martedì 17 gennaio 2012

il Fatto 17.1.12
L’Italia dei finti poveri
La radiografia del Tesoro: tassisti, baristi e orafi dichiarano meno di 16 mila euro l’anno
di Eduardo Di Blasi


Ascorrere il dettagliato elenco sui redditi medi dei lavoratori autonomi che il Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia ha messo in rete ieri, si ha l’idea di un Paese poverissimo, dove i cittadini lavorano per il gusto di farlo e non per portare a casa un qualche guadagno. Un Paese, dove, sotto ai notai, ai farmacisti e ai medici, categorie privilegiate, si agita una plebe cenciosa di tassisti, noleggiatori, orafi, sarti, costruttori di barche, ristoratori, negozianti di scarpe, pellicciai, gestori di stabilimenti termali o balneari, albergatori e baristi, che non riesce ad arrivare alla fine del mese.
DALLE COMPLICATE tabelle degli studi di settore relativi al periodo di imposta 2009 (quello delle dichiarazioni dei redditi 2010), fanno capolino gestori di discoteche che invece di fare soldi - come uno immaginerebbe - perdono di media 4.700 euro l’anno, centri benessere e terme, attività già avviate (la statistica non tiene conto del primo anno di esercizio) che stanno aperti solo per perderne 5.300. Noleggiatori che passano ore in auto per portare a casa, a fine anno, una perdita netta di 6.100 euro di media.
Un Paese disgraziato e bizzarro, quello che emerge dai numeri della contabilità della finanza pubblica, dove un negoziante di scarpe, abbigliamento, pelletterie e accessori dichiara un reddito medio di 7.700 euro l’anno (641 euro al mese), che non solo è ampiamente sotto la soglia di povertà (indicata dall’Istat in mille euro al mese, e circa 1600 con due figli a carico), ma è anche sensibilmente più basso di chi, quello stesso lavoro, lo esercita senza avere un negozio. Il commerciante ambulante di calzature e pelletterie dichiara infatti 11.100 euro l’anno. Sempre povero, ma meno povero.
Certo più ricco di chi confeziona abiti su misura. Lavoro che dovrebbe essere considerato alla stregua di un hobby se in un anno porta a un guadagno dichiarato di 7.500 euro (625 euro al mese). Così come gestire un impianto sportivo. In media frutta 100 euro l’anno.
È UN PAESE povero, il nostro. Sono poveri i parrucchieri (11.900 euro l’anno). Sono poveri i baristi (15.800 euro l’anno, quasi meno dei loro dipendenti). Sono poveri gli orafi, che con 12.300 euro l’anno di reddito medio chissà come faranno ad acquistare la materia prima per le loro creazioni. Fanno vita grama i gestori di stabilimenti balneari (13.600 euro l’anno), le profumerie (11.400 euro), i cartolai (10.800 euro), le agenzie di viaggio (11.300). Avere una lavanderia è un bidone. In un anno produce un reddito di 8.800 euro.
POVERI TASSISTI. Il governo si è messo in testa di liberalizzare un settore già ridotto alla fame. Avere un taxi significa portare a casa un reddito di 14.200 euro l’anno, meno di un operaio. Una miseria. Molto peggio dei farmacisti (che almeno 109.700 euro l’anno li dichiarano), dei notai (310.800 euro di media), degli studi medici (68.300 euro), anche degli idraulici (30.500 euro), da sempre considerati evasori d’imposta. I tassisti guadagnano meno dei salumieri (17.100), dei fruttivendoli (15.300), dei pescivendoli (14.300), dei ricchissimi panettieri (25.100). Anche gli erboristi (14.700) e i pasticcieri (19.000) possono dirsi fortunati di non aver pensato, nella vita, di mettersi alla guida di un’auto pubblica.
Gli psicologi dichiarano 20.800 euro l’anno, poco più dei veterinari (19.200). Sono poveri i librai (12.500), i grossisti di mobili (15.900), i venditori di animali (10.300).
Gli architetti, con 30.500 euro l’anno, sono meno abbienti dell’ampia schiera degli avvocati (58.200), dei gestori di sale giochi (41.900), delle agenzie di pompe funebri (48.700).
Sono numeri che, annota il ministero dell’Economia, risentono della crisi di questi anni. E, probabilmente, anche di un certo tasso di furbizia e mancanza di controllo tutta italiana.

La Stampa 16.1.12
Belgio, nuove perquisizioni per l’inchiesta sui preti pedofili

qui
http://vaticaninsider.lastampa.it/homepage/news/dettaglio-articolo/articolo/belgio-belgium-belgica-11742/


l’Unità 17.1.12
Intervista a Colm Tòibin
«La famiglia? Un fardello da cui liberarsi»
Il popolare scrittore irlandese parla del suo nuovo libro: racconti ambientati a Dublino in cui l’istituzione familiare viene presentata nei suoi aspetti più critici. «Oggi crea alle persone più problemi che altro»
di Roberto Carnero

È un titolo perfetto quello dell’ultimo libro di Colm Tòibin, La famiglia vuota (traduzione di Andrea Silvestri, Bompiani, pagine 290, euro 18,00). Si tratta di una raccolta di racconti di quello che è ormai riconosciuto da critica e pubblico come uno dei maggiori scrittori irlandesi contemporanei. Cinquantasette anni, giornalista, saggista e romanziere, tra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo Sud, Il faro di Blackwater, The Master, Madri e figli e Fuochi in lontananza, pubblicati da Fazi Editore, mentre da Bompiani era uscito nel 2009 il romanzo Brooklyn.
Un titolo perfetto, La famiglia vuota, perché il lettore intuisce ciò che l’autore stesso ci spiega: «Ho voluto proporre per questa silloge di storie brevi un titolo insieme referenziale ed evocativo. Nel primo significato la famiglia è vuota quando non c’è, quando è assente, quando cioè si è soli. Nella seconda accezione la famiglia è vuota nel senso che è in crisi, che non è più in grado di assolvere la propria funzione sociale, che quest’istituzione la quale un tempo offriva sostegno materiale ma anche psicologico agli individui oggi forse crea alle persone più che altro dei problemi».
I racconti affrontano temi e presentano personaggi e situazioni molto diversi tra loro. Una scenografa di successo torna a Dublino per incontrare la seconda moglie del suo grande amore, ora scomparso. Un professore di letteratura si reca per l’ultima volta da sua madre, prima che la donna muoia, per chiederle perdono della propria assenza. Un giovane immigrato pachistano cerca di affermarsi in una città che non conosce. Un attivista politico torna in Spagna dall’esilio londinese per trovare tutto cambiato.
Tòibin, c’è un elemento che unifica le diverse storie?
«Tutti i miei personaggi sono in esilio. Anche quelli irlandesi che vivono in Irlanda. Può essere un esilio fisico, ma anche psicologico, esistenziale, di cui l’essere lontani da casa, eventualmente, è soltanto una metafora».
Un esilio che potremmo definire alienazione?
«Sì, anche se toglierei a questo termine il significato che la teoria marxista gli ha attribuito. In questi racconti non mi interessava tanto affrontare una problematica storico-sociale, ma appuntare la mia attenzione sull’individualità delle storie raccontate. Questi personaggi si trovano tutti, in qualche modo, come poco adatti alla vita perché il loro passato è troppo ingombrante».
Possono essere ingombranti la propria famiglia d’origine, i propri gentori oppure la famiglia che si è andati a formare da adulti. La famiglia, dunque, come un fardello da cui liberarsi? «Da piccoli ovviamente abbiamo bisogno dei nostri genitori: senza di loro non potremmo cavarcela. Quindi cresciamo con l’idea che la loro presenza sia essenziale. Poi, quando maturiamo, e magari a nostra volta mettiamo al mondo dei figli, si pone il problema di come relazionarci ai nostri genitori. La famiglia, come ci insegna la grande letteratura oltre che la psicanalisi, può essere un luogo felice, ma molto più spesso è un carcere da cui ci sforziamo di evadere». Oggi in Occidente la famiglia è in crisi. Eppure una frangia avanzata e progressista come il movimento gay chiede che venga approvato il matrimonio anche tra due persone dello stesso sesso. Un paradosso? «Apparentemente lo è, ma si comprendono facilmente le ragioni. La maggior parte delle persone desiderano vivere in modo normale, nel senso di ciò che è comunemente accettato. Se la normalità sociale è la coppia, la famiglia, la parità dei diritti per gli omosessuali passa necessariamente attraverso la conquista della possibilità di formare una coppia riconosciuta sul piano legislativo, insomma una famiglia. Penso che la politica dovrebbe affrettarsi a rispondere a questa esigenza, soprattutto nei Paesi dove la discriminazione è ancora forte».
La Chiesa che difende la famiglia tradizionale è stata travolta in Irlanda dallo scandalo della pedofilia del clero. Qual è oggi la sua credibilità nel suo Paese?
«Per troppo tempo non si è fatto nulla, perché preti e suore godevano di un rispetto sociale totale, quindi eccessivo. Il Vaticano per decenni ha insabbiato gli scandali e ciò che è accaduto è molto grave. Oggi la gente è molto critica e molto più attenta. Il prestigio della Chiesa in Irlanda è ai minimi storici. Alla messa domenicale ci va soltanto il 14% della popolazione. Il nostro governo ha criticato apertamente il Papa e ha ritirato l’ambasciatore in Vaticano. Ma la Chiesa è comunque ancora forte: ad esempio controlla gran parte delle scuole e degli ospedali. Speriamo però che tutto ciò serva a renderla meno arrogante nell’intervenire, come prima avveniva con una continua situazione di ingerenza, sui temi civili e politici».

Corriere della Sera 17.1.12
L'altra Resistenza nei lager
di Aldo Cazzullo


Le testimonianze dei deportati politici, una diversa forma di lotta
Nei campi di concentramento tedeschi, oltre agli ebrei costretti a portare la stella gialla, furono rinchiusi migliaia di partigiani, antifascisti e resistenti civili, con la tuta a strisce e un triangolo rosso all'altezza del cuore.
Ora la storia dimenticata dei deportati politici italiani viene raccontata per la prima volta attraverso i loro scritti. Centinaia di lettere e diari, documenti quasi tutti inediti, sono stati raccolti nel libro Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (Einaudi), di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che avevano già raccontato con le medesime toccanti modalità (il mosaico delle scritture private) le vicende degli internati militari e degli ebrei italiani perseguitati.
La memoria della deportazione politica è stata trascurata nel dopoguerra, ma il fenomeno riguardò circa 24 mila persone (1.500 donne) e quasi la metà di loro, oltre diecimila, morirono nei Konzentrationslager nazisti. A Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Bergen-Belsen, Flossenbürg e nel lager femminile di Ravensbrück furono deportati, e spesso assassinati, italiani di ogni parte della penisola, antifascisti e partigiani di tutte le fedi politiche, operai colpevoli di aver scioperato e cittadini protagonisti di atti di Resistenza civile e senz'armi.
«Questa, Gemma, è la mia guerra» scrive un deportato dall'interno del campo di Bolzano. «Sopporto rassegnato: il corpo potrà soffrire, l'anima potrà soffrire, ma una cosa non muore: l'Idea. E la Patria è l'idea divina», manda a dire a casa un altro deportato.
Il saggio di Avagliano e Palmieri inizia dal momento della cattura e delle torture subite in carcere — San Vittore a Milano, Marassi a Genova, le Nuove a Torino, il Coroneo a Trieste, Regina Coeli a Roma e così via — per estorcere informazioni sui compagni di lotta. «Mi martellarono in faccia qui al carcere, poi al loro covo» scrive Luigi Ercoli da Brescia. «Siccome non volevo parlare con le buone allora hanno cominciato con nerbate e schiaffi (non spaventarti). Mi hanno rotto una mascella (ora è di nuovo a posto). Il mio corpo era pieno di lividi per le bastonate; però non hanno avuto la soddisfazione di vedermi gridare, piangere e tanto meno parlare», scrive alla famiglia la staffetta partigiana Jenide Russo. Mentre in uno straordinario biglietto clandestino da Regina Coeli, Enrica Filippini Lera ci fa rivivere dall'interno il momento in cui vennero prelevati centinaia di detenuti trucidati dalle SS di Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine: «Abbiamo passato ore angosciose che non potremo mai dimenticare. Ho avuto sempre tanta forza e tanto coraggio ma in quel momento ero come distrutta. L'orrore è qualcosa che stritola che distrugge. È come se mi avessero strappato dei figli e sono qui trepidante ancora e vorrei difendere tutti».
Voci dal lager è un'emozionante antologia, ma è anche un saggio politico, incentrato su due concetti non scontati: c'è una continuità tra la repressione del regime e l'occupazione nazista; e la Resistenza non fu solo fazzoletti rossi e «Bella ciao», ma opera di militari, ebrei, donne, civili. Come osservano Mario Avagliano e Marco Palmieri, «non si è ancora riflettuto a fondo sul fil rouge che lega la soppressione delle libertà politiche e civili durante il Ventennio 1922-1943 e la successiva repressione di ogni forma di opposizione armata, politica, sindacale e civile nel tragico epilogo della Repubblica di Salò e dell'occupazione tedesca del 1943-1945».
Un dato esemplificativo: oltre il 25 per cento dei deportati fu catturato in operazioni di rastrellamento e su 716 operazioni di cui si conosce la composizione dei reparti che le eseguirono, ben 224 (il 31,3 per cento) furono condotte da unità militari o di polizia della Repubblica sociale.
Una parte della storiografia fa tuttora fatica a considerare i deportati e i prigionieri politici (nonché gli internati militari) come protagonisti a pieno titolo della Resistenza e della guerra di Liberazione, al pari dei partigiani che combatterono nelle città, sulle montagne o all'estero, nonostante il collegamento diretto tra gli uni e gli altri, che risulta evidente anche dalle lettere e dai diari proposti nel saggio di Avagliano e Palmieri. E se ciò poteva essere comprensibile nell'immediato dopoguerra, quando la Resistenza era considerata esclusivamente come una guerra militare e armata, lo è molto meno oggi, dopo gli studi che hanno analizzato e riportato in piena luce la rilevanza della Resistenza cosiddetta civile e senz'armi in tutta Europa.

Corriere della Sera 17.1.12
Un eroe notturno e impavido che ama e uccide soltanto per godere
Mozart si è sforzato di allontanarlo dalle alre grandi figure di seduttori
Il Don Giovanni segreto, cuore nero senza riscatto
di Pietro Citati


Non esiste, forse, personaggio che Mozart abbia rappresentato con più precisione di Don Giovanni:
in testa egli ha un cappello / con candidi pennacchi: / addosso un gran mantello / e spada al fianco egli ha.
La cosa più spiritosa è che questo ritratto non è disegnato dalla spietata Donn'Anna, o dall'appassionata Donn'Elvira, o da Leporello, che è lo storico e il ritrattista in titulo del suo padrone. Chi rappresenta l'ardimentoso e baldanzoso cavaliere dai «candidi pennacchi» è lo stesso Don Giovanni, che verso l'inizio dell'atto secondo guida la torma dei contadini e delle contadine e dei servi che vorrebbero bastonare o uccidere Leporello, mascherato coi vestiti del suo signore.
Un secondo ritratto, che Mozart avrebbe volentieri controfirmato, ci è fornito da Hoffmann, quando, nella meravigliosa parte prima dei Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, ci mostra il gentiluomo di Siviglia mentre «apre il manto e si mostra nello stupendo costume di velluto rosso con ricami d'argento». Una figura possente, superba — insiste Hoffmann: viso d'una bellezza virile, naso aristocratico, occhi penetranti, labbra morbide e sensuali.
Non possiamo dimenticare che il cavaliere dalle labbra morbide, che le donne spagnole porteranno per sempre nella memoria, non si vede mai, o quasi mai, alla luce del giorno. Il dissoluto punito, rappresentato per la prima volta, a Praga, nell'ottobre 1787, si svolge nell'atmosfera intensa e calda di una notte spagnola. Tutto è notturno: l'assassinio, i balli, le bevute, le vendette, le macchinazioni amorose, i travestimenti, la festa, il banchetto, l'apparizione finale del Commendatore, il fuoco. Solo una volta si vede la luce della luna, chiarissima sulle statue del cimitero.
Qualcuno potrebbe aggiungere che Don Giovanni non è una figura tenebrosa: tenebrosa è la statua di sasso del Commendatore. Don Giovanni è un fuoco impetuoso, vivace, brillante, che attraversa il palazzo e la campagna. Ma questo fuoco è pieno di notte: emana scintille e barlumi notturni, che verranno spazzati via dal «vortice di fuoco» dell'ultima scena.
Malgrado la precisione del ritratto, il Don Giovanni di Mozart resta misterioso: tanto più misterioso quanto più gli scrittori e gli studiosi cercano di avvicinarlo ad altre figure del tempo. Don Giovanni — viene detto — è un seduttore libertino, o un fratello gemello di Faust. In realtà, Mozart ha fatto il possibile per allontanare il suo eroe dalle figure libertine della storia passata e presente: Don Juan Tenorio di Tirso de Molina, Dom Juan di Molière, Lovelace di Richardson e Valmont di Laclos, che aveva cominciato le sue insidie qualche anno prima.
L'eroe di Tirso chiama orgogliosamente se stesso «l'ingannatore di Siviglia»: vuole ingannare e stuprare; il suo inganno non è una passione sensuale, ma una crudele arguzia intellettuale, che si propone degli scopi, e li realizza a ogni costo, senza provare piacere né divertimento né gioia. L'eroe di Molière è il signore del calcolo, dello stratagemma, della finzione, della dissimulazione, che recita la parte di Tartufo; e insieme a tutti i possibili Tartufi della terra forma una specie di società segreta, che si nasconde dal mondo e conquista il mondo.
Ora, il Don Giovanni di Mozart non ragiona, non calcola, non dissimula, non recita; e solo qualche volta, con una specie di condiscendenza e quasi di pietà verso gli uomini, accetta di ingannare le sue innumerevoli Donne Elvire.
Quanto a Faust, le somiglianze sono ancora minori. Mentre Faust aveva letto tutti i libri e cercava di possedere le chiavi occulte dell'universo, Don Giovanni è vittima e preda di un'incultura totale. Forse non ha mai letto un libro (o soltanto i libracci pornografici che suppongo legga Leporello), non ha idee né dottrine; e non medita mai su quello che fa. Se Faust desidera perennemente l'infinito, inseguendolo in tutte le sue possibili incarnazioni, Don Giovanni ignora qualsiasi forma di infinito. Non conosce l'illimitato, il sovrannaturale, il celeste; o li disprezza. Il mondo, per lui, è materia limitata: quello che si può afferrare, e letteralmente abbrancare con le mani. Faust si trasforma, cambia natura, è sempre un altro, vive in una condizione di perenne metamorfosi, bevendo alle sorgenti venerabili della Natura. Don Giovanni non muta: muta solo il nome e il numero delle sue donne. All'inizio del dramma, è identico al personaggio che diverrà alla fine, malgrado vicende che dovrebbero cambiarlo completamente.
Il segreto di Don Giovanni sta in una parola ch'egli ripete insaziabilmente, furiosamente, freneticamente, come se volesse scavarla e portarne alla luce tutto ciò che contiene. «Non vedete che voglio divertirmi». «Troppo mi premono queste contadinotte. Le voglio divertir finché vien notte». «Giacché spendo i miei danari, io mi voglio divertir»; e poi, sempre girando attorno allo stesso tema, «Vivan le femmine! Viva il buon vino! Sostegno e gloria d'umanità». «Lasciar le donne! Pazzo! — dice a Leporello — Lasciar le donne? Sai ch'elle per me son necessarie più del pan che mangio, più dell'aria che respiro». «Mi pare sentir odor di femmina»; e non smette di fiutare e di odorare quel profumo meraviglioso, quel balsamo incomparabile, che conosce come nessuno.
Cosa significa questa parola: divertimento? Sebbene Don Giovanni non legga libri e non ami riflettere, egli sa, inconsciamente, che contiene moltissime cose, che forse in parte gli sono ignote, ma per le quali sa di possedere «un fertile talento». Come dice l'intelligentissima e amorosissima Donn'Elvira, non è il semplice inganno di Don Juan Tenorio: ma un cimento, cioè una prova, un azzardo, che può impegnare tutta una vita, sino in profondo. Divertirsi significa accelerare, sino quasi alla follia, il ritmo e la velocità della vita; non sostare nemmeno un istante in un luogo o nell'altro, perché ci si diverte sempre altrove; vivere solo nel presente, o in quell'attimo di futuro che si muove subito dopo il nostro attimo; apprendere in ogni amore cose oscurissime, che solo lui e le donne conoscono («voi sapete quel che fa», dice Leporello); percorrere tutte le fasi e le ombre di ogni passione, dal furore alla dolcezza e dalla dolcezza al furore (perché Don Giovanni può essere dolcissimo e tenerissimo); non progettare nè architettare nè prevedere nè anticipare, ma desiderare, gioire, godere, possedere, e poi abbandonare, e poi di nuovo desiderare e gioire, perché il piacere è questa unione incessante e mobilissima di desiderio, possesso e abbandono.
«Voglio divertirmi» significa moltiplicare le donne. In Italia Don Giovanni ne ha avute seicento e quaranta, in Lamagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, in Ispagna (dove è appena arrivato) mille e tre; e intanto la lista delle donne sta crescendo (o dovrebbe crescere) via via che noi ascoltiamo l'opera, e le danze si scatenano furiosamente sulla scena e dietro la scena. Caccia le donne in ogni luogo, in ogni città, in ogni paese, inseguendo le contadine, le cameriere, le cittadine, le contesse, le baronesse, le marchese, le principesse: la bella e la brutta, la bionda e la bruna, la grassotta e la magrotta, la grande e la piccola, la matura e persino la vecchia e, soprattutto, la giovane principiante.
Il fuoco notturno di Don Giovanni resta sempre acceso e scintillante, quale sia il grado, la forma, l'età, il carattere, il temperamento, la natura delle creature mobilissime e odorose, che egli tiene strette, e qualche volta si soffermano, innamorate, e qualche volta gli scivolano via tra le mani, perché anche la fuga e l'abbandono sono una forma (forse la più incantevole) di divertimento amoroso. È un universo illimitato (se non infinito), dal quale Don Giovanni rischia di restare continuamente travolto. Ogni Zerlina è un rischio; ogni Donn'Anna un pericolo mortale. Ma egli non sarà travolto dalle cose terrene, che adora: soltanto da quelle celesti e infernali, che lo annoiano o non lo interessano affatto.
Don Giovanni ha compreso che la meta, che egli insegue, è molto più vasta del semplice divertimento amoroso, oppure che questo si allarga, si dilata, fino a smarrire ogni confine e a perdersi nell'indistinto. Tutto, per lui, è divertimento: la danza, il fandango, la calabrese, la furlana, il minuetto, la polacca, la seguidilla; ma le danze devono essere condotte, senza ordine e quasi senza ritmo, dagli abitanti colorati della notte, nobili, servi, camerieri e contadini e contadine e giovinotti leggeri di testa, che cantano e bevono senza fine, inseguendo il piacere e obbedendo allo stesso ritmo furibondo del loro signore. Un altro divertimento è il cibo, servito nella casa illuminata di Don Giovanni, mentre gli archi, i flauti, gli oboi, i clarinetti, i fagotti, i corni, le trombe intonano l'allegro vivace, l'allegretto, l'allegro assai.
Ma anche il delitto è un divertimento. Quando Don Giovanni uccide, sempre nella tenebra, il Commendatore, lo fa senza impegno, con un rapido colpo di spada, quasi per gioco, come se dovesse dare la battuta d'inizio della festa scatenata e indiavolata.
Così Don Giovanni, indossando il suo sfavillante costume di velluto rosso e i suoi candidi pennacchi, non rifiuta nessun piacere della terra: «la terra, solo la terra, ma tutta la terra», come scriveva un eccellente critico musicale russo del diciannovesimo secolo. Come direbbero i Greci, è trascinato dalla hybris, divorato dalla hybris, accecato dalla hybris: dal furore e dalla dismisura.
Malgrado questo, Mozart ama la sua creatura seducentissima, come lo ama Donn'Elvira. Segue con una strana simpatia il suo cimento: il divertimento, il piacere, la follia, il furioso coraggio contro le pretese del Cielo e dell'Ade. Ma, al tempo stesso, con la stessa devozione dei Greci, sa che la hybris è fatta per gli dèi, non per gli uomini. Se Apollo pecca e viola tutti i possibili limiti, gli uomini, con discrezione, attenzione, cautela e pazienza, devono rispettare i limiti che le leggi naturali e divine hanno imposto loro.
Nella prima scena dell'opera, Don Giovanni uccide con la spada il Commendatore, che in Tirso de Molina portava il nome di Gonzalo de Ulloa. Il Commendatore moribondo è soltanto un anziano e decoroso gentiluomo spagnolo: la figlia, Donna Anna, adora in lui il padre e la madre; il dolcissimo e tenerissimo fidanzato, Don Ottavio, non placa il suo desiderio di vendetta, né il suo furore di ghiaccio. Verso la fine del dramma, sono passate pochissime ore, il Commendatore riappare. Ora non è più un gentiluomo spagnolo, né il suo spettro; ma la Statua, l'Uomo di sasso, il Convitato di pietra. Sembra che non possegga nessuna passione, nemmeno quella della vendetta: tutto, attorno a lui, respira l'atmosfera remota e assente di un altro mondo, non sappiamo quale. Non è più che voce e passo, entrambi di pietra. Il passo terrorizza persino l'impavida Donn'Elvira. La voce — monotona, solenne, profonda, immobile, fosca — ci sembra la disumana voce di sasso, con la quale si esprime la Morte, quando parla con gli esseri umani.
Don Giovanni viola e offende i limiti tra la vita e la morte: forse non li vede nemmeno; oltraggia profondamente il Commendatore invitandolo a cena, come se fosse soltanto un convitato qualunque, invece che la Morte, o il signore dei morti. L'Uomo di Sasso non tollera questa audacia e questa violenza: non sopporta l'invito a cena, o vuole trasformarlo in una vendetta definitiva; ed esecra il divertimento erotico di Don Giovanni, che non rispetta né le donne nè gli uomini, né il cielo né la misura. A questo punto, non sappiamo se attribuirgli un altro nome. Forse non è la Morte, ma soltanto, o soprattutto, un messo e un vendicatore di Dio, del quale, finora, non abbiamo nemmeno ascoltato il nome. «Non si ha bisogno di luce, quando si è condotti dal cielo», aveva detto nel Festin de Pierre di Molière: «Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste», ripete nell'opera di Mozart. Ma non siamo certi del vero nome del convitato di pietra. Quando lo contempliamo sulla scena, e ascoltiamo il suo passo funereo e la sua voce funerea, ci chiediamo se sia davvero un messo di Dio, o un signore degli Inferi e dei fiumi sotterranei, come in Don Juan aux enfers, una delle più antiche e belle Fleurs du mal di Baudelaire.
In questo momento, ci torna alla memoria il testo di Tirso de Molina, dove soltanto alla fine, dopo aver manifestato i suoi rifiuti e le sue furie, Don Juan Tenorio si pente: «Lasciatemi chiamare un prete che mi confessi e mi assolva»; e l'Invitato di pietra annuncia che non c'è più tempo: «ormai è troppo tardi per pentirsi». Don Giovanni, invece, possiede, manifesta e ostenta il proprio coraggio fino all'ultimissimo istante del dramma. Come vogliono Mozart e il Commendatore, e non vuole Don Giovanni, che continua a sognare una vita piena di donne, di danze e di «eccellenti marzimini», l'opera meravigliosa si avvia rapidamente verso la fine. Don Giovanni cena, da solo, nella sua grande sala illuminata; la mensa è preparata, i suonatori suonano, i camerieri portano il fagiano, il vino, e chissà quali altre delizie seguiranno. Come osserva Leporello, Don Giovanni mangia «con barbaro appetito»; è pieno di «divertimento» e di gioia; e ha completamente dimenticato (gli uomini del presente dimenticano volentieri) di aver invitato a cena il Convitato di pietra. Prima Donn'Elvira, poi Leporello escono dalla sala, e gettano un ah! di terrore. Leporello balbetta: «Ah!... signor... per carità... Non andate fuor di qua... L'uom... di... sasso... l'uomo bianco... Se vedeste... che... figura... Se... sentiste... come... fa: Ta, ta, ta, ta». Infine, preceduto da un andante di archi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, timpani, tromboni, entra il Convitato di pietra: «Don Giovanni! a cenar teco m'invitasti e son venuto... Tu m'invitasti a cena: il tuo dover or sai. Rispondimi: verrai tu a cenar meco?».
Quando il Commendatore chiede in pegno la mano di Don Giovanni, questi gliela porge, senza nessuna pietà verso se stesso. La mano del Convitato di pietra è gelidissima: è il gelo della morte definitiva, che afferra al cuore il cavaliere dai candidi pennacchi, che grida forte. Il Convitato di pietra gli chiede, anzi gli ordina: «Pentiti, cangia vita: è l'ultimo momento! Pentiti, scellerato. Pentiti». Don Giovanni rifiuta: non si pentirà mai, a nessuna condizione, a nessun costo, in nessun tempo futuro. Ma siamo alla fine dei tempi: fuoco, terremoto, vortici pieni di orrore, strazio, smania, inferno, terrore; un coro invisibile di sotterra intona voci cupe, sui temi che fin dall'inizio aveva introdotto il Commendatore. Don Giovanni sprofonda nel fuoco. Il Convitato di pietra sparisce, non sappiamo dove: forse in cielo, forse nel regno dei morti, dove ci aveva introdotto il Don Juan di Baudelaire; forse è un'ombra che sfiora rapidamente Donn'Elvira, che ritorna sulla scena del teatro.
Dopo l'«Ah!» terribile di Don Giovanni, appaiono di nuovo sulla scena Leporello, Donn'Elvira, Donn'Anna, Don Ottavio, Zerlina e Masetto; incalzano, ripetono, abbozzano buffonerie: «Resti dunque quel birbon con Proserpina e Pluton. E noi tutti, o buona gente, ripetiamo allegramente l'antichissima canzon: questo è il fin di chi fa mal!». Qualcuno avrebbe voluto abolire tutto l'allegro assai, sostenendo che la coda distrugge la tragicità della grande opera. Non lo credo. Mozart giunge all'estremo del peccato, della condanna e della tragedia; e poi si riserva un ultimo tocco, un ultimo guizzo di irrazionale buffoneria e letizia, suggerendo che c'è sempre (almeno a teatro, o sul suo teatro) qualcosa di invisibile, che va oltre la notte e il fuoco, senza rafforzarli nè diminuirli.

Corriere della Sera 17.1.12
Nicola Chiaromonte, lo «straniero in Italia» che affascinava Camus
di Giovanni Russo


Il 18 gennaio di quarant'anni fa moriva Nicola Chiaromonte, uno dei pochi intellettuali di levatura internazionale che ha avuto l'Italia nel Novecento. Ma Chiaromonte non è stato solo un intellettuale. Chi, negli anni Cinquanta, lo incontrava nella redazione del «Mondo», il settimanale diretto da Mario Pannunzio, non avrebbe mai sospettato che fosse stato uno dei piloti della squadriglia aerea guidata da André Malraux durante la guerra di Spagna, che proprio a lui e al suo coraggio si ispira nel tratteggiare uno dei protagonisti del romanzo La speranza (pubblicato in Italia da Mondadori).
Di questo suo passato di eroico combattente non parlava mai, per una sorta di pudore che gli veniva dalla terra di Lucania nella quale era nato il 12 luglio 1905. Era cresciuto a Roma, dove suo padre, medico, si era trasferito dalla Basilicata. A Roma, aveva collaborato al «Mondo» di Giovanni Amendola, a «Italia Letteraria», a «Solaria», aveva stretto un'amicizia destinata a durare sempre con Alberto Moravia. Legato a Giustizia e Libertà, nel 1935 si era rifugiato a Parigi per sfuggire all'arresto della polizia fascista.
Dopo Parigi, dove incontra Carlo Rosselli e conosce il socialista libertario Andrea Caffi che ebbe su di lui un grande ascendente, in seguito all'occupazione tedesca si rifugia in Algeria e in Marocco, per poi raggiungere New York. Frequenta la Mazzini Society, Salvemini e Sforza, entra a far parte di quel gruppo di scrittori e critici che fanno capo alle riviste di avanguardia «Partisan Review», «Politics» e «The New Republic» alle quali collabora con saggi su Tolstoj, Roger Martin du Gard, Stendhal, Pasternak, Camus, Sartre, raccolti nel 1971 nel libro Credere e non credere e stringe amicizia con il critico Paolo Milano e con Mary McCarthy. Lo storico Maurice Nadeau lo definisce uno degli ultimi «maestri segreti» di tutta una generazione di intellettuali europei e americani.
Nel 1947 ritorna a Parigi, dove stabilisce un legame fraterno con Albert Camus che aveva conosciuto in Algeria. Nel 1950 ritorna a Roma, e inizia a collaborare al «Mondo» come critico teatrale: articoli che sono il pretesto per riflessioni di carattere filosofico, storico e culturale e giudizi di costume sulla società italiana. Fu proprio qui, nel 1951, che lo incontrai per la prima volta.
Dal 1956 al '68 dirige insieme con Ignazio Silone la rivista «Tempo Presente», che svolge un ruolo importante durante la crisi ungherese e quella cecoslovacca; pubblica memorabili interventi sulla malafede degli intellettuali che avevano cercato la copertura del Partito comunista per far dimenticare di essere stati fascisti. Le sue considerazioni sul fallimento del marxismo, che a suo avviso conteneva un'insidia totalitaria, sono esemplari: «Quanto a me, tutto quello che posso dire, è di essere giunto alla conclusione che bisogna risolutamente gettare il marxismo alle ortiche se si vuole arrivare a un inizio di chiarezza», scrive. È «Tempo Presente» a far conoscere le prime testimonianze del dissenso sovietico con gli scritti di Sinjavskij e di Gustaw Herling, proibito in Polonia.
Fra di noi nacque un'amicizia: ci incontravamo spesso in via Sistina nella redazione di «Tempo Presente», alla quale collaboravo. Ricordo Silone e Chiaromonte nella stessa stanza, seduti alla scrivania, legati da una sorta di dialogo silenzioso, anche se, soprattutto negli ultimi tempi, i dissapori non mancavano. Ricordo i colloqui fra Pannunzio e Chiaromonte a proposito dei movimenti di contestazione del Sessantotto: entrambi avevano intuito la deriva terroristica che poteva nascerne. Ricordo le sue riflessioni sui grandi temi morali, estetici e ideali, piuttosto rare in un mondo intellettuale spesso frivolo e superficiale, che mi hanno fatto riflettere sulle ragioni della sua intensa amicizia con Camus: Nicola Chiaromonte è stato e ancora oggi è rimasto «straniero» in patria.

Repubblica 17.1.11
Desidero dunque sono
“Liberiamo la fantasia dalla logica del capriccio"
Massimo Recalcati a colloquio con Luciana Sica


Il nuovo saggio dello psicoanalista Recalcati offre una lettura politica di come si è modificato ciò che vogliamo
"Se la spinta al godimento diventa compulsiva e non conosce limiti viene meno l´idea di legame sociale"
"Quella che stiamo vivendo è un´angoscia di fronte all´eccesso: come se ci mancasse un progetto, una prospettiva"
"Bisogna ritrovare una dimensione creativa rispetto ai nostri slanci per allontanarci dall´omologazione"

«Una sedia a rotelle fatta viaggiare a una velocità ingovernabile... Lacan ha proposto un´immagine alla Hitchcock per raffigurare un´economia che già negli anni Settanta considerava destinata fatalmente a scoppiare. Non parlava certo da economista e in più era un liberale conservatore, eppure sul "discorso del capitalista" è stato di una chiaroveggenza speciale. Perché ne coglieva la dimensione "pulsionale" con il trionfo del narcisismo e il culto dell´homo felix impegnato nella ricerca del proprio benessere individuale. Qualcosa di "folle", di "infernale", di "insostenibile"».
Massimo Recalcati parla dell´aspetto "politico" del suo nuovo libro che declina le varie sfaccettature del desiderio, con tutto il peso affidato dalla psicoanalisi a questa sua parola chiave. Ma è evidente tra le righe la consapevolezza del passaggio epocale che viviamo e sullo sfondo il naufragio dei grandi ideali collettivi della modernità occidentale. Anche a dispetto della dedica in codice «a Jacques Lacan, mon a-mur» – omaggio al maestro scomparso trent´anni fa – Ritratti del desiderio non è destinato solo agli specialisti del lacanismo (Cortina). Proprio perché è scritto da un analista che nella sua riflessione sui movimenti inconsci dell´esperienza umana non rinuncia a mantenere uno sguardo critico sui grandi cambiamenti sociali, sui nuovi modi di pensare e di vivere.
Lei scrive che la grande crisi dell´economia capitalista – questa sorta di implosione dell´Occidente – "non è solo finanziaria ma innanzitutto etica". Perché?
«Perché questa è una crisi che evidenzia il disprezzo e il misconoscimento del Bene comune, l´accaparramento senza freni delle risorse di tutti: il lavoro, le leggi, le istituzioni, la natura... Quando la spinta al godimento diventa compulsiva e non conosce limiti, quando l´avidità non ha più fondo, è la stessa idea di comunità che viene meno. Per dirla in termini analitici, è la pulsione di morte che prevale e travolge la dimensione del legame sociale».
C´è un´angoscia particolare che accompagna questi "anni terribili" di impoverimento anche emotivo, anche intellettuale?
«L´angoscia contemporanea non è l´angoscia di fronte al nulla di cui parlano i filosofi, ma piuttosto è l´angoscia di fronte all´eccesso: come se mancasse una prospettiva, un progetto. Non sorge dalla mancanza ma da un troppo pieno, dalla sensazione di essere imprigionati in un sistema che ci avvolge e ci comprime e sembra non permettere – nemmeno nella fantasia – di un altro mondo, di un altro orizzonte... Il nostro è senz´altro il tempo di un immiserimento materiale e mentale diffuso, è un tempo di precarietà dove l´angoscia – come dimostra la diffusione epidemica del panico – è di massa. Ma io tendo a escludere che sarà una condizione permanente».
La notte buia che viviamo potrà diventare "un fattore di rigenerazione", permetterci di riconoscere finalmente "il punto luminoso del desiderio": non è un catastrofista, lei. In cosa ripone la sua fiducia?
«L´angoscia non si limita a paralizzarci, ma può diventare la causa di un nuovo desiderio. Tutta questa circolazione cieca di godimento è senza soddisfazione, tende a produrre solo distruzione, ma ora il declino del "discorso del capitalista" può aprire a nuove possibilità di vita. Nella nostra esperienza clinica l´angoscia non è mai solo un vicolo cieco, ma segnala sempre la prossimità del soggetto alla verità (rimossa) del proprio desiderio, mettendolo di fronte a ciò che abitualmente cerca di evitare».
Ma, per dirla con Carver, di che cosa parliamo quando parliamo di desiderio?
«Intanto di una forza inconscia che spinge alla relazione con l´Altro e che sempre implica un inciampo, uno sbandamento, una perdita di padronanza... Non sono "io" che decido il mio desiderio, è il desiderio che decide di me, mi rapisce e mi anima. Secondo la lezione lacaniana, non è necessariamente infelice e neppure è riducibile a un sentimento di mancanza. L´insoddisfazione è un tratto strutturale dell´isteria, non del desiderio che è piuttosto una potenza, uno slancio che mostra come la vita diventa umana solo attraverso l´Eros, il legame, il riconoscimento della dipendenza, della differenza, della vulnerabilità. Certamente va messa in conto anche una certa quota di solitudine nel movimento di separazione, di distacco, di rottura e di sovversione dell´ordine familiare. E neppure esiste una misura giusta per definire un desiderio "normale" in quanto unico e irripetibile, inventivo e incomparabile, devianza singolare che sfugge, resiste, ad ogni tentativo di omologazione autoritaria».
Desiderio invidioso, amoroso, sessuale. Desiderio dell´altro, d´altro, di niente... La sua è una singolare galleria di esperienze che nella vita s´impastano. Ma perché il desiderio assoluto – quello "puro", come nel caso dell´intransigenza di Antigone – è destinato allo scacco?
«Lacan affermava che la sola vera colpa dell´uomo è quella di venire meno al proprio desiderio. La clinica psicoanalitica conferma che l´infelicità è spesso legata al fatto che la nostra vita non è coerente con ciò che desideriamo. E invita ad essere responsabili rispetto al desiderio che non può essere mai associato al capriccio, perché ogni volta che sono chiamato a scegliere "ne va della mia esistenza", come direbbe Heidegger. È senz´altro il caso di Antigone che persegue il suo desiderio – dare una sepoltura degna al fratello – senza esitazioni e contro ogni Legge, ma perdendo tutto, morendo sepolta viva. La sua tragedia svela come non ci sia mai nessuno, né un dio né un padre, a garantire che l´assunzione del desiderio sia generativa e non si riveli destinata allo smarrimento».
Un´ultima domanda: il Censis di De Rita ha fatto un abbondante uso di metafore utilizzate nei suoi lavori, segno che le interpretazioni rituali non bastano più per capire in profondità quel che succede. Allora si ricorre al pensiero di un analista tutt´altro che estraneo alla dimensione "politica". Lei che ne pensa?
«È importante che le categorie della psicoanalisi escano dalla così tanto decantata "stanza dell´analisi" ed entrino nel mondo storico e politico. L´isolamento della nostra disciplina non è "splendido" – come diceva Freud a Jones – ma rischia di manifestare solo la mummificazione dell´analista come pezzo del museo delle cere dell´Ottocento. La psicoanalisi può invece dare prova della sua efficacia sia come una terapeutica alternativa a quelle pratiche di normalizzazione e di medicalizzazione della vita oggi alla moda, sia come una teoria critica della società. In un tempo abitato da monadi che godono senza limiti di una libertà triste, è chiamata a essere una sentinella della dimensione creativa del desiderio, che già nel suo etimo indica un cielo aperto... Se infatti sidera in latino vuol dire stelle, sarà proprio di questo che si parla: dell´attesa e la ricerca della propria stella».

Repubblica 17.1.11
Potere transgender
Nati in un corpo che non li rappresenta, conquistano sempre più spazio nella moda, nello spettacolo, nel lavoro. E rivendicano l’identità del "terzo sesso”. Con orgoglio vogliono essere al tempo stesso uomini e donne
di Vera Schiavazzi


Sono trentamila i transgender italiani Rappresentano l´avanguardia del movimento per i diritti e le libertà sessuali. Lanciano campagne pubblicitarie e lottano contro gli ostacoli di politica e burocrazia. Sono testimoni di un cambiamento che potrebbe avere risvolti sociali imprevedibili
"Vorremmo poter modificare i dati anagrafici anche senza sottoporci ai bisturi"

Per i trentamila transgender italiani, persone che hanno già cambiato o vorrebbero cambiare la propria identità sessuale, o che rivendicano il diritto di non dichiararla affatto, il serbo Andrej Pejic è un simbolo. Modello (o modella) scelto da Jean-Paul Gaultier per la sua superba e androgina bellezza fuori dal tempo e dagli schemi, ha sfilato vestito da sposa per le collezioni primavera-estate del 2011, posato per Vogue, dichiarato candidamente di salire in passerella «per guadagnare» e di ritenersi «un rischio calcolato» per le grandi firme della moda. E il Courrier International l´ha messo in prima pagina: un mezzo busto senza veli, conturbante e stimolante, per introdurre un´ampia inchiesta sul fenomeno nel mondo.
Anche se la realtà di tutti i giorni è dura, e qualche volta durissima, per chi nasce con caratteristiche fisiche che non corrispondono ai propri sentimenti e alle percezione di sé (un uomo su 30mila, una donna su 100mila), i simboli sono importanti. Non solo nella moda, ma in politica, con parlamentari come la polacca Anna Grodzka o la spagnola Carla Antonelli, nell´arte (la danzatrice cinese Jin Xing), nell´economia (la manager americana Margaret Stumpp). Persone di successo che hanno avuto il coraggio, e la possibilità, di dichiarare senza timidezza la propria trasformazione. Transgender è bello? Ed è un caso che siano proprio le persone dall´identità volutamente ambigua, difficile da definire, "terza" rispetto ai generi tradizionali, a rappresentare oggi l´avanguardia del movimento per i diritti e per le libertà sessuali?
Qualcosa del genere, in effetti, sta accadendo anche in Italia, dove i transgender rappresentano oggi la punta avanzata di un fronte, quello dei gay e delle lesbiche organizzati, che altrimenti potrebbe apparire alquanto stanco. Perché sono loro a affermare che "il re è nudo", e che non esiste alcuna ragione per obbligare le persone a collocarsi, da una parte o dall´altra, o a sottoporsi a lunghi e dolorosi interventi chirurgici per poter avere il nome che vogliono - quello che sentono e che li definisce davvero - sulla carta di identità. Come racconta Fabianna Tozzi Daneri, forse la più nota tra gli attivisti-transgender, donna-immagine del movimento: «Ci battiamo perché la legge del 1982 che consente di modificare i propri dati anagrafici sia estesa anche a chi non sceglie la riattribuzione chirurgica del sesso. E nello stesso tempo chiediamo che questa proceduta, che in Italia è inserita nel sistema sanitario e dunque dovrebbe essere gratuita, venga praticata correttamente e sia davvero accessibile a tutti».
Fabianna, che ha iniziato a lavorare come parrucchiera in un teatro lirico («ero brava, e ho avuto la fortuna di vivere in un ambiente dove la diversità è più accettata che altrove»), è, anche, una politica dotata di grande pragmatismo: «Perché la nostra condizione sia accettata in Italia dobbiamo essere noi, per primi, a renderci conto che non siamo i soli a subire discriminazioni. Tutti hanno problemi di lavoro, oggi, e la vita è difficile per tutti. Il nostro diritto a non essere discriminati deve andare di pari passo con quello di ogni persona a avere condizioni di vita e di impiego dignitose».
Nascono così campagne pubblicitarie (come quella che ha avuto per modelli la stessa Fabianna insieme a Gabriele Dario Belli, altro transgender famoso grazie anche alla sua partecipazione a un´edizione del Grande Fratello, o ad un´altra, di questi giorni, che dà voce a genitori e colleghi di gay) che puntano ad uscire dal vittimismo e a restituire all´identità sessuale di ognuno la propria "normalità". E mentre in Australia la battaglia vinta da un transgender per essere individuato sul passaporto come persona "del terzo sesso", né maschio né femmina, è stata salutata tra gli applausi, in Italia una simile possibilità è guardata con sospetto: «È una soluzione che ci spaventa, perché non va d´accordo con le leggi e la cultura del nostro paese - dice Fabianna - Io credo invece che quando non ce n´è bisogno, a partire dai documenti di identità, sarebbe di grande sollievo per tutti noi non indicare il genere. E proteggerebbe le persone transgender anche quando si trovano a viaggiare in paesi dove le libertà sono più ristrette».
Gli stessi paesi, dall´Afghanistan all´Iraq, dai quali è in atto da qualche anno una ristretta e silenziosa, ma spesso drammatica, "migrazione sanitaria" verso l´Italia: chi può, abbandona casa e famiglia per spostarsi dove il cambiamento di sesso è possibile e sicuro. Trieste, Roma, Torino sono le città dove esiste un ospedale che - tra un taglio e l´altro ai bilanci, tra una polemica e un attacco - ha mantenuto e fatto crescere la propria specializzazione nell´aiutare gli uomini che vogliono diventare donne (una tecnica chirurgica oggi relativamente semplice e destinata al successo nel 90 per cento dei casi) o le donne che vogliono diventare uomo (anche questo è possibile, ma il percorso è difficile e sofferto, ed è soprattutto pensando a questi pazienti che si chiede di poter scollegare la mutazione anagrafica da quella fisica).
Intanto anche il mondo dello spettacolo, e del cinema dopo che la tv lo aveva già fatto, si apre al mutamento. «Sarò tra i protagonisti del nuovo film di Marco Bracco, Il tempo delle mimose, insieme a un grande cast, con Fabio Testi, Simona Autieri e Anna Galiena - annuncia con un certo orgoglio Gabriele Dario Belli - Ovviamente, il mio sarà un ruolo maschile. Ma le persone come noi sanno che la transizione non finisce mai. Ho 40 anni, ed è da quando ne avevo 3 che so di essere nato maschio in un corpo di donna: non una lesbica, ma un uomo eterosessuale. Mi sentivo un alieno, fino a quando non ho sentito un altro raccontare una storia uguale alla mia. Mi hanno aiutato anche il mio lavoro (è responsabile del marketing in una grande azienda, ndr) e la mia compagna, che mi ha incoraggiato a mostrarmi in tv. Mi sono detto: ok, lo faccio, ci vado e mostro a tutti che esiste un "prodotto" che non conoscono, una donna che ha scelto di essere uomo. E, credetemi, non lo ha fatto per i vantaggi che ancora oggi essere maschi comporta, ma perché quello era il modo di avvicinare il suo corpo alla sua mente». I risvolti sociali sono, e restano, imprevedibili: «Ci avete mai pensato? A certe aziende piace assumere donne lesbiche, perché sanno che non resteranno a casa in maternità», suggerisce Gabriele.
Persone come Fabianna e Gabriele, o Valentina, Marco sui documenti (lavora come camallo al porto di Genova) sono i testimoni di un cambiamento che potrebbe preludere a un´esplosione del fenomeno: lo dice la moda, con colori, tessuti e tagli sempre più indistinti, lo dice il mondo dei cosmetici, con prodotti e make up progettati senza distinzione, lo dice l´esitazione di moltissimi ragazzi che non vogliono aderire a stereotipi maschili o femminili nei quali non si riconoscono più. Evviva la neve (Mondadori, 2011), il libro di Delia Vaccarello (giornalista e blogger, lavora per il Comune di Venezia come consulente anti-discriminazioni) raccoglie alcune storie drammatiche di cambiamento, compresa quella che l´ha fatta entrare in sala operatoria a Trieste, ed è stato un grande successo anche al di fuori del mondo trans.

Repubblica 17.1.11
Con orgoglio vogliono essere al tempo stesso uomini e donne
Anticonformisti per non sentirsi più prigionieri
di Michela Marzano


Chi sono i transgender? Si può essere al tempo stesso uomini e donne? Esiste un "terzo sesso"? Come spesso accade nella vita, la risposta a questo tipo di domande è tutt´altro che semplice. A meno che non ci accontenti della solita scelta secca tra il "sì" e il "no". La famosa logica dualistica che pensa il mondo in modo binario: il bene e il male, il vero e il falso, l´anima e il corpo, gli uomini e le donne. Peccato che quando si parli di identità di genere, tutto sia molto più complicato. Perché in ogni persona esistono degli elementi di femminilità e di mascolinità, anche se poi, nel corso della propria vita, si ha tendenza a stabilizzarsi all´interno di un genere specifico. A parte i transgender certo, che a differenza dei transessuali, non rivendicano affatto il diritto di cambiar sesso, ma quello all´indeterminazione sessuale.
Per i transessuali, lo scopo è riconciliare "identità psicologica" e "sesso anatomico": si tratta di persone convinte, fin dalla più tenera età, di appartenere all´altro sesso. Per un brutto scherzo della natura, alcune donne si ritrovano in un corpo d´uomo e alcuni uomini in un corpo di donna, e allora cercano solo di "rimettere le cose a posto". A differenza di tutti coloro per i quali il sentimento di appartenenza all´uno o all´altro genere coincide con la propria conformazione genitale e il proprio corredo cromosomico, i transessuali soffrono a causa dell´esistenza di un divario tra "corpo" e "identità", di uno "sfaldamento" cui vogliono mettere fine, per non sentirsi più prigionieri di un "corpo" o di un "nome" che non riconoscono. Da questo punto di vista, i transessuali non hanno alcuna intenzione di sovvertire l´ordine delle cose: vogliono solo adeguarsi all´immagine che, da sempre, hanno di loro stessi. Ecco perché anche coloro che non vogliono sottoporsi ad un intervento chirurgico, vogliono poter modificare il proprio nome sulla carta di identità. Per diventare agli occhi di tutti quello che loro sanno di essere fin da piccoli.
Rispetto ai transessuali, i transgender sono molto più sovversivi. Rifiutando ogni opposizione binaria, vogliono mettere in scena la dualità uomo/donna senza scegliere a quale sesso appartenere: vogliono essere al tempo stesso uomini e donne. È per questo che la maggior parte dei transgender rivendica l´etichetta queer - letteralmente strano, bizzarro, eccentrico - e trovano all´interno della teoria queer quegli strumenti necessari per rivendicare il diritto di vivere al di fuori delle categorie di genere tradizionali. A differenza dei transessuali, i transgender non si definiscono come prigionieri di un "corpo sbagliato". Non cercano un "vero corpo". L´idea che possa esistere una "verità" legata alla materialità del corpo viene completamente rigettata. Tutto è artificio, protesi, impianto, trucco, vestito… Tutto pur di arrivare a un "corpo accettabile", ossia a quell´apparire ambivalente e androgino, che è poi l´unico ad incarnare il "compromesso".
È per questo che la cultura transgender rifiuta drasticamente l´idea di un passaggio definitivo: la transizione da "lui" a "lei", o da "lei" a "lui", non sarebbe altro che la prova dell´assoggettamento di un individuo ai discorsi e alle pratiche che cercano di normalizzarne l´esistenza assegnandolo ad un´identità specifica. Essere transgender vuol dire, per definizione, incarnare l´eccentrico, sfuggendo a ogni ambito sociale e a qualunque dispositivo istituzionale, anche al linguaggio: il fatto stesso di parlare "del" o "della" transgender significherebbe d´altronde tradirne l´identità multipla. Il/la transgender è sempre "uomo e donna", "né uomo, né donna". Un "terzo sesso" allora?
Ognuno di noi vive come può il rapporto con il proprio corpo. Ognuno organizza la propria identità cercando di accettare le proprie contraddizioni. Rivendicando la possibilità di passare da un sesso all´altro (transessuali) o il diritto di non scegliere a quale sesso appartenere (transgender), i (le) trans ci spingono in fondo a interrogarci non solo sulla nostra identità sessuale, ma anche sui limiti intrinseci della nostra corporeità. E in questo, sono profondamente sovversivi. E hanno ragione. Perché è forse l´unico modo per uscire definitivamente dagli atavici dualismi ontologici. Si può, tuttavia, essere e volere veramente "tutto"? Nel momento in cui rifiutiamo il nome che ci è stato dato e ne scegliamo uno nuovo, non finiamo lo stesso con l´identificarci ad un genere ben preciso? E poi, c´è veramente bisogno di "ontologizzare" un terzo sesso per vivere fino in fondo le ambivalenze della nostra identità de genere?

lunedì 16 gennaio 2012

l’Unità 16.1.12
Tra sinistra e destra distacco invariato ma i partiti soffrono
Il paradosso. Cala la partecipazione al voto e cresce la spinta all’impegno politico
Tanti piccoli rivoli invece di grandi contenitori, pochi riferimenti comuni Si diffondono nuove domande e nuove forme di partecipazione che i partiti tradizionali non riescono a intercettare né a interpretare
di Carlo Buttaroni
, presidente Tecné

L’indagine è stata realizzata da Tecnè su un campione rappresentativo di italiani maggiorenni. Sono state intervistate telefonicamente, con metodo CATI, mille persone il 13 gennaio 2012. Il margine di errore è pari a +/3,1%.
Il documento completo sondaggipoliticoelettorali.it

Fra teoria e pratica cresce il sentimento dell’antipolitica. Il problema della coerenza tra teoria e pratica come ricorda Antonio Gramsci si pone soprattutto nei momenti storici di rapida trasformazione, quando realmente le azioni domandano di essere giustificate teoricamente per essere più efficienti, o si moltiplicano i programmi teorici che chiedono, a loro volta, un punto di ricaduta pratico.
Il tema è quanto mai attuale. E si ripropone, con evidenza, nell’indagine di Tecnè, nel momento in cui registra, al tempo stesso, una forte spinta all'impegno politico e la diminuzione della partecipazione elettorale, che sembra preannunciare, invece, un abbandono.
Un’apparente incoerenza, che in realtà è il segno più evidente del passaggio da un sistema composto di grandi e stabili attori politici capaci di rappresentare le correnti sociali a un sistema più complesso, dove convivono una moltitudine di soggetti e di temi, attorno ai quali i cittadini si orientano e si mobilitano indipendentemente dai tradizionali partiti.
Una crescita della fluidità e della contingenza che ha il suo punto di ricaduta nell’eclissi dei grandi interpreti e nell’indisponibilità di riferimenti culturali e valoriali che alimentino relazioni fondate su una comune appartenenza.
Il risultato può apparire una complessiva diminuzione della partecipazione politica, mentre in realtà questa è diventata soltanto meno visibile.
Tanti piccoli rivoli anziché pochi grandi invasi capaci di contenerli. Nuove domande e forme di partecipazione che spesso i partiti tradizionali non riescono a intercettare e delle quali faticano a farsi interpreti.
Eppure le pratiche che si moltiplicano avrebbero bisogno di teorie in grado di spiegarle e darne un senso politico.
Così come le buone idee politiche avrebbero bisogno di un’operatività pratica capace di renderle reali e concrete. Anche il nuovo ha bisogno, pertanto, di politica.
Eppure, apparentemente, sembra affermarsi l’idea opposta, quella dell’antipolitica. Un partito “non-partito” con leader, organi d’informazione e liturgie che di democratico, aperto, inclusivo ha ben poco.
L’antipolitica fa leva su un sentimento diffuso, ampiamente giustificato, e lo trasforma in una protesta cieca, senza prospettive e direzioni, favorendo una forma di apatia, quando non di vera e propria ostilità, verso le stesse istituzioni democratiche.
Cresce, infatti, la critica nei confronti dei partiti ma cresce anche l’antiparlamentarismo, il leaderismo esasperato, l’insofferenza verso il confronto e il dibattito.
Questo perché l’antipolitica non è la cura, ma soltanto il segnale d’allarme che invia il corpo di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza.
Un virus che si diffonde e si moltiplica perché la democrazia, a diffeenza di qualsiasi altro regime politico, è inerte da se stessa e non può difendersi.
Il carattere dei suoi anticorpi è nella famosa frase di Voltaire «non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu possa esprimerla».
Se lo scopo dell’antipolitica è mettere in luce i difetti del sistema, denunciarli e tentare di correggerli, i fatti dimostrano, che la “cattiva politica” cresce proprio intorno all’antipolitica, alimentandosi a vicenda, giustificandosi l’uno con l’altra, dando luogo a una struttura del potere rovesciata e reazionaria.
Per opporsi alla deriva antidemocratica c’è una sola strada: alzare la qualità dell’agire politico e promuovere la partecipazione dei cittadini.
La storia insegna cosa c’è in fondo alla strada dell’antipolitica e alla scelta di nutrire gli istinti oscuri dell’opinione pubblica.
La maggioranza dei cittadini è in campo con un rinnovato impegno, ma ha bisogno di trovare un terreno comune dove far crescere valori e idee capaci di interpretare le buone pratiche, e dove i principi, le aspirazioni e i nuovi bisogni possano trovare una concreta applicazione.

Corriere della Sera 16.1.12
Il 55% degli italiani non si fida più dell'euro
Risale il gradimento del governo (56%). Fornero e Passera i ministri più apprezzati
di Renato Mannheimer


Nelle ultime settimane, il governo Monti sembrerebbe avere goduto di un incremento di popolarità, per molti inaspettato.
Se il 13 dicembre il 46% della popolazione giudicava positivamente il suo operato (con una diminuzione di consensi rispetto al 61% del 5 dicembre, prima della manovra), questo livello è risalito nei giorni scorsi al 56%, con un differenziale di ben dieci punti e con un mutamento in positivo specialmente da parte di chi a dicembre era ancora indeciso sul giudizio da dare. All'interno della compagine di governo, risultano particolarmente stimati, oltre al presidente del Consiglio, il ministro del Welfare, Elsa Fornero (48% di giudizi positivi), e il responsabile dello Sviluppo, Corrado Passera (46% di consensi).
Questa crescita di popolarità è probabilmente legata alle modalità comunicative assunte dal governo — e dal presidente del Consiglio in particolare — molto diverse da quelle adottate dall'esecutivo precedente e, al tempo stesso, evidentemente molto efficaci. Il pubblico apprezza in particolare l'immagine di pacatezza, di serietà e, al tempo stesso, di fermezza manifestate dalla squadra guidata da Mario Monti, anche se auspicherebbe una maggiore precisione e un maggior dettaglio sui programmi futuri. Ma l'elemento specifico che sicuramente ha più contribuito al recente miglioramento di immagine del governo è rappresentato dal «blitz di Cortina». Quest'ultimo è ritenuto dalla grande maggioranza degli italiani (72%) «l'inizio di una lotta seria ai grandi evasori». Molti (78%) dichiarano che l'azione della Guardia di Finanza «è stata un modo per far capire che questo governo ha realmente intenzione di combattere l'evasione fiscale». Non mancano naturalmente le voci critiche: poco più del 40% è convinto al tempo stesso che «sia stata soprattutto un'operazione di facciata», aggiungendo — lo dicono con maggiore enfasi i più giovani — che «sarebbero stati meglio dei controlli più discreti, in modo da non danneggiare la località di villeggiatura».
Malgrado questa crescita di fiducia, permane nella popolazione un atteggiamento fortemente negativo verso il futuro dell'economia. Abbiamo già indicato l'esistenza di questo fenomeno nelle ultime settimane dello scorso anno: oggi si è ulteriormente rafforzato, incidendo, come si sa, anche sull'andamento deludente dei saldi di fine stagione, dovuto alle perplessità dei cittadini sull'affrontare comunque nuove spese di fronte ad un futuro difficile. Il quale sembra dipendere anche dal contesto europeo in generale e, specialmente, dalle sorti dell'euro.
Questo clima di opinione è ben evidenziato dal trend di atteggiamenti nei confronti dell'Unione Europea: la fiducia per questa istituzione è andata progressivamente decrescendo nell'ultimo periodo, sino a toccare il livello del 51%, il più basso raggiunto da molti anni a questa parte.
Ma la crisi di consenso maggiore è rivolta specificatamente verso l'euro. Ormai la maggioranza assoluta (55%, con una accentuazione tra gli elettori di centrodestra e, specialmente, di centro) dichiara manifestamente la propria sfiducia nella moneta unica. L'idea prevalente nella popolazione (65%) è che «l'introduzione dell'euro ha portato più svantaggi che vantaggi per l'economia italiana». Va precisato che, malgrado le estese perplessità attuali, gli italiani, nella loro maggioranza (60%), ritengono che «il passaggio all'euro andava fatto e che non si deve tornare indietro», anche se il 37% è scettico su questa affermazione. Chi (31%) dichiara senza esitazione che «sarebbe meglio tornare alle vecchie lire» costituisce una minoranza, ma una minoranza piuttosto consistente.
In definitiva, se è vero che la gran parte (51%) degli italiani si dichiara tuttora soddisfatta dell'introduzione dell'euro, è vero al tempo stesso che si tratta di una maggioranza molto esigua, forse sul punto di divenire minoranza.
È in questo clima di sfiducia e perplessità che il governo si trova ad agire nel contesto italiano e, specialmente, in quello europeo. E, tenendo conto di questo stato di cose, sembra proprio — come ha osservato il presidente del Consiglio Mario Monti — un «miracolo» che l'esecutivo goda nel suo operato di consensi così estesi e in una certa misura crescenti.

Corriere della Sera 14.1.12
Schulz: basta egemonia delle agenzie di rating
Il presidente designato del Parlamento europeo: risarcimenti se hanno violato le norme
di Ivo Caizzi


BRUXELLES — A farlo conoscere in Italia fu l'allora premier Silvio Berlusconi, che in un clamoroso scontro nell'Aula di Strasburgo lo paragonò a un kapò nazista. Ma il leader degli eurodeputati socialisti S & D, il tedesco Martin Schulz, sta ora per diventare noto in tutta Europa. Domani mattina a Strasburgo deve essere votato presidente dell'Europarlamento al posto del popolare polacco Jerzy Buzek. La tradizionale spartizione a metà del mandato tra i due principali partiti, i popolari Ppe (a cui aderisce il Pdl) e S & D (che accoglie il Pd), lo rende di fatto l'unico candidato con una maggioranza.
Negli ultimi mesi Schulz ha promosso l'opposizione dell'Europarlamento alle politiche di austerità con cui il Consiglio dei governi e la Commissione Europea intendono affrontare la crisi. «Rilancio della crescita e dell'occupazione, più soldi nelle tasche dei lavoratori, potenziamento del welfare, tassa sulle transazioni finanziarie, regole più rigide anti-speculazione anche per le banche e le agenzie di rating, aumento del fondo salva-Stati, emissioni di eurobond». Questo è il pacchetto di misure che ha indicato al Corriere e che ha un consenso maggioritario a Strasburgo grazie all'appoggio del Ppe, dei Verdi e in parte anche dei liberali. Potrebbe portare alla bocciatura in Aula del patto di più rigida disciplina di bilancio, concordato dai governi su pressione dell'asse franco-tedesco composto dalla cancelliera Angela Merkel e dal presidente Nicolas Sarkozy, entrambi del Ppe, ma ormai nel mirino degli eurodeputati di molte aree.
«La mia prima sfida da presidente dell'Europarlamento sarà con il Consiglio — dice Schulz —. Intendo far capire ai capi di governo che gli eurodeputati vogliono vedere attuati sempre di più gli interessi collettivi dei 500 milioni di cittadini dei 27 Paesi membri. Decidere per l'Europa divisi in tre livelli — prima l'asse franco-tedesco, poi i 17 dell'Eurozona e poi l'Ue a 27 membri — è un errore».
Di fatto però a decidere quasi tutto a livello Ue è sempre la Merkel con Sarkozy…
«E non va bene. Negli ultimi 5 o 6 summit anti-crisi è stato annunciato un risultato storico, che poi non era tale e ha richiesto un vertice successivo. Anche ora attendiamo il summit di fine gennaio. Molti cittadini non votano alle elezioni europee proprio perché spesso non produciamo quello che promettiamo».
L'Unione Europea continua a spendere principalmente per salvare le banche e non per rilanciare la crescita e l'occupazione. Sembrano quindi prevalere le lobby potenti...
«Insisteremo con i capi di governo perché senza più crescita e occupazione non si esce dalla crisi. Serve anche più coraggio contro la speculazione. Vanno aumentate le restrizioni iniziali sollecitate proprio dall'Europarlamento».
Il suo partito ha chiesto di vigilare sui finanziamenti della Bce a bassissimo costo per le banche e ha attaccato le agenzie di rating anglo-Usa...
«Ho scritto alla Commissione Europea per porre fine al monopolio di quelle agenzie di rating. Ho poi chiesto all'Autorità europea di supervisione di indagare sulle loro ultime valutazioni sugli Stati membri. In caso di violazioni della normativa Ue vanno avviate azioni risarcitorie. È un buon segno che Merkel e Sarkozy nell'ultimo summit, nonostante l'irrigidimento del premier Cameron, abbiano respinto le richieste britanniche in difesa delle banche e delle altre entità finanziarie della City di Londra».
Anche l'Europarlamento ha le sue colpe…
«Ma abbiamo dimostrato che possiamo essere decisivi. Abbiamo imposto una versione del six pack, sulla più rigorosa disciplina di bilancio, più efficace di quella concordata dai governi, sebbene il mio gruppo già allora avesse denunciato l'assenza di misure per la crescita. E' stato il nostro no all'accordo Ue-Usa sull'accesso alle informazioni finanziarie del sistema Swift a produrre una revisione più rispettosa dei diritti dei cittadini europei. Il nostro obiettivo è moltiplicare questi interventi decisivi nell'interesse dei cittadini».
Le lobby potenti restano però troppo influenti a Bruxelles e anche nell'Europarlamento...
«Quando scoppiò lo scandalo degli emendamenti pagati da lobbisti ho espulso in 24 ore dal mio partito un eurodeputato coinvolto. Poi abbiamo varato nuove regole più rigorose, che ritengo valide. Se si rivelassero insufficienti a evitare deviazioni nel rapporto con le lobby, le potenzieremo».
La presidenza danese di turno dell'Ue porta l'esempio di un mercato del lavoro con flessibilità bilanciata da adeguati sussidi di disoccupazione e corsi di formazione per il ricollocamento…
«Quel modello fu lanciato dall'ex presidente degli eurosocialisti Poul Rasmussen quando era premier della Danimarca. Poul premetteva la particolarità del suo Paese. Ma ha sempre sostenuto che tutte le altre soluzioni anti-disoccupazione alla fine risultano più costose. Io condivido in pieno».
C'è bisogno di più crescita e occupazione anche nella politica anti-crisi del governo Monti?
«Monti ha davanti un compito difficile. Non è un mago che può risolvere tutto di colpo. Sa bene che, senza la crescita, non si supera la crisi».
Le sue tante critiche all'ex premier Berlusconi rendono inutili ulteriori giudizi. Ma non gli è anche un po' grato per la popolarità ottenuta con quell'incidente a Strasburgo?
«Non credo di doverlo ringraziare per aver pronunciato quell'insulto inaccettabile. Berlusconi cercò di sfuggire a una domanda delicata attaccando un tedesco per il passato della Germania. Questo non funziona più in Europa».
Quel giorno Berlusconi accusò gli eurodeputati di essere dei “turisti della democrazia”. Perfino nella prima audizione del presidente della Bce Mario Draghi l'aula era vergognosamente semideserta…
«L'assenteismo, in eventi di grande rilevanza, è inaccettabile. Nel mio gruppo ho sempre cercato di contrastarlo. Continuerò a farlo da presidente dell'Aula. Ma Berlusconi non ci può chiamare “turisti della democrazia” solo perché il nostro compito impone viaggi continui».
Si aspetta un atteggiamento ostile dal Pdl?
«Assolutamente no. Ho già incontrato la delegazione Pdl e solo un membro ha un po' ecceduto. Il capogruppo Mario Mauro fu il primo a inviarmi una lettera sincera quando i giovani socialisti furono uccisi da quel folle sull'isola norvegese di Utoya».

il Fatto on line 14.1.12
Cosentino, tra amicizie e segreti da custodire
La rete dell’omertà che garantisce l’impunità
Nick ‘o Americano’ è difensore di interessi, depositario di segreti, collante di intrecci, che ne hanno fatto per anni l’uomo politico più potente di Forza Italia e del Pdl in Campania

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/14/cosentino-amicizie-segreti-custodirela-rete-dellomerta-garantisce-limpunita/183898/

Repubblica 16.1.12
Scuola, i tecnici sanno fare le nozze con i fichi secchi
di Mario Pirani


La caciara, abituale di questi tempi, nel mondo scolastico quest´anno stranamente si tace. Un silenzio sotteso alla sensazione che l´intervento inedito di un governo tecnico abbia introdotto un uso parco della protesta e una percezione più concreta dell´agire. O addirittura indotto al convincimento – in realtà errato – che un governo, chiamato al proscenio per evitare il fallimento finanziario ed economico del Paese, di nient´altro debba occuparsi. Per cui si è persino smarrita la percezione che sono all´opera e chiamati a renderne conto ministri addetti al funzionamento della Giustizia, della Pubblica istruzione, della Difesa, dell´Ambiente, degli affari Interni ed Esteri e via via degli altri settori della amministrazione statale. Una assenza mass mediatica nel suo assieme, di cui vorremmo, quanto meno, segnalare l´assurdo. A cominciare, appunto, dalla scuola dove tre personaggi, di orientamenti culturali diversi, noti fra gli educatori ma non fuori dalla loro cerchia, il ministro Francesco Profumo, già rettore del Politecnico di Torino e i sottosegretari, Elena Ugolini, preside di Cl, esperta nei metodi di valutazione scolastica, e Marco Rossi Doria, docente elementare, molto conosciuto soprattutto a Napoli e nell´entroterra campano per aver promosso e diffuso nell´ultimo trentennio il movimento dei "maestri di strada" per aiutare gli insegnanti e i ragazzi soprattutto nei quartieri di maggior disagio, questi tre esperti che mai avrebbero immaginato di entrare al governo, stanno dando prova di saper congiungere le loro diverse esperienze per un difficile recupero di un apparato scolastico profondamente dissestato.
La prima notizia è che dopo tre anni di tagli per un ammontare di 8 miliardi, con sospensione degli scatti e delle anzianità, quest´anno, almeno finora, neppure un euro è stato sottratto al bilancio educativo, una "non notizia" che indica una felice inversione di tendenza. A questa svolta si è accompagnata nelle parole sobrie del ministro e dei suoi collaboratori una evoluzione lessicale: al vocabolo "spesa" si è sostituito volutamente quello di "investimento" e così sono state eliminate tutte quelle definizioni sprezzanti, auto distruttive, irrispettose per ristabilire, con piemontese puntiglio, un linguaggio che valorizzi "la funzione civile degli insegnanti". Fare una buona politica con pochi mezzi è l´imperativo di questi tecnici al governo: così questo ministro piemontese ha voluto ripartire con un gesto meridionalista, investendo il primo miliardo degli aiuti europei di cui si rischiava la perdita, per sovvenzionare i bisogni più urgenti delle scuole pugliesi, calabresi, campane e sicule. Si è messa in piedi una azione regionalistica, definita, però, centralmente in accordo col ministro per lo Sviluppo, Barca. È stato così concordato di destinare un primo miliardo alle scuole, senza distribuzioni a pioggia ma puntando in quattro direzioni specifiche: a) edilizia scolastica, messa a regime e restauro di edifici non completati; b) investimenti integrati in nuove tecnologie informatiche, accompagnati da corsi formativi in merito sia per insegnanti che per studenti, così che le innovazioni siano utilizzate a pieno; c) iniziative contro la dispersione scolastica; d) interventi di recupero e aiuto nelle zone di più accentuata povertà sociale con speciale attenzione all´analfabetismo digitale.
Colpisce la concreta minuzia di queste indicazioni di lavoro che legano strettamente, senza astruserie pedagogiche, l´opera del ministero alla vita del più sperduto istituto elementare. Una riflessione che ci è tornata ascoltando da uno dei sottosegretari l´elenco, in apparenza semplicistico ma decisivo, del "controllo delle competenze irrinunciabili": saper leggere e comprendere una frase, saperla scrivere, apprendere i fondamenti elementari della matematica e i primi rudimenti di una seconda lingua. Un ritorno storico ai contenuti primi dell´insegnamento, privo finalmente di orpelli ideologici.

l’Unità 16.1.12
Sullo Spiegel la ricerca dello storico tedesco Felix Bohr sull’eccidio di 335 italiani a Roma
Le accuse: «Alla fine degli anni 50 intesa tra i due Paesi per sottrarre alla giustizia i responsabili»
Fosse Ardeatine «Patto Roma-Bonn per salvare i nazisti»
Il caso Kappler. Il comandante della Gestapo fu condannato ma fu aiutato a fuggire
Lo storico tedesco Felix Bohr denuncia il patto tra Italia e Germania alla fine degli anni 50 inizio 60, per sottrarre alla giustizia i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. La ricerca sullo Spiegel
di Paolo Soldini


Non c’è stato solo l’armadio della vergogna, quello in cui la giustizia militare italiana seppellì le prove di tanti eccidi nazisti nel nostro Paese. Ora si scopre che anche il più brutale degli atti contro la popolazione civile perpetrati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale fu coperto da un vergognoso patto “politico” tra le autorità dei due Paesi tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60. Lo Spiegel che esce oggi in Germania riferisce di una lunga e accuratissima ricerca condotta dallo storico Felix Bohr negli archivi dell’Auswärtiges Amt, il ministero degli Esteri federale, dalla quale risulta che le diplomazie e le amministrazioni di Italia e Germania lavorarono insieme per sottrarre alla giustizia i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine.
Per quell’orrenda rappresaglia, in cui furono uccisi 335 italiani, soltanto due tedeschi sono stati incriminati: il comandante della Gestapo a Roma Herbert Kappler, che poi fu aiutato a fuggire dal carcere, e, in tempi più recenti, il suo luogotenente Erich Priebke.
In realtà almeno altri tre ufficiali nazisti, che avevano avuto responsabilità precise e gravissime nell’eccidio, erano conosciuti e rintracciabili, ma vennero “risparmiati” in base a un accordo segreto tra Bonn e Roma. Si trattava di Carl-Theodor Schütz, l’uomo che aveva comandato il plotone di esecuzione, che nel 1959, quando fu stipulato il patto, lavorava nei servizi segreti della Repubblica federale, di Kurt Winden, che aveva stilato con Kappler la lista degli ostaggi da fucilare ed era il responsabile dell’ufficio legale della Deutsche Bank a Francoforte e il graduato delle Ss Heinz Thunat.
Bohr ha ricostruito i fatti partendo da una relazione inviata a Bonn nel 1959 dal consigliere d’ambasciata tedesco a Roma Kurt von Tannstein, cui il passato di iscritto al partito nazista dal 1933 non aveva ompromesso la carriera diplomatica. Nel suo rapporto Tannstein scriveva apertamente che l’obiettivo «auspicato insieme da tedeschi e italiani» era di «addormentare» le indagini sulla strage.
I COLLOQUI RISERVATI
La prova di questa volontà era nel colloquio (anch’esso ricostruito da Bohr) avvenuto nell’ottobre del ’58 tra l’ambasciatore Manfred Klaiber e il capo della Procura militare di Roma, colonnello Massimo Tringali. Questi – risulta agli atti dell’Aa – avrebbe «espresso l’opinione che da parte italiana non c’è alcun interesse a portare nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della fucilazione di ostaggi italiani, in particolare di quelli delle Fosse Ardeatine». Il motivo di questo «disinteresse» era di natura tutta politica. Il governo italiano dell’epoca riteneva che rivangare l’eccidio avrebbe favorito la «propaganda comunista» e che sarebbe stato un precedente pericoloso per Roma, che era oggetto di varie richieste di estradizioni di criminali di guerra italiani, specialmente da parte della Jugoslavia. Il più famoso era il generale Mario Roatta, autore di ferocissime repressioni, «da attuare senza false pietà», in Croazia e in Slovenia.
L’ambasciatore Klaiber, anch’egli ex iscritto al partito nazista, aveva scritto per il ministero degli Esteri di Bonn una nota in cui appoggiava la «ragionevole posizione italiana» e invitava a sostenere la tesi secondo cui non sarebbe stato possibile rintracciare il luogo di residenza dei responsabili, ammesso che «fossero ancora in vita». In realtà Schütz, Winden e Thunat erano non solo vivi, vegeti e nient’affatto pentiti, ma erano anche perfettamente rintracciabili: il primo era addirittura un dirigente dei servizi segreti federali. Le autorità italiane finsero di credere a questa «impossibilità». Diciotto anni dopo l’unico responsabile nelle mani della giustizia italiana, Herbert Kappler, fu fatto fuggire dall’ospedale militare del Celio.

Repubblica 16.1.14
"Roma chiese ai tedeschi di insabbiare le indagini sulle Fosse Ardeatine"
I documenti su Spiegel: la Dc temeva di favorire il Pci
Lo storico Bohr "I governi italiani non vollero dare la caccia ai criminali di guerra nazisti"
di Andrea Tarquini


BERLINO - I governi democristiani del dopoguerra chiesero alla Germania di Adenauer di fare di tutto per insabbiare le indagini sul massacro delle Fosse Ardeatine. Roma e Bonn agirono da complici, e l´iniziativa venne da parte italiana. La grave accusa viene lanciata dallo storico tedesco Felix Bohr, già noto per aver documentato in un libro la sistematica adesione e correità della diplomazia tedesca con il Terzo Reich.
Le prove, scrive Bohr su un portale online degli storici (www. clio-online.de) sono tutte nell´archivio dello Auswaertiges Amt, il ministero degli Esteri federale. Un epistolario scioccante, egli commenta. Dopo il processo e la condanna del colonnello delle SS Kappler nel 1948, l´obiettivo comune era «un insabbiamento auspicato dalla parte tedesca come da quella italiana», annotò soddisfatto undici anni più tardi il consigliere d´ambasciata Kurt von Tannstein. Uno dei tanti ex nazisti "sdoganati" nella Germania Ovest di Adenauer sullo sfondo della guerra fredda: si era iscritto alla Nsdap, il partito nazionalsocialista di Hitler, nel 1933, ed era entrato nella carriera diplomatica sotto Joachim von Ribbentrop, il ministro degli Esteri del Reich. L´iniziativa partì dalle autorità italiane, nei tardi anni Cinquanta. «Non appena il primo criminale di guerra tedesco verrà consegnato», avvertì in una missiva un diplomatico italiano secondo la ricostruzione di Bohr, «arriverà una valanga di protesta da ogni paese che richiede l´estradizione di criminali di guerra italiani». In guerra a fianco di Hitler dal 1940 all´8 settembre 1943, come è noto, l´Italia si macchiò di crimini di guerra nell´allora Jugoslavia, in Albania, in Grecia.
Nel 1958, cominciò secondo Bohr l´eliminazione o l´archiviazione di documenti compromettenti negli uffici della giustizia militare. L´anno dopo i giudici cominciarono a indagare sulle Ardeatine. Il procuratore Massimo Tringali, scrive Bohr, visitò l´ambasciata della Repubblica federale per portare formali richieste d´indagine. Secondo l´ambasciatore Manfred Kleiber «fece chiaramente capire che da parte italiana non c´era interesse a riportare in pubblico il problema dell´esecuzione di ostaggi e specie alle Fosse Ardeatine (…) non era ritenuto auspicabile per generali motivi di politica interna (…) per questo egli sarebbe soddisfatto se gli uffici competenti tedeschi, dopo verifiche doverose, saranno nella posizione di confermare alla Procura militare di Roma che nessuno degli indagati è più in vita oppure che risultano non rintracciabili, oppure non identificabili per imprecisa trascrizione del loro nome. Altrimenti, fu detto da parte italiana ai tedeschi, Bonn sarebbe stata libera di dire di non poter fornire le richieste informazioni».
L´ambasciatore Klaiber era stato anche lui membro della Nsdap dal 1934 e diplomatico sotto Hitler. Inviando le richieste italiane, appoggiò di suo pugno la «comprensibile richiesta» italiana di una «replica se possibile negativa». Il messaggio trovò il destinatario giusto a Bonn, al ministero degli Esteri: Hans Gawlik, anch´egli nazista dal 1933, e difensore di molti criminali nazisti al processo di Norimberga. Gawlik si adeguò al consiglio. Risultarono irriperibili responsabili delle Ardeatine come ad esempio Kurt Winden, che allora lavorava come responsabile giuridico della Deutsche Bank. I governi dc italiani, scrive Der Spiegel citando lo storico, si decisero a questa linea per non ravvivare la memoria della Resistenza, guidata soprattutto dal Pci, loro avversario politico.

l’Unità 16.1.12
La battaglia contro il socialismo di Stato di Lassalle e Rodbertus
Riscoprire Marx ostile al socialismo di Stato
«Mega2» È il titolo della prima edizione critica che raccoglie tutti gli scritti editi e inediti del filosofo di Treviri. A partire dalla sua lettura Musto scrive un importante contributo sul profilo teorico e umano del pensatore
di Franca Izzo


Karl Marx, il suo pensiero e l’enorme mole di inediti che stanno progressivamente vedendo la luce, sono di nuovo al centro dell'interesse nel mondo. Per i lettori italiani che ne volessero sapere di più è appena giunto in libreria un volume (Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi, Carocci, ottobre 2011) che dà un importante contributo all’inconsueto profilo teorico ed umano del pensatore di Treviri offerta dalla nuova edizione critica dei suoi scritti editi ed inediti.
«Nonostante l’affermazione delle sue teorie, trasformate nel XX secolo in ideologia dominante e dottrina di Stato per una gran parte del genere umano, e l’enorme diffusione dei suoi scritti, egli rimane, ancor oggi, privo di un’edizione integrale e scientifica delle proprie opere» (p.189).
L’autore, attualmente docente presso la York University di Toronto (data la ormai ben nota incapacità della nostra università di dare prospettive a valenti studiosi pur formatisi al suo interno) ha seguito il lavoro dell’équipe di studiosi che sta approntando a Berlino la Mega2, ovvero la prima vera edizione critica della sterminata produzione di Marx, formata sia dagli inediti che dagli scritti ordinati e pubblicati postumi da Engels, a cominciare dal secondo e dal terzo libro del Capitale.
LO SCARTO CON ALTRE EDIZIONI
Unendo alle competenze filologiche solide conoscenze teoriche e della storia delle interpretazioni, Musto in questo lavoro illumina un’immagine di Marx lontana sia dalla monumentalità irrigidita del fondatore di un’ortodossia,cche dal frammentarismo accademico. Quella che emerge dalle pagine di Musto è la figura del pensatore geniale che ha svelato le radici storiche, quindi modificabili, del suo e del nostro presente spiegando i meccanismi di sviluppo a scala mondiale del modo di produzione capitalistico; ma anche del ricercatore frenetico, mai pago dei risultati del proprio lavoro, sempre pronto a seguire nuove piste di studio, ad aprire nuovi orizzonti di ricerca, lasciando di fatto incompiuto il progetto della sua vita.
Attraverso alcune analisi esemplari, come quella condotta sui cosiddetti Manoscritti economico filosofici scritto giovanile dove compare per la prima volta il concetto di lavoro alienato che ha tanto animato le polemiche tra gli interpreti Musto ci introduce in quel laboratorio, ribollente di idee originali, riassunti o commenti di opere altrui, che sono gli scritti marxiani. Il lettore può verificare lo scarto che si apre tra la presunta opera compiuta, come le precedenti edizioni ce l’avevano consegnata e l’effettivo stato dello scritto che così ci consente di penetrare nel processo del lavoro creativo di Marx, nella sua officina di pensiero.
Ai saggi di impianto biografico e filologico, accompagnati da appendici di utilissime tabelle cronologiche , si intrecciano nel volume studi dedicati alla «odissea della pubblicazione» degli scritti marxiani e alla storia delle interpretazioni, in particolare dei Manoscritti, dei Grundisse e del Manifesto del Partito comunista. Mentre è di rilievo teorico il saggio sull’Introduzione del 1857, una delle poche opere pubblicate da Marx. Si tratta di un testo assai noto, di carattere metodologico nel quale sono delineati i tratti generali del metodo di esposizione e della concezione materialistica della storia, che ha attirato l’attenzione di innumerevoli interpreti e critici. Musto lo analizza con grande puntualità mettendone in luce la complessa architettura, la struttura aperta e il suo straordinario valore teorico.
I TESTI SUCCESSIVI
«Nelle opere successive (all’Introduzione...) Marx scrisse delle questioni di metodo non più nella forma aperta e problematica che aveva caratterizzato lo scritto del 1857, bensì in modo compiuto e senza lasciar trasparire la complessa genesi della sua elaborazione. Anche per questa ragione, le pagine (dell’Introduzione)... sono straordinariamente rilevanti» (p.149).
Sostenuta dalla rete di queste robuste conoscenze c’è una forte passione che guida la ricerca di Musto, la passione per il suo autore, per Marx che ciclicamente si vuole trattare come un «cane morto», al pari del suo amato Spinoza e che ciclicamente viene riscoperto come indispensabile a comprendere i fenomeni del mondo globalizzato.
«Si è aperta una stagione contraddistinta dai molti Marx. Dopo il tempo dei dogmatismi, non sarebbe potuto accadere altrimenti... Tra i molti Marx che continuano ad essere indispensabili, se ne segnalano almeno due...quello critico del modo di produzione capitalistico. L’analitico, perspicace e instancabile ricercatore che ne intuì e analizzò lo sviluppo su scala mondiale e, meglio di ogni altro, ha descritto la società borghese...L’altro Marx...è il teorico del socialismo. L’autore che ripudiò l’idea di “socialismo di Stato”, al tempo già propugnata da Lassalle e Rodbertus» (pp.218-9).

Corriere della Sera 16.1.12
Il paradosso dell'arte In malora ma di Stato
Beni culturali in rovina pur di non accettare il contributo dei privati
di Pierluigi Battista


C he fortuna: nel labirinto burocratico-giudiziario, nel paradiso dei ricorsi e dei commi, l'Italia sta scaraventando via 25 milioni degli odiosi privati di modo che i pezzi del Colosseo in via di sgretolamento per mancato restauro restino saldamente nelle mani dello Stato. Che fortuna: grazie agli acrobati del cavillo, agli ideologi del dirigismo statalista che non scende a patti con quel mostro sociale che sono i «privati», l'Italia non diventerà come gli altri Paesi civili, dove i privati, addirittura incentivati da una demenziale e capitalistica politica di detrazioni fiscali, contribuiscono alla manutenzione e al buon funzionamento di musei, biblioteche, opere d'arte, gioielli architettonici. Poveri ma di Stato, rimarremo sempre.
Le opere d'arte in malora, ma in malora pubblica, nell'attesa che una sentenza del Tar confermi la sentenza di un altro Tar, che si appoggi su una sentenza della Corte dei Conti e che a sua volta si ispiri a una sentenza del Consiglio di Stato: il tutto in una manciata di inutili e paralizzanti lustri.
Volete mettere il lamento straziante di chi è professionalmente adibito a mungere l'assistenzialismo di Stato, a supplicare per un'elargizione pubblica, una sovvenzione, una clientela foraggiata, una burocrazia culturale più pingue? Bisogna occupare il Teatro Valle per chiedere piogge di denari statali alla cultura, mica usare quei 25 milioni di euro che il gruppo di Della Valle ha messo a disposizione per restaurare il Colosseo e salvarlo dal cedimento che quel grande anfiteatro sta vivendo ogni giorno, pezzo dopo pezzo. Dovessero mai altri privati, altri borghesi danarosi, emulare quell'esempio e contribuire a salvare, chissà, Pompei, o i musei che chiudono con le casse vuote, oppure le chiese e i palazzi e i capolavori dell'arte di cui è ricca l'Italia e che si stanno dissolvendo, nell'indifferenza generale ma, per fortuna, nella mani dello Stato impotente e onnipotente, squattrinato e in rovina ma pur sempre «pubblico».
C'è sempre la carta bollata di un ricorso, per fortuna del nostro Paese in disfacimento artistico ma pur sempre disfacimento pubblico, a bloccare nei piccoli borghi, nelle cittadine più decentrate, una borghesia diffusa che forse, chissà, per senso del prestigio, per vanità, per dare un segno della propria presenza, per consegnare il proprio nome alla posterità, per senso civico, potrebbe pur contribuire a un moderno mecenatismo che sopperisca alla mancanza di fondi dello Stato e in più fornisca carburante a un senso dell'appartenenza, della comunità, ormai sbiadito. C'è sempre un'«istanza superiore» a bloccare tutto, ma non il degrado delle rovine che si disfano per l'incuria pubblica, per la piccineria culturale di un ceto politico e sindacale (è la Uil che ha bloccato tutto) che manda in malora i beni culturali pur di conservare il feticcio del monopolio di Stato. Nella distruzione dei monumenti che muoiono ogni giorno. Pubblici però, non privati.

Repubblica Affari e Finanza 16.1.12
Modello Africa. Ora la Cina vuole esportarlo anche in Europa

qui
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/12/13/villaggioglobale/012estest.html

domenica 15 gennaio 2012

l’Unità 15.1.12
Il leader Pd critica la linea Merkel-Sarkozy: «Serve difesa vera dell’euro»
Invito ai progressisti europei: piattaforma comune per combattere le destre
Bersani: è la politica dell’Europa che è finita in serie B
Assemblea del Pd lombardo, Bersani attacca la Germania e spinge per una piattaforma alternativa dei progressisti. «Basta con politiche che ci portano a fondo». «Il 2012 cruciale, il Pd deve incontrare l’Italia»
di Laura Matteucci


«La tripla A l’ha persa la politica Merkel-Sarkozy, che si dimostra non salva l’Europa». Pier Luigi Bersani chiude a Milano l’assemblea del Pd lombardo, lancia le nuove parole d’ordine per un anno definito «un passaggio cruciale e delicato», difende il governo Monti «adesso si discute di problemi reali» pur criticandone alcune scelte «che vanno aggiustate». E parlando di politiche nazionali non può sottrarsi ad uno sguardo europeo. Perché «un passo noi e un passo l’Europa», «altrimenti da questa crisi non ne veniamo fuori». I prossimi saranno passi di riforme, perché quanto a manovre l’Italia la sua parte l’ha fatta: «Non si può chiedere di più, a meno di innescare un meccanismo recessivo che farebbe saltare i conti». Per essere chiari: «Siamo ingombranti riprende il segretario Pd abbiamo la forza di dire basta con politiche sbagliate che ci portano a fondo». E non salvano l’Europa, appena bocciata da Standard & Poor’s: «È il meccanismo dei 10 piccoli indiani, uno a uno dice Bersani Senza una difesa vera dell’euro non si salva nessuno, a partire dal rafforzamento del fondo salva-Stati e dal coordinamento delle politiche macroeconomiche». Le stoccate maggiori sono per la Germania, che «dovrebbe ricordarsi che senza l’Europa non sarebbe così». L’invito è per tutti i progressisti europei, che accelerino la definizione di una piattaforma per combattere gli «ostacoli ideologici» che impediscono a Berlino di aprire a soluzioni condivise.
PRESENZA CRITICA
L’invito al Pd per quest’anno di preparazione alle elezioni, invece, è quello di «incontrare l’Italia»: «discutere i problemi», «essere presenti nei luoghi di sofferenza», «incrociare chi ci sta provando». E mantenere viva la battaglia politica. Con le critiche ai provvedimenti del governo, che già col Milleproroghe potrebbe mettere mano alle situazioni dei lavoratori precoci e di chi si trova senza lavoro e senza pensione. Paletti fermi anche sulle liberalizzazioni, in particolare dei farmaci, che deve servire «ad aprire un mercato concorrenziale liberalizzando prodotti, non ad aggiungere qualche posto a tavola ai monopolisti». Poi ci sono le proposte, come quella, già formulata, sulla riforma del mercato del lavoro: «Nel Pd c’è una posizione maggioritaria e un’altra, minoritaria. Ci avvaliamo di quella maggioritaria. Un messaggio che dicesse “rendo più facile lasciarti a casa” sarebbe assurdo», con riferimento alla polemica sull’articolo 18. Bocciatura secca anche per la vagheggiata flexsecurity alla danese: «A chi non piacerebbe? Il problema è che noi la vediamo col binocolo».
Battaglia politica significa anche messaggi chiari alle altre forze, avversarie e non. A Di Pietro, che sulla decisione della Consulta sul referendum per la legge elettorale «ha detto frasi che avevo sentite solo da Berlusconi. Comunque non voglio pensare si voti con la legge Calderoli». Alla Lega: «Ci hanno parcheggiato per 8 anni sull’orlo dell’abisso, adesso stiano zitti». In altri termini: «Dobbiamo andare ad alzo zero alla prima parola. Il caso Cosentino ha fatto riaffiorare vecchie logiche: l’incrocio tra populismi leghisti e berlusconiani è ancora vivo, funzionante e putrido».
La Lega, qui nella capitale del nord, dove domenica prossima Bossi tornerà di scena con una manifestazione, è sempre tema sensibile. Gli attacchi arrivano anche dal segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina: «Non le consentiremo dice di tornare su questi territori con l’idea assurda del secessionismo». «Attenzione però interviene Piero Fassino, sindaco di Torino, anche lui presente all’assemblea lombarda a non lasciare in mano loro la questione settentrionale, che esiste davvero come dicono anche le cifre, a partire dal fatto che il 70% del lavoro è concentrato qui, come pure il 75% del prelievo fiscale». La questione del nord, e degli Enti locali nel complesso, dev’essere quindi tra le priorità dell’agenda di governo. Come dice il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: «Se avremo risposte ai bisogni degli Enti locali, daremo forza al governo. E ce la faremo a cambiare, dopo Milano, la Lombardia e l’intero Paese».

l’Unità 15.1.12
«Stati Uniti d’Europa» Da socialisti e Pd un milione di firme
Martedì si vota per il capogruppo dei socialisti e progressisti al Parlamento europeo: in pole position l’austriaco Swoboda, ieri a Milano a un’iniziativa del Pd. I progressisti lanciano una petizione per gli Stati Uniti d’Europa
di La. Ma.


Almeno un milione di firme in almeno sette Stati: è l’obiettivo della petizione che il Pd e i progressisti europei hanno deciso di lanciare per costruire gli Stati Uniti d’Europa. «Ci vuole una grande mobilitazione spiega il capogruppo Pd a Bruxelles David Sassoli per invitare la Commissione a legiferare». Sassoli porta l’esempio di California e Grecia, «che sono nella stessa situazione, ma nessuno si sogna di attaccare la California perché ci sono gli Stati Uniti e la Federal Reserve». «Gli Stati Uniti d’Europa e l’elezione diretta del presidente dell’Unione aggiunge l’europarlamentare Antonio Panzeri È da qui che deve partire la sfida per cambiare il volto dell’Europa». All’iniziativa «Più Europa più futuro», organizzata a Milano dal Partito democratico lombardo, sono intervenuti anche i tre eurodeputati candidati alla successione a Martin Schulz alla guida dell’Alleanza dei socialisti e democratici, per la quale si vota martedì: la francese Catherine Trautmann, l’inglese Stephen Hughes e l’austriaco Hannes Swoboda, dato in pole position per l’elezione all’incarico.
CAMBIO DI PASSO
«Le agenzie di rating oggi sembrano essere bracci armati dice l’eurodeputata Patrizia Toia un pericolo che noi progressisti europei denunciamo da tempo». Il declassamento di mezza Europa deciso da Standard & Poor’s dimostra che ci vuole più Europa: di questo sono convinti gli europarlamentari dell’Alleanza progressista. «È necessaria una reazione forte dell’Europa», riprende Panzeri. Il che significa un fondo salva-Stati potenziato, l’ingresso nella «logica degli eurobond» e anche la necessità di «convincere il governo tedesco ad avere una posizione più morbida sia sulla revisione dei trattati, sia per la politica fiscale comune». Swoboda parla di risposta «caotica, tardiva e insufficiente» da parte dell’Europa alla crisi che la sta attraversando: «Il mercato aggiunge vuole dividere i Paesi, che invece sono tutti collegati tra loro», e ora «la risposta dev’essere comune».
Anche per la Trautmann, di fronte a quello che chiama «un meccanismo infernale, un gioco del domino», la reazione europea è stata «insufficiente sia dal punto di vista finanziario sia della solidarietà». «Noi aggiunge poi siamo ostili a un direttorio a due Merkel-Sarkozy. Con il Pd condividiamo la visione che non si può trovare una soluzione da soli. La decisione delle agenzie di rating può essere criticata, ma di fatto la conseguenza è che i soldi sono più cari, pesano sui cittadini, e per rispettare gli impegni di rigore non so come faremo». Hughes, candidato anche lui alla presidenza dell’eurogruppo, ma decisamente più defilato rispetto agli altri per le posizioni di contrasto assunte dalla Gran Bretagna rispetto alla tassa sulle transazioni finanziarie, legge la situazione «come un incidente stradale alla moviola. L’Europa deve cambiare approccio, e fare spazio innanzitutto agli investimenti».

il Fatto 15.1.12
“Così faremo pagare gli evasori”
Luigi Magistro, super 007 dell’Agenzia delle Entrate, spiega al Fatto come si può piegare la lobby più potente: 10 milioni di furbetti fiscali
di Giorgio Meletti e Marco Travaglio


Tutto quello che volevate sapere sull'evasione fiscale: fatti e cifre, tempi e metodi, leggi, abitudini e culture. E tutto sulla caccia agli evasori. Ne abbiamo discusso per oltre due ore con Luigi Magistro, 52 anni, direttore centrale dell'accertamento all'Agenzia delle Entrate, dopo oltre 20 anni di carriera nella Guardia di Finanza. Detto in chiaro, è l'uomo che guida la lotta all’evasione fiscale, a capo di un esercito di 15 mila ispettori, poco meno di metà dei dipendenti dell’Agenzia

Sono troppo pochi gli ispettori”, chiarisce subito Luigi Magistro, “tre anni fa eravamo 17 mila, ma non sostituiamo chi va in pensione. Dovremmo essere almeno il doppio”.
Il 2012 è iniziato con le polemiche sul blitz dei suoi 80 ispettori a Cortina. Stato di polizia fiscale?
Questo che chiamiamo blitz, per capirci, in realtà è una attività ordinaria e neppure rilevantissima. Lo definiamo “presidio del territorio”, e se ne occupa principalmente la Guardia di Finanza, con circa 500 mila controlli l’anno. Noi ne facciamo 50 mila.
Il clamore suscitato stavolta è però indubbio.
Me lo spiego con il momento storico. Si sta determinando, finalmente, molta sensibilità nel-l’opinione pubblica: mai come in questo momento le persone oneste si sentono esasperate dalla pressione fiscale, e l’evasore rimane doppiamente inviso.
Lei dice che non è stata un'iniziativa estemporanea.
No. L'estate scorsa abbiamo fatto oltre 20 operazioni del genere nelle località turistiche, mi ricordo Capri, la riviera romagnola, la costiera amalfitana...
Qui si parla di imprese piccole o individuali. Ma sui grandi evasori che cosa fate?
È quello di cui ci stiamo occupando sempre più intensamente. Abbiamo messo nel mirino le grandi imprese, quelle con oltre 100 milioni di euro di fatturato. Sono 3500 in Italia, di cui mille solo in Lombardia. Questo ha determinato il venir fuori di tutta una serie di casi importanti, in una misura che fino a qualche anno fa non si vedeva proprio.
Ci ricordi qualche esempio.
Il caso recente delle banche che evadevano con operazioni sull’estero ha avuto particolare risalto, si è parlato recentemente poi di multinazionali come la Bosch, la Luxottica di Del Vecchio (300 e passa milioni di euro), il gruppo Menarini, più di 400 milioni di euro.
A queste 3500 grandi imprese quanto attribuite dell’evasione totale?
Io ho un'idea che utilizzo per disegnare le strategie di controllo. Ho diviso il mondo dei contribuenti in cinque categorie. I grandi di cui abbiamo parlato, poi ci sono le medie imprese, da cinque a cento milioni di fatturato, che sono 60 mila, e infine le piccole con il lavoro autonomo, circa cinque milioni di soggetti. Del fatturato generale delle attività economiche, le tre categorie rappresentano un terzo ciascuna, ipotizzo anche un terzo ciascuna dell'evasione.
Ne ha dette tre.
La quarta è più piccola, ma ci sono violazioni molto gravi: è il cosiddetto non profit. Sono circa 200 mila enti non commerciali, ma molti di essi sono finti: i famosi ristoranti camuffati da associazioni, le palestre...
E la quinta categoria?
È la massa delle persone fisiche, circa 30 milioni di soggetti tendenzialmente a non alto rischio d’evasione, dove però si annida il sommerso, quei lavoratori dipendenti che, quando hanno finito l’orario, magari si mettono la tuta da idraulico...
Avete un’idea di quanti siano gli evasori fiscali che producono i famosi 120 miliardi all’anno di imposta evasa?
Se ci riferiamo alle attività economiche, per capirci alle partite Iva, che sono 5 milioni e dispari, è chiaro che parliamo di diversi milioni di evasori, anche se per importi molto variabili.
Sono più della metà?
Con buona probabilità sì.
E tra le persone fisiche?
Non so se potrebbe valere il detto evangelico che chi è senza peccato scagli la prima pietra...
Possiamo quindi dire che gli evasori in Italia siano almeno 10 milioni, uno su tre?
È difficile dirlo, ma se ci mettiamo il sommerso direi di sì, tranquillamente.
Quindi parliamo di una delle lobby più potenti d'Italia. Ma nel suo vocabolario quando scatta la parola evasore?
È complicato, è un fenomeno caratterizzato da tante sfaccettature. Per esempio, c’è una cosa di cui dopo trent'anni non posso dire di non essermi accorto: c'è un’evasione che io definisco di sopravvivenza. Determinate microimprese familiari, se non evadessero, non potrebbero stare sul mercato.
Qual è la sua stima dell'evasione fiscale, in euro?
Leggo tante cifre, ma non la loro dimostrazione. L’unico metodo più o meno scientifico è quello di seguire il prodotto interno lordo, quello che fa l’Istat, che stima un sommerso di 275 miliardi di euro. Ma io non sono nella condizione di dire quanta evasione si realizza a seguito di questo sommerso. Buona parte di esso, se non fosse tale, non esisterebbe.
Molti con l'evasione si assicurano un buon tenore di vita.
Ed è il nostro problema. Quando intercetti uno di questi signori, sarà difficile farsi restituire quello che non ha pagato, e per un motivo molto semplice: non ce l’ha più, se l’è speso! Una parte consistente dei nostri accertamenti non vengono nemmeno impugnati, il contribuente se ne infischia e non paga! Una parte grande, grazie a Dio sempre maggiore, siamo ormai sul 55 per cento, definisce il contenzioso e paga. Una parte, circa il 15%, porta il caso davanti ad un giudice. Però abbiamo una parte in mezzo consistente, circa un 30 per cento, che non chiude, non impugna e dice: “Venitemi a prendere! ”.
Dopo il blitz di Cortina che cosa succede alle persone che sono state controllate?
Sono in approfondimento, bisogna dimostrare che hanno evaso in quel modo durante tutto l’anno, e si tratta di provarlo.
E con la caccia al Suv com'è andata?
Ai nostri che sono andati è stato detto: “Visto che vi trovate lì e il presidio di cassa è anche un po’ noioso, magari date un’occhiata fuori e prendete la targa di qualche auto di lusso che passa, in modo tale che poi ci ragioniamo”. Voi direte: “Ma tu hai già il PRA! ”. Nessuno meglio di me lo sa, ma vedere la macchina di lusso nel posto di lusso ci consente di avere un indizio in più.
Quali sono le cifre effettive dell'evasione recuperata?
C'è da fare chiarezza sul rapporto tra i nostri dati e quelli della Guardia di Finanza. La grande differenza è che la Guardia di Finanza fa solo contestazioni, l’Agenzia delle Entrate fa anche contestazioni e poi le sviluppa assieme a quelle fatte dalla Guardia di Finanza: diventano quello che si chiama tecnicamente accertamento o erogazione delle sanzioni, poi deve incassare. I dati che dichiara la Guardia di Finanza sono le violazioni che ha constatato. Bisogna vedere se si riesce a tramutarle in un incassato. Non solo. La Guardia di Finanza accerta gli imponibili evasi, poi quante imposte ci siano da pagare su quegli imponibili lo può stabilire solo l’Agenzia delle Entrate.
Quindi?
A spanne, per il 2010 la Guardia di Finanza ha contestato una quarantina di miliardi di imponibili, che aggiunti a quelli contestati da noi ha dato luogo all'accertamento di maggiori imposte dovute per 30 miliardi. Alla fine tra pagamento spontaneo in sede di definizione e riscossione con i ruoli e con Equitalia, nel 2010 abbiamo portato a casa 10,5 miliardi, nel 2011 abbiamo superato gli 11 miliardi. Rimane la quota considerevolissima di quelli che non pagano.
Categoria simpatica.
Io li chiamo “evasori da riscossione”. Qualcuno lo fa per necessità, vuol essere corretto, io la dichiarazione la faccio ma non ho i soldi per pagare. Oppure temono la violazione pena-le, chi dichiara tutto e non paga non incorre in fatti penali. Ma ripeto: abbiamo proprio tantissimi livelli diversi di evasione.
A questo proposito, non vi ponete il problema che le vostre modalità operative possano finire per compattare il grande e il piccolo evasore? Pensiamo alle cartelle esattoriali indecifrabili di Equitalia.
C’è un problema obiettivo: queste materie sono talmente ostiche per loro natura che è veramente difficile renderle fruibili a chi non ha la minima dimestichezza. È vero, certe volte non la capisco io la cartella, il che la dice lunga... Vedete, il vero dramma di Equitalia è soprattutto sulla massa dei crediti dei Comuni, le multe e via dicendo. Il problema è avere un soggetto riscossore diverso dal creditore, questa è la scelta che è stata fatta in Italia.
Sulla lotta all’evasione ci sono nuovi input da parte del governo Monti che state seguendo?
La nostra attività ha un trend che non viene influenzato immediatamente da direttive specifiche. Quello che incide è il quadro normativo, perché gli strumenti me li dà la legge, non è che io mi posso attribuire dei poteri da solo. Questo governo ci ha dato importanti carte: tutti i movimenti finanziari comunicati dagli operatori finanziari, il controllo sui conti correnti, poi c’è la norma secondo la quale non dire la verità nel controllo fiscale costituisce un illecito pena-le.
Però la sanzione penale è blanda: uno può evadere 50, 100 mila euro, ma in galera non ci va.
Non c’è Paese in Europa che persegua l’infedele dichiarazione come reato. È reato la frode, cioè nascondere i redditi al fisco con artifici e raggiri. E lì colpiamo duro.
A proposito, cinque grandi banche italiane hanno appena pagato circa un miliardo per evasione fiscale. Però continuano a dire che pagano pur essendo innocenti.
Sa perché lo dicono? Perché gli amministratori temono l’azione di responsabilità da parte degli azionisti. Devono sempre dire e fare risultare dagli atti societari che pagano solo per chiudere il contenzioso, anche se tutti sappiamo che se hai ragione col cavolo che chiudi, mi dai 300 milioni perché hai ragione?
Intesa San Paolo, all’epoca dei fatti, era guidata dall’attuale ministro dello Sviluppo economico...
E che cosa dovrebbe dire Passera? Che ha fatto le violazioni, che ha fatto l’abuso, che ha fatto l’elusione? No, lui dice: “Io non ho fatto niente, ma pur di togliermi di torno queste sanguisughe del fisco gli ho dato 350 milioni di euro”.
Perché tutti i i grandi casi di evasione si concludono con lo sconto?
Non è uno sconto, appare così ma si chiama definizione condivisa. Proprio perché la prova dell’evasione non è sempre univoca, si parte da un impianto accusatorio e alla fine si arriva a un’analisi approfondita e a un accordo sull’ammontare dell’evasione che il contribuente accetta di ammettere.
Torniamo alle nuove norme. Voi dal primo gennaio ricevete dalle banche tutti gli estratti conti mensili degli italiani?
Neppure per sogno. L’estratto conto non ci serve a niente. A noi servono le movimentazioni accorpate, il totale di dare e avere dell’anno. Le banche ci vogliono mandare gli estratti conto perché sono già pronti, ma io voglio il dato elaborato per andare a incrociarlo con il reddito dichiarato. Se c’è discrepanza per me si accende la lampadina. Ma io non vado a curiosare nel-l’estratto conto. Tutti i discorsi sulla privacy che si sono sentiti non hanno fondamento. Io sono napoletano, a Napoli si dice: “Si parla a schiovere”, cioè ognuno parla senza sapere una mazza e senza chiederci spiegazioni.

l’Unità 15.1.12
Intervista a Nichi Vendola
«Monti, variante colta della destra europea»
«con un Pd moderato nascerà il polo Sel-Idv»
Parla il leader di Sel: «Si sta dimostrando che le politiche tecnocratiche seguite anche in Italia non sono solo socialmente inique, ma pure inefficaci»
di Maria Zegarelli


Io non lancio aut aut, sono molto rispettoso verso il Pd, ma se la prospettiva di un nuovo Ulivo di cui ha parlato Bersani non c’è più perché c’è una svolta a destra, noi saremo competitivi con il Pd in maniera virulenta. Parleremo al suo popolo dal momento che gli stati maggiori si possono anche dividere, ma il popolo di centrosinistra è uno soltanto e ha più volte dimostrato che vuole un cambiamento». Non è un aut aut ma ci somiglia moltissimo e Nichi Vendola non ci tiene neanche troppo a smorzare i toni perché questa storia della Federazione tra Pd e Terzo Polo a cui lavora Fioroni, o quell’altra secondo cui la legge elettorale devono studiarsela a tavolino Pdl, Pd e Terzo Polo, come auspica Letta, per il leader di Sel è davvero troppo. E niente sconti alla politica europea, di destra, di cui il governo Monti è soltanto «una variabile colta e illuminata».
Vendola, la S&P declassa mezza Europa e l’Italia scende in serie «B». Che sta succedendo?
«Ormai siamo di fronte ad una situazione insostenibile e paradossale. L’Europa si sta sgretolando e il male oscuro che la divora è quel clamoroso deficit di politica e democrazia che la rende priva di soggettività reale nella scena del mondo. Un’Europa inesistente, priva di narrazione, che non assomiglia per nulla alla grande utopia europeista che l’ha ispirata, alla Altiero Spinelli o alla Willy Brandt. È ormai prigioniera della mediocrità della destra europea, della più incapace classe dirigente ben incarnata dalla coppia Merkel-Sarkozy».
Condivide il monito del Capo dello Stato che esorta gli stati ad una vera unità politica e economica?
«Prima bisognerebbe chiedersi perché è finita così: è nel fatto che l’Europa oggi è quasi interamente governata dalla destra e la sinistra, folgorata sulla strada del liberalismo, con le sue mille torsioni moderate ha regalato l’Europa all’egemonia culturale, politica e economica della destra».
Lei dice: Europa responsabile del suo fallimento. Ma sulle agenzie di rating non ha nulla da dire?
«Il fatto che i luoghi opachi privi di credibilità come le agenzie di rating, possano avere un peso nello spianare la strada all’assalto speculativo dei loro proprietari, visto che operano per conto di soggetti economici importanti, non mi stupisce. Piuttosto è la mancanza di un’agenzia di rating europea un’altra prova del carattere fiacco dell’Unione».
Intanto nel centrodestra c’è chi inizia a dire che non era colpa di Berlusconi, come spread dimostra.
«Di questa Europa così spettrale e priva di visione il governo Monti rappresenta una variante colta e illuminata ma non un’alternativa. L’unica alternativa possibile è l’Europa sociale che solo le forze socialiste, socialdemocratiche ed ecologiste del vecchio Continente possono ricostruire. Anche perché si sta dimostrando che le politiche tecnocratiche a cui anche l’Italia partecipa, non solo sono socialmente inique ma anche inefficaci».
Dunque, meglio le elezioni anticipate come auspicano Berlusconi e Bossi? «Non credo che sia nelle intenzioni di Berlusconi andare al voto. Ha tutto l’interesse ad aspettare per smarcarsi il più possibile dalla crisi, per apparire estraneo alle ragioni del disastro che sta vivendo l’Italia. In questo modo può caricare il governo Monti di una responsabilità che in realtà appartiene tutta al ventennio berlusconiano. La Lega poi, non mi sembra sia in condizione da affrontare le elezioni, si sta squagliando. Il fatto che si sia salvato Cosentino in Parlamento dimostra che hanno bisogno di guadagnare tempo per recuperare terreno e organizzare, contro la quaresima tecnocratica che vive il Paese, una riscossa del populismo».
Però anche il Pdl inizia a minacciare il governo Monti.
«Fa impressione vederli oggi come avversari dei poteri forti, proprio loro che hanno sempre garantito gli evasori, la ricchezza, anche quella criminale... Attenzione, lo dico soprattutto al Pd».
Cosa rimprovera a Bersani?
«Non rimprovero alcunché, dico che la questione oggi, sia in Italia sia in Europa, è la giustizia sociale. Il Pd non può avere un’azione incisiva sulle politiche di Monti perché la sua capacità è stata annientata a monte, dalla parte più moderata del partito. I gruppi dirigenti, alcuni, hanno impedito un negoziato più stringente sulla direzione del governo Monti che finora ha evocato scenari, ma non sciolto i nodi, dalla patrimoniale alla tobin tax. Sel ha organizzato il 22 gennaio a Roma un’assemblea nazionale con un titolo chiaro: “Per la giustizia sociale. Una nuova sinistra per salvare l’Italia”. Ci saranno Pisapia, Landini, De Magistris, Michele Emiliano... esperienze di governo fatte di riformismo radicale».
Vendola, tra l’Idv e il Pd i rapporti sono al lumicino, Vasto un ricordo lontano. Come ci arriva il centrosinistra alle elezioni?
«Sarebbe un errore imperdonabile immaginare che l’Idv rappresenti un impiccio o un fardello di cui liberarsi».
Perché il Pd dovrebbe dialogare con un partito che lo attacca ogni giorno? «Il nostro alleato principale, il mio e di Di Pietro, non può pensare di non sciogliere mai i nodi della prospettiva, per cui ogni giorno leggiamo che Enrico Letta la legge elettorale la vuole fare in modo che definire autoritario è un eufemismo, oppure che Fioroni vuole fare la Federazione con il Terzo Polo.
Ma se quello è il destino io e Di Pietro non abbiamo paura a metterci a capo di un altro polo di governo, alternativo al Pd. Non intendo più immaginare che per la sinistra ci sia soltanto un destino di testimonianza democratica».

l’Unità 15.1.12
Visita ufficiale in Vaticano: il premier vede Ratzinger e poi Bertone. «Serve determinazione»
In piazza tafferugli e cariche contro gli «indignados» riunitisi a San Pietro per protestare
Il Papa incoraggia Monti «Avete cominciato bene»
Quasi due ore è durata la visita del premier Monti in Vaticano. Cordialità e sostegno da Benedetto XVI preoccupato per gli effetti della crisi. L’incontro con il segretario di Stato, Bertone. Non si è parlato di Ici
di Roberto Monteforte


«Avete cominciato bene ma in una situazione difficilissima... quasi insolubile». È questo il commento con il quale papa Benedetto XVI ha accolto ieri il premier italiano Mario Monti ricevuto in udienza con il suo seguito e con la moglie Elsa.
«Grazie di questo privilegio e onore» sono state le prime parole pronunciate dal presidente del Consiglio accolto nella biblioteca privata del pontefice. Benedetto XVI lo ha ringraziato per la visita. Gli ha chiesto della recente visita in Germania. Il premier, riferendosi ai colloqui avuti con il cancelliere Angela Merkel, ha risposto «Tempo brutto, ma clima buono». Grande cordialità e comune consapevolezza della gravità della situazione hanno segnato l’incontro. La crisi, infatti, è stata la grande protagonista del primo incontro del premier «tecnico» Monti e il pontefice. Lo testimoniano le parole che si sono scambiati prima che le porte della Sala della Biblioteca si chiudessero ai cronisti e alle telecamere. «È importante dare un segno di determinazione» ha detto Monti parlando della crisi economica. «Questo è importante» ha osservato il pontefice, che non ha mancato di incoraggiare il premier. Circa venticinque minuti è durato il loro faccia a faccia. Si è notato il feeling tra i due «professori». «Ci sono stati attenzione e incoraggiamento per un’azione difficile, che costa sacrifici, per fronteggiare la crisi economica: un impegno notevole anche dal punto di vista morale» ha spiegato il portavoce vaticano padre Federico Lombardi. È stato chiesto a Monti, ha aggiunto, «delle difficoltà incontrate e del fatto che deve fare appello alle energie morali del Paese».
Quale sia la sintonia tra il premier e Papa Ratzinger lo si è visto anche durante il sobrio scambio dei doni. Monti ha offerto al pontefice una riproduzione di un atlante nautico del cinquecento. «Da lei ci attendiamo orientamenti e indicazioni» ha affermato presentando il dono. E il pontefice, di rimando, ha subito sottolineato il valore simbolico del dono. Ve ne è stato anche uno più personale. Un volume scritto da Monti nel 1992, dal titolo «Il governo dell’economia e della moneta. Contributi per un’Italia europea». Si tratta di un libro, ha spiegato il premier «sul governo dell’economia mondiale», i cui temi rispecchiano «lo spirito della nostra precedente discussione».
Gli omaggi del pontefice sono stati una penna foggiata sulla forma delle colonne tortili del baldacchino di san Pietro del Bernini e una riproduzione di una stampa del cinquecento che mostra l’aspetto di piazza san Pietro. Il premier è stato accompagnato dal ministro degli Esteri, Giuliomaria Terzi e da quello per gli Affari europei, Enzo Moavero, con loro anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Catricalà, il segretario generale della presidenza del Consiglio, Manlio Strano, il giovane vice segretario generale, Federico Toniato che cura i rapporti con Oltretevere.
La visita del presidente del Consiglio e del suo seguito è proseguita poi con il segretario di Stato, cardinale Bertone. Altri quarantacinque minuti di confronto, prima un faccia a faccia tra Monti e Bertone, poi il confronto tra le due delegazioni. Un asciutto comunicato della Sala Stampa vaticana ha dato conto dei temi affrontati: «la situazione sociale italiana», l’impegno del governo e il contributo della Chiesa cattolica. Quindi l’Europa, il Medio Oriente e la «tutela delle minoranze religiose, soprattutto cristiane, in alcune aree del mondo». Viene pure confermata «la volontà di continuare la costruttiva collaborazione a livello bilaterale». Sul tavolo, quindi, temi politici, senza però entrare nel merito dei punti caldi, come il pagamento dell’Ici da parte della Chiesa. Sarà nell’agenda dei «confronti bilaterali» tra il governo italiano e la Cei in preparazione del ricevimento per l’anniversario della firma dei Patti Lateranensi che si terrà a Palazzo Borromeo il 18 febbraio. Alle 12,45 il corteo del premier ha lasciato il Vaticano. «Incontro non di circostanza» scrive l’Osservatore Romano. Monti sa di poter contare sul convinto sostegno di Benedetto XVI.
GLI INDIGNADOS IN PIAZZA
Nel primo pomeriggio gruppo di giovani «indignados» spagnoli e francesi ha organizzato una protesta in piazza san Pietro contro il Vaticano «che non paga le tasse». Uno di loro che si è arrampicato sul grande albero di Natale vicino all’obelisco è stato fermato dalla polizia. Ne è nato un tafferuglio con i dimostranti che sono stati con rudezza allontanati dalla piazza. I giovani hanno denunciato la violenza subita, mentre padre Lombardi ha affermato che «è stato giusto e opportuno allontanarli, viste le azioni compiute e le espressioni usate».

l’Unità 15.1.12
Dalla rappresentatività alla rappresentazione
di Moni Ovadia


Lo squallido spettacolo di cui ha dato prova ieri la maggioranza del Parlamento con la decisione di «salvare» Cosentino dai suoi giudici naturali, che dovevano sottoporlo a processo per il gravissimo reato di contiguità con la camorra, è l’ennesimo scempio perpetrato ai danni del senso stesso della democrazia proprio nel luogo che ne dovrebbe essere il santuario.
Se si considera poi, che nello stesso giorno viene respinto il referendum contro il “porcellum”, sostenuto da più di un milione e duecentomila firme di cittadini italiani i quali quasi certamente rappresentano la sacrosanta opinione della stragrande maggioranza degli elettori del nostro Paese, abbiamo ragioni sufficienti per dubitare di vivere in un paese autenticamente libero e democratico.
Per quanto mi riguarda mi sento salire alla gola un rigurgito sempre più tossico che avvelena la mia pur potente vocazione di cittadino che crede nelle elezioni. E questa tossicosi porta alla mia bocca una domanda impellente e pericolosa come un conato di vomito represso a lungo: ma serve ancora andare a votare?
Comincio seriamente a credere che andare a votare non serva a garantire rappresentatività, ma solo a legittimare uno status quo che si scompagina apparentemente per riaggregarsi sotto altre spoglie attraverso miserabili rappresentazioni. E il teatrino di Bossi che fa il duro con Berlusconi per poi calare le braghe e con Maroni che finge di indignarsi, di tutte le rappresentazioni è la più penosa.
Il copione è quello vecchio, frusto più volte rappresentato per raggirare i rispettivi elettori e per mostrare beffardo disprezzo per la sovranità popolare.

l’Unità 15.1.12
Le scelte dei radicali
risponde Luigi Cancrini


La Camera dei deputati ha negato l’arresto del coordinatore campano del partito, Nicola Cosentino accusato di riciclaggio e corruzione con l’aggravante del metodo mafioso. Non è la prima volta che i sei deputati radicali che fanno parte del gruppo parlamentare del Pd consentono il salvataggio di persone inquisite e dello stesso governo precedente.

RISPOSTA Si chiedono i radicali che senso abbia l’arresto di Cosentino. Nei suoi confronti si sta celebrando un processo, dicono, la carcerazione preventiva non serve. Il pericolo di fuga non c’è e assai difficile è che Cosentino possa, oggi, inquinare le prove o continuare la sua presunta attività delinquenziale. In un paese in cui esistono delle leggi, tuttavia, la sede giusta per valutare se vi sono le condizioni di una carcerazione preventiva è il contraddittorio di fronte al giudice, non il consesso dei colleghi deputati cui tocca solo verificare se nelle richieste dei giudici c’è un’intenzione persecutoria. La liceità della carcerazione preventiva in generale o una diversa scrittura delle norme che la regolano può avvenire sulla base di una proposta di legge non difendendo un deputato accusato di collusione con la camorra. Non fosse stato un parlamentare del Pdl Cosentino sarebbe in carcere già da tempo con gli altri indagati della stessa inchiesta. L’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge non è stata sempre importante anche per i radicali? A me sembrava di sì per come li ho conosciuti io: tanti anni di battaglie politiche comuni.

l’Unità 15.1.12
Immigrati, ora cambiare politica
L’Italia deve valorizzare il capitale umano e sociale degli stranieri se punta alla crescita e allo sviluppo
Il centrodestra ha agitato solo paura e molte sono le norme da abrogare: una riforma condivisa è possibile
di Livia Turco


C’è bisogno di un cambio di passo sul tema dell immigrazione. Per valorizzare il capitale umano e sociale degli immigrati considerandolo un ingrediente prezioso per lo sviluppo e la crescita del Paese; per costruire una alleanza tra italiani e immigrati attorno ad obiettivi condivisi; per considerare l’immigrazione non più lo scalpo agitato per aizzare contrasti e rancori nel Paese ma bene comune da condividere per costruire insieme un nuovo
cammino per l’Italia e l’Europa. Questo cambio di passo deve proporlo la politica perché è ampliamente dimostrato che il modo con cui la politica parla e agisce sull’immigrazione influenza il Paese e determina la percezione che esso ha del problema. La politica con il centrodestra ha alimentato paure, ha inventato problemi che non c’erano, ha creato stereotipi ed immagini prive di fondamento e non ha risolto i problemi. Ora bisogna risolvere i problemi guardando la realtà, dicendo la verità ed avendo la capacità di valorizzare le risorse morali, civili e professionali che esistono nel profondo del nostro Paese. Guardiamo, ad esempio, al modo con cui la comunità senegalese e quella cinese e tutta la popolazione degli immigrati ha reagito di fronte alle efferate uccisioni dei loro cari avvenute a Firenze e Roma.
Sono stati composti, rispettosi, hanno chiesto sicurezza e rispetto della loro dignità. Hanno dimostrato di sentire l’Italia non solo come il Paese in cui sono costretti a lavorare ma il Paese che li ospita, a cui devono rispetto e di cui si sentono parte. Bisogna considerare i problemi dell’immigrazione come parte integrante dell’agenda del Paese, della sua proposta per lo sviluppo, il lavoro, la formazione, la promozione della legalità.
Per questo è urgente un cambio di passo della politica. Da compiere subito in Parlamento, in relazione con le forze sociali ed economiche definendo una agenda comune ed inaugurando finalmente una politica bipartisan. Può sembrare uno scherzo, uno scandalo o una ingenuità parlare di una politica bipartisan sull’immigrazione. So bene le profonde e radicali differenze che sono esistite ed esistono tra noi e il centrodestra e quando torneremo a governare dovremo abrogare molte nor-
me della loro legislazione e costruire una nuova riforma, una nuova legge quadro sull immigrazione. Ma la chiarezza dell alternativa non dovrebbe oscurare il fatto che l’ormai ventennale governo dell’immigrazione ha messo in evidenza ricette efficaci senza le quali non si governa nulla, né da destra né da sinistra. Non si governa senza gli accordi bilaterali, senza il canale aperto dell’ingresso regolare, senza umanità e generosità senza le politiche di cooperazione.
Ecco i punti di una agenda comune:
Risolvere la questione dei profughi tunisini e libici. Bisogna concludere la fase dell’emergenza e prevedere un loro inserimento nel tessuto sociale e lavorativo come per altro è avvenuto in realtà come la Toscana, Emilia e Veneto. Bisogna applicare la direttiva europea sui rimpatri assistiti in accordo con le autorità libiche e tunisine all’interno di accordi bilaterali che prevedano ingressi regolari e sostegni allo sviluppo in loco.
Intervenire sulle situazioni di grave sfruttamento del lavoro come ci ricordano Rosarno e Castelvolturno. La strada è quella della regolarizzazione mirata, estendendo la norma prevista per il lavoro domestico e famigliare a nuove categorie di lavoratori dove è stratificato il grave sfruttamento connesso alla irregolarità. A questo proposito il governo deve recepire la direttiva europea contro l’impiego di manodopera irregolare e che prevede degli obblighi per i datori di lavoro e la possibilità per i lavoratori stranieri che denunciano di ottenere un permesso di soggiorno (ce/52/2009); deve applicare e migliorare la normativa che introduce il reato di caporalato (art. 12 legge 148/2011). Estendere da sei mesi ad almeno un anno il tempo per la ricerca di un lavoro.
Favorire i processi di integrazione estendendo la promozione dei corsi di lingua italiana e consentendo anche ai giovani l’ingresso nel servizio civile così come sollecitato da una recente sentenza del Tribunale di Milano; semplificando le procedure per ridurre i tempi per il rinnovo del permesso di soggiorno e per il ricongiungimento famigliare; sostenendo anche con risorse adeguate le politiche di integrazione dei comuni con particolare attenzione al problema dei rom.
Sarebbe un messaggio di umanità, saggezza e speranza se il Parlamento scrivesse ed approvasse con il contributo di tutte le forze politiche una norma, un solo articolo, che dica che chi nasce in Italia figli di immigrati che hanno un progetto di integrazione nel nostro Paese, sono italiani.

l’Unità 15.1.12
Paolo Rossi, una vita nel segno del tempo
È morto uno dei più importanti studiosi italiani della storia e della filosofia della scienza del dopoguerra. Fu allievo di Garin ma con gli anni si allontanò dalle sue idee e rimise in discussione i modelli interpretativi del Rinascimento
di Michele Ciliberto


Si è spento ieri, all’età di 89 anni, Paolo Rossi il nostro maggior studioso di storia della cultura scientifica. Era nato a Urbino nel 1923. Oggi tra le 14 e le 19 la salma sarà esposta nella sua abitazione fiorentina. La cerimonia funebre avrà luogo domani a Città di Castello (Perugia), città dove ha insegnato al Liceo Classico. «Stava scrivendo ha detto il suo allievo Alessandro Pagnini una raccolta di saggi e memorie già edite con una parte nuova che doveva completare». Allievo di Eugenio Garin a Firenze, insegnò Storia della filosofia all’università di Milano, e dal ’66 a Firenze dove è rimasto sino al 1999, diventando poi professore emerito.
Non credo mi facciano velo la lunga amicizia, e il profondo affetto che mi ha legato alla sua persona, ma credo di poter dire con sufficiente obiettività che Paolo Rossi è stato una delle maggiori personalità della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo. Non solo, voglio precisare, italiana: le sue opere più importanti sono state tradotte in molte lingue ed hanno avuto un effetto assai rilevante nello sviluppo della ricerca in Italia e nel mondo sul pensiero filosofico e scientifico moderno il punto centrale della sua ricerca fino agli ultimi giorni di vita. Ne sono una testimonianza precisa i numerosi riconoscimenti che ha avuto anche sul piano internazionale: nel 1985 la medaglia George Sartom per la Storia della scienza e da ultimo, nel 2009, il premio Balzan, il massimo riconoscimento per il suo impegno di studioso e di maestro di molte generazioni.
Paolo Rossi era nato ad Urbino nel 1923, figlio di Mario Rossi un valoroso studioso di Dante e aveva studiato a Firenze con Eugenio Garin laureandosi con una tesi sulla filosofia italiana contemporanea; ma si era rapidamente spostato verso il pensiero moderno prima con un lavoro su Giacomo Aconcio, poi con un libro fondamentale tradotto anche in inglese su Francesco Bacone (il suo «autore»), pubblicato nel 1957 dalla Casa Editrice Laterza al quale nel 1960 fece seguito un libro altrettanto fondamentale e come il Bacone tradotto in molte lingue : Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz.
Quale fosse il suo debito verso il maestro con cui si era formato è dichiarato in modo esplicito fin dalle prime pagine di questo ultimo libro: «Chi abbia familiare la letteratura sul Rinascimento vedrà chiaramente scrive quanto questo libro debba alle ricerche di Eugenio Garin...». Era una constatazione  obiettiva; sia il libro su Bacone che la Clavis si inserivano, con una nota originale, nel profondo ripensamento dell’Umanesimo e del Rinascimento che si realizza in Italia lungo gli anni Cinquanta. Mi limito a citare solamente tre testi assai caratteristici: Testi umanistici sulla retorica (1953); Testi umanistici su l’ermetismo (1955); Umanesimo e simbolismo (1958), tutti e tre promossi dall ’ «Archivio di filosofia», tutti e tre destinati ad aprire nuove piste, poi sviluppate da studiosi di prima grandezza come Frances A. Yates.
Attraverso l’analisi e la discussione di testi essenziali, Garin e la prima generazione dei suoi allievi elaborarono una nuova interpretazione del Rinascimento italiano ed europeo, rimettendo a fuoco in modi nuovi o per la prima volta i rapporti tra logica e retorica; l’incidenza delle problematiche magiche e astrologiche nel Quattro-Cinquecento; il valore e il peso dell’arte della memoria e delle tematiche lulliane nella costruzione delle più importanti filosofie rinascimentali.
Né c’è dubbio che Paolo Rossi sia stato, con Cesare Vasoli, uno dei massimi artefici di questa impresa: la Clavis universalis ora citata fu il risultato alto e originale di un lavoro decennale e di una radicale rimessa in discussione di quelli che erano stati i modelli interpretativi del Rinascimento dalla seconda meta dell’Ottocento e lungo la prima metà del Novecento, destinata a dare frutti decisivi nella concezione della genesi del «mondo moderno» e dei suoi caratteri costitutivi.
IL DISTACCO DAL MAESTRO
Fu proprio su questo punto che si aprì, con gli anni, un distacco ed anche un contrasto assai forte e netto fra Rossi e Garin, destinato a riverberarsi anche nella interpretazione di pensatori di primo piano come Gianbattista Vico. Il punto principale del dissenso fu illuminato con chiarezza dallo stesso Rossi nella Introduzione per la nuova edizione del Bacone nel 1974: «Col passare degli anni scrisse si è fatta in me più forte la convinzione che illuminare la genesi non solo complicata, ma spesso assai torbida di alcune idee “moderne” sia altra cosa dal credere di poter annullare o integralmente risolvere queste idee nella loro genesi». Non si trattava solo di un discorso di metodo: al fondo, quello che Rossi aveva ormai messo a fuoco e intendeva collocare al centro di tutto il suo lavoro era la differenza strutturale tra «mondo moderno» e «mondo dei maghi» cui apparteneva, ad esempio, un personaggio come Giordano Bruno, denotata da elementi essenziali fra cui spiccavano la dimensione «pubblica» del sapere scientifico moderno rispetto a quella «segreta e iniziatica» del sapere rinascimentale o il principio dell’«eguaglianza delle intelligenze» quale tratto fondamentale della «modernità». E su questa base , Rossi aveva elaborato una nuova «periodizzazione» imperniata sui grandi protagonisti della rivoluzione scientifica moderna da Copernico a Newton. In altre parole, Rossi negli anni Settanta si era distaccato, una volta per tutte, da quelle tesi che, sulla scia di Cantimori, insistevano sulla «continuità» delle «idee» fra Quattrocento e Settecento sottolineando, per contrasto, la originalità della «ragione» classica moderna e la sua radicale, e insuperabile, differenza con il Rinascimento.
Da queste tesi Rossi non si sarebbe mai più allontanato, anzi le avrebbe sviluppate in lavori che oggi sono dei classici (mi limito a citare I segni del tempo,1979), nel vivo di una ricerca che, risalendo dal passato, prendeva posizione nel presente contrapponendosi in modo frontale alle derive «irrazionalistiche» contemporanee e difendendo, in modo intransigente, l’eredità e le conquiste della «ragione» moderna. Ma e qui sta uno dei suoi tratti più originali Rossi ha svolto questa battaglia tenendo sempre fermo due principi: la consapevolezza che non bisogna ridurre il «passato» al «presente» perché il passato è «un altro presente»; la necessità di confrontarsi con i punti più alti del pensiero contemporaneo da Freud a De Martino senza mai rinchiudersi in una difesa passiva della «tradizione», di qualunque tipo essa sia.
Anzi, se si volesse segnalare il tratto più specifico della sua personalità, si potrebbe individuarlo nella inesausta curiosità, nell’inesauribile interesse per il mondo: quella curiosità, quell’ interesse che lo spingevano a guardare sempre avanti pensando a nuovi lavori, a nuovi libri fino agli ultimi momenti della sua vita bella e gloriosa.

l’Unità 15.1.12
Il tempo al festival delle scienze
di Cristiana Pulcinelli


Che cosa è il tempo? A domandarselo nel corso dei secoli sono stati in molti: filosofi, scienziati, psicologi. E in molti hanno cercato di rispondere. Tra gli altri, anche Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, che diceva: «Il tempo è ciò che accade quando non accade nient’altro». La citazione di Feynman è stata scelta come motto della settima edizione del festival delle scienze che si svolge all’Auditorium Parco della musica di Roma dal 19 al 22 gennaio. Ieri al Campidoglio è stato presentato il fitto programma di quest’anno, incentrato, appunto, sul tempo. A dominare giorni saranno le domande insolute, come: futuro e il passato sono reali come il presente? Passa il tempo quando nulla cambia? È possibile viaggiare nel tempo? Esisteva il tempo prima del Big Bang? Quali meccanismi neuronali spiegano la nostra esperienza del tempo?
GLI OSPITI
Per cercare di rispondere sono stati chiamati scienziati di fama, come l’antropologo Ian Tattersal che parlerà del tempo profondo dell’evoluzione, Julian Barbour, fisico britannico che ha teorizzato che, in realtà, il tempo non esiste affatto. John Richard Gott III, professore di astrofisica all’Università di Princeton che nel ’91 teorizzò la possibilità di creare una macchina del tempo basata sulle corde cosmiche. Peter Ludlow, professore di filosofia alla Northwestern University, che nei suoi studi spazia dalla linguistica al cyberspazio. Carlo Rovelli, fisico che ha teorizzato la «gravitazione quantistica a loop».
Inaugura il programma di conferenze, giovedì 19 gennaio alle 19 in Sala Petrassi, l’astrofisico e poeta francese Jean Pierre Luminet, esperto di cosmologia e buchi neri e autore di testi come L’invenzione del Big Bang. Storia dell’origine dell’Universo (Dedalo, 2006) e di La parrucca di Newton (La Lepre edizioni, 2011). Accanto alle conferenze, laboratori per ragazzi, performance, mostre e video concerti. Il festival è prodotto dalla Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con «Codice. Idee per la Cultura». Il programma completo su http://www. auditorium.com/eventi/festival.

Repubblica 15.1.12
Non toccate il nome di Pound
di Lawrence Ferlinghetti


Esprimo il mio sostegno alla figlia di Ezra Pound, Mary de Rachewiltz, nella sua causa legale contro il gruppo di estrema destra Casa Pound per la diffamazione del padre, autore dei famosi "Cantos" e di altre opere poetiche.
Essendo Ebreo Sefardita (per parte materna) condanno naturalmente Ezra Pound per il suo violento e deprecabile antisemitismo. Un girone specifico dell´Inferno è destinato agli anti-semiti.
Sebbene Pound trasmettesse dalla stazione fascista Radio Roma durante la Seconda Guerra Mondiale, egli era dopo tutto un attivista contrario alla guerra che condannava Wall Street per usura - elemento che riteneva essere causa diretta della guerra. Per questa ragione, Pound avrebbe condiviso la causa del movimento odierno Occupy Wall Street (sebbene il Movimento avrebbe potuto non accettarlo).
In ogni caso, sostengo la causa legale contro Casa Pound. Ogni persona istruita deve condannare questi gruppi dell´odio. Non c´è posto nella nostra civiltà per tali barbari.
(Poeta e artista americano, Ferlinghetti è uno degli esponenti più noti della Beat generation)

Repubblica 15.1.12
Caso Vattani, pressing sulla Farnesina
I sindacati: “L’apologia di fascismo va punita". No comment del ministro Terzi
"Visti i dettagli di quel concerto nazi-rock, si capisce che non si potrà far finta di nulla"
di Vincenzo Nigro


ROMA - I tempi della giustizia amministrativa sono troppo lunghi rispetto all´urgenza politica del caso-Vattani. E soprattutto, come dice un diplomatico, «il carattere "tecnico" del ministro degli Esteri fa credere che una soluzione burocratico-amministrativa possa essere costruita per insabbiare il caso del console italiano ad Osaka».
Il caso è esploso a fine d´anno, quando su Internet ha iniziato a girare il video del console Mario Vattani, 45 anni, figlio dell´ex segretario generale della Farnesina Umberto, che canta una canzone fascista a un festival di "Casa Pound" a Roma. Ieri il ministro Giulio Terzi, fino a poche settimane fa ambasciatore a Washington, ha deciso di non rispondere a una richiesta di commento fattagli da Repubblica. Un suo portavoce ha rimandato al comunicato del 12 gennaio, «in quel comunicato firmato dal segretario generale del ministero Massolo c´è già tutto, i modi in cui è stata avviata la procedura disciplinare e la forte determinazione del ministro Terzi ad esaminare il caso».
«Noi crediamo che non possa esserci nessuna sottovalutazione politica di questa storia», dice Maria Assunta Accili, segretaria del Sindmae, il più importante sindacato dei diplomatici. «I diplomatici italiani hanno giurato sulla Costituzione della Repubblica italiana, e questa è la Repubblica che serviamo: i segnali di Terzi sono importanti». Il Sindmae non è un sindacato di "sinistra", è l´organizzazione al cui interno anzi sono sempre stati rappresentati soprattutto funzionari di orientamento politico moderato. Ma la Accili ripete che «la gravità di un comportamento che risultasse riconducibile all´apologia di fascismo in luogo pubblico da parte di un alto funzionario dello Stato è tale da non poter essere minimizzata né tralasciata».
Molti diplomatici credono che nella gestione del caso Vattani da parte del ministero possa giocare un ruolo anche il timore della capacità di manovra del padre Umberto. «Ma più rileggiamo i dettagli di quel concerto e delle connessioni con i gruppi neo-fascisti di Mario Vattani e più capiamo che non sarà possibile far finta di nulla», dice un ambasciatore. In effetti i testi delle canzoni e degli interventi di Vattani hanno un contenuto eversivo da brividi. Innanzitutto l´apologia della Repubblica di Salò, in antitesi alla «Repubblica degli epuratori» (la Repubblica italiana, ndr). Ma poi l´esaltazione della violenza, dello scontro fisico con gli avversari politici: «Siamo tornati con Matteo e con Sergio/vicino ai cessi c´era il bastardo che mi aveva aggredito. L´abbiamo messo per terra/ cercava di scappare/ gli ho dato tanti di quei calci ed era tanta la rabbia/ che mi sono quasi storto una caviglia». Questo è il rock del console Vattani.

Repubblica 15.1.12
La biblioteca di Borges
Note a margine sulla mia Babele
di Maurizio Ferraris


Buenos Aires. La Biblioteca Nazionale di Buenos Aires non è più quella che aveva conosciuto Jorge-Luis Borges (1899-1986) a Calle México, nel quartiere di San Telmo. È un edificio moderno nel quartiere della Recoleta che ricorda vagamente il bunker antiaereo dello zoo di Berlino, e ha vicende poco meno militari, giacché il terreno su cui sorge era quello della residenza di Perón, distrutta insieme ad altre vestigia del regime dopo il 1955. Dopo varie vicissitudini, fu alla fine inaugurata nel 1992 da Carlos Menem, quello che gli argentini chiamavano El Turco, trasformandolo a tutti gli effetti nel personaggio di una novella di Borges. Così come borgesiana è non solo la grande biblioteca, prefigurazione della Biblioteca di Babele, ma anche la storia che ho appreso girando per la biblioteca.

Borges ha diretto la Biblioteca dal 1955 al 1973, nominato alla caduta di Perón, di cui era un fermo antipatizzante, e dimissionato subito dopo il ritorno del generalissimo. Aveva scritto una poesia quando ricevette la nomina, in cui ironizzava sull´ironia di Dio che aveva pensato di dargli, insieme, una miriade di libri e la cecità. Non è la sola ironia, perché per cacciarlo si sostenne che ne aveva rubati. Perciò, prima di andarsene, convocò uno scrivano che constatò la proprietà e fece la lista delle opere che dovevano essere ritirate dall´ufficio, perché appartenevano a Borges che le aveva portate lì per controllare i riferimenti delle sue Opere complete, pubblicate durante la sua direzione, e per altri lavori del periodo (ad esempio il Manuale di zoologia fantastica, del 1957). Dei libri di sua proprietà ne lasciò un migliaio alla Biblioteca, perché Borges non rubava libri, ma compiva l´azione simmetrica, regalandoli. A casa non ne teneva più di millecinquecento, molti li dava ad amici per far spazio a nuove letture, e giunse sino ad abbandonare pacchi di libri nei caffè. Gli impiegati, peronisti, non si diedero molto da fare per timbrare come «fondo Borges» e classificare questi libri (che si riconoscono perché sul frontespizio c´è la firma di Borges e la data in cui li aveva comprati), che si dispersero come aghi in un pagliaio di novecentomila volumi.
Due giovani ricercatori, Laura Rosato e Germán Álvarez, impiegati nella Biblioteca, con un lavoro di dieci anni li hanno recuperati. Il risultato è un grande catalogo: Borges, libros y lecturas raccoglie cinquecento titoli, gli altri, per il momento non pubblicati, sono o doni di scrittori amici o libri che richiedevano lavori di restauro. Per ritrovarli nel pagliaio il trucco è stato, in un autore così iper-letterato come Borges, partire dalle sue opere, guardare le fonti che citava, e di lì appunto andare a frugare. Poi, da un libro si trovavano gli altri, visto che ogni libro rinviava ad altri libri, come Pollicino. Abbiamo così le letture (e soprattutto le riletture) di Borges come ce le darebbe la cronologia dei siti consultati dal nostro computer ma in modo molto più selettivo e sulla distanza cronologica di trent´anni e più. Come in un Web cartaceo Borges mette in dialogo autori disparati, con un sistema di rimandi: "Cf.", "vide" (dove si amplia il concetto segnato), ma anche il "sed contra", dove si crea l´opposizione. Questo leggere scrivendo, e scrivere leggendo, non ha niente di sistematico. Borges è per sua ammissione un lettore edonista. Si fa guidare dal principio di piacere, che però molto spesso lo porta più ai saggi che non alla letteratura.
Ci sono letture filosofiche: da Anselmo d´Aosta che lo attrae per la prova ontologica, al libro della Anscombe su Wittgenstein a quello di Augusto Guzzo su Giordano Bruno; Gentile sul pensiero del Rinascimento italiano, Nietzsche (le Considerazioni inattuali) e soprattutto l´amatissimo Schopenhauer. Il che non sorprende per un autore che considerava la filosofia un ramo della letteratura fantastica. Ma c´è anche il libro di Samuel Butler sui santuari del Piemonte e del Canton Ticino, quello di Houston Stewart Chamberlain (l´autore amatissimo da Wagner e da Hitler) su Goethe, quello di Max Brod su Kafka, e Jung e Hume, Plutarco e Poe, Strindberg e Tasso. Più una molteplicità di anonimi, di compilazioni, di minori. Molto Croce, ma soprattutto sulla letteratura (Ariosto, Carducci...), le saghe nordiche e quelle orientali e la letteratura secondaria sull´argomento, e, sopra tutti, l´amatissimo Dante, in molte edizioni e commenti.
Generalmente nella lingua originale dei libri (Borges leggeva oltre che in spagnolo in italiano, francese, tedesco, inglese e latino), le annotazioni non invadono mai il testo e consistono in un riuso giudizioso di quello che Gérard Genette ha chiamato «paratesto», giacché si trovano sul frontespizio o alla fine del libro, e raramente sulla copertina, come in una edizione tascabile dell´Amleto. Sono in gran parte nello stampatello minuscolo, le lettere "come formiche" che Borges elesse come la propria grafìa. E dopo il 1954 e la cecità la scrittura è quella della madre Leonor Acevedo de Borges, che vediamo fotografata sulla copertina del catalogo mentre scrive e postilla per il figlio nell´appartamento di calle Maipú 994. Le annotazioni sono in apparenza impersonali, e consistono molto spesso nella scelta di espressioni, proprio come nei taccuini che Erasmo raccomandava di tenere ai suoi discepoli. Ma proprio nella loro impersonalità catturano l´identità di Borges. Lui è quei libri e quelle citazioni ne definiscono l´originalità. Lui è quel compendio incarnato.
In qualche caso, però, la pagina diventa lo spazio su cui elaborare progetti di libri a venire. Come per esempio quando nel frontespizio di un libro tedesco di occultismo troviamo il progetto di un saggio che avrebbe dovuto uscire dopo la Storia dell´eternità (1936), e che si troverà in parte in altre raccolte, soprattutto in Altre inquisizioni (1952). A volte invece nei frontespizi o in fondo ai libri Borges lascia tracce delle sue amicizie, per esempio The Principles of Mathematics di Russell, in cui scrive che è «regalo di Bioy Casares» (che sempre Borges considerò come il suo tutore logico), o degli amori, come quando annota la data di un appuntamento con Estela Canto al fondo di un´edizione dell´Inferno di Dante, oppure ancora della vita pubblica, quando nel frontespizio della Vita di Schopenhauer di Wilhelm Gwinner troviamo la lista delle sue conferenze tra il 1949 e il 1952.
In un caso, poi, il libro diviene il supporto per una poesia rimasta inedita sino a oggi. Si tratta dell´ultima pagina del quarto volume del libro del teologo Christian Walch sulle eresie e le lotte religiose dopo la Riforma (1773, undici volumi) comprata durante il soggiorno europeo. La poesia data 11 dicembre 1923, poco prima della partenza dall´Europa, e sembra contenere ironicamente il giovane Borges, che si lascia andare ai sentimenti, il Borges maturo, poco incline a esprimerli, ma appassionato di eretici, catari e guerre di religione, e soprattutto il Borges che ci ha raccontato come i libri nascano da altri libri, e l´immediatezza sia il frutto della mediazione:
la speranza/ come un corpo di ragazza/ ancora misterioso e tacito./ ancora non amato di amore/ e una chitarra che appassionatamente muore e con sollievo/ dolorosa risorge/ e il cielo sta vivendo un plenilunio/ con il rimorso e la vergogna della/ insoddisfatta speranza e di non essere felici

Repubblica 15.1.11
Io, Plutarco e Schopenhauer perduti su un´isola deserta
di Jorge Luis Borges


Non è imprudente supporre che arriverà il giorno in cui qualche giornale divulgherà la seguente domanda: quali sono i tre libri che lei si porterebbe su un´isola deserta?, seguita da un´infinità di risposte più o meno ternarie. André Gide ha confessato di amare questo gioco e ha ripubblicato alcuni dei suoi cataloghi - eminenti cataloghi ragionati, dove non si trovano solamente i nomi, ma anche il perché di ogni predilezione... Io ho provato a fare quel gioco più di una volta, con caratteri di corpo diverso, e ho preso a tal punto l´abitudine a quelle triplici ripartizioni di gloria che in mancanza di un altro che mi inviti a farlo, mi ci invito da solo.
Comincio con un dubbio che non ha nulla di terribile: il numero 3, sta a significare 3 titoli o 3 tomi?
Nel primo caso, penso (diremo) ai trenta e passa volumi dell´Encyclopedia Britannica, ai tre del Dizionario di Filosofia di Mauthner, e alle opere complete di Schopenhauer, di Butler o di Shaw.
O (se preferite) ai sei volumi di Decadenza e caduta dell´Impero romano di Gibbon, alle opere complete di De Quincey o di Edgar Allan Poe, e ai Saggi di Michel de Montaigne. Ma è un inutile raggiro imbastire di queste liste. La drammaticità di questa domanda e le frugali circostanze di Robinson sembrano respingerle. Lo spettacolo di un naufrago su un´isola non si addice alla Biblioteca del Vaticano o ai 386 volumi del Patrologiae cursus completus di Padre Migne. Tre libri vuol dire tre tomi: deve volerlo dire.
Fatto un chiarimento, conviene procedere a un secondo, non meno assiomatico. Parlare dei tre libri che uno si porterebbe su un´isola deserta, non significa parlare dei tre libri più importanti dell´universo e nemmeno dei tre libri più memorabili nell´esperienza personale. Né la storia generale della stirpe né la biografia dell´individuo sono in gioco. L´importanza del Corano è indiscutibile, ma l´inferno promesso nelle sue pagine è meno atroce di un´isoletta senz´altra biblioteca se non un esemplare del Corano. Il Martín Fierro è ammirevole, ma lo so quasi a memoria, e poi a che serve portarsi un volume già assimilato, già consustanziale con il mio spirito?
In questi cataloghi di tre libri per tutta la vita c´è l´usanza di includere qualche famoso romanzo o qualche libro di versi. Quelli che fanno così non si sono immaginati il terrore e la solitudine dei giorni uguali di Robinson. Per quel tragico uomo in isolamento nulla è pericoloso quanto il ricordo. Libri di passione, libri di rapporti umani, non otterrebbero altro che farlo disperare. Niente libri che implichino il rapporto uomo-uomini; unicamente libri che implichino il rapporto uomo-Dio, uomo-numeri, uomo-Universo. Niente libri che si lascino leggere facilmente e subito si esauriscano; unicamente libri che è necessario conquistare poco a poco e che possono popolare gli anni identici.
Propongo finalmente questa lista:
1) Un libro matematico (forse la Introduzione alla filosofia matematica di Bertrand Russell, o altrimenti qualche buon testo di algebra, con molti esercizi).
2) Un libro metafisico (forse Il mondo come volontà e rappresentazione di Arturo Schopenhauer).
3) Un libro di storia sufficientemente remota (forse Plutarco, forse Gibbon, forse Tacito).
Traduzione di Luis E. Moriones
Ha collaborato Francesca Caruso
Il manoscritto La biblioteca di Robinson Crusoe di è stato fornito dall´Harry Ransom Center, centro di ricerca per gli studi umanistici dell´Università del Texas. Nato nel 1957, il centro colleziona diversi
manoscritti originali di scrittori: da James Joyce ad Arthur Miller

Repubblica 15.1.12
Piazza e Web
Aleksej Navalnyj, una giornata da dissidente
di Nicola Lombardozzi


Trentasei anni, alto, biondo, sempre elegante Con il suo blog è diventato il nemico del Cremlino e il leader della Primavera russa Lo abbiamo incontrato: "Non ho paura", dice, "i gulag non esistono più"
"L´America è affascinante, ma dopo Yale inizio ad apprezzare la mia gente"
"Abbiamo lo spirito di un´azienda. C´è richiesta di verità: noi dobbiamo produrla"
"Sì, mi hanno messo in prigione per due settimane, ma è stata quasi una vacanza"

Mosca. Il dissidente più famoso di Russia va in ufficio di buon mattino. Passa la giornata al computer e poi beve una birra con gli amici. La sera resta spesso in casa a guardare i Simpson in tv con la moglie e i due figli. Non ha paura, o fa finta di non averne. Lo hanno messo in carcere per quindici giorni, «ma è stata quasi una vacanza», passata a giocare a carte e a mangiare tavolette di cioccolata. I militanti gliene hanno spedito quasi sette chili. «Ragazzi affettuosi ma con poca fantasia, nessuno che abbia mandato un salame o qualche panino al tonno». Per il resto gira per Mosca senza precauzioni particolari. «In autobus vedo che non mi riconosce proprio nessuno. Ogni tanto è arrivata qualche minaccia ma non è mai successo niente. Temevo che mi bucassero le gomme dell´auto. Nemmeno quello».
Gioca un po´ Aleksej Navalnyj, avvocato di trentasei anni, capelli biondi a spazzola, occhi blu e aria eternamente finto-imbarazzata. Sa bene di essere il leader naturale della cosiddetta Primavera di Mosca e il primo nella lista non scritta dei nemici del Cremlino. Gli fa piacere essere finito sulle copertine di Time e di Esquire, di essere invocato da mille blogger come il futuro presidente del Paese. Ma ha ben chiaro che tutta la forza del suo personaggio consiste proprio in quell´aria normale, da cittadino qualunque senza boria e senza etichette politiche. Il tutto ben completato dal suo fisico da ragazzone impacciato con le braccia decisamente troppo lunghe: «Non riesco mai a trovare una giacca della misura giusta». Alle giacche, e ai vestiti in genere, ci tiene. Giubbotto di Abercrombie su scarpe da trekking la sera, grigio cappotto di cachemire e sciarpina inglese la mattina. Anche nelle manifestazioni di piazza lo abbiamo visto sfoggiare un look personalizzato e molto curato. Lui dice che non c´è niente di male e soprattutto insiste che i tempi sono cambiati, che non ha senso fare confronti con i dissidenti sotto il regime sovietico. «Era una società molto più povera e c´era un potere molto più violento. Qui non credo che nessuno di noi rischi di essere eliminato o di finire in un gulag». E se provi a citare il caso di Mikhail Khodorkovskij in carcere da anni con accuse palesemente inventate, precisa: «Lui è un oligarca, che voleva fare politica. Un caso di regolamento di conti interno. Quelli come me denunciano tutto quello che non va. E possiamo documentarlo, abbiamo le carte. Per questo è difficile farci star zitti».
Basso profilo apparente e ostentata sicurezza. La "strategia Navalnyj" è tutta qui. La vedi fisicamente riprodotta nel suo ufficio di via Letnikovskaja. Un vecchio palazzo restaurato al ridosso delll´Anello dei Giardini che contiene il centro della capitale. Navalnyj fissa lo schermo con le gambe allungate sul tavolo che da questa parti è considerata un´abitudine «molto americana». Il tavolo è grande e ha dodici sedie che evocano immagini di lunghe, democratiche, riunioni operative. In realtà restano spesso vuote perché l´uomo è un decisionista che, qualche volta, diventa perfino un po´ autoritario. Ma i suoi lo amano e gli perdonano tutto come da copione in tutti i ritratti dei grandi leader. L´ufficio, in affitto, è sede della sua creatura, il sito internet RosPil, un acronimo che sta per «segatura di Russia» dove il termine «segatura» si riferisce a un´espressione gergale che si potrebbe tradurre in «ruberie ai danni dello Stato». È stata la chiave del suo successo e adesso è alla base della sua strategia futura.
Tutto cominciò con la Svizzera. Un giovanissimo Navalnyj figlio di un benestante ex ufficiale dell´Armata Rossa aveva piccole quote azionarie di colossi a partecipazione statale Vtb, Rosneft e Gazprom. Roba insignificante ma il pedante neolaureato si interessava alle attività delle grandi aziende con l´entusiasmo di un grande finanziere. E con la competenza di un appassionato blogger con contatti e amicizie in tutto il mondo. Fu così che si scoprì l´esistenza a Ginevra di un´azienda, la Gunvor, di proprietà del miliardario Gennadj Tymchenko amico personale di Vladimir Putin. Tutte le transazioni di gas e petrolio venduto dalla Russia in Occidente passano, non si capisce bene perché, da Gunvor. Un sistema, nemmeno troppo nascosto, di drenare incassi destinati allo Stato russo e di dirottarli direttamente per altri misteriosi lidi. «Ma la cosa più sorprendente fu capire che quando ho messo le informazioni in Rete, la cosa interessava moltissima gente. Non solo gli azionisti di minoranza delle aziende statali, ma ogni tipo di cittadino onesto».
Nacque così RosPil. Ogni giorno da tre anni Navalnyj e la sua squadra mettono in Rete tutti gli investimenti di denaro pubblico decisi dal governo. Dai fondi per il restauro del Teatro Bolshoi a quelli per l´informatizzazione degli uffici o delle nuove reti stradali. E attendono che dalla Rete giungano segnalazioni, denunce, documenti. Dmitri Volov, avvocato; Konstantin Kalmikov, politologo e Lubov Fedeneva, esperta giurista, dai loro ufficetti a fianco alla stanza del capo, analizzano, verificano, pubblicizzano ogni irregolarità. «Il nostro è un vero e proprio studio legale che combatte la corruzione. Solo prove e documenti, altro che politica. Più gente capisce il marcio che c´è nel paese, più gente avrà voglia di scendere in piazza per mandare via questo governo». Un lavoro dunque, e anche redditizio. «È incredibile quanta gente ci mandi sottoscrizioni spontanee. Possiamo raccogliere anche centomila dollari in una settimana. Perché se continui a ripetere sempre e soltanto la verità prima o poi la gente ti crede e ha fiducia in te». Ed eccolo, finalmente, il segreto: «Bisogna avere lo spirito di un´azienda. In Russia c´è una altissima richiesta di verità. E noi dobbiamo continuare a produrla come fosse un qualsiasi prodotto industriale». Lo stesso vale per la contestazione montante, l´obiettivo è insistere, senza programmi futuri, tirando fuori il marcio e invocando il cambiamento. «Quando leggo interviste a oppositori di qualsiasi parte del mondo, vedo che la domanda più scontata è: cosa farebbe se fosse presidente? Ebbene, io non mi sono mai fatto questa domanda e continuo a non farmela. Non mi interessa chi cambierà le cose. Voglio solo che le cose cambino». Forse un po´ limitativo ma non è il momento per sfoggiare ambizioni presidenziali. La stampa filogovernativa ha già cominciato a demolire il personaggio: qualcuno dice che è al soldo degli americani, sottolineando un lontano stage di sei mesi a Yale sponsorizzato da un altro dissidente, lo scacchista Kasparov. Altri si lanciano in un complottismo vecchio stile teorizzando che potrebbe invece essere manovrato proprio dal Cremlino per guidare la rivolta ma tenendola a bada. Lui ci ride sopra. «Delle due calunnie preferisco la seconda perché mi sento profondamente patriottico. L´America è affascinante ma non mi riconosco proprio in quel modello. Anzi, quando sono tornato da Yale ho imparato ad apprezzare di più la mia gente, la cittadina militare di Butyn, vicino a Mosca, dove sono nato. Perfino le acque, ora radioattive, del fiume che scorre vicino a Cernobyl e dove passavo le vacanze estive ospite della nonna paterna. A modo mio rimango un po´ sovietico».
Ultima frase buttata lì per stupire. Come hanno stupito non poco le sue tirate nazionaliste che hanno turbato molti democratici del fronte della contestazione. «Il nazionalismo è importante. Se lotti contro la corruzione lo fai per il bene del tuo paese. Ma i fanatici non mi piacciono. Li frequento, li rispetto. Tutto qui». Anche con la religione cristiana ha un rapporto utilitaristico. «Ho capito quanto fosse importante leggendo Mosca-Petuskij di Venedikt Erofeev. Le note a pie´ di pagina mi facevano notare che tutte le citazioni illuminanti venivano dalla Bibbia. La Chiesa è fondamentale. Se non per la fede, certamente per l´immensa cultura che si porta dietro». E la vita del dissidente? «Una vita normale. Casa, ufficio, una straordinaria moglie-amica, due bambini che dicono che papà è un eroe. E un altro vantaggio impagabile: un lavoro che mi diverte moltissimo».

il Fatto 15.1.12
J. E. Hoover, che America è?
di Furio Colombo


Ci sono molte ragioni per discutere la figura di J. Edgar Hoover, dopo il film di Clint Eastwood. Un uomo ritroso e potente che per 48 anni è stato a capo del Federal Bureau of Investigation, che lui stesso aveva fondato e che ha diretto sotto otto diversi presidenti degli Stati Uniti, tenendo sempre saldamente il controllo della sicurezza americana in circostanze storiche e politiche profondamente diverse, da Harding a Roosevelt, da Kennedy a Nixon. La parola chiave, se si tenta una descrizione del personaggio, è “controllo”. Per Hoover significa “dominio assoluto” sulla vita e sugli eventi di quante più persone possibile, alle condizioni che lui stesso stabilisce da una posizione allo stesso tempo di estrema importanza e quasi invisibile. Ho vissuto in un’America segnata fortemente dalla figura e dalla persona di Hoover.
Ricordo uomini politici e figure pubbliche, costrette a tener conto di quel personaggio, indipendentemente dalla grandezza della loro immagine e dal prestigio del loro talento e della loro celebrità.
Mai incluso e mai escluso da ogni trama o sospetto, premiato per cose vistosamente non fatte e agente segreto di se stesso, era questo il J. Edgar Hoover che mi aspettavo di trovare nel film di Clint Eastwood e nella straordinaria interpretazione di Leonardo DiCaprio. Invece ho trovato un grande dramma di vita privata dove motivi interiori di tormento prevalgono di gran lunga sul più vasto scenario politico e pubblico che pochi personaggi di potere hanno avuto, mai per un tempo così lungo.
NELLA FIGURA potente, oscura, ingombrante che occupa così a lungo e con tanto peso la scena degli Usa, e dunque del mondo, che cosa c’è di unicamente, tipicamente americano, al punto d poter dire: ecco, questa è l’America?
Per esempio, l'ossessione del comunismo e quella dello “straniero” (e dunque dell’espulsione di presunti colpevoli anche a costo di revocare la cittadinanza) sono un’invenzione della sceneggiatura, una citazione dal vero o il tratto comune e tipico di una cultura?
Di certo Hoover rappresenta molta America (al punto da mostrare una lunga strada laterale che attraversa l’impero americano, lo rafforza ma non lo onora, da Sacco e Vanzetti a Guantanamo) e nega e divide un’America altrettanto grande, ovvero una accanita opposizione a Hoover, popolata di grandi americani, per un periodo così lungo da far pensare a un tratto congenito sull’uno e sull’altro versante, quello del potere ostinato e quello della instancabile difesa del diritto di libertà.
Il paradosso è questo (e il film di Clint Eastwood lo mostra appena): Hoover cerca potere e controllo.
E lo vuole assoluto, accanto, non dentro la democrazia, una sorta di terribile ruota di scorta. Percepisce il governo come debole e lontano. Vuole una polizia più agile e potente delle polizie dei singoli Stati che formano gli Stati Uniti d’America. Ma, con la costruzione di un’efficientissima FBI, fabbrica la macchina che garantirà la protezione dei diritti dei cittadini. Infatti le peggiori vessazioni dei diritti dei cittadini, come ha imparato presto la Lega Nord in Italia, si compiono nella periferia del sistema giuridico di un Paese. Nei piccoli centri americani nessuno e niente (tranne la violenza) avrebbe potuto porre fine all’arbitraria e crudele discriminazione razziale che segregava la popolazione afro-americana (allora si diceva “colored people”) e la confinava in un destino inferiore. Ma quando un governo federale (quello di John e Robert Kennedy) ha voluto cambiare il Paese e tagliare la strada al razzismo, ha avuto lo strumento adatto nella polizia federale che prende il posto dello sceriffo eletto in un luogo e votato per la continuazione del razzismo. E quando il movimento di Martin Luther King, detestato da Hoover che non vuole potere popolare, fa diventare legge “i diritti civili”, il nuovo ordine giuridico che va a sovrapporsi alle leggi precedenti, cancellando automaticamente le più odiose leggi razziali, ci vuole una polizia nazionale e federale per identificare e reprimere i reati contro i diritti delle persone.
TUTTO CIÒ non è avvenuto subito (contro il governatore Wallace dell’Alabama, Robert Kennedy ha minacciato l'invio di paracadutisti, nel 1962). Ma quando, dopo Hoover, il pestaggio selvaggio del giovane nero Rodney King, da parte di poliziotti di Los Angeles, ha provocato la rivolta e l’incendio della città (1992), Washington ha potuto usare la polizia federale per ridare fiducia ai cittadini, il Tribunale federale per processare i poliziotti locali e le truppe federali per ristabilire e mantenere l’ordine.
Qualcuno – Hoover – ha lavorato bene al fine esclusivo di avere autorità e creare potere al di fuori della democrazia. Qualcuno – Martin Luther King e Robert Kennedy – ha usato con abilità e bravura quello strumento per fare del processo democratico un territorio grande e protetto dei diritti di tutti, molto al di sopra di possibili arbitri e prepotenze dei poteri locali e chiamando l’opinione pubblica a testimone e sorvegliante dei diritti garantiti. Non è soltanto la narrazione di un lieto fine, ma un modo per mettere in evidenza ciò che vi è di tipicamente americano in questa storia: l’ostinazione democratica.