giovedì 19 gennaio 2012

l’Unità 19.1.12
Marx e i vetturini
di Michele Prospero


Anche a Londra nel 1853 il Parlamento discuteva provvedimenti urgenti per diminuire il debito pubblico e abbassare l’interesse sui titoli di Stato. Tra le misure per rilanciare lo spirito d’intrapresa, in agosto la camera approvò una legge sulle carrozze che introdusse una nuova tassa e innalzò a reato lo sciopero dei vetturini.
Marx prese la vicenda dei vetturini inglesi come una occasione per riflettere sulla controversia tra la concorrenza e il monopolio. «Non è questa la sede per dirimere la questione dell’intervento statale nell’iniziativa privata», scriveva. Si trattava di una faccenda di grande portata teorica, difficile da risolvere con un articolo. Nella sua corrispondenza londinese, senza scavare più a fondo, Marx annotava: «Ci basta soltanto osservare che questa legge è stata approvata in un Parlamento liberista. Ma si dice che nel settore delle vetture da nolo non vi è libera concorrenza, bensì un monopolio». Questa asserzione non convinceva Marx che segnalava al riguardo le contraddizioni del vangelo liberista.
«Si tratta di una logica bizzarra. Prima si impongono una tassa chiamata licenza su un determinato settore commerciale, e speciali misure di polizia, e poi si afferma che, a causa di questi stessi gravami che sono stati imposti, lo stesso settore non ha più il carattere della libera concorrenza ed è invece stato trasformato in un monopolio di Stato».Questo è il paradosso del regime della licenza che con la concessione già data a caro prezzo o con l’allargamento delle autorizzazioni a nuove figure contiene una forzatura della logica della libera concorrenza che a rigore non contemplerebbe licenze esose che elevano un regime di monopolio. Certo, i clienti dei vetturini non appartenevano alle classi più popolari. E Marx ironizzava sul «povero aristocratico che è obbligato a servirsi di una vettura di piazza anziché di un cocchio di sua proprietà». Ma i modi con cui il Parlamento trattò la vicenda, con toni e metafore facili da dare in pasto ai giornali, lo colpirono molto. Le «riduzioni liberiste» che rendevano più a buon mercato talune merci e servizi gli parevano delle esche grazie alle quali venivano sfornate al pubblico delle piccole concessioni simboliche e poi però restavano intaccate le potenze economiche egemoni (la City, i ceti industriali e mercantili).
Gladstone, in un discorso durato 5 ore, aveva sostenuto che una tassazione sui titoli di Stato e sui capitali finanziari rappresentava un attentato alla lealtà pubblica che legava Stato e contribuenti. Non bisognava mai rompere (questo era il dogma anche allora riverito) il patto di fiducia con gli speculatori finanziari. I giocolieri del tesoro pubblico riuscivano sempre ad accollare sul lavoro i costi dello Stato e in più aggiungevano qualche diversivo per coprire meglio gli interessi delle potenze dominanti. I vetturini dovevano giocare questo ruolo scenico, a presidio di una vecchia consuetudine di racimolare le tasse proprio da chi possedeva meno ricchezza.
Di tassazione sui redditi e sui patrimoni reali neanche a parlarne perché, intuiva Marx, «dalla tassazione progressiva si cade direttamente in una sorta di socialismo molto incisivo». È chiaro che nelle questioni del fisco si nascondono ancor oggi i veri nodi del conflitto sociale moderno. Ed anche gli oneri per l’uscita dalla crisi sono connessi alla grande vicenda dell’equità fiscale. In un Paese in cui il tassista come l’orefice, il professionista come l’imprenditore si presenta come un «testimonium paupertatis» e denuncia redditi più consoni a chi versa in una indigenza cronica è evidente che sono spezzati tutti i vincoli di cittadinanza e coesione sociale. Il tassista blocca le città con minacce e sabotaggi ogni volta che si prospettano degli accertamenti delle entrate effettive o che si adombrano nuove licenze che abbassano i ricavi e accentuano la competizione. La ribellione selvaggia contro le nuove licenze che incutono timori e incertezza di reddito è il simbolo di una parte di società chiusa e corporativa che rifiuta di misurarsi con i costi della crisi. Le liberalizzazioni sono un metodo per immettere i servizi sul mercato, poi però occorre una politica per ripensare lo sviluppo, per definire il rapporto tra la grande distribuzione e la piccola attività, tra le tariffe e i costi, tra le professioni liberali e le imprese. Altrimenti, senza politica è solo caos e disobbedienza. Mentre tutto si agita e arde nella enorme polveriera della concorrenza che sfida gli interessi consolidati di professionisti, di lavoratori autonomi e del commercio, grandi potenze economiche, patrimoni immensi, fortune sconfinate dormono ancora indisturbati. Per questo occorre che i tassisti non siano soltanto un’esca, come furono i vetturini del 1853.

l’Unità 19.1.12
Intervista a Giulio Sapelli
«Non ci sono innocenti davanti al neoliberismo e ai suoi disastri sociali»
Il capitalismo è in default, ma non si vede una svolta. I limiti del governo Monti
La politica? Ripartire dal basso. L’Europa si salva se la Merkel perde le elezioni
di Rinaldo Gianola


Lei vorrebbe parlare della crisi del capitalismo? Ma sta scherzando? Se lo facciamo in questo Paese ci mettono in galera». Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università Statale di Milano, ha il gusto della battuta e della polemica culturale. Discutere con lui del default del capitalismo è come andare a una festa a sorpresa, dove ci si può attendere di tutto. Professor Sapelli, anche il Financial Times è preoccupato per le condizioni del capitalismo. Magari è morto e nessuno ci ha avvertito? «Distinguiamo. Il capitalismo neoliberista è fallito, non ci sono dubbi. Il capitalismo tout-court non ancora. Vedremo».
Un requiem per il neoliberismo?
«Sicuramente, anche se molti continuano a far finta di niente. Il capitalismo neoliberista si è dimostrato incapace di procurare sviluppo e benessere. Nei paesi dell’Ocse si contano 250 milioni di disoccupati di cui almeno 60-70 milioni sono disoccupati strutturali, destinati a restare senza lavoro per sempre. È una cosa che fa tremare i polsi perchè parliamo di paesi con sistemi politici democratici ed economie avanzate. Oggi misuriamo il fallimento neoliberista. Un secolo dopo dobbiamo rendere omaggio aRudolf Hilferding che nel suo “Il capitale finanziario” immaginava la prevalenza della finanza sul capitalismo industriale, anche se veniva svillaneggiato da Lenin e Plekhanov».
Oggi siamo in mezzo ai guai per il neoliberismo...
«Certo. Il neoliberismo si è presentato come un megacapitalismo con qualche cosa in più e di peggio: un nichilismo morale di massa che ha alimentato l’ingiustizia, la diseguaglianza sociale».
Data di nascita del capitalismo neoliberista e principali sostenitori-responsabili?
«L’anno è il 1989. Il neoliberismo inizia quando la Securities exchange commission (Sec), la Consob americana, autorizza la libera contrattazione sul mercato dei prodotti derivati, di finanza strutturata. È la svolta, assieme alla nuova disciplina delle banche d’affari e commerciali. Anche in Italia c’è un segnale forte con Amato e Ciampi che mettono in soffitta la legge bancaria del 1936. Inizia la stagione del capitalismo deregolato».
Adesso fuori i nomi.
«Ronald Reagan, la signora Thatcher. Ma storicamente è sbagliato pensare che il neoliberismo sia solo il prodotto di quella destra. La deregulation come ideologia di massa viene perfezionata e divulgata da Bill Clinton e da Romano Prodi. Nessuno può dirsi innocente davanti ai disastri del neoliberismo. L’unico che in Italia comprese il pericolo di quel nichilismo fu Cossiga, uomo della intelligence democristiana».
Il capitalismo ha ancora speranza?
«Il suo futuro è incerto. Io spero in un capitalismo ben temperato, polifonico, che convive con imprese non capitalistiche il cui obiettivo non è massimizzare il profitto, ma garantire il lavoro, la collettività. Ho fiducia nella filosofia dell’impresa cooperativa, nella divisione delle ricchezze nelle piccole comunità».
Ma queste idee non maturano da sole. Ci vorrebbe la politica, non crede?
«Certo. Ma guardiamo la realtà. Le classi politiche del mondo avanzato sono state conquistate o acquistate dal neoliberismo. Non c’è ministro del Tesoro che non sia stato dipendente della Goldman Sachs. In Italia il governo è guidato dall’ex rettore della Bocconi, che dovrebbe salvare la patria. Si rende conto in che condizioni siamo? La Bocconi è portatrice di un’ideologia neoliberista di serie B e Mario Monti è chiamato a fare il guardiano da un capitalismo subalterno, periferico e straccione. Guardi che Gramsci non aveva mica torto quando descriveva il capitalismo italiano».
Allora siamo tutti morti, non c’è più alcuna speranza politica?
«La politica tornerà, è questione di tempo. Credo nelle minoranze, nei piccoli gruppi. Ho fiducia nei movimenti sociali, anche in quelli che sono apparsi all’improvviso in America, nel mondo a contestare il capitalismo, le ingiustizie, l’arricchimento truffaldino. Ci sono alternative. Grandi paesi come il Canada e l’Australia non sono stati coinvolti nella crisi finanziaria perchè hanno forti banche cooperative».
Da dove ripartire?
«Dal basso, con umiltà, imparando dal passato, ascoltando anche gli insegnamenti delle religioni».
La religione?
«Ha un ruolo decisivo. Il buddismo in Asia ha temperato il capitalismo. Potrebbe farlo anche il cattolicesimo, così come l’ebraismo ha avuto un’influenza positiva sull’ideologia dei kibbutz. E anche l’Islam: noi siamo preoccupati per la minaccia dell’integralismo, ma le banche islamiche sono istituzioni serie. Ricorda il famoso discorso di Togliatti a Bergamo? La religione è un potente afflato per la rivoluzione, il cambiamento sociale, la giustizia».
Se il capitalismo è così malmesso perchè la sinistra non rialza la testa?
«Perchè la sinistra ha perso la sua autonomia culturale. Non propone più nulla, qualcuno scimmiotta il neoliberismo e pensa di apparire moderno. Papa Ratzinger dice cose più di sinistra di certi leader del pd. La questione è culturale. Lo sa perchè i signori del Financial Times discutono apertamente del capitalismo e dei suoi limiti?Sono preoccupatissimi di perdere potere e interessi. Sono pronti a tutto per resistere».
E la nostra Europa?
«La mia generazione aveva in mente gli Stati socialisti d’Europa, non questa dei banchieri centrali bastardi o incompetenti. Dipenderà dalla Germania. Spero che la signora Merkel perda le elezioni, così sarà possibile un cambio di stagione. Helmut Schmidt, storico leader socialdemocratico, ha fatto di recente un grande discorso. Ha detto alla Merkel di non dimenticare che la Germania è morta se cammina davanti all’Europa. Ha avvertito che gli altri paesi non seguiranno un passo prussiano, ha chiesto di non svegliare vecchi spettri. La speranza per noi e l’Europa è la vittoria della Spd. Vorrebbe dire che il socialismo ha ancora un senso».

l’Unità 19.1.12
Quando Marx criticava i «censori» dell’arricchimento
Il filosofo di Treviri spiegava che era futile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori e invitava a non confondere l’economia con la morale
di Massimo Adinolfi


E se, dopo aver capito che la ricetta reaganiana non funziona, e che non è vero che lo Stato sia sempre il problema piuttosto che la soluzione – se non altro perché allo Stato si è chiesto di salvare con migliaia di miliardi il sistema bancario americano – se ora che la crisi ha investito i debiti degli Stati europei dovessimo chiederci se non occorra essere più radicali? E domandare, a proposito del capitalismo, se anch’esso non sia il problema, invece che la soluzione?
Troppi «se», si dirà. Ma davvero sarebbe un bel guaio, perché di risorse intellettuali per misurarsi con un simile problema non ce ne sono molte, in circolazione. Non si vorrà mica tirare in ballo un’altra volta Marx? Certo lui qualche parolina l’ha detta, provando per esempio a sostenere che le crisi non sono eventi più o meno accidentali, ma fasi strutturali del funzionamento dell’economia capitalistica. Come si fa però a riprendere un’analisi del genere, se persino il termine, «capitalismo», è scomparso dal dibattito? In verità, la parola sta di nuovo facendo capolino, e il solo fatto che la si torni a usare indica perlomeno che il problema c’è: la fede nelle virtù taumaturgiche del mercato si è indebolita; indebolita è pure la convinzione che il mercato rappresenti sempre il miglior sistema di allocazione delle risorse; fragilissima è ormai la presunzione che alla politica spetti solo il compito di correggere le distorsioni del mercato.
Certo, non possiamo farne solo un affare di parole. Forse, però, tornare a usare la parola «capitalismo» aiuta a individuare nodi strutturali, quelli che non vengono meno solo per il fatto che non li si nomina più. Marx era ad esempio con-
vinto che la crisi si manifesta sì sui mercati finanziari, e anzi le bolle speculative la ingigantiscono oltre misura, ma comincia da un’altra parte, nella sfera della produzione: è lì che bisogna guardare. Siccome però il fenomeno della sovrapproduzione, che lui poneva all’origine della crisi, raccoglie le abbondanti ironie degli economisti mainstream, figuriamoci se proponiamo di tornare alle sue descrizioni del ciclo economico (con tanto di inevitabile crollo finale). Però, quando Marx spiega che è futile oltre che irresponsabile prendersela con l’avidità dei banchieri e l’egoismo degli speculatori, quando avvisa che non è buttandola sul piano della morale che si individuano le cause e si indicano le vie d’uscita, non sarà il caso di rimpiangere un pensiero critico altrettanto robusto? Così, se il presidente del Consiglio vola a Londra per riconquistare la fiducia dei mercati, ci si può chiedere se è di economia che stiamo parlando, o non piuttosto di psicologia?
Sentite allora Marx, quando ad esempio se la prende con la stampa: «Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca della crisi commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del libero commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno». Che dire? A parte il fatto che oggi il problema non ce l’abbiamo solo con i giornalisti inglesi, e che di decenni di panegirici ne abbiamo vissuti più d’uno, ma non avremmo bisogno di penne altrettanto sfrontate?
Perché di questo anzitutto si tratta: se il capitalismo crollerà, non ce lo manderà certo a dire, ma intanto si può auspicare un po’ più di libertà intellettuale, di intelligenza critica, di anticonformismo nel dibattito delle idee?

l’Unità 19.1.12
L’export di armi cresce verso i regimi con meno democrazia
L’Europa è diventata il primo esportatore di armamenti nel mondo e l’Italia figura tra i Paesi che ha più rifornito Libia, Bahrein, Siria e Yemen
Con sempre meno controlli da parte del parlamento e dell’Unione europea
di Umberto De Giovannangeli


Un quadro inquietante per un commercio che va, quanto meno, regolamentato e reso trasparente: il commercio delle armi. 470 pagine di tabelle e dati: è la «XII Relazione annuale sul controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari», che ricopre le esportazioni per il 2010. Un rapporto tanto più significativo perché il responsabile della pubblicazione è «Consilium» (il Consiglio dell’Unione Europea). Una relazione che sarebbe passata inosservata se non fosse stata rilanciata da un ampio gruppo di associazioni, reti e centri di ricerca di diversi paesi europei tra cui, per l’Italia, la Rete Disarmo e la Tavola della pace.
I dati innanzitutto. Da quelli forniti, emerge che il valore totale delle autorizzazioni (licences) di esportazione di armi nel 2010 è diminuito del 21% rispetto al 2009 quando avevano raggiunto un record di 40,3 miliardi di euro: nel 2010 ammontano a 31,7 miliardi di euro, una cifra vicina a quella del 2008 (33,5 miliardi di euro) che rappresenta uno dei valori più alti dall’attuazione nel 1998 di una politica comune europea sulle esportazioni di armamenti.
«Mentre il valore delle autorizzazioni all’esportazioni di armi verso i paesi occidentali (principalmente l’Unione europea e gli Stati Uniti) è sceso di oltre il 28%, è preoccupante notano le associazioni europee che le esportazioni di armi verso i Paesi delle economie emergenti e in via di sviluppo siano salite a 15,5 miliardi di euro, cioè a poco meno della metà del totale. Se il valore delle esportazioni di armi verso i regimi repressivi del Medio Oriente e Nord Africa è sceso rispetto ai livelli record del 2009, anche nel 2010 le autorizzazioni all’esportazione di armamenti verso queste zone di forte tensione sono rimaste molto alte e superano gli 8,3 miliardi di euro».
«Ai sensi dell’articolo 15 della Posizione comune dell’Unione europea sulle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari, è prevista nel 2012 una revisione della normativa dell’Ue sulle esportazioni di armamenti. Tale revisione può essere efficace solo se si basa su informazioni attendibili e complete e su un dibattito informato», sottolineano le associazioni europee.
Informazione e trasparenza sono alla base di un controllo da parte di istituzioni e opinioni pubbliche. Otto Paesi (quasi un terzo degli Stati membri, tra cui due dei principali esportatori di armamenti al mondo, cioè Germania e Regno Unito) non hanno fornito dati completi sulle consegne di sistemi militari, rendendo così praticamente impossibile l’analisi delle esportazioni effettive di armi da parte dei Paesi dell’Unione europea.
«Al riguardo va evidenziata l’ampia anomalia dei dati forniti dall’Italia precisa Giorgio Beretta, analista della Rete Disarmo, che per primo ha esaminato il rapporto pubblicandone un ampio resoconto sul portale Unimondo -. Mentre, la Relazione ufficiale della Presidenza del Consiglio sulle esportazioni di armamenti italiani per l’anno 2010 riporta come “operazioni di esportazione effettuate” un valore di circa 2.754 milioni di euro, il governo italiano ha segnalato all’Ue esportazioni effettuate per soli 615 milioni di euro. Se una minima differenza di dati tra i due rapporti può essere comprensibile, non può certo essere nell’ordine dei miliardi di euro soprattutto considerando che si tratta di consegne già effettuate nel 2010 e quindi con armamenti già passati e registrati dall’Agenzia delle dogane».
«L’Europa è ormai diventata il primo esportatore mondiale di armi sottolinea Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace contribuendo direttamente alla crescita dell’instabilità e del disordine internazionale. In un mondo che sembra ormai fuori controllo, con delle istituzioni internazionali fortemente indebolite, mentre l’Europa viene pesantemente attaccata dalla speculazione finanziaria, non possiamo permetterci di continuare a disseminare il mondo di armi italiane ed europee. L’Europa non può essere un fattore di destabilizzazione internazionale. Prima ancora di essere contro i nostri principi è contro i nostri interessi e la nostra stessa sicurezza. Chiediamo dunque al nuovo governo di agire di conseguenza».
Usa, Russia ed altri Paesi europei hanno fornito grandi quantità di armi a governi repressivi del Medio Oriente e dell'Africa del Nord prima delle rivolte di quest'anno, pur avendo le prove del rischio che quelle forniture avrebbero potuto essere usate per compiere gravi violazioni dei diritti umani: altro rapporto, stessa denuncia.
A sostenerlo è Amnesty International in un rapporto intitolato «Trasferimenti di armi in Medio Oriente e Africa del Nord: le lezioni per un efficace Trattato sul commercio delle armi», che esamina le esportazioni verso Bahrein, Egitto, Libia, Siria e Yemen a partire dal 2005. I principali fornitori di armi ai cinque paesi di cui si occupa il rapporto di Amnesty International sono Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia e Stati Uniti d'America.
Armi al Colonnello. Amnesty ha identificato 10 stati (tra cui Belgio, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Russia e Spagna) i cui governi hanno autorizzato la fornitura di armamenti, munizioni e relativo equipaggiamento al regime libico del colonnello Gheddafi a partire dal 2005. Alcune delle munizioni recuperate in Libia erano anche di fabbricazione cinese, bulgara e italiana come, rispettivamente, le mine anticarro Tipo 72, componenti per razzi e i proiettili d'artiglieria da 155 millimetri.
Dalla Libia all’Egitto. Almeno 20 Stati hanno venduto o fornito all' Egitto armi leggere, munizioni, gas lacrimogeni, prodotti antisommossa e altro equipaggiamento: in testa gli Usa, con forniture per un miliardo e 300 milioni di dollari all'anno, seguiti da Austria, Belgio, Bulgaria, Italia e Svizzera. Amnesty riconosce che «quest'anno la comunità internazionale ha fatto alcuni passi avanti, limitando i trasferimenti internazionali di armi a Bahrein, Egitto, Libia, Siria e Yemen». Tuttavia, secondo Amnesty, «sono gli attuali controlli sulle armi a non aver impedito i trasferimenti negli anni scorsi».

