venerdì 20 gennaio 2012

l’Unità 20.1.12
Capitalismo in crisi
Dal crollo del liberismo un’altra idea di libertà
Dopo la guerra il lavoro è stato la misura della crescita economica e sociale. Poi si è progressivamente imposto il tecno-nichilismo
di Mauro Magatti


La rivista online del Pd Tamtam democratico dedica il suo ultimo numero alle radici finanziarie, politiche e culturali della crisi che sta scuotendo l’economia mondiale. Pubblichiamo qui di seguito ampi estratti dall’articolo del sociologo Mauro Magatti.
C ome hanno scritto i due economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, ci troviamo nel mezzo di una grande contrazione, cioè all’interruzione di una fase di crescita che, mediante quelli che dal 2008 sono stati chiamati «eccessi» finanziari, ha sostenuto un’economia basata sul consumo a debito.
Scompaginati i delicati equilibri che sostenevano il circuito espansivo, qualunque strada si adotti, il deleveraging (cioè il percorso di riassorbimento del disordine finanziario) avrà bisogno di parecchi anni per essere completato. Questa considerazione getta ombre sul futuro dei paesi avanzati. Le speranze, coltivate nei primi mesi post-crisi, di una rapida ripresa si sono rivelate illusorie. (...)
Si può pensare che tutto ciò costituisca solo una iattura. Oppure, si può attraversare questo periodo, indubbiamente difficile e carico di rischi, in cui le risorse saranno più limitate, come un’occasione per smaltire le tossine sociali e culturali del tecno-nichilismo, in modo tale da creare, un po’ per volta, le condizioni per un nuovo modello di sviluppo. (...) I due corni del dilemma sono chiari: da un lato, c’è il fallimento di una libertà che ha immaginato di essere assoluta. Dall’altro, c’è l’impossibilità di tornare indietro, rimettendosi sotto l’ala di qualche sistema autoritario. Ma che cosa c'è in mezzo? (...)
Tutti i discorsi di questi anni sulla crisi suonano contraddittori. Alcuni insistono sulla ripresa dei consumi interni che è resa impossibile dall'indebitamento e dal generale clima di sfiducia e di instabilità. Altri parlano di competitività per sottolineare lo sforzo che occorre compiere per essere all’altezza dei competitor. Ma entrambi questi discorsi, sicuramente corretti, peccano dal lato della motivazione: perché dobbiamo essere competitivi? (...)
Gli effetti collaterali del capitalismo tecno-nichilista una montagna di debiti, lo svuotamento del senso, livelli di disuguaglianza crescenti, squilibri sociali, ambientali e istituzionali sempre più accentuati indicano che la crescita, per non implodere, dovrà essere capace di integrare dimensioni rimaste dissociate tra loro in questi decennio.
Ripensare la crescita comporta, prima di tutto, un nuovo atto di intelligenza: la democrazia e il mercato si misurano oggi con le conseguenze negative della spirale espansiva «potenza-volontà di potenza». Affannarsi a cercare di far ripartire questo circuito nel modo in cui ha funzionato negli ultimi decenni non porta da nessuna parte. Pertanto, crescere diversamente significa tentare di creare nuove condizioni in cui, partendo da una definizione antropologica meno unilaterale, impariamo a riconoscere che la volontà di potenza non si traduce solo in acquisizione quantitativa e che, per quanto prezioso e vero, tale movimento non esaurisce l’intera esperienza umana. (...)
Alla fine della Seconda guerra mondiale, il valore è stato riconosciuto nella ricostruzione e nella integrazione sociale, sbilanciandosi sul versante istituzionale e assegnando centralità al lavoro che diventava misura e strumento della crescita economica e sociale. A partire dagli anni 70, sono l’espansione e lo slegamento espressione dell’immaginario della libertà individualistica e adolescenziale a essere rivestiti di valore nell’ottica della scambiabilità e manipolabilità: nel quadro della fase della razionalizzazione planetaria e della mediatizzazione dell’esperienza, il consumo è diventato il criterio di riferimento del valore.
Oggi, al fine di immaginare una nuova stagione di crescita, le società occidentali sono chiamate a trovare una diversa soluzione alla questione del valore. Ciò ha a che fare con quella che E. Erikson chiama libertà generativa: una libertà cioè che, senza mortificare la tensione desiderante che ci contraddistingue come esseri umani segnando anche la spinta alla crescita, la riqualifichi rispetto al senso, al contesto, a una storia e ad altri.

Corriere della Sera 20.1.12
Il Pd vola nei sondaggi: ora è al 30% Ma cresce lo scontento dell'ala sinistra
I dati (falsati dall'astensionismo) e le critiche di Emiliano e Rossi

di Maria Teresa Meli

ROMA — Ci sono numeri che dicono più delle parole, come sanno bene al Pd. Il Partito democratico, che oggi e domani terrà la sua assemblea nazionale, continua a crescere nei sondaggi. È arrivato a quota 30 per cento. Ma quella cifra non può essere presa nel suo valore assoluto. Pesa, in tutte le rilevazioni, l'astensionismo crescente. Ci sono tanti, troppi intervistati che dichiarano di non voler andare a votare. E pesa anche un altro dato: il calo delle iscrizioni al Pd in alcune grandi città. A Torino si arriva a un meno 40 per cento, percentuali simili a Firenze, a Roma le tessere non sono scese ma non sono nemmeno aumentate. E in tutta Italia monta l'insoddisfazione del popolo della sinistra, che non è ancora del tutto convinto dell'operazione Monti.
In periferia il malumore si allarga anche ai gruppi dirigenti. Michele Emiliano ormai sfida apertamente il suo partito: «Sembrano come quegli astronauti che escono dalla navicella spaziale per aggiustarla e si perdono nello spazio». Il governatore della Toscana Enrico Rossi è un uomo d'apparato per cui non mollerà il Pd, però è molto critico: «O la sinistra ritrova la sua identità o sarà fagocitata dalla svolta tecnocratica. Monti rappresenta una politica economica di destra». Insomma, il Partito democratico rischia di perdere pezzi a sinistra. Dove, peraltro, sta prendendo piede un nuovo possibile movimento, che debutterà domenica prossima con Vendola, Luigi de Magistris, Emiliano, il leader della Fiom Landini. E all'appuntamento potrebbe affacciarsi anche Rita Borsellino. Bersani l'ha candidata come sindaco di Palermo, ma quel pezzo di Pd che è legato a filo doppio a Lombardo la osteggia.
Il gruppo dirigente del Pd non intende andare all'inseguimento della sinistra, però non vuole neanche abbandonare quel campo. È per questa ragione che, ieri, persino un fan sfegatato di Monti come Enrico Letta ha tenuto un convegno a porte chiuse con Alfredo Reichlin per capire che cosa si agita nella sinistra del fu Pci. Ed è sempre per questa stessa ragione che Bersani, oggi, nella sua relazione introduttiva cercherà di rassicurare elettori e militanti. Come? Rilanciando il ruolo del Pd come «pilastro delle riforme» per «ridare alla politica ciò che è della politica». Il segretario starà bene attento a non dare l'immagine di un partito immobile, al traino del governo e porrà l'accento su un parola, «solidarietà», cara al popolo della sinistra.
Ma il malumore che si avverte in periferia ha, inevitabilmente, anche delle ripercussioni nei gruppi dirigenti. Sempre più insofferenti nei confronti del Pdl. È il caso, per esempio, di Rosy Bindi. La presidente del Pd avrebbe voluto fare un intervento durissimo all'assemblea, dopo una trattativa interna vi ha rinunciato, ma il suo umore non è che sia cambiato troppo. La regia del parlamentino del Partito democratico prevede di mandare in onda un film senza colpi di scena. Tutti cercheranno di attutire dissensi e tensioni. E poiché non esiste un programma vero e proprio si sta puntando a evitare la presentazione di ordini del giorno che potrebbero rivelarsi insidiosi. Un esempio: la proposta presentata da Vassallo e Civati che prevede le primarie per la scelta dei parlamentari nel caso in cui si dovesse andare al voto con l'attuale sistema elettorale. È una proposta che potrebbe interessare i segretari regionali delle regioni rosse, stufi di dover regalare collegi ai dirigenti nazionali.

l’Unità 20.1.12
Presidio al Pantheon «Giornali a rischio il governo intervenga»


«Decine di testate e migliaia di posti di lavoro, questa è la posta in gioco. In queste ore decisive per la sorte dell'editoria finanziata pubblicamente serve la mobilitazione di tutti e uno sforzo comune per ottenere che il governo Monti trovi spiccioli per una boccata d'ossigeno al settore dell'editoria in attesa di una sua strutturale riforma». È l’appello del
comitato per la libertà di informazione che ha organizzato un presidio al Pantheon. Presenti i sindacati e i rappresentanti di varie testate tra cui l’Unità, Manifesto, Terra e Liberazione (l’editore ieri ha chiuso le password ai redattori che stavano realizzando il giornale on line).
Il presidente dell'Fnsi Roberto Natale ha denunciato: «Un numero crescente di testate sta morendo, dal noto caso di Liberazione a quelli di svariate testate locali. Il governo Monti non può limitarsi ad accettare le conseguenze delle decisioni del governo Berlusconi».

Corriere della Sera 20.1.12
Liberazione, guerra fra comunisti sulla chiusura del giornale


ROMA — È la storia che lo dice: quando a sinistra volano gli stracci, volano di brutto. Non fa eccezioni la vicenda che riguarda il quotidiano Liberazione. Dove da tempo fra la redazione e l'editore, cioè il partito della Rifondazione comunista, è in atto uno scontro all'arma bianca che ricorda quelli fra la Fiat e la Fiom piuttosto che una banale scaramuccia fra compagni. È accaduto che la società editrice, la Mrc srl, ha deciso prima di chiudere il giornale di carta. Poi, da qualche ora, anche la versione online.
La storia è questa. Liberazione è in crisi da un bel po'. Tredici giornalisti se ne sono già andati passando dall'uscita di servizio della cassa integrazione. Per gli altri 17 redattori e i 14 poligrafici ci sono invece i contratti di solidarietà. A metà dicembre, la sorpresa: arriva una raccomandata che non è un regalo di Natale. La società editrice disdetta unilateralmente gli accordi e sospende le pubblicazioni in attesa che la Regione metta tutti in Cassa integrazione a zero ore. Nel frattempo propone di andare avanti con il sito, dal quale si può scaricare una versione di due pagine in formato pdf di Liberazione, per non perdere il diritto ai contributi pubblici. Formazione del nuovo giornale: direttore, vicedirettore, un redattore e un poligrafico. Gli altri, a casa. Parte l'occupazione della redazione, ma l'azienda non si commuove. E siccome nemmeno gli occupanti cedono, prima si stacca la spina al giornale in pdf, poi al sito. Messaggio inequivocabile: ci vediamo in Regione, per la Cassa integrazione.
La ragione di questo piccolo grande dramma della sinistra è semplice: non ci sono più soldi. Il governo Monti non vuole riaprire i rubinetti dei fondi ai giornali di partito. Il taglio, per Liberazione, potrebbe significare dover rinunciare almeno a 2 milioni di euro (nel 2010 ha messo a bilancio 3,4 milioni): praticamente metà dei ricavi. Che il quotidiano di Rifondazione possa stare in piedi senza quei contributi, è pura immaginazione. I conti del 2010 parlano chiaro. Il fatturato delle vendite è stato di un milione 28 mila euro, che si traduce in una diffusione media di circa 4 mila copie. Fra il 2009 e il 2010, dice il sindacato, il giornale avrebbe perso 2.400 copie e gran parte della poca pubblicità. Risultato che l'azienda addebita alla crisi generale e che il comitato di redazione (cdr) sembra addebitare anche alla gestione del quotidiano. Basta rileggersi il comunicato dello stesso cdr del 5 agosto 2010, dopo che già si era consumato uno sciopero di due giorni. Un pugno nello stomaco del direttore Dino Greco, autore di un editoriale in risposta all'agitazione che il sindacato non definì «un inusitato attacco alle prerogative sindacali e alle funzioni del comitato di redazione».
Da allora è andata sempre peggio. Si è arrivati, martedì scorso, a svelare un sospetto. Che «all'azzeramento del quotidiano e della redazione tutta, giornalisti e poligrafici», ha affermato il cdr in una nota velenosa, corrisponda «il tentativo di usare il denaro dei cittadini in modo improprio e scorretto». Che può significare? Forse liberarsi degli stipendi da pagare trovando il modo di incassare ugualmente i contributi? «Calunnie infondate!», ringhia Marco Gelmini, amministratore di Mrc. Il fatto è che i fondi per i giornali di partito non saranno azzerati. Il che rende tutto più imbarazzante. I dipendenti chiedono di resistere finché la situazione non si sbloccherà. Mrc risponde picche. Ostinazione che origina in molti il sospetto.
Con il nuovo regolamento in discussione a Palazzo Chigi dovrebbe essere ridotto il numero delle testate che li hanno intascati finora. Eliminando, per esempio, quelle che con i partiti non hanno nulla a che fare ma che con piccole furbizie normative all'italiana sono state per anni mantenute a spese dei contribuenti. Un intervento di pulizia che certo non riporterà la stampa politica ai fasti del passato, ma libererà un bel po' di risorse. E con i chiari di luna che si preparano...
Sergio Rizzo

l’Unità 20.1.12
Memoria e futuro
Il valore dei partigiani e l’Italia unita
di Carlo Smuraglia, Presidente nazionale Anpi


S iamo alla conclusione di un anno particolarmente intenso, di “celebrazioni” dell’anniversario dell’Unità d’Italia. Poteva trattarsi solo di una celebrazione, con fiumi di retorica, ma così non è stato, soprattutto per merito del Presidente della Repubblica, che ha dedicato a questo anniversario un’attività veramente importante e continuativa, ricca di spunti di riflessione, che ha finito per conquistare la grande maggioranza dei cittadini. A questa ricerca di riflessione, storica e politica, l’Anpi l’Associazione nazionale partigiani ha dato un suo rilevante contributo con molteplici iniziative adottate in tutta Italia. Ora si tratta di tirare le somme, di ricuperare alcuni aspetti più trascurati nel dibattito pubblico e di concentrare l’attenzione sulle questioni tuttora aperte e che richiedono di essere risolte in prosieguo, anche per realizzare un ulteriore consolidamento della Nazione e dello Stato.
La prima riflessione non può che riferirsi alla limitata attenzione che è stata dedicata, in questo anno, al contributo recato dalla Resistenza. È stato già detto (e lo ha sottolineato con estrema precisione il Presidente emerito Ciampi) che per rompere l’Unità d’Italia non si sarebbe potuto pensare ad un’occasione migliore di quella che si presentò fra il 1943 e il 1945, col Paese diviso in due dalla guerra e dalla occupazione tedesca. Eppure ci fu un grande anelito verso la realizzazione dell’Unità, si lavorò con serietà, fatica e sacrifici a ricostruire quel concetto di “patria” che il fascismo aveva sostanzialmente distrutto, a forza di retorica; e si riuscì a rifondare il concetto di nazione non solo con l’impegno della liberazione dalla dittatura e dall’occupazione tedesca, ma anche col lavoro successivo, e direttamente scaturito dalla Resistenza, quale fu quello dedicato all’emanazione di una Costituzione democratica.
Questo contributo dei combattenti per la libertà, indipendentemente dalle loro ideologie, origini e appartenenze, ha caratterizzato 1’intera Resistenza e merita di essere considerato come determinante ai fini del consolidamento dell’Unita d’Italia. Sicché, non è per caso che l’art. 5 della Costituzione è scritto in quel modo, con una affermazione di assoluta perentorietà; e non è ugualmente per caso che tutta la Costituzione sia pervasa da quello spirito unitario di libertà e democrazia, proprio di un Paese che vuol essere nazione, che vuol essere inteso da tutti come una Patria. Il nostro futuro sta in un senso di “nazione” e di “patria” che sia inclusivo e risponda alle profonde aspirazioni di socialità, di uguaglianza, di democrazia su cui si è ricostruito un Paese libero, con la Resistenza e con la Costituzione.

Repubblica 20.1.12
I lavoratori, soprattutto donne, costretti a firmare lettere di pre-licenziamento all’atto dell’assunzione
Due milioni di dimissioni bianche
di Maria Novella De Luca


Che cosa si può fare oggi concretamente per difendersi da questo sopruso?
Cos´è questa prassi illegale e come si fa ad attuare una distorsione delle regole tanto evidente?

Accade nei cantieri, nei negozi, nei centri commerciali, nelle botteghe artigiane, nelle imprese. Tra le ricamatrici di abiti da sposa di Barletta come tra gli operai metalmeccanici di Terni. Nelle aziende in crisi ma anche in quelle sane. Dove ci sono 10 dipendenti, ma anche 50. Al Sud e al Nord. Si chiamano "dimissioni in bianco".
Sono una delle piaghe più sommerse e invisibili del mercato del lavoro in Italia, la clausola nascosta del 15% dei contratti a tempo indeterminato, un ricatto che colpisce due milioni di dipendenti, in gran parte donne.
Ricorda Fabrizio B., meccanico specializzato di 34 anni, oggi a contratto in una grande acciaieria umbra: «Con un´unica penna ho firmato la mia assunzione e le mie dimissioni, la speranza e la condanna, sapevo che era un ricatto, sapevo che era illegale, ma avevo due figlie piccole, un mutuo, e il bisogno, disperato, di uno stipendio. Era il 2003: cinque anni dopo, quando mi sono opposto a turni di lavoro disumani, il mio principale dopo mesi di mobbing ha tirato fuori la lettera e ci ha messo la data. Sono stato cacciato, ma in realtà risultavo "dimesso". E dunque senza possibilità di oppormi, di avere né disoccupazione né altro… Ho impiegato anni per riprendermi, il mio matrimonio è fallito, ho rischiato di perdere la casa. E oggi ancora ne porto i segni».
Si annida dappertutto il fenomeno delle dimissioni in bianco, rappresenta oltre il 10% di tutte le controversie di lavoro dei patronati Acli, il 5% di quelle degli uffici vertenze della Cisl, spunta come una gramigna cattiva da ogni interstizio produttivo, tra le commesse dei negozi di lusso come tra gli impiegati delle agenzie di servizi, nell´edilizia senza regole che cementifica le nuove periferie, ma anche nelle botteghe artigiane dell´orgoglio made in Italy. E nell´80% dei casi resta un reato impunito e taciuto. Ma che cosa è questa prassi illegale che coinvolge il 60% delle lavoratrici donne e il 40% dei lavoratori maschi, la manodopera operaia, tessile e artigiana, ma si estende anche, e con una percentuale del 25%, al personale impiegatizio di piccole e medie aziende? Come si fa a ricattare così un lavoratore, ma soprattutto una lavoratrice (le donne spesso vengono "dimissionate" non appena tornano dalla maternità) con una distorsione delle regole tanto evidente che il ministro del Lavoro Fornero, su pressione di diversi gruppi di donne, ha annunciato a breve un provvedimento per rendere impossibili le dimissioni in bianco?
La promessa e l´inganno
«In pratica - spiega Pasquale De Dilectis, direttore provinciale del patronato Acli di Napoli - al momento dell´assunzione le aziende fanno firmare al lavoratore un foglio completamente in bianco, o magari una pagina già compilata ma senza una data, in cui il neo dipendente presenta le proprie dimissioni. Questa lettera viene custodita dal titolare che così può decidere, in ogni momento, di mandare via quell´operaio senza doverlo licenziare, e dunque mettendosi al riparo da cause e contenziosi…». Perché è difficilissimo, una volta firmata una lettera autografa, dimostrare che si è stati costretti a quel gesto, e spesso patronati e sindacati non possono fare altro che "raccogliere" la storia di quell´uomo o quella donna ricattati e beffati da padroni senza scrupoli. E si può essere "dimissionati" per decine di pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, l´età, i rapporti con il sindacato. O semplicemente, anzi cinicamente, raccontano ancora alle Acli, «per lo scadere dei benefici della legge 407 del 1990, che permette ai datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato di non pagare per 3 anni i contributi al neo-dipendente che viene coperto direttamente dall´Inps». Passati quei mille giorni la lettera salta fuori e il lavoratore diventa carta straccia, avanti il prossimo per poter "rubare" i benefici di legge.
Cacciate dopo la maternità
Ottocentomila donne nate dopo il 1973 hanno raccontato all´Istat di essere state licenziate o costrette a dimettersi dopo la maternità. In quel momento strategico in cui, compiuto l´anno del bambino, le donne non sono più protette dalla legge 1204 del 30 dicembre 1971, sulla "Tutela delle lavoratrici madri", e dunque le aziende sanno che sia le "dimissioni in bianco" sia i licenziamenti diventano meno attaccabili e sanzionabili. «Il dato è davvero critico - commenta Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento di Statistiche Sociali e Ambientali dell´Istat - perché questa condizione sta addirittura peggiorando tra le donne più giovani».
«Se penso che in azienda l´abito da sposa me lo sono cucito e ricamato da sola, seta Mikado e fiori di madreperla, e poi la titolare lo ha messo in collezione, ancora mi viene da piangere». Sì, perché Adele Ferri, che oggi ha 30 anni, in quella piccola ditta di alta sartoria nota in tutta la Puglia, aveva cominciato a lavorare a 15 anni, «come succede da noi, a Barletta, mia nonna diceva che avevo le mani d´oro, mi hanno preso come lavorante, nemmeno il corso ho fatto tanto ero brava, ma un contratto vero, anche se a termine, me l´hanno fatto soltanto a 18 anni».
Corre veloce Adele, sacrifica alla "ditta" amici, vacanze e domeniche, ma lo fa con passione, perché, racconta oggi nello studio del suo avvocato, «sapevo che mi stavo creando un futuro, un posto di lavoro, intorno a me c´erano soltanto tanti giovani disoccupati, mi sentivo quasi fortunata». Accade però che a 22 anni Adele si fidanza, e la titolare a sorpresa la convoca. «Mi disse che voleva farmi un regalo, ora che stavo per formarmi una famiglia, io che per lei, così ripeteva, ero come una figlia: un contratto a tempo indeterminato, ma che dovevo anche firmare una lettera in cui mi dimettevo, ma soltanto così, per sicurezza, l´avevano già fatto tutte le altre, e figuriamoci se si sarebbe mai privata di una come me. Accettai, delusa, ma ancora mi fidavo». A 23 anni Adele si sposa, a 25 resta incinta. «Ho lavorato fino all´ottavo mese, quasi non riuscivo più nemmeno a piegarmi per provare i vestiti alle clienti, ero già in maternità e ancora mi chiamavano». Nasce Alex, e Adele cambia. Prende l´aspettativa. Torna in ditta ma non ce la fa più. Chiede di non fare gli straordinari, esige che il contratto di lavoro venga rispettato, chiama il sindacato. «Era febbraio, erano i giorni di Carnevale, e la titolare tirò fuori quella lettera: da domani tu vai a casa, non ti riconosco più, non voglio guai qui… Nove anni sepolti in un attimo e oltretutto con la mia firma… Ho avuto la depressione, ma poi sono riuscita a risollevarmi e sto iniziando una causa, nell´attesa di aprire un atelier tutto mio».
La legge cancellata
Contro la piaga endemica delle dimissioni in bianco, che, stima Luana Del Bino dell´ufficio vertenze della Cgil di Pistoia «riguarda il 15% di tutti i contratti a tempo indeterminato», quindi circa due milioni di lavoratori, il governo Prodi aveva varato una legge illuminata, la numero 188 del 17 ottobre 2007. Titti Di Salvo, oggi nell´ufficio di presidenza di Sel, era stata la relatrice di quella legge, fatta di un solo, ma essenziale articolo. «Ciò che veniva imposto è che le dimissioni fossero presentate su moduli identificati da codici numerici progressivi e validi non oltre 15 giorni dalla data emissione. Per evitare appunto la data "in bianco". Purtroppo la legge entrò in vigore soltanto all´inizio del 2008, poco prima che si sciogliessero le camere. Eppure l´aver semplicemente annunciato sanzioni e provvedimenti contro la prassi delle dimissioni in bianco aveva già avuto un effetto deterrente. Ma è stato solo un momento, perché il primo provvedimento del governo Berlusconi - dice con amarezza Titti Di Salvo - è stata proprio la cancellazione di quella legge, ad opera del ministro Sacconi».
Un colpo di spugna che unito alla crisi, ricorda Amedeo Contili delle Acli di Terni, ha inabissato il fenomeno ancor di più, «peggiorando le condizioni delle donne dopo la maternità, degli immigrati e di chi lavora nell´edilizia, con l´aggravante che questi lavoratori non possono accedere né alla indennità di disoccupazione, né ad altri ammortizzatori sociali». Ma che cosa si può fare allora per difendersi da questo sopruso, dal ricatto di quelle lettere firmate per bisogno e per disperazione, nell´attesa che il ministro Fornero davvero intervenga contro questa piaga?
Gli 007 della Cgil toscana
All´ufficio vertenze della Cgil di Pistoia, che già nel 2007 raccolse i dati nazionali del fenomeno, alle dimissioni in bianco hanno dichiarato guerra. Vincendo decine di cause contro aziende fuorilegge. «Attraverso un tam tam capillare sui giornali locali, nelle fabbriche, nelle radio, ovunque, cerchiamo di informare i lavoratori, e li spingiamo comunque a venire da noi nonostante abbiano firmato quelle lettere al momento dell´assunzione. Quello che suggeriamo loro - spiega Luana Del Bino - è di inviare con una raccomandata postale una dichiarazione autografa all´ufficio vertenze, in cui denunciano di essere stati costretti a firmare un foglio di dimissioni in bianco, in quel giorno e in quell´azienda. Noi non apriamo queste buste, le mettiamo in cassaforte, ma quando il titolare di un´impresa decide effettivamente di "dimissionare" un proprio dipendente, noi ci presentiamo con quella lettera che abbiamo custodito per anni… E ci vuole poco ai consulenti del lavoro per capire che l´azienda è in torto e il reato è la truffa. Siamo anche arrivati alle perizie calligrafiche. E molti lavoratori hanno così riavuto il loro posto. Ma è sempre e soltanto una goccia nel mare».
I ricattati del Sud
Non gli era sembrato vero ad Antonio P., 45 anni e 4 figli, una casetta condonata in un piccolo comune del Casertano, vent´anni di matrimonio con Anna, di ricevere quella proposta di lavoro a tempo indeterminato. È un buon manovale Antonio, lo conoscono tutti, «per campare la famiglia onestamente non mi sono mai tirato indietro, sempre in lista al collocamento, ho sempre fatto di tutto, i miei figli studiano, sono bravi ragazzi, ma mai nessuno che mi avesse messo in regola, solo impiego a giornata, contratti a termine e spesso scoprivo che erano finti…». Ma questa volta è diverso. Chi lo chiama è il titolare di una nota ditta di manutenzione stabili. «Antò, mi hanno affidato un grosso lavoro di pulizie, questa volta ti assumo». Antonio si fida, è quasi felice, da mesi non guadagna, l´edilizia è in crisi, i cantieri fermi. O sequestrati. Il giorno dell´assunzione però il titolare svela le carte. «Antò, devi firmare anche le dimissioni, senza data, perché quando finiscono i contributi dello Stato, te ne devi andare, mi dispiace, ma io non ce la faccio, però ti conviene, almeno per un po´ guadagni…». Antonio è confuso, deluso, prende tempo, torna al collocamento, parla con i volontari della parrocchia che aiutano i disoccupati a districarsi tra le norme e i contratti.
«Mi consigliarono di pensarci bene, dicendomi sì che era un ricatto schifoso, ma anche che così potevo portare i soldi a casa, con 4 figli non si scherza, finisce che prima poi devi chiedere un favore a qualcuno e allora sì che è un macello… Quella sera ho discusso con Anna, era stanca, sfinita, tutto il giorno a correre per fare le ore nelle case, negli uffici. Abbiamo capito di non avere scelta, meglio questo che la fame o la delinquenza: ho firmato quella lettera scritta al computer e su cui prima o poi il mio principale metterà la data. I mesi di contributi agevolati che lo Stato dà per il mio contratto scadono a giugno: dopo c´è il nulla… No, anzi, c´è la comunione di mia figlia Laura. C´è il vestito, il pranzo, i confetti. Magari trovo un prestito…» .

Repubblica 20.1.12
Dopo gli scontri in Francia contestata a Milano l’opera teatrale di Castellucci
Il volto di Gesù e l’integralismo della Chiesa
Il Vaticano: fermate la pièce su Gesù
di Adriano Prosperi


Lo spettacolo del regista Romeo Castellucci, "Sul concetto di volto nel figlio di Dio", è un dialogo tra un figlio e un padre anziano colpito da dissenteria: il dialogo si svolge sotto una grande riproduzione di un celebre volto di Cristo.
È il volto dipinto da Antonello da Messina: un Cristo vero e bellissimo uomo. Un Gesù dall´espressione dolce e intensa, un´immagine lontana da quella tradizione di origine francescana che ha insistito sugli strazi della Passione, il sangue, le spine, l´allucinata magrezza. Questa versione ha vinto nella storia della religiosità cattolica e segnatamente italiana perché ha dato espressione al bisogno di accostarsi a Cristo come uomo, di trovare in lui una figura fraterna, un mediatore dolce e rassicurante col Padre Eterno. Ma in questo spettacolo è proprio quella perfezione fisica che viene presentata come una provocazione intollerabile per chi sta sperimentando il degrado e l´umiliazione estrema del corpo di un padre nell´estrema decadenza della vecchiaia. La reazione a questo conflitto è l´iconoclastia, l´offesa all´immagine: un gruppo di giovani sporca quell´immagine, le scaglia contro sassi e granate.
È una drammatica sfida, una maniera di chiedere una spiegazione a Dio, dunque qualcosa che appartiene in profondità all´esperienza religiosa. Si può chiamare a testimone un sacerdote che fu anche un intellettuale cattolico e un grande organizzatore di cultura, don Giuseppe De Luca. Nella sua definizione della pietà era inclusa anche l´offesa a Dio, la bestemmia, l´esecrazione, l´empietà: tanti segni, secondo lui, di un rapporto vivo tra l´uomo e Dio, di un atteggiamento diverso dall´indifferenza e dal distacco di chi non si sente minimamente interrogato dal messaggio religioso. Questa scena aveva suscitato reazioni polemiche di gruppi cattolici tradizionalisti francesi durante le rappresentazioni parigine nell´ottobre scorso. Ora il dramma è in cartellone a Milano al Teatro Franco Parenti a partire dal 24 gennaio. Il regista ha annunciato che la scena delle offese all´immagine non ci sarà. Fa parte della sua libertà di decidere in materia. E fa parte della libertà degli spettatori il diritto di andare a teatro e di giudicare il dramma in base alla loro sensibilità e alla loro cultura. Anche di protestare, se si sentono offesi nei loro sentimenti.
Invece in questo caso non si vuole che il dramma sia rappresentato. Rispolverando toni intransigenti e scandalizzati che riportano ai tempi delle condanne del teatro da parte di San Carlo Borromeo. un comitato che non a caso si intitola proprio al nome del santo milanese ha chiesto al teatro milanese di «voler cancellare questo spettacolo» perché è una «offesa a Cristo e, con lui, a tutti i cattolici». Ed è giunta, insieme ad altre reazioni dello stesso tipo, una lettera di monsignor Peter Wells della Segreteria di Stato vaticana che accusa il dramma di Castellucci di essere un´opera «offensiva nei confronti di Nostro Signore».
Milano non è Parigi, evidentemente. Né i cattolici italiani possono godere dei diritti dei cattolici francesi. In Italia non si può vedere, non si può giudicare con la propria testa. Questo è il punto. Alla Chiesa cattolica non si può muovere a cuor leggero l´accusa di essere un´agenzia dell´intolleranza religiosa: in tempi come i nostri ben altre sono le manifestazioni dell´intolleranza che destano preoccupazione. Lo scatenarsi della violenza da parte di chi si ritiene obbligato a vendicare l´onore del suo Dio o del suo profeta ha riportato all´ordine del giorno fenomeni che speravamo di avere lasciato in un remoto passato. La Chiesa cattolica ha dimostrato di saper aprire un confronto col mondo moderno all´interno di una accettazione del principio della libertà delle coscienze e della tolleranza: una tolleranza che si somma spesso alla saggezza politica. Talvolta eccessivamente politica a giudizio di molti, che preferirebbero una proposta religiosa capace di distinguere i veri credenti dal cattolicesimo sociologico della maggioranza.
Se ne è avuto un esempio nella non dimenticata controversia giuridica sull´affissione del Crocifisso nei luoghi pubblici quando le autorità ecclesiastiche ne hanno sottolineato il carattere di "arredo" mettendo in ombra quello di sconvolgente simbolo religioso. Resta il fatto che l´Italia per questa Chiesa è una provincia speciale dove si deve ancora sfoderare all´occasione il volto severo: come si fa coi bambini, come non si fa con gli adulti. Ritroviamo in questo episodio la conferma di una tradizione antica e la riprova di quello speciale stile della Chiesa di Roma che un esperto studioso di queste cose, il professor Jeffrey Haynes della London University, ha definito come l´esercizio di un "transnational soft power": un potere dolce, capace di adattarsi alle differenze locali e di modulare diversamente la voce a seconda dei destinatari. Con gli italiani, la voce è severa, per loro vige ancora la censura preventiva.

Repubblica 20.1.12
Tradizionalisti, "lefebvriani", esponenti dell´estrema destra. Annunciano veglie e "messe di riparazione"

"Fermiamo la blasfemia, a ogni costo" ecco chi sono i nuovi ultrà cattolici
Un arcipelago di sigle riunite dietro la protesta annunciando gesti clamorosi sul web
di Carlo Brambilla

MILANO - «Basta con la cristianofobia!» «Fermiamo la blasfemia!» «Dobbiamo reagire. Scendere in piazza. Protestare». Mentre si annunciano pubblici rosari, veglie di preghiera e messe di riparazione, corre sul web la protesta degli ultrà cattolici che hanno deciso di mobilitarsi contro lo spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio, del regista Romeo Castellucci, in cartellone al Teatro Franco Parenti dal 24 gennaio.
È un arcipelago di sigle. Che in qualche caso non nascondono le loro simpatie politiche per la destra estrema e usano toni antisemiti contro la direttrice ebrea del teatro, Andrèe Ruth Shammah. Alcuni gruppi sono noti, come Militia Christi o i comitati per la vita, altri sconosciuti, mai visti prima, piccole associazioni, microcomitati spuntati come funghi. Per tutti l´appuntamento, rilanciato via Facebook, Twitter, le mail e gli appelli sui siti sorti per l´occasione, è fissato per martedì prossimo davanti al Franco Parenti, in occasione della prima milanese dello spettacolo. «Da giorni, incessantemente, siamo stati identificati con i peggiori epiteti, criminalizzati e ghettizzati - afferma il Comitato San Carlo Borromeo, dopo aver ringraziato la presa della posizione della Santa Sede - con i solo intento di distogliere l´attenzione da quello che è il vero problema, ovvero l´offesa a Cristo e a tutti i cattolici. Siamo anche stati accusati di non essere cattolici maturi. Ma noi ci chiediamo quale persona di buon senso ricoprirebbe di escrementi l´immagine di una persona che ama? Siamo stati accusati di essere ultra-estremisti-integralisti, ma non solo abbiamo avuto l´appoggio del Cardinal Scola, ma ora abbiamo anche quello dichiarato dalla Santa Sede». E, se lo spettacolo non sarà cancellato il comitato annuncia già quale sarà la "riparazione pubblica": il rosario da recitare il giorno 28 gennaio.
Ma sono decine le sigle che aderiscono alla protesta, da Italia Cristiana alla Fondazione Lepanto, e poi ancora: Riscossa Cristiana, il Fronte della Tradizione, il comitato no 194, Ora et Labora. «Saremo centinaia di fedeli in arrivo da tutta Italia - annuncia Roberto Lastei, responsabile del gruppo più organizzato, Militia Christi, che ha sede a Roma, e si è distinto in passato per le battaglie contro l´"omicidio-aborto", il divorzio, l´eutanasia. - Però non definiteci oltranzisti. Siamo semplicemente credenti che si oppongono alla messa in scena di uno spettacolo osceno. Non lo abbiamo visto, ma sappiamo che il volto di Gesù viene offeso mentre nel teatro si diffonde una nauseante puzza di escrementi (sulla scena si svolge la storia di un figlio che assiste un padre anziano colpito da dissenteria, ndr)». La scena del lancio di granate e sassi, non escrementi, sul volto di Cristo non sarà presente nell´edizione milanese dell´opera.
Ma gli ultrà cattolici non vogliono sentire ragioni. Roberto Jonghi Lavarini von Urnavas, noto esponente dell´estrema destra cattolica milanese, soprannominato "il barone nero", un passato da dirigente del Fronte della Gioventù, nell´Msi, oggi militante del Pdl, è tra i più attivi in queste ore sul web. Con proclami minacciosi: «Siamo pronti a impedire fisicamente l´accesso al Teatro e l´esecuzione dello spettacolo. Quando il rosario e le preghiere non bastano più i veri cristiani sanno ancora usare la spada». In un suo comunicato la Curia milanese aveva chiesto ai fedeli toni assai diversi: «Manifestare il proprio dissenso non può accompagnarsi a eccessi di qualunque tipo, anche solo verbali».

il Riformista 20.1.12
Assemblea domenica a Roma. Vendola con De Magistris, Emiliano, Pisapia, Zedda, Landini della Fiom e Zipponi dell’Idv
Sel fa prove tecniche di Quarto polo
diu Ettore Maria Colombo


Il “Quarto polo” della sinistra radicale che lavora, costruisce e combatte alla sinistra del Pd non nascerà di certo la prossima domenica, quando, all’hotel Summit di Roma, si terrà l’Assemblea generale nazionale di Sel (Sinistra, ecologia e libertà). La formazione politica fu fondata da Nichi Vendola nel 2008 quando il governatore pugliese e i suoi colonnelli bertinottiani (Migliore, Giordano eccetera) uscirono da Rifondazione comunista, dopo un congresso perso al fotofinish con Paolo Ferrero, oggi segretario di quel che resta del Prc, poi si fusero con spezzoni degli ex-Ds (Mussi, Fava eccetera) e dei Verdi (Cento) per diventare, dopo aver perso dei pezzi (socialisti, verdi) quel che, appunto, oggi è Sel. Che se ne parli da tempo, però, di far nascere un Quarto Polo a sinistra del Pd, è un fatto. Ieri ne ha scritto Daniela Preziosi sul manifesto: «Il Quarto polo tenta la sinistra». Subito, ovvio, sono piovute le smentite, a partire da quelli che, domenica, saranno i due principali attori, pur in qualità di “esterni”, dell’assemblea vendoliana. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris (formalmente ancora iscritto all’Idv, in qualità di indipendente, ma di cui è parlamentare europeo), e quello di Bari, Michele Emiliano (ancora iscritto al Pd, ma ormai con una forte caratura autonoma), hanno fatto sapere, urbi et orbi che, insomma, di Quarti poli non se ne parla proprio per niente. De Magistris ha scritto una nota per dire che andrà da Vendola, «ma non nasce alcun Quarto Polo». Né, tantomeno, pensa di «rifondare il Pci», come gli era stato attribuito da qualcuno, Emiliano, il quale specifica anche: «Io, a differenza di Vendola, dialogo con tutti e punto all’alleanza con l’Udc».
Peraltro, in Puglia, tra maggio e giugno, si voterà nei capoluoghi di provincia, esclusi Bari e Foggia, e già sono iniziate le grandi manovre e i primi annusamenti tra Pd e Udc, senza dire del fatto che l’opposizione che l’Udc fa alla giunta Vendola è detta “di sua Maestà” e che proprio Emiliano coltiva da tempo il sogno di lanciare un’Opa sul suo partito, il Pd, non a sinistra.
Dall’altra parte, a Napoli, De Magistris sta lavorando a ben altro progetto e tutto fatto in casa, oltre che lontano anni luce dall’Idv e da Di Pietro, una “Rete” di movimenti civici e sociali che verrà lanciata il prossimo 28 febbraio da Napoli, primo officiante della Rete proprio lui, ’o sinnaco.
Non nasce nulla, dunque, domenica prossima? Solo una parata di illustri sindaci di sinistra, visto che interverranno i primi cittadini di Milano, Giuliano Pisapia, e di Cagliari, Massimo Zedda, che saranno anche iscritti e/o vicini a Sel, ma che di questi tempi hanno ben altri grattacapi, tutti locali? Non è detto. Infatti, un’altra cosa è certa: tra i leader di Idv e Sel, e cioè tra Vendola e Di Pietro, corrono sempre di più e sempre più spesso corrispondenze di amorosi sensi. È dalla nascita del governo Monti in avanti che i due leader si vedono, si sentono e si muovono, di fatto, sulla stessa falsariga. Di Pietro dentro il Parlamento, Vendola fuori, per ora (ma i raid del governatore pugliese alla Camera dei deputati sono sempre più frequenti) hanno stabilito qualcosa in più di una semplice entende cordiale. Sui temi economico-sociali (lavoro, welfare, liberalizzazioni) e istituzionali (ventilata e temuta da entrambi una riforma della legge elettorale in senso punitivo per Idv e Sel in testa) il patto stretto dai due leader (specie nei confronti dell’alleato più temuto e inviso, il Pd) è questo: nulla potrà mai essere fatto contro l’uno o contro l’altro dei due contraenti della Duplice intesa. A sigillare il patto la presenza, sempre domenica e sempre all’assemblea di Sel, del leader della Fiom, Maurizio Landini, e del responsabile Lavoro dell’Idv (ex Fiom ed ex rifondarolo bertinottiano) Maurizio Zipponi. Il quale Zipponi è diventato presidente del Comitato editoriale del settimanale Gli Altri, diretto da Piero Sansonetti, ex direttore di una Liberazione ultras proVendola, dentro il Prc. Se non è un Quarto polo poco ci manca: di certo, per Idv e Sel, si tratterebbe della quadratura del cerchio.

Corriere della Sera 20.1.12
I 100 milioni di donne che mancano all'appello
di Edoardo Boncinelli


Al momento mancano all'appello 100 milioni di donne, mai nate o presto morte. In tutte le parti del mondo, ma soprattutto in Paesi sconfinati e prepotentemente emergenti come l'India e la Cina. È un fenomeno di proporzioni allarmanti di cui solo raramente si sente parlare, ed è assai appropriato che adesso Anna Meldolesi lo affronti seriamente nel suo nitido libretto Mai nate (Mondadori Università, pp. 194, 16), dove si analizzano i fatti, si cerca di capirne le motivazioni e si propongono sommessamente soluzioni.
Varie sono le ragioni per cui in alcune famiglie si preferiscono figli maschi, e li si preferisce a tal punto da sopprimere le eventuali figlie femmine utilizzando le tecniche più diverse, dalla selezione degli spermatozoi alla diagnosi prenatale fino all'infanticidio mirato dei neonati femmina. Si è arrivati a calcolare che «nel 2020 un cinese su cinque potrebbe non riuscire a trovare moglie. I ragazzi maschi al di sotto dei 19 anni, infatti, supereranno le coetanee femmine di 30-40 milioni». Molte di queste ragioni affondano le radici nelle tradizioni di una società patriarcale di un certo tipo, anche se a volte si citano anche particolari condizioni di natura socio-economica. È però prevalentemente la tradizione che porta Paesi come l'Albania, la Georgia, le Filippine, lo Sri Lanka, il Venezuela o l'Armenia a presentare un disarmante quadro di genericidio, cioé di soppressione di embrioni o infanti di sesso femminile. Gli abitanti di questi Paesi importano spesso questa loro usanza anche nelle Nazioni nelle quali si trovano a emigrare, almeno alla prima generazione. Tutto ciò nonostante nel luogo di arrivo non si riscontrino che alcune delle condizioni socio-economiche tipiche del luogo di partenza.
Incalzante ed eccezionalmente documentato, il libro di Anna Meldolesi è un modello di serietà e di impegno, sempre attento all'obiettività, senza mai indulgere alla retorica e alle mitologie oggi imperanti. L'autrice è evidentemente convinta, come me, del fatto che la verità sia la migliore delle mitologie e che una buona causa si serva meglio sforzandosi di essere obiettivi piuttosto che partigiani, perché i miti e i risentimenti passano, la verità resta. Anche con le migliori intenzioni, la non-verità resta non-verità, e non si sa mai quale uso se ne potrà fare in seguito.
E che questa sia una buona causa non c'è proprio dubbio: non esiste nulla nella natura né nella cultura che possa consigliare di fare a meno di un così alto numero di esseri umani di sesso femminile, anche al di là di ogni considerazione suggerita dalla pietas. Sono veramente lunghi e contorti i percorsi che portano dalla natura alla cultura, e alcuni si presentano francamente incomprensibili. Questo vale soprattutto per quelli di cui non si parla mai e che vengono dati per ovvi o scontati. È quindi opportuno dare per scontato il minor numero possibile di convinzioni sociali: non si sa mai che cosa ne può derivare. E, come è noto, è molto più facile prevenire che correggere.

Corriere della Sera 20.1.12
Marx ed Engels restino a Berlino quella statua non oltraggia nessuno
di Pierluigi Battista


La prevalenza del gesto simbolico crea troppi guai. Sfrattare la statua di Marx ed Engels dal centro di Berlino, come sfregio alla Germania comunista che ne aveva voluto la costruzione, colpisce un simbolo ma evita di fare i conti seriamente con il passato. A chi fa paura quella statua? Qual è la molla segreta che spinge un democristiano tedesco a prendersela con un monumento?
La molla segreta è appunto l'eccessiva importanza che si vuole dare al simbolo. È l'idea, frutto di una cattiva pedagogia, che la rimozione di un simbolo cancelli ipso facto il passato che si vuole condannare. È la stessa molla segreta di chi vuole cambiare la toponomastica dei regimi abbattuti, di chi vuole demolire monumenti e statue di un passato che si vuole rimuovere. Si comprende per esempio chi ha voluto in Spagna umiliare le statue equestri di Francisco Franco come protesta per un regime la cui insopportabilità è ancora nella memoria di tutti: ma si è trattato solo di un gesto, non di una resa dei conti profonda con il passato franchista che ha contagiato gran parte della società spagnola. Si comprende anche la ragione che ha indotto l'esponente della Cdu tedesca a liquidare un monumento dedicato alla santificazione dei due fondatori del movimento comunista e fortemente voluto dal dittatore Honecker a metà degli anni Ottanta. Si capisce che quei simboli restano, nella memoria collettiva, come segni di un regime oppressivo e poliziesco che ha vessato per anni milioni di tedeschi. Ma che a tanti anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino, ancora quella statua sia considerata una presenza oltraggiosa appare un anacronismo difficilmente comprensibile. Come se lo sradicamento di un monumento potesse fare tabula rasa del passato, come se uno schiaffo postumo a una dittatura potesse risarcire le sofferenze patite nel passato. L'Italia ha avuto lo stesso problema con le vestigia del fascismo: si negava il passato rimuovendone i simboli, ma il passato ostinatamente restava nei precordi della società italiana. La smobilitazione simbolica resta solo un simbolo. Ed è il simbolo di una smania di azzeramento del passato, che è il contrario della sua rielaborazione. Le statue possono restare dove sono.

Corriere della Sera 20.1.12
Perché è interesse di Israele essere uno Stato come gli altri
risponde Sergio Romano


Nell'affrontare la questione dei pro e dei contro alle missioni all'estero del nostro esercito, lei ha correttamente citato i teatri di guerra dove i nostri soldati sono o sono stati impegnati quali, nell'ordine, Corno d'Africa, Bosnia, Kosovo, Iraq, Libano, Afghanistan.
Non essendo pertinente alla questione affrontata, si è correttamente astenuto dal giudizio su ragioni e torti dei conflitti e delle parti in causa. Non ho potuto non notare, però, con mio profondo rincrescimento, che, solo per la missione in Libano ha parlato di «attacco israeliano contro il Libano» dando al lettore una evidente lettura delle responsabilità del conflitto, senza ricordare le cause che lo hanno determinato e l'aggressione (sotto forma di sconfinamenti, uccisioni e rapimenti), subita da Israele, che ha dato inizio alla guerra.
A questo punto mi chiedo se sia stata una svista (cosa che spero), se sia stato un riflesso condizionato (cosa che non spero) o se abbia ragione chi sostiene che il suo giudizio sulle tematiche israeliane sia condizionato da un pregiudizio che non sempre le consente di mantenere il giusto equilibrio nell'analisi (cosa che mi farebbe inorridire).
David Caviglia Roma

Caro Caviglia,
Per spiegare l'invio di missioni militari in Somalia, Bosnia, Kosovo, Iraq e Afghanistan, non era necessario fornire al lettore maggiori informazioni. Per spiegare il rafforzamento di Unifil (una forza dell'Onu presente in Libano da parecchi decenni) occorreva invece evocare brevemente l'antefatto, vale a dire l'operazione militare lanciata da Israele contro il territorio libanese. Lei ha ragione quando osserva che l'espressione «attacco israeliano» conteneva un giudizio sull'opportunità dell'operazione. Ma se questo è un segno di scarsa neutralità devo ricordarle che mi sono macchiato della stessa colpa quando ho parlato di guerra della Nato contro la Serbia, di aggressione americana dell'Iraq e di guerra anglofrancese contro la Libia di Gheddafi. In ciascuno di questi casi ho detto esplicitamente dove fossero, a mio avviso, le responsabilità del conflitto. Devo essere considerato antiamericano, antibritannico e antifrancese? È possibile dire che la guerra americana nel Vietnam fu un tragico errore senza essere considerato nemico degli Stati Uniti?
Nella politica internazionale esistono interessi comuni e interdipendenze che espongono ogni Stato al giudizio di altri Paesi. Perché Israele dovrebbe sfuggire a questa regola? Forse uno dei suoi maggiori problemi è proprio una certa tendenza a giustificare la propria politica con l'eccezionalità della sua storia. Questa argomentazione gli è stata utile in molte circostanze, ma è destinata a essere, col passare del tempo, sempre meno efficace. Non credo che Israele possa contare indefinitamente sull'amicizia e la complicità degli Stati Uniti. Non credo che l'accusa di antisemitismo o antisionismo, indirizzata ai suoi critici, possa continuare a giustificare le imprudenze e le imprevidenze della sua politica estera. Credo che sia suo interesse essere considerato uno Stato come gli altri.

l’Unità 20.1.12
La nostalgia di tornare al futuro
Festival delle scienze C’è chi pensa che non sia concepibile spostarsi da un secolo all’altro. Eppure esistono tante storie che riguardano proprio i viaggi temporali. Vi anticipiamo una parte della lectio magistralis di Markosian
di Ned Markosian


Abbiamo tutti una certa familiarità con le storie che raccontano di viaggi nel tempo e sono pochi quelli fra noi che non hanno mai immaginato di viaggiare indietro nel tempo per ritrovarsi in un particolare periodo storico o per incontrare qualche interessante personaggio del passato. Ma viaggiare nel tempo è possibile? Una questione rilevante è se il viaggio nel tempo sia permesso dalle leggi della natura oggi comunemente accettate. Questo presumibilmente è un argomento che riguarda le scienze empiriche (o forse dovremmo dire la corretta interpretazione filosofica delle nostre migliori teorie delle scienze empiriche). Ma c’è un’ulteriore questione, che invece ricade interamente sotto le competenze della filosofia: se il viaggio nel tempo sia permesso dalle leggi della logica e della metafisica. Il problema si pone in quanto alcuni hanno osservato che dalla supposizione che il viaggio nel tempo sia (logicamente e metafisicamente) possibile, discendono diverse assurdità. Ecco un esempio di queste argomentazioni.
TRE QUESTIONI
1. Se si potesