio a due Merkel-Sarkozy. Con il Pd condividiamo la visione che non si può trovare una soluzione da soli. La decisione delle agenzie di rating può essere criticata, ma di fatto la conseguenza è che i soldi sono più cari, pesano sui cittadini, e per rispettare gli impegni di rigore non so come faremo». Hughes, candidato anche lui alla presidenza dell’eurogruppo, ma decisamente più defilato rispetto agli altri per le posizioni di contrasto assunte dalla Gran Bretagna rispetto alla tassa sulle transazioni finanziarie, legge la situazione «come un incidente stradale alla moviola. L’Europa deve cambiare approccio, e fare spazio innanzitutto agli investimenti».

il Fatto 15.1.12
“Così faremo pagare gli evasori”
Luigi Magistro, super 007 dell’Agenzia delle Entrate, spiega al Fatto come si può piegare la lobby più potente: 10 milioni di furbetti fiscali
di Giorgio Meletti e Marco Travaglio


Tutto quello che volevate sapere sull'evasione fiscale: fatti e cifre, tempi e metodi, leggi, abitudini e culture. E tutto sulla caccia agli evasori. Ne abbiamo discusso per oltre due ore con Luigi Magistro, 52 anni, direttore centrale dell'accertamento all'Agenzia delle Entrate, dopo oltre 20 anni di carriera nella Guardia di Finanza. Detto in chiaro, è l'uomo che guida la lotta all’evasione fiscale, a capo di un esercito di 15 mila ispettori, poco meno di metà dei dipendenti dell’Agenzia

Sono troppo pochi gli ispettori”, chiarisce subito Luigi Magistro, “tre anni fa eravamo 17 mila, ma non sostituiamo chi va in pensione. Dovremmo essere almeno il doppio”.
Il 2012 è iniziato con le polemiche sul blitz dei suoi 80 ispettori a Cortina. Stato di polizia fiscale?
Questo che chiamiamo blitz, per capirci, in realtà è una attività ordinaria e neppure rilevantissima. Lo definiamo “presidio del territorio”, e se ne occupa principalmente la Guardia di Finanza, con circa 500 mila controlli l’anno. Noi ne facciamo 50 mila.
Il clamore suscitato stavolta è però indubbio.
Me lo spiego con il momento storico. Si sta determinando, finalmente, molta sensibilità nel-l’opinione pubblica: mai come in questo momento le persone oneste si sentono esasperate dalla pressione fiscale, e l’evasore rimane doppiamente inviso.
Lei dice che non è stata un'iniziativa estemporanea.
No. L'estate scorsa abbiamo fatto oltre 20 operazioni del genere nelle località turistiche, mi ricordo Capri, la riviera romagnola, la costiera amalfitana...
Qui si parla di imprese piccole o individuali. Ma sui grandi evasori che cosa fate?
È quello di cui ci stiamo occupando sempre più intensamente. Abbiamo messo nel mirino le grandi imprese, quelle con oltre 100 milioni di euro di fatturato. Sono 3500 in Italia, di cui mille solo in Lombardia. Questo ha determinato il venir fuori di tutta una serie di casi importanti, in una misura che fino a qualche anno fa non si vedeva proprio.
Ci ricordi qualche esempio.
Il caso recente delle banche che evadevano con operazioni sull’estero ha avuto particolare risalto, si è parlato recentemente poi di multinazionali come la Bosch, la Luxottica di Del Vecchio (300 e passa milioni di euro), il gruppo Menarini, più di 400 milioni di euro.
A queste 3500 grandi imprese quanto attribuite dell’evasione totale?
Io ho un'idea che utilizzo per disegnare le strategie di controllo. Ho diviso il mondo dei contribuenti in cinque categorie. I grandi di cui abbiamo parlato, poi ci sono le medie imprese, da cinque a cento milioni di fatturato, che sono 60 mila, e infine le piccole con il lavoro autonomo, circa cinque milioni di soggetti. Del fatturato generale delle attività economiche, le tre categorie rappresentano un terzo ciascuna, ipotizzo anche un terzo ciascuna dell'evasione.
Ne ha dette tre.
La quarta è più piccola, ma ci sono violazioni molto gravi: è il cosiddetto non profit. Sono circa 200 mila enti non commerciali, ma molti di essi sono finti: i famosi ristoranti camuffati da associazioni, le palestre...
E la quinta categoria?
È la massa delle persone fisiche, circa 30 milioni di soggetti tendenzialmente a non alto rischio d’evasione, dove però si annida il sommerso, quei lavoratori dipendenti che, quando hanno finito l’orario, magari si mettono la tuta da idraulico...
Avete un’idea di quanti siano gli evasori fiscali che producono i famosi 120 miliardi all’anno di imposta evasa?
Se ci riferiamo alle attività economiche, per capirci alle partite Iva, che sono 5 milioni e dispari, è chiaro che parliamo di diversi milioni di evasori, anche se per importi molto variabili.
Sono più della metà?
Con buona probabilità sì.
E tra le persone fisiche?
Non so se potrebbe valere il detto evangelico che chi è senza peccato scagli la prima pietra...
Possiamo quindi dire che gli evasori in Italia siano almeno 10 milioni, uno su tre?
È difficile dirlo, ma se ci mettiamo il sommerso direi di sì, tranquillamente.
Quindi parliamo di una delle lobby più potenti d'Italia. Ma nel suo vocabolario quando scatta la parola evasore?
È complicato, è un fenomeno caratterizzato da tante sfaccettature. Per esempio, c’è una cosa di cui dopo trent'anni non posso dire di non essermi accorto: c'è un’evasione che io definisco di sopravvivenza. Determinate microimprese familiari, se non evadessero, non potrebbero stare sul mercato.
Qual è la sua stima dell'evasione fiscale, in euro?
Leggo tante cifre, ma non la loro dimostrazione. L’unico metodo più o meno scientifico è quello di seguire il prodotto interno lordo, quello che fa l’Istat, che stima un sommerso di 275 miliardi di euro. Ma io non sono nella condizione di dire quanta evasione si realizza a seguito di questo sommerso. Buona parte di esso, se non fosse tale, non esisterebbe.
Molti con l'evasione si assicurano un buon tenore di vita.
Ed è il nostro problema. Quando intercetti uno di questi signori, sarà difficile farsi restituire quello che non ha pagato, e per un motivo molto semplice: non ce l’ha più, se l’è speso! Una parte consistente dei nostri accertamenti non vengono nemmeno impugnati, il contribuente se ne infischia e non paga! Una parte grande, grazie a Dio sempre maggiore, siamo ormai sul 55 per cento, definisce il contenzioso e paga. Una parte, circa il 15%, porta il caso davanti ad un giudice. Però abbiamo una parte in mezzo consistente, circa un 30 per cento, che non chiude, non impugna e dice: “Venitemi a prendere! ”.
Dopo il blitz di Cortina che cosa succede alle persone che sono state controllate?
Sono in approfondimento, bisogna dimostrare che hanno evaso in quel modo durante tutto l’anno, e si tratta di provarlo.
E con la caccia al Suv com'è andata?
Ai nostri che sono andati è stato detto: “Visto che vi trovate lì e il presidio di cassa è anche un po’ noioso, magari date un’occhiata fuori e prendete la targa di qualche auto di lusso che passa, in modo tale che poi ci ragioniamo”. Voi direte: “Ma tu hai già il PRA! ”. Nessuno meglio di me lo sa, ma vedere la macchina di lusso nel posto di lusso ci consente di avere un indizio in più.
Quali sono le cifre effettive dell'evasione recuperata?
C'è da fare chiarezza sul rapporto tra i nostri dati e quelli della Guardia di Finanza. La grande differenza è che la Guardia di Finanza fa solo contestazioni, l’Agenzia delle Entrate fa anche contestazioni e poi le sviluppa assieme a quelle fatte dalla Guardia di Finanza: diventano quello che si chiama tecnicamente accertamento o erogazione delle sanzioni, poi deve incassare. I dati che dichiara la Guardia di Finanza sono le violazioni che ha constatato. Bisogna vedere se si riesce a tramutarle in un incassato. Non solo. La Guardia di Finanza accerta gli imponibili evasi, poi quante imposte ci siano da pagare su quegli imponibili lo può stabilire solo l’Agenzia delle Entrate.
Quindi?
A spanne, per il 2010 la Guardia di Finanza ha contestato una quarantina di miliardi di imponibili, che aggiunti a quelli contestati da noi ha dato luogo all'accertamento di maggiori imposte dovute per 30 miliardi. Alla fine tra pagamento spontaneo in sede di definizione e riscossione con i ruoli e con Equitalia, nel 2010 abbiamo portato a casa 10,5 miliardi, nel 2011 abbiamo superato gli 11 miliardi. Rimane la quota considerevolissima di quelli che non pagano.
Categoria simpatica.
Io li chiamo “evasori da riscossione”. Qualcuno lo fa per necessità, vuol essere corretto, io la dichiarazione la faccio ma non ho i soldi per pagare. Oppure temono la violazione pena-le, chi dichiara tutto e non paga non incorre in fatti penali. Ma ripeto: abbiamo proprio tantissimi livelli diversi di evasione.
A questo proposito, non vi ponete il problema che le vostre modalità operative possano finire per compattare il grande e il piccolo evasore? Pensiamo alle cartelle esattoriali indecifrabili di Equitalia.
C’è un problema obiettivo: queste materie sono talmente ostiche per loro natura che è veramente difficile renderle fruibili a chi non ha la minima dimestichezza. È vero, certe volte non la capisco io la cartella, il che la dice lunga... Vedete, il vero dramma di Equitalia è soprattutto sulla massa dei crediti dei Comuni, le multe e via dicendo. Il problema è avere un soggetto riscossore diverso dal creditore, questa è la scelta che è stata fatta in Italia.
Sulla lotta all’evasione ci sono nuovi input da parte del governo Monti che state seguendo?
La nostra attività ha un trend che non viene influenzato immediatamente da direttive specifiche. Quello che incide è il quadro normativo, perché gli strumenti me li dà la legge, non è che io mi posso attribuire dei poteri da solo. Questo governo ci ha dato importanti carte: tutti i movimenti finanziari comunicati dagli operatori finanziari, il controllo sui conti correnti, poi c’è la norma secondo la quale non dire la verità nel controllo fiscale costituisce un illecito pena-le.
Però la sanzione penale è blanda: uno può evadere 50, 100 mila euro, ma in galera non ci va.
Non c’è Paese in Europa che persegua l’infedele dichiarazione come reato. È reato la frode, cioè nascondere i redditi al fisco con artifici e raggiri. E lì colpiamo duro.
A proposito, cinque grandi banche italiane hanno appena pagato circa un miliardo per evasione fiscale. Però continuano a dire che pagano pur essendo innocenti.
Sa perché lo dicono? Perché gli amministratori temono l’azione di responsabilità da parte degli azionisti. Devono sempre dire e fare risultare dagli atti societari che pagano solo per chiudere il contenzioso, anche se tutti sappiamo che se hai ragione col cavolo che chiudi, mi dai 300 milioni perché hai ragione?
Intesa San Paolo, all’epoca dei fatti, era guidata dall’attuale ministro dello Sviluppo economico...
E che cosa dovrebbe dire Passera? Che ha fatto le violazioni, che ha fatto l’abuso, che ha fatto l’elusione? No, lui dice: “Io non ho fatto niente, ma pur di togliermi di torno queste sanguisughe del fisco gli ho dato 350 milioni di euro”.
Perché tutti i i grandi casi di evasione si concludono con lo sconto?
Non è uno sconto, appare così ma si chiama definizione condivisa. Proprio perché la prova dell’evasione non è sempre univoca, si parte da un impianto accusatorio e alla fine si arriva a un’analisi approfondita e a un accordo sull’ammontare dell’evasione che il contribuente accetta di ammettere.
Torniamo alle nuove norme. Voi dal primo gennaio ricevete dalle banche tutti gli estratti conti mensili degli italiani?
Neppure per sogno. L’estratto conto non ci serve a niente. A noi servono le movimentazioni accorpate, il totale di dare e avere dell’anno. Le banche ci vogliono mandare gli estratti conto perché sono già pronti, ma io voglio il dato elaborato per andare a incrociarlo con il reddito dichiarato. Se c’è discrepanza per me si accende la lampadina. Ma io non vado a curiosare nel-l’estratto conto. Tutti i discorsi sulla privacy che si sono sentiti non hanno fondamento. Io sono napoletano, a Napoli si dice: “Si parla a schiovere”, cioè ognuno parla senza sapere una mazza e senza chiederci spiegazioni.

l’Unità 15.1.12
Intervista a Nichi Vendola
«Monti, variante colta della destra europea»
«con un Pd moderato nascerà il polo Sel-Idv»
Parla il leader di Sel: «Si sta dimostrando che le politiche tecnocratiche seguite anche in Italia non sono solo socialmente inique, ma pure inefficaci»
di Maria Zegarelli


Io non lancio aut aut, sono molto rispettoso verso il Pd, ma se la prospettiva di un nuovo Ulivo di cui ha parlato Bersani non c’è più perché c’è una svolta a destra, noi saremo competitivi con il Pd in maniera virulenta. Parleremo al suo popolo dal momento che gli stati maggiori si possono anche dividere, ma il popolo di centrosinistra è uno soltanto e ha più volte dimostrato che vuole un cambiamento». Non è un aut aut ma ci somiglia moltissimo e Nichi Vendola non ci tiene neanche troppo a smorzare i toni perché questa storia della Federazione tra Pd e Terzo Polo a cui lavora Fioroni, o quell’altra secondo cui la legge elettorale devono studiarsela a tavolino Pdl, Pd e Terzo Polo, come auspica Letta, per il leader di Sel è davvero troppo. E niente sconti alla politica europea, di destra, di cui il governo Monti è soltanto «una variabile colta e illuminata».
Vendola, la S&P declassa mezza Europa e l’Italia scende in serie «B». Che sta succedendo?
«Ormai siamo di fronte ad una situazione insostenibile e paradossale. L’Europa si sta sgretolando e il male oscuro che la divora è quel clamoroso deficit di politica e democrazia che la rende priva di soggettività reale nella scena del mondo. Un’Europa inesistente, priva di narrazione, che non assomiglia per nulla alla grande utopia europeista che l’ha ispirata, alla Altiero Spinelli o alla Willy Brandt. È ormai prigioniera della mediocrità della destra europea, della più incapace classe dirigente ben incarnata dalla coppia Merkel-Sarkozy».
Condivide il monito del Capo dello Stato che esorta gli stati ad una vera unità politica e economica?
«Prima bisognerebbe chiedersi perché è finita così: è nel fatto che l’Europa oggi è quasi interamente governata dalla destra e la sinistra, folgorata sulla strada del liberalismo, con le sue mille torsioni moderate ha regalato l’Europa all’egemonia culturale, politica e economica della destra».
Lei dice: Europa responsabile del suo fallimento. Ma sulle agenzie di rating non ha nulla da dire?
«Il fatto che i luoghi opachi privi di credibilità come le agenzie di rating, possano avere un peso nello spianare la strada all’assalto speculativo dei loro proprietari, visto che operano per conto di soggetti economici importanti, non mi stupisce. Piuttosto è la mancanza di un’agenzia di rating europea un’altra prova del carattere fiacco dell’Unione».
Intanto nel centrodestra c’è chi inizia a dire che non era colpa di Berlusconi, come spread dimostra.
«Di questa Europa così spettrale e priva di visione il governo Monti rappresenta una variante colta e illuminata ma non un’alternativa. L’unica alternativa possibile è l’Europa sociale che solo le forze socialiste, socialdemocratiche ed ecologiste del vecchio Continente possono ricostruire. Anche perché si sta dimostrando che le politiche tecnocratiche a cui anche l’Italia partecipa, non solo sono socialmente inique ma anche inefficaci».
Dunque, meglio le elezioni anticipate come auspicano Berlusconi e Bossi? «Non credo che sia nelle intenzioni di Berlusconi andare al voto. Ha tutto l’interesse ad aspettare per smarcarsi il più possibile dalla crisi, per apparire estraneo alle ragioni del disastro che sta vivendo l’Italia. In questo modo può caricare il governo Monti di una responsabilità che in realtà appartiene tutta al ventennio berlusconiano. La Lega poi, non mi sembra sia in condizione da affrontare le elezioni, si sta squagliando. Il fatto che si sia salvato Cosentino in Parlamento dimostra che hanno bisogno di guadagnare tempo per recuperare terreno e organizzare, contro la quaresima tecnocratica che vive il Paese, una riscossa del populismo».
Però anche il Pdl inizia a minacciare il governo Monti.
«Fa impressione vederli oggi come avversari dei poteri forti, proprio loro che hanno sempre garantito gli evasori, la ricchezza, anche quella criminale... Attenzione, lo dico soprattutto al Pd».
Cosa rimprovera a Bersani?
«Non rimprovero alcunché, dico che la questione oggi, sia in Italia sia in Europa, è la giustizia sociale. Il Pd non può avere un’azione incisiva sulle politiche di Monti perché la sua capacità è stata annientata a monte, dalla parte più moderata del partito. I gruppi dirigenti, alcuni, hanno impedito un negoziato più stringente sulla direzione del governo Monti che finora ha evocato scenari, ma non sciolto i nodi, dalla patrimoniale alla tobin tax. Sel ha organizzato il 22 gennaio a Roma un’assemblea nazionale con un titolo chiaro: “Per la giustizia sociale. Una nuova sinistra per salvare l’Italia”. Ci saranno Pisapia, Landini, De Magistris, Michele Emiliano... esperienze di governo fatte di riformismo radicale».
Vendola, tra l’Idv e il Pd i rapporti sono al lumicino, Vasto un ricordo lontano. Come ci arriva il centrosinistra alle elezioni?
«Sarebbe un errore imperdonabile immaginare che l’Idv rappresenti un impiccio o un fardello di cui liberarsi».
Perché il Pd dovrebbe dialogare con un partito che lo attacca ogni giorno? «Il nostro alleato principale, il mio e di Di Pietro, non può pensare di non sciogliere mai i nodi della prospettiva, per cui ogni giorno leggiamo che Enrico Letta la legge elettorale la vuole fare in modo che definire autoritario è un eufemismo, oppure che Fioroni vuole fare la Federazione con il Terzo Polo.
Ma se quello è il destino io e Di Pietro non abbiamo paura a metterci a capo di un altro polo di governo, alternativo al Pd. Non intendo più immaginare che per la sinistra ci sia soltanto un destino di testimonianza democratica».

l’Unità 15.1.12
Visita ufficiale in Vaticano: il premier vede Ratzinger e poi Bertone. «Serve determinazione»
In piazza tafferugli e cariche contro gli «indignados» riunitisi a San Pietro per protestare
Il Papa incoraggia Monti «Avete cominciato bene»
Quasi due ore è durata la visita del premier Monti in Vaticano. Cordialità e sostegno da Benedetto XVI preoccupato per gli effetti della crisi. L’incontro con il segretario di Stato, Bertone. Non si è parlato di Ici
di Roberto Monteforte


«Avete cominciato bene ma in una situazione difficilissima... quasi insolubile». È questo il commento con il quale papa Benedetto XVI ha accolto ieri il premier italiano Mario Monti ricevuto in udienza con il suo seguito e con la moglie Elsa.
«Grazie di questo privilegio e onore» sono state le prime parole pronunciate dal presidente del Consiglio accolto nella biblioteca privata del pontefice. Benedetto XVI lo ha ringraziato per la visita. Gli ha chiesto della recente visita in Germania. Il premier, riferendosi ai colloqui avuti con il cancelliere Angela Merkel, ha risposto «Tempo brutto, ma clima buono». Grande cordialità e comune consapevolezza della gravità della situazione hanno segnato l’incontro. La crisi, infatti, è stata la grande protagonista del primo incontro del premier «tecnico» Monti e il pontefice. Lo testimoniano le parole che si sono scambiati prima che le porte della Sala della Biblioteca si chiudessero ai cronisti e alle telecamere. «È importante dare un segno di determinazione» ha detto Monti parlando della crisi economica. «Questo è importante» ha osservato il pontefice, che non ha mancato di incoraggiare il premier. Circa venticinque minuti è durato il loro faccia a faccia. Si è notato il feeling tra i due «professori». «Ci sono stati attenzione e incoraggiamento per un’azione difficile, che costa sacrifici, per fronteggiare la crisi economica: un impegno notevole anche dal punto di vista morale» ha spiegato il portavoce vaticano padre Federico Lombardi. È stato chiesto a Monti, ha aggiunto, «delle difficoltà incontrate e del fatto che deve fare appello alle energie morali del Paese».
Quale sia la sintonia tra il premier e Papa Ratzinger lo si è visto anche durante il sobrio scambio dei doni. Monti ha offerto al pontefice una riproduzione di un atlante nautico del cinquecento. «Da lei ci attendiamo orientamenti e indicazioni» ha affermato presentando il dono. E il pontefice, di rimando, ha subito sottolineato il valore simbolico del dono. Ve ne è stato anche uno più personale. Un volume scritto da Monti nel 1992, dal titolo «Il governo dell’economia e della moneta. Contributi per un’Italia europea». Si tratta di un libro, ha spiegato il premier «sul governo dell’economia mondiale», i cui temi rispecchiano «lo spirito della nostra precedente discussione».
Gli omaggi del pontefice sono stati una penna foggiata sulla forma delle colonne tortili del baldacchino di san Pietro del Bernini e una riproduzione di una stampa del cinquecento che mostra l’aspetto di piazza san Pietro. Il premier è stato accompagnato dal ministro degli Esteri, Giuliomaria Terzi e da quello per gli Affari europei, Enzo Moavero, con loro anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Catricalà, il segretario generale della presidenza del Consiglio, Manlio Strano, il giovane vice segretario generale, Federico Toniato che cura i rapporti con Oltretevere.
La visita del presidente del Consiglio e del suo seguito è proseguita poi con il segretario di Stato, cardinale Bertone. Altri quarantacinque minuti di confronto, prima un faccia a faccia tra Monti e Bertone, poi il confronto tra le due delegazioni. Un asciutto comunicato della Sala Stampa vaticana ha dato conto dei temi affrontati: «la situazione sociale italiana», l’impegno del governo e il contributo della Chiesa cattolica. Quindi l’Europa, il Medio Oriente e la «tutela delle minoranze religiose, soprattutto cristiane, in alcune aree del mondo». Viene pure confermata «la volontà di continuare la costruttiva collaborazione a livello bilaterale». Sul tavolo, quindi, temi politici, senza però entrare nel merito dei punti caldi, come il pagamento dell’Ici da parte della Chiesa. Sarà nell’agenda dei «confronti bilaterali» tra il governo italiano e la Cei in preparazione del ricevimento per l’anniversario della firma dei Patti Lateranensi che si terrà a Palazzo Borromeo il 18 febbraio. Alle 12,45 il corteo del premier ha lasciato il Vaticano. «Incontro non di circostanza» scrive l’Osservatore Romano. Monti sa di poter contare sul convinto sostegno di Benedetto XVI.
GLI INDIGNADOS IN PIAZZA
Nel primo pomeriggio gruppo di giovani «indignados» spagnoli e francesi ha organizzato una protesta in piazza san Pietro contro il Vaticano «che non paga le tasse». Uno di loro che si è arrampicato sul grande albero di Natale vicino all’obelisco è stato fermato dalla polizia. Ne è nato un tafferuglio con i dimostranti che sono stati con rudezza allontanati dalla piazza. I giovani hanno denunciato la violenza subita, mentre padre Lombardi ha affermato che «è stato giusto e opportuno allontanarli, viste le azioni compiute e le espressioni usate».

l’Unità 15.1.12
Dalla rappresentatività alla rappresentazione
di Moni Ovadia


Lo squallido spettacolo di cui ha dato prova ieri la maggioranza del Parlamento con la decisione di «salvare» Cosentino dai suoi giudici naturali, che dovevano sottoporlo a processo per il gravissimo reato di contiguità con la camorra, è l’ennesimo scempio perpetrato ai danni del senso stesso della democrazia proprio nel luogo che ne dovrebbe essere il santuario.
Se si considera poi, che nello stesso giorno viene respinto il referendum contro il “porcellum”, sostenuto da più di un milione e duecentomila firme di cittadini italiani i quali quasi certamente rappresentano la sacrosanta opinione della stragrande maggioranza degli elettori del nostro Paese, abbiamo ragioni sufficienti per dubitare di vivere in un paese autenticamente libero e democratico.
Per quanto mi riguarda mi sento salire alla gola un rigurgito sempre più tossico che avvelena la mia pur potente vocazione di cittadino che crede nelle elezioni. E questa tossicosi porta alla mia bocca una domanda impellente e pericolosa come un conato di vomito represso a lungo: ma serve ancora andare a votare?
Comincio seriamente a credere che andare a votare non serva a garantire rappresentatività, ma solo a legittimare uno status quo che si scompagina apparentemente per riaggregarsi sotto altre spoglie attraverso miserabili rappresentazioni. E il teatrino di Bossi che fa il duro con Berlusconi per poi calare le braghe e con Maroni che finge di indignarsi, di tutte le rappresentazioni è la più penosa.
Il copione è quello vecchio, frusto più volte rappresentato per raggirare i rispettivi elettori e per mostrare beffardo disprezzo per la sovranità popolare.

l’Unità 15.1.12
Le scelte dei radicali
risponde Luigi Cancrini


La Camera dei deputati ha negato l’arresto del coordinatore campano del partito, Nicola Cosentino accusato di riciclaggio e corruzione con l’aggravante del metodo mafioso. Non è la prima volta che i sei deputati radicali che fanno parte del gruppo parlamentare del Pd consentono il salvataggio di persone inquisite e dello stesso governo precedente.

RISPOSTA Si chiedono i radicali che senso abbia l’arresto di Cosentino. Nei suoi confronti si sta celebrando un processo, dicono, la carcerazione preventiva non serve. Il pericolo di fuga non c’è e assai difficile è che Cosentino possa, oggi, inquinare le prove o continuare la sua presunta attività delinquenziale. In un paese in cui esistono delle leggi, tuttavia, la sede giusta per valutare se vi sono le condizioni di una carcerazione preventiva è il contraddittorio di fronte al giudice, non il consesso dei colleghi deputati cui tocca solo verificare se nelle richieste dei giudici c’è un’intenzione persecutoria. La liceità della carcerazione preventiva in generale o una diversa scrittura delle norme che la regolano può avvenire sulla base di una proposta di legge non difendendo un deputato accusato di collusione con la camorra. Non fosse stato un parlamentare del Pdl Cosentino sarebbe in carcere già da tempo con gli altri indagati della stessa inchiesta. L’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge non è stata sempre importante anche per i radicali? A me sembrava di sì per come li ho conosciuti io: tanti anni di battaglie politiche comuni.

l’Unità 15.1.12
Immigrati, ora cambiare politica
L’Italia deve valorizzare il capitale umano e sociale degli stranieri se punta alla crescita e allo sviluppo
Il centrodestra ha agitato solo paura e molte sono le norme da abrogare: una riforma condivisa è possibile
di Livia Turco


C’è bisogno di un cambio di passo sul tema dell immigrazione. Per valorizzare il capitale umano e sociale degli immigrati considerandolo un ingrediente prezioso per lo sviluppo e la crescita del Paese; per costruire una alleanza tra italiani e immigrati attorno ad obiettivi condivisi; per considerare l’immigrazione non più lo scalpo agitato per aizzare contrasti e rancori nel Paese ma bene comune da condividere per costruire insieme un nuovo
cammino per l’Italia e l’Europa. Questo cambio di passo deve proporlo la politica perché è ampliamente dimostrato che il modo con cui la politica parla e agisce sull’immigrazione influenza il Paese e determina la percezione che esso ha del problema. La politica con il centrodestra ha alimentato paure, ha inventato problemi che non c’erano, ha creato stereotipi ed immagini prive di fondamento e non ha risolto i problemi. Ora bisogna risolvere i problemi guardando la realtà, dicendo la verità ed avendo la capacità di valorizzare le risorse morali, civili e professionali che esistono nel profondo del nostro Paese. Guardiamo, ad esempio, al modo con cui la comunità senegalese e quella cinese e tutta la popolazione degli immigrati ha reagito di fronte alle efferate uccisioni dei loro cari avvenute a Firenze e Roma.
Sono stati composti, rispettosi, hanno chiesto sicurezza e rispetto della loro dignità. Hanno dimostrato di sentire l’Italia non solo come il Paese in cui sono costretti a lavorare ma il Paese che li ospita, a cui devono rispetto e di cui si sentono parte. Bisogna considerare i problemi dell’immigrazione come parte integrante dell’agenda del Paese, della sua proposta per lo sviluppo, il lavoro, la formazione, la promozione della legalità.
Per questo è urgente un cambio di passo della politica. Da compiere subito in Parlamento, in relazione con le forze sociali ed economiche definendo una agenda comune ed inaugurando finalmente una politica bipartisan. Può sembrare uno scherzo, uno scandalo o una ingenuità parlare di una politica bipartisan sull’immigrazione. So bene le profonde e radicali differenze che sono esistite ed esistono tra noi e il centrodestra e quando torneremo a governare dovremo abrogare molte nor-
me della loro legislazione e costruire una nuova riforma, una nuova legge quadro sull immigrazione. Ma la chiarezza dell alternativa non dovrebbe oscurare il fatto che l’ormai ventennale governo dell’immigrazione ha messo in evidenza ricette efficaci senza le quali non si governa nulla, né da destra né da sinistra. Non si governa senza gli accordi bilaterali, senza il canale aperto dell’ingresso regolare, senza umanità e generosità senza le politiche di cooperazione.
Ecco i punti di una agenda comune:
Risolvere la questione dei profughi tunisini e libici. Bisogna concludere la fase dell’emergenza e prevedere un loro inserimento nel tessuto sociale e lavorativo come per altro è avvenuto in realtà come la Toscana, Emilia e Veneto. Bisogna applicare la direttiva europea sui rimpatri assistiti in accordo con le autorità libiche e tunisine all’interno di accordi bilaterali che prevedano ingressi regolari e sostegni allo sviluppo in loco.
Intervenire sulle situazioni di grave sfruttamento del lavoro come ci ricordano Rosarno e Castelvolturno. La strada è quella della regolarizzazione mirata, estendendo la norma prevista per il lavoro domestico e famigliare a nuove categorie di lavoratori dove è stratificato il grave sfruttamento connesso alla irregolarità. A questo proposito il governo deve recepire la direttiva europea contro l’impiego di manodopera irregolare e che prevede degli obblighi per i datori di lavoro e la possibilità per i lavoratori stranieri che denunciano di ottenere un permesso di soggiorno (ce/52/2009); deve applicare e migliorare la normativa che introduce il reato di caporalato (art. 12 legge 148/2011). Estendere da sei mesi ad almeno un anno il tempo per la ricerca di un lavoro.
Favorire i processi di integrazione estendendo la promozione dei corsi di lingua italiana e consentendo anche ai giovani l’ingresso nel servizio civile così come sollecitato da una recente sentenza del Tribunale di Milano; semplificando le procedure per ridurre i tempi per il rinnovo del permesso di soggiorno e per il ricongiungimento famigliare; sostenendo anche con risorse adeguate le politiche di integrazione dei comuni con particolare attenzione al problema dei rom.
Sarebbe un messaggio di umanità, saggezza e speranza se il Parlamento scrivesse ed approvasse con il contributo di tutte le forze politiche una norma, un solo articolo, che dica che chi nasce in Italia figli di immigrati che hanno un progetto di integrazione nel nostro Paese, sono italiani.

l’Unità 15.1.12
Paolo Rossi, una vita nel segno del tempo
È morto uno dei più importanti studiosi italiani della storia e della filosofia della scienza del dopoguerra. Fu allievo di Garin ma con gli anni si allontanò dalle sue idee e rimise in discussione i modelli interpretativi del Rinascimento
di Michele Ciliberto


Si è spento ieri, all’età di 89 anni, Paolo Rossi il nostro maggior studioso di storia della cultura scientifica. Era nato a Urbino nel 1923. Oggi tra le 14 e le 19 la salma sarà esposta nella sua abitazione fiorentina. La cerimonia funebre avrà luogo domani a Città di Castello (Perugia), città dove ha insegnato al Liceo Classico. «Stava scrivendo ha detto il suo allievo Alessandro Pagnini una raccolta di saggi e memorie già edite con una parte nuova che doveva completare». Allievo di Eugenio Garin a Firenze, insegnò Storia della filosofia all’università di Milano, e dal ’66 a Firenze dove è rimasto sino al 1999, diventando poi professore emerito.
Non credo mi facciano velo la lunga amicizia, e il profondo affetto che mi ha legato alla sua persona, ma credo di poter dire con sufficiente obiettività che Paolo Rossi è stato una delle maggiori personalità della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo. Non solo, voglio precisare, italiana: le sue opere più importanti sono state tradotte in molte lingue ed hanno avuto un effetto assai rilevante nello sviluppo della ricerca in Italia e nel mondo sul pensiero filosofico e scientifico moderno il punto centrale della sua ricerca fino agli ultimi giorni di vita. Ne sono una testimonianza precisa i numerosi riconoscimenti che ha avuto anche sul piano internazionale: nel 1985 la medaglia George Sartom per la Storia della scienza e da ultimo, nel 2009, il premio Balzan, il massimo riconoscimento per il suo impegno di studioso e di maestro di molte generazioni.
Paolo Rossi era nato ad Urbino nel 1923, figlio di Mario Rossi un valoroso studioso di Dante e aveva studiato a Firenze con Eugenio Garin laureandosi con una tesi sulla filosofia italiana contemporanea; ma si era rapidamente spostato verso il pensiero moderno prima con un lavoro su Giacomo Aconcio, poi con un libro fondamentale tradotto anche in inglese su Francesco Bacone (il suo «autore»), pubblicato nel 1957 dalla Casa Editrice Laterza al quale nel 1960 fece seguito un libro altrettanto fondamentale e come il Bacone tradotto in molte lingue : Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz.
Quale fosse il suo debito verso il maestro con cui si era formato è dichiarato in modo esplicito fin dalle prime pagine di questo ultimo libro: «Chi abbia familiare la letteratura sul Rinascimento vedrà chiaramente scrive quanto questo libro debba alle ricerche di Eugenio Garin...». Era una constatazione  obiettiva; sia il libro su Bacone che la Clavis si inserivano, con una nota originale, nel profondo ripensamento dell’Umanesimo e del Rinascimento che si realizza in Italia lungo gli anni Cinquanta. Mi limito a citare solamente tre testi assai caratteristici: Testi umanistici sulla retorica (1953); Testi umanistici su l’ermetismo (1955); Umanesimo e simbolismo (1958), tutti e tre promossi dall ’ «Archivio di filosofia», tutti e tre destinati ad aprire nuove piste, poi sviluppate da studiosi di prima grandezza come Frances A. Yates.
Attraverso l’analisi e la discussione di testi essenziali, Garin e la prima generazione dei suoi allievi elaborarono una nuova interpretazione del Rinascimento italiano ed europeo, rimettendo a fuoco in modi nuovi o per la prima volta i rapporti tra logica e retorica; l’incidenza delle problematiche magiche e astrologiche nel Quattro-Cinquecento; il valore e il peso dell’arte della memoria e delle tematiche lulliane nella costruzione delle più importanti filosofie rinascimentali.
Né c’è dubbio che Paolo Rossi sia stato, con Cesare Vasoli, uno dei massimi artefici di questa impresa: la Clavis universalis ora citata fu il risultato alto e originale di un lavoro decennale e di una radicale rimessa in discussione di quelli che erano stati i modelli interpretativi del Rinascimento dalla seconda meta dell’Ottocento e lungo la prima metà del Novecento, destinata a dare frutti decisivi nella concezione della genesi del «mondo moderno» e dei suoi caratteri costitutivi.
IL DISTACCO DAL MAESTRO
Fu proprio su questo punto che si aprì, con gli anni, un distacco ed anche un contrasto assai forte e netto fra Rossi e Garin, destinato a riverberarsi anche nella interpretazione di pensatori di primo piano come Gianbattista Vico. Il punto principale del dissenso fu illuminato con chiarezza dallo stesso Rossi nella Introduzione per la nuova edizione del Bacone nel 1974: «Col passare degli anni scrisse si è fatta in me più forte la convinzione che illuminare la genesi non solo complicata, ma spesso assai torbida di alcune idee “moderne” sia altra cosa dal credere di poter annullare o integralmente risolvere queste idee nella loro genesi». Non si trattava solo di un discorso di metodo: al fondo, quello che Rossi aveva ormai messo a fuoco e intendeva collocare al centro di tutto il suo lavoro era la differenza strutturale tra «mondo moderno» e «mondo dei maghi» cui apparteneva, ad esempio, un personaggio come Giordano Bruno, denotata da elementi essenziali fra cui spiccavano la dimensione «pubblica» del sapere scientifico moderno rispetto a quella «segreta e iniziatica» del sapere rinascimentale o il principio dell’«eguaglianza delle intelligenze» quale tratto fondamentale della «modernità». E su questa base , Rossi aveva elaborato una nuova «periodizzazione» imperniata sui grandi protagonisti della rivoluzione scientifica moderna da Copernico a Newton. In altre parole, Rossi negli anni Settanta si era distaccato, una volta per tutte, da quelle tesi che, sulla scia di Cantimori, insistevano sulla «continuità» delle «idee» fra Quattrocento e Settecento sottolineando, per contrasto, la originalità della «ragione» classica moderna e la sua radicale, e insuperabile, differenza con il Rinascimento.
Da queste tesi Rossi non si sarebbe mai più allontanato, anzi le avrebbe sviluppate in lavori che oggi sono dei classici (mi limito a citare I segni del tempo,1979), nel vivo di una ricerca che, risalendo dal passato, prendeva posizione nel presente contrapponendosi in modo frontale alle derive «irrazionalistiche» contemporanee e difendendo, in modo intransigente, l’eredità e le conquiste della «ragione» moderna. Ma e qui sta uno dei suoi tratti più originali Rossi ha svolto questa battaglia tenendo sempre fermo due principi: la consapevolezza che non bisogna ridurre il «passato» al «presente» perché il passato è «un altro presente»; la necessità di confrontarsi con i punti più alti del pensiero contemporaneo da Freud a De Martino senza mai rinchiudersi in una difesa passiva della «tradizione», di qualunque tipo essa sia.
Anzi, se si volesse segnalare il tratto più specifico della sua personalità, si potrebbe individuarlo nella inesausta curiosità, nell’inesauribile interesse per il mondo: quella curiosità, quell’ interesse che lo spingevano a guardare sempre avanti pensando a nuovi lavori, a nuovi libri fino agli ultimi momenti della sua vita bella e gloriosa.

l’Unità 15.1.12
Il tempo al festival delle scienze
di Cristiana Pulcinelli


Che cosa è il tempo? A domandarselo nel corso dei secoli sono stati in molti: filosofi, scienziati, psicologi. E in molti hanno cercato di rispondere. Tra gli altri, anche Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, che diceva: «Il tempo è ciò che accade quando non accade nient’altro». La citazione di Feynman è stata scelta come motto della settima edizione del festival delle scienze che si svolge all’Auditorium Parco della musica di Roma dal 19 al 22 gennaio. Ieri al Campidoglio è stato presentato il fitto programma di quest’anno, incentrato, appunto, sul tempo. A dominare giorni saranno le domande insolute, come: futuro e il passato sono reali come il presente? Passa il tempo quando nulla cambia? È possibile viaggiare nel tempo? Esisteva il tempo prima del Big Bang? Quali meccanismi neuronali spiegano la nostra esperienza del tempo?
GLI OSPITI
Per cercare di rispondere sono stati chiamati scienziati di fama, come l’antropologo Ian Tattersal che parlerà del tempo profondo dell’evoluzione, Julian Barbour, fisico britannico che ha teorizzato che, in realtà, il tempo non esiste affatto. John Richard Gott III, professore di astrofisica all’Università di Princeton che nel ’91 teorizzò la possibilità di creare una macchina del tempo basata sulle corde cosmiche. Peter Ludlow, professore di filosofia alla Northwestern University, che nei suoi studi spazia dalla linguistica al cyberspazio. Carlo Rovelli, fisico che ha teorizzato la «gravitazione quantistica a loop».
Inaugura il programma di conferenze, giovedì 19 gennaio alle 19 in Sala Petrassi, l’astrofisico e poeta francese Jean Pierre Luminet, esperto di cosmologia e buchi neri e autore di testi come L’invenzione del Big Bang. Storia dell’origine dell’Universo (Dedalo, 2006) e di La parrucca di Newton (La Lepre edizioni, 2011). Accanto alle conferenze, laboratori per ragazzi, performance, mostre e video concerti. Il festival è prodotto dalla Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con «Codice. Idee per la Cultura». Il programma completo su http://www. auditorium.com/eventi/festival.

Repubblica 15.1.12
Non toccate il nome di Pound
di Lawrence Ferlinghetti


Esprimo il mio sostegno alla figlia di Ezra Pound, Mary de Rachewiltz, nella sua causa legale contro il gruppo di estrema destra Casa Pound per la diffamazione del padre, autore dei famosi "Cantos" e di altre opere poetiche.
Essendo Ebreo Sefardita (per parte materna) condanno naturalmente Ezra Pound per il suo violento e deprecabile antisemitismo. Un girone specifico dell´Inferno è destinato agli anti-semiti.
Sebbene Pound trasmettesse dalla stazione fascista Radio Roma durante la Seconda Guerra Mondiale, egli era dopo tutto un attivista contrario alla guerra che condannava Wall Street per usura - elemento che riteneva essere causa diretta della guerra. Per questa ragione, Pound avrebbe condiviso la causa del movimento odierno Occupy Wall Street (sebbene il Movimento avrebbe potuto non accettarlo).
In ogni caso, sostengo la causa legale contro Casa Pound. Ogni persona istruita deve condannare questi gruppi dell´odio. Non c´è posto nella nostra civiltà per tali barbari.
(Poeta e artista americano, Ferlinghetti è uno degli esponenti più noti della Beat generation)

Repubblica 15.1.12
Caso Vattani, pressing sulla Farnesina
I sindacati: “L’apologia di fascismo va punita". No comment del ministro Terzi
"Visti i dettagli di quel concerto nazi-rock, si capisce che non si potrà far finta di nulla"
di Vincenzo Nigro


ROMA - I tempi della giustizia amministrativa sono troppo lunghi rispetto all´urgenza politica del caso-Vattani. E soprattutto, come dice un diplomatico, «il carattere "tecnico" del ministro degli Esteri fa credere che una soluzione burocratico-amministrativa possa essere costruita per insabbiare il caso del console italiano ad Osaka».
Il caso è esploso a fine d´anno, quando su Internet ha iniziato a girare il video del console Mario Vattani, 45 anni, figlio dell´ex segretario generale della Farnesina Umberto, che canta una canzone fascista a un festival di "Casa Pound" a Roma. Ieri il ministro Giulio Terzi, fino a poche settimane fa ambasciatore a Washington, ha deciso di non rispondere a una richiesta di commento fattagli da Repubblica. Un suo portavoce ha rimandato al comunicato del 12 gennaio, «in quel comunicato firmato dal segretario generale del ministero Massolo c´è già tutto, i modi in cui è stata avviata la procedura disciplinare e la forte determinazione del ministro Terzi ad esaminare il caso».
«Noi crediamo che non possa esserci nessuna sottovalutazione politica di questa storia», dice Maria Assunta Accili, segretaria del Sindmae, il più importante sindacato dei diplomatici. «I diplomatici italiani hanno giurato sulla Costituzione della Repubblica italiana, e questa è la Repubblica che serviamo: i segnali di Terzi sono importanti». Il Sindmae non è un sindacato di "sinistra", è l´organizzazione al cui interno anzi sono sempre stati rappresentati soprattutto funzionari di orientamento politico moderato. Ma la Accili ripete che «la gravità di un comportamento che risultasse riconducibile all´apologia di fascismo in luogo pubblico da parte di un alto funzionario dello Stato è tale da non poter essere minimizzata né tralasciata».
Molti diplomatici credono che nella gestione del caso Vattani da parte del ministero possa giocare un ruolo anche il timore della capacità di manovra del padre Umberto. «Ma più rileggiamo i dettagli di quel concerto e delle connessioni con i gruppi neo-fascisti di Mario Vattani e più capiamo che non sarà possibile far finta di nulla», dice un ambasciatore. In effetti i testi delle canzoni e degli interventi di Vattani hanno un contenuto eversivo da brividi. Innanzitutto l´apologia della Repubblica di Salò, in antitesi alla «Repubblica degli epuratori» (la Repubblica italiana, ndr). Ma poi l´esaltazione della violenza, dello scontro fisico con gli avversari politici: «Siamo tornati con Matteo e con Sergio/vicino ai cessi c´era il bastardo che mi aveva aggredito. L´abbiamo messo per terra/ cercava di scappare/ gli ho dato tanti di quei calci ed era tanta la rabbia/ che mi sono quasi storto una caviglia». Questo è il rock del console Vattani.

Repubblica 15.1.12
La biblioteca di Borges
Note a margine sulla mia Babele
di Maurizio Ferraris


Buenos Aires. La Biblioteca Nazionale di Buenos Aires non è più quella che aveva conosciuto Jorge-Luis Borges (1899-1986) a Calle México, nel quartiere di San Telmo. È un edificio moderno nel quartiere della Recoleta che ricorda vagamente il bunker antiaereo dello zoo di Berlino, e ha vicende poco meno militari, giacché il terreno su cui sorge era quello della residenza di Perón, distrutta insieme ad altre vestigia del regime dopo il 1955. Dopo varie vicissitudini, fu alla fine inaugurata nel 1992 da Carlos Menem, quello che gli argentini chiamavano El Turco, trasformandolo a tutti gli effetti nel personaggio di una novella di Borges. Così come borgesiana è non solo la grande biblioteca, prefigurazione della Biblioteca di Babele, ma anche la storia che ho appreso girando per la biblioteca.

Borges ha diretto la Biblioteca dal 1955 al 1973, nominato alla caduta di Perón, di cui era un fermo antipatizzante, e dimissionato subito dopo il ritorno del generalissimo. Aveva scritto una poesia quando ricevette la nomina, in cui ironizzava sull´ironia di Dio che aveva pensato di dargli, insieme, una miriade di libri e la cecità. Non è la sola ironia, perché per cacciarlo si sostenne che ne aveva rubati. Perciò, prima di andarsene, convocò uno scrivano che constatò la proprietà e fece la lista delle opere che dovevano essere ritirate dall´ufficio, perché appartenevano a Borges che le aveva portate lì per controllare i riferimenti delle sue Opere complete, pubblicate durante la sua direzione, e per altri lavori del periodo (ad esempio il Manuale di zoologia fantastica, del 1957). Dei libri di sua proprietà ne lasciò un migliaio alla Biblioteca, perché Borges non rubava libri, ma compiva l´azione simmetrica, regalandoli. A casa non ne teneva più di millecinquecento, molti li dava ad amici per far spazio a nuove letture, e giunse sino ad abbandonare pacchi di libri nei caffè. Gli impiegati, peronisti, non si diedero molto da fare per timbrare come «fondo Borges» e classificare questi libri (che si riconoscono perché sul frontespizio c´è la firma di Borges e la data in cui li aveva comprati), che si dispersero come aghi in un pagliaio di novecentomila volumi.
Due giovani ricercatori, Laura Rosato e Germán Álvarez, impiegati nella Biblioteca, con un lavoro di dieci anni li hanno recuperati. Il risultato è un grande catalogo: Borges, libros y lecturas raccoglie cinquecento titoli, gli altri, per il momento non pubblicati, sono o doni di scrittori amici o libri che richiedevano lavori di restauro. Per ritrovarli nel pagliaio il trucco è stato, in un autore così iper-letterato come Borges, partire dalle sue opere, guardare le fonti che citava, e di lì appunto andare a frugare. Poi, da un libro si trovavano gli altri, visto che ogni libro rinviava ad altri libri, come Pollicino. Abbiamo così le letture (e soprattutto le riletture) di Borges come ce le darebbe la cronologia dei siti consultati dal nostro computer ma in modo molto più selettivo e sulla distanza cronologica di trent´anni e più. Come in un Web cartaceo Borges mette in dialogo autori disparati, con un sistema di rimandi: "Cf.", "vide" (dove si amplia il concetto segnato), ma anche il "sed contra", dove si crea l´opposizione. Questo leggere scrivendo, e scrivere leggendo, non ha niente di sistematico. Borges è per sua ammissione un lettore edonista. Si fa guidare dal principio di piacere, che però molto spesso lo porta più ai saggi che non alla letteratura.
Ci sono letture filosofiche: da Anselmo d´Aosta che lo attrae per la prova ontologica, al libro della Anscombe su Wittgenstein a quello di Augusto Guzzo su Giordano Bruno; Gentile sul pensiero del Rinascimento italiano, Nietzsche (le Considerazioni inattuali) e soprattutto l´amatissimo Schopenhauer. Il che non sorprende per un autore che considerava la filosofia un ramo della letteratura fantastica. Ma c´è anche il libro di Samuel Butler sui santuari del Piemonte e del Canton Ticino, quello di Houston Stewart Chamberlain (l´autore amatissimo da Wagner e da Hitler) su Goethe, quello di Max Brod su Kafka, e Jung e Hume, Plutarco e Poe, Strindberg e Tasso. Più una molteplicità di anonimi, di compilazioni, di minori. Molto Croce, ma soprattutto sulla letteratura (Ariosto, Carducci...), le saghe nordiche e quelle orientali e la letteratura secondaria sull´argomento, e, sopra tutti, l´amatissimo Dante, in molte edizioni e commenti.
Generalmente nella lingua originale dei libri (Borges leggeva oltre che in spagnolo in italiano, francese, tedesco, inglese e latino), le annotazioni non invadono mai il testo e consistono in un riuso giudizioso di quello che Gérard Genette ha chiamato «paratesto», giacché si trovano sul frontespizio o alla fine del libro, e raramente sulla copertina, come in una edizione tascabile dell´Amleto. Sono in gran parte nello stampatello minuscolo, le lettere "come formiche" che Borges elesse come la propria grafìa. E dopo il 1954 e la cecità la scrittura è quella della madre Leonor Acevedo de Borges, che vediamo fotografata sulla copertina del catalogo mentre scrive e postilla per il figlio nell´appartamento di calle Maipú 994. Le annotazioni sono in apparenza impersonali, e consistono molto spesso nella scelta di espressioni, proprio come nei taccuini che Erasmo raccomandava di tenere ai suoi discepoli. Ma proprio nella loro impersonalità catturano l´identità di Borges. Lui è quei libri e quelle citazioni ne definiscono l´originalità. Lui è quel compendio incarnato.
In qualche caso, però, la pagina diventa lo spazio su cui elaborare progetti di libri a venire. Come per esempio quando nel frontespizio di un libro tedesco di occultismo troviamo il progetto di un saggio che avrebbe dovuto uscire dopo la Storia dell´eternità (1936), e che si troverà in parte in altre raccolte, soprattutto in Altre inquisizioni (1952). A volte invece nei frontespizi o in fondo ai libri Borges lascia tracce delle sue amicizie, per esempio The Principles of Mathematics di Russell, in cui scrive che è «regalo di Bioy Casares» (che sempre Borges considerò come il suo tutore logico), o degli amori, come quando annota la data di un appuntamento con Estela Canto al fondo di un´edizione dell´Inferno di Dante, oppure ancora della vita pubblica, quando nel frontespizio della Vita di Schopenhauer di Wilhelm Gwinner troviamo la lista delle sue conferenze tra il 1949 e il 1952.
In un caso, poi, il libro diviene il supporto per una poesia rimasta inedita sino a oggi. Si tratta dell´ultima pagina del quarto volume del libro del teologo Christian Walch sulle eresie e le lotte religiose dopo la Riforma (1773, undici volumi) comprata durante il soggiorno europeo. La poesia data 11 dicembre 1923, poco prima della partenza dall´Europa, e sembra contenere ironicamente il giovane Borges, che si lascia andare ai sentimenti, il Borges maturo, poco incline a esprimerli, ma appassionato di eretici, catari e guerre di religione, e soprattutto il Borges che ci ha raccontato come i libri nascano da altri libri, e l´immediatezza sia il frutto della mediazione:
la speranza/ come un corpo di ragazza/ ancora misterioso e tacito./ ancora non amato di amore/ e una chitarra che appassionatamente muore e con sollievo/ dolorosa risorge/ e il cielo sta vivendo un plenilunio/ con il rimorso e la vergogna della/ insoddisfatta speranza e di non essere felici

Repubblica 15.1.11
Io, Plutarco e Schopenhauer perduti su un´isola deserta
di Jorge Luis Borges


Non è imprudente supporre che arriverà il giorno in cui qualche giornale divulgherà la seguente domanda: quali sono i tre libri che lei si porterebbe su un´isola deserta?, seguita da un´infinità di risposte più o meno ternarie. André Gide ha confessato di amare questo gioco e ha ripubblicato alcuni dei suoi cataloghi - eminenti cataloghi ragionati, dove non si trovano solamente i nomi, ma anche il perché di ogni predilezione... Io ho provato a fare quel gioco più di una volta, con caratteri di corpo diverso, e ho preso a tal punto l´abitudine a quelle triplici ripartizioni di gloria che in mancanza di un altro che mi inviti a farlo, mi ci invito da solo.
Comincio con un dubbio che non ha nulla di terribile: il numero 3, sta a significare 3 titoli o 3 tomi?
Nel primo caso, penso (diremo) ai trenta e passa volumi dell´Encyclopedia Britannica, ai tre del Dizionario di Filosofia di Mauthner, e alle opere complete di Schopenhauer, di Butler o di Shaw.
O (se preferite) ai sei volumi di Decadenza e caduta dell´Impero romano di Gibbon, alle opere complete di De Quincey o di Edgar Allan Poe, e ai Saggi di Michel de Montaigne. Ma è un inutile raggiro imbastire di queste liste. La drammaticità di questa domanda e le frugali circostanze di Robinson sembrano respingerle. Lo spettacolo di un naufrago su un´isola non si addice alla Biblioteca del Vaticano o ai 386 volumi del Patrologiae cursus completus di Padre Migne. Tre libri vuol dire tre tomi: deve volerlo dire.
Fatto un chiarimento, conviene procedere a un secondo, non meno assiomatico. Parlare dei tre libri che uno si porterebbe su un´isola deserta, non significa parlare dei tre libri più importanti dell´universo e nemmeno dei tre libri più memorabili nell´esperienza personale. Né la storia generale della stirpe né la biografia dell´individuo sono in gioco. L´importanza del Corano è indiscutibile, ma l´inferno promesso nelle sue pagine è meno atroce di un´isoletta senz´altra biblioteca se non un esemplare del Corano. Il Martín Fierro è ammirevole, ma lo so quasi a memoria, e poi a che serve portarsi un volume già assimilato, già consustanziale con il mio spirito?
In questi cataloghi di tre libri per tutta la vita c´è l´usanza di includere qualche famoso romanzo o qualche libro di versi. Quelli che fanno così non si sono immaginati il terrore e la solitudine dei giorni uguali di Robinson. Per quel tragico uomo in isolamento nulla è pericoloso quanto il ricordo. Libri di passione, libri di rapporti umani, non otterrebbero altro che farlo disperare. Niente libri che implichino il rapporto uomo-uomini; unicamente libri che implichino il rapporto uomo-Dio, uomo-numeri, uomo-Universo. Niente libri che si lascino leggere facilmente e subito si esauriscano; unicamente libri che è necessario conquistare poco a poco e che possono popolare gli anni identici.
Propongo finalmente questa lista:
1) Un libro matematico (forse la Introduzione alla filosofia matematica di Bertrand Russell, o altrimenti qualche buon testo di algebra, con molti esercizi).
2) Un libro metafisico (forse Il mondo come volontà e rappresentazione di Arturo Schopenhauer).
3) Un libro di storia sufficientemente remota (forse Plutarco, forse Gibbon, forse Tacito).
Traduzione di Luis E. Moriones
Ha collaborato Francesca Caruso
Il manoscritto La biblioteca di Robinson Crusoe di è stato fornito dall´Harry Ransom Center, centro di ricerca per gli studi umanistici dell´Università del Texas. Nato nel 1957, il centro colleziona diversi
manoscritti originali di scrittori: da James Joyce ad Arthur Miller

Repubblica 15.1.12
Piazza e Web
Aleksej Navalnyj, una giornata da dissidente
di Nicola Lombardozzi


Trentasei anni, alto, biondo, sempre elegante Con il suo blog è diventato il nemico del Cremlino e il leader della Primavera russa Lo abbiamo incontrato: "Non ho paura", dice, "i gulag non esistono più"
"L´America è affascinante, ma dopo Yale inizio ad apprezzare la mia gente"
"Abbiamo lo spirito di un´azienda. C´è richiesta di verità: noi dobbiamo produrla"
"Sì, mi hanno messo in prigione per due settimane, ma è stata quasi una vacanza"

Mosca. Il dissidente più famoso di Russia va in ufficio di buon mattino. Passa la giornata al computer e poi beve una birra con gli amici. La sera resta spesso in casa a guardare i Simpson in tv con la moglie e i due figli. Non ha paura, o fa finta di non averne. Lo hanno messo in carcere per quindici giorni, «ma è stata quasi una vacanza», passata a giocare a carte e a mangiare tavolette di cioccolata. I militanti gliene hanno spedito quasi sette chili. «Ragazzi affettuosi ma con poca fantasia, nessuno che abbia mandato un salame o qualche panino al tonno». Per il resto gira per Mosca senza precauzioni particolari. «In autobus vedo che non mi riconosce proprio nessuno. Ogni tanto è arrivata qualche minaccia ma non è mai successo niente. Temevo che mi bucassero le gomme dell´auto. Nemmeno quello».
Gioca un po´ Aleksej Navalnyj, avvocato di trentasei anni, capelli biondi a spazzola, occhi blu e aria eternamente finto-imbarazzata. Sa bene di essere il leader naturale della cosiddetta Primavera di Mosca e il primo nella lista non scritta dei nemici del Cremlino. Gli fa piacere essere finito sulle copertine di Time e di Esquire, di essere invocato da mille blogger come il futuro presidente del Paese. Ma ha ben chiaro che tutta la forza del suo personaggio consiste proprio in quell´aria normale, da cittadino qualunque senza boria e senza etichette politiche. Il tutto ben completato dal suo fisico da ragazzone impacciato con le braccia decisamente troppo lunghe: «Non riesco mai a trovare una giacca della misura giusta». Alle giacche, e ai vestiti in genere, ci tiene. Giubbotto di Abercrombie su scarpe da trekking la sera, grigio cappotto di cachemire e sciarpina inglese la mattina. Anche nelle manifestazioni di piazza lo abbiamo visto sfoggiare un look personalizzato e molto curato. Lui dice che non c´è niente di male e soprattutto insiste che i tempi sono cambiati, che non ha senso fare confronti con i dissidenti sotto il regime sovietico. «Era una società molto più povera e c´era un potere molto più violento. Qui non credo che nessuno di noi rischi di essere eliminato o di finire in un gulag». E se provi a citare il caso di Mikhail Khodorkovskij in carcere da anni con accuse palesemente inventate, precisa: «Lui è un oligarca, che voleva fare politica. Un caso di regolamento di conti interno. Quelli come me denunciano tutto quello che non va. E possiamo documentarlo, abbiamo le carte. Per questo è difficile farci star zitti».
Basso profilo apparente e ostentata sicurezza. La "strategia Navalnyj" è tutta qui. La vedi fisicamente riprodotta nel suo ufficio di via Letnikovskaja. Un vecchio palazzo restaurato al ridosso delll´Anello dei Giardini che contiene il centro della capitale. Navalnyj fissa lo schermo con le gambe allungate sul tavolo che da questa parti è considerata un´abitudine «molto americana». Il tavolo è grande e ha dodici sedie che evocano immagini di lunghe, democratiche, riunioni operative. In realtà restano spesso vuote perché l´uomo è un decisionista che, qualche volta, diventa perfino un po´ autoritario. Ma i suoi lo amano e gli perdonano tutto come da copione in tutti i ritratti dei grandi leader. L´ufficio, in affitto, è sede della sua creatura, il sito internet RosPil, un acronimo che sta per «segatura di Russia» dove il termine «segatura» si riferisce a un´espressione gergale che si potrebbe tradurre in «ruberie ai danni dello Stato». È stata la chiave del suo successo e adesso è alla base della sua strategia futura.
Tutto cominciò con la Svizzera. Un giovanissimo Navalnyj figlio di un benestante ex ufficiale dell´Armata Rossa aveva piccole quote azionarie di colossi a partecipazione statale Vtb, Rosneft e Gazprom. Roba insignificante ma il pedante neolaureato si interessava alle attività delle grandi aziende con l´entusiasmo di un grande finanziere. E con la competenza di un appassionato blogger con contatti e amicizie in tutto il mondo. Fu così che si scoprì l´esistenza a Ginevra di un´azienda, la Gunvor, di proprietà del miliardario Gennadj Tymchenko amico personale di Vladimir Putin. Tutte le transazioni di gas e petrolio venduto dalla Russia in Occidente passano, non si capisce bene perché, da Gunvor. Un sistema, nemmeno troppo nascosto, di drenare incassi destinati allo Stato russo e di dirottarli direttamente per altri misteriosi lidi. «Ma la cosa più sorprendente fu capire che quando ho messo le informazioni in Rete, la cosa interessava moltissima gente. Non solo gli azionisti di minoranza delle aziende statali, ma ogni tipo di cittadino onesto».
Nacque così RosPil. Ogni giorno da tre anni Navalnyj e la sua squadra mettono in Rete tutti gli investimenti di denaro pubblico decisi dal governo. Dai fondi per il restauro del Teatro Bolshoi a quelli per l´informatizzazione degli uffici o delle nuove reti stradali. E attendono che dalla Rete giungano segnalazioni, denunce, documenti. Dmitri Volov, avvocato; Konstantin Kalmikov, politologo e Lubov Fedeneva, esperta giurista, dai loro ufficetti a fianco alla stanza del capo, analizzano, verificano, pubblicizzano ogni irregolarità. «Il nostro è un vero e proprio studio legale che combatte la corruzione. Solo prove e documenti, altro che politica. Più gente capisce il marcio che c´è nel paese, più gente avrà voglia di scendere in piazza per mandare via questo governo». Un lavoro dunque, e anche redditizio. «È incredibile quanta gente ci mandi sottoscrizioni spontanee. Possiamo raccogliere anche centomila dollari in una settimana. Perché se continui a ripetere sempre e soltanto la verità prima o poi la gente ti crede e ha fiducia in te». Ed eccolo, finalmente, il segreto: «Bisogna avere lo spirito di un´azienda. In Russia c´è una altissima richiesta di verità. E noi dobbiamo continuare a produrla come fosse un qualsiasi prodotto industriale». Lo stesso vale per la contestazione montante, l´obiettivo è insistere, senza programmi futuri, tirando fuori il marcio e invocando il cambiamento. «Quando leggo interviste a oppositori di qualsiasi parte del mondo, vedo che la domanda più scontata è: cosa farebbe se fosse presidente? Ebbene, io non mi sono mai fatto questa domanda e continuo a non farmela. Non mi interessa chi cambierà le cose. Voglio solo che le cose cambino». Forse un po´ limitativo ma non è il momento per sfoggiare ambizioni presidenziali. La stampa filogovernativa ha già cominciato a demolire il personaggio: qualcuno dice che è al soldo degli americani, sottolineando un lontano stage di sei mesi a Yale sponsorizzato da un altro dissidente, lo scacchista Kasparov. Altri si lanciano in un complottismo vecchio stile teorizzando che potrebbe invece essere manovrato proprio dal Cremlino per guidare la rivolta ma tenendola a bada. Lui ci ride sopra. «Delle due calunnie preferisco la seconda perché mi sento profondamente patriottico. L´America è affascinante ma non mi riconosco proprio in quel modello. Anzi, quando sono tornato da Yale ho imparato ad apprezzare di più la mia gente, la cittadina militare di Butyn, vicino a Mosca, dove sono nato. Perfino le acque, ora radioattive, del fiume che scorre vicino a Cernobyl e dove passavo le vacanze estive ospite della nonna paterna. A modo mio rimango un po´ sovietico».
Ultima frase buttata lì per stupire. Come hanno stupito non poco le sue tirate nazionaliste che hanno turbato molti democratici del fronte della contestazione. «Il nazionalismo è importante. Se lotti contro la corruzione lo fai per il bene del tuo paese. Ma i fanatici non mi piacciono. Li frequento, li rispetto. Tutto qui». Anche con la religione cristiana ha un rapporto utilitaristico. «Ho capito quanto fosse importante leggendo Mosca-Petuskij di Venedikt Erofeev. Le note a pie´ di pagina mi facevano notare che tutte le citazioni illuminanti venivano dalla Bibbia. La Chiesa è fondamentale. Se non per la fede, certamente per l´immensa cultura che si porta dietro». E la vita del dissidente? «Una vita normale. Casa, ufficio, una straordinaria moglie-amica, due bambini che dicono che papà è un eroe. E un altro vantaggio impagabile: un lavoro che mi diverte moltissimo».

il Fatto 15.1.12
J. E. Hoover, che America è?
di Furio Colombo


Ci sono molte ragioni per discutere la figura di J. Edgar Hoover, dopo il film di Clint Eastwood. Un uomo ritroso e potente che per 48 anni è stato a capo del Federal Bureau of Investigation, che lui stesso aveva fondato e che ha diretto sotto otto diversi presidenti degli Stati Uniti, tenendo sempre saldamente il controllo della sicurezza americana in circostanze storiche e politiche profondamente diverse, da Harding a Roosevelt, da Kennedy a Nixon. La parola chiave, se si tenta una descrizione del personaggio, è “controllo”. Per Hoover significa “dominio assoluto” sulla vita e sugli eventi di quante più persone possibile, alle condizioni che lui stesso stabilisce da una posizione allo stesso tempo di estrema importanza e quasi invisibile. Ho vissuto in un’America segnata fortemente dalla figura e dalla persona di Hoover.
Ricordo uomini politici e figure pubbliche, costrette a tener conto di quel personaggio, indipendentemente dalla grandezza della loro immagine e dal prestigio del loro talento e della loro celebrità.
Mai incluso e mai escluso da ogni trama o sospetto, premiato per cose vistosamente non fatte e agente segreto di se stesso, era questo il J. Edgar Hoover che mi aspettavo di trovare nel film di Clint Eastwood e nella straordinaria interpretazione di Leonardo DiCaprio. Invece ho trovato un grande dramma di vita privata dove motivi interiori di tormento prevalgono di gran lunga sul più vasto scenario politico e pubblico che pochi personaggi di potere hanno avuto, mai per un tempo così lungo.
NELLA FIGURA potente, oscura, ingombrante che occupa così a lungo e con tanto peso la scena degli Usa, e dunque del mondo, che cosa c’è di unicamente, tipicamente americano, al punto d poter dire: ecco, questa è l’America?
Per esempio, l'ossessione del comunismo e quella dello “straniero” (e dunque dell’espulsione di presunti colpevoli anche a costo di revocare la cittadinanza) sono un’invenzione della sceneggiatura, una citazione dal vero o il tratto comune e tipico di una cultura?
Di certo Hoover rappresenta molta America (al punto da mostrare una lunga strada laterale che attraversa l’impero americano, lo rafforza ma non lo onora, da Sacco e Vanzetti a Guantanamo) e nega e divide un’America altrettanto grande, ovvero una accanita opposizione a Hoover, popolata di grandi americani, per un periodo così lungo da far pensare a un tratto congenito sull’uno e sull’altro versante, quello del potere ostinato e quello della instancabile difesa del diritto di libertà.
Il paradosso è questo (e il film di Clint Eastwood lo mostra appena): Hoover cerca potere e controllo.
E lo vuole assoluto, accanto, non dentro la democrazia, una sorta di terribile ruota di scorta. Percepisce il governo come debole e lontano. Vuole una polizia più agile e potente delle polizie dei singoli Stati che formano gli Stati Uniti d’America. Ma, con la costruzione di un’efficientissima FBI, fabbrica la macchina che garantirà la protezione dei diritti dei cittadini. Infatti le peggiori vessazioni dei diritti dei cittadini, come ha imparato presto la Lega Nord in Italia, si compiono nella periferia del sistema giuridico di un Paese. Nei piccoli centri americani nessuno e niente (tranne la violenza) avrebbe potuto porre fine all’arbitraria e crudele discriminazione razziale che segregava la popolazione afro-americana (allora si diceva “colored people”) e la confinava in un destino inferiore. Ma quando un governo federale (quello di John e Robert Kennedy) ha voluto cambiare il Paese e tagliare la strada al razzismo, ha avuto lo strumento adatto nella polizia federale che prende il posto dello sceriffo eletto in un luogo e votato per la continuazione del razzismo. E quando il movimento di Martin Luther King, detestato da Hoover che non vuole potere popolare, fa diventare legge “i diritti civili”, il nuovo ordine giuridico che va a sovrapporsi alle leggi precedenti, cancellando automaticamente le più odiose leggi razziali, ci vuole una polizia nazionale e federale per identificare e reprimere i reati contro i diritti delle persone.
TUTTO CIÒ non è avvenuto subito (contro il governatore Wallace dell’Alabama, Robert Kennedy ha minacciato l'invio di paracadutisti, nel 1962). Ma quando, dopo Hoover, il pestaggio selvaggio del giovane nero Rodney King, da parte di poliziotti di Los Angeles, ha provocato la rivolta e l’incendio della città (1992), Washington ha potuto usare la polizia federale per ridare fiducia ai cittadini, il Tribunale federale per processare i poliziotti locali e le truppe federali per ristabilire e mantenere l’ordine.
Qualcuno – Hoover – ha lavorato bene al fine esclusivo di avere autorità e creare potere al di fuori della democrazia. Qualcuno – Martin Luther King e Robert Kennedy – ha usato con abilità e bravura quello strumento per fare del processo democratico un territorio grande e protetto dei diritti di tutti, molto al di sopra di possibili arbitri e prepotenze dei poteri locali e chiamando l’opinione pubblica a testimone e sorvegliante dei diritti garantiti. Non è soltanto la narrazione di un lieto fine, ma un modo per mettere in evidenza ciò che vi è di tipicamente americano in questa storia: l’ostinazione democratica.

sabato 14 gennaio 2012

il Fatto 14.1.12
Non staremo a guardare
di Paolo Flores d’Arcais


Quanto potrà durare la convivenza tra il governo “salva Italia” e la maggioranza parlamentare “salva camorra”? Qualche mese, ha stabilito lo sciagurato patto intercorso tra Bossi e Berlusconi: si vota tra maggio e giugno, io ti offro l’impunità per il tuo amico onorevole frequentatore dei “casalesi” e tu mi contraccambi non dando tempo a Maroni di organizzarsi per prendermi la Lega, questo in soldoni (è il caso di dirlo) il mercimonio tra i due Le Pen alla matriciana che da quasi un ventennio infestano il paese. En passant, un grazie di cuore agli altrettanto onorevoli deputati del partito di Pannella.
Che il governo Napolitano-Monti-Passera sia davvero il governo “salva Italia” è ovviamente tutto da dimostrare. Qui lo assumiamo per presupposto, e quando ci sarà da lottare contro le iniquità annunciate non staremo certo a guardare. Che la maggioranza parlamentare sia “salva camorra” è invece ormai conclamato, e anzi orgogliosamente, visto il carosello di applausi e felicitazioni che hanno salutato l’Impunito, prontamente invitato da Vespa come tronista del suo show di regime.
Quali siano le ragioni del vergognoso voto lo ha del resto confessato candidamente uno di loro: altrimenti quelli (sarebbero i magistrati!) ci vengono a prendere uno per uno! E perché mai? Solo chi ha commesso crimini parla così. Evidentemente i parlamentari “salva camorra” sanno quante illegalità hanno perpetrato, a cominciare dal loro boss Berlusconi. Noi possiamo solo immaginarlo, e puntualmente fantasia e satira si dimostrano inferiori alla realtà.
Dunque con ogni probabilità tra maggio e giugno si vota, poiché i patti scellerati sono quelli maggiormente rispettati, proprio da gente della risma dei due B, che le promesse agli elettori le valuta meno di certa carta. Le forze democratiche vogliono arrivarci di nuovo impreparate, e consentire così che si realizzi ciò che oggi sembra solo raccapricciante fantascienza, il ritorno al governo dei due, con le straripanti pulsioni fasciste a quel punto senza argini?
Perché si voterà con il sistema “Porcata”, inutile farsi illusioni. Con il quale i voti fuori dalle due coalizioni maggiori contano solo per partecipare alle spoglie della sconfitta. Dunque è necessario che nella coalizione repubblicano-costituzionale una parte cruciale la giochino una o più liste autonome di società civile, legate alle tematiche e alle passioni di dieci anni di lotte. E nessuna sirena centrista. Sarà bene lavorarci subito, discuterne fin da ora e operativamente su giornali e web, perché molto presto potrebbe già diventare troppo tardi.

il Fatto 14.1.12
La giustizia presa a sberle
di Gian Carlo Caselli


In Italia la Camera, per “salvare” dall’arresto un suo componente, prende a sberle la magistratura farfugliando di “fumus persecutionis” e altre amenità pur di rendere meno indigeste strategie che riducono la politica a baratto. In Italia la Camera, per “salvare” dall’arresto un suo componente, prende a sberle la magistratura farfugliando di “fumus persecutionis” e altre amenità pur di rendere meno indigeste strategie e alleanze che riducono la politica a mortificante baratto. Nello stesso tempo, a Londra, lord Phillips di Worth Matraves, presidente della Suprema Corte, ha stabilito che nella sua aula chiunque sarà libero di abbandonare gli antichi paramenti. Basta quindi con parrucche e forse anche con toghe e bavaglini di pizzo. La modernità contro una tradizione che risale al Seicento. Con la motivazione (così Andrea Malaguti su La Stampa) che “il processo va reso accessibile a chiunque”; – deve essere “un confronto tra uomini, non tra raffinati aristocratici scelti per rappresentare una plebaglia muta”.
NON PORTANO parrucche i deputati italiani che a maggioranza hanno “salvato” l’onorevole Cosentino e prima ancora avevano disinvoltamente approvato, tra l’altro, leggi “ad personam” finalizzate a sottrarre il processo al giudice naturale (legge Cirami), oppure ad allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento (lodo Schifani). Ecco allora che anche senza una parrucca in testa si può essere “parrucconi”, cioè personaggi arroccati intorno ai propri privilegi, incapaci di corrispondere adeguatamente alla pretesa di equità e giustizia che i cittadini esprimono appellandosi al principio di legalità, della legge eguale per tutti. Finendo così per considerare i cittadini, invece che sovrani (la sovranità appartiene al popolo), appunto una “plebaglia muta”: da liquidare con stanchi ritornelli sui teoremi dei magistrati, sul loro accanimento persecutorio contro il politico di turno e via salmodiando all’infinito. Una politica, questa, che sembra amare il masochismo, perché non fa che gonfiare il discredito e la sfiducia che già dilagano nei suoi confronti. Si potrebbe persino essere tentati di chiedere ai parlamentari italiani di indossare proprio le bianche parrucche (rigorosamente di crine di cavallo) che in Inghilterra si vogliono abolire: per coerenza, vista l’atmosfera un po’ irreale e molto, molto vecchia (precostituzionale?) in cui certe decisioni della maggioranza della Camera vanno a incastonarsi. E chissà mai che le parrucche – per assurdo – non contribuiscano al recupero di alcuni valori.
PERCHÉ oggi è certamente roba da medioevo, ma storicamente quest’abbigliamento – a volte proprio con la sua ridondanza – ha avuto una funzione precisa: ricordare e riaffermare il noto paradosso del costituzionalista inglese, secondo cui l’esercito e la flotta dell’Inghilterra hanno una sola funzione, rendere possibile che il giudice emani le sue sentenze. Perché la legalità è il cemento della convivenza civile, è il freno a egoismi e onnipotenze, è il prevalere delle regole condivise. E con una parrucca in testa, forse, diventerebbe più difficile indulgere all’idea – terribilmente italiana – di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé.

il Fatto 14.1.12
Il network che salva i casalesi
di Nando Dalla Chiesa


Ma è stato “solo” un istinto di casta quello che ha portato il Parlamento a sottrarre Nicola Cosentino alle leggi della Repubblica? A salvarne uno per completare il suicidio collettivo? Dietro, in realtà, c’è dell’altro. Ma è stato “solo” un istinto di casta quello che ha portato il Parlamento a sottrarre Nicola Cosentino alle leggi della Repubblica? A salvarne uno per completare il suicidio collettivo? Chi conosce un po’ storia e personaggi del Parlamento italiano sa quanto questo istinto sia potente. L’idea che domani possa capitare a me o a te, a qualcuno dei nostri. L’idea che la nostra dignità costituzionale ci ponga al di sopra delle leggi. L’idea che tutto questo si possa chiamare “garantismo”. Lo stesso a cui non per nulla si è appellata la Lega del cappio e di Roma ladrona. Ma dietro il caso Cosentino c’è altro. C’è la storia di lealtà e solidarietà che si radicano nelle fibre più intime del potere. Fibre invisibili, inconfessate. E forse, per iniziare a capire, conviene tornare a quella riunione segreta venuta a galla nel luglio del 2010 e che proiettò sull’Italia l’immagine di qualcosa di simile a una nuova P2; una P3, come si disse. In quella riunione a Roma si erano trovati in otto. Ripassiamo i nomi. C’era Denis Verdini, vero coordinatore del Pdl, referente della cricca dei costruttori. C’era Marcello Dell’Utri, ispiratore del progetto di Forza Italia e poi condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
C’ERA FLAVIO Carboni, uomo P2, con la sgradevolezza di essere stato condannato in primo grado (ma poi assolto) per l’omicidio del “banchiere di Dio” Roberto Calvi. C’era il governo, nella persona del magistrato e sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. C’era un altro esponente del ministero della Giustizia, nella persona di Arcibaldo Miller, capo degli ispettori ministeriali. Poi Antonio Martone, avvocato generale della Cassazione e già presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Infine c’erano due signori campani sconosciuti alla quasi totalità dei cittadini italiani. Uno era Pasquale Lombardi, l’altro Arcangelo Martino. Il primo autonominatosi giudice tributario, in quanto membro di commissioni tributarie, ed ex sindaco di un paese irpino. Il secondo “imprenditore” e piuttosto anonimo ex assessore socialista. Che cosa accomunava i due? Essere stati tra gli sponsor più intransigenti della candidatura di Cosentino a presidente della Regione Campania. Bene. Che ci facevano insieme persone tanto diverse? Note e sconosciute, interne ed esterne alle istituzioni? Secondo quanto sostengono i carabinieri, si stavano occupando di due cose: a) pilotare nel verso giusto la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano; b) salvare la Mondadori dal suo spaventoso debito verso l’erario. Insomma, stavano lavorando per “Cesare”, come lo chiamavano, che sempre secondo i carabinieri era Silvio Berlusconi. Uno scenario inquietante: magistrati misti a personaggi che, direttamente o indirettamente, evocano comunque all’osservatore l’ombra, nell’ordine, della Cricca, di Cosa Nostra, della P2 e dei Casalesi. Tutti insieme per concordare come influenzare l’organo supremo della giurisdizione repubblicana. Ecco, i due sponsor di Cosentino fanno parte di quel ristrettissimo nucleo di persone che in quel momento (nemmeno due anni fa) rappresenta il potere politico vero, un gradino sotto Cesare. Ne spartiscono e ne custodiscono i segreti. È a queste stanze che bisogna andare per capire le ragioni del suicidio di una classe politica. Al network micidiale di poteri che opera a Roma all’ombra dei Palazzi istituzionali, con i quali ha frequentazioni continue (Lombardi era un vero accalappiatore di alti magistrati e consorti in convegni “scientifici” da officiare in località di lusso).
DI QUA gli ambienti più contigui alla sfera illegale del Paese. Di là una pletora di magistrati distaccati ai ministeri, consiglieri di Stato, magistrati Tar, che amministrano i poteri di governo assai più dei sottosegretari e di quasi tutti i ministri, unica eccezione quelli che possono incidere sulle loro carriere. Questi due mondi si incrociano di frequente, non tutti con tutti, si capisce. Non sempre per progettare o commettere reati, a volte solo, “innocentemente”, per sistemare un figlio o trovare una casa. Ma garantendo sempre la possibilità di passare facilmente da un estremo all’altro del network. Per capirsi: i Casalesi avranno anche dato un impulso formidabile alla fase della cosiddetta camorra-impresa, disseminando i loro capitali in attività economiche di ogni tipo in tutto il paese, da quelle immobiliari a quelle commerciali, e mescolandosi con ogni tipo di potere, accumulando un grande potere di ricatto. Ma è a quel network che bisogna andare. È quel luogo inafferrabile – abitato non dalle “multinazionali” ma da persone spesso mediocri e sconosciute – che unendosi allo spirito di casta ha rovesciato i pronostici salvando Cosentino. E ci ha consegnato questa terribile immagine dello Stato: carabinieri, polizia e magistrati (quelli regolarmente accusati dai colleghi del network di volere “far carriera”) che arrestano uno dopo l’altro tutti, ma proprio tutti, i capi dei Casalesi; e il Parlamento che mette in salvo il loro referente politico.

l’Unità 14.1.12
La furia dei militanti si sfoga al microfono
Continuano le proteste su Radio Padania e Radio Radicale dopo il voto che ha salvato dal carcere il coordinatore Pdl
di Natalia Lombardo


Radio Radicale è allenata alle libere maratone di liberi commenti senza rete alcuna che filtrasse i viscerali improperi degli ascoltatori indignati. La famosa «Radio parolaccia» che fu anche censurata dalle autorità di garanzia. Dopo il voto contrario all’arresto di Cosentino, l’etere si sta addensando per le telefonate di chi si non manda giù la fede garantista della Rosa nel pugno estesa al presunto camorrista. Anzi, sul profilo Facebook della radio la suddetta rosa si ritrova conficcata su un aggraziato lascito intestinale con la definizione «Radical shit». «A radicali...sti, fateve meno canne!», è uno dei commenti monotematici. E Mirko avvisa: «Troppo fumus fa male al cervello! Iconizzatevi che siete ridicoli...». Qualcuno crea un nuovo marchio: «Fumus padano». Realistico Pino: «Con questo voto vi siete persi l’occasione di mandare in onda le registrazioni del processo Cosentino».
Toni più torvi a Radio Padania, se non fosse che è ben più controllata e censoria. Tra le note del «Boss dei laghè», Davide Van der Sfroos, le telefonate sono accolte con una «buona Padania a tutti»; c’è chi rivede il vecchio neologismo sui «trinariciuti comunisti» (che non guasta mai per l’ottica “padanica”) trasformati da una signora in «trinariciuti capitalisti» in tempo di governo tecnico. Ma tra i vari «vergogna...» per il salvataggio del «terrone», i conti in Tanzania e la truffa delle CrediEuronord, entra in azione il conduttore sintonizzato sull’onda corta di Arcore: «Lei ce l’ha le prove?», della colpevolezza di Cosentino. «Be’, no...», risponde la povera donna, e allora... clik, «se si tratta solo di teoremi no, eh?!», conclude il conduttore che si dichiara «razzista». Il forum di Radio Padania Libera, infatti, è spento. Problemi tecnici, è la spiegazione, e sul sito si avvisa: mai esistito un profilo fb della radio. Della Lega esiste, così la rabbia si spande sul social network, dove Luterino Blissettoni moltiplica l’autore collettivo in un pattern di «mafiosi di m... Mafiosi di m...» all’infinito. Altro che Alberto da Giussano, per Gabriele «siete dei camorristi campani». Gli escrementi tirano, così la comparazione di Egidio: «Lega-Pdl=Montagna di m...». Argomenta meglio Silvio Brigante, che urla in due righe: «Anche le foglie degli alberi di Caserta sapevano che Cosentino era un affiliato dei casalesi...». Messaggi livorosi e il leit motiv razzista sbandierato sulla pagina fb della Lega che anche i più volenterosi non riescono a far togliere nonostante le denunce alla polizia postale: «Lega Nord Padania. Immigrati clandestini: Torturali! È legittima difesa».

l’Unità 14.1.12
Cgil, Cisl e Uil hanno definito il documento comune da portare al confronto con il governo
Elsa Fornero ha incontrato ieri Rete imprese Italia che chiede maggiore flessibilità
I sindacati per l’intesa «Ma l’articolo 18 resti fuori dal tavolo»
Raggiunta l’intesa tra i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil: «Noi siamo pronti, vediamo se anche il governo è pronto». L’assenza di eventuali modifiche all’articolo 18 è precondizione al confronto
di L.V.


MILANO Le premesse per un vero confronto sul mercato del lavoro ci sono tutte. Nella riunione conclusiva di ieri mattina, i segretari generali di
Cgil, Cisl e Uil hanno definito nei dettagli la piattaforma unitaria anticipata ieri sulle pagine di questo giornale con cui intendono presentarsi all’incontro con il governo sulla riforma del mercato del lavoro.
LA PIATTAFORMA DEI SINDACATI
Adesso la parola spetta al ministro Elsa Fornero e al premier Mario Monti che davanti a interlocutori uniti e desiderosi di entrare nel merito delle questioni con proprie proposte concrete dovranno dimostrare la reale volontà dell’esecutivo di pro-
cedere a modifiche legislative con il consenso delle parti sociali.
Il primo banco di prova, manco a dirlo, sarà l’assenza dai temi della discussione di qualsiasi modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che le tre confederazioni sindacali continuano a porre come precondizione necessaria al dialogo. A cominciare dallo stralcio della bozza sul decreto liberalizzazioni che innalzerebbe da 15 a 50 dipendenti la soglia per la sua applicazione nelle imprese in caso di fusioni. «Il tema dell’articolo 18 non è tra i problemi veri da affrontare al tavolo» hanno avvisato i leader sindacali. E se l’esecutivo ne farà «un totem» ideologico, una questione di principio, allora i rapporti con i sindacati «rischiano il black out».
«Abbiamo opinioni identiche » ha spiegato il leader Cisl, Raffaele Bonanni, al termine del vertice di ieri, a cui martedì prossimo seguirà la riunione unitaria delle segreterie confederali dalla quale scaturirà un documento comune su crescita, mercato del lavoro, ammortizzatori sociali e pensioni da presentare a Palazzo Chigi. «Noi siamo pronti, adesso vediamo se lo è la politica».
Anche il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, si è augurato da parte dell’esecutivo un percorso coerente con le intenzioni dichiarate, perché «non vorremmo scoprire che alla fine l’unica cosa fatta sarà il disastro sulle pensioni». Gli auspici sono tutti per «una discussione trasparente, con il coinvolgimento di tutti», anche in tempi rapidissimi, ma soprattutto «in totale trasparenza, senza usare la tecnica delle indiscrezioni e dei documenti anonimi, che poi vengono più o meno smentiti a seconda delle convenienze».
Suona ancor più chiaro l’avvertimento della segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso: «Speriamo che il governo non voglia far fallire la trattativa prima di cominciare» e, a tal fine, «che la bozza che sta circolando in questi giorni, contenente anche un riferimento all’articolo 18, non sia confermata». Una trattativa, comunque, che Corso d’Italia non vuole preventivamente limitata nel merito: «Non vogliamo discutere solo del mercato del lavoro, ma anche di crescita e sviluppo», temi su cui il fronte sindacale si presenterà con «un’agenda condivisa».
GLI INCONTRI DEL MINISTRO
Intanto, non si fermano gli incontri preventivi del ministro del Welfare, Elsa Fornero, con le diverse parti sociali in vista della fase decisionale del confronto. Ieri è stata la volta dell’Associazione banche italiane, delle associazioni imprenditoriali di Rete imprese Italia, e delle Acli.
Al termine di un faccia a faccia durato un’ora e mezza, il primo ufficiale con il nuovo esecutivo, il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, ha presentato al ministro l’esperienza del comparto bancario e assicurativo nel mercato del lavoro: «Il nostro settore ha infatti sperimentato, prima di altri, le soluzioni esaminate nell’ambito della riforma che il ministero si appresta a studiare».
Soddisfatto anche il presidente di Rete imprese Italia, Marco Venturi, secondo cui il confronto sulla riforma del mercato del lavoro «può e deve andare a buon fine, perché l’Italia in questa situazione di difficoltà ha bisogno di mettere tutti i tasselli a posto». In particolare, «abbiamo posto al centro i problemi del lavoro legati alle Pmi, ci vogliono quelle condizioni di flessibilità e opportunità per avere più occupazione nel Paese». Al proposito, anche la modifica circolata in questi giorni all’articolo 18 «può essere un’opportunità per favorire l’aggregazione, la capacità concorrenziale e la crescita dimensionale, quindi noi la giudichiamo positivamente».
Nei prossimi giorni, invece, il ministro Fornero proseguirà le consultazioni sulla riforma del mercato del lavoro con il mondo delle cooperative. Per lunedì pomeriggio sono stati infatti convocati i rappresentanti dell’Alleanza nazionale delle cooperative (che associa Confcooperative, Legacoop e Agci).

l’Unità 14.1.12
Cento giornali a rischio Appello a Monti in difesa del pluralismo


La Federazione della Stampa chiede al premier di intervenire subito
sul Fondo dell’editoria per evitare la chiusura di oltre un centinaio di testate
Pubblichiamo il testo dell’appello al presidente del Consiglio, Mario Monti, che oggi sarà pubblicato da oltre cento giornali in crisi per i tagli al Fondo per l’editoria

Ci troviamo costretti ad appellarci a Lei per segnalare la drammatica necessità di risposte urgenti per l’emergenza di un settore dell’editoria rappresentativa del pluralismo dell’informazione, un bene prezioso di cui si ha percezione solo quando viene a mancare.
Alla data di oggi, infatti, queste aziende non sono in grado di programmare la propria attività, rischiano di dover a fine mese sospendere le pubblicazioni e anzi alcune hanno già chiuso i battenti. Si tratta dei giornali gestiti in cooperative espressioni di idee, di filoni culturali politici, voci di minoranze linguistiche, di comunità italiane all’estero, no profit per i quali esiste il sostegno previsto dalla legge per le testate non meramente commerciali, ma per le quali oggi non ci sono garanzie sulle risorse disponibili effettivamente per il 2012. C’è inoltre un’urgenza nell’urgenza: la definizione delle pratiche ancora in istruttoria per la liquidazione dei contributi relativi all’esercizio 2010 che riguarda una trentina di piccole imprese.
In assenza di atti certi su questi due punti sta diventando pressoché impossibile andare avanti, mancando persino gli elementi per l’accesso documentario al credito bancario. Nell’ancora breve, ma intensa, attività del Suo Governo, non è mancata occasione per prendere atto della domanda di garanzie per il pluralismo dell’informazione, anche nella fase di transizione verso il nuovo quadro di interventi previsto a partire dal 2014. Siamo decisamente impegnati a sostenere una riforma. Col Sottosegretario in carica fino a pochi giorni fa, Professor Carlo Malinconico, era stato avviato un percorso di valutazione delle possibili linee di iniziative. È indispensabile riprendere questo dossier al più presto.
Il nostro è un vero Sos che riguarda sia le procedure amministrative in corso, da sbloccare, sia la dotazione definitiva per l’editoria durante il 2012.
Il Governo ha già preso atto dell’insufficienza dello stanziamento risultante da precedenti manovre sulla spesa pubblica e ha, perciò, condiviso una norma, approvata dal Parlamento, che include l’editoria tra i soggetti beneficiari del cosiddetto “Fondo Letta” della Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’integrazione di questa somma con un prelievo (cifra ancora indeterminata). Ritenevamo e riteniamo che il provvedimento sulle “Proroghe”, divenuto frattanto “proroghe”, possa e debba contenere le misure opportune per stabilire l’impegno finanziario dello Stato durante il 2012. Siamo dell’avviso che sia indispensabile la destinazione da tale Fondo di una somma non inferiore a 100 milioni di euro, al fine di assicurare alle testate del pluralismo dell’informazione non meramente commerciale le condizioni minime di sopravvivenza, nelle more di un riordino del sistema di interventi per il quale ci sentiamo solidamente impegnati.
Si tratterebbe di operare in una linea di equità, analogamente a quanto già fatto dal governo per Radio Radicale, verso l’indispensabile costruzione di un nuovo e più chiaro modello di intervento.
Condividiamo nettamente l’idea che i contributi debbano sempre più essere misurati sulla base dell’impiego dei giornalisti e dell’effettiva diffusione delle testate e che sia davvero “impensabile eliminare completamente i contributi che sono il lievito di quella informazione pluralistica che è vitale per il Paese”, come Ella ha recentemente dichiarato in sintonia con una risposta che il Capo dello Stato diede tre mesi fa a un appello dei direttori dei giornali.
Grati per l’attenzione d’intesa con Fnsi, Sindacati dei lavoratori, Associazioni di Cooperative del settore (come Mediacoop, Fisc e Federcultura/Confcooperative), giornali di idee, no profit, degli italiani all’estero, delle minoranze linguistiche Articolo21, e Comitato per la Libertà dell’informazione vogliamo aver fiducia che una puntuale e tempestiva risposta eviti la chiusura di molte delle nostre testate e la perdita di migliaia di posti di lavoro tra giornalisti e lavoratori del nostro sistema e dell’indotto. Se i nostri cento giornali dovessero chiudere nessuna riforma dell’editoria avrebbe, ovviamente, più senso.

Corriere della Sera 14.1.12
Schmitt, l'elogio dell'applauso
La «teoria dell'acclamazione» nazista contro la democrazia borghese
di Giuseppe Bedeschi


A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell'associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l'azione del Führer — affermò allora — è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell'ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron — che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco — il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All'epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti. Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall'essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall'aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler). A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l'esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull'individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile. La vera democrazia, per Schmitt, è tutt'altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l'«acclamazione». «La forma naturale dell'immediata espressione del volere di un popolo — egli dice — è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l'acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un'espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l'onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti. Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L'enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l'una dall'altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell'Europa e, più in generale, del mondo moderno.

La Stampa 14.1.12
Nel Niger di Al Qaeda la tratta delle donne è il business dei tuareg
Gheddafi pagava bene i clandestini come “merce” per invadere l’Europa Ora Tripoli li ricaccia indietro. Ma i viaggi nel deserto del Sahel continuano
di Domenico Quirico

inviato a Agadez, Niger

Dieci km per un secchio d’acqua La scarsità di pozzi è uno dei problemi più gravi del Niger, settimo nella classifica dei Paesi più poveri del mondo. L’approvvigionamento di acqua è compito delle donne
Crocevia Agadez Preghiera del venerdì: i fedeli sono così tanti che neppure la Grande Moschea li contiene tutti. Città un tempo fiorente, ora in crisi per la guerriglia tuareg, Agadez è uno snodo del traffico legale e illegale
3.000 chilometri È la fascia del Sahel, il deserto che va dall’Oceano Atlantico al Corno d’Africa attraversando gli Stati dell’Africa Centro Settentrionale
I nomadi guerrieri Dopo la decolonizzazione le terre abitate dai tuareg sono passate sotto Stati diversi: di qui la lotta armata per l’indipendenza e l’autodeterminazione politica e culturale

1,7 milioni. È la stima dei tuareg che vivono in Niger, lo Stato dove sono più numerosi In tutto il Nord Africa sono circa 5 milioni"
1.594 morti. Secondo «Fortress Europe», questo è il numero minimo di vittime del passaggio clandestino verso Nord negli ultimi dieci anni"
11 ostaggi europei. Nelle mani di Al Qaeda ci sono attualmente cinque francesi, tre spagnoli, un olandese, uno svedese e la cooperante italiana Rossella Urru, rapita in Algeria il 23 ottobre In Niger il sequestro è diventato un’industria con un suo tariffario Al Qaeda «compra» gli ostaggi dai sequestratori: i più cari sono i francesi, il popolo più odiato

Alassan è un tuareg. Vede nel deserto cose che a me sfuggono, un filo di polvere nell’orizzonte che trema per la calura, pick-up che si muovono nella solitudine in cui i nostri occhi le hanno perdute, la luna che si leva quando il sole è ancora alto e chiaro. Alassan è musulmano, certo, crede in Allah, ma senza impegnarsi; il suo vero Dio è il vento, Adhou, che si leva ogni giorno preciso a metà mattinata e agita le tende con un rumore di vele di nave e niente lo ferma.
Alassan si farà seppellire nel sudario tessuto a maglie larghe perché la sab- Abia vi penetri e lo avvolga in un abbraccio. Ma non vive più nell’immensità delle sabbie, seguendo le vaghe tracce che lasciano a forza di secoli i rari passaggi degli uomini e delle bestie, o nella serie di tavole ciclopiche dell’Air, le sue colate di lava nera. Le «amministrazioni» hanno cambiato la vita di questi eterni raminghi: con le frontiere che hanno incatenato il deserto, e poi le siccità spaventose, nel 1963 e poi nel 1973 e ancora ogni dieci anni, come una maledizione, che fa piangere per la sete, asciuga pozzi millenari, uccide il bestiame e li ricaccia verso il Niger, le terre dei neri, che li considerano parassiti e terroristi e sperano che il deserto, un giorno li inghiotta.
Alassan vive ad Agadez, «la città» per i tuareg, sotto il minareto di sabbia, irto di travi, vecchio di cinquecento anni. Ma gli resta una malinconia lontana, un rimpianto di essere venuto, una tentazione di fuggire: «La città è un recinto». Anche il deserto non gli piace più, ne diffida, gli fa paura. Le piste a Nord verso Tamanrasset e a Est verso il Fezzan libico e l’immenso Ténéré, il deserto dei deserti, dove le dune sono alte tre metri e ti puoi perdere come in un labirinto, ma sono sempre state attraversate da traffici, il sale, l’oro, e poi ribelli, missionari di fedi spesso feroci.
Il secondo Jihad
Oggi però il deserto sta diventando sporco, losco, inquieto. Ci passano commerci sudici, droga, armi, uomini e donne resi schiavi della miseria e del bisogno; e poi scivolano tra le pietre e la sabbia marabutti di fanatismi nuovi di zecca e implacabili ben più di quelli che propagandava Telli, il marabuttostregone che teneva al collo, amuleto potentissimo, la mano secca del fratello che lui stesso aveva ucciso.
Il Sahel, i suoi silenzi inauditi, è la retrovia delle rivoluzioni arabe che sfrigolano laggiù, sul mare, e sembrano ritirate nel fondo di inapprezzabili lontananze. Invece in questa fascia di sabbia e di roccia che va dalla Mauretania al Ciad, tremila chilometri al di là di ogni proporzione umana, sino a spaventose vertigini, al Qaeda prepara il nuovo terreno di lotta, il secondo Jihad. Un altro Afghanistan, stavolta non remoto e inutile tra le montagne dell’Asia centrale; ma a un passo dall’Europa, nelle sabbie gonfie di petrolio, di uranio, d’oro.
Non ce ne siamo accorti. Queste sono terre già vietate a noi occidentali, non possiamo più venire qui, gli unici che puoi incontrare sono impegnati nella lotta al terrorismo o sono scortati dai militari. Il sequestro è diventato una industria: con le tariffe. «Tu sei italiano, vali poco – sogghignano soppesandoti con degnazione in un bar di Agadez -. Sono i francesi che rendono molto, al Qaeda li odia e li paga più degli americani». Ad Agadez arrivavano, un tempo, due aerei di turisti la settimana da Parigi per cercare nel deserto una specie di ebbrezza e di brivido della solitudine. Poi, dal 2007, quando divampò l’ultima rivolta dei tuareg e poi con l’irruzione di «Aqmi», al Qaeda del Maghreb, (la chiamano «l’insicurezza» con pudore) più nessuno.
All’hotel, nel palazzo che fu costruito in una settimana per accogliere il Garibaldi dei nomadi, Kaossen, venuto a cacciare i francesi mentre l’Europa distratta si suicidava nella Grande guerra, sono l’unico cliente, nel bar il cartello che suggerisce di «non mettere i piedi sui tavoli» predica nel vuoto. Anche le case, i negozi, come fossero morte di una millenaria vecchiaia, come il palazzo di fango secco dove vive il sultano, antico come la città, che ci riceve con gli occhi cisposi. E i suoi dignitari, grassi, accorati, rimpiangono i tempi i cui si riempivano le tasche favorendo le «udienze».
Le reti del terrorismo-mafia
Al Qaeda, maestra di trasformismi, si è insinuata nella vita del deserto, ne fa parte, si mescola ai suoi traffici, si confonde, eccita le rabbie dei tuareg vittime del colonialismo «interno» dei neri, propone jihad che attraggono genti che vogliono ascoltare. Qui il modello di Bin Laden, una Rete mondiale del terrore, è già dimenticato. Lavora e funziona e prospera un terrorismo-mafia, abilissimo ad allearsi a quelle che già esistono, a usarle per poi convertirle, con intelligenza carnivora, da uomini che vivono dell’uomo. Gli emiri delle «katibe» sahariane sono briganti che gridano la loro fede in dio e intanto reclutano non dei devoti alla guerra santa ma dei complici. E questi complici li cercano tra i tuareg.
Per leggere questa mutazione bisogna eludere i controlli militari, salire sulle montagne dell’Air, attendere nella polvere infinita delle piste. E qui, sotto un gigantesco vano di pietra, mentre sulle nostre teste i graniti a strapiombo e minacciosi si intingono ancora di sole, incontriamo «Papà», con i suoi camion. È «un agente di viaggio», ma nei cassoni di questi immensi Mercedes non trasporta terra o derrate, vi getta dentro uomini, porta i loro corpi stremati, le loro inutili speranze.
La via della droga
«Papà» ha vissuto vent’anni in Libia e ricorda i tempi di Bengasi con occhi lucidi di nostalgia. Un giorno la brusca polizia di Gheddafi arrivò, per arrestarlo. Delle ragioni lui parla malvolentieri: «Sai, quello era un Paese strano, un giorno ti salutavano e quello dopo ti mettevano le manette... ». In realtà «Papà» era a capo di una efficiente via della droga, faceva baiocchi e viaggiava con due auto gonfie di guardie del corpo. Lo condannarono a morte, quei despoti bizzosi, lui e altri 44 nigeriani del traffico. C’era scritta la pena sulla sentenza, non la data della condanna: così al mattino arrivano per portare uno dei condannati all’esecuzione e non sapevi quando sarebbe stato il tuo turno.
Soci in affari
«Papà» era l’ultimo, quando la rivolta contro il Colonnello aprì le porte della prigione, potè tornare ad Agadez. Portare i clandestini dell’Africa nera verso la Libia e l’Europa, prima lo faceva quando tornava in vacanza, per arrotondare. Ora è il suo lavoro, li preleva in Nigeria, Ghana, Senegal, Gambia e li trasferisce in Libia, ottanta per ogni camion, più di due terzi sono donne. «Papà» ha dei soci, sono i poliziotti del Niger e si fanno pagar cari.
Quando i camion arrivano ad Agadez, che è l’ultima tappa, versa diecimila franchi CFA a persona e altri duemila quando superano la barriera di uscita. Vuole portarci assolutamente a vedere le case in cui li nasconde in città, con l’orgoglio dell’industriale che mostra la fabbrica che lavora e fa buoni affari.
Entriamo, il volto nascosto dal turbante dei tuareg, l’ordine di non parlare: io sono un arabo interessato a controllare la merce.
Nei tuguri dell’attesa
In un fetore incredibile, dentro buie stanze di fango secco spuntano grandi occhi terrorizzati di ragazze ammucchiate come bestie, tutto il dolore sembra inabissarsi in quegli occhi, nel loro velluto nero e profondo. Fuori nel cortile, dove troneggia una immensa antenna, tra mucchi di rifiuti e rachitici cani famelici, una sudicia «madama» mescola in un pentolone una orrenda brodaglia per sfamare «le candidate all’esodo». I pochi clandestini maschi, unti e lerci, sono in strada, venditori di pubblicazioni oscene rubano loro gli ultimi soldi: «Non lo sanno ma i Libia i neri non valgono niente, sono spazzatura... ».
«Papà» ricorda con gioia i tempi della guerra in Libia: allora arrivavano gli emissari di Gheddafi, pagavano loro per prendere i clandestini, e li caricavano sui pick up per portarli via. Ne volevano migliaia, sempre di più, perché il Colonnello aveva promesso di seppellire di neri l’Europa: «Così prendevamo i soldi da due parti, dai libici e dai clandestini». Ma la fine della guerra ha portato nuovi problemi: il nuovo regime blocca le partenze, ricaccia indietro i clandestini. «Non lo riveliamo a questi forsennati, in fondo vogliono andare ad ogni costo – si sfoga incagnato -. Tornano a Agadez e vogliono essere rimborsati. Non li faccio incontrare con gli altri che salgono da Sud e così non scoprono la verità. Sono buono io, i soldi non li restituisco, ma pago loro il biglietto con il bus per tornare a casa, sono bravo, no? ».
L’ignobile inganno
Quelli che tornano: in Libia i trafficanti che li caricavano per portarli sulla costa, ora nel deserto della Sirte li fanno scendere, senza acqua, senza cibo, dietro una duna. «Camminate, dall’altra parte c’ è un villaggio dove vi attendono altri camion». E partono. Dietro la duna non c’è nulla.
Quello di «Papà» è un «businéss» di poveri, troppe le mazzette da pagare ai poliziotti, a ogni controllo, a ogni frontiera. Al Qaeda si tiene ai margini. Il «businéss», con cui è diventata ricca, è la droga.
(1. segue)

La Stampa TuttoLibri 14.1.12
Verrà la morte, nessuno si illuda
Un viaggio nel tempo con il filosofo Curi, da Prometeo a Kafka, da Eschilo a Rilke, da Euridice a Machado
di Augusto Romano


Mito Le strategie che l’uomo ha elaborato via via per sottrarsi al timore della sparizione
Umberto Curi VIA DI QUA Bollati Boringhieri pp. 236, 16,50
«Il calice del mistero», di Odilon Redon (1890)

Non siamo più abituati a parlare della morte. La società attuale l’ha resa indecente. Pensare che F. Kafka scrisse: «Uno dei primi segni che cominciamo a capire è che non ci vergogniamo più di dover morire». Invece oggi moribondi e morti sono tenuti nascosti. Giovinezza, salute, bellezza, seduzione vengono esaltati come valori assoluti, ma nessuno pensa che la morte e il suo alleato, il tempo, li ha in suo potere e lentamente li consuma. Il punto è che la cultura corrente ha operato una netta divaricazione tra morte e vita, considerandoli come termini opposti e inconciliabili, non diversamente da come tradizionalmente si dice del bene e del male. Cosicché sembra davvero che pochi si rendano conto di ciò che pure è sotto gli occhi di tutti: che vita e morte sono stretti in un unico plesso e che, senza la morte, la vita stessa sarebbe inconcepibile.
In questo libro denso e affascinante ma di grande chiarezza il filosofo Umberto Curi esplora l’universo mitico (fra i mitografi porremo anche filosofi e poeti) per illustrare le strategie che sin dall’antichità l'uomo ha elaborato per sottrarsi al timore della morte, mostrando come esse siano destinate all'insuccesso. Il mito di Prometeo è quello che meglio ci persuade dell’esito tragico di ogni progetto negazionista. Acclamato come promotore dello sviluppo della civiltà, in realtà il senso dell’azione prometeica è svelato da lui stesso quando, nella tragedia di Eschilo, afferma: «Ho posto in loro [negli uomini, nda] cieche speranze». Le cieche speranze riguardano il progresso generato dalla tecnica che, inducendo gli uomini a distrarsi volgendo altrove lo sguardo, promette a «queste larve di sogni» che noi siamo di dimenticare la morte. Prometeo sarà punito per il suo progetto eversore dell’ordine del cosmo, e soltanto dopo una lunga sofferenza imparerà ad amare la morte, che pone fine alle umane sciagure.
Spostarsi da un atteggiamento dissociativo a uno comprensivo significa accedere al modo simbolico, cioè a quel dispositivo psichico che permette di tenere insieme gli opposti. Così è dell’unità di morte e vita. La produzione di simboli potrebbe essere definita come il risultato, o la prefigurazione, di una ambivalenza vissuta e accettata, e il simbolo stesso come l'immagine di una pienezza non placata. Il simbolo non dà ricette, non prescrive, non significa niente se non la propria scandalosa paradossalità, e così istituisce una tensione in cui trovano posto la sua capacità di stimolare interpretazioniinesauribili e profonde emozioni, e il suo additare un'oscura verità non altrimenti dicibile. I sogni dei moribondi sono popolati di figure che nella loro irriducibile ambiguità sono fortemente simboliche. Immaginate la vecchia con la falce che improvvisamente si trasforma in una fanciulla misteriosa, con gli occhi colore del cielo, che procede danzando. I poeti non si stupirebbero. Rilke, che più di ogni altro ha messo in evidenza il legame organico di morte e vita («… potremmo mai essere noi, senza i morti? »), popola i suoi versi di serene figure di donne conquistate dalla morte. Euridice, che segue a malincuore Orfeo nell’impossibile ritorno alla luce. Non vi è in lei più alcun attaccamento alla vita: «il suo essere morta la riempiva come una pienezza», come un grembo che prepari la nascita. Euridice finalmente sa osserva Curi - «che la morte può donare una pienezza che neppure la vita è in grado di conferire».
Machado cantava: «…Nulla giammai sapremo / da arcano mar veniamo, a ignoto mare andremo…». Noi non sapremo mai se la morte è una fine o un transito. E naturalmente gli spiriti forti diranno che ogni elaborazione mitica non è altro che una fantasia di compensazione. Cosa importa? Il mito è qui con noi, e continua a commuoverci, senza per questo annullare la nostra umana sofferenza. Ha scritto Kafka: «Tutte queste similitudini dicono soltanto che l'Inconcepibile è inconcepibile». E' però anche vero che talvolta «la retorica persuade la necessità». Attraverso gli innumerevoli discorsi, i sogni, le metafore, i miti, i versi dei poeti noi ci prendiamo cura pazientemente, senza eroiche (o vili) illusioni, della nostra morte, ci familiarizziamo (mai abbastanza) con questa sconosciuta che continuamente ci viene incontro.

La Stampa TuttoLibri 14.1.12
Bonino, lo zibaldone della politica
di Jacopo Iacoboni


Libro-intervista Amicizie, battaglie referendarie l’orrida cucina di Pannella e le galanterie di Cossiga
Emma Bonino, Giovanna Casadio  I DOVERI DELLA LIBERTÀ Laterza, pp. 157, 12

Sarà magari scorretto ma è troppo forte, irresistibile, la tentazione di leggere queste pagine di Emma Bonino anche come un grande zibaldone, trentacinque anni di politica italiana; e osservati da un punto di vista non esattamente marginale. Sì, perché il libro di Emma Bonino (I doveri della libertà, a cura di Giovanna Casadio, per Laterza), tutto è tranne che il convenzionale libro-intervista di un politico, e dentro vi si ritrovano non Berlusconi D’Alema e Veltroni (tantomeno Papa e Cosentino), ma Pasolini, Sciascia, Pertini, Cossiga, ovviamente Pannella...
Naturalmente ci sono le mille battaglie dei radicali, i referendum, l’aborto (e il ricordo doloroso di un episodio autobiografico che però fu quello che la introdusse alla politica), il divorzio, lo stato di diritto negato, i casi Coscioni e Welby, il ruolo e il corpo delle donne; ed è nella consueta onestà stile-Bonino che si sostiene una tesi non proprio diffusissima, nella sinistra italiana (i radicali lo sono, sissignore): «Chi attribuisce la deformazione della nostra democrazia a un Silvio Berlusconi artefice di tutti i mali, innocentizza tutti gli altri. Anzi, fa un’analisi in definitiva autoassolutoria. Berlusconi è il risultato di ciò che va sotto il nome di Mani Pulite»; un insieme di passaggi che fanno parte, dice Bonino, della «fine dello stato di diritto».
E tuttavia è questo carattere di Zibaldone che rende poi alcune di queste pagine così gustose, imperdibili per i cultori del genere. La sfilata di idee incarnate in personaggi, vita, biopolitica, avrebbe detto Foucault.
C’è Pannella, al quale il libro è dedicato (il legame tra i due non s’è mai rotto, nonostante mille battaglie e anche diverbi), e il racconto della loro conoscenza, «ricordo la prima volta a casa di Marco, quando ci offrì pasta cotta nell’acqua dove aveva gettato anche due panetti di burro; da allora preferisco evitare la sua cucina». C’è Sciascia, collega all’Europarlamento nel ‘79, «che andavo a prendere quando arrivava all’alba con il treno alla stazione di Strasburgo, e che era talmente riservato da non accettare neanche un abbraccio». C’è Pasolini, e il testamento che scrisse per i radicali nel ‘75, molto meno ricordato degli scritti sui comunisti, ma i radicali sono sempre stati un cugino povero, anche nelle ricostruzioni iconografiche, nella sinistra all’italiana. C’è lo Stato incarnato da Cossiga (con o senza cappa), che quando Emma tiene alla Camera il suo primo discorso («ero emozionatissima»), alla fine che fa? Manda un biglietto da masculo, «lei oggi è proprio elegante»... «Mi sentii umiliata: parlava una donna, e dunque poco importava cosa avesse detto». C’è la lunga lotta contro un’Italia ancora assai bacchettona - quando Emma si presenta il primo giorno alla Camera in jeans e zoccoli, Ingrao la rimbrotta, ma lei ora dice «non volevo dissacrare, non avevo capito dove mi trovassi»; e Pertini, bonario, le manda la foto con dedica di lei in zoccoli, «al monello del Parlamento»...
È tutto andato, naturalmente, Adele Faccio e la Aglietta, Spadaccia e Cicciomessere, persino certa autoindulgenza per alleanze opportunistiche con Berlusconi (nel 1994), o tentativi (subito abortiti) di dialogo col diavolo, come nel 2000. Restano i radicali. Sciascia lo disse a Emma, «siete come una candela. Quando tutte le lampade sono accese, non solo non si vede ma è anche inutile. Però al primo cortocircuito la candela sarà indispensabile», e oggi in effetti è come se fossimo un po’ tutti al buio.
Emma Bonino sarà oggi, alle 16, al Circolo dei lettori (Via Bogino 9, Torino). Intervengono Elsa Fornero, Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Mario Calabresi, direttore «La Stampa», Luciana Littizzetto, Giovanna Casadio, Antonella Parigi

Repubblica 14.1.12
L’utopia frugale
La sfida di Latouche "Così si può costruire una società solidale"
di Marino Niola


Il teorico della decrescita felice ha appena pubblicato un nuovo saggio. Dove spiega come siano possibili modelli di vita alternativi
"Stiamo finendo le risorse naturali e dobbiamo porci il problema. Le vecchie teorie non servono più: occorre ripensare a tutto il sistema"
"Non sono per l´austerità: vorrei riuscire a sottrarre l´ecologia a chi la sta trasformando in una serie di tesi conservatrici"

«Un certo modello di società dei consumi è finito. Ormai l´unica via all´abbondanza è la frugalità, perché permette di soddisfare tutti i bisogni senza creare povertà e infelicità». È la tesi provocatoria di Serge Latouche, professore emerito di scienze economiche all´Università di Paris-Sud, universalmente noto come il profeta della decrescita felice. Il paladino del nuovo pensiero critico che non fa sconti né a destra né a sinistra sarà a Napoli (dal 16 al 20 gennaio), ospite della Fics (Federazione Internazionale Città Sociale) e protagonista del convegno internazionale "Pensare diversa-mente. Per un´ecologia della civiltà planetaria" organizzato dal Polo delle Scienze Umane dell´Università Federico II. Il tour italiano dell´economista eretico coincide con l´uscita del suo nuovo libro Per un´abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita (Bollati Boringhieri). Un´accesa requisitoria contro l´illusione dello sviluppo infinito. Contro la catastrofe prodotta dalla bulimia consumistica.
Cos´è l´abbondanza frugale? Detta così sembra un ossimoro.
«Parlo di "abbondanza" nel senso attribuito alla parola dal grande antropologo americano Marshall Sahlins nel suo libro Economia dell´età della pietra. Sahlins dimostra che l´unica società dell´abbondanza della storia umana è stata quella del paleolitico, perché allora gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro necessità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa, allo stare insieme».
Vuol dire che non è il consumo a fare l´abbondanza?
«In realtà proprio perché è una società dei consumi la nostra non può essere una società di abbondanza. Per consumare si deve creare un´insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua mission è farci sentire perennemente frustrati. I grandi pubblicitari amano ripetere che una società felice non consuma. Io credo ci possano essere modelli diversi. Ad esempio io non sono per l´austerità ma per la solidarietà, questo è il mio concetto chiave. Che prevede anche controllo dei mercati e crescita del benessere».
Perché definisce Joseph Stiglitz un´anima bella?
«Stiglitz è rimasto alla concezione keynesiana che andava bene negli anni ´30, ma che oggi, anche a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, mi sembra impraticabile. Nel dopoguerra l´Occidente ha conosciuto un aumento del benessere senza precedenti, basato soprattutto sul petrolio a buon mercato. Ma già negli anni ´70 la crescita era ormai fittizia. Certo il Pil aumentava, ma grazie alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Un´età dell´oro che non ritornerà più».
È il caso anche dell´Italia?
"Certo, il boom economico italiano del dopoguerra si deve soprattutto a personaggi come Enrico Mattei che riuscì a dare al vostro paese il petrolio che non aveva. È stato un vero miracolo. E i miracoli non si ripetono".
I sacrifici che i governi europei, compreso quello italiano, stanno chiedendo ai cittadini serviranno a qualcosa?
«Purtroppo i governi spesso sono incapaci di uscire dal vecchio software economico. E allora tentano a tutti i costi di prolungarne l´agonia, ma questo, lo sanno bene, non fa altro che creare deflazione e recessione, aggravando la situazione fino al momento in cui esploderà».
Lei definisce la società occidentale la più eteronoma della storia umana. Eppure comunemente si pensa che sia quella che garantisce il massimo di autonomia democratica. Chi decide per noi?
«Di fatto siamo tutti sottomessi alla mano invisibile del mercato. L´esempio della Grecia è emblematico: il popolo non ha il diritto di decidere il suo destino perché è il mercato finanziario a scegliere per lui. Più che autonoma, la nostra è una società individualista ed egoista, che non crea soggetti liberi ma consumatori coatti».
Qual è il ruolo del dono e della convivialità nella società della decrescita?
«L´alternativa al paradigma della società dei consumi, basata sulla crescita illimitata, è una società conviviale, che non sia più sottomessa alla sola legge del mercato. Che distrugge alla radice il sentimento del legame sociale che è alla base di ogni società. Come ha dimostrato l´antropologo Marcel Mauss, all´origine della vita in comune c´è lo spirito del dono, la trilogia inscindibile del dare, ricevere, ricambiare. Dobbiamo dunque ricomporre i frammenti postmoderni della socialità usando come collante la gratuità, l´antiutilitarismo. In questo concordo con gli esponenti italiani dell´economia della felicità, come Luigino Bruni e Stefano Zamagni, che si rifanno alla grande lezione dell´economia civile napoletana del Settecento di Antonio Genovesi».
Il capitalismo è l´ultimo pugile rimasto in piedi sul ring della storia?
«Non so se sia proprio l´ultimo pugile, perché non si sa mai in cosa è capace di trasformarsi, ci sono scenari ancora peggiori, come l´eco-fascismo dei neoconservatori americani. Certo è che siamo ad una svolta della storia. Se un tempo si diceva "o socialismo o barbarie" oggi direi "o barbarie o decrescita". Serve un progetto eco-socialista. È tempo che gli uomini di buona volontà si facciano obiettori di crescita».
Francis Fukuyama di recente ha riaffermato di ritenere che il modello liberal-capitalistico resti l´orizzonte unico della storia. Senza alternative. Cosa ne pensa?
«Che ha una bella faccia tosta. Prima si è sbagliato totalmente sulla fine della storia, e oggi ripropone la stessa solfa. La sua profezia è stata vanificata dalla tragedia dell´11 settembre che ha dimostrato che la storia non era per niente finita. Fukuyama chiama fine della storia quella che è semplicemente la fine del modello liberal capitalista».
A chi dice che l´abbondanza frugale è un´utopia lei risponde che è un´utopia concreta. Non è una contraddizione in termini?
«No, perché per me l´utopia concreta non significa qualcosa di irrealizzabile, ma è il sogno di una realtà possibile. Di un nuovo contratto sociale. Abbondanza frugale in una società solidale. Sta a noi volerlo».

Repubblica 14.1.12
Lacan, la battaglia legale vinta dagli eredi
di Anais Ginori


Parigi – Nel mondo francese della psicoanalisi non si parla d´altro. Il pensiero di Jacques Lacan, a trent´anni dalla sua scomparsa, è ancora violentemente conteso tra amici, parenti, discepoli e dissidenti - come già accadeva quando il fondatore della Scuola freudiana di Parigi era in vita. La storica e analista Elisabeth Roudinesco, autrice della biografia Lacan envers et contre tout e la casa editrice Le Seuil hanno appena subito una condanna per diffamazione in una querelle che oppone da mesi opposte fazioni. La colpa dell´autrice è di aver sostenuto che Lacan è stato "sepolto senza cerimonia e nell´intimità", mentre avrebbe chiesto un funerale cattolico. A intentare la causa è stata la figlia dello psicoanalista, Judith, col celebre marito Jacques-Alain Miller, designato a suo tempo curatore testamentario, sentendosi accusati di aver "tradito le volontà di un morto". Il tribunale di Parigi ha dato ragione alla famiglia Lacan riconoscendo l´affermazione lesiva per gli eredi e non sufficientemente comprovata. Roudinesco e l´editore, che hanno già annunciato di voler fare appello, sono stati condannati a versare un euro simbolico di indennizzo e a pagare seimila euro di spese legali. Durante il dibattimento era presente anche l´altra figlia dello psicoanalista, Sybille, schierata però con la Roudinesco. Che ha dichiarato: "C´è sempre un po´ di disaccordo tra la famiglia e i biografi, ma quando anche la famiglia è divisa allora diventa tutto più complicato". Si direbbe un gioco sofisticato di interpretazioni in perfetto stile lacaniano.