La Stampa 19.1.12
Niente più carcere per i reati minori
Lo prevede un ddl a firma del Pd Lanfranco Tenaglia Ma la Lega si oppone: c’è un eccesso di discrezionalità
di Francesco Grignetti


ROMA I deputati esperti di giustizia ne hanno discusso tra loro anche ieri in un comitato ristretto e la settimana prossima dovrebbero venire allo scoperto. La nuova maggioranza trasversale è pronta a una nuova legge per depenalizzare i reati quando siano di «particolare tenuità». Caso classico, la mela rubata in un supermercato. Il processo nemmeno partirebbe. Tutto subito in archivio. Detto questo, il confine della «particolare tenuità» è abbastanza vago e rimesso alla discrezione dei magistrati. Finora era una semplice attenuante. In futuro, se questo ddl che porta la firma di Lanfranco Tenaglia, Pd, divenisse legge, sarebbe una corsia privilegiata per chiudere molti processi sul nascere. «Sarebbe - dice - una misura di buon senso. Tante volte non c’è bisogno di un lungo e costoso processo, addirittura con tre gradi di giudizio, a fronte di casi di impatto minimo sulla società». Ma c’è un ma. La Lega Nord s’è già messa di traverso. Ai leghisti non piace questa norma buonista che porterebbe all’archiviazione senza processo per tanti piccoli reati. Sono pronti a cavalcare il caso. Se protestano già contro un provvedimento in fondo inoffensivo come l’allargamento della legge svuota-carceri (si va ai domiciliari quando mancano 18 mesi alla fine della pena), che pure avevano approvato quando erano al governo (e valeva solo per gli ultimi 12 mesi), e gridano all’amnistia mascherata, figurarsi di fronte a una legge che farà finire in archivio, senza condanne, chissà quanti procedimenti per reati minori.
In verità l’archiviazione d’ufficio per i casi di «particolare tenuità» è già una regola nei processi minorili e nei procedimenti davanti al giudice dipace. Viene adottata in un buon 20 per cento di quei procedimenti. Dice ancora Tenaglia: «Non è possibile, però,fare nessuna stima per il processo penale ordinario. Di sicuro non varrebbe per reati di grande impatto quali l’omicidio, la rapina o anche i reati contro la pubblica amministrazione che di per sé non possono definirsi “tenui”. Può funzionare invece per il furto di una mela, per una diffamazione, per le piccole calunnie, per tanti piccoli reati contro il patrimonio. Non sarebbe mai applicabile nel 20 per cento dei casi».
Al ministero della Giustizia, una norma del genere non dispiace. La ministra Paola Severino l’annovera tra le possibili riforme dall’effetto deflattivo del processo penale. E per una volta sono d’accordo anche eterni duellanti come Enrico Costa, Pdl, e Donatella Ferranti, Pd. Costa però ci tiene a non concedere eccessiva discrezionalità ai magistrati e vorrebbe meglio definire quando un caso è «tenue» oppure no per non dare ad alcuno una licenza di furto. Ferranti, a sua volta, chiede che ci sia comunque un coinvolgimento delle parti lese e una forma di risarcimento del danno, quantomeno in forma di lavori socialmente utili. Entro una settimana, comunque, la commissione Giustizia della Camera dovrebbe licenziare una legge che andrà in Aula a marzo.
La Lega, come detto, è all’opposizione. «Noi siamo contrari», spiega Carolina Lussana, leghista. I leghisti erano già riusciti a condizionare la maggioranza di centrodestra un anno fa alla prima uscita di Tenaglia, quando al ministero della Giustizia c’era Angelino Alfano e il Pdl era più che bendisposto. I leghisti sentono odore di buonismo nei confronti di nomadi e clandestini vari. Né l’esempio della mela rubata al supermercato li commuove più di tanto. «C’è - dice ancora Lussana - un eccesso di discrezionalità nel meccanismo dell’archiviazione. Noi riteniamo che questo tipo di depenalizzazione non possa essere concessa tout court. Se proprio si deve procedere a qualche forma di depenalizzazione, discutiamo. Ma va trovata una altra forma di sanzione. Se c’è stato un reato, non è accettabile fare come se niente fosse stato».

il Fatto 19.1.12
Santi e canaglie
Il vizio dell’eroismo “à la carte”
di Angelo d’Orsi


Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”: è poi così giusta la sentenza di Brecht? Ma, soprattutto, è possibile fare a meno degli eroi? Forse no. Nella storia il panorama, in ogni situazione, è sempre attraversato dalle figure opposte, che tendiamo a far diventare quasi idealtipi, dell’eroe e della canaglia. Per ogni Enrico Toti c’è un “soldataccio” austriaco. Per ogni Leone Ginzburg c’è un torturatore nazista. Per ogni Paolo Borsellino c’è un Totò Riina. Per ogni De Falco c’è uno Schettino. Eppure, è un gioco possibile quello di guardare le cose da un’altra prospettiva: nella manualistica austriaca Giuseppe Mazzini è una canaglia; per i fascisti ieri, e i rovescisti della storia, oggi, i partigiani erano tutte canaglie, ladri, assassini, stupratori; per il vasto territorio della cultura mafiosa i giudici e i poliziotti uccisi erano tutti “cornuti”, spazzatura da disperdere nel vento, o da seppellire sotto piloni di cemento su qualche cantiere autostradale... A ciascuno, come dire, i suoi eroi. E anche dal nostro personale gotha possiamo essere poi giudicati dagli altri. “Mangano è un eroe”, ebbe a dichiarare, stentoreo, riferendosi a un suo stalliere mafioso, tale Berlusconi. E questa frase, scappatagli in un rarissimo momento di spontaneità e veridicità, lo ha inchiodato più di decine di capi d’accusa, giuridicamente fondati. Certo l’eroicizzazione e la demonizzazione sono processi facili quanto discutibili, ma altrettanto inevitabili. In fondo una comunità si cementa anche intorno alle figure esemplari, nel bene e nel male. E nella storia spesso accade che non soltanto che gli opposti fronti giudichino eroi le canaglie e viceversa; ma capita anche che le canaglie di ieri divengano gli eroi di domani, in una incessante altalena. Pensare il mondo diviso in eroi e canaglie, comunque, ci rassicura, ci fa sentire spettatori tranquilli, nei limiti del possibile, di fatti più grandi di noi. La storia come un palcoscenico, e noi applaudiamo ai De Falco, e fischiamo agli Schettino.
E mentre lo stesso capitano della Concordia per i suoi sostenitori è un eroe, perché avrebbe salvato centinaia di vite, e il rappresentante della Capitaneria di porto, lo accusa di viltà, ribattendo che le vite potevano e dovevano essere salvate tutte, noi ci rendiamo conto che, con tutta l’antipatia che spontaneamente o in modo un po’ pilotato, ci capita di provare per il primo, e la stima per il secondo, la cautela dovrebbe essere obbligatoria, anche davanti alla sconvolgente emozione procurataci da immagini e parole: lette e, ahimè, ascoltate; parole che non avremmo immaginato di ascoltare neppure in un mediocre film del filone catastrofista, oggi non più tanto di moda, essendo ormai il mondo in condizione perenne di pre-catastrofe.
“Paese di eroi”, sarebbe il nostro, secondo una delle tante vecchie, logore etichette: e il De Falco di turno, ce lo dovrebbe ricordare. Eppure, fin troppo facile a nostra volta puntualizzare che chi fa il suo dovere, chi dimostra la maturità necessaria in ogni situazione, chi sa assumere le proprie responsabilità – invece di scaricare su altri, attaccarsi a pretesti, piagnucolare il pianto degli “eterni innocenti” (come scrive Antonio Gramsci, uno che di eroismo ne ha regalato non solo all’Italia) –, è semplicemente un cittadino, cosciente di far parte di una comunità, con tutto ciò che ne consegue in termini di assunzione di responsabilità, appunto. Grazie, capitano De Falco, a nome di tutti gli italiani e le italiane che ancora sanno sentire l’appartenenza alla collettività nazionale. Purtroppo, tendiamo, suggestionati dalle vicende recenti, specie se opportunamente mediatizzate, a dimenticare gli eroi “veri”, che sono gli eroi consapevoli, ossia coloro che scelgono convintamente, dopo aver valutato le situazioni, da che parte stare, che sono pronti a immolare carriera, affetti, e la vita stessa, da Francesco Pagano a Carlo Rosselli, da Salvo D’Acquisto a Giovanni Palatucci, da Rosario Livatino a Giovanni Falcone. Soprattutto non dimentichiamo coloro che, magistrati, ufficiali, funzionari e agenti di polizia, ogni giorno sfidano le grandi organizzazioni criminali tutti i giorni, sapendo di non avere adeguati strumenti di autodifesa, privilegiando il bene comune, la legalità e talora, spingendosi oltre le forme, tentano di tutelare anche il contenuto più prezioso, la giustizia sociale.

il Fatto 19.1.12
Il governo degli indignados
di Pilar Velasco


È da qualche giorno in libreria “Non ci rappresentano. Il manifesto degli indignati in 25 proposte” della giornalista spagnola Pilar Velasco, di cui pubblichiamo parte della nota introduttiva.

Il 15 maggio la piattaforma Democracia real ya convocò una manifestazione in 60 città spagnole. Quella domenica, alla Puerta del sol di Madrid, quanti scesero in piazza condividevano il motto più eloquente degli ultimi anni: “Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri”. Conoscevano gli abusi e gli eccessi del sistema finanziario, e oltre a conoscerli, avevano dato loro un volto. La marcia fu un successo. Fino a sera. Al termine del percorso, moltissimi ragazzi improvvisarono un sit-in pacifico in plaza de Callao. Arrivarono le camionette, le cariche della polizia... Ci furono 24 arresti. Le corse notturne dei manifestanti dispersi confluirono verso Sol. Sempre più indignati. Perché più di centomila persone avevano gridato “il sistema non funziona”, e il sistema aveva risposto come di consueto. Quella prima notte, circa 40 ragazzi si sedettero sull’asfalto del centro di Madrid come reazione alle cariche. Chi abitava nelle vicinanze portò coperte e sacchi a pelo. Lo scrissero sui muri: “Se non ci lasciate sognare, non vi lasceremo dormire”. Quella notte i candidati, distesi nei loro letti, non sapevano che mancavano solo poche ore al termine della campagna elettorale. Gli ultimi comizi sarebbero stati oscurati dai messaggi di Puerta del sol.
ALLE CINQUE di mattina, quando ormai i giornalisti se n’erano andati, la polizia procedette allo sgombero. Li trascinarono per terra, li malmenarono e ne portarono via otto sulle camionette. In totale, un arresto.
Due giorni dopo il 15-M, i suoi partecipanti reagirono allo sgombero invadendo Sol. Fino a lì, una scena già vista. Ma il discorso non si era mai sentito prima. Stavano dicendo forte e chiaro, megafono in mano, in piedi su pedane improvvisate: “Questa democrazia non ci rappresenta”. Quel martedì magico tutto cominciò con l’occupazione del selciato della piazza. Lo ricoprirono di cartoni e borse riciclate, e comparvero i primi bigliettini, che testimoniavano uno sforzo logistico partito la notte precedente. Su uno si leggeva: “Ci servono coperte, acqua, guanti, candeggina, segatura, sacchi dell’immondizia, teloni, auto, furgoni, tupperware, medicine”. Il bisogno di esprimersi inondò tutti gli angoli di Puerta del sol. Nei vicoli, ancora poco trafficati, si discuteva seduti in cerchio e a bassa voce per non svegliare i residenti; in calle de Preciados si dibatteva di economia e in calle Carretas di arte. Ogni muro e manifesto pubblicitario, ogni lampione, l’ingresso della metropolitana, le impalcature e le vetrine dei negozi testimoniavano le storie e le istanze di quell’enorme rete che era già un movimento senza saperlo. Senza badare alle divergenze e ai punti di incontro, ogni striscione veniva scritto insieme e ogni motto entrava a far parte del racconto sociale composto per strada. L’uno voleva scrivere il messaggio dell’altro. Nessuno aveva “nient’altro” da fare che stare lì: come se si dovesse abolire il denaro o il lavoro obbligatorio in quell’istante, come se rimanessero solo sette giorni per sistemare tutto. Sol era il luogo, la priorità e il momento. Andarsene era impossibile. Stavano costruendo il loro governo. Sovrani senza sudditi che non intendevano più chiedere il permesso per scendere in strada. Decine di cellulari twittavano quel mormorio con i primi hashtag. Anche a chi non partecipava, era chiara l’importanza di essere lì.
A OGNI messaggio riferito a @acampadasol – l’account dell’acampada su Twitter – i follower dell’account si moltiplicavano. A ogni #15M, #spanishrevolution, #acampadaensol, #yeswecamp, seguivano decine di retweet, domande, consigli, ringraziamenti. Bastava dire come andavano le cose e per mezzo del network più rapido di messaggistica breve diventavano trending topic a Madrid, Valencia o Barcellona. In meno di ventiquattr’ore a Puerta del sol venne creata la più complessa struttura di commissioni e gruppi di lavoro che si sia mai vista in una mobilitazione di questo tipo. Diciotto commissioni si incaricarono della gestione logistica dell’acampada. In seguito il modello sarebbe stato riproposto – sempre in scala ridotta – in decine di altri posti. Lo spirito del battezzat0 “maggio spagnolo” ha inaugurato un modo diverso di discutere. Senza grida né imposizioni, senza sovrapporsi nei turni di parola. Si tratta di giungere agli accordi con la responsabilità di dotare di contenuto le proposte.
DARE L’ESEMPIO. Dimostrare che quanto si chiedeva era possibile: democrazia vera, orizzontale, pacifica e fondata sul consenso. (…) Si sono voluti presentare i contenuti di riforma istituzionale come i temi centrali del movimento. Ma nel nuovo governo cittadino ci sono anche proposte economiche. Radicali. Perché quando gli indignati chiedono vera democrazia subito vogliono farla finita con quella concezione perversa secondo la quale la politica è il mezzo, non il fine. I motivi di indignazione possono essere molti. Per questo, fra gli acampados convivono molte ideologie. Nel magma iniziale,tuttitrovanoposto.Masarà il movimento stesso a fare chiarezza su chi condivide il manifesto degli indignati.

Repubblica 19.1.12
l Professore, la Chiesa e l'Ici dimenticata
di Miguel Gotor


MARIO Monti ha rilasciato ieri un´intervista a L´Osservatore Romano: un gesto di attenzione significativo da parte della Santa Sede poiché avviene di rado che l´organo ufficiale della Città del Vaticano intervisti il presidente del Consiglio in carica.
Tanto più che il colloquio cade all´indomani dell´udienza ufficiale di Monti con papa Benedetto XVI, in una qualche misura a suggellare il felice esito di quell´incontro.
L´intervista sottolinea il fondamentale contributo dei cattolici alla vita sociale italiana e tocca i principali problemi all´ordine del giorno: dalla crisi economica globale al futuro della moneta unica, dai destini del progetto di integrazione europea alla questione della cittadinanza italiana per i minori stranieri, dai programmi del governo in materia di liberalizzazioni alla politica fiscale.
Monti mette in risalto che proprio in quanto "tecnico" «può liberamente affermare che l´antipolitica e l´antiparlamentarismo causano danni che nel tempo possono dimostrarsi insidiosi». Da questa considerazione deriva la necessità che «ogni soggetto, individuale e collettivo, privato e pubblico, è chiamato a essere "migliore", in ogni ruolo - piccolo o grande - che assuma». Inoltre, evidenzia l´importanza dei "beni comuni" come orizzonte della politica nazionale e comunitaria e riconosce che sia la Santa Sede sia la Conferenza episcopale italiana possono svolgere un ruolo critico e propulsivo di rilievo perché «di fronte al bene comune non si può sfuggire». Per quanto riguarda gli interventi fiscali il presidente del Consiglio ribadisce il massimo rigore nella lotta all´evasione.
E tuttavia manca una questione: sia le domande relative alla politica fiscale, sia le risposte di Monti eludono il nodo del pagamento dell´Ici da parte della Chiesa cattolica per quei luoghi di carattere "parzialmente" commerciale che oggi sono esenti. Come è noto, tali immobili entrano in contraddizione sia con le previsioni della legge "concordataria" 222/1985, richiamate dalla Corte suprema di Cassazione nel luglio 2010 (in cui è stato condannato un ente ecclesiastico di Assisi) sia con la normativa europea che vieta gli aiuti di Stato e l´indebita concorrenza.
Tempo fa il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato che «se ci sono punti della legge da rivedere o da discutere, non ci sono pregiudiziali da parte nostra». Si tratta di una disponibilità importante che il governo italiano, tanto più perché non strettamente legato da vincoli di carattere elettorale, dovrebbe verificare e raccogliere: sarebbe imperdonabile lasciarla cadere nel vuoto. In un periodo di crisi come questo è giusto che tutte le istituzioni, Chiesa cattolica compresa, si mostrino disposte all´impegno, al sacrificio, all´esempio e facciano seguire ai pronunciamenti i fatti: unicuique suum, ossia "a ciascuno il suo", come recita per l´appunto il motto de L´Osservatore Romano

La Stampa 19.1.12
Operazione Qumran
Da febbraio a Gerusalemme un’équipe italiana al lavoro sui materiali archeologici rinvenuti negli Anni 50 Sveleranno gli ultimi misteri dei Rotoli del Mar Morto
di Maurizio Assalto


CACCIA AL TESORO Dopo le prime scoperte, studiosi contro beduini. Poi lo stop per le guerre arabo-israeliane
DUBBI E INTERROGATIVI Troppe monete per una comunità pauperista. E perché quei corpi sepolti non secondo l’uso ebraico?

Lo uadi Qumram, dove tra il 1947 e la metà degli Anni 50 sono stati ritrovati, in undici grotte, i celebri rotoli. Il sito si trova sulla costa nord-occidentale del Mar Morto, in Cisgiordania
I manoscritti del Mar Morto, conservati a Gerusalemme nel Museo d’Israele, grazie a Google dallo scorso settembre sono accessibili a tutti su Internet (http://dss.collections.imj.org.il) in un sito che, oltre alla traduzione in inglese di cinque rotoli, offre la possibilità di zoomare per scandagliarli nei minimi dettagli e di inserire i propri commenti
I rotoli vennero rinvenuti dentro giare di terracotta. La scoperta si deve a un pastore beduino, forse anche contrabbandiere
Nelle grotte sono stati ritrovati in totale circa 900 manoscritti, prevalentemente su pergamena, ma alcuni anche su papiro e uno su rame, contenente una «mappa del tesoro»

La storia era una di quelle a cui si crede volentieri. Il pastorello beduino che pascola il gregge, una pecora che se ne va per conto suo, lui che la insegue in una grotta e dentro alcune giare di terracotta trova un tesoro. I Rotoli del Mar Morto: la più grande scoperta archeologica del secolo scorso, assieme alla tomba di Tutankhamon, ma ben più densa di implicazioni politico-religiose, conflitti accademici, intrighi internazionali. Il racconto «funzionava», un misto di Alì Babà e della parabola evangelica della pecora smarrita.
«Peccato che la realtà fosse un po’ più complicata», fa notare Marcello Fidanzio, coordinatore scientifico dell’Istituto di Cultura e Archeologia delle Terre Bibliche di Lugano, professore di Ebraico biblico alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale a Milano. Insieme con Riccardo Lufrani, Fidanzio è a capo dell’équipe italiana che dal 1˚ febbraio sarà a Gerusalemme, incaricata di studiare e pubblicare i materiali scavati negli anni 50 nel sito di Qumran, sulla costa nord-occidentale del Mar Morto, presso le grotte dei famosi rotoli che contengono, tra l’altro, alcuni tra i più antichi manoscritti della Bibbia. L’archeologia è la chiave per comprenderli meglio, dopo sessant’anni di ricostruzioni fantasiose.
Il ritrovamento, secondo la versione ufficiale, risale al 1947. Merito di un certo Muhammad ed-Dibh («il Lupo») e forse di un altro paio di beduini ta’amireh. Ma in realtà pare che si debba risalire più indietro, agli ultimi mesi del ’46. E forse quei beduini non erano tanto pastori, quanto contrabbandieri in cerca di nascondigli per la loro mercanzia. «Ma il fatto più triste», dice Fidanzio, «è che tutte le prime testimonianze convergono su uno stesso punto: che la pergamena di cui è fatta la maggior parte dei rotoli era un materiale molto utile per fabbricare i legacci dei sandali…». Con ogni probabilità alle grotte che punteggiano la falesia di Qumran avevano già attinto altri in passato, come è suggerito anche dalla constatazione che molte giare vennero rinvenute vuote. Del resto in questa zona già nel III secolo d. C. erano stati ritrovati manoscritti biblici: lo riferisce Eusebio di Cesarea nella Storia ecclesiastica (324 circa), raccontando che Origene se ne sarebbe servito per redigere la sua Esapla .
Quel che è certo è che, con le 24 sterline ricavate dalla vendita del bottino a un mercante di nome Kando che aveva la bottega nella piazza della Mangiatoia a Betlemme, Muhammad il Lupo si comprò un fucile, venti capre e una moglie e cambiò vita. L’antichità dei manoscritti era stata riconosciuta da Eleazar Sukenik, insigne archeologo dell’Università ebraica di Gerusalemme, nel novembre del ’47. Da quel momento la caccia ai rotoli, quelli nascosti nelle altre grotte di Qumran, poteva dirsi aperta. Pochi giorni dopo, però, il 29 novembre, l’Onu votò la partizione della Palestina tra arabi e ebrei. Seguì il 14 maggio ’48 la dichiarazione unilaterale che sancì la nascita dello Stato di Israele. E, il giorno dopo, lo scoppio del primo conflitto arabo-israeliano. Per un paio di anni, fino a quando la Cisgiordania venne annessa dalla Giordania, la zona di Qumran fu off-limits. Cessate le ostilità, le ricerche potevano riprendere, con gli archeologi di tutto il mondo (ma con l’importante esclusione degli israeliani, ossia i più interessati) pronti a contendere il tesoro ai beduini, che erano avvantaggiati dalla conoscenza dei luoghi. Alcune grotte erano raggiungibili soltanto calandosi per una trentina di metri sul fianco della falesia, altre distavano fino a due chilometri dal sito.
In mezzo a tutte queste complicazioni, l’incarico di condurre gli scavi fu affidato a un domenicano francese, Roland de Vaux, ferratissimo storico e archeologo direttore dell’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme. I lavori si protrassero fino al 1956, quando la seconda guerra arabo-israeliana, conseguente alla crisi di Suez, impose un nuovo stop. Ma il grosso era fatto: centinaia di grotte erano state ispezionate, e undici di queste avevano restituito importanti rotoli, per un totale di circa 900 manoscritti in decine di migliaia di frammenti. Restava da studiarli e pubblicarli. Nel 1959 De Vaux, che in tutti quegli anni aveva pubblicato periodici rapporti sulla Revue biblique, propose la sua teoria: Qumran era il sito comunitario degli Esseni, una setta che intorno al 150 a. C. si era staccata da Gerusalemme, in opposizione all’«empia» ellenizzazione dell’ebraismo, per praticare il lavoro, la preghiera e l’osservanza della purità rituale; e i rotoli erano la loro biblioteca, nascosta nelle grotte per metterla in salvo, al tempo della rivolta antiromana culminata nella distruzione del Tempio, nel 70 d. C.
«La teoria sembrava convincente», osserva Fidanzio, «perché molti dei primi manoscritti erano relativi alle norme della vita comunitaria essenica. Ma, proseguendo gli studi, si constatò che solo una parte dei documenti rimandava agli Esseni, gli altri attestavano tendenze religiose diverse e anche divaricanti. Qualcuno, poi, risaliva addirittura al III secolo a. C. Il limite di De Vaux fu di mischiare la descrizione e l’interpretazione». Riesaminando i materiali, dopo la sua morte prematura, nel ’71, si aprirono molti interrogativi. Per esempio: come spiegare le tracce di decori architettonici - mosaici, fregi, colonne, ceramica fine - in una comunità pauperista di celibi? E l’abbondanza di monete, che sembra attestare un’attività economica rilevante? E perché nella necropoli alcuni corpi, anziché essere sepolti in un telo, secondo l’usanza ebraica, erano composti entro bare, indizio probabile che vennero trasportati qui da un altro luogo?
Per rispondere a queste domande sarebbe stato necessario un esame approfondito dei materiali archeologici. Ma intanto un’altra guerra, quella dei Sei giorni, nel giugno ’67, aveva nuovamente capovolto la situazione e bloccato tutto. Al termine del blitz Israele aveva occupato, tra l’altro, la parte Est di Gerusalemme, dove i reperti erano depositati nel Museo Rockefeller. Non essendo stata riconosciuta l’annessione, per vent’anni nessun archeologo vi mise piede. Intanto i rotoli erano stati portati nel Museo d’Israele, oggetto di tensioni con la Giordania che periodicamente li rivendica. Il gruppo internazionale e interreligioso creato da De Vaux per lo studio dei manoscritti procedeva a rilento, alimentando illazioni (circolò anche una «teoria del complotto», secondo la quale nei rotoli erano contenuti documenti scottanti che il Vaticano voleva tenere nascosti). All’inizio degli anni 90 fu così istituita una nuova commissione che è finalmente riuscita a pubblicare tutti i manoscritti realizzando microfiches e foto all’infrarosso.
Per quanto riguarda i materiali di scavo, rimasti «dormienti» dalla metà degli anni 50, nel 1987 l’École Biblique incaricò dello studio un altro frate domenicano, l’archeologo Jean-Baptiste Humbert, sotto la cui supervisione opererà dai prossimi giorni la squadra italiana. La sua ipotesi è che Qumran abbia attraversato diverse fasi: nella prima metà del I secolo a. C. vi sarebbe sorta una residenza di tipo ellenistico (la pianta è la stessa della Casa del Governatore a Dura Europos, in Siria), sulle cui rovine si era in seguito insediato un piccolo gruppo permanente dedito all’ospitalità dei pellegrini, che nei giorni della Pasqua si rifiutavano di compiere i riti al tempio di Gerusalemme. Nell’imminenza dell’arrivo dei Romani, sarebbero stati nascosti qui tanto documenti propri dell’insediamento, quanto materiale proveniente da più lontano. Per Fidanzio e colleghi, in attesa di qualche sponsor che sostenga la loro ricerca priva di finanziamenti pubblici, il lavoro si prospetta lungo, con la possibilità di aprire scenari del tutto nuovi anche per quanto riguarda l’interpretazione dei testi. «Faremo come per i rotoli: cercheremo di pubblicare ogni cosa il più rapidamente possibile, in modo gli studiosi di tutto il mondo possano dare il loro contributo».

Repubblica 19.1.12
Perché saper fare i puzzle aiuta a risolvere i problemi
di Paolo Zellini


Tutto ruota intorno ai concetti di numero, algoritmo, complessità E ciascuna teoria dà una prospettiva diversa
Le matrici, il punto fisso, la questione del commesso viaggiatore: ogni dimostrazione aggiunge altri quesiti
Cosa studiano oggi gli esperti della disciplina più pura? Ecco come ogni nuova scoperta s´intreccia alle altre in un gioco di tessere

Nella ricerca, osservava il celebre matematico André Weil, nulla è più fecondo delle oscure analogie e dei torbidi riflessi che rimandano da una teoria all´altra. Nebbie inesplicabili e seducenti circondano spesso le idee e i confini ancora incerti tra diverse aree di indagine; e nulla dà più piacere al ricercatore di questa eccitante imprevedibilità. Arriva poi il giorno in cui il vagheggiamento si dissolve e diventa certezza. Le teorie rivelano la loro fonte comune e, come insegna pure la dottrina indiana della Bhagavad Gita, si conquista la conoscenza assieme all´indifferenza. «La metafisica», concludeva Weil, «è divenuta matematica, pronta a formare la materia di un trattato la cui fredda bellezza non saprebbe più emozionarci».
Tuttavia questa indifferenza è sempre un momento intermedio, un passaggio obbligato per scorgere altri collegamenti, altre possibili combinazioni. La ricerca matematica ha il carattere di un´estesa, imprevedibile e proteiforme moltiplicazione, di un incessante spostamento di confini e di una ricombinazione dei dati. Non è tanto importante, allora, accumulare successi nel risolvere singoli problemi, quanto svelarne il significato in un quadro sempre più ampio e generale, che si delinea a poco a poco nel riconoscere temi affini o confinanti. È come tentare di comporre un gigantesco e inesauribile puzzle, in cui molte singole tessere, pur provviste di senso proprio, ricevono ogni volta un significato più ampio e profondo dal paragone reciproco: un compito senza fine, che richiede un continuo riassestamento dei pezzi. E alla fine non possono non restare enigmi irrisolti, perché le formule viaggiano attorno a concetti centrali ed elusivi come quelli di caso, di informazione, di numero, di complessità, di algoritmo. Il puzzle ne svela nuovi aspetti, ma essi rimangono sempre suscettibili di qualche revisione critica.
I matematici hanno spesso constatato che le loro formule hanno una forza o un´intenzione autonoma e obbediscono a un principio di unità interna che le lega in sistemi organici sempre meglio connessi e articolati. Gli stessi algoritmi portano in sé implicazioni imprevedibili e un potere ermetico che li costringe a specchiarsi l´uno nell´altro. Anche per questa via si creano nuovi concetti: i numeri complessi si introdussero quasi da sé, nel XVI secolo, combinando l´algebra delle equazioni di terzo grado con le costruzioni della geometria euclidea.
Per quanto peculiari e diversi, molti problemi matematici si rivelano equivalenti e quindi sorprendentemente inclini – si direbbe – ad accorparsi in classi. Questa loro equivalenza, per lo più nascosta a un primo sguardo, è essenziale: risolvendo uno di essi si risolvono automaticamente tutti gli altri. L´ibrido territorio tra la matematica applicata e l´informatica, tra la logica e la teoria della computazione, ne offre svariati esempi. La frontiera della ricerca si sposta su diversi livelli di generalità. Spesso vengono prima questioni specifiche, di immediato interesse pratico. Ma queste suscitano poi questioni molto più generali, palesando una struttura che si ritrova, astrattamente, in altri contesti e merita di essere esaminata in sé e per sé. Chi sospetterebbe l´affinità di un celebre problema come quello del "commesso viaggiatore" – consistente nel trovare il percorso minimo che collega un dato numero di città – con una serie di altri problemi di natura algebrica e combinatoria da cui dipendono importanti settori del calcolo scientifico? Questa affinità permette di definire una intera classe di problemi equivalenti (chiamati NP-completi): se un algoritmo ne risolvesse uno in un tempo accettabile, lo stesso tempo basterebbe a risolvere ogni altro problema della classe. Ma nessuno sa ancora se un simile algoritmo può esistere.
A uno di questi problemi già accennava Kurt Gödel in una lettera a John von Neumann del 1956. Non è un caso. Negli anni ´30 Gödel, e altri con lui, dimostrarono che l´aritmetica, diversamente da quanto molti supponevano, non si può configurare come una specie di discorso logico rigoroso, un sistema formale con assiomi e regole di inferenza. Anche per questo motivo, invece di pretendere che tutto fosse dimostrabile, si cominciò a prestare maggiore attenzione alla complessità dei calcoli e delle dimostrazioni. Infatti il problema che Gödel poneva a von Neumann era il seguente: quanto è difficile decidere se una proposizione in un dato sistema formale ammette una dimostrazione di data lunghezza in base agli assiomi del sistema? Sappiamo ormai che non è possibile decidere, per ogni proposizione, se è vera o falsa. Ma ammesso che sia vera, quanto è difficile dimostrarlo? La complessità dei calcoli, ancorché finiti, è una delle grandi sfide della matematica moderna, il passaggio inevitabile per tentare di rispondere in modo esauriente a una questione tanto centrale quanto elusiva della scienza dell´ultimo secolo: che cosa può essere automatizzato? In che cosa consiste precisamente l´effettività che siamo soliti attribuire ai processi automatici?
Gli stessi teoremi di Gödel sui limiti del formalismo logico, con le loro implicazioni generali sulla natura della matematica e della stessa ragione astratta, sono ora diventati il tassello di un quadro più generale, di una più ampia scienza computazionale in cui singoli stratagemmi possono incidere sui concetti generali di algoritmo e di modello di calcolo.
Vecchie teorie rivelano imprevedibili significati e pongono nuove domande in diversi contesti. La teoria delle matrici positive del matematico tedesco Oskar Perron, del primo decennio del Novecento, si applica a domini della fisica, della biologia e dell´economia che poco hanno a che fare con i motivi per i quali fu scoperta. Oggi ha importanti implicazioni nei calcoli su cui si basano i motori di ricerca su rete. Ma quei calcoli coinvolgono matrici di enormi dimensioni, e molti quesiti sulla loro complessità sono ancora irrisolti. Lo stesso Perron non avrebbe previsto le implicazioni della sua teoria per una scienza informatica che gli ispirava, ancora negli anni ´70, una caustica diffidenza. Questa teoria ha pure importanti collegamenti con il celebre teorema del punto fisso: se si trasforma con continuità una sfera (o un suo equivalente topologico) in se stessa, almeno un punto mantiene la sua posizione d´origine. Accade lo stesso nell´esperienza di ogni giorno: se provochiamo un leggero mulinello in una tazzina di caffè e la depositiamo sul tavolo, quando il movimento sarà cessato almeno un punto nel caffè sarà tornato alla sua posizione iniziale. Luitzen Egbertus Brouwer, che scoprì questo teorema un secolo fa, non poteva certo immaginarne le innumerevoli applicazioni. Ma forse Brouwer le paventava, queste applicazioni, e temeva che la matematica, irrigidita in un sistema dalla bellezza fredda, necessaria e imparziale, potesse infine intrappolarci in un mondo tanto oggettivo quanto tirannico – «ogni necessità rende schiavi» si legge pure nell´Oreste di Euripide. Eppure l´incessante scoperta dei nessi e degli intrecci imprevedibili, in cui consiste la dinamica della scoperta, ha poi il potere di legare la ferrea e oggettiva necessità delle formule alla spontaneità dell´invenzione, e di farci capire come noi stessi, in fondo, desideriamo sottomettere il nostro arbitrio a quella necessità.

Repubblica 19.1.12
Il processo
Quella mostra su Eichmann che ribalta le tesi della Arendt
Alla vigilia del Giorno della Memoria, la storia del criminale nazista in un´esposizione a Firenze
di Susanna Nierenstein


Si intitola Il processo. Eichmann a giudizio, ma potrebbe quasi chiamarsi "Processo ad Hannah Arendt" la mostra che arriva da Berlino ed è pronta ad aprirsi negli spazi delle Murate, le ex-prigioni di Firenze, il 23 gennaio (fino al 18 febbraio), quattro giorni prima del Giorno della Memoria. La visione e la lettura dei numerosi video e documenti del procedimento che iniziò l´11 aprile 1961 a Gerusalemme dopo il clamoroso rapimento da parte del Mossad, l´11 maggio 1960, del direttore del Dipartimento Affari Ebraici IV B 4 delle SS rifugiato in Argentina – dell´organizzatore prima dell´espulsione degli ebrei dalla Germania, del loro trasferimento ad Est e poi dei trasporti verso i campi di sterminio da tutta l´Europa occupata –, la lettura proposta dai curatori tedeschi, dicevamo, si differenzia infatti dalla diffusa interpretazione della filosofa tedesca che seguì (ma solo in parte!) l´avvenimento epocale nella capitale israeliana per il New Yorker e vide in Eichmann "la banalità del male". Il Male che Eichmann incarna non ha niente di "banale", come mette in luce il percorso creato dalle fondazioni berlinesi Topografia del Terrore e Memoriale degli Ebrei Assassinati in Europa, la statura di Eichmann non è affatto quella di un grigio burocrate incastrato nel motore della tirannia come una qualsiasi rotella inconsapevole e necessaria al meccanismo. La visione della filosofa tedesca era senz´altro legata alla sua tesi sulla cappa psicologica invincibile del totalitarismo, e serviva forse a salvare dalla colpa collettiva il popolo tedesco in mezzo a cui si era formata e forse persino Heidegger, il suo maestro, che al nazismo aveva aderito. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: «ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita», senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d´altri "volenterosi carnefici" al genocidio.
Ecco invece subito nell´esposizione portata in Italia dalla Regione Toscana e, attraverso la cura di Camilla Brunelli, dalla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato, le tappe della sua biografia: legato fin da giovanissimo alla destra austriaca che chiedeva l´annessione alla Germania e si nutriva di antisemitismo, presente nell´estremismo militante, lettore attento fin dalla fine degli anni Venti di giornali nazional-socialisti, parte di quel misero 3% che nel ´30 in Austria votò per il partito nazista a cui aderisce definitivamente nel ´32. Nel Reich dal ´33, all´indomani della vittoria di Hitler, Eichmann riceve una formazione paramilitare nelle SS e nel ´34 entra nel Servizio di Sicurezza del Reichfuehrer Himmler, e ben presto con gradi sempre più alti nell´unità "Affari ebraici", dedita a forzare gli ebrei a lasciare la Germania. Alla conferenza di Wansee del ´42 che mise a punto il piano della "soluzione finale" fu uno degli organizzatori (e lì, lo vediamo dire in tribunale, si sentì sollevato come Ponzio Pilato perché erano stati "i protagonisti, i papi del Reich" a decidere, anche se era lui stesso a prospettare le soluzioni possibili). Himmler lo definì "lo specialista" quando nel ´44 lo chiamò come sempre a deportare velocemente mezzo milione di ebrei ungheresi ad Auschwitz, un "maestro" della spoliazione, dell´emigrazione forzata, e ben presto del trasferimento nei lager. Persino nella sua deposizione nel ´61 in Israele Eichmann chiama gli ebrei "parassiti".
Cosa ci vide di "banale" Hannah Arendt? La sua intuizione, o la sua forzatura, che tanto ha condizionato la riflessione sulla Shoah come di un evento fatale perpetrato da uomini senza volto, non funziona (fu l´autorevole Raul Hilberg a dirlo per primo, seguito ben presto tanti altri storici): una mappa mostra gli infiniti spostamenti di Eichmann in tutti i luoghi caldi dello sterminio, la storiografia più recente riportata in catalogo in bel saggio di Gerhard Paul ne certifica le continue iniziative, la partecipazione attiva alla macchina della morte, la conoscenza esatta di quel che stava avvenendo, l´antisemitismo convinto (il comandante di Auschwitz Rudolf Hoess l´aveva definito "ossessionato dalla questione ebraica"). Un quadro confermato anche dall´intervista data nel 1957 da Eichmann a Willem Sassen, un giornalista ex SS (in Italia nel ´61 la pubblicò Epoca).
Ma la mostra, che dedica una parte curata da Valerie Galimi alla ricezione del processo in Italia e alla Shoah italiana anche con la registrazione inedita della deposizione in aula di Hulda Campagnano, unica testimone nata nella penisola, non si occupa solo della colpevolezza di Eichmann. Nell´esposizione si affrontano tutte le tappe e gli uomini del processo, le battaglie legali, i capi d´imputazione, la volontà del procuratore generale Hausner di farne un evento che documentasse ogni fase e aspetto della persecuzione dal ´33 al ´45 (come ricorda David Cesarani in catalogo), attraverso gli uomini e le donne che l´avevano vissuta, per dare ai fatti, a differenza di Norimberga che aveva usato soprattutto documenti scritti, una dimensione umana e un impatto drammatico.
Il processo fu trasmesso da tutte le radio e le televisioni del mondo. La Shoah uscì dalla sua aura fantasmica e divenne volti, lacrime, svenimenti, racconti puntuali. Per la costruzione della memoria nacque una nuova era, quella del testimone, delle voci che non si possono più cancellare, un rapporto vivente che parlava anche agli stessi giovani di Israele ponendo fine al silenzio che aveva circondato i sopravvissuti, ridandogli un´identità fondamentale, come spiega assai bene il saggio di Annette Wieviorka in catalogo. Sono parole e sguardi che potremmo ascoltare e vedere in parte nella mostra. Ed è importante ora che i testimoni se ne stanno andando. Deborah Lipstadt, vinta la causa contro lo storico negazionista Irving, ha scritto un libro proprio sul processo ad Eichmann. Perché? le è stato chiesto. Perché il negazionismo non è affatto scomparso e nel mondo arabo va per la maggiore, ha risposto, perché i testimoni sono fondamentali, perché bisogna ascoltare chi minaccia un popolo di sterminio: le parole deliranti del ´33 divennero fatti.
Eichmann fu condannato il 15 dicembre 1961, giustiziato a mezzanotte del 31 maggio 1962, cinquanta anni fa esatti. Il suo corpo fu cremato in un luogo segreto e le sue ceneri disperse nel Mediterraneo.

Repubblica 19.1.12
Il padre di Maus: "Non è un caso se gli indignati hanno scelto la maschera di V per Vendetta"
Spiegelman: "Così il fumetto ha creato i simboli di oggi"
di Luca Raffaelli


L´occasione per parlare con Spiegelman, autore di Maus e premio Pulitzer, è una lezione che terrà alle 21 di oggi al Circolo dei Lettori di Torino (via Bogino 9, ingresso libero). Il titolo è tutt´altro che accademico: "What the %&*! Happened to Comics?", cioè "cosa diamine è accaduto ai fumetti?". Comics e non graphic novel, giustamente.
Oggi farà una vera lezione?
«Sarà una sorta di ricognizione per capire dove sta andando il fumetto, il mio medium, come funziona e come sta cambiando. Perché per tanti decenni sia stato ignorato da chi ama Michelangelo o Umberto Eco, e perché ora le cose stanno cambiando. E´ stata una fortuna che Eco, invece, li abbia sempre trattati con grande attenzione».
Parla di fumetti e non di graphic novel.
«Perché il percorso del linguaggio è iniziato fin dall´Ottocento. Per capire il fumetti bisogna sapere chi sono i grandi maestri, chi è Winsor McCay, un autore che ha aperto un mondo di possibilità, e George Herriman, l´autore di Krazy Kat, incredibile quello che lui ha fatto, e anche un autore popolare nei comic book degli anni Quaranta non molto conosciuto in Europa: il suo nome è Jack Cole. Ma ho migliaia di immagini nel mio computer e sceglierò cosa mostrare a seconda della piega che prenderà il discorso».
Qual è stata l´evoluzione del fumetto in questi ultimi anni?
«Mi scusi: ha detto "evoluzione" o "rivoluzione"?».
Beh, a questo punto decida lei.
«Credo sia accaduto qualcosa che sta in mezzo tra le due parole. Siamo in una situazione simile a quella delle scimmie di 2001: Odissea nello spazio, quando il protagonista attraversa il monolito e ne esce evoluto. Siamo arrivati al punto in cui si può affermare che il linguaggio viene utilizzato al massimo. Ma ora bisogna stare attenti al futuro, perché ad essere ignorati dalla cultura si possono avere anche molti vantaggi».
Cosa pensa del desiderio di molti autori di fumetti di essere autobiografici?
«E´ comprensibile, dopo tanti anni in cui il fumetto con Mandrake e Flash Gordon o con i fumetti underground è stato lontano dalla realtà. Questo fa parte dell´evoluzione di cui si diceva, della ridefinizione di quel che il fumetto può essere. Però bisogna stare attenti all´autobiografismo, perché ci deve essere assoluta onestà in quel che viene raccontato. Non basta stupire. Bisogna andare a fondo nei propri pensieri. E´ questo il rischio di un linguaggio che arriva ad essere completo: può essere meravigliosamente intelligente e può essere stupido. Com´è accaduto al cinema».
La differenza è che il fumetto non è davvero un´industria.
«Certo, non girano i soldi che ci sono nel cinema. Però il cinema è largamente influenzato oggi da quello che accade nel fumetto perché le nuove tecnologie rendono possibile mostrare un uomo che vola. Un tempo era bello vedere certe scene la domenica sulle pagine a colori dei quotidiani mentre sullo schermo non erano credibili, facevano quasi ridere. Oggi no. Il cinema digitale si può permettere di proporre le situazioni che erano proprie del fumetto popolare, e lo fa spendendo un sacco di soldi. Per esempio con un film appassionante come Hugo Cabret di Scorsese. Una delle poche esperienze tridimensionali della mia vita».
In che senso?
«So bene che i film in 3D si fanno perché così gli spettatori pagano di più per colpa degli occhialetti. Ma ho un occhio molto debole per cui non vedo mai la tridimensionalità e non ho il senso dello spazio. Credo che uno dei motivi per cui sono diventato un fumettista sia stata proprio la scelta della bidimensionalità del disegno».
Ha visto gli "indignados" con le maschere prese dal fumetto di Alan Moore e Dave Lloyd V per Vendetta? Che ne pensa?
«Penso che il movimento di chi occupa Wall Street sia oggi la cosa migliore che accada sul nostro pianeta. E sono molto felice che l´immagine simbolo di questo movimento venga dal mondo del fumetto. Lo ero già stato nel 2008 quando gli autori della rivista umoristica Mad hanno coniato un´immagine del nuovo presidente. Mi chiedo oggi come potremmo ritrarlo: forse come un robot in mano ai banchieri, non so. E´ incredibile quello che sta succedendo negli Stati Uniti da trent´anni a questa parte e non so se in Europa si avverte la gravità della situazione. La possibilità di muoversi nel mondo della cultura e dell´economia si sta riducendo sempre di più. E anche la possibilità per la gente comune di avere una vita confortevole. Però ora bisogna stare attenti anche alle speranze. Un tempo si credeva nelle rivoluzioni (non del fumetto, quelle reali). Ma poi, se si guarda la storia, non hanno mai migliorato la situazione».

Repubblica 19.1.12
Le affinità elettive dei capolavori
Da Vermeer a Kandinsky


Goldin: ho preferito mescolare le carte, così si parlano tra loro dipinti lontani di secoli
Nelle sale di Castel Sismondo Bacon dialoga con Tintoretto e Jacopo Bassano
Quattro secoli di arte in una mostra a Rimini che mette a confronto i grandi maestri. Così "Linea d´Ombra" festeggia i suoi 15 anni di attività

RIMINI Linea d´ombra, la società creata da Marco Goldin per l´organizzazione di eventi espositivi compie 15 anni. E alla sua festa ha invitato una sessantina di opere dei più grandi artisti attivi in Europa dal Cinquecento al Novecento. Che sono arrivate a Castel Sismondo a imbastire un appassionante viaggio nella storia dell´arte: la mostra intitolata Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini, curata dallo stesso Goldin, che spiega: «Vorrei che il visitatore avesse la sensazione di sfogliare le pagine non di un libro, ma di un museo. Così inizialmente avevo pensato di allestire le opere per scuole regionali e in ordine cronologico: Venezia nel Cinquecento, i Paesi Bassi nel Seicento, il paesaggio inglese ecc. E invece ho deciso di mescolare queste carte che compongono il meraviglioso racconto dello sguardo occidentale e di far parlare tra loro dipinti anche geograficamente lontani, separati da secoli». Che di cose da dirsi ne hanno davvero molte.
I casi più clamorosi di questo dialogo a distanza si trovano nell´ottava sala dell´esposizione, una delle ultime del percorso, dove tutto è tenuto insieme dalla rappresentazione del corpo. Uno di fronte all´altro vi sono le Deposizioni eseguite da Tintoretto e da Jacopo Bassano, due protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento, e un´infuocata e drammatica triade di dipinti di Francis Bacon, datati 1988 che compongono l´ultimo trittico eseguito da questo grande cantore del dolore dell´uomo, del suo tragico stare al mondo. Ma c´è una sofferenza anche nei due quadri del Cinquecento, in quei Trasporti di Cristo che esprimono, in contrasti di luce e ombre, la tragedia della morte di un Dio che si è fatto uomo. Le figure di Bacon che ghignano, gridano, sono deformate e menomate, hanno una fratellanza antica con il vortice e la vertigine che emerge dal quadro di Tintoretto, dove la Vergine svenuta ha la testa che sembra uscire dalla cornice, tanto è potentemente gettata verso lo spettatore. Al punto che ti viene quasi di sorreggerla, di accarezzare il velo che le cinge la fronte. A pochi metri ecco Picasso e Veronese, quattro secoli di differenza, ma in comune un´agitata composizione verticale.
Un altro incontro tra due mondi che si riconoscono è quello tra il San Francesco, spoglio, solenne, tutto risolto in una fissità dominata da un´ombra che pare la quintessenza dello spirito, eseguito da Francisco Zurbarán in Spagna tra il 1640 e il 1645 e la Cantante di strada dipinta da Edouard Manet nella Parigi della seconda metà del XIX secolo, mentre sorgeva l´alba della modernità. La donna ritratta in questo quadro molto amato da Emile Zola è Victorine Meurent, la modella preferita di Manet, la stessa che farà scandalo con la sua nudità priva di orpelli nella Colazione sull´erba esposta con grande clamore al primo Salon de Refusés nel 1863. Eppure tra la chanteuse intenta a mangiare le sue ciliegie da un cartoccio e la sacralità del santo di Zurbarán ci sono molte cose in comune. Sono due sinfonie in grigio, con le figure in verticale che emergono dal buio. E chiunque conosca un po´ di storia dell´arte sa quanto la pittura spagnola abbia da sempre sedotto Manet, che a differenza di Monet e compagni, non rinuncerà mai all´uso del nero perché era il colore che lo teneva unito a Velázquez per il quale stravedeva.
Diego Velázquez lo si incontra poche sale prima con un quadro che ha qualcosa di inquietante e misterioso: Don Baltasar Carlos, primogenito di Filippo IV, ritratto a tre anni in compagnia di una nana di corte. Un capolavoro di stoffe, velluti e broccati ma anche di una crudele dimensione psicologica. Lo accompagna il ritratto di Fratello Hortensio Félix Paravicino di El Greco, l´opera, proveniente dal Museum of Fine Arts di Boston, che ha il più alto valore assicurativo dell´esposizione: 70 milioni di euro. Un quadro mozzafiato, costruito sui bianchi e sui neri, dove la figura seduta su una sedia con una leggera asimmetria ha sguardo vibrante e labbra screpolate. Lo stesso monaco quando vide il dipinto scrisse un sonetto "O greco divino!". Nella stessa sala ecco il Vermeer giovanile, Cristo in casa di Marta e Maria, che arriva da Edimburgo. Dei 36 quadri conosciuti del pittore di Delft questo è il più grande di dimensioni e l´unico con un soggetto evangelico. La resa della luce nell´interno della casa è già quella del Vermeer maturo.
Continuando a sfogliare le affinità elettive create da Goldin, ecco il vedutismo settecentesco di Canaletto e della sua spettacolare inquadratura di Venezia che si confronta con la pittura di paesaggio inglese di Constable e Gainsborough. E poi una carrellata di volti e gesti maschili: su una stessa parete, uno accanto all´altro, cardinali, suonatori, gentiluomini che tengono in mano lettere e libri. Si devono al pennello di Savoldo, Sebastiano del Piombo, Moretto, Moroni e Tiziano. Anche qui la sapienza con cui sono raffigurati vesti e abiti si accompagna all´introspezione psicologica del personaggio, sempre rivelato in tutta la sua individualità.
C´è un bellissimo quadro di Lorenzo Lotto, una Sacra Conversazione in cui le teste sono tutte volte in direzioni differenti, così che la quiete che solitamente accompagna questo soggetto è abbandonata per una soluzione movimentata e palpitante, con il meraviglioso particolare del bambino che sembra spaventarsi del santo in preghiera di fronte a lui. E poi ecco una di fronte all´altra le due teste bibliche saltate per volontà femminile: quella di San Giovanni Battista si deve a Mattia Preti, mentre Oloferne decapitato da Giuditta è opera di Francesco Cairo. Siamo tra i caravaggeschi, italiani ma anche fiamminghi, come Gherardo delle Notti, celebre appunto per la sua predilezione nei confronti del buio. Si chiude all´insegna del colore con la felicità cromatica di Matisse e di Kandinsky. E con un altro dialogo sotterraneo: quello tra Mondrian, che aveva finito per semplificare sempre di più il paesaggio in un´armonica composizione astratta per eliminare il tragico dell´esistenza, e la natura informale di Nicolas De Staël con le sue pennellate materiche cariche di pathos. Si leverà la vita nel 1955, l´anno dopo aver dipinto questa tessitura che diventa luce. Aveva 41 anni.

mercoledì 18 gennaio 2012

Corriere della Sera 18.1.12
Il messaggio di Cgil-Cisl-Uil
Sindacati all’unisono:
«Per tutelare i salari tassare i patrimoni»
di Enrico Marro


ROMA — Cgil, Cisl e Uil unite chiedono al governo Monti «un forte intervento a sostegno di salari, stipendi e pensioni» attraverso una «riduzione del carico fiscale» da finanziare con «una imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari» e con la lotta l'evasione e all'elusione fiscale. Il taglio delle tasse, sostengono i sindacati, oltre che rispondere a esigenze di equità, rilancerebbe la domanda interna, «indispensabile per far tornare a crescere la nostra economia».
Questa la ricetta che le confederazioni hanno scritto in un documento di 9 pagine approvato ieri dalle tre segreterie, che si sono riunite insieme per la prima volta dal 7 maggio 2008, quindi dopo quasi quattro anni di rottura. Oltre alla patrimoniale e a meno tasse sui lavoratori, i sindacati chiedono una netta modifica della riforma Fornero; la riduzione dei contratti precari e, implicitamente, la garanzia che l'articolo 18 sui licenziamenti non venga toccato; il potenziamento degli ammortizzatori sociali; che le liberalizzazioni non mettano in discussione i servizi universali delle poste e delle ferrovie.
Con questo documento i sindacati andranno al tavolo, insieme con le associazioni imprenditoriali, che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, convocherà per la fine della settimana o gli inizi della prossima. Un tavolo per discutere della riforma del mercato del lavoro, ma sul quale già si intravedono due questioni molto delicate. La prima, posta appunto dal documento di Cgil, Cisl e Uil, che chiede in sostanza una riscrittura della riforma delle pensioni. La seconda è quella dell'articolo 18 che aleggia fin dall'inizio sulla trattativa e che è stata rilanciata ieri dal presidente della Confindustria. «Ci siederemo al tavolo con senso di responsabilità, senza ideologie, senza dei no prima di sederci. Ci aspettiamo che i sindacati facciano la stessa cosa», ha detto Emma Marcegaglia. Aggiungendo che ci sono tre temi da affrontare: «La flessibilità in entrata, gli ammortizzatori sociali che siamo d'accordo si possano rafforzare e la flessibilità in uscita», che fuori dal gergo significa appunto l'articolo 18. Una questione che non può essere elusa, ha concluso Marcegaglia, perché «in linea con la Bce e con la Commissione europea dobbiamo modernizzare il nostro mercato anche su questo».
Immediata la replica della leader della Cgil: Susanna Camusso: «Il tema dell'articolo 18 non c'è». E un no secco è arrivato anche dal segretario della Cisl Raffaele Bonanni («bisogna sgombrare il campo da queste ideologie») e da quello della Uil, Luigi Angeletti. Ma sia Fornero sia lo stesso presidente del Consiglio, Mario Monti, hanno più volte detto che nella discussione non può esserci il tabù dell'articolo 18. I sindacati sanno però di poter contare sull'appoggio del Pd. Lo stesso appoggio che hanno anche sulle pensioni, su questo pure da parte del Pdl.
Oggi la commissione Lavoro della Camera, dove ieri Cesare Damiano (Pd) ha svolto la relazione di maggioranza, consegnerà il parere sul decreto milleproroghe alla commissione Bilancio, raccomandando due modifiche della riforma delle pensioni: la prima per estendere ai lavoratori in esubero ricompresi negli accordi fino al 31 dicembre scorso (e non più al 4 dicembre) e a chi è rimasto senza pensione e senza stipendio la possibilità di andare in pensione con le vecchie regole e la seconda per togliere le penalizzazioni per chi lascia il lavoro prima dei 62 anni di età.
I sindacati chiedono anche di più, sostenendo che la riforma, al solo scopo di «fare cassa», ha un impatto «insostenibile e iniquo sulla struttura dei diritti previdenziali di milioni di persone senza nessuna gradualità». Ma il governo è disponibile solo a qualche modifica a favore di chi si è licenziato incentivato dall'azienda, in vista di andare in pensione, ed è rimasto «fregato» dall'improvviso aumento dei requisiti.

il Riformista 18.1.12
Pd: tensioni fra pro e contro la “maggioranza politica”
di Tommaso Labate


Due mozioni unitarie in due giorni. Tra l’altro su due dei dossier Europa e giustizia attorno a cui per quasi diciott’anni s’è combattuta la guerra tra berlusconiani e antiberlusconiani. Pdl e Pd stanno trasformando la maggioranza in «politica», come vorrebbe Casini? Enrico Letta sorride e sussurra: «Mi sa di sì...».

Il vicesegretario, insieme a Walter Veltroni, è uno degli esponenti del Pd che fin dall’inizio s’è battuto perché nascesse il governo Monti. Certo, senza il via libera di Pier Luigi Bersani l’operazione difficilmente sarebbe andata in porto. Ma un aspetto del dibattito interno al partito, anche se dalle dimissioni di Berlusconi sembra passata un’era geologica, rimane aperto: dentro il Pd c’è chi vorrebbe che la maggioranza fosse «politica» e chi, come il segretario, continua a respingere questa opzione.
Non è una questione puramente semantica, né un affare di second’ordine. Anche perché da questo nodo dipendono gli assetti di una nuova geografia politica che potrebbe nascere nel 2013. Alla domanda se il tridente Pdl-Pd-Terzo Polo marci spedito verso la grande coalizione testata anni fa in Germania, Letta risponde: «Il punto di partenza è decisamente differente da quello tedesco». Ma, aggiunge il numero due del Pd, «questa si sta connotando sempre più come una maggioranza politica, impegnata a salvare il Paese». Un modo come un altro per dire, come fa il suo braccio destro Francesco Boccia, che «stiamo assistendo a un radicale cambiamento nella politica italiana».
Il cambio di passo è evidente. Basta riavvolgere il nastro degli ultimi due giorni. Prima la mozione comune sull’Europa, con cui il tridente Alfano-Bersani-Casini garantirà a Mario Monti quella “copertura politica” che il presidente del Consiglio ha
chiesto prima dell’Eurogruppo del 30 gennaio. E poi, ieri, la risoluzione con cui l’attacco a tre punte PdlPd-Terzo Polo ha messo in sicurezza la relazione sulla giustizia del guardasigilli Paola Severino.
Fuori dal perimetro dei tre principali partiti della maggioranza, c’è Antonio Di Pietro che urla: «Noi siamo fuori da questa maggioranza assurda formata da Pdl, Pdl e Udc». E Nichi Vendola che lancia un messaggio a Bersani, parlando ai microfoni del Tg3: «Il Pd rilanci il Nuovo Ulivo, altrimenti non si capisce che cosa sia la sinistra». Certo, potrebbe essere la certificazione che la «foto di Vasto» è uscita da tutti i radar? Ma se fosse il segnale di una partita molto più importante?
E si ritorna tra le quattro mura del Pd. Dove l’ala più vicina alla Cgil comincia a temere, come dice dietro la garanzia dell’anonimato uno dei suoi esponenti principali, «che l’unanimismo attorno al governo Monti rischia di creare non pochi problemi alla trattativa sul mercato del lavoro». La sinistra del partito, insomma, teme che la luna di miele tra il Pd e il governo «renda semplice la partita di chi vuol accantonare l’articolo 18».
È il timore che fa pendant con uno degli «avvisi al navigante» che la triplice Cgil-Cisl-Uil ha inviato ieri sera all’esecutivo. Questo: «Se il governo introdurrà il tema dell’articolo 18 vorrà dire che non vuole il confronto con i sindacati. È un’ideologia al contrario, un giochino per non affrontare i veri problemi». E non è tutto: dai leader dei tre sindacati arriva l’esplicita richiesta a Monti perché cambi le linee di politica economica. La gravità della crisi, insistono Cgil Cisl e Uil, «impone un cambiamento della politica economica del governo», che è chiamato a «mettere in atto politiche che favoriscano la crescita e il lavoro».
Tra i bersaniani, però, c’è chi mostra un certo ottimismo. Matteo Orfini lo dice nettamente: «Questo governo è politico. Ed nato grazie alla più nobile delle scelte politiche: lasciare da parte il nostro interesse per provare a mettere in sicurezza l’Italia». Però, avverte il responsabile Cultura del Pd, «non possiamo dimenticare che il sindacato è tornato ad essere unito». E soprattutto, insiste, «non possiamo dimenticare che la maggioranza che sostiene il governo è formata da persone che la pensano diversamente. Questa formula di essere leali a Monti seppur con le nostre idee ci sta premiando anche nei sondaggi. Vediamo di non ab-
bandonarla...».

il Fatto 18.1.12
Il battesimo dei professori nell’inferno di Rosarno
Il ministro Riccardi tra i braccianti a due anni dalla rivolta
di Enrico Fierro


Rosarno due anni dopo la rivolta dei braccianti di colore e la caccia al nero. Una città che cerca di scrollarsi di dosso l’immagine di Soweto di Calabria. La strada è ancora lunga. Perché due anni dopo i problemi che incendiarono la rivolta sono ancora lì. Clementine e arance attirano migliaia di disperati alla ricerca del lavoro. Oggi sono 4 mila uomini, africani e braccianti dell’Est che affollano la Piana di Gioia Tauro. Ma l’oro giallo di queste terre vale meno di zero sui mercati. “Per un chilo di clementine i grossisti mi danno 15 centesimi, 5 per le arance da succo. Una miseria”. Piccoli coltivatori e grandi proprietari terrieri si lamentano allo stesso modo, ma continuano a produrre. E scaricano la loro crisi sui migranti ai quali offrono paghe da fame.
VENTICINQUE euro a testa, oppure un euro per ogni cassetta raccolta. Soldi ai quali va sottratta la mazzetta da dare al caporale, l’organizzatore delle braccia, spesso un africano o un bracciante dell’est che ha fatto carriera. Soldi pochi, condizioni di vita disperate in baraccopoli da dove anche i topi scappano, eppure la gente continua ad arrivare. “In un solo giorno – ci racconta don Pino De Masi, animatore di Libera nella Piana – nel paese di San Ferdinando sono arrivati dieci pullman con 500 tra bulgari e romeni”. Altre braccia che la mattina presto si offrono nella piazze dei paesi in attesa di un ingaggio che però non arriva per tutti. Chi non è fortunato vaga per tutto il giorno aspettando un’occasione. È questo l’inferno che ieri ha voluto vedere da vicino il ministro per l’Integrazione, Andrea Riccardi. “Perché governo tecnico – dice al cronista – vuol dire anche avere orecchie e occhi attenti alla realtà”. Il ministro entra nel campo di accoglienza organizzato dal Comune. Ci sono container con brandine e riscaldamento, docce e bagni chimici, un barlume di vita civile per 120 migranti. Una goccia nel mare. Per gli altri ci sono i ghetti. Quello della fabbrica Pomona, dove una volta si trasformavano gli agrumi, fa paura. Fango dappertutto, per dormire improvvisate tende fatte di plastica e legno. Non ci sono bagni, i bisogni si fanno dove capita. “È un ghetto indegno di un paese civile – dice il ministro –, si tratta di situazioni che abbiamo l’obbligo morale di rimuovere al più presto”. Ma basta spostarsi in quello che chiamano il “centro storico” della città per capire che l’inferno non finisce in una fabbrica abbandonata. Vico Esperia, via Posta Vecchia, case pericolanti, tufi sbriciolati dalla pioggia, sottoscala e cantine di pochi metri quadrati dove vivono in dieci, venti persone. Per letto materassi impregnati di sudicio e umidità per terra. Il professor Riccardi entra nei tuguri e parla con i migranti. Nessuno protesta più di tanto per le paghe basse o per le condizioni di vita, ma tutti chiedono una cosa sola: la carta, il permesso di soggiorno, il diritto di sentirsi cittadini. È il frutto di leggi assurde contro gli immigrati. Il ministro rifiuta la polemica: “L’integrazione va costruita, qui non si tratta di rivolgersi al passato per stracciarsi le vesti, ma di aprire una stagione diversa”.
IL SINDACO di Rosarno si chiama Elisabetta Tripodi, è stata eletta in una coalizione di centrosinistra, ha organizzato il campo da 120 posti e chiesto altri container che la Protezione civile le ha però rifiutato. Quanti soldi ha avuto dalla regione? “Zero. Sto ancora aspettando i 25 mila euro per l’emergenza di un anno fa, dei 3 milioni di euro promessi per la costruzione di alloggi popolari da destinare ai migranti neppure l’ombra”. Promesse, piani mai realizzati nella Calabria degli sprechi, il ministro annota tutto, nella sala riunioni del Comune ascolta. Parla Mamma Africa, Norina Ventre, un’anziana signora che da vent’anni assiste chi ha la pelle di un altro colore. “Domenica avevo 200 persone da sfamare, c’è bisogno di un centro di accoglienza”. Cristiana, donna e mamma del Ghana che chiama “papà” il ministro: “Ho due figli da mantenere, vanno a scuola, sono da undici anni qui in Italia, ma non ho ancora la cittadinanza”. E poi Adam, bracciante di colore, rappresentante di “Africalabra”. E il senegalese Mamadù che parla della necessità del contratto, “perché la Bossi-Fini dice che se perdi il lavoro perdi anche il permesso”. “La situazione – è il commento del ministro – è di vera emergenza, come soluzione provvisoria, sarà realizzata una tendopoli nel territorio del comune di San Ferdinando, accanto a Rosarno, dove saranno trasferiti molti immigrati che in questo momento stanno trovando rifugio in situazioni inaccettabili. Ma c’è bisogno di “una fase 2. Siamo in presenza di lavoratori fedelmente stagionali per cui è necessario lavorare alla loro integrazione, costruire un ponte tra loro e i cittadini di Rosarno, a partire dalla lingua. In un momento di crisi, di poco lavoro anche per gli italiani, occorre spiegare bene a questi nostri amici che non rimarranno soli”.

Corriere della Sera 18.1.12
Voto in Senato, manicomi criminali verso la chiusura
Nuove strutture nelle regioni
di Margherita De Bac


ROMA — Una rivoluzione attesa da almeno dieci anni. La più grande dopo la legge Basaglia, la famosa Centottanta, che abolì i manicomi nel 1978. Entro il 31 marzo 2013 gli ospedali psichiatrici giudiziari dovranno chiudere. E i 1.500 internati che li abitano saranno trasferiti in strutture regionali dove la priorità non è la detenzione ma la terapia. Dove prima che al criminale si pensa al malato.
Così il futuro tratteggiato dall'emendamento alla legge sulle carceri che dovrebbe essere votata tra oggi e domani al Senato. Un cambiamento di mentalità e non solo strutturale accompagna questo risultato inseguito con particolare ostinazione da Ignazio Marino, senatore pd e presidente della Commissione di inchiesta sul servizio sanitario. I filmati e la documentazione raccolta in due anni di lavoro sono stati mostrati anche al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha denunciato «l'estremo orrore inconcepibile in qualsiasi Paese appena appena civile». Il testo presentato da Marino assieme al relatore Alberto Maritati è stato approvato la scorsa settimana dalla commissione Giustizia.
A partire dalla data di «cessazione» degli ospedali giudiziari i vecchi e i nuovi detenuti saranno trasferiti in strutture residenziali con adeguati sistemi di sorveglianza e sicurezza. Stanziati rispettivamente 7 e 4 milioni per il biennio 2012-2013. «Un atto di civiltà e di scienza, finalmente una legge che parla di uomini e non di economia», esprime il suo entusiasmo Vittorino Andreoli, lo psichiatra che agli inizi del 2000 ha compiuto la ricognizione all'interno delle «discariche umane», dove chi non è folle lo diventa. Andreoli esulta soprattutto per una ragione: «Non è una chiusura ideologica, come quella decretata dalla Basaglia. Questo è un progetto realistico, che offre alternative concrete. La gente non deve avere paura».
Lo scempio di questi luoghi è documentato nell'indagine della Commissione Marino. Dimessi solo una parte dei 389 pazienti rinchiusi nei 6 manicomi carcerari (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Napoli-Secondigliano), tra il 1° luglio e il 14 novembre del 2011 dichiarati non socialmente pericolosi. La percentuale dei dimessi oscilla tra il 20 e il 50% e il numero delle proroghe è quasi sempre superiore. Persone costrette dunque a vivere in condizioni che impediscono e rendono meno accessibile un percorso di riabilitazione psicofisica. Un esempio. Ad Aversa, uno dei luoghi più disastrati, gli psichiatri prestano la loro consulenza due volte a settimana. E gli internati sono 250. I metodi coercitivi (legacci al letto) non sono scomparsi ovunque. Nella sua relazione alla Camera il ministro della Giustizia Paola Severino ha espresso la necessità di «agire in via prioritaria e senza tentennamenti». Affermazione ritenuta non abbastanza decisa dall'Associazione Luca Coscioni.

Corriere della Sera 18.1.12
Una Chiesa che frena il Paese, più lontana l'Europa dei diritti
Tutti i «no» su coppie di fatto, eutanasia e sessualità
di Marco Ventura


L' ufficiale pontificio con cui Goethe era in viaggio verso Perugia nell'autunno 1786 pose la domanda a bruciapelo: «A voi è permesso vivere in buona amicizia con una bella ragazza senza averla sposata? Lo ammettono i vostri preti?» Il poeta tedesco riportò nel Viaggio in Italia la propria risposta a Torquato Cesarei: «I nostri preti sono gente avveduta e non s'immischiano in codeste piccolezze. Naturalmente, se gliene chiedessimo licenza, non la concederebbero». Il capitano perugino esclamò allora: «Non avete dunque bisogno di chiederla? Beati voi! E dato che non vi confessate, essi non vengono a saperlo». Cesarei proseguì poi, secondo il racconto di Goethe, imprecando contro i suoi preti e cantando le lodi «della nostra beata libertà».
Nel libro La Chiesa contro (Longanesi, pagine 250, € 16,60), in uscita domani, Sergio e Beda Romano percorrono all'inverso il viaggio del poeta. Se Goethe discese la penisola descrivendone l'arretratezza civile e religiosa, i due Romano risalgono un'Europa nord-occidentale aperta e dinamica, il cui sviluppo dipende, secondo gli autori, da un maturo rapporto tra Stato e Chiesa, tra scienza e fede. Identica a quella che emerge dallo scambio tra Goethe e Torquato Cesarei l'inquietudine: l'italiano sente di appartenere ad un'Europa nord-occidentale libera e mobile al cui modello agogna, ma anche ad un'Italia irrimediabilmente diversa e lontana. Se le due appartenenze confliggono, quanto pesa la religione? Quanto conta il conflitto tra cattolicesimo romano e modernità? E cosa rappresenta per l'Europa e per l'Italia una «Chiesa contro»?
I distinti itinerari dei due autori si sovrappongono, si integrano. Sergio Romano torna allo scontro tra Stato costituzionale ottocentesco e Chiesa di Roma, per raccontare lo sviluppo dei rapporti tra gli Stati liberaldemocratici e la «Chiesa contro». Il figlio Beda viaggia per gli stessi Paesi, ma segue le strade dei più recenti conflitti su famiglia, sessualità, medicina, e mostra i nessi tra la storia dei rapporti tra Stati e Chiese e l'approccio dei diversi Paesi alle questioni bioetiche.
Il viaggio di Sergio Romano è la storia di un conservatorismo cattolico che invano contrasta lo sviluppo tecnico-scientifico e la complessità socio-religiosa dell'Europa degli scambi e dei commerci. Così i liberali belgi di metà Ottocento sono, scrive l'autore, «persone spesso devotamente cattoliche, ma troppo moderne e intraprendenti per tollerare tutti i precetti della Chiesa romana». In egual modo la Svizzera moderna nasce dal superamento della pregiudiziale cattolica e dall'affermarsi di «un patriottismo elvetico fondato sulla tolleranza»; e lo stesso Impero austro-ungarico deve cercare la propria stabilità nella «pacifica convivenza tra persone di religione diversa». Si dimostrano invincibili i due nemici della «Chiesa contro»: lo Stato moderno che preferisce alla legittimazione religiosa la sovranità di un popolo composto da cittadini di orientamenti diversi, e la liberal-democrazia dei diritti civili e della separazione dei poteri. Nel Novecento, scrive ancora Sergio Romano con particolare riferimento alla vicenda italiana, la «Chiesa contro» oscilla tra «il desiderio di una presenza politica nella società» e «il timore che quella presenza pregiudichi la sua autorità e libertà d'azione». Con i Patti lateranensi e i concordati con Hitler e Franco, il compromesso vince sull'intransigenza. Restituita alla sua sovranità e spinta dal nemico comunista, la Santa Sede si sente di nuovo Stato e abbraccia la logica concordataria: la «Chiesa contro», nota l'autore, si «diplomatizza», ovvero accetta, «come in tutti i rapporti diplomatici, la prospettiva dei compromessi e degli accomodamenti».
Sopravvissuta, e per giunta da vincitrice, al crollo del nazifascismo, la Chiesa si riconcilia con la modernità occidentale nel Concilio Vaticano II: il negoziato con i governi dei Paesi marxisti-leninisti, la celebre Ostpolitik vaticana, è il capolavoro di una Santa Sede sicura del proprio ruolo internazionale in nome di una Chiesa cattolica a suo agio nella modernità. Tutto cambia con la fine del comunismo e la saldatura tra la rivoluzione degli anni Sessanta e il liberalismo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Il mondo è di nuovo ostile. La «Chiesa contro» rinasce nell'Europa secolarizzata, ma soprattutto negli Stati Uniti dove il cattolicesimo si trasforma da Chiesa degli immigrati in Chiesa «nazionale»; come scrive Sergio Romano, la nuova Chiesa cattolica americana si vuole dogmatica e liberale insieme: «dogmatica quando proclama le sue verità, liberale quando il libero mercato della fede le impone le sue norme». Una nuova miscela di intransigenza e compromesso muove la «Chiesa contro»: quella di un Giovanni Paolo II «contemporaneamente autoritario e popolare»; quella di un Benedetto XVI che, ancora secondo Romano, «mette definitivamente fine a qualsiasi pretesa ecumenica della Chiesa di Roma» e dà battaglia al relativismo culturale.
Si innesta qui il viaggio di Beda Romano. L'eutanasia svizzera, la clonazione britannica, il matrimonio gay olandese e spagnolo, sono l'esito del percorso raccontato dal padre Sergio. Dai testimoni intervistati e dai dati forniti, appare evidente come l'impossibilità di un veto cattolico elaborata dalla storia dei rapporti tra Stati e Chiese nell'Europa nord-occidentale abbia prodotto un biodiritto meno restrittivo e più ottimista nei confronti della scienza e della libertà del cittadino. Non a caso i medaglioni di Beda Romano da Amsterdam, da Monaco di Baviera, da Parigi mostrano come gli scontri bioetici riecheggino i conflitti interni alla Chiesa di Roma: il magistero cattolico in tema di sessualità, famiglia e bioetica suona lontano dai credenti quanto le posizioni sugli scandali sessuali, sul celibato dei preti e sul no al sacerdozio femminile. Se in alcuni Paesi lo scollamento tra realtà sociale e ideale cattolico è accettato come fisiologico, nell'Europa nord-occidentale la pretesa di coerenza agita i credenti. Soprattutto nel mondo di lingua tedesca, gli abbandoni e le proteste raccontano una «Chiesa contro» se stessa. Beda Romano vede proprio nella Germania di Benedetto XVI «il Paese che più di altri, al momento opportuno, indurrà la Chiesa a cambiare identità». Nell'Europa nord-occidentale non esistono oasi felici, è la conclusione dei due autori, ma, scrive Sergio Romano, «la società che si conforma alle prescrizioni della Chiesa è destinata a essere scavalcata dalle altre».
Sembra essere il caso dell'Italia in cui all'opportunismo politico-religioso che l'autore definisce il «peggiore dei relativismi» si sommano, denuncia il figlio Beda, le «pecche» dell'establishment italiano: la «vena gerontocratica e corporativa» e il «pregiudizio antiscientifico». Come nell'Europa del Viaggio in Italia, anche in quella di Sergio e di Beda Romano è importante chiedersi cosa permettono i nostri e gli altrui «preti». Ma prima ancora, ci si deve domandare con Goethe se spetti a un «prete» concedere «licenza».

Repubblica 18.1.12
Scuola pubblica, ma pagano anche le famiglie fino all’80% delle spese a carico dei genitori
Gite, corsi, cancelleria e detersivi: ecco per cosa chiedono contributi i licei
Sul sito del ministero dell´Istruzione i dati relativi a tutti gli istituti Al Sud il contributo privato è minore
di Salvo Intravaia


ROMA - Corsi pomeridiani e attività sportive, giornalini d´istituto e recite teatrali, gite e viaggi d´istruzione, corsi di lingua straniera e per conseguire la patente informatica, rivolti a prof e studenti, corsi per ottenere il patentino per i ciclomotori, assicurazione: nei licei classici e scientifici italiani, quasi sempre, pagano mamma e papà. E non solo. L´obolo offerto dalle famiglie alle scuole contribuisce a pagare anche carta igienica, materiale di cancelleria, toner e carta per le fotocopie e perfino i detersivi per mantenere puliti gli ambienti scolastici. Senza quei soldi i licei italiani entrerebbero in crisi.
E´ una delle prime informazioni che emergono dal link "scuola in chiaro": il portale che renderà più trasparente la scuola italiana, consentendo ai genitori in procinto di iscrivere (entro il prossimo 20 febbraio) i figli all´anno scolastico 2012/2013 una scelta più consapevole. Una iniziativa lanciata lo scorso 12 gennaio dal ministro dell´Istruzione, Francesco Profumo. Nella maggior parte dei licei classici e scientifici del Belpaese il contributo complessivo, spesso "volontario", versato ad inizio anno dalle famiglie supera abbondantemente quanto le stesse scuole ricevono dallo Stato e dagli enti pubblici e locali. Arrivando, in alcuni casi, a superare anche l´80 per cento dell´intero budget necessario per ampliare l´offerta formativa. Un panorama che non varia molto se si estende l´analisi a tutti gli altri licei: artistici, delle scienze umane, linguistici e musicali/coreutici. Ma che fino ad alcuni anni fa era impensabile.
L´inchiesta condotta da Repubblica abbraccia tutti i licei di 10 grandi città italiane (Torino, Milano, Genova, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari): in tutto, i 223 licei che hanno messo in linea i dati sull´origine dei loro finanziamenti, esclusi gli stipendi di insegnanti e Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari) che vengono pagati direttamente dallo Stato. Alcuni esempi serviranno a chiarire i termini della questione. In cima alla classifica dei 223 licei presi in considerazione troviamo lo scientifico Cannizzaro di Roma che riceve l´82,3 per cento delle proprie entrate "da privati": per la quasi totalità i genitori stessi. Seguono il liceo capitolino i classici Beccaria e Manzoni di Milano, che devono ringraziare la generosità dei genitori, rispettivamente, per l´80,3 e l´80,1 per cento delle proprie risorse. A Torino il liceo pubblico più sostenuto dalle famiglie è lo scientifico Volta, in cui tre quarti del budget annuale proviene "da privati".
Scendendo per lo Stivale, la quota di finanziamenti pubblici aumenta e cala il sostegno delle famiglie. A Cagliari i finanziamenti non pubblici che entrano nelle casse dei licei raggiunge mediamente il 26 per cento, con record (69,4 per cento) al classico Dettori. A Napoli, le famiglie finanziano i licei per il 28 per cento del totale. In coda alla classifica c´è Palermo, col 18 per cento di finanziamenti privati nelle casse dei licei pubblici, e Bari: 19 per cento. La città più costosa è Milano, dove 60 euro su cento presenti nelle casse dei licei provengono direttamente dalle tasche delle famiglie. La classifica per indirizzi vede stabilmente in testa i classici. A generare questa singolare situazione, probabilmente, è stato anche il taglio ai finanziamenti destinati all´autonomia scolastica, particolarmente pesante nell´era Gelmini. Nel 2001, per finanziare la legge 440/97 furono stanziati 269 milioni di euro, che dieci anni dopo (nel 2011) si sono assottigliati a 79: meno 71 per cento. Le scuole, per ovviare alla scure gelminiana, si sono rivolte alle famiglie chiedendo loro "contributi" da poche decine a 200 euro.

Repubblica 18.1.12
Ungheria, si muove la Ue "Basta leggi liberticide"
Barroso annuncia l’apertura delle procedure d’infrazione
Orbàn promette concessioni: oggi è all’Europarlamento e il 24 vedrà il capo della Commissione
di Andrea Tarquini


BERLINO - Divisa sull´euro, minacciata dalla recessione, debole sulla scena internazionale, l´Europa almeno in un caso ha mostrato carattere: la risposta alla svolta autoritaria in Ungheria, paese membro dell´Unione dal 2004. Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha annunciato ieri l´apertura di procedure d´infrazione a carico di Budapest. Bruxelles contesta alcune delle leggi liberticide varate dal governo di destra nazionale dell´autocratico premier Viktor Orbàn: la minaccia all´autonomia della Banca centrale, le mani sulla giustizia, le leggi non garantiste sulla protezione dei dati personali. Orbàn - soprannominato dall´opposizione "Viktàtor", gioco di parole tra il suo nome e "dittatore" - reagisce promettendo vagamente concessioni. Il 24 incontrerà a Bruxelles Barroso per un chiarimento. Ma già oggi andrà a parlare al Parlamento europeo. «Per difendere l´Ungheria dall´attacco della sinistra internazionale», ha detto il suo portavoce, Péter Szijjàrtò. Dura, ironica la replica del nuovo presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz: «Bella notizia, non sapevo che Barroso fosse di sinistra».
«Non vogliamo ombre di dubbio sul rispetto della democrazia in un paese membro dell´Unione», ha detto Barroso. L´iniziativa della Commissione segue di pochi giorni la dura richiesta di chiarimenti presentata dalla direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Lagarde. Se non fornirà concrete garanzie di modifiche alle leggi - denunciate ieri anche da Amnesty international - l´Ungheria di Orbàn non rischierà solo di essere deferita alla Corte europea di giustizia. Sarà in pericolo il credito di 15-20 miliardi di dollari chiesto a Ue e Fmi, e senza il quale un suo default, a causa della fallimentare politica economica autarchica di Orbàn e non solo degli errori dei precedenti governi socialisti, sembra inevitabile.
Le leggi contestate sono: i pesanti limiti all´autonomia della Banca centrale, in contraddizione con il Trattato di Lisbona. Il pensionamento anticipato a 62 anni dei giudici, con la creazione di un´autorità che controlla la magistratura, affidata a un´amica della famiglia Orbàn. E la protezione dei dati privati. «Siamo pronti a regolare tutto», ha detto il ministro della Comunicazione, Zoltàn Kovacs. Ma nel regime falchi affiancano colombe. «Non permetteremo gli attacchi della sinistra», insiste Szijjàrtò. Tra stretta autoritaria, aumento della povertà e crisi economica, la tensione minaccia di salire. I sostenitori di Orbàn organizzano per sabato una grande marcia su Budapest: contadini, militanti da ogni angolo del paese, ussari in uniforme. Con la promessa di una diaria. L´ultradestra neonazista (Jobbik, terza forza in Parlamento) brucia in piazza le bandiere della Ue. «Dobbiamo liberarci di Orbàn, è un uomo malvagio», ha scritto ieri sulla Frankfurter Allgemeine lo scrittore magiaro Gyorgy Konrad, leader del dissenso sotto il vecchio regime comunista.

Repubblica 18.1.12
Medici, operazione trasparenza di Obama
Le compagnie farmaceutiche dovranno rendere noti omaggi e compensi di qualunque tipo
Le autorità federali metteranno sul web la lista dei sanitari con i soldi o i favori ricevuti
di Federico Rampini


new york - Pugno duro contro i conflitti d´interessi della classe medica: il paziente deve sapere tutto sui legami dei dottori con Big Pharma. Barack Obama lancia un nuovo tassello della sua riforma sanitaria, e non uno dei minori. Sarà obbligatoria la massima trasparenza sugli omaggi di ogni tipo, che l´industria farmaceutica fa ai medici. Pagamenti per ricerca, consulenze, inviti a conferenze, viaggi e congressi. Tutto dovrà essere noto, perché il paziente sappia se il suo medico ha "altre motivazioni" quando prescrive questa o quella cura. È un tema su cui si battono da tempo diverse associazioni di consumatori. È stato provato infatti, anche grazie ad alcune inchieste del New York Times, che un quarto dei medici accettano regolarmente pagamenti da case farmaceutiche o produttori di apparecchi sanitari; raggiunge addirittura i due terzi la quota di dottori che ricevono compensi in natura come pranzi e cene. Le stesse inchieste hanno dimostrato che i medici così beneficiati spesso somministrano cure diverse, fanno scelte che si discostano da quelle dei colleghi che non ricevono gli stessi favori. Le conseguenze possono essere pericolose per la salute dei pazienti: «Prescrizioni di farmaci più rischiosi, terapie sperimentali».
Un caso grave fu sollevato a proposito della somministrazione di potenti farmaci anti-psicosi ai bambini. Ora almeno la vittima potenziale potrà aprire gli occhi anzitempo. E, se necessario, cambiare dottore. Le autorità federali infatti pubblicheranno su un apposito sito la lista dei medici con gli eventuali pagamenti o altri favori ricevuti. Troppo poco? In realtà oggi la trasparenza è un´arma più efficace che in passato. Tra gli americani si diffonde l´abitudine di consultare appositi siti Internet dove i pazienti si comunicano giudizi sui medici; giornali e riviste pubblicano classifiche sulla qualità degli specialisti. Se il consumatore ha imparato a confrontare online i prezzi delle auto prima di andare dal concessionario, a maggior ragione lo può fare prima di scegliersi il cardiologo, l´oncologo e il pediatra.
Le compagnie farmaceutiche dovranno rendere noti i pagamenti ai medici anche quando sono giustificati da missioni "nobili" come la ricerca, lo sviluppo e la sperimentazione di nuovi medicinali. Gli omaggi in "natura" dovranno essere pubblicizzati a partire da una soglia molto bassa, 25 dollari: praticamente qualche croissant e caffè, o un pasto in un fast-food. A maggior ragione dovranno essere dichiarati i pagamenti per conferenze, o i viaggi-omaggio per assistere a congressi scientifici (spesso, guarda caso, ospitati in lussuosi "resort" con affaccio su spiagge tropicali). Le sanzioni colpiranno con severità Big Pharma. Le società farmaceutiche e produttrici di apparecchiature mediche saranno colpite con multe di 10.000 dollari per ogni singolo pagamento non dichiarato; 100.000 dollari quando l´omissione sia intenzionale. Il top management potrà essere ritenuto personalmente responsabile, perché le dichiarazioni dovranno portare la firma degli amministratori delegati. L´annuncio dell´Amministrazione Obama è stato salutato con soddisfazione da Allan Coukell, un farmacologo impegnato nella protezione dei pazienti presso il Pew Charitable Trusts: «I malati hanno bisogno di sapere che stanno ricevendo la migliore cura possibile secondo i criteri medici, non sulla base di un interesse finanziario, ma troppo spesso non hanno il coraggio di fare domande esplicite al proprio dottore».

Repubblica 18.1.12
Tunisia
Le spine dopo la Rivoluzione l’Islam alla prova del potere
di Bernard Guetta


Economia in caduta e casse dello Stato vuote: il governo di Ennahda deve confrontarsi con la protesta Gli scioperi diventano radicali e il partito non può contare su esercito e polizia per usare la forza
La rivolta per la democrazia è nata qui e si è estesa agli altri Paesi. Ora Tunisi ha lanciato un nuovo messaggio
La rivolta per la democrazia è nata qui, ed è ancora qui che si gioca il suo futuro: il Paese sta sfuggendo alle sue nuove autorità

La primavera araba è nata in Tunisia, ed è ancora in Tunisia che si gioca il suo avvenire. Come la fuga di Ben Ali, un anno fa, aveva prefigurato la caduta di Mubarak, la vittoria elettorale degli islamisti di Ennahda in Tunisia ha annunciato quella dei Fratelli musulmani in Egitto. Al Cairo come a Tunisi, questa captazione democratica di rivoluzioni moderniste da parte di integralisti le cui radici tutto sono fuorché democratiche è sembrata dare ragione ai più pessimisti.
«Eppure noi ve l´avevamo detto», dicono quelli che avevano previsto che giovani teocrazie nel pieno delle forze avrebbero preso il posto di dittature sul viale del tramonto; ma non è questo che sta succedendo in Tunisia, al contrario: qui gli islamisti sono in difficoltà.
Adesso che governano, adesso che le elezioni del 23 ottobre li hanno trasformati nella forza principale della coalizione parlamentare che hanno formato con due dei partiti laici, gli islamisti devono giustificare la fiducia che quasi la metà dei tunisini aveva accordato loro, e il compito non è facile. Anzi, è talmente difficile che nessun altro partito probabilmente avrebbe potuto fare molto meglio di loro, talmente grandi sono i problemi. Ma sta di fatto che sono loro che ricoprono i principali incarichi ministeriali e dirigono il Governo, che sono loro il potere e che questo potere non riesce a tirar fuori il Paese dal fosso in cui si è impantanato.
Non c´è soltanto il problema dell´economia in caduta libera, dell´aumento della disoccupazione e dell´abbassamento del potere d´acquisto, delle casse vuote dello Stato e del turismo che stenta: il malcontento sociale cresce di giorno in giorno, perché questa coalizione è riuscita a partorire soltanto una finanziaria irrealistica, a cui non crede nessuno, e si mostra incapace di aprire una benché minima prospettiva di ripresa economica, anche dolorosa.
Gli scioperi si moltiplicano e diventano più radicali. Nelle regioni dell´interno, quelle da dove era partita la rivoluzione, perché la dittatura le aveva trascurate a beneficio delle coste e delle loro spiagge, cresce un clima di rivolta. I ministri non si fanno più vedere da quelle parti, dopo che lo stesso presidente della Repubblica è stato duramente contestato.
Il Paese sfugge alle sue nuove autorità e la collera popolare si concentra sempre di più contro Ennahda, perché i suoi ministri nella maggior parte dei casi sono incompetenti, perché è stata la vittoria di Ennahda - è un dato di fatto - che ha bloccato gli investimenti, e perché molti dei suoi funzionari, invece di rassicurare, alimentano l´incertezza. Quando non è un ministro che parla di tornare al califfato, a un mondo musulmano unito dalla fede, è il governo tutto che lascia che gli islamisti più integralisti, i salafiti, cerchino di imporre il niqab all´università o tollera che il primo ministro islamista di Gaza venga accolto all´aeroporto al grido di «Morte agli ebrei!».
Ennahda non vuole prendersi il rischio di accrescere l´influenza dei salafiti reprimendoli e lo stesso partito islamista resta diviso tra i fautori di una svolta alla turca e i nostalgici della sharia: è per questo che il Governo in carica preoccupa perfino alcuni degli elettori che avevano votato Ennahda. La base sociale del partito si restringe a vista d´occhio e quando la crisi sociale avrà partorito la crisi politica che cova in grembo il suo isolamento assumerà vaste proporzioni.
«È proprio questo che preoccupa», dicono i pessimisti, che già vedono Ennahda cercare di restare al potere facendo ricorso alla forza: ma questo partito non può contare né sulle forze armate, che non lo difenderanno così come non avevano difeso Ben Ali, né sulla polizia che gli è ostile, né sulla paura, che non ha fatto ritorno in Tunisia.
Ogni volta che fa un passo falso, Ennahda deve confrontarsi con vigorosi movimenti di protesta, che non ha i mezzi per contrastare. Il potere non ha rafforzato gli islamisti; al contrario, li ha indeboliti e in un modo o nell´altro dovranno finire per evolversi e scendere a patti: con la realtà economica e sociale, con una gioventù che vuole la libertà e ci ha preso gusto e con delle donne la cui emancipazione è diventata una realtà da quando Habib Burghiba, il padre dell´indipendenza, l´aveva imposta.
Le difficoltà per la Tunisia sono appena cominciate, ma niente è ancora deciso; e anche in Egitto i Fratelli musulmani non avranno vita facile. Anche loro erediteranno una situazione economica catastrofica, e, se è vero che le egiziane non sono emancipate come le tunisine, è vero anche i Fratelli musulmani dovranno fare i conti con un esercito che continua ad avere un grosso peso economico e politico e con dei salafiti ben più potenti che in Tunisia, considerando che si sono aggiudicati più del 20 per cento dei voti. Gli islamisti egiziani dovranno cercare l´appoggio dei laici. La primavera araba non è ancora sfociata nell´Iran dei mullah, e tantomeno nell´Afghanistan dei Taliban di undici anni fa.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

il Fatto 18.1.12
Crisi alla cinese, il Pil sale “solo” del  9%
E la popolazione urbana supera per la prima volta quella rurale
di Simone Pieranni


Pechino La Cina si urbanizza, decresce lievemente, inonda le reti telematiche e mette nel mirino un 2012 di stabilità e ritorno alla crescita. È la fotografia del paese nel 2011, dopo la pubblicazione dei dati economici da parte dell'Istituto Nazionale di statistica. Per la prima volta la popolazione urbana supera quella rurale, in un paese con tradizione e spirito agricolo. Il 51,27% del miliardo e 340 milioni di cinesi, vive infatti in città a seguito di una mastodontica opera di urbanizzazione, che ha spogliato i centri rurali. La crescita della popolazione urbana è stata dell'1,32% più alta rispetto al 2010. Tra i nuovi cittadini sono inclusi infatti anche i lavoratori migranti, la schiena e le mani dello sviluppo cinese, per un numero di 252 milioni. I migranti, proprio loro, quelli che alcuni giorni fa, un procuratore capo di Shenzhen con una proposta choc voleva mandare via dalla città, attraverso la demolizione di massa dei loro dormitori. Un'idea già ritirata, ma che dimostra l'esistenza di un problema sociale, sotto la coltre armonica propagata dai media di Stato.
Questione sociale sotto osservazione, a maggior ragione dopo le statistiche sulla salute economica del paese: seppure con numeri importanti, la Cina nel 2011 ha rallentato: secondo i dati diffusi nella mattinata pechinese di ieri la crescita del Dragone nel 2011 è stata complessivamente del 9,2%, rispetto al 10,4% del 2010. Nell'ultimo trimestre la crescita del Prodotto interno lordo cinese è stato dell'8,9% confermando un trend in discesa. Nel 2011 la produzione è cresciuta del 13,9%, più lentamente rispetto al 2010 a causa della crisi in Usa ed Europa. Sono cresciuti meno anche gli investimenti del governo in infrastrutture urbane e le vendite al dettaglio. Gli analisti cinesi però dispensano un cauto ottimismo: la lettura politica dei dati economici vede infatti alcune cause precise del rallentamento: da un lato la diminuzione degli ordini a causa della crisi europea e americana, dall'altro una necessaria politica di stretta al credito, che ha frenato la crescita, ma ha anche cercato di limitare l'inflazione, che sul finire dell'anno si è attestata al 4,1% (dopo aver raggiunto anche vette del 6,5%). Il 2012, secondo le autorità cinesi, rivedrà una spinta alla crescita, in modo da tenere sotto controllo quanto è più importante per Pechino, ovvero la stabilità sociale. A fine del 2012 infatti cambieranno i vertici politici, con la definitiva ascesa della quinta generazione di leader. Pechino non vuole problemi sociali e, come specificato dalle autorità ieri, proseguirà sul tasto delle riforme iniziate trent'anni fa da Deng Xiaoping.
NEI GIORNI SCORSI anche il China Internet Network Information Center (Cnnic) ha rilasciato dei dati, questa volta sull'Internet cinese: la Cina ha 513 milioni di utenti online, di cui la metà gestisce almeno un microblog. 55,8 milioni sono i nuovi utenti Internet del 2011, con un tasso di penetrazione del 38,3%. Il numero di microblogger è aumentato del 296% raggiungendo il numero di 250 milioni a dicembre scorso, “il che suggerisce che circa la metà degli utenti di Internet utilizzano microblog”, specifica il rapporto. Aumentato l'anno scorso l'uso di Internet anche nelle aree rurali (8,9 punti percentuali) raggiungendo la cifra di 136 milioni di persone, pur esistendo ancora enormi disparità tra regioni ricche e povere. Le statistiche dimostrano come esempio che più del 70% dei residenti di Pechino ha utilizzato Internet lo scorso anno, mentre solo il 24,2% delle persone della provincia di Guizhou si è potuta collegare alla rete.

Corriere della Sera 18.1.12
Il Grande Balzo delle megalopoli Le città superano le campagne
Per la prima volta in Cina i contadini sono in minoranza
di Marco Del Corona


PECHINO — La Cina che nel 1949 — secondo l'immagine di Mao Zedong — si alzò in piedi prendendo in mano il proprio destino, si è messa convintamente sottosopra. Una seconda rivoluzione, incruenta e radicale. Per la prima volta nella sua storia, infatti, la Cina ha più abitanti nei centri urbani che nelle campagne. L'assalto dei contadini alle città — feticcio ideologico, strategico e militare di Mao — ora è realtà, per quanto non definitivamente compiuto. Il travaso di forza lavoro continuerà ancora, tuttavia l'annuncio dell'Ufficio statistico nazionale ha certificato i nuovi equilibri. Il 51,27% dei cinesi vive nelle megalopoli, nelle metropoli, nelle città di secondo, terzo, quarto livello, e le campagne andranno avanti a dissanguarsi, nel nome dello sviluppo.
È un modello che tiene, sebbene con affanni. Proprio ieri Pechino ha diffuso i dati sulla crescita nel 2011. Superata di slancio la soglia non soltanto psicologica dell'8%, il Pil cinese ha toccato il più 9,2%, anche se un quarto trimestre a 8,9 fa registrare il minimo da due anni a questa parte. I tassi di crescita a due cifre (era 10,4% nel 2010) vanno collocati tra i ricordi. In crescita, ma meno vigorosa che in passato, è la produzione industriale, più 13,9%, così come in frenata sono anche i consumi al dettaglio, più 17,1%. I mercati internazionali hanno interpretato il bollettino di Pechino in termini positivi, con la Borsa di Shanghai che è balzata all'insù oltre il 4%. Sullo sfondo, la difficoltà del settore immobiliare, che si sta fermando e lascia temere sviluppi drammatici.
Il più 9,2% del Pil 2011 è figlio proprio del sistema plasmato dal ricorso a una (finora) abbondante, (finora) conveniente, (finora) duttile manodopera trasferita dalle campagne alle città. Tra il 70% di popolazione rurale dell'India e l'82% di popolazione urbana degli Stati Uniti, la Cina si allinea con le proporzioni complessive dell'umanità, 51% nelle città e 49% nelle campagne. I flussi migratori interni trovano una loro brutale, fisica evidenza nella frenesia di questi giorni che precedono il Capodanno lunare, quest'anno il 23 gennaio, lunedì prossimo. Ma sono le prospettive a medio e lungo termine a contare. Secondo un gruppo di lavoro della Conferenza consultiva (una sorta di parlamento minore), nei prossimi vent'anni altri 300 milioni di contadini da inurbare saranno «d'importanza vitale» per lo sviluppo del Paese. Già ora — si legge nell'indagine, resa nota un paio di settimane fa — della nuova generazione di migranti interni, l'84,5% non è stato impegnato nell'agricoltura, il 30% non ha appezzamenti di terreno e il 92,3% lascia i campi con la precisa intenzione di non farvi ritorno.
Inquietano i segnali che provengono dall'industria. Le aziende inaugurano poli produttivi nell'entroterra, una volta bacino a cui attingere per riempire gli stabilimenti del Guangdong e lo Zhejiang, sulla costa. La manodopera non appare più così abbondante e comunque gli stipendi aumentano. Il Partito comunista, che in autunno rinnoverà la leadership propria e dunque del Paese, è chiamato a una colossale operazione di ingegneria sociale, nella quale rientrano la gestione degli hukou (i certificati di residenza), i diritti sulle terre evocati di recente dal premier Wen Jiabao, la pratica degli espropri, la tutela dei diritti di base, il contenimento degli «incidenti di massa». Gli strumenti politici sono ben coltivati, lo dimostra come il Partito sia riuscito a disinnescare la protesta del villaggio di Wukan, dopo mesi di tensione culminati con la rivolta di dicembre e un morto, a capitalizzare il ruolo di pacificatore e a governarne la normalizzazione: il leader della ribellione, Lin Zuluan, è stato cooptato e nominato segretario del Pcc del villaggio. Un giorno, però, certe risorse potrebbero non bastare più.

il Riformista 18.1.12
La locomotiva cinese rallenta E il Partito coopta i dissidenti
di Andrea Pira


Wukan. La rivolta del piccolo paese del Guangdong si conclude con la nomina a segretario locale del leader dei manifestanti. Un modello che potrebbe fare scuola. La crescita nel 2011 è stata inferiore al livello fissato dal Politburo per garantire «la coesione sociale». E così a Pechino si discute delle virtù di un approccio più morbido.

Da leader della rivolta contro gli abusi dei funzionari locali, a segretario locale del Partito comunista cinese. È successo a Wukan, villaggio nella provincia meridionale del Guangdong polmone dell’economia cinese teatro lo scorso dicembre di una rivolta popolare contro gli espropri delle terre. Una sollevazione capace di tenere in scacco i quadri del Partito per due settimane, costringendoli alla fuga e a trattare fino a cedere alle richieste dei manifestanti.
Di quella protesta Lin Zulan, 67 anni, nuovo segretario locale del Pcc, era stato uno dei capi riconosciuti, all’inizio ricercato dalla polizia, per poi sedersi al tavolo dei negoziati con il numero due del Partito nella provincia, Zhu Mingguo. «La sua nomina è il risultato della nostra lotta. Non ci aspettavamo sarebbe successo, siamo ribelli. È la prima volta che un ricercato diventa segretario», è stato il commento di Yang Semao, compagno di Lin nelle due settimane di resistenza mentre il villaggio di 20mila abitanti, che si era dato una sorta di governo autonomo, era assediato dalla polizia che bloccava i rifornimenti.
«Ora il Partito è nelle mani della gente». Che adesso dovrà eleggere anche un nuovo comitato di villaggio immediatamente dopo la fine delle festività per il Capodanno cinese all’inizio di febbraio. Il prestigio di Lin tra i concittadini, scrive il South China Morning Post, deriva sia dal suo passato sia dalla sua determinazione nel cercare giustizia. Ex militare, era stato vice direttore del comitato locale a Wukan, prima di essere nominato a capo del Pcc nel distretto commerciale di Donghai e tornare nel suo villaggio da pensionato nel 1995.
Le barricate e l’autogoverno, che hanno spinto il Financial Times a paragonare quanto avveniva in questo piccolo centro di pescatori alla Comune di Parigi, sono stati soltanto l’ultima fase di una protesta iniziata a settembre. Allora i cittadini scesero in strada per denunciare la vendita di terreni ad aziende private, accusando i quadri locali, con in testa l’ex segretario Xue Chang ora sotto inchiesta per corruzione di aver ricevuto tangenti. A far precipitare la situazione fu la morte in carcere di un altro leader della rivolta, Xue Jinbo, ufficialmente per insufficienza cardiaca, ma il cui corpo era coperto di lividi.
L’interesse della stampa internazionale e il timore che le proteste potessero diffondersi, dopo lo scoppio di manifestazioni contro una centrale elettrica a Heimen distante soltanto un centinaio di chilometri dal villaggio in rivolta portarono il caso sul binario del dialogo. La trattativa gestita da Zhu, ma decisa dal capo del Pcc nel Guangdong, Wang Yang, è stata considerata da molti analisti come un modello da seguire per le future dispute.
Lo stesso Wang, più volte dipinto come un politico moderno e liberale, tra i papabili per un posto nel comitato permanente del politburo del Pcc dall’autunno prossimo, ha fatto riferimento al “modello Wukan” per il governo della provincia. Il Guangdong, ha detto all’inizio di gennaio, è cresciuto ad alta velocità. «La priorità è ora una riforma strutturale». Non più crescita a tutti i costi, ma una ristrutturazione dell’economia e la promozione e lo sviluppo delle organizzazioni sociali.
Parole che hanno anticipato  una settimana i dati economici relativi all’anno appena trascorso, diffusi ieri dall’Ufficio nazionale di statistica. Nel 2011 l’economia della Repubblica popolare ha rallentato la sua corsa ed è cresciuta del 9,2 per cento contro il 10,4 dell’anno precedente, il tasso più contenuto degli ultimi due anni e mezzo. Tra ottobre e dicembre il
Pil è cresciuto dell’8,9 per cento, in calo rispetto al 9,1 del terzo trimestre, un risultato comunque migliore delle previsioni. Cifre che farebbero invidia a qualsiasi altra economia del mondo, ma che il portavoce dell’Ufficio di statistica, Ma Jiantang, ha presentato mettendo in guardia dalle «sfide» che attendono la Cina nel 2012 sia in campo interno sia a livello internazionale.
Con l’aggravarsi della crisi in Europa, principale partner commerciale di Pechino, nel primo trimestre di quest’anno la crescita dovrebbe essere attorno al 7,5 per cento. Al di sotto quindi di quell’8 per cento indicato dalla dirigenza cinese come il traguardo minimo per garantire la stabilità sociale senza mettere a rischio l’autorità del Partito. Specialmente nell’anno in cui il Pcc attende il cambio di leadership fissato in autunno.
Da qui la necessità di cercare un approccio più morbido al malcontento popolare che non si è fermato con il nuovo anno. Nelle prime settimane del 2012 gli scioperi in tutto il Paese sono stati già almeno cinque, scrive il China Labour Bullettin, e hanno coinvolto migliaia di lavoratori. Per questo si cerca di cooptare i capi della protesta o si danno incentivi materiali come l’aumento dei salari.

Corriere della Sera 18.1.12
Il salario minimo garantito e le nuove disuguaglianze cinesi
di Marco Del Corona


Il fenomeno è in atto da tempo ma il rallentamento dell'economia cinese e la sofisticazione progressiva della produzione lo mettono in luce con ruvida nitidezza. Nella Repubblica Popolare la stagione dei salari omogenei (omogenei al ribasso, s'intende) è estinta. Dal 1o febbraio Shenzhen, metropoli simbolo del boom cinese, avrà i salari minimi più alti della Cina: 1.500 renminbi al mese, quasi 190 euro. Da questo mese Pechino ha portato la soglia obbligatoria ad almeno 1.260 renminbi. Nel novembre scorso, il ministro competente Yin Weimin aveva calcolato che nel solo 2011 la paga minima era cresciuta mediamente del 22% in tutto il Paese grazie agli interventi di 24 province. E la Foxconn, famigerato colosso taiwanese che sforna iPad e iPhone, ha talmente articolato la sua produzione, sparsa tra 27 stabilimenti anche all'interno, che ha diversificato anche le paghe, aumentate sì su larga scala però di più per chi non scappa dopo sei mesi.
Cambiano i mercati, la geografia, le politiche. Non esiste, insomma, un paradigma elementare. S'impongono, al contrario, letture contraddittorie. In novembre il Southern Daily, giornale piuttosto spregiudicato, spiegava che gli aumenti di stipendio non si traducono automaticamente in condizioni migliori per gli operai perché occorre valutare mille variabili, come le forme di welfare accessibili. E lo stesso Quotidiano del Popolo non sottovalutava le incognite di un costo del lavoro in ascesa, avvertendo nel 2010 che occorre esercitare un'«equilibrata ragionevolezza». Inoltre, la ristrutturazione dei salari in una stessa azienda moltiplica le occasioni di frustrazione, rivendicazione e scontro, come la Foxconn pare insegnare.
Dal 18 al 21 gennaio di 20 anni fa, Deng Xiaoping compì il leggendario «viaggio nel Sud» che lanciò definitivamente le riforme e avviò l'ascesa formidabile della Cina: che le riflessioni sul frastagliato universo delle politiche salariali conoscano proprio adesso un picco di attenzione pare una coincidenza. Ma forse vent'anni sono un tempo sufficiente perché, di nuovo, maturi il trapasso a un'altra era.

La Stampa 18.1.12
Due bicchieri di cognac per brindare alla soluzione finale
Settanta anni fa a Wannsee la Conferenza dei capi nazisti che decise lo sterminio della popolazione ebraica
di Walter Barberis


VOLONTEROSI CARNEFICI. S’erano resi conto che il lavoro non poteva essere condotto con mezzi convenzionali
I PRIMI TENTATIVI A bordo di camion, per verificare se si potevano ottimizzare le procedure con l’uso dei gas

I volti scarni e i corpi macilenti delle poche migliaia di superstiti che si presentarono allo sguardo sbalordito dei soldati dell’Armata rossa il 27 gennaio 1945, ai cancelli del campo di Auschwitz finalmente liberato, erano ciò che restava dei milioni di vittime passate dalle camere a gas e incenerite nei forni crematori. L’incredibile piano di sterminio di tutti gli ebrei d’Europa aveva avuto inizio esattamente tre anni prima, il 20 gennaio 1942, a Wannsee, un ameno sobborgo di Berlino. Lì, in una casa patrizia requisita a una ricca famiglia ebrea, il principale collaboratore di Himmler, Reinhard Heydrich, aveva convocato i responsabili di tutti i dicasteri e gli uffici ritenuti utili per deliberare la cosiddetta «soluzione finale».
Era risultato chiaro fin dall’autunno del 1941 che l’eliminazione fisica degli ebrei non avrebbe potuto essere portata a termine con mezzi convenzionali. Gli Einsatzgruppen, le unità speciali affiancate all’armata tedesca che avanzava sul fronte orientale, avevano operato con solerzia, ma i massacri di intere comunità ebraiche parevano dire che ben difficilmente i nazisti avrebbero potuto raggiungere il loro fanatico obiettivo di eliminare dalla faccia della terra l’intera popolazione ebraica nei tempi ragionevoli di una guerra.
Fucilati e gettati in fosse comuni, gli ebrei sterminati si contavano a decine di migliaia; ciò voleva dire che per quanto si adoperassero con zelo feroce, le mani di quegli uomini non riuscivano a realizzare risultati numericamente soddisfacenti. E non solo: per quanto risucchiate in una dimensione di pura follia e addestrate a uccidere senza ombra di pietà donne, vecchi e bambini, quelle SS imbrattate di sangue da capo a piedi, giorno dopo giorno, non avrebbero potuto reggere i ritmi che imponevano la ricerca, il rastrellamento e l’eliminazione fisica degli ebrei insediati nelle campagne e nei centri urbani di gran parte dell’Europa. E anche se storditi dall’alcol e non di rado dalle droghe, la loro tenuta nervosa aveva pur sempre dei limiti. Era già stato accertato che dopo un paio di mesi di quella vita gli uomini perdevano il controllo, davano segni di squilibrio mentale, diventavano inefficienti, inservibili. Dunque si imponeva un’altra soluzione.
Nell’autunno del 1941, in alcune zone del governatorato polacco e nelle terre di confine dell’Unione Sovietica attaccata dai nazisti, si fecero le prime prove. Erano tentativi rudimentali, con i camion, che tendevano a capire se si potevano accelerare i tempi e ottimizzare le procedure di eliminazione con i gas. Prima con i semplici gas di scarico ricondotti nei cassoni degli automezzi stipati di ebrei, poi con l’ausilio dell’acido cianidrico, da subito valutato efficace. Quegli esperimenti suggerirono l’idea di trasformare i campi di concentramento e di lavoro allestiti per gli ebrei negli anni precedenti in campi di sterminio. Usando il gas in ambienti chiusi, capaci di contenere svariate centinaia di persone, con turni adeguatamente veloci, si sarebbero potute eliminare migliaia di persone in un solo giorno in ciascuno dei campi.
I vertici del Reich presero segretamente la decisione. Alle SS il compito di coordinare il grande sterminio con procedure industriali. Occorreva la complicità e il concorso di molte organizzazioni e di centinaia di migliaia di persone: una immensa burocrazia doveva individuare gli ebrei, catturarli, trasportarli nei campi; le industrie chimiche dovevano produrre le quantità richieste di acido cianidrico, quelle metallurgiche costruire gli inceneritori, le banche provvedere a incamerare i beni degli ebrei, le ferrovie riorganizzare i loro orari. E molto altro ancora.
Scelti accuratamente, i rappresentanti dei vari dipartimenti dello Stato tedesco vennero convocati a Wannsee. La ferrea regia di Heydrich li avrebbe dovuti informare delle decisioni e convincere della loro necessità. Ignari e sorpresi dall’annuncio, anche i più incalliti antisemiti, uomini come il generale delle SS Hofmann, o il dottor Kritzinger, rappresentante della cancelleria del Reich, e ancora il dottor Stuckart, il giurista che aveva di fatto redatto le leggi razziali del 1935, rimasero perplessi di fronte all’enormità della decisione. Abbozzarono obiezioni e soluzioni alternative. Ma la decisione era già stata presa: loro erano lì solo per ratificarla.
Heydrich, coadiuvato dal capo della Gestapo Müller e dal segretario della riunione, Adolf Eichmann, nel volgere di un’ora o poco più ridusse tutti alla più cieca obbedienza. Ora era soltanto questione di dettagli organizzativi. Sciolta la riunione fra abbondanti libagioni, Heydrich e Müller invitarono il tenente colonnello Eichmann a unirsi a loro in un brindisi: quel paio di bicchieri di cognac con i più alti gradi del potere criminale nazista rappresentarono il culmine della sua carriera. Lo avrebbe candidamente dichiarato di fronte ai giudici di Gerusalemme quindici anni dopo, al processo che lo condannò all’impiccagione per crimini contro il popolo ebraico.
Quella riunione a Wannsee aveva trasformato Eichmann in uno specialista di trasporti verso l’inferno. Il suo unico commento, rimasto solo nella villa in cui aveva organizzato l’incontro, ascoltando il finale di un quintetto di Schubert con il quale si erano deliziati i suoi superiori, fu: «Non capirò mai come si possa apprezzare questa spazzatura sentimentale viennese». Ottuso e zelante, ingranaggio fondamentale della macchina di morte, Adolf Eichmann si apprestava a diventare l’icona di quella che Hannah Arendt avrebbe definito «la banalità del male».

La Stampa 18.1.12
Mauthausen la “musica” di noi maiali
Dal libro-testimonianza di Gianfranco Maris: una scodella di zuppa ogni due deportati, ricordo come fosse ora il rumore di quelle sorsate
di Gianfranco Maris


NUDI IN UN CORTILE Un kapò impartisce l’ordine: «Berretto giù! Berretto su» E va avanti così per due ore
GLI UFFICIALI SOVIETICI In 500 tentarono la fuga, undici di loro sopravvissero: grazie ai contadini austriaci

A lato il monumento dell’Olocausto nel campo di concentramento di Mauthausen, nell’Alta Austria, 20 chilometri a Est di Linz Sotto un’immagine dei prigionieri nel Lager “Per ogni pidocchio... ” Gianfranco Maris (nella foto a sinistra), noto avvocato penalista, senatore del Pci dal 1963 al 1972, membro del Csm dal ’72 al ’76, attuale presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) ha oggi 91 anni. Militante nelle file del partito comunista clandestino e poi della Resistenza milanese, ne aveva 23 quando da Fossoli, dove la Repubblica Sociale Italiana aveva allestito un campo di prigionia, venne trasferito in Austria, a Mauthausen. Ora ha affidato i suoi ricordi di quel periodo a un libro scritto con l’inviato-editorialista della Stampa Michele Brambilla, Per ogni pidocchio cinque bastonate (lo stesso titolo dell’intervista pubblicata un anno fa su queste colonne, per il Giorno della Memoria), edito da Mondadori (pp. 151, 17,50). Ne anticipiamo uno stralcio.
E’ la notte del 7 agosto 1944. Il treno si ferma davanti a una baracca illuminata con una luce gialla. È la stazione di Mauthausen. […] Facciamo così la nostra conoscenza con una nuova figura: i kapò. Sono loro, schiavi delle SS e feroci custodi del campo, che ci circondano brutalmente e ci ordinano di ammucchiare a terra i nostri abiti. Ci dicono che dobbiamo lavarci e che ci debbono tagliare i capelli: poi ritorneremo in possesso dei nostri indumenti, che ora dobbiamo raccogliere in ordine e posare ai nostri piedi, restando tutti completamente nudi. […] Torniamo in cortile e non troviamo più nulla dei nostri abiti, che ci avevano ordinato di piegare e di lasciare per terra. I kapò ci inquadrano con violenza, il cammino ora è celere, non c’è più nessuno che possa ritardare la marcia. Velocemente, con furore, ci portano dall’altra parte del campo, oltre un muro. Ci viene detto che stiamo per raggiungere la baracca di quarantena, dove impareremo a essere prigionieri.
Capiamo ben presto che i nostri amici non hanno passato la selezione degli idonei al lavoro e sono stati avviati all’eliminazione. Tutti noi altri veniamo portati nel reparto quarantena di Mauthausen. Siamo nudi, in una baracca completamente vuota, senza letti a castello. Di notte dormiamo sdraiandoci sul pavimento uno accanto all’altro, come sardine in scatola.
Non abbiamo più nulla, non ci è rimasto neppure lo spazzolino per i denti e sicuramente non abbiamo neppure un cucchiaio. Perché mi viene in mente il cucchiaio? Nella tarda mattinata ci viene distribuita una zuppa in una gamella per ogni due deportati: per cui la zuppa, un brodo di barbabietola da foraggio, deve essere bevuto a sorsi alternati. Ricordo come fosse adesso che in quel momento una cosa soltanto dominava su tutto: il rumore. Il rumore di queste sorsate, che sembravano la musica di tanti maiali gettati contemporaneamente nel truogolo.
Perché ci trattano cosi? Non ci sono nel campo gamelle sufficienti per somministrare a ciascuno la parte che gli compete di quella brodaglia? E non ci sono cucchiai di cui i prigionieri possano usufruire nonostante la loro spregevole condizione di nemici del Terzo Reich?
Finito il «pranzo», a ciascuno di noi viene distribuito un berretto. Cosi non siamo più tutti nudi: insomma siamo sì nudi, ma con un berretto. Ci chiamano subito fuori dalla baracca, ci inquadrano. Arriva un kapò e comincia a impartirci il suo nuovo ordine: «Mützen ab! Mützen auf! » (Berretto giù! Berretto su!). Va avanti così per ore. «Mützen ab! Mützen auf! » E noi per ore, nudi in un cortile, a tirarci su e giù il berretto. Poi entriamo nella baracca e passiamo la notte sdraiati uno accanto all’altro sul pavimento, nudi, senza nessuna coperta o riparo. La mattina dopo, di nuovo nudi in cortile e altre ore di " Mützen ab! Mützen auf! ". Poi la broda in una sola gamella per due persone e la " musica" del truogolo. Il giorno dopo ancora, l’assurdo rituale si ripete.
E così lo stesso per giorni e giorni. Di nuovo mi trovo a domandarmi: perché? Nessuno di noi conosceva a quel tempo le teorie di Pavlov e dei riflessi condizionati indotti nell’animale per ridurlo all’obbedienza assoluta. Obbedire, soltanto obbedire, immediatamente obbedire al suono di un comando. Come cani ammaestrati. E’ per questo che per settimane veniamo istruiti così, fino a quando non decideranno di trasferirci in un altro blocco di quarantena, quello di Gusen: primo campo contiguo a Mauthausen.
Il blocco di quarantena del campo di Mauthausen era chiuso tra alte mura. Ma al di là delle mura c’era un’altra baracca nella quale erano chiusi in isolamento gli ufficiali sovietici prigionieri di guerra che si erano rifiutati, in base alle convenzioni di Ginevra, di lavorare nell’industria bellica del Reich e che per questo rifiuto erano già stati condannati dalla Gestapo al «trattamento kappa». Ossia Kugel, proiettile.
Questi uomini potevano quindi essere uccisi, in qualsiasi momento, con un colpo alla nuca. Ma li si lasciava lì, nella baracca, con l’intento di farli morire in un altro modo, più lento e più atroce: di fame. Non venivano lasciati completamente senza cibo: li si alimentava a gocce, per rendere più straziante l’agonia. Era la " sapienza" nazista nel trattare i nemici. Ogni giorno ne morivano venti o trenta.
All’alba, alla sveglia, dovevano uscire dalla baracca e a gruppi di cento, scalzi, coperti di piaghe, si dovevano sdraiare per terra all’ordine «Nieder» (giù, abbasso). Così veniva fatto l’appello.
Poi, in fila indiana, dovevano strisciare carponi. Quindi dovevano alzarsi e restare fermi in piedi nel cortile davanti alla baracca, al caldo dell’estate o al gelo dell’inverno. Quando faceva freddo questi poveri uomini si appallottolavano tra di loro, formando, come le vespe, una palla, un fornello. Chi era all’interno della «palla» si riscaldava mentre il resto della «palla», con un movimento continuo, spostava quelli che stavano al centro verso l’esterno e viceversa.
Nel gennaio 1945 arrivò un nuovo gruppo di ufficiali sovietici. Avevano tentato la fuga ed erano stati condannati al trattamento Kugel.
I componenti di questo gruppo capirono perfettamente a che cosa andavano incontro e decisero di fare una cosa coraggiosissima per chi è chiuso in un inferno simile: scegliere essi stessi come morire. Non lasciare i nazisti padroni del loro destino. Decisero quindi di tentare la fuga, ben sapendo che anche solo il tentativo di scappare li avrebbe portati a una morte immediata.
Scavarono con le mani il terreno attorno alla baracca, si procurarono delle pietre, presero due estintori e una notte, in cinquecento, provarono a fuggire. Fecero saltare la corrente ad alta tensione che percorreva il filo spinato sulla sommità del muro di cinta gettandovi sopra coperte bagnate. Aggredirono i militari di guardia sulla prima torretta con delle tavole. E si misero a correre. Lasciarono sul terreno innevato una scia ininterrotta di morti e di sangue.
In pochi riuscirono ad allontanarsi dal campo. E per quei pochi si scatenò subito una caccia all’uomo alla quale parteciparono tutti i soldati delle SS e tutti i civili della zona: alcuni erano volontari, altri costretti a collaborare. La caccia all’uomo finì dopo molti giorni con l’annientamento di quasi tutti i cinquecento ufficiali sovietici che avevano tentato questa loro ultima spaventosa avventura. Spaventosa, ma forse non folle come potrebbe apparire. Undici di questi ufficiali riuscirono a sopravvivere. Liberi. Famiglie di contadini austriaci, come si seppe poi, li avevano ospitati e tenuti nascosti. E tanto basta per continuare a credere nell’uomo.

Corriere della Sera 18.1.12
Museo di Auschwitz senza l'Italia, padiglione chiuso
di Frediano Sessi


Gli italiani che quest'anno, in occasione della Giornata della Memoria, si recheranno a Oswiecim per una visita a quello che fu il complesso concentrazionario di Auschwitz, troveranno una spiacevole sorpresa: dal luglio scorso il padiglione italiano (Blocco 21) che ricorda il dramma della deportazione dall'Italia, per decisione unilaterale della direzione del museo è stato chiuso al pubblico.
Il memoriale, pensato alla fine degli anni 60 come sintesi di arte e storia, già entro l'ottobre dello scorso anno avrebbe dovuto essere smontato e sostituito. In caso contrario, in mancanza di un nuovo progetto che prestasse più attenzione alla storia e alla didattica della memoria, lo spazio destinato all'Italia sarebbe stato concesso ad altri Paesi che da tempo, esclusi dalle mostre nazionali dei singoli memoriali, attendono uno spazio libero.
La storia del Blocco 21 è nota: nel 1971, l'Aned (associazione nazionale ex deportati) ottiene il consenso dalle autorità polacche per predisporre un memoriale sulla deportazione degli italiani. Nel 1975 lo studio Bbpr di Milano (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers) presenta il primo progetto. La difficoltà nella raccolta dei fondi porterà alla realizzazione dell'opera solo nel 1980, e il 13 aprile il memoriale sarà inaugurato. Belgiojoso spiegava così l'istallazione: «Ci siamo sforzati di ricreare allusivamente un'atmosfera di incubo, l'incubo del deportato straziato tra la quasi certezza della morte e la tenue speranza della sopravvivenza, mediante un percorso che passa all'interno di una serie infinita di spire di una grande fascia elicoidale illustrata, che accompagna il visitatore dall'inizio alla fine. È l'idea di uno spazio unitario ossessivo». Primo Levi, chiamato a redigere il testo, faceva parte del comitato esecutivo che decise la natura del memoriale, più artistico che informativo. La grande spirale immaginata da Belgiojoso fu poi illustrata da Mario Samonà, mentre il compositore Luigi Nono concesse l'uso del brano musicale «Ricorda che cosa ti hanno fatto ad Auschwitz»; il tutto con l'obiettivo, dichiarato alla direzione del Museo, che il padiglione italiano «fosse un luogo dove la fantasia ed i sentimenti di ognuno, più delle immagini e dei testi, rendessero l'atmosfera di una grande e indimenticabile tragedia» (dichiarazione di Primo Levi e Gianfranco Maris).
Dopo il 1989 molti dei padiglioni memoriali presenti ad Auschwitz sono stati rinnovati, in concomitanza con la revisione complessiva del sito. Francia, Olanda, Belgio, Ungheria hanno riscritto la storia della loro deportazione, più in linea con le nuove acquisizioni della ricerca e delle forme della memoria nazionali. Anche in Italia, dopo che il governo italiano ha approvato un finanziamento di 900 mila euro per il restauro del «Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio», a partire dai primi mesi del 2008 alcuni storici (tra i quali Giovanni De Luna e Michele Sarfatti) si sono chiesti se al posto dell'allestimento originario, artistico, non ne fosse necessario uno nuovo. La spirale di Belgiojoso racconta infatti l'occupazione delle fabbriche, l'Ordine Nuovo, Gramsci, l'antifascismo, in un discorso considerato difficile e arduo da capire anche sul piano storico. L'Aned per parte sua ha difeso il memoriale, sostenendo che un'opera d'arte parla un linguaggio universale e sempre comprensibile, come era nell'intento di chi progettò l'istallazione del Blocco 21.
Intanto le autorità polacche avevano preso contatto con il governo Berlusconi (Gianni Letta fungeva da mediatore), ma ora la realtà e davanti agli occhi di tutti. Il padiglione è chiuso, il memoriale degli italiani «censurato» e si spera che, anche a partire dal dibattito che si è aperto di recente sulle forme della memoria e sui modi di trasmetterla, il governo possa intervenire a fianco dell'Aned per consentire la riapertura al pubblico del Blocco 21, in attesa che un nuovo progetto (di restauro o di revisione dell'attuale) sia realizzato.

La Stampa TuttoScienze 18.1.12
Antropologia. La lezione di Tattersall al Festival delle Scienze di Roma:
L’appuntamento è per sabato prossimo
Come siamo diventati umani
Un giorno di 77 mila anni fa, in Sud Africa, inventammo i simboli
Un pensiero giovane in un corpo antico
Quale fu lo stimolo culturale che scatenò le nostre capacità? Il candidato più plausibile è l’invenzione del linguaggio
di Ian Tattersall


IL PARADOSSO I primi Sapiens di 200 mila anni fa non erano come noi

IAN TATTERSALL AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY
E’ CURATORE ALL’AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY IL SITO: WWW.AMNH.ORG/SCIENCE/ DIVISIONS/ANTHRO/BIO.PHP?SCIENTIST= TATTERSALL

Gli esseri umani sono inconsueti tra gli organismi e non solo per numerose caratteristiche anatomiche, che hanno a che fare con la locomozione bipede, ma anche per i modi in cui il loro grande cervello elabora le informazioni.
Le altre specie, infatti, vivono nel mondo seguendo la Natura e rispondendo in modo più o meno complesso o sofisticato agli stimoli sensoriali. Al contrario, gli esemplari moderni della nostra specie Homo sapiens decifrano i segnali da tutti gli ambienti, interni ed esterni, e li trasformano in vocabolari di simboli. Questi, poi, possono essere mescolati per produrre una varietà infinita di affermazioni non solo sul mondo così com’è, ma anche su come potrebbe essere. Il risultato, in un senso molto concreto, è che noi umani viviamo soprattutto in mondi che ci costruiamo individualmente. Questa esclusiva propensione umana è inseparabile dalla nostra creatività. E poiché - com’è ovvio - è costruita sulle fondamenta di una storia evolutiva molto antica, è interessante indagare quando, in questa vicenda, una simile caratteristica sia emersa, e come.
L’antenato comune
La stirpe umana ha cominciato a differenziarsi dall’antenato che ci accomuna con gli scimpanzè e con i bonobo all’incirca 7 milioni di anni fa e le testimonianze fossili che documentano le numerose fasi dell’evoluzione umana sono oggi piuttosto vaste. I primi ominidi (i generi Sahelanthropus, Orrorin e Ardipithecus) erano notevolmente diversi tra loro, dimostrando che fin dagli inizi la storia della famiglia degli ominidi è stata segnata dalla sperimentazione evolutiva piuttosto che da un miglioramento lineare. Questo modello di differenziazione è evidente anche nelle successive manifestazioni del gruppo Australopithecus-Paranthropus (i famosi australopitechi), nel periodo compreso tra 4,2 e 1,5 milioni di anni fa.
Anche se gli australopitechi potevano camminare eretti e possedevano numerosi adattamenti della parte inferiore dello scheletro per condurre un’esistenza almeno in parte terrestre, combinavano volti di grandi dimensioni con piccole scatole craniche. E nemmeno gli esemplari più tardi dovevano essere dotati di facoltà cerebrali significativamente superiori rispetto a quelle delle grandi scimmie attuali. Inoltre, sebbene abbiano avuto abitudini dietetiche più generaliste, non c’è motivo di credere che, almeno nelle fasi iniziali, gli australopitechi fossero cognitivamente più sofisticati degli scimpanzé di oggi, i quali, benché in grado di decifrare i simboli, non sono però in grado di rielaborarli come fanno gli esseri umani.
E’ ormai provato che gli ominidi usavano pietre taglienti per macellare le carcasse di animali già 3,4 milioni di anni fa. Questo comportamento implica capacità cognitive superiori a quelle di qualunque scimmia moderna, ma, sebbene le prove di una produzione intenzionale di strumenti di pietra risalga già a circa 2,5 milioni di anni fa, è difficile trovare delle prove che queste prime creature avessero la capacità mentale di «ricreare» il mondo. E, infatti, le tecniche di scheggiatura della pietra possono essere acquisite semplicemente attraverso l’imitazione e si può suppore che nessuna forma nota di tecnologia del Paleolitico rappresenti una testimonianza dei moderni processi del pensiero simbolico.
L’apparizione - 1,78 milioni di anni fa - di asce a mano, deliberatamente intagliate a forma di goccia, rivela l’emergere di un progresso cognitivo, ma questa innovazione sembra essersi verificata nell’ambito di una specie fisicamente avanzata, l’Homo ergaster (il primo vero bipede), e non è dimostrabile che abbia richiesto anche la presenza di processi mentali di tipo simbolico. Questo vale anche per l’invenzione successiva delle tecniche di lavorazione della pietra e per la realizzazione di strumenti complessi e anche per la scoperta del fuoco come fonte di calore e per la costruzione di rifugi: tutti comportamenti, questi, apparsi durante l’era dell’Homo heidelbergensis, una specie dal cervello non troppo grande e assai diffusa nel Vecchio Mondo, in un periodo tra 600 mila e 200 mila anni fa.
Reperti significativi Con la comparsa dell’Homo neanderthalensis, poi, circa 200 mila anni fa, siamo di fronte a una specie di ominidi che non soltanto possedeva un cervello grande quanto quello degli umani moderni, ma che ha lasciato reperti archeologici significativi. Eppure, per quanto importanti siano queste testimonianze, non contengono nulla che possa indiscutibilmente essere interpretato come un artefatto di tipo simbolico. "Una propensione esclusiva che si rivela inseparabile dalla nostra creatività"
Lo stesso si può dire per i primi fossili di Homo sapiens, provenienti da siti etiopi datati tra 195 e 160 mila anni fa. Il Sapiens è anatomicamente diverso da tutti gli altri ominidi e a tutt’oggi mancano nei reperti fossili esempi antecedenti morfologicamente simili. Questa realtà suggerisce che l’anatomia moderna sia nata da un cambiamento rapido nella regolazione dei geni, con effetti a cascata sullo sviluppo dell’organismo.
E’ solo dopo decine di migliaia di anni da questo evento biologico altamente significativo che cominciamo a individuare le testimonianze di un radicale cambiamento cognitivo, nel mesolitico africano. Il più antico artefatto generalmente accettato come simbolico è una superficie di pietra levigata, che porta inciso un motivo geometrico e che proveniene da uno strato risalente a 77 mila anni fa nella grotta di Blombos in Sud Africa. All’incirca appartenenti allo stesso periodo, sempre a Blombos, sono stati trovati gusci di lumaca marina forati per essere infilati in serie, mentre piccoli oggetti simili sono emersi anche nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Nelle società umane etnicamente documentate l’ornamento del corpo ha quasi invariabilmente significati simbolici (di status, classe d’età e così via) e lo stesso è stato dedotto, anche se indirettamente, per i ritrovamenti del Paleolitico.
Dal complesso di grotte nella zona di Pinnacle Point, poi, nello stesso periodo, arriva la prova del «trattamento termico» della creta silicea. Questo complesso processo di trasformazione di un materiale inerte grezzo per creare utensili richiede una sofisticata serie di fasi di lavorazione che, quasi certamente, implica una pianificazione di tipo simbolico. Altre testimonianze suggeriscono che ulteriori trasformazioni del comportamento si svilupparono nel mesolitico, a partire da 100 mila anni fa e prima che si verificassero nell’Europa occupata dai Neanderthal: ma la prima e definitiva prova della fioritura della moderna creatività umana proviene proprio dall’Europa, in seguito all’invasione del continente da parte dell’Homo sapiens, noto anche come CroMagnon, poco più di 40 mila anni fa.
Nessuno, osservando con attenzione l’arte portatile e quella parietale del Paleolitico superiore, può ragionevolmente dubitare che fosse il prodotto di una vera e propria sensibilità moderna. Ma queste manifestazioni dello spirito moderno sono in ritardo rispetto all’arrivo della specie Homo sapiens anatomicamente riconoscibile. Qual è, allora, il motivo di questo significativo scarto temporale tra il manifestarsi della nuova anatomia e l’emergere dei comportamenti simbolici? Lo scenario più semplice è che le basi neurali del pensiero moderno (che, come dimostra l’esempio di Neanderthal, non erano solo le conseguenze passive dell’aumento delle dimensioni del cervello) sono nate dall’evento che ha dato origine all’anatomia caratteristica dell’Homo sapiens. Questo potenziale, tuttavia, non fu sfrutttato finché non venne sollecitato da uno stimolo culturale. Non si sa con certezza quale sia stato, ma il candidato più plausibile è l’invenzione del linguaggio. E’ questo, sotto molti punti di vista, il massimo dell’attività simbolica umana ed è documentato che il linguaggio strutturato può essere inventato in modo spontaneo da gruppi umani dotati di un’«attrezzatura cognitiva» di base.
Se lo scenario è corretto, ciò significa che lo spirito creativo e simbolico dell’umano è emerso solo di recente e in un contesto estemporaneo piuttosto che adattativo. Per di più, è apparso in una popolazione (di Homo sapiens) che già possedeva un tratto vocale in grado di produrre i suoni necessari per esprimersi tramite un discorso articolato.
Dato che gli immediati precursori dell’Homo sapiens dovevano essere già cognitivamente sofisticati, è probabile che possedessero qualche forma espressiva simile alla capacità discorsiva. Come abbiamo visto, in linea di principio, non c’è niente di insolito in questo processo: dopo tutto, ogni grande innovazione comportamentale nell’evoluzione degli ominidi sembra essersi verificata all’interno di una popolazione già preesistente. Per quanto radicali possano essere, mutamenti come i processi simbolici dell’uomo moderno sono il prodotto di processi evolutivi routinari.
Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 18..12
Il Festival delle Scienze
Il cosmologo J. Richard Gott spiega uno dei grandi misteri della fisica
Se Einstein ci insegna a viaggiare nel tempo
Proprio grazie alla teoria della relatività speciale le avventure immaginate da H.G. Wells nei suoi romanzi non sono solo delle fantasie
di J. Richard Gott


Quando nel 1895 H.G.Wells scrisse La macchina del tempo, le leggi della fisica sostenevano che viaggiare nel tempo fosse impossibile. Il romanzo di Wells fu visionario nel trattare il tempo come una dimensione dieci anni prima che Minkowski usasse questo concetto nell´interpretazione della teoria della relatività speciale di Einstein. A volte la fantascienza anticipa la scienza vera e propria.
Nel 1905 Einstein mostrò come nella sua teoria della relatività speciale il viaggio nel futuro fosse invece possibile. Lo scienziato basò la propria teoria su due postulati: 1. il moto è relativo e 2. la velocità della luce (300000 km al secondo) è costante.
Dopodiché, Einstein dimostrò i teoremi basati su questi due postulati. Un teorema sostiene che non possiamo costruire un razzo che vada più veloce della luce: se il razzo su cui ci troviamo stesse viaggiando a una velocità maggiore di quella della luce, potremmo sparare un laser verso la punta del razzo e il fascio non la colpirebbe mai. La punta del razzo infatti si muove più veloce ed è partita prima: una volta che ci accorgessimo del fatto che il fascio laser non la raggiunge scopriremmo di starci muovendo, e questo non è permesso dal primo postulato.
Einstein immaginò il seguente esperimento mentale: costruiamo un orologio in cui un raggio di luce rimbalza su e giù tra due specchi orizzontali. Immaginiamo che un astronauta passi in volo accanto alla Terra a una velocità prossima a quella della luce, muovendosi da sinistra verso destra e con in mano un orologio del genere. Mentre si muove, noi sulla Terra vedremmo che i raggi luminosi dell´orologio dell´astronauta si muovono lungo percorsi diagonali tra i due specchi. Vedremmo che l´orologio ticchetta più lentamente rispetto al nostro – sulla Terra – perché questi percorsi diagonali sarebbero più lunghi rispetto a quelli che la luce compie nel nostro orologio. Allo stesso tempo, noteremmo che l´astronauta invecchia più lentamente rispetto a noi; in caso contrario, il suo invecchiamento non concorderebbe con il proprio orologio e l´astronauta potrebbe accorgersi di essere in uno stato di moto, cosa non permessa dal primo postulato.
Ecco come Einstein mostrò che gli orologi in moto ticchettano lentamente. Noi crediamo alla teoria di Einstein perché molti dei teoremi che ha dimostrato a partire dai suoi postulati sono stati messi alla prova e hanno dimostrato di essere veri. Uno di questi è la famosa equazione (Energia uguale alla massa per il quadrato della velocità della luce), che è stata dimostrata dalla bomba atomica. Einstein ci ha dipinto un mondo strano in cui orologi in moto uno rispetto all´altro non concordano, ma sembra proprio che sia il mondo in cui viviamo, perché tutti i test sperimentali della teoria di Einstein hanno dato i risultati previsti. Orologi atomici in viaggio su aeroplani che volano da est verso ovest intorno alla Terra (così che la velocità dell´aereo si sommi a quella di rotazione terrestre) sono in ritardo di 59 miliardesimi di secondo, proprio come ci si aspettava dalle previsioni di Einstein. Il più grande viaggiatore nel tempo, a oggi, è Sergei Krikalev che, grazie alle sue sei missioni orbitali ad alta velocità, è invecchiato di un quarantottesimo di secondo in meno di quanto avrebbe fatto se fosse rimasto a casa. Di conseguenza, quando ritornò sulla Terra, scoprì che la Terra si trovava di un quarantottesimo di secondo nel futuro rispetto a quanto lui avrebbe potuto aspettarsi: aveva viaggiato nel futuro di un quarantottesimo di secondo. Più velocemente andiamo, più avanti viaggiamo nel tempo. Se partiamo oggi, andiamo fino alla stella Betelgeuse, che si trova a una distanza di 500 anni luce, e torniamo indietro a una velocità pari al 99,995% di quella della luce, arriveremo sulla Terra nel 3012 e saremo invecchiati soltanto di 10 anni. Sappiamo che un simile viaggio nel futuro è possibile: i muoni dei raggi cosmici che si muovono a velocità prossime a quella della luce decadono più lentamente di quelli in laboratorio.
E che dire del viaggio nel passato? Teoricamente, se potessimo muoverci più velocemente della luce, potremmo viaggiare nel passato; Einstein, tuttavia, ha dimostrato che non possiamo costruire un razzo che viaggi più velocemente della luce. Nonostante ciò, nella sua teoria della relatività generale del 1915 Einstein dimostrò anche che la gravità può essere spiegata dagli effetti dello spaziotempo curvo. Ed ecco il trucco: possiamo superare un raggio di luce viaggiando lungo una scorciatoia nello spaziotempo curvo. Soluzioni delle equazioni di Einstein della relatività generale per stringhe cosmiche e wormholes presentano simili scorciatoie e sono abbastanza convolute da permettere di viaggiare indietro nel tempo e visitare il passato. Il viaggiatore temporale viaggia sempre, localmente, in direzione del futuro, eppure torna indietro a un evento del proprio passato; proprio nello stesso modo in cui l´equipaggio di Magellano circumnavigò il globo, viaggiando sempre verso ovest ma ritornando, alla fine, al punto di partenza in Europa. Una cosa del genere non potrebbe mai succedere su una superficie piatta. Costruendo un loop temporale nello spaziotempo curvo possiamo costruire una macchina del tempo per visitare il passato; non potremmo mai però usare questa macchina del tempo per visitare un passato precedente alla creazione della macchina stessa. Se creiamo un loop temporale nell´anno 3000, possiamo usarlo nel 3002 per tornare indietro al 3001, ma non possiamo tornare al 2012 perché questo anno è precedente all´esistenza del loop.
Un simile loop temporale esistito all´inizio del nostro universo potrebbe far sì che l´universo fosse la madre di se stesso. Per comprendere se sia possibile costruire simili macchine del tempo per visitare il passato potremmo aver bisogno di conoscere le leggi della gravità quantistica, ossia come la gravità si comporta su scale molto piccole: ecco una delle ragioni per cui questo argomento è così interessante per i fisici.
Traduzione di Eva Filoramo

La Stampa TuttoScienze 18.1.12
Un’occasione chiamata grafene
Il foglio a due dimensioni che rivoluzionerà il mondo
di Andrea Ferrari e Nicola Pugno


Università di Cambridge e Torino
IL PRIMO È PROFESSORE DI NANOTECNOLOGIE ALLA UNIVERSITY OF CAMBRIDGE E IL SECONDO È PROFESSORE DI MECCANICA STRUTTURALE AL POLITECNICO DI TORINO

Inizio 2012 molto promettente per André Geim and Kostya Novoselov, nominati cavalieri dalla regina Elisabetta: i due scienziati, nati in Russia, ma diventati cittadini inglesi, potranno esibire il titolo di «Sir». Ma questa non è certo la loro prima onorificenza. Hanno ricevuto innumerevoli riconoscimenti per i loro pionieristici studi sul grafene: dalla nomina a cavaliere comandante dell'Ordine del Leone dei Paesi Bassi alla fellowship della Royal Society, fino al Nobel per la Fisica nel 2010.
Ma è proprio il titolo di «Sir» - ha dichiarato Novoselov - a testimoniare come il grafene passi da ricerca accademica a oggetto di interesse strategico per lo Stato. E ancora una volta l’Europa dimostra di poter essere la capofila. L’Italia, in particolare, ha un ruolo di primo piano nel progettopilota della Commissione Europea che ha come obiettivo di preparare una «flagship» sul grafene, vale a dire un’iniziativa ambiziosa e visionaria, della durata di 10 anni con un investimento di un miliardo di euro: se approvata dalla Ue, sarà un volano di innovazione e sviluppo.
Merito del grafene, il materiale più stupefacente e versatile oggi disponibile. Costituito da un singolo foglio di atomi di carbonio, disposti a forma esagonale, possiede proprietà eccezionali, capaci di rivoluzionare i settori più diversi, dai computer alle auto all’idrogeno, dal fotovoltaico fino ai jet. Oltre a essere puramente bidimensionale (proprietà che lo rende ideale per applicazioni sensoristiche), è in grado di trasformare la luce solare in elettroni a ogni frequenza (perfetto per il fotovoltaico), ha elevate conducibilità termica ed elettrica, è trasparente ma impermeabile e detiene il record di resistenza meccanica (100 volte l’acciaio) e di elasticità (cinque volte l’acciaio). Il grafene, poi, conduce gli elettroni più velocemente del silicio ed è un conduttore trasparente, con una combinazione eccezionale di proprietà ottiche ed elettriche.
Potenzialmente, quindi, può dare inizio a una nuova rivoluzione sostenibile, basata sul carbonio, con un impatto profondo nell’informatica e nelle comunicazioni e in vari aspetti della quotidianità. Dalle sue proprietà possono nascere prodotti elettronici trasparenti e flessibili, dispositivi per l’informatica, biosensori, supercapacitori per sostituire le batterie convenzionali, materiali compositi ultraleggeri per auto e jet.
Usa, Giappone, Corea e Singapore stanno investendo enormi risorse nello studio del grafene e delle sue applicazioni. Ma all’origine delle ricerche ci sono vari gruppi di ricerca europei. E ora è quindi essenziale che il Vecchio Continente resti all’avanguardia nel settore e non perda i vantaggi che possono scaturirne. Ecco perché è necessario un approccio coordinato: la «flagship» sul grafene ha lo scopo di creare una rete multidisciplinare, che agisca da incubatore per nuove applicazioni, assicurando alle industrie europee un ruolo di primo piano nell’evoluzione tecnologica dei prossimi 10 anni. La fase pilota dell’iniziativa coinvolge oltre 500 gruppi di ricerca, che rappresentano 150 partner accademici e industriali di 21 nazioni europee. A coordinarla è un consorzio di nove partner: le università di Chalmers in Svezia e di Cambridge, Manchester, Lancaster in Gran Bretagna, oltre all’Istituto Catalano di Nanotecnologia in Spagna, il Consiglio Nazionale delle Ricerche in Italia, la Fondazione Europea della Scienza, la società AMO GmbH tedesca e la multinazionale finlandese Nokia.
Quanto al comitato scientifico dell’iniziativa, include quattro Nobel: oltre a Geim e Novoselov, Albert Fert e Klaus von Klitzing, e atri nomi di spicco come Luigi Colombo, Byung Hee Hong e Paco Guinea.
Il ruolo del nostro Paese è sottolineato dal fatto che due dei proponenti dell’iniziativa sono italiani, Vincenzo Palermo del Cnr di Bologna e uno degli autori di questo articolo, Andrea Ferrari dell’Università di Cambridge, in qualità di responsabile della «roadmap scientifica» e delle collaborazioni internazionali. A essere coinvolte ci saranno diverse università e centri di ricerca, tra cui spiccano, oltre al Cnr, l’Istituto Italiano di Tecnologia e il Politecnico di Torino, insieme con varie aziende.
Ora, quindi, l’universo del grafene si trova a un bivio tra ricerca fondamentale e le sue applicazioni e il suo potenziale è enorme. Utilizzando dispositivi a basso costo, display flessibili e touch screen basati proprio sul grafene integrato nella plastica, avremo la possibilità di includere dati e informazioni in ogni oggetto oggi incompatibile con la tecnologia a base di silicio. E’ quindi essenziale che non si perda un’occasione unica per investire in una tecnologia che è stata tenuta a battesimo in Europa.

il Riformista 18.1.12
Giordano Bruno bacchettato a Oxford
Esoterico. Pubblicato il secondo volume de ”La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto”, da cui il filosofo nolano si ispirò per dimostrare la teoria eliocentrica
di Errico Buonanno


Il secondo volume de La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, appena uscito per la Fondazione Lorenzo Valla e Mondadori, è un libro prezioso di cui vale la pena di conoscere la storia. Completa in maniera impeccabile la più curata delle edizioni di un complesso di scritti, il Corpus Hermeticum, che, come pochi, riuscirono letteralmente a cambiare le sorti del mondo; e, ancora più curiosamente, lo fecero per una serie di eventi fortuiti, incidenti, malintesi, così come, d’altra parte, succede spesso per le grandi svolte.
Quando nel 1463 Leonardo da Pistoia tornò a Firenze con delle opere provenienti dall’Egitto, in molti restarono stupiti: dei testi mistici attribuiti al mitico Ermete Trismegisto, profeta contemporaneo di Mosè se non persino più antico. La sua era una saggezza che aveva attraversato le epoche in forma segreta e per questo incorrotta fin dagli albori dell’umanità. Ermete era in grado di anticipare tutte le vette più alte del pensiero a lui successivo: la filosofia greca, il platonismo, e addirittura il cristianesimo. Bene. Tutta questa “preveggenza” altro non era che il frutto banale di un errore di datazione storica: gli scritti non erano più antichi del II e III secolo, successivi perciò a tutto ciò che “anticipavano”. Eppure fu questa confusione a rendere il Corpus Hermeticum un testo straordinariamente affascinante. Cosimo de’ Medici ordinò a Ficino di eseguire una traduzione lampo, la cui fortuna fu inaudita. L’immagine dell’universo come organismo vivente, il senso di un significato nascosto dietro l’apparenza del mondo furono gli elementi base di quella magia naturale a cui si dedicarono Pico della Mirandola e Cornelio Agrippa. Ma soprattutto il culto del Sole proposto da Ermete avrebbe ispirato utopie sociali come quella di Tommaso Campanella ed intuizioni fulminanti.
Come anni fa raccontò Frances Yates, non fu ben chiara l’avversione di Giordano Bruno nei confronti dei «pedanti» professori di Oxford (contro cui se la prendeva nella sua Cena delle ceneri) finché non venne rinvenuto lo scritto di uno di essi, Abbot. Quest’ultimo aveva assistito al ciclo di conferenze sulla teoria copernicana tenuto dallo stesso Bruno nella storica università inglese nel 1583, e ne aveva rivelato un incidente piuttosto increscioso. «Quando quell’omicciattolo italiano, che si autodefiniva magis elaborata Theologiae Doctor ecc... visitò la nostra università, non stava nei panni per il desiderio di divenire famoso. Quando ebbe occupato il posto più alto della nostra più famosa scuola, rimboccandosi le maniche come un giocoliere e facendoci un gran parlare di chenturm & chirculus & circumferenchia (tale è infatti la pronuncia del suo paese), egli intraprese il tentativo di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre, in verità, era piuttosto la sua testa che girava». Fin qui Abbot si limita, senza troppo gusto, a criticare la teoria eliocentrica e a prendere in giro l’italianità di Bruno. Ma il peggio, per il nolano, doveva ancora arrivare: «Un uomo grave, che occupava una posizione eminente in quella università, ebbe l’impressione di aver letto da qualche parte quelle stesse cose che il dottore stava esponendoci. Recatosi nel suo studio, trovò che sia la prima sia la seconda lettura erano state tratte, quasi parola per parola, dalle opere di Marsilius Ficinus». Colto in fallo, Giordano Bruno venne invitato dagli inglesi a prendere subito armi e bagagli e a porre fine al ciclo delle conferenze.
Senza alcun dubbio una figura barbina, ma non è questo che può interessarci, perché, senza rendersene conto, il professor Abbot ci sta fornendo un’indicazione preziosissima. Bruno stava sì difendendo la teoria copernicana, ma con qualche decennio d’anticipo rispetto al metodo empirico non lo stava facendo (e non avrebbe potuto farlo) con le armi della razionalità. Il filosofo difendeva Copernico ripetendo «quasi parola per parola» un’opera di Marsilio Ficino, il De vita coelitus comparanda. Un testo magico, un testo esoterico. Un testo impostato sul culto di un Sole come centro mistico dell’universo preso di peso dal Corpus Hermeticum. Ovvero: una verità scientifica, compresa attraverso la passione di un testo frutto di un malinteso storico. La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto è l’ennesima dimostrazione di come non ci sia nulla di meno razionale e più accidentale del progresso del mondo, e di come il Sole della verità sia spesso nascosto dietro le nebbie dell’equivoco.

Repubblica 18.1.12
Il Dna degli italiani
"Dalla retorica al servilismo combattiamo i nostri difetti"
Il nuovo libro del giurista Franco Cordero raccoglie i suoi interventi sui costumi del Paese Un racconto degli anni del Cavaliere che si mescola a quello dei caratteri nazionali
“C’è un ambiente sociale dominato da certe costanti che non favoriscono lo sviluppo migliore"
di Simonetta Fiori


Dopo l´agenzia di rating, anche Franco Cordero ci declassa d´uno scalino, anzi d´un soldo. Ma il riferimento è a Bertolt Brecht, non ai parametri dell´economia mondiale. E il paese squalificato non è l´Italia di oggi ma la "Rutulia" di qualche mese fa, sguaiata e ridanciana, governata da un re di danari che è anche peggio di Mackie Messer. L´opera italiana da due soldi è il racconto in sessanta quadri degli ultimi tre anni di vita italiana, un regnabat Berlusco alla maniera inconfondibile di Cordero, tra citazioni bibliche – il Leviathan di Giobbe – incursioni storiche fin dentro la corte dei Borgia, una lingua duttile e pieghevole, all´altezza di ogni variazione discorsiva (Bollati Boringhieri, pagg. 308, euro 17). Un viaggio tra opera buffa e fondali neri di una terra gaglioffa e istupidita, dove non vigono più logica, etica ed estetica ma affarismo allo stato selvatico e un cinico "ateismo clericocratico". «Ne siamo usciti? Non mi illuderei troppo», dice il professore mentre ci introduce nel suo elegante studio-biblioteca del quartiere Monti, nel centro di Roma, pieno zeppo di cinquecentine e testi rari, sistemati sugli scaffali in doppia fila perché non c´è spazio sufficiente. Il ritorno del Caimano – fu sua l´idea del rettile, poi adottata da Nanni Moretti – è ritenuta ipotesi verosimile da questo illustre giurista piemontese, nato 83 anni fa a Cuneo, maestro nel campo della procedura penale, autore non solo di testi giuridici ma anche di saggi storici, romanzi e pamphlet, da dieci anni commentatore di Repubblica (i cui articoli costituiscono l´ossatura del nuovo libro). «Probabilmente bisogna aspettare la fine di questa legislatura per assistere nuovamente al suo populismo forsennato».
Nelle sue pagine non spira grande fiducia nel carattere degli italiani. Lei insiste su un "codice genetico" vocato all´asservimento. Un destino ineludibile?
«La definizione più attendibile è quella suggerita dal Leopardi nel suo feroce Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl´italiani. Diversamente da altri europei, abituati allo scambio intellettuale, i nostri connazionali vi sono rappresentati in una dimensione selvatica, tra rituali inutili e un costante esercizio della maldicenza. Ma curiosamente Leopardi tratta le cerimonie religiose, non il fattore cattolico e controriformista».
Che è invece molto presente nelle sue pagine. Quanto ha contato il suo allontanamento dalla Cattolica?
«A 32 anni fui chiamato da quella Università per la cattedra di Procedura Penale. La chiamata non implicava servitù dogmatiche».
Lei era di fede cattolica?
«Lo ero nella misura in cui lo sono gli italiani. A Cuneo, dagli 11 ai 17 anni, avevo frequentato l´oratorio dei gesuiti, prendendo sul serio l´affare religioso. Ma dovevo riuscire piuttosto sospetto agli strateghi locali: ero uno dei pochissimi a non essere ammesso alla Congregazione Mariana».
Perché?
«Qualcosa in me suscitava l´impressione di una diversità o, meglio, di una mancanza. Non avevo quella naturale predisposizione, tipicamente cattolica, a prendere le cose drammaticamente. E non ero sufficientemente malleabile. L´assenza di malleabilità rende sospetti».
Fu così anche alla Cattolica?
«Probabilmente non sarebbe capitato nulla se non avessi ricevuto l´incarico di Filosofia del Diritto. Certo non potevano pretendere che insegnassi il diritto naturale secondo la visione cattolica. E lì nacque il dissidio. Il vescovo mi contestò l´uso pericoloso di fonti eterodosse. Gli risposi con Lettera a monsignore, che fu un piccolo bestseller. Il mio sospetto era che si trattasse di triviale contesa accademica mascherata sotto finzioni teologali».
Cosa glielo fece credere?
«Dopo sarei stato chiamato dall´Università di Torino e poi dalla Sapienza di Roma. La facoltà romana di Giurisprudenza non era un covo di bolscevichi, per farmi fuori sarebbe bastato solo un cenno da parte del monsignore. Insomma, non ci furono veti».
Che cosa le è rimasto di quell´esperienza?
«Incise profondamente sulla mia vita. Non avrei scritto quasi nulla di quello che poi ho scritto, oltre la produzione giuridica. E sarei una persona diversa da quella che, senza eccessive simpatie, ravviso in me. Diciamo che ho sperimentato alcuni degli aspetti consueti dell´ambiente italiano e cattolico».
Ancora il "carattere genetico". Ma questa letteratura anti-italiana, di cui lei è un insigne esponente, non rischia di essere un genere molto efficace sul piano retorico ma non altrettanto sul piano interpretativo?
«L´uso oratorio del linguaggio è un altro dei tratti tipici dell´italianità, che favorisce il fiorire di ogni tipo di retorica, tra cui anche quella anti-italiana».
Ma italiano è anche lei, professor Cordero. E italiano è anche l´attuale inquilino di Palazzo Chigi. Il nostro codice genetico non è solo cinismo e servitù.
«Ma la guerra mossa a certi caratteri dell´anima italiana non implica una condanna in blocco dei nati nella penisola. Se c´è una pianta d´uomo rigogliosa – ricorro alla formula di Alfieri – ricca di varietà individuali, questa è proprio l´italiano. Però l´ambiente sociale risulta dominato da certe costanti che non ne favoriscono lo sviluppo migliore».
Una costante è quella di equivocare serietà con mestizia. Di Monti si lamenta la tristezza, capo d´imputazione che pesò in passato su altri protagonisti.
«Il pubblico vuole cantori teatranti. Cavour risultava molto antipatico ai suoi coetanei perché estraneo alla retorica facile. Anche Giovanni Giolitti fu considerato figura odiosa per la sua scarsa facondia. Il discorso laconico, che è poi l´enunciazione di fatti, da noi è considerato atteggiamento respingente, grave difetto, segno inequivocabile di inferiorità. L´italiano è naturalmente retore, parolaio, arcade. Il Berlusconi barzellettiere e ipnotizzatore di folle è al grado zero di questa scala retorica».
Più illiberale di Mussolini, paranoico come Hitler, peggio di Mackie Messer. Le sue definizioni dell´ex premier non sono sospettabili di un eccesso di cautela.
«La mia prosa è dettata da una fredda analisi dei fatti. Quello di cui mi occupavo era un regime allo stato germinale, non compiuto. Gli italiani hanno corso un pericolo gravissimo, senza rendersene conto. Anche questo va ricondotto al nostro codice genetico: crediamo sempre di cavarcela».
È per questo che lei – giurista insigne, accademico riverito, autore di un Manuale di procedura penale arrivato alla diciottesima edizione – s´è occupato con sistematicità per dieci anni del Caimano?
«Civis sum. Se uno non mette becco sulle cose che riguardano l´interesse collettivo, si tratta di un´omissione ignava e cinica. Allora dobbiamo celebrare i finti equidistanti, artefici del pensiero a pendolo, una critica di qua e una di là, pur di non esporsi troppo».
Nel suo libro li definisce "predicatori governativi".
«Hanno responsabilità gravi. La principale è di aver accreditato Berlusconi come un politico "nuovo" e "liberale". Ma come era possibile definire in questo modo un monopolista cresciuto all´ombra del privilegio politico? Un esercizio tartufesco – quello di fingerlo ciò che non è – che temo possa riprendere con la ricomparsa del Leviathan».
Se dovesse dare una definizione dell´evo appena concluso?
«Quel che colpisce è la regressione intellettuale. Ricordo la finezza critica con cui i miei conterranei al caffè discutevano di qualsiasi argomento. Il piemontese è un dialetto molto fruibile nel discorso dialetticamente complesso, avendo un lessico e una sintassi molto duttili. Quelle conversazioni erano la vetrina di un´intelligenza nativa, che prescindeva dal grado di alfabetizzazione. Il berlusconismo è la negazione di tutto questo».
E ora che l´ex premier è uscito di scena?
«Mah, non mi sento privato del combustibile. Lo ritengo piuttosto una materia clinica di straordinario interesse. E temo, purtroppo, che ve ne sia ancora».

Repubblica 18.1.12
Addio a Gustav Leonhardt grande interprete di Bach


ROMA - È morto a Amsterdam il grande clavicembalista, organista e direttore d´orchestra olandese Gustav Leonhardt. Aveva 83 anni. Leonhardt fin dagli anni Cinquanta fu un pioniere del rilancio della musica barocca, in particolare di Johann Sebastian Bach. Maestro dell´interpretazione su strumenti antichi, nella sua carriera Leonhardt ha registrato quasi 300 album. Il suo nome viene associato alla registrazione integrale, fra il 1971 ed il 1990, di quasi 200 cantate sacre di Bach insieme con l´austriaco Nikolaus Harnoncourt. Il clavicembalista aveva anche indossato i panni di Bach al cinema, in "Cronache di Anna Magdalena Bach" (1967) di Daniele Huillet e Jean-Marie Straub.