mercoledì 18 gennaio 2012

Corriere della Sera 18.1.12
Il messaggio di Cgil-Cisl-Uil
Sindacati all’unisono:
«Per tutelare i salari tassare i patrimoni»
di Enrico Marro


ROMA — Cgil, Cisl e Uil unite chiedono al governo Monti «un forte intervento a sostegno di salari, stipendi e pensioni» attraverso una «riduzione del carico fiscale» da finanziare con «una imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari» e con la lotta l'evasione e all'elusione fiscale. Il taglio delle tasse, sostengono i sindacati, oltre che rispondere a esigenze di equità, rilancerebbe la domanda interna, «indispensabile per far tornare a crescere la nostra economia».
Questa la ricetta che le confederazioni hanno scritto in un documento di 9 pagine approvato ieri dalle tre segreterie, che si sono riunite insieme per la prima volta dal 7 maggio 2008, quindi dopo quasi quattro anni di rottura. Oltre alla patrimoniale e a meno tasse sui lavoratori, i sindacati chiedono una netta modifica della riforma Fornero; la riduzione dei contratti precari e, implicitamente, la garanzia che l'articolo 18 sui licenziamenti non venga toccato; il potenziamento degli ammortizzatori sociali; che le liberalizzazioni non mettano in discussione i servizi universali delle poste e delle ferrovie.
Con questo documento i sindacati andranno al tavolo, insieme con le associazioni imprenditoriali, che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, convocherà per la fine della settimana o gli inizi della prossima. Un tavolo per discutere della riforma del mercato del lavoro, ma sul quale già si intravedono due questioni molto delicate. La prima, posta appunto dal documento di Cgil, Cisl e Uil, che chiede in sostanza una riscrittura della riforma delle pensioni. La seconda è quella dell'articolo 18 che aleggia fin dall'inizio sulla trattativa e che è stata rilanciata ieri dal presidente della Confindustria. «Ci siederemo al tavolo con senso di responsabilità, senza ideologie, senza dei no prima di sederci. Ci aspettiamo che i sindacati facciano la stessa cosa», ha detto Emma Marcegaglia. Aggiungendo che ci sono tre temi da affrontare: «La flessibilità in entrata, gli ammortizzatori sociali che siamo d'accordo si possano rafforzare e la flessibilità in uscita», che fuori dal gergo significa appunto l'articolo 18. Una questione che non può essere elusa, ha concluso Marcegaglia, perché «in linea con la Bce e con la Commissione europea dobbiamo modernizzare il nostro mercato anche su questo».
Immediata la replica della leader della Cgil: Susanna Camusso: «Il tema dell'articolo 18 non c'è». E un no secco è arrivato anche dal segretario della Cisl Raffaele Bonanni («bisogna sgombrare il campo da queste ideologie») e da quello della Uil, Luigi Angeletti. Ma sia Fornero sia lo stesso presidente del Consiglio, Mario Monti, hanno più volte detto che nella discussione non può esserci il tabù dell'articolo 18. I sindacati sanno però di poter contare sull'appoggio del Pd. Lo stesso appoggio che hanno anche sulle pensioni, su questo pure da parte del Pdl.
Oggi la commissione Lavoro della Camera, dove ieri Cesare Damiano (Pd) ha svolto la relazione di maggioranza, consegnerà il parere sul decreto milleproroghe alla commissione Bilancio, raccomandando due modifiche della riforma delle pensioni: la prima per estendere ai lavoratori in esubero ricompresi negli accordi fino al 31 dicembre scorso (e non più al 4 dicembre) e a chi è rimasto senza pensione e senza stipendio la possibilità di andare in pensione con le vecchie regole e la seconda per togliere le penalizzazioni per chi lascia il lavoro prima dei 62 anni di età.
I sindacati chiedono anche di più, sostenendo che la riforma, al solo scopo di «fare cassa», ha un impatto «insostenibile e iniquo sulla struttura dei diritti previdenziali di milioni di persone senza nessuna gradualità». Ma il governo è disponibile solo a qualche modifica a favore di chi si è licenziato incentivato dall'azienda, in vista di andare in pensione, ed è rimasto «fregato» dall'improvviso aumento dei requisiti.

il Riformista 18.1.12
Pd: tensioni fra pro e contro la “maggioranza politica”
di Tommaso Labate


Due mozioni unitarie in due giorni. Tra l’altro su due dei dossier Europa e giustizia attorno a cui per quasi diciott’anni s’è combattuta la guerra tra berlusconiani e antiberlusconiani. Pdl e Pd stanno trasformando la maggioranza in «politica», come vorrebbe Casini? Enrico Letta sorride e sussurra: «Mi sa di sì...».

Il vicesegretario, insieme a Walter Veltroni, è uno degli esponenti del Pd che fin dall’inizio s’è battuto perché nascesse il governo Monti. Certo, senza il via libera di Pier Luigi Bersani l’operazione difficilmente sarebbe andata in porto. Ma un aspetto del dibattito interno al partito, anche se dalle dimissioni di Berlusconi sembra passata un’era geologica, rimane aperto: dentro il Pd c’è chi vorrebbe che la maggioranza fosse «politica» e chi, come il segretario, continua a respingere questa opzione.
Non è una questione puramente semantica, né un affare di second’ordine. Anche perché da questo nodo dipendono gli assetti di una nuova geografia politica che potrebbe nascere nel 2013. Alla domanda se il tridente Pdl-Pd-Terzo Polo marci spedito verso la grande coalizione testata anni fa in Germania, Letta risponde: «Il punto di partenza è decisamente differente da quello tedesco». Ma, aggiunge il numero due del Pd, «questa si sta connotando sempre più come una maggioranza politica, impegnata a salvare il Paese». Un modo come un altro per dire, come fa il suo braccio destro Francesco Boccia, che «stiamo assistendo a un radicale cambiamento nella politica italiana».
Il cambio di passo è evidente. Basta riavvolgere il nastro degli ultimi due giorni. Prima la mozione comune sull’Europa, con cui il tridente Alfano-Bersani-Casini garantirà a Mario Monti quella “copertura politica” che il presidente del Consiglio ha
chiesto prima dell’Eurogruppo del 30 gennaio. E poi, ieri, la risoluzione con cui l’attacco a tre punte PdlPd-Terzo Polo ha messo in sicurezza la relazione sulla giustizia del guardasigilli Paola Severino.
Fuori dal perimetro dei tre principali partiti della maggioranza, c’è Antonio Di Pietro che urla: «Noi siamo fuori da questa maggioranza assurda formata da Pdl, Pdl e Udc». E Nichi Vendola che lancia un messaggio a Bersani, parlando ai microfoni del Tg3: «Il Pd rilanci il Nuovo Ulivo, altrimenti non si capisce che cosa sia la sinistra». Certo, potrebbe essere la certificazione che la «foto di Vasto» è uscita da tutti i radar? Ma se fosse il segnale di una partita molto più importante?
E si ritorna tra le quattro mura del Pd. Dove l’ala più vicina alla Cgil comincia a temere, come dice dietro la garanzia dell’anonimato uno dei suoi esponenti principali, «che l’unanimismo attorno al governo Monti rischia di creare non pochi problemi alla trattativa sul mercato del lavoro». La sinistra del partito, insomma, teme che la luna di miele tra il Pd e il governo «renda semplice la partita di chi vuol accantonare l’articolo 18».
È il timore che fa pendant con uno degli «avvisi al navigante» che la triplice Cgil-Cisl-Uil ha inviato ieri sera all’esecutivo. Questo: «Se il governo introdurrà il tema dell’articolo 18 vorrà dire che non vuole il confronto con i sindacati. È un’ideologia al contrario, un giochino per non affrontare i veri problemi». E non è tutto: dai leader dei tre sindacati arriva l’esplicita richiesta a Monti perché cambi le linee di politica economica. La gravità della crisi, insistono Cgil Cisl e Uil, «impone un cambiamento della politica economica del governo», che è chiamato a «mettere in atto politiche che favoriscano la crescita e il lavoro».
Tra i bersaniani, però, c’è chi mostra un certo ottimismo. Matteo Orfini lo dice nettamente: «Questo governo è politico. Ed nato grazie alla più nobile delle scelte politiche: lasciare da parte il nostro interesse per provare a mettere in sicurezza l’Italia». Però, avverte il responsabile Cultura del Pd, «non possiamo dimenticare che il sindacato è tornato ad essere unito». E soprattutto, insiste, «non possiamo dimenticare che la maggioranza che sostiene il governo è formata da persone che la pensano diversamente. Questa formula di essere leali a Monti seppur con le nostre idee ci sta premiando anche nei sondaggi. Vediamo di non ab-
bandonarla...».

il Fatto 18.1.12
Il battesimo dei professori nell’inferno di Rosarno
Il ministro Riccardi tra i braccianti a due anni dalla rivolta
di Enrico Fierro


Rosarno due anni dopo la rivolta dei braccianti di colore e la caccia al nero. Una città che cerca di scrollarsi di dosso l’immagine di Soweto di Calabria. La strada è ancora lunga. Perché due anni dopo i problemi che incendiarono la rivolta sono ancora lì. Clementine e arance attirano migliaia di disperati alla ricerca del lavoro. Oggi sono 4 mila uomini, africani e braccianti dell’Est che affollano la Piana di Gioia Tauro. Ma l’oro giallo di queste terre vale meno di zero sui mercati. “Per un chilo di clementine i grossisti mi danno 15 centesimi, 5 per le arance da succo. Una miseria”. Piccoli coltivatori e grandi proprietari terrieri si lamentano allo stesso modo, ma continuano a produrre. E scaricano la loro crisi sui migranti ai quali offrono paghe da fame.
VENTICINQUE euro a testa, oppure un euro per ogni cassetta raccolta. Soldi ai quali va sottratta la mazzetta da dare al caporale, l’organizzatore delle braccia, spesso un africano o un bracciante dell’est che ha fatto carriera. Soldi pochi, condizioni di vita disperate in baraccopoli da dove anche i topi scappano, eppure la gente continua ad arrivare. “In un solo giorno – ci racconta don Pino De Masi, animatore di Libera nella Piana – nel paese di San Ferdinando sono arrivati dieci pullman con 500 tra bulgari e romeni”. Altre braccia che la mattina presto si offrono nella piazze dei paesi in attesa di un ingaggio che però non arriva per tutti. Chi non è fortunato vaga per tutto il giorno aspettando un’occasione. È questo l’inferno che ieri ha voluto vedere da vicino il ministro per l’Integrazione, Andrea Riccardi. “Perché governo tecnico – dice al cronista – vuol dire anche avere orecchie e occhi attenti alla realtà”. Il ministro entra nel campo di accoglienza organizzato dal Comune. Ci sono container con brandine e riscaldamento, docce e bagni chimici, un barlume di vita civile per 120 migranti. Una goccia nel mare. Per gli altri ci sono i ghetti. Quello della fabbrica Pomona, dove una volta si trasformavano gli agrumi, fa paura. Fango dappertutto, per dormire improvvisate tende fatte di plastica e legno. Non ci sono bagni, i bisogni si fanno dove capita. “È un ghetto indegno di un paese civile – dice il ministro –, si tratta di situazioni che abbiamo l’obbligo morale di rimuovere al più presto”. Ma basta spostarsi in quello che chiamano il “centro storico” della città per capire che l’inferno non finisce in una fabbrica abbandonata. Vico Esperia, via Posta Vecchia, case pericolanti, tufi sbriciolati dalla pioggia, sottoscala e cantine di pochi metri quadrati dove vivono in dieci, venti persone. Per letto materassi impregnati di sudicio e umidità per terra. Il professor Riccardi entra nei tuguri e parla con i migranti. Nessuno protesta più di tanto per le paghe basse o per le condizioni di vita, ma tutti chiedono una cosa sola: la carta, il permesso di soggiorno, il diritto di sentirsi cittadini. È il frutto di leggi assurde contro gli immigrati. Il ministro rifiuta la polemica: “L’integrazione va costruita, qui non si tratta di rivolgersi al passato per stracciarsi le vesti, ma di aprire una stagione diversa”.
IL SINDACO di Rosarno si chiama Elisabetta Tripodi, è stata eletta in una coalizione di centrosinistra, ha organizzato il campo da 120 posti e chiesto altri container che la Protezione civile le ha però rifiutato. Quanti soldi ha avuto dalla regione? “Zero. Sto ancora aspettando i 25 mila euro per l’emergenza di un anno fa, dei 3 milioni di euro promessi per la costruzione di alloggi popolari da destinare ai migranti neppure l’ombra”. Promesse, piani mai realizzati nella Calabria degli sprechi, il ministro annota tutto, nella sala riunioni del Comune ascolta. Parla Mamma Africa, Norina Ventre, un’anziana signora che da vent’anni assiste chi ha la pelle di un altro colore. “Domenica avevo 200 persone da sfamare, c’è bisogno di un centro di accoglienza”. Cristiana, donna e mamma del Ghana che chiama “papà” il ministro: “Ho due figli da mantenere, vanno a scuola, sono da undici anni qui in Italia, ma non ho ancora la cittadinanza”. E poi Adam, bracciante di colore, rappresentante di “Africalabra”. E il senegalese Mamadù che parla della necessità del contratto, “perché la Bossi-Fini dice che se perdi il lavoro perdi anche il permesso”. “La situazione – è il commento del ministro – è di vera emergenza, come soluzione provvisoria, sarà realizzata una tendopoli nel territorio del comune di San Ferdinando, accanto a Rosarno, dove saranno trasferiti molti immigrati che in questo momento stanno trovando rifugio in situazioni inaccettabili. Ma c’è bisogno di “una fase 2. Siamo in presenza di lavoratori fedelmente stagionali per cui è necessario lavorare alla loro integrazione, costruire un ponte tra loro e i cittadini di Rosarno, a partire dalla lingua. In un momento di crisi, di poco lavoro anche per gli italiani, occorre spiegare bene a questi nostri amici che non rimarranno soli”.

Corriere della Sera 18.1.12
Voto in Senato, manicomi criminali verso la chiusura
Nuove strutture nelle regioni
di Margherita De Bac


ROMA — Una rivoluzione attesa da almeno dieci anni. La più grande dopo la legge Basaglia, la famosa Centottanta, che abolì i manicomi nel 1978. Entro il 31 marzo 2013 gli ospedali psichiatrici giudiziari dovranno chiudere. E i 1.500 internati che li abitano saranno trasferiti in strutture regionali dove la priorità non è la detenzione ma la terapia. Dove prima che al criminale si pensa al malato.
Così il futuro tratteggiato dall'emendamento alla legge sulle carceri che dovrebbe essere votata tra oggi e domani al Senato. Un cambiamento di mentalità e non solo strutturale accompagna questo risultato inseguito con particolare ostinazione da Ignazio Marino, senatore pd e presidente della Commissione di inchiesta sul servizio sanitario. I filmati e la documentazione raccolta in due anni di lavoro sono stati mostrati anche al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha denunciato «l'estremo orrore inconcepibile in qualsiasi Paese appena appena civile». Il testo presentato da Marino assieme al relatore Alberto Maritati è stato approvato la scorsa settimana dalla commissione Giustizia.
A partire dalla data di «cessazione» degli ospedali giudiziari i vecchi e i nuovi detenuti saranno trasferiti in strutture residenziali con adeguati sistemi di sorveglianza e sicurezza. Stanziati rispettivamente 7 e 4 milioni per il biennio 2012-2013. «Un atto di civiltà e di scienza, finalmente una legge che parla di uomini e non di economia», esprime il suo entusiasmo Vittorino Andreoli, lo psichiatra che agli inizi del 2000 ha compiuto la ricognizione all'interno delle «discariche umane», dove chi non è folle lo diventa. Andreoli esulta soprattutto per una ragione: «Non è una chiusura ideologica, come quella decretata dalla Basaglia. Questo è un progetto realistico, che offre alternative concrete. La gente non deve avere paura».
Lo scempio di questi luoghi è documentato nell'indagine della Commissione Marino. Dimessi solo una parte dei 389 pazienti rinchiusi nei 6 manicomi carcerari (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Napoli-Secondigliano), tra il 1° luglio e il 14 novembre del 2011 dichiarati non socialmente pericolosi. La percentuale dei dimessi oscilla tra il 20 e il 50% e il numero delle proroghe è quasi sempre superiore. Persone costrette dunque a vivere in condizioni che impediscono e rendono meno accessibile un percorso di riabilitazione psicofisica. Un esempio. Ad Aversa, uno dei luoghi più disastrati, gli psichiatri prestano la loro consulenza due volte a settimana. E gli internati sono 250. I metodi coercitivi (legacci al letto) non sono scomparsi ovunque. Nella sua relazione alla Camera il ministro della Giustizia Paola Severino ha espresso la necessità di «agire in via prioritaria e senza tentennamenti». Affermazione ritenuta non abbastanza decisa dall'Associazione Luca Coscioni.

Corriere della Sera 18.1.12
Una Chiesa che frena il Paese, più lontana l'Europa dei diritti
Tutti i «no» su coppie di fatto, eutanasia e sessualità
di Marco Ventura


L' ufficiale pontificio con cui Goethe era in viaggio verso Perugia nell'autunno 1786 pose la domanda a bruciapelo: «A voi è permesso vivere in buona amicizia con una bella ragazza senza averla sposata? Lo ammettono i vostri preti?» Il poeta tedesco riportò nel Viaggio in Italia la propria risposta a Torquato Cesarei: «I nostri preti sono gente avveduta e non s'immischiano in codeste piccolezze. Naturalmente, se gliene chiedessimo licenza, non la concederebbero». Il capitano perugino esclamò allora: «Non avete dunque bisogno di chiederla? Beati voi! E dato che non vi confessate, essi non vengono a saperlo». Cesarei proseguì poi, secondo il racconto di Goethe, imprecando contro i suoi preti e cantando le lodi «della nostra beata libertà».
Nel libro La Chiesa contro (Longanesi, pagine 250, € 16,60), in uscita domani, Sergio e Beda Romano percorrono all'inverso il viaggio del poeta. Se Goethe discese la penisola descrivendone l'arretratezza civile e religiosa, i due Romano risalgono un'Europa nord-occidentale aperta e dinamica, il cui sviluppo dipende, secondo gli autori, da un maturo rapporto tra Stato e Chiesa, tra scienza e fede. Identica a quella che emerge dallo scambio tra Goethe e Torquato Cesarei l'inquietudine: l'italiano sente di appartenere ad un'Europa nord-occidentale libera e mobile al cui modello agogna, ma anche ad un'Italia irrimediabilmente diversa e lontana. Se le due appartenenze confliggono, quanto pesa la religione? Quanto conta il conflitto tra cattolicesimo romano e modernità? E cosa rappresenta per l'Europa e per l'Italia una «Chiesa contro»?
I distinti itinerari dei due autori si sovrappongono, si integrano. Sergio Romano torna allo scontro tra Stato costituzionale ottocentesco e Chiesa di Roma, per raccontare lo sviluppo dei rapporti tra gli Stati liberaldemocratici e la «Chiesa contro». Il figlio Beda viaggia per gli stessi Paesi, ma segue le strade dei più recenti conflitti su famiglia, sessualità, medicina, e mostra i nessi tra la storia dei rapporti tra Stati e Chiese e l'approccio dei diversi Paesi alle questioni bioetiche.
Il viaggio di Sergio Romano è la storia di un conservatorismo cattolico che invano contrasta lo sviluppo tecnico-scientifico e la complessità socio-religiosa dell'Europa degli scambi e dei commerci. Così i liberali belgi di metà Ottocento sono, scrive l'autore, «persone spesso devotamente cattoliche, ma troppo moderne e intraprendenti per tollerare tutti i precetti della Chiesa romana». In egual modo la Svizzera moderna nasce dal superamento della pregiudiziale cattolica e dall'affermarsi di «un patriottismo elvetico fondato sulla tolleranza»; e lo stesso Impero austro-ungarico deve cercare la propria stabilità nella «pacifica convivenza tra persone di religione diversa». Si dimostrano invincibili i due nemici della «Chiesa contro»: lo Stato moderno che preferisce alla legittimazione religiosa la sovranità di un popolo composto da cittadini di orientamenti diversi, e la liberal-democrazia dei diritti civili e della separazione dei poteri. Nel Novecento, scrive ancora Sergio Romano con particolare riferimento alla vicenda italiana, la «Chiesa contro» oscilla tra «il desiderio di una presenza politica nella società» e «il timore che quella presenza pregiudichi la sua autorità e libertà d'azione». Con i Patti lateranensi e i concordati con Hitler e Franco, il compromesso vince sull'intransigenza. Restituita alla sua sovranità e spinta dal nemico comunista, la Santa Sede si sente di nuovo Stato e abbraccia la logica concordataria: la «Chiesa contro», nota l'autore, si «diplomatizza», ovvero accetta, «come in tutti i rapporti diplomatici, la prospettiva dei compromessi e degli accomodamenti».
Sopravvissuta, e per giunta da vincitrice, al crollo del nazifascismo, la Chiesa si riconcilia con la modernità occidentale nel Concilio Vaticano II: il negoziato con i governi dei Paesi marxisti-leninisti, la celebre Ostpolitik vaticana, è il capolavoro di una Santa Sede sicura del proprio ruolo internazionale in nome di una Chiesa cattolica a suo agio nella modernità. Tutto cambia con la fine del comunismo e la saldatura tra la rivoluzione degli anni Sessanta e il liberalismo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Il mondo è di nuovo ostile. La «Chiesa contro» rinasce nell'Europa secolarizzata, ma soprattutto negli Stati Uniti dove il cattolicesimo si trasforma da Chiesa degli immigrati in Chiesa «nazionale»; come scrive Sergio Romano, la nuova Chiesa cattolica americana si vuole dogmatica e liberale insieme: «dogmatica quando proclama le sue verità, liberale quando il libero mercato della fede le impone le sue norme». Una nuova miscela di intransigenza e compromesso muove la «Chiesa contro»: quella di un Giovanni Paolo II «contemporaneamente autoritario e popolare»; quella di un Benedetto XVI che, ancora secondo Romano, «mette definitivamente fine a qualsiasi pretesa ecumenica della Chiesa di Roma» e dà battaglia al relativismo culturale.
Si innesta qui il viaggio di Beda Romano. L'eutanasia svizzera, la clonazione britannica, il matrimonio gay olandese e spagnolo, sono l'esito del percorso raccontato dal padre Sergio. Dai testimoni intervistati e dai dati forniti, appare evidente come l'impossibilità di un veto cattolico elaborata dalla storia dei rapporti tra Stati e Chiese nell'Europa nord-occidentale abbia prodotto un biodiritto meno restrittivo e più ottimista nei confronti della scienza e della libertà del cittadino. Non a caso i medaglioni di Beda Romano da Amsterdam, da Monaco di Baviera, da Parigi mostrano come gli scontri bioetici riecheggino i conflitti interni alla Chiesa di Roma: il magistero cattolico in tema di sessualità, famiglia e bioetica suona lontano dai credenti quanto le posizioni sugli scandali sessuali, sul celibato dei preti e sul no al sacerdozio femminile. Se in alcuni Paesi lo scollamento tra realtà sociale e ideale cattolico è accettato come fisiologico, nell'Europa nord-occidentale la pretesa di coerenza agita i credenti. Soprattutto nel mondo di lingua tedesca, gli abbandoni e le proteste raccontano una «Chiesa contro» se stessa. Beda Romano vede proprio nella Germania di Benedetto XVI «il Paese che più di altri, al momento opportuno, indurrà la Chiesa a cambiare identità». Nell'Europa nord-occidentale non esistono oasi felici, è la conclusione dei due autori, ma, scrive Sergio Romano, «la società che si conforma alle prescrizioni della Chiesa è destinata a essere scavalcata dalle altre».
Sembra essere il caso dell'Italia in cui all'opportunismo politico-religioso che l'autore definisce il «peggiore dei relativismi» si sommano, denuncia il figlio Beda, le «pecche» dell'establishment italiano: la «vena gerontocratica e corporativa» e il «pregiudizio antiscientifico». Come nell'Europa del Viaggio in Italia, anche in quella di Sergio e di Beda Romano è importante chiedersi cosa permettono i nostri e gli altrui «preti». Ma prima ancora, ci si deve domandare con Goethe se spetti a un «prete» concedere «licenza».

Repubblica 18.1.12
Scuola pubblica, ma pagano anche le famiglie fino all’80% delle spese a carico dei genitori
Gite, corsi, cancelleria e detersivi: ecco per cosa chiedono contributi i licei
Sul sito del ministero dell´Istruzione i dati relativi a tutti gli istituti Al Sud il contributo privato è minore
di Salvo Intravaia


ROMA - Corsi pomeridiani e attività sportive, giornalini d´istituto e recite teatrali, gite e viaggi d´istruzione, corsi di lingua straniera e per conseguire la patente informatica, rivolti a prof e studenti, corsi per ottenere il patentino per i ciclomotori, assicurazione: nei licei classici e scientifici italiani, quasi sempre, pagano mamma e papà. E non solo. L´obolo offerto dalle famiglie alle scuole contribuisce a pagare anche carta igienica, materiale di cancelleria, toner e carta per le fotocopie e perfino i detersivi per mantenere puliti gli ambienti scolastici. Senza quei soldi i licei italiani entrerebbero in crisi.
E´ una delle prime informazioni che emergono dal link "scuola in chiaro": il portale che renderà più trasparente la scuola italiana, consentendo ai genitori in procinto di iscrivere (entro il prossimo 20 febbraio) i figli all´anno scolastico 2012/2013 una scelta più consapevole. Una iniziativa lanciata lo scorso 12 gennaio dal ministro dell´Istruzione, Francesco Profumo. Nella maggior parte dei licei classici e scientifici del Belpaese il contributo complessivo, spesso "volontario", versato ad inizio anno dalle famiglie supera abbondantemente quanto le stesse scuole ricevono dallo Stato e dagli enti pubblici e locali. Arrivando, in alcuni casi, a superare anche l´80 per cento dell´intero budget necessario per ampliare l´offerta formativa. Un panorama che non varia molto se si estende l´analisi a tutti gli altri licei: artistici, delle scienze umane, linguistici e musicali/coreutici. Ma che fino ad alcuni anni fa era impensabile.
L´inchiesta condotta da Repubblica abbraccia tutti i licei di 10 grandi città italiane (Torino, Milano, Genova, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari): in tutto, i 223 licei che hanno messo in linea i dati sull´origine dei loro finanziamenti, esclusi gli stipendi di insegnanti e Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari) che vengono pagati direttamente dallo Stato. Alcuni esempi serviranno a chiarire i termini della questione. In cima alla classifica dei 223 licei presi in considerazione troviamo lo scientifico Cannizzaro di Roma che riceve l´82,3 per cento delle proprie entrate "da privati": per la quasi totalità i genitori stessi. Seguono il liceo capitolino i classici Beccaria e Manzoni di Milano, che devono ringraziare la generosità dei genitori, rispettivamente, per l´80,3 e l´80,1 per cento delle proprie risorse. A Torino il liceo pubblico più sostenuto dalle famiglie è lo scientifico Volta, in cui tre quarti del budget annuale proviene "da privati".
Scendendo per lo Stivale, la quota di finanziamenti pubblici aumenta e cala il sostegno delle famiglie. A Cagliari i finanziamenti non pubblici che entrano nelle casse dei licei raggiunge mediamente il 26 per cento, con record (69,4 per cento) al classico Dettori. A Napoli, le famiglie finanziano i licei per il 28 per cento del totale. In coda alla classifica c´è Palermo, col 18 per cento di finanziamenti privati nelle casse dei licei pubblici, e Bari: 19 per cento. La città più costosa è Milano, dove 60 euro su cento presenti nelle casse dei licei provengono direttamente dalle tasche delle famiglie. La classifica per indirizzi vede stabilmente in testa i classici. A generare questa singolare situazione, probabilmente, è stato anche il taglio ai finanziamenti destinati all´autonomia scolastica, particolarmente pesante nell´era Gelmini. Nel 2001, per finanziare la legge 440/97 furono stanziati 269 milioni di euro, che dieci anni dopo (nel 2011) si sono assottigliati a 79: meno 71 per cento. Le scuole, per ovviare alla scure gelminiana, si sono rivolte alle famiglie chiedendo loro "contributi" da poche decine a 200 euro.

Repubblica 18.1.12
Ungheria, si muove la Ue "Basta leggi liberticide"
Barroso annuncia l’apertura delle procedure d’infrazione
Orbàn promette concessioni: oggi è all’Europarlamento e il 24 vedrà il capo della Commissione
di Andrea Tarquini


BERLINO - Divisa sull´euro, minacciata dalla recessione, debole sulla scena internazionale, l´Europa almeno in un caso ha mostrato carattere: la risposta alla svolta autoritaria in Ungheria, paese membro dell´Unione dal 2004. Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha annunciato ieri l´apertura di procedure d´infrazione a carico di Budapest. Bruxelles contesta alcune delle leggi liberticide varate dal governo di destra nazionale dell´autocratico premier Viktor Orbàn: la minaccia all´autonomia della Banca centrale, le mani sulla giustizia, le leggi non garantiste sulla protezione dei dati personali. Orbàn - soprannominato dall´opposizione "Viktàtor", gioco di parole tra il suo nome e "dittatore" - reagisce promettendo vagamente concessioni. Il 24 incontrerà a Bruxelles Barroso per un chiarimento. Ma già oggi andrà a parlare al Parlamento europeo. «Per difendere l´Ungheria dall´attacco della sinistra internazionale», ha detto il suo portavoce, Péter Szijjàrtò. Dura, ironica la replica del nuovo presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz: «Bella notizia, non sapevo che Barroso fosse di sinistra».
«Non vogliamo ombre di dubbio sul rispetto della democrazia in un paese membro dell´Unione», ha detto Barroso. L´iniziativa della Commissione segue di pochi giorni la dura richiesta di chiarimenti presentata dalla direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Lagarde. Se non fornirà concrete garanzie di modifiche alle leggi - denunciate ieri anche da Amnesty international - l´Ungheria di Orbàn non rischierà solo di essere deferita alla Corte europea di giustizia. Sarà in pericolo il credito di 15-20 miliardi di dollari chiesto a Ue e Fmi, e senza il quale un suo default, a causa della fallimentare politica economica autarchica di Orbàn e non solo degli errori dei precedenti governi socialisti, sembra inevitabile.
Le leggi contestate sono: i pesanti limiti all´autonomia della Banca centrale, in contraddizione con il Trattato di Lisbona. Il pensionamento anticipato a 62 anni dei giudici, con la creazione di un´autorità che controlla la magistratura, affidata a un´amica della famiglia Orbàn. E la protezione dei dati privati. «Siamo pronti a regolare tutto», ha detto il ministro della Comunicazione, Zoltàn Kovacs. Ma nel regime falchi affiancano colombe. «Non permetteremo gli attacchi della sinistra», insiste Szijjàrtò. Tra stretta autoritaria, aumento della povertà e crisi economica, la tensione minaccia di salire. I sostenitori di Orbàn organizzano per sabato una grande marcia su Budapest: contadini, militanti da ogni angolo del paese, ussari in uniforme. Con la promessa di una diaria. L´ultradestra neonazista (Jobbik, terza forza in Parlamento) brucia in piazza le bandiere della Ue. «Dobbiamo liberarci di Orbàn, è un uomo malvagio», ha scritto ieri sulla Frankfurter Allgemeine lo scrittore magiaro Gyorgy Konrad, leader del dissenso sotto il vecchio regime comunista.

Repubblica 18.1.12
Medici, operazione trasparenza di Obama
Le compagnie farmaceutiche dovranno rendere noti omaggi e compensi di qualunque tipo
Le autorità federali metteranno sul web la lista dei sanitari con i soldi o i favori ricevuti
di Federico Rampini


new york - Pugno duro contro i conflitti d´interessi della classe medica: il paziente deve sapere tutto sui legami dei dottori con Big Pharma. Barack Obama lancia un nuovo tassello della sua riforma sanitaria, e non uno dei minori. Sarà obbligatoria la massima trasparenza sugli omaggi di ogni tipo, che l´industria farmaceutica fa ai medici. Pagamenti per ricerca, consulenze, inviti a conferenze, viaggi e congressi. Tutto dovrà essere noto, perché il paziente sappia se il suo medico ha "altre motivazioni" quando prescrive questa o quella cura. È un tema su cui si battono da tempo diverse associazioni di consumatori. È stato provato infatti, anche grazie ad alcune inchieste del New York Times, che un quarto dei medici accettano regolarmente pagamenti da case farmaceutiche o produttori di apparecchi sanitari; raggiunge addirittura i due terzi la quota di dottori che ricevono compensi in natura come pranzi e cene. Le stesse inchieste hanno dimostrato che i medici così beneficiati spesso somministrano cure diverse, fanno scelte che si discostano da quelle dei colleghi che non ricevono gli stessi favori. Le conseguenze possono essere pericolose per la salute dei pazienti: «Prescrizioni di farmaci più rischiosi, terapie sperimentali».
Un caso grave fu sollevato a proposito della somministrazione di potenti farmaci anti-psicosi ai bambini. Ora almeno la vittima potenziale potrà aprire gli occhi anzitempo. E, se necessario, cambiare dottore. Le autorità federali infatti pubblicheranno su un apposito sito la lista dei medici con gli eventuali pagamenti o altri favori ricevuti. Troppo poco? In realtà oggi la trasparenza è un´arma più efficace che in passato. Tra gli americani si diffonde l´abitudine di consultare appositi siti Internet dove i pazienti si comunicano giudizi sui medici; giornali e riviste pubblicano classifiche sulla qualità degli specialisti. Se il consumatore ha imparato a confrontare online i prezzi delle auto prima di andare dal concessionario, a maggior ragione lo può fare prima di scegliersi il cardiologo, l´oncologo e il pediatra.
Le compagnie farmaceutiche dovranno rendere noti i pagamenti ai medici anche quando sono giustificati da missioni "nobili" come la ricerca, lo sviluppo e la sperimentazione di nuovi medicinali. Gli omaggi in "natura" dovranno essere pubblicizzati a partire da una soglia molto bassa, 25 dollari: praticamente qualche croissant e caffè, o un pasto in un fast-food. A maggior ragione dovranno essere dichiarati i pagamenti per conferenze, o i viaggi-omaggio per assistere a congressi scientifici (spesso, guarda caso, ospitati in lussuosi "resort" con affaccio su spiagge tropicali). Le sanzioni colpiranno con severità Big Pharma. Le società farmaceutiche e produttrici di apparecchiature mediche saranno colpite con multe di 10.000 dollari per ogni singolo pagamento non dichiarato; 100.000 dollari quando l´omissione sia intenzionale. Il top management potrà essere ritenuto personalmente responsabile, perché le dichiarazioni dovranno portare la firma degli amministratori delegati. L´annuncio dell´Amministrazione Obama è stato salutato con soddisfazione da Allan Coukell, un farmacologo impegnato nella protezione dei pazienti presso il Pew Charitable Trusts: «I malati hanno bisogno di sapere che stanno ricevendo la migliore cura possibile secondo i criteri medici, non sulla base di un interesse finanziario, ma troppo spesso non hanno il coraggio di fare domande esplicite al proprio dottore».

Repubblica 18.1.12
Tunisia
Le spine dopo la Rivoluzione l’Islam alla prova del potere
di Bernard Guetta


Economia in caduta e casse dello Stato vuote: il governo di Ennahda deve confrontarsi con la protesta Gli scioperi diventano radicali e il partito non può contare su esercito e polizia per usare la forza
La rivolta per la democrazia è nata qui e si è estesa agli altri Paesi. Ora Tunisi ha lanciato un nuovo messaggio
La rivolta per la democrazia è nata qui, ed è ancora qui che si gioca il suo futuro: il Paese sta sfuggendo alle sue nuove autorità

La primavera araba è nata in Tunisia, ed è ancora in Tunisia che si gioca il suo avvenire. Come la fuga di Ben Ali, un anno fa, aveva prefigurato la caduta di Mubarak, la vittoria elettorale degli islamisti di Ennahda in Tunisia ha annunciato quella dei Fratelli musulmani in Egitto. Al Cairo come a Tunisi, questa captazione democratica di rivoluzioni moderniste da parte di integralisti le cui radici tutto sono fuorché democratiche è sembrata dare ragione ai più pessimisti.
«Eppure noi ve l´avevamo detto», dicono quelli che avevano previsto che giovani teocrazie nel pieno delle forze avrebbero preso il posto di dittature sul viale del tramonto; ma non è questo che sta succedendo in Tunisia, al contrario: qui gli islamisti sono in difficoltà.
Adesso che governano, adesso che le elezioni del 23 ottobre li hanno trasformati nella forza principale della coalizione parlamentare che hanno formato con due dei partiti laici, gli islamisti devono giustificare la fiducia che quasi la metà dei tunisini aveva accordato loro, e il compito non è facile. Anzi, è talmente difficile che nessun altro partito probabilmente avrebbe potuto fare molto meglio di loro, talmente grandi sono i problemi. Ma sta di fatto che sono loro che ricoprono i principali incarichi ministeriali e dirigono il Governo, che sono loro il potere e che questo potere non riesce a tirar fuori il Paese dal fosso in cui si è impantanato.
Non c´è soltanto il problema dell´economia in caduta libera, dell´aumento della disoccupazione e dell´abbassamento del potere d´acquisto, delle casse vuote dello Stato e del turismo che stenta: il malcontento sociale cresce di giorno in giorno, perché questa coalizione è riuscita a partorire soltanto una finanziaria irrealistica, a cui non crede nessuno, e si mostra incapace di aprire una benché minima prospettiva di ripresa economica, anche dolorosa.
Gli scioperi si moltiplicano e diventano più radicali. Nelle regioni dell´interno, quelle da dove era partita la rivoluzione, perché la dittatura le aveva trascurate a beneficio delle coste e delle loro spiagge, cresce un clima di rivolta. I ministri non si fanno più vedere da quelle parti, dopo che lo stesso presidente della Repubblica è stato duramente contestato.
Il Paese sfugge alle sue nuove autorità e la collera popolare si concentra sempre di più contro Ennahda, perché i suoi ministri nella maggior parte dei casi sono incompetenti, perché è stata la vittoria di Ennahda - è un dato di fatto - che ha bloccato gli investimenti, e perché molti dei suoi funzionari, invece di rassicurare, alimentano l´incertezza. Quando non è un ministro che parla di tornare al califfato, a un mondo musulmano unito dalla fede, è il governo tutto che lascia che gli islamisti più integralisti, i salafiti, cerchino di imporre il niqab all´università o tollera che il primo ministro islamista di Gaza venga accolto all´aeroporto al grido di «Morte agli ebrei!».
Ennahda non vuole prendersi il rischio di accrescere l´influenza dei salafiti reprimendoli e lo stesso partito islamista resta diviso tra i fautori di una svolta alla turca e i nostalgici della sharia: è per questo che il Governo in carica preoccupa perfino alcuni degli elettori che avevano votato Ennahda. La base sociale del partito si restringe a vista d´occhio e quando la crisi sociale avrà partorito la crisi politica che cova in grembo il suo isolamento assumerà vaste proporzioni.
«È proprio questo che preoccupa», dicono i pessimisti, che già vedono Ennahda cercare di restare al potere facendo ricorso alla forza: ma questo partito non può contare né sulle forze armate, che non lo difenderanno così come non avevano difeso Ben Ali, né sulla polizia che gli è ostile, né sulla paura, che non ha fatto ritorno in Tunisia.
Ogni volta che fa un passo falso, Ennahda deve confrontarsi con vigorosi movimenti di protesta, che non ha i mezzi per contrastare. Il potere non ha rafforzato gli islamisti; al contrario, li ha indeboliti e in un modo o nell´altro dovranno finire per evolversi e scendere a patti: con la realtà economica e sociale, con una gioventù che vuole la libertà e ci ha preso gusto e con delle donne la cui emancipazione è diventata una realtà da quando Habib Burghiba, il padre dell´indipendenza, l´aveva imposta.
Le difficoltà per la Tunisia sono appena cominciate, ma niente è ancora deciso; e anche in Egitto i Fratelli musulmani non avranno vita facile. Anche loro erediteranno una situazione economica catastrofica, e, se è vero che le egiziane non sono emancipate come le tunisine, è vero anche i Fratelli musulmani dovranno fare i conti con un esercito che continua ad avere un grosso peso economico e politico e con dei salafiti ben più potenti che in Tunisia, considerando che si sono aggiudicati più del 20 per cento dei voti. Gli islamisti egiziani dovranno cercare l´appoggio dei laici. La primavera araba non è ancora sfociata nell´Iran dei mullah, e tantomeno nell´Afghanistan dei Taliban di undici anni fa.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

il Fatto 18.1.12
Crisi alla cinese, il Pil sale “solo” del  9%
E la popolazione urbana supera per la prima volta quella rurale
di Simone Pieranni


Pechino La Cina si urbanizza, decresce lievemente, inonda le reti telematiche e mette nel mirino un 2012 di stabilità e ritorno alla crescita. È la fotografia del paese nel 2011, dopo la pubblicazione dei dati economici da parte dell'Istituto Nazionale di statistica. Per la prima volta la popolazione urbana supera quella rurale, in un paese con tradizione e spirito agricolo. Il 51,27% del miliardo e 340 milioni di cinesi, vive infatti in città a seguito di una mastodontica opera di urbanizzazione, che ha spogliato i centri rurali. La crescita della popolazione urbana è stata dell'1,32% più alta rispetto al 2010. Tra i nuovi cittadini sono inclusi infatti anche i lavoratori migranti, la schiena e le mani dello sviluppo cinese, per un numero di 252 milioni. I migranti, proprio loro, quelli che alcuni giorni fa, un procuratore capo di Shenzhen con una proposta choc voleva mandare via dalla città, attraverso la demolizione di massa dei loro dormitori. Un'idea già ritirata, ma che dimostra l'esistenza di un problema sociale, sotto la coltre armonica propagata dai media di Stato.
Questione sociale sotto osservazione, a maggior ragione dopo le statistiche sulla salute economica del paese: seppure con numeri importanti, la Cina nel 2011 ha rallentato: secondo i dati diffusi nella mattinata pechinese di ieri la crescita del Dragone nel 2011 è stata complessivamente del 9,2%, rispetto al 10,4% del 2010. Nell'ultimo trimestre la crescita del Prodotto interno lordo cinese è stato dell'8,9% confermando un trend in discesa. Nel 2011 la produzione è cresciuta del 13,9%, più lentamente rispetto al 2010 a causa della crisi in Usa ed Europa. Sono cresciuti meno anche gli investimenti del governo in infrastrutture urbane e le vendite al dettaglio. Gli analisti cinesi però dispensano un cauto ottimismo: la lettura politica dei dati economici vede infatti alcune cause precise del rallentamento: da un lato la diminuzione degli ordini a causa della crisi europea e americana, dall'altro una necessaria politica di stretta al credito, che ha frenato la crescita, ma ha anche cercato di limitare l'inflazione, che sul finire dell'anno si è attestata al 4,1% (dopo aver raggiunto anche vette del 6,5%). Il 2012, secondo le autorità cinesi, rivedrà una spinta alla crescita, in modo da tenere sotto controllo quanto è più importante per Pechino, ovvero la stabilità sociale. A fine del 2012 infatti cambieranno i vertici politici, con la definitiva ascesa della quinta generazione di leader. Pechino non vuole problemi sociali e, come specificato dalle autorità ieri, proseguirà sul tasto delle riforme iniziate trent'anni fa da Deng Xiaoping.
NEI GIORNI SCORSI anche il China Internet Network Information Center (Cnnic) ha rilasciato dei dati, questa volta sull'Internet cinese: la Cina ha 513 milioni di utenti online, di cui la metà gestisce almeno un microblog. 55,8 milioni sono i nuovi utenti Internet del 2011, con un tasso di penetrazione del 38,3%. Il numero di microblogger è aumentato del 296% raggiungendo il numero di 250 milioni a dicembre scorso, “il che suggerisce che circa la metà degli utenti di Internet utilizzano microblog”, specifica il rapporto. Aumentato l'anno scorso l'uso di Internet anche nelle aree rurali (8,9 punti percentuali) raggiungendo la cifra di 136 milioni di persone, pur esistendo ancora enormi disparità tra regioni ricche e povere. Le statistiche dimostrano come esempio che più del 70% dei residenti di Pechino ha utilizzato Internet lo scorso anno, mentre solo il 24,2% delle persone della provincia di Guizhou si è potuta collegare alla rete.

Corriere della Sera 18.1.12
Il Grande Balzo delle megalopoli Le città superano le campagne
Per la prima volta in Cina i contadini sono in minoranza
di Marco Del Corona


PECHINO — La Cina che nel 1949 — secondo l'immagine di Mao Zedong — si alzò in piedi prendendo in mano il proprio destino, si è messa convintamente sottosopra. Una seconda rivoluzione, incruenta e radicale. Per la prima volta nella sua storia, infatti, la Cina ha più abitanti nei centri urbani che nelle campagne. L'assalto dei contadini alle città — feticcio ideologico, strategico e militare di Mao — ora è realtà, per quanto non definitivamente compiuto. Il travaso di forza lavoro continuerà ancora, tuttavia l'annuncio dell'Ufficio statistico nazionale ha certificato i nuovi equilibri. Il 51,27% dei cinesi vive nelle megalopoli, nelle metropoli, nelle città di secondo, terzo, quarto livello, e le campagne andranno avanti a dissanguarsi, nel nome dello sviluppo.
È un modello che tiene, sebbene con affanni. Proprio ieri Pechino ha diffuso i dati sulla crescita nel 2011. Superata di slancio la soglia non soltanto psicologica dell'8%, il Pil cinese ha toccato il più 9,2%, anche se un quarto trimestre a 8,9 fa registrare il minimo da due anni a questa parte. I tassi di crescita a due cifre (era 10,4% nel 2010) vanno collocati tra i ricordi. In crescita, ma meno vigorosa che in passato, è la produzione industriale, più 13,9%, così come in frenata sono anche i consumi al dettaglio, più 17,1%. I mercati internazionali hanno interpretato il bollettino di Pechino in termini positivi, con la Borsa di Shanghai che è balzata all'insù oltre il 4%. Sullo sfondo, la difficoltà del settore immobiliare, che si sta fermando e lascia temere sviluppi drammatici.
Il più 9,2% del Pil 2011 è figlio proprio del sistema plasmato dal ricorso a una (finora) abbondante, (finora) conveniente, (finora) duttile manodopera trasferita dalle campagne alle città. Tra il 70% di popolazione rurale dell'India e l'82% di popolazione urbana degli Stati Uniti, la Cina si allinea con le proporzioni complessive dell'umanità, 51% nelle città e 49% nelle campagne. I flussi migratori interni trovano una loro brutale, fisica evidenza nella frenesia di questi giorni che precedono il Capodanno lunare, quest'anno il 23 gennaio, lunedì prossimo. Ma sono le prospettive a medio e lungo termine a contare. Secondo un gruppo di lavoro della Conferenza consultiva (una sorta di parlamento minore), nei prossimi vent'anni altri 300 milioni di contadini da inurbare saranno «d'importanza vitale» per lo sviluppo del Paese. Già ora — si legge nell'indagine, resa nota un paio di settimane fa — della nuova generazione di migranti interni, l'84,5% non è stato impegnato nell'agricoltura, il 30% non ha appezzamenti di terreno e il 92,3% lascia i campi con la precisa intenzione di non farvi ritorno.
Inquietano i segnali che provengono dall'industria. Le aziende inaugurano poli produttivi nell'entroterra, una volta bacino a cui attingere per riempire gli stabilimenti del Guangdong e lo Zhejiang, sulla costa. La manodopera non appare più così abbondante e comunque gli stipendi aumentano. Il Partito comunista, che in autunno rinnoverà la leadership propria e dunque del Paese, è chiamato a una colossale operazione di ingegneria sociale, nella quale rientrano la gestione degli hukou (i certificati di residenza), i diritti sulle terre evocati di recente dal premier Wen Jiabao, la pratica degli espropri, la tutela dei diritti di base, il contenimento degli «incidenti di massa». Gli strumenti politici sono ben coltivati, lo dimostra come il Partito sia riuscito a disinnescare la protesta del villaggio di Wukan, dopo mesi di tensione culminati con la rivolta di dicembre e un morto, a capitalizzare il ruolo di pacificatore e a governarne la normalizzazione: il leader della ribellione, Lin Zuluan, è stato cooptato e nominato segretario del Pcc del villaggio. Un giorno, però, certe risorse potrebbero non bastare più.

il Riformista 18.1.12
La locomotiva cinese rallenta E il Partito coopta i dissidenti
di Andrea Pira


Wukan. La rivolta del piccolo paese del Guangdong si conclude con la nomina a segretario locale del leader dei manifestanti. Un modello che potrebbe fare scuola. La crescita nel 2011 è stata inferiore al livello fissato dal Politburo per garantire «la coesione sociale». E così a Pechino si discute delle virtù di un approccio più morbido.

Da leader della rivolta contro gli abusi dei funzionari locali, a segretario locale del Partito comunista cinese. È successo a Wukan, villaggio nella provincia meridionale del Guangdong polmone dell’economia cinese teatro lo scorso dicembre di una rivolta popolare contro gli espropri delle terre. Una sollevazione capace di tenere in scacco i quadri del Partito per due settimane, costringendoli alla fuga e a trattare fino a cedere alle richieste dei manifestanti.
Di quella protesta Lin Zulan, 67 anni, nuovo segretario locale del Pcc, era stato uno dei capi riconosciuti, all’inizio ricercato dalla polizia, per poi sedersi al tavolo dei negoziati con il numero due del Partito nella provincia, Zhu Mingguo. «La sua nomina è il risultato della nostra lotta. Non ci aspettavamo sarebbe successo, siamo ribelli. È la prima volta che un ricercato diventa segretario», è stato il commento di Yang Semao, compagno di Lin nelle due settimane di resistenza mentre il villaggio di 20mila abitanti, che si era dato una sorta di governo autonomo, era assediato dalla polizia che bloccava i rifornimenti.
«Ora il Partito è nelle mani della gente». Che adesso dovrà eleggere anche un nuovo comitato di villaggio immediatamente dopo la fine delle festività per il Capodanno cinese all’inizio di febbraio. Il prestigio di Lin tra i concittadini, scrive il South China Morning Post, deriva sia dal suo passato sia dalla sua determinazione nel cercare giustizia. Ex militare, era stato vice direttore del comitato locale a Wukan, prima di essere nominato a capo del Pcc nel distretto commerciale di Donghai e tornare nel suo villaggio da pensionato nel 1995.
Le barricate e l’autogoverno, che hanno spinto il Financial Times a paragonare quanto avveniva in questo piccolo centro di pescatori alla Comune di Parigi, sono stati soltanto l’ultima fase di una protesta iniziata a settembre. Allora i cittadini scesero in strada per denunciare la vendita di terreni ad aziende private, accusando i quadri locali, con in testa l’ex segretario Xue Chang ora sotto inchiesta per corruzione di aver ricevuto tangenti. A far precipitare la situazione fu la morte in carcere di un altro leader della rivolta, Xue Jinbo, ufficialmente per insufficienza cardiaca, ma il cui corpo era coperto di lividi.
L’interesse della stampa internazionale e il timore che le proteste potessero diffondersi, dopo lo scoppio di manifestazioni contro una centrale elettrica a Heimen distante soltanto un centinaio di chilometri dal villaggio in rivolta portarono il caso sul binario del dialogo. La trattativa gestita da Zhu, ma decisa dal capo del Pcc nel Guangdong, Wang Yang, è stata considerata da molti analisti come un modello da seguire per le future dispute.
Lo stesso Wang, più volte dipinto come un politico moderno e liberale, tra i papabili per un posto nel comitato permanente del politburo del Pcc dall’autunno prossimo, ha fatto riferimento al “modello Wukan” per il governo della provincia. Il Guangdong, ha detto all’inizio di gennaio, è cresciuto ad alta velocità. «La priorità è ora una riforma strutturale». Non più crescita a tutti i costi, ma una ristrutturazione dell’economia e la promozione e lo sviluppo delle organizzazioni sociali.
Parole che hanno anticipato  una settimana i dati economici relativi all’anno appena trascorso, diffusi ieri dall’Ufficio nazionale di statistica. Nel 2011 l’economia della Repubblica popolare ha rallentato la sua corsa ed è cresciuta del 9,2 per cento contro il 10,4 dell’anno precedente, il tasso più contenuto degli ultimi due anni e mezzo. Tra ottobre e dicembre il
Pil è cresciuto dell’8,9 per cento, in calo rispetto al 9,1 del terzo trimestre, un risultato comunque migliore delle previsioni. Cifre che farebbero invidia a qualsiasi altra economia del mondo, ma che il portavoce dell’Ufficio di statistica, Ma Jiantang, ha presentato mettendo in guardia dalle «sfide» che attendono la Cina nel 2012 sia in campo interno sia a livello internazionale.
Con l’aggravarsi della crisi in Europa, principale partner commerciale di Pechino, nel primo trimestre di quest’anno la crescita dovrebbe essere attorno al 7,5 per cento. Al di sotto quindi di quell’8 per cento indicato dalla dirigenza cinese come il traguardo minimo per garantire la stabilità sociale senza mettere a rischio l’autorità del Partito. Specialmente nell’anno in cui il Pcc attende il cambio di leadership fissato in autunno.
Da qui la necessità di cercare un approccio più morbido al malcontento popolare che non si è fermato con il nuovo anno. Nelle prime settimane del 2012 gli scioperi in tutto il Paese sono stati già almeno cinque, scrive il China Labour Bullettin, e hanno coinvolto migliaia di lavoratori. Per questo si cerca di cooptare i capi della protesta o si danno incentivi materiali come l’aumento dei salari.

Corriere della Sera 18.1.12
Il salario minimo garantito e le nuove disuguaglianze cinesi
di Marco Del Corona


Il fenomeno è in atto da tempo ma il rallentamento dell'economia cinese e la sofisticazione progressiva della produzione lo mettono in luce con ruvida nitidezza. Nella Repubblica Popolare la stagione dei salari omogenei (omogenei al ribasso, s'intende) è estinta. Dal 1o febbraio Shenzhen, metropoli simbolo del boom cinese, avrà i salari minimi più alti della Cina: 1.500 renminbi al mese, quasi 190 euro. Da questo mese Pechino ha portato la soglia obbligatoria ad almeno 1.260 renminbi. Nel novembre scorso, il ministro competente Yin Weimin aveva calcolato che nel solo 2011 la paga minima era cresciuta mediamente del 22% in tutto il Paese grazie agli interventi di 24 province. E la Foxconn, famigerato colosso taiwanese che sforna iPad e iPhone, ha talmente articolato la sua produzione, sparsa tra 27 stabilimenti anche all'interno, che ha diversificato anche le paghe, aumentate sì su larga scala però di più per chi non scappa dopo sei mesi.
Cambiano i mercati, la geografia, le politiche. Non esiste, insomma, un paradigma elementare. S'impongono, al contrario, letture contraddittorie. In novembre il Southern Daily, giornale piuttosto spregiudicato, spiegava che gli aumenti di stipendio non si traducono automaticamente in condizioni migliori per gli operai perché occorre valutare mille variabili, come le forme di welfare accessibili. E lo stesso Quotidiano del Popolo non sottovalutava le incognite di un costo del lavoro in ascesa, avvertendo nel 2010 che occorre esercitare un'«equilibrata ragionevolezza». Inoltre, la ristrutturazione dei salari in una stessa azienda moltiplica le occasioni di frustrazione, rivendicazione e scontro, come la Foxconn pare insegnare.
Dal 18 al 21 gennaio di 20 anni fa, Deng Xiaoping compì il leggendario «viaggio nel Sud» che lanciò definitivamente le riforme e avviò l'ascesa formidabile della Cina: che le riflessioni sul frastagliato universo delle politiche salariali conoscano proprio adesso un picco di attenzione pare una coincidenza. Ma forse vent'anni sono un tempo sufficiente perché, di nuovo, maturi il trapasso a un'altra era.

La Stampa 18.1.12
Due bicchieri di cognac per brindare alla soluzione finale
Settanta anni fa a Wannsee la Conferenza dei capi nazisti che decise lo sterminio della popolazione ebraica
di Walter Barberis


VOLONTEROSI CARNEFICI. S’erano resi conto che il lavoro non poteva essere condotto con mezzi convenzionali
I PRIMI TENTATIVI A bordo di camion, per verificare se si potevano ottimizzare le procedure con l’uso dei gas

I volti scarni e i corpi macilenti delle poche migliaia di superstiti che si presentarono allo sguardo sbalordito dei soldati dell’Armata rossa il 27 gennaio 1945, ai cancelli del campo di Auschwitz finalmente liberato, erano ciò che restava dei milioni di vittime passate dalle camere a gas e incenerite nei forni crematori. L’incredibile piano di sterminio di tutti gli ebrei d’Europa aveva avuto inizio esattamente tre anni prima, il 20 gennaio 1942, a Wannsee, un ameno sobborgo di Berlino. Lì, in una casa patrizia requisita a una ricca famiglia ebrea, il principale collaboratore di Himmler, Reinhard Heydrich, aveva convocato i responsabili di tutti i dicasteri e gli uffici ritenuti utili per deliberare la cosiddetta «soluzione finale».
Era risultato chiaro fin dall’autunno del 1941 che l’eliminazione fisica degli ebrei non avrebbe potuto essere portata a termine con mezzi convenzionali. Gli Einsatzgruppen, le unità speciali affiancate all’armata tedesca che avanzava sul fronte orientale, avevano operato con solerzia, ma i massacri di intere comunità ebraiche parevano dire che ben difficilmente i nazisti avrebbero potuto raggiungere il loro fanatico obiettivo di eliminare dalla faccia della terra l’intera popolazione ebraica nei tempi ragionevoli di una guerra.
Fucilati e gettati in fosse comuni, gli ebrei sterminati si contavano a decine di migliaia; ciò voleva dire che per quanto si adoperassero con zelo feroce, le mani di quegli uomini non riuscivano a realizzare risultati numericamente soddisfacenti. E non solo: per quanto risucchiate in una dimensione di pura follia e addestrate a uccidere senza ombra di pietà donne, vecchi e bambini, quelle SS imbrattate di sangue da capo a piedi, giorno dopo giorno, non avrebbero potuto reggere i ritmi che imponevano la ricerca, il rastrellamento e l’eliminazione fisica degli ebrei insediati nelle campagne e nei centri urbani di gran parte dell’Europa. E anche se storditi dall’alcol e non di rado dalle droghe, la loro tenuta nervosa aveva pur sempre dei limiti. Era già stato accertato che dopo un paio di mesi di quella vita gli uomini perdevano il controllo, davano segni di squilibrio mentale, diventavano inefficienti, inservibili. Dunque si imponeva un’altra soluzione.
Nell’autunno del 1941, in alcune zone del governatorato polacco e nelle terre di confine dell’Unione Sovietica attaccata dai nazisti, si fecero le prime prove. Erano tentativi rudimentali, con i camion, che tendevano a capire se si potevano accelerare i tempi e ottimizzare le procedure di eliminazione con i gas. Prima con i semplici gas di scarico ricondotti nei cassoni degli automezzi stipati di ebrei, poi con l’ausilio dell’acido cianidrico, da subito valutato efficace. Quegli esperimenti suggerirono l’idea di trasformare i campi di concentramento e di lavoro allestiti per gli ebrei negli anni precedenti in campi di sterminio. Usando il gas in ambienti chiusi, capaci di contenere svariate centinaia di persone, con turni adeguatamente veloci, si sarebbero potute eliminare migliaia di persone in un solo giorno in ciascuno dei campi.
I vertici del Reich presero segretamente la decisione. Alle SS il compito di coordinare il grande sterminio con procedure industriali. Occorreva la complicità e il concorso di molte organizzazioni e di centinaia di migliaia di persone: una immensa burocrazia doveva individuare gli ebrei, catturarli, trasportarli nei campi; le industrie chimiche dovevano produrre le quantità richieste di acido cianidrico, quelle metallurgiche costruire gli inceneritori, le banche provvedere a incamerare i beni degli ebrei, le ferrovie riorganizzare i loro orari. E molto altro ancora.
Scelti accuratamente, i rappresentanti dei vari dipartimenti dello Stato tedesco vennero convocati a Wannsee. La ferrea regia di Heydrich li avrebbe dovuti informare delle decisioni e convincere della loro necessità. Ignari e sorpresi dall’annuncio, anche i più incalliti antisemiti, uomini come il generale delle SS Hofmann, o il dottor Kritzinger, rappresentante della cancelleria del Reich, e ancora il dottor Stuckart, il giurista che aveva di fatto redatto le leggi razziali del 1935, rimasero perplessi di fronte all’enormità della decisione. Abbozzarono obiezioni e soluzioni alternative. Ma la decisione era già stata presa: loro erano lì solo per ratificarla.
Heydrich, coadiuvato dal capo della Gestapo Müller e dal segretario della riunione, Adolf Eichmann, nel volgere di un’ora o poco più ridusse tutti alla più cieca obbedienza. Ora era soltanto questione di dettagli organizzativi. Sciolta la riunione fra abbondanti libagioni, Heydrich e Müller invitarono il tenente colonnello Eichmann a unirsi a loro in un brindisi: quel paio di bicchieri di cognac con i più alti gradi del potere criminale nazista rappresentarono il culmine della sua carriera. Lo avrebbe candidamente dichiarato di fronte ai giudici di Gerusalemme quindici anni dopo, al processo che lo condannò all’impiccagione per crimini contro il popolo ebraico.
Quella riunione a Wannsee aveva trasformato Eichmann in uno specialista di trasporti verso l’inferno. Il suo unico commento, rimasto solo nella villa in cui aveva organizzato l’incontro, ascoltando il finale di un quintetto di Schubert con il quale si erano deliziati i suoi superiori, fu: «Non capirò mai come si possa apprezzare questa spazzatura sentimentale viennese». Ottuso e zelante, ingranaggio fondamentale della macchina di morte, Adolf Eichmann si apprestava a diventare l’icona di quella che Hannah Arendt avrebbe definito «la banalità del male».

La Stampa 18.1.12
Mauthausen la “musica” di noi maiali
Dal libro-testimonianza di Gianfranco Maris: una scodella di zuppa ogni due deportati, ricordo come fosse ora il rumore di quelle sorsate
di Gianfranco Maris


NUDI IN UN CORTILE Un kapò impartisce l’ordine: «Berretto giù! Berretto su» E va avanti così per due ore
GLI UFFICIALI SOVIETICI In 500 tentarono la fuga, undici di loro sopravvissero: grazie ai contadini austriaci

A lato il monumento dell’Olocausto nel campo di concentramento di Mauthausen, nell’Alta Austria, 20 chilometri a Est di Linz Sotto un’immagine dei prigionieri nel Lager “Per ogni pidocchio... ” Gianfranco Maris (nella foto a sinistra), noto avvocato penalista, senatore del Pci dal 1963 al 1972, membro del Csm dal ’72 al ’76, attuale presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) ha oggi 91 anni. Militante nelle file del partito comunista clandestino e poi della Resistenza milanese, ne aveva 23 quando da Fossoli, dove la Repubblica Sociale Italiana aveva allestito un campo di prigionia, venne trasferito in Austria, a Mauthausen. Ora ha affidato i suoi ricordi di quel periodo a un libro scritto con l’inviato-editorialista della Stampa Michele Brambilla, Per ogni pidocchio cinque bastonate (lo stesso titolo dell’intervista pubblicata un anno fa su queste colonne, per il Giorno della Memoria), edito da Mondadori (pp. 151, 17,50). Ne anticipiamo uno stralcio.
E’ la notte del 7 agosto 1944. Il treno si ferma davanti a una baracca illuminata con una luce gialla. È la stazione di Mauthausen. […] Facciamo così la nostra conoscenza con una nuova figura: i kapò. Sono loro, schiavi delle SS e feroci custodi del campo, che ci circondano brutalmente e ci ordinano di ammucchiare a terra i nostri abiti. Ci dicono che dobbiamo lavarci e che ci debbono tagliare i capelli: poi ritorneremo in possesso dei nostri indumenti, che ora dobbiamo raccogliere in ordine e posare ai nostri piedi, restando tutti completamente nudi. […] Torniamo in cortile e non troviamo più nulla dei nostri abiti, che ci avevano ordinato di piegare e di lasciare per terra. I kapò ci inquadrano con violenza, il cammino ora è celere, non c’è più nessuno che possa ritardare la marcia. Velocemente, con furore, ci portano dall’altra parte del campo, oltre un muro. Ci viene detto che stiamo per raggiungere la baracca di quarantena, dove impareremo a essere prigionieri.
Capiamo ben presto che i nostri amici non hanno passato la selezione degli idonei al lavoro e sono stati avviati all’eliminazione. Tutti noi altri veniamo portati nel reparto quarantena di Mauthausen. Siamo nudi, in una baracca completamente vuota, senza letti a castello. Di notte dormiamo sdraiandoci sul pavimento uno accanto all’altro, come sardine in scatola.
Non abbiamo più nulla, non ci è rimasto neppure lo spazzolino per i denti e sicuramente non abbiamo neppure un cucchiaio. Perché mi viene in mente il cucchiaio? Nella tarda mattinata ci viene distribuita una zuppa in una gamella per ogni due deportati: per cui la zuppa, un brodo di barbabietola da foraggio, deve essere bevuto a sorsi alternati. Ricordo come fosse adesso che in quel momento una cosa soltanto dominava su tutto: il rumore. Il rumore di queste sorsate, che sembravano la musica di tanti maiali gettati contemporaneamente nel truogolo.
Perché ci trattano cosi? Non ci sono nel campo gamelle sufficienti per somministrare a ciascuno la parte che gli compete di quella brodaglia? E non ci sono cucchiai di cui i prigionieri possano usufruire nonostante la loro spregevole condizione di nemici del Terzo Reich?
Finito il «pranzo», a ciascuno di noi viene distribuito un berretto. Cosi non siamo più tutti nudi: insomma siamo sì nudi, ma con un berretto. Ci chiamano subito fuori dalla baracca, ci inquadrano. Arriva un kapò e comincia a impartirci il suo nuovo ordine: «Mützen ab! Mützen auf! » (Berretto giù! Berretto su!). Va avanti così per ore. «Mützen ab! Mützen auf! » E noi per ore, nudi in un cortile, a tirarci su e giù il berretto. Poi entriamo nella baracca e passiamo la notte sdraiati uno accanto all’altro sul pavimento, nudi, senza nessuna coperta o riparo. La mattina dopo, di nuovo nudi in cortile e altre ore di " Mützen ab! Mützen auf! ". Poi la broda in una sola gamella per due persone e la " musica" del truogolo. Il giorno dopo ancora, l’assurdo rituale si ripete.
E così lo stesso per giorni e giorni. Di nuovo mi trovo a domandarmi: perché? Nessuno di noi conosceva a quel tempo le teorie di Pavlov e dei riflessi condizionati indotti nell’animale per ridurlo all’obbedienza assoluta. Obbedire, soltanto obbedire, immediatamente obbedire al suono di un comando. Come cani ammaestrati. E’ per questo che per settimane veniamo istruiti così, fino a quando non decideranno di trasferirci in un altro blocco di quarantena, quello di Gusen: primo campo contiguo a Mauthausen.
Il blocco di quarantena del campo di Mauthausen era chiuso tra alte mura. Ma al di là delle mura c’era un’altra baracca nella quale erano chiusi in isolamento gli ufficiali sovietici prigionieri di guerra che si erano rifiutati, in base alle convenzioni di Ginevra, di lavorare nell’industria bellica del Reich e che per questo rifiuto erano già stati condannati dalla Gestapo al «trattamento kappa». Ossia Kugel, proiettile.
Questi uomini potevano quindi essere uccisi, in qualsiasi momento, con un colpo alla nuca. Ma li si lasciava lì, nella baracca, con l’intento di farli morire in un altro modo, più lento e più atroce: di fame. Non venivano lasciati completamente senza cibo: li si alimentava a gocce, per rendere più straziante l’agonia. Era la " sapienza" nazista nel trattare i nemici. Ogni giorno ne morivano venti o trenta.
All’alba, alla sveglia, dovevano uscire dalla baracca e a gruppi di cento, scalzi, coperti di piaghe, si dovevano sdraiare per terra all’ordine «Nieder» (giù, abbasso). Così veniva fatto l’appello.
Poi, in fila indiana, dovevano strisciare carponi. Quindi dovevano alzarsi e restare fermi in piedi nel cortile davanti alla baracca, al caldo dell’estate o al gelo dell’inverno. Quando faceva freddo questi poveri uomini si appallottolavano tra di loro, formando, come le vespe, una palla, un fornello. Chi era all’interno della «palla» si riscaldava mentre il resto della «palla», con un movimento continuo, spostava quelli che stavano al centro verso l’esterno e viceversa.
Nel gennaio 1945 arrivò un nuovo gruppo di ufficiali sovietici. Avevano tentato la fuga ed erano stati condannati al trattamento Kugel.
I componenti di questo gruppo capirono perfettamente a che cosa andavano incontro e decisero di fare una cosa coraggiosissima per chi è chiuso in un inferno simile: scegliere essi stessi come morire. Non lasciare i nazisti padroni del loro destino. Decisero quindi di tentare la fuga, ben sapendo che anche solo il tentativo di scappare li avrebbe portati a una morte immediata.
Scavarono con le mani il terreno attorno alla baracca, si procurarono delle pietre, presero due estintori e una notte, in cinquecento, provarono a fuggire. Fecero saltare la corrente ad alta tensione che percorreva il filo spinato sulla sommità del muro di cinta gettandovi sopra coperte bagnate. Aggredirono i militari di guardia sulla prima torretta con delle tavole. E si misero a correre. Lasciarono sul terreno innevato una scia ininterrotta di morti e di sangue.
In pochi riuscirono ad allontanarsi dal campo. E per quei pochi si scatenò subito una caccia all’uomo alla quale parteciparono tutti i soldati delle SS e tutti i civili della zona: alcuni erano volontari, altri costretti a collaborare. La caccia all’uomo finì dopo molti giorni con l’annientamento di quasi tutti i cinquecento ufficiali sovietici che avevano tentato questa loro ultima spaventosa avventura. Spaventosa, ma forse non folle come potrebbe apparire. Undici di questi ufficiali riuscirono a sopravvivere. Liberi. Famiglie di contadini austriaci, come si seppe poi, li avevano ospitati e tenuti nascosti. E tanto basta per continuare a credere nell’uomo.

Corriere della Sera 18.1.12
Museo di Auschwitz senza l'Italia, padiglione chiuso
di Frediano Sessi


Gli italiani che quest'anno, in occasione della Giornata della Memoria, si recheranno a Oswiecim per una visita a quello che fu il complesso concentrazionario di Auschwitz, troveranno una spiacevole sorpresa: dal luglio scorso il padiglione italiano (Blocco 21) che ricorda il dramma della deportazione dall'Italia, per decisione unilaterale della direzione del museo è stato chiuso al pubblico.
Il memoriale, pensato alla fine degli anni 60 come sintesi di arte e storia, già entro l'ottobre dello scorso anno avrebbe dovuto essere smontato e sostituito. In caso contrario, in mancanza di un nuovo progetto che prestasse più attenzione alla storia e alla didattica della memoria, lo spazio destinato all'Italia sarebbe stato concesso ad altri Paesi che da tempo, esclusi dalle mostre nazionali dei singoli memoriali, attendono uno spazio libero.
La storia del Blocco 21 è nota: nel 1971, l'Aned (associazione nazionale ex deportati) ottiene il consenso dalle autorità polacche per predisporre un memoriale sulla deportazione degli italiani. Nel 1975 lo studio Bbpr di Milano (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers) presenta il primo progetto. La difficoltà nella raccolta dei fondi porterà alla realizzazione dell'opera solo nel 1980, e il 13 aprile il memoriale sarà inaugurato. Belgiojoso spiegava così l'istallazione: «Ci siamo sforzati di ricreare allusivamente un'atmosfera di incubo, l'incubo del deportato straziato tra la quasi certezza della morte e la tenue speranza della sopravvivenza, mediante un percorso che passa all'interno di una serie infinita di spire di una grande fascia elicoidale illustrata, che accompagna il visitatore dall'inizio alla fine. È l'idea di uno spazio unitario ossessivo». Primo Levi, chiamato a redigere il testo, faceva parte del comitato esecutivo che decise la natura del memoriale, più artistico che informativo. La grande spirale immaginata da Belgiojoso fu poi illustrata da Mario Samonà, mentre il compositore Luigi Nono concesse l'uso del brano musicale «Ricorda che cosa ti hanno fatto ad Auschwitz»; il tutto con l'obiettivo, dichiarato alla direzione del Museo, che il padiglione italiano «fosse un luogo dove la fantasia ed i sentimenti di ognuno, più delle immagini e dei testi, rendessero l'atmosfera di una grande e indimenticabile tragedia» (dichiarazione di Primo Levi e Gianfranco Maris).
Dopo il 1989 molti dei padiglioni memoriali presenti ad Auschwitz sono stati rinnovati, in concomitanza con la revisione complessiva del sito. Francia, Olanda, Belgio, Ungheria hanno riscritto la storia della loro deportazione, più in linea con le nuove acquisizioni della ricerca e delle forme della memoria nazionali. Anche in Italia, dopo che il governo italiano ha approvato un finanziamento di 900 mila euro per il restauro del «Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio», a partire dai primi mesi del 2008 alcuni storici (tra i quali Giovanni De Luna e Michele Sarfatti) si sono chiesti se al posto dell'allestimento originario, artistico, non ne fosse necessario uno nuovo. La spirale di Belgiojoso racconta infatti l'occupazione delle fabbriche, l'Ordine Nuovo, Gramsci, l'antifascismo, in un discorso considerato difficile e arduo da capire anche sul piano storico. L'Aned per parte sua ha difeso il memoriale, sostenendo che un'opera d'arte parla un linguaggio universale e sempre comprensibile, come era nell'intento di chi progettò l'istallazione del Blocco 21.
Intanto le autorità polacche avevano preso contatto con il governo Berlusconi (Gianni Letta fungeva da mediatore), ma ora la realtà e davanti agli occhi di tutti. Il padiglione è chiuso, il memoriale degli italiani «censurato» e si spera che, anche a partire dal dibattito che si è aperto di recente sulle forme della memoria e sui modi di trasmetterla, il governo possa intervenire a fianco dell'Aned per consentire la riapertura al pubblico del Blocco 21, in attesa che un nuovo progetto (di restauro o di revisione dell'attuale) sia realizzato.

La Stampa TuttoScienze 18.1.12
Antropologia. La lezione di Tattersall al Festival delle Scienze di Roma:
L’appuntamento è per sabato prossimo
Come siamo diventati umani
Un giorno di 77 mila anni fa, in Sud Africa, inventammo i simboli
Un pensiero giovane in un corpo antico
Quale fu lo stimolo culturale che scatenò le nostre capacità? Il candidato più plausibile è l’invenzione del linguaggio
di Ian Tattersall


IL PARADOSSO I primi Sapiens di 200 mila anni fa non erano come noi

IAN TATTERSALL AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY
E’ CURATORE ALL’AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY IL SITO: WWW.AMNH.ORG/SCIENCE/ DIVISIONS/ANTHRO/BIO.PHP?SCIENTIST= TATTERSALL

Gli esseri umani sono inconsueti tra gli organismi e non solo per numerose caratteristiche anatomiche, che hanno a che fare con la locomozione bipede, ma anche per i modi in cui il loro grande cervello elabora le informazioni.
Le altre specie, infatti, vivono nel mondo seguendo la Natura e rispondendo in modo più o meno complesso o sofisticato agli stimoli sensoriali. Al contrario, gli esemplari moderni della nostra specie Homo sapiens decifrano i segnali da tutti gli ambienti, interni ed esterni, e li trasformano in vocabolari di simboli. Questi, poi, possono essere mescolati per produrre una varietà infinita di affermazioni non solo sul mondo così com’è, ma anche su come potrebbe essere. Il risultato, in un senso molto concreto, è che noi umani viviamo soprattutto in mondi che ci costruiamo individualmente. Questa esclusiva propensione umana è inseparabile dalla nostra creatività. E poiché - com’è ovvio - è costruita sulle fondamenta di una storia evolutiva molto antica, è interessante indagare quando, in questa vicenda, una simile caratteristica sia emersa, e come.
L’antenato comune
La stirpe umana ha cominciato a differenziarsi dall’antenato che ci accomuna con gli scimpanzè e con i bonobo all’incirca 7 milioni di anni fa e le testimonianze fossili che documentano le numerose fasi dell’evoluzione umana sono oggi piuttosto vaste. I primi ominidi (i generi Sahelanthropus, Orrorin e Ardipithecus) erano notevolmente diversi tra loro, dimostrando che fin dagli inizi la storia della famiglia degli ominidi è stata segnata dalla sperimentazione evolutiva piuttosto che da un miglioramento lineare. Questo modello di differenziazione è evidente anche nelle successive manifestazioni del gruppo Australopithecus-Paranthropus (i famosi australopitechi), nel periodo compreso tra 4,2 e 1,5 milioni di anni fa.
Anche se gli australopitechi potevano camminare eretti e possedevano numerosi adattamenti della parte inferiore dello scheletro per condurre un’esistenza almeno in parte terrestre, combinavano volti di grandi dimensioni con piccole scatole craniche. E nemmeno gli esemplari più tardi dovevano essere dotati di facoltà cerebrali significativamente superiori rispetto a quelle delle grandi scimmie attuali. Inoltre, sebbene abbiano avuto abitudini dietetiche più generaliste, non c’è motivo di credere che, almeno nelle fasi iniziali, gli australopitechi fossero cognitivamente più sofisticati degli scimpanzé di oggi, i quali, benché in grado di decifrare i simboli, non sono però in grado di rielaborarli come fanno gli esseri umani.
E’ ormai provato che gli ominidi usavano pietre taglienti per macellare le carcasse di animali già 3,4 milioni di anni fa. Questo comportamento implica capacità cognitive superiori a quelle di qualunque scimmia moderna, ma, sebbene le prove di una produzione intenzionale di strumenti di pietra risalga già a circa 2,5 milioni di anni fa, è difficile trovare delle prove che queste prime creature avessero la capacità mentale di «ricreare» il mondo. E, infatti, le tecniche di scheggiatura della pietra possono essere acquisite semplicemente attraverso l’imitazione e si può suppore che nessuna forma nota di tecnologia del Paleolitico rappresenti una testimonianza dei moderni processi del pensiero simbolico.
L’apparizione - 1,78 milioni di anni fa - di asce a mano, deliberatamente intagliate a forma di goccia, rivela l’emergere di un progresso cognitivo, ma questa innovazione sembra essersi verificata nell’ambito di una specie fisicamente avanzata, l’Homo ergaster (il primo vero bipede), e non è dimostrabile che abbia richiesto anche la presenza di processi mentali di tipo simbolico. Questo vale anche per l’invenzione successiva delle tecniche di lavorazione della pietra e per la realizzazione di strumenti complessi e anche per la scoperta del fuoco come fonte di calore e per la costruzione di rifugi: tutti comportamenti, questi, apparsi durante l’era dell’Homo heidelbergensis, una specie dal cervello non troppo grande e assai diffusa nel Vecchio Mondo, in un periodo tra 600 mila e 200 mila anni fa.
Reperti significativi Con la comparsa dell’Homo neanderthalensis, poi, circa 200 mila anni fa, siamo di fronte a una specie di ominidi che non soltanto possedeva un cervello grande quanto quello degli umani moderni, ma che ha lasciato reperti archeologici significativi. Eppure, per quanto importanti siano queste testimonianze, non contengono nulla che possa indiscutibilmente essere interpretato come un artefatto di tipo simbolico. "Una propensione esclusiva che si rivela inseparabile dalla nostra creatività"
Lo stesso si può dire per i primi fossili di Homo sapiens, provenienti da siti etiopi datati tra 195 e 160 mila anni fa. Il Sapiens è anatomicamente diverso da tutti gli altri ominidi e a tutt’oggi mancano nei reperti fossili esempi antecedenti morfologicamente simili. Questa realtà suggerisce che l’anatomia moderna sia nata da un cambiamento rapido nella regolazione dei geni, con effetti a cascata sullo sviluppo dell’organismo.
E’ solo dopo decine di migliaia di anni da questo evento biologico altamente significativo che cominciamo a individuare le testimonianze di un radicale cambiamento cognitivo, nel mesolitico africano. Il più antico artefatto generalmente accettato come simbolico è una superficie di pietra levigata, che porta inciso un motivo geometrico e che proveniene da uno strato risalente a 77 mila anni fa nella grotta di Blombos in Sud Africa. All’incirca appartenenti allo stesso periodo, sempre a Blombos, sono stati trovati gusci di lumaca marina forati per essere infilati in serie, mentre piccoli oggetti simili sono emersi anche nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Nelle società umane etnicamente documentate l’ornamento del corpo ha quasi invariabilmente significati simbolici (di status, classe d’età e così via) e lo stesso è stato dedotto, anche se indirettamente, per i ritrovamenti del Paleolitico.
Dal complesso di grotte nella zona di Pinnacle Point, poi, nello stesso periodo, arriva la prova del «trattamento termico» della creta silicea. Questo complesso processo di trasformazione di un materiale inerte grezzo per creare utensili richiede una sofisticata serie di fasi di lavorazione che, quasi certamente, implica una pianificazione di tipo simbolico. Altre testimonianze suggeriscono che ulteriori trasformazioni del comportamento si svilupparono nel mesolitico, a partire da 100 mila anni fa e prima che si verificassero nell’Europa occupata dai Neanderthal: ma la prima e definitiva prova della fioritura della moderna creatività umana proviene proprio dall’Europa, in seguito all’invasione del continente da parte dell’Homo sapiens, noto anche come CroMagnon, poco più di 40 mila anni fa.
Nessuno, osservando con attenzione l’arte portatile e quella parietale del Paleolitico superiore, può ragionevolmente dubitare che fosse il prodotto di una vera e propria sensibilità moderna. Ma queste manifestazioni dello spirito moderno sono in ritardo rispetto all’arrivo della specie Homo sapiens anatomicamente riconoscibile. Qual è, allora, il motivo di questo significativo scarto temporale tra il manifestarsi della nuova anatomia e l’emergere dei comportamenti simbolici? Lo scenario più semplice è che le basi neurali del pensiero moderno (che, come dimostra l’esempio di Neanderthal, non erano solo le conseguenze passive dell’aumento delle dimensioni del cervello) sono nate dall’evento che ha dato origine all’anatomia caratteristica dell’Homo sapiens. Questo potenziale, tuttavia, non fu sfrutttato finché non venne sollecitato da uno stimolo culturale. Non si sa con certezza quale sia stato, ma il candidato più plausibile è l’invenzione del linguaggio. E’ questo, sotto molti punti di vista, il massimo dell’attività simbolica umana ed è documentato che il linguaggio strutturato può essere inventato in modo spontaneo da gruppi umani dotati di un’«attrezzatura cognitiva» di base.
Se lo scenario è corretto, ciò significa che lo spirito creativo e simbolico dell’umano è emerso solo di recente e in un contesto estemporaneo piuttosto che adattativo. Per di più, è apparso in una popolazione (di Homo sapiens) che già possedeva un tratto vocale in grado di produrre i suoni necessari per esprimersi tramite un discorso articolato.
Dato che gli immediati precursori dell’Homo sapiens dovevano essere già cognitivamente sofisticati, è probabile che possedessero qualche forma espressiva simile alla capacità discorsiva. Come abbiamo visto, in linea di principio, non c’è niente di insolito in questo processo: dopo tutto, ogni grande innovazione comportamentale nell’evoluzione degli ominidi sembra essersi verificata all’interno di una popolazione già preesistente. Per quanto radicali possano essere, mutamenti come i processi simbolici dell’uomo moderno sono il prodotto di processi evolutivi routinari.
Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 18..12
Il Festival delle Scienze
Il cosmologo J. Richard Gott spiega uno dei grandi misteri della fisica
Se Einstein ci insegna a viaggiare nel tempo
Proprio grazie alla teoria della relatività speciale le avventure immaginate da H.G. Wells nei suoi romanzi non sono solo delle fantasie
di J. Richard Gott


Quando nel 1895 H.G.Wells scrisse La macchina del tempo, le leggi della fisica sostenevano che viaggiare nel tempo fosse impossibile. Il romanzo di Wells fu visionario nel trattare il tempo come una dimensione dieci anni prima che Minkowski usasse questo concetto nell´interpretazione della teoria della relatività speciale di Einstein. A volte la fantascienza anticipa la scienza vera e propria.
Nel 1905 Einstein mostrò come nella sua teoria della relatività speciale il viaggio nel futuro fosse invece possibile. Lo scienziato basò la propria teoria su due postulati: 1. il moto è relativo e 2. la velocità della luce (300000 km al secondo) è costante.
Dopodiché, Einstein dimostrò i teoremi basati su questi due postulati. Un teorema sostiene che non possiamo costruire un razzo che vada più veloce della luce: se il razzo su cui ci troviamo stesse viaggiando a una velocità maggiore di quella della luce, potremmo sparare un laser verso la punta del razzo e il fascio non la colpirebbe mai. La punta del razzo infatti si muove più veloce ed è partita prima: una volta che ci accorgessimo del fatto che il fascio laser non la raggiunge scopriremmo di starci muovendo, e questo non è permesso dal primo postulato.
Einstein immaginò il seguente esperimento mentale: costruiamo un orologio in cui un raggio di luce rimbalza su e giù tra due specchi orizzontali. Immaginiamo che un astronauta passi in volo accanto alla Terra a una velocità prossima a quella della luce, muovendosi da sinistra verso destra e con in mano un orologio del genere. Mentre si muove, noi sulla Terra vedremmo che i raggi luminosi dell´orologio dell´astronauta si muovono lungo percorsi diagonali tra i due specchi. Vedremmo che l´orologio ticchetta più lentamente rispetto al nostro – sulla Terra – perché questi percorsi diagonali sarebbero più lunghi rispetto a quelli che la luce compie nel nostro orologio. Allo stesso tempo, noteremmo che l´astronauta invecchia più lentamente rispetto a noi; in caso contrario, il suo invecchiamento non concorderebbe con il proprio orologio e l´astronauta potrebbe accorgersi di essere in uno stato di moto, cosa non permessa dal primo postulato.
Ecco come Einstein mostrò che gli orologi in moto ticchettano lentamente. Noi crediamo alla teoria di Einstein perché molti dei teoremi che ha dimostrato a partire dai suoi postulati sono stati messi alla prova e hanno dimostrato di essere veri. Uno di questi è la famosa equazione (Energia uguale alla massa per il quadrato della velocità della luce), che è stata dimostrata dalla bomba atomica. Einstein ci ha dipinto un mondo strano in cui orologi in moto uno rispetto all´altro non concordano, ma sembra proprio che sia il mondo in cui viviamo, perché tutti i test sperimentali della teoria di Einstein hanno dato i risultati previsti. Orologi atomici in viaggio su aeroplani che volano da est verso ovest intorno alla Terra (così che la velocità dell´aereo si sommi a quella di rotazione terrestre) sono in ritardo di 59 miliardesimi di secondo, proprio come ci si aspettava dalle previsioni di Einstein. Il più grande viaggiatore nel tempo, a oggi, è Sergei Krikalev che, grazie alle sue sei missioni orbitali ad alta velocità, è invecchiato di un quarantottesimo di secondo in meno di quanto avrebbe fatto se fosse rimasto a casa. Di conseguenza, quando ritornò sulla Terra, scoprì che la Terra si trovava di un quarantottesimo di secondo nel futuro rispetto a quanto lui avrebbe potuto aspettarsi: aveva viaggiato nel futuro di un quarantottesimo di secondo. Più velocemente andiamo, più avanti viaggiamo nel tempo. Se partiamo oggi, andiamo fino alla stella Betelgeuse, che si trova a una distanza di 500 anni luce, e torniamo indietro a una velocità pari al 99,995% di quella della luce, arriveremo sulla Terra nel 3012 e saremo invecchiati soltanto di 10 anni. Sappiamo che un simile viaggio nel futuro è possibile: i muoni dei raggi cosmici che si muovono a velocità prossime a quella della luce decadono più lentamente di quelli in laboratorio.
E che dire del viaggio nel passato? Teoricamente, se potessimo muoverci più velocemente della luce, potremmo viaggiare nel passato; Einstein, tuttavia, ha dimostrato che non possiamo costruire un razzo che viaggi più velocemente della luce. Nonostante ciò, nella sua teoria della relatività generale del 1915 Einstein dimostrò anche che la gravità può essere spiegata dagli effetti dello spaziotempo curvo. Ed ecco il trucco: possiamo superare un raggio di luce viaggiando lungo una scorciatoia nello spaziotempo curvo. Soluzioni delle equazioni di Einstein della relatività generale per stringhe cosmiche e wormholes presentano simili scorciatoie e sono abbastanza convolute da permettere di viaggiare indietro nel tempo e visitare il passato. Il viaggiatore temporale viaggia sempre, localmente, in direzione del futuro, eppure torna indietro a un evento del proprio passato; proprio nello stesso modo in cui l´equipaggio di Magellano circumnavigò il globo, viaggiando sempre verso ovest ma ritornando, alla fine, al punto di partenza in Europa. Una cosa del genere non potrebbe mai succedere su una superficie piatta. Costruendo un loop temporale nello spaziotempo curvo possiamo costruire una macchina del tempo per visitare il passato; non potremmo mai però usare questa macchina del tempo per visitare un passato precedente alla creazione della macchina stessa. Se creiamo un loop temporale nell´anno 3000, possiamo usarlo nel 3002 per tornare indietro al 3001, ma non possiamo tornare al 2012 perché questo anno è precedente all´esistenza del loop.
Un simile loop temporale esistito all´inizio del nostro universo potrebbe far sì che l´universo fosse la madre di se stesso. Per comprendere se sia possibile costruire simili macchine del tempo per visitare il passato potremmo aver bisogno di conoscere le leggi della gravità quantistica, ossia come la gravità si comporta su scale molto piccole: ecco una delle ragioni per cui questo argomento è così interessante per i fisici.
Traduzione di Eva Filoramo

La Stampa TuttoScienze 18.1.12
Un’occasione chiamata grafene
Il foglio a due dimensioni che rivoluzionerà il mondo
di Andrea Ferrari e Nicola Pugno


Università di Cambridge e Torino
IL PRIMO È PROFESSORE DI NANOTECNOLOGIE ALLA UNIVERSITY OF CAMBRIDGE E IL SECONDO È PROFESSORE DI MECCANICA STRUTTURALE AL POLITECNICO DI TORINO

Inizio 2012 molto promettente per André Geim and Kostya Novoselov, nominati cavalieri dalla regina Elisabetta: i due scienziati, nati in Russia, ma diventati cittadini inglesi, potranno esibire il titolo di «Sir». Ma questa non è certo la loro prima onorificenza. Hanno ricevuto innumerevoli riconoscimenti per i loro pionieristici studi sul grafene: dalla nomina a cavaliere comandante dell'Ordine del Leone dei Paesi Bassi alla fellowship della Royal Society, fino al Nobel per la Fisica nel 2010.
Ma è proprio il titolo di «Sir» - ha dichiarato Novoselov - a testimoniare come il grafene passi da ricerca accademica a oggetto di interesse strategico per lo Stato. E ancora una volta l’Europa dimostra di poter essere la capofila. L’Italia, in particolare, ha un ruolo di primo piano nel progettopilota della Commissione Europea che ha come obiettivo di preparare una «flagship» sul grafene, vale a dire un’iniziativa ambiziosa e visionaria, della durata di 10 anni con un investimento di un miliardo di euro: se approvata dalla Ue, sarà un volano di innovazione e sviluppo.
Merito del grafene, il materiale più stupefacente e versatile oggi disponibile. Costituito da un singolo foglio di atomi di carbonio, disposti a forma esagonale, possiede proprietà eccezionali, capaci di rivoluzionare i settori più diversi, dai computer alle auto all’idrogeno, dal fotovoltaico fino ai jet. Oltre a essere puramente bidimensionale (proprietà che lo rende ideale per applicazioni sensoristiche), è in grado di trasformare la luce solare in elettroni a ogni frequenza (perfetto per il fotovoltaico), ha elevate conducibilità termica ed elettrica, è trasparente ma impermeabile e detiene il record di resistenza meccanica (100 volte l’acciaio) e di elasticità (cinque volte l’acciaio). Il grafene, poi, conduce gli elettroni più velocemente del silicio ed è un conduttore trasparente, con una combinazione eccezionale di proprietà ottiche ed elettriche.
Potenzialmente, quindi, può dare inizio a una nuova rivoluzione sostenibile, basata sul carbonio, con un impatto profondo nell’informatica e nelle comunicazioni e in vari aspetti della quotidianità. Dalle sue proprietà possono nascere prodotti elettronici trasparenti e flessibili, dispositivi per l’informatica, biosensori, supercapacitori per sostituire le batterie convenzionali, materiali compositi ultraleggeri per auto e jet.
Usa, Giappone, Corea e Singapore stanno investendo enormi risorse nello studio del grafene e delle sue applicazioni. Ma all’origine delle ricerche ci sono vari gruppi di ricerca europei. E ora è quindi essenziale che il Vecchio Continente resti all’avanguardia nel settore e non perda i vantaggi che possono scaturirne. Ecco perché è necessario un approccio coordinato: la «flagship» sul grafene ha lo scopo di creare una rete multidisciplinare, che agisca da incubatore per nuove applicazioni, assicurando alle industrie europee un ruolo di primo piano nell’evoluzione tecnologica dei prossimi 10 anni. La fase pilota dell’iniziativa coinvolge oltre 500 gruppi di ricerca, che rappresentano 150 partner accademici e industriali di 21 nazioni europee. A coordinarla è un consorzio di nove partner: le università di Chalmers in Svezia e di Cambridge, Manchester, Lancaster in Gran Bretagna, oltre all’Istituto Catalano di Nanotecnologia in Spagna, il Consiglio Nazionale delle Ricerche in Italia, la Fondazione Europea della Scienza, la società AMO GmbH tedesca e la multinazionale finlandese Nokia.
Quanto al comitato scientifico dell’iniziativa, include quattro Nobel: oltre a Geim e Novoselov, Albert Fert e Klaus von Klitzing, e atri nomi di spicco come Luigi Colombo, Byung Hee Hong e Paco Guinea.
Il ruolo del nostro Paese è sottolineato dal fatto che due dei proponenti dell’iniziativa sono italiani, Vincenzo Palermo del Cnr di Bologna e uno degli autori di questo articolo, Andrea Ferrari dell’Università di Cambridge, in qualità di responsabile della «roadmap scientifica» e delle collaborazioni internazionali. A essere coinvolte ci saranno diverse università e centri di ricerca, tra cui spiccano, oltre al Cnr, l’Istituto Italiano di Tecnologia e il Politecnico di Torino, insieme con varie aziende.
Ora, quindi, l’universo del grafene si trova a un bivio tra ricerca fondamentale e le sue applicazioni e il suo potenziale è enorme. Utilizzando dispositivi a basso costo, display flessibili e touch screen basati proprio sul grafene integrato nella plastica, avremo la possibilità di includere dati e informazioni in ogni oggetto oggi incompatibile con la tecnologia a base di silicio. E’ quindi essenziale che non si perda un’occasione unica per investire in una tecnologia che è stata tenuta a battesimo in Europa.

il Riformista 18.1.12
Giordano Bruno bacchettato a Oxford
Esoterico. Pubblicato il secondo volume de ”La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto”, da cui il filosofo nolano si ispirò per dimostrare la teoria eliocentrica
di Errico Buonanno


Il secondo volume de La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, appena uscito per la Fondazione Lorenzo Valla e Mondadori, è un libro prezioso di cui vale la pena di conoscere la storia. Completa in maniera impeccabile la più curata delle edizioni di un complesso di scritti, il Corpus Hermeticum, che, come pochi, riuscirono letteralmente a cambiare le sorti del mondo; e, ancora più curiosamente, lo fecero per una serie di eventi fortuiti, incidenti, malintesi, così come, d’altra parte, succede spesso per le grandi svolte.
Quando nel 1463 Leonardo da Pistoia tornò a Firenze con delle opere provenienti dall’Egitto, in molti restarono stupiti: dei testi mistici attribuiti al mitico Ermete Trismegisto, profeta contemporaneo di Mosè se non persino più antico. La sua era una saggezza che aveva attraversato le epoche in forma segreta e per questo incorrotta fin dagli albori dell’umanità. Ermete era in grado di anticipare tutte le vette più alte del pensiero a lui successivo: la filosofia greca, il platonismo, e addirittura il cristianesimo. Bene. Tutta questa “preveggenza” altro non era che il frutto banale di un errore di datazione storica: gli scritti non erano più antichi del II e III secolo, successivi perciò a tutto ciò che “anticipavano”. Eppure fu questa confusione a rendere il Corpus Hermeticum un testo straordinariamente affascinante. Cosimo de’ Medici ordinò a Ficino di eseguire una traduzione lampo, la cui fortuna fu inaudita. L’immagine dell’universo come organismo vivente, il senso di un significato nascosto dietro l’apparenza del mondo furono gli elementi base di quella magia naturale a cui si dedicarono Pico della Mirandola e Cornelio Agrippa. Ma soprattutto il culto del Sole proposto da Ermete avrebbe ispirato utopie sociali come quella di Tommaso Campanella ed intuizioni fulminanti.
Come anni fa raccontò Frances Yates, non fu ben chiara l’avversione di Giordano Bruno nei confronti dei «pedanti» professori di Oxford (contro cui se la prendeva nella sua Cena delle ceneri) finché non venne rinvenuto lo scritto di uno di essi, Abbot. Quest’ultimo aveva assistito al ciclo di conferenze sulla teoria copernicana tenuto dallo stesso Bruno nella storica università inglese nel 1583, e ne aveva rivelato un incidente piuttosto increscioso. «Quando quell’omicciattolo italiano, che si autodefiniva magis elaborata Theologiae Doctor ecc... visitò la nostra università, non stava nei panni per il desiderio di divenire famoso. Quando ebbe occupato il posto più alto della nostra più famosa scuola, rimboccandosi le maniche come un giocoliere e facendoci un gran parlare di chenturm & chirculus & circumferenchia (tale è infatti la pronuncia del suo paese), egli intraprese il tentativo di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre, in verità, era piuttosto la sua testa che girava». Fin qui Abbot si limita, senza troppo gusto, a criticare la teoria eliocentrica e a prendere in giro l’italianità di Bruno. Ma il peggio, per il nolano, doveva ancora arrivare: «Un uomo grave, che occupava una posizione eminente in quella università, ebbe l’impressione di aver letto da qualche parte quelle stesse cose che il dottore stava esponendoci. Recatosi nel suo studio, trovò che sia la prima sia la seconda lettura erano state tratte, quasi parola per parola, dalle opere di Marsilius Ficinus». Colto in fallo, Giordano Bruno venne invitato dagli inglesi a prendere subito armi e bagagli e a porre fine al ciclo delle conferenze.
Senza alcun dubbio una figura barbina, ma non è questo che può interessarci, perché, senza rendersene conto, il professor Abbot ci sta fornendo un’indicazione preziosissima. Bruno stava sì difendendo la teoria copernicana, ma con qualche decennio d’anticipo rispetto al metodo empirico non lo stava facendo (e non avrebbe potuto farlo) con le armi della razionalità. Il filosofo difendeva Copernico ripetendo «quasi parola per parola» un’opera di Marsilio Ficino, il De vita coelitus comparanda. Un testo magico, un testo esoterico. Un testo impostato sul culto di un Sole come centro mistico dell’universo preso di peso dal Corpus Hermeticum. Ovvero: una verità scientifica, compresa attraverso la passione di un testo frutto di un malinteso storico. La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto è l’ennesima dimostrazione di come non ci sia nulla di meno razionale e più accidentale del progresso del mondo, e di come il Sole della verità sia spesso nascosto dietro le nebbie dell’equivoco.

Repubblica 18.1.12
Il Dna degli italiani
"Dalla retorica al servilismo combattiamo i nostri difetti"
Il nuovo libro del giurista Franco Cordero raccoglie i suoi interventi sui costumi del Paese Un racconto degli anni del Cavaliere che si mescola a quello dei caratteri nazionali
“C’è un ambiente sociale dominato da certe costanti che non favoriscono lo sviluppo migliore"
di Simonetta Fiori


Dopo l´agenzia di rating, anche Franco Cordero ci declassa d´uno scalino, anzi d´un soldo. Ma il riferimento è a Bertolt Brecht, non ai parametri dell´economia mondiale. E il paese squalificato non è l´Italia di oggi ma la "Rutulia" di qualche mese fa, sguaiata e ridanciana, governata da un re di danari che è anche peggio di Mackie Messer. L´opera italiana da due soldi è il racconto in sessanta quadri degli ultimi tre anni di vita italiana, un regnabat Berlusco alla maniera inconfondibile di Cordero, tra citazioni bibliche – il Leviathan di Giobbe – incursioni storiche fin dentro la corte dei Borgia, una lingua duttile e pieghevole, all´altezza di ogni variazione discorsiva (Bollati Boringhieri, pagg. 308, euro 17). Un viaggio tra opera buffa e fondali neri di una terra gaglioffa e istupidita, dove non vigono più logica, etica ed estetica ma affarismo allo stato selvatico e un cinico "ateismo clericocratico". «Ne siamo usciti? Non mi illuderei troppo», dice il professore mentre ci introduce nel suo elegante studio-biblioteca del quartiere Monti, nel centro di Roma, pieno zeppo di cinquecentine e testi rari, sistemati sugli scaffali in doppia fila perché non c´è spazio sufficiente. Il ritorno del Caimano – fu sua l´idea del rettile, poi adottata da Nanni Moretti – è ritenuta ipotesi verosimile da questo illustre giurista piemontese, nato 83 anni fa a Cuneo, maestro nel campo della procedura penale, autore non solo di testi giuridici ma anche di saggi storici, romanzi e pamphlet, da dieci anni commentatore di Repubblica (i cui articoli costituiscono l´ossatura del nuovo libro). «Probabilmente bisogna aspettare la fine di questa legislatura per assistere nuovamente al suo populismo forsennato».
Nelle sue pagine non spira grande fiducia nel carattere degli italiani. Lei insiste su un "codice genetico" vocato all´asservimento. Un destino ineludibile?
«La definizione più attendibile è quella suggerita dal Leopardi nel suo feroce Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl´italiani. Diversamente da altri europei, abituati allo scambio intellettuale, i nostri connazionali vi sono rappresentati in una dimensione selvatica, tra rituali inutili e un costante esercizio della maldicenza. Ma curiosamente Leopardi tratta le cerimonie religiose, non il fattore cattolico e controriformista».
Che è invece molto presente nelle sue pagine. Quanto ha contato il suo allontanamento dalla Cattolica?
«A 32 anni fui chiamato da quella Università per la cattedra di Procedura Penale. La chiamata non implicava servitù dogmatiche».
Lei era di fede cattolica?
«Lo ero nella misura in cui lo sono gli italiani. A Cuneo, dagli 11 ai 17 anni, avevo frequentato l´oratorio dei gesuiti, prendendo sul serio l´affare religioso. Ma dovevo riuscire piuttosto sospetto agli strateghi locali: ero uno dei pochissimi a non essere ammesso alla Congregazione Mariana».
Perché?
«Qualcosa in me suscitava l´impressione di una diversità o, meglio, di una mancanza. Non avevo quella naturale predisposizione, tipicamente cattolica, a prendere le cose drammaticamente. E non ero sufficientemente malleabile. L´assenza di malleabilità rende sospetti».
Fu così anche alla Cattolica?
«Probabilmente non sarebbe capitato nulla se non avessi ricevuto l´incarico di Filosofia del Diritto. Certo non potevano pretendere che insegnassi il diritto naturale secondo la visione cattolica. E lì nacque il dissidio. Il vescovo mi contestò l´uso pericoloso di fonti eterodosse. Gli risposi con Lettera a monsignore, che fu un piccolo bestseller. Il mio sospetto era che si trattasse di triviale contesa accademica mascherata sotto finzioni teologali».
Cosa glielo fece credere?
«Dopo sarei stato chiamato dall´Università di Torino e poi dalla Sapienza di Roma. La facoltà romana di Giurisprudenza non era un covo di bolscevichi, per farmi fuori sarebbe bastato solo un cenno da parte del monsignore. Insomma, non ci furono veti».
Che cosa le è rimasto di quell´esperienza?
«Incise profondamente sulla mia vita. Non avrei scritto quasi nulla di quello che poi ho scritto, oltre la produzione giuridica. E sarei una persona diversa da quella che, senza eccessive simpatie, ravviso in me. Diciamo che ho sperimentato alcuni degli aspetti consueti dell´ambiente italiano e cattolico».
Ancora il "carattere genetico". Ma questa letteratura anti-italiana, di cui lei è un insigne esponente, non rischia di essere un genere molto efficace sul piano retorico ma non altrettanto sul piano interpretativo?
«L´uso oratorio del linguaggio è un altro dei tratti tipici dell´italianità, che favorisce il fiorire di ogni tipo di retorica, tra cui anche quella anti-italiana».
Ma italiano è anche lei, professor Cordero. E italiano è anche l´attuale inquilino di Palazzo Chigi. Il nostro codice genetico non è solo cinismo e servitù.
«Ma la guerra mossa a certi caratteri dell´anima italiana non implica una condanna in blocco dei nati nella penisola. Se c´è una pianta d´uomo rigogliosa – ricorro alla formula di Alfieri – ricca di varietà individuali, questa è proprio l´italiano. Però l´ambiente sociale risulta dominato da certe costanti che non ne favoriscono lo sviluppo migliore».
Una costante è quella di equivocare serietà con mestizia. Di Monti si lamenta la tristezza, capo d´imputazione che pesò in passato su altri protagonisti.
«Il pubblico vuole cantori teatranti. Cavour risultava molto antipatico ai suoi coetanei perché estraneo alla retorica facile. Anche Giovanni Giolitti fu considerato figura odiosa per la sua scarsa facondia. Il discorso laconico, che è poi l´enunciazione di fatti, da noi è considerato atteggiamento respingente, grave difetto, segno inequivocabile di inferiorità. L´italiano è naturalmente retore, parolaio, arcade. Il Berlusconi barzellettiere e ipnotizzatore di folle è al grado zero di questa scala retorica».
Più illiberale di Mussolini, paranoico come Hitler, peggio di Mackie Messer. Le sue definizioni dell´ex premier non sono sospettabili di un eccesso di cautela.
«La mia prosa è dettata da una fredda analisi dei fatti. Quello di cui mi occupavo era un regime allo stato germinale, non compiuto. Gli italiani hanno corso un pericolo gravissimo, senza rendersene conto. Anche questo va ricondotto al nostro codice genetico: crediamo sempre di cavarcela».
È per questo che lei – giurista insigne, accademico riverito, autore di un Manuale di procedura penale arrivato alla diciottesima edizione – s´è occupato con sistematicità per dieci anni del Caimano?
«Civis sum. Se uno non mette becco sulle cose che riguardano l´interesse collettivo, si tratta di un´omissione ignava e cinica. Allora dobbiamo celebrare i finti equidistanti, artefici del pensiero a pendolo, una critica di qua e una di là, pur di non esporsi troppo».
Nel suo libro li definisce "predicatori governativi".
«Hanno responsabilità gravi. La principale è di aver accreditato Berlusconi come un politico "nuovo" e "liberale". Ma come era possibile definire in questo modo un monopolista cresciuto all´ombra del privilegio politico? Un esercizio tartufesco – quello di fingerlo ciò che non è – che temo possa riprendere con la ricomparsa del Leviathan».
Se dovesse dare una definizione dell´evo appena concluso?
«Quel che colpisce è la regressione intellettuale. Ricordo la finezza critica con cui i miei conterranei al caffè discutevano di qualsiasi argomento. Il piemontese è un dialetto molto fruibile nel discorso dialetticamente complesso, avendo un lessico e una sintassi molto duttili. Quelle conversazioni erano la vetrina di un´intelligenza nativa, che prescindeva dal grado di alfabetizzazione. Il berlusconismo è la negazione di tutto questo».
E ora che l´ex premier è uscito di scena?
«Mah, non mi sento privato del combustibile. Lo ritengo piuttosto una materia clinica di straordinario interesse. E temo, purtroppo, che ve ne sia ancora».

Repubblica 18.1.12
Addio a Gustav Leonhardt grande interprete di Bach


ROMA - È morto a Amsterdam il grande clavicembalista, organista e direttore d´orchestra olandese Gustav Leonhardt. Aveva 83 anni. Leonhardt fin dagli anni Cinquanta fu un pioniere del rilancio della musica barocca, in particolare di Johann Sebastian Bach. Maestro dell´interpretazione su strumenti antichi, nella sua carriera Leonhardt ha registrato quasi 300 album. Il suo nome viene associato alla registrazione integrale, fra il 1971 ed il 1990, di quasi 200 cantate sacre di Bach insieme con l´austriaco Nikolaus Harnoncourt. Il clavicembalista aveva anche indossato i panni di Bach al cinema, in "Cronache di Anna Magdalena Bach" (1967) di Daniele Huillet e Jean-Marie Straub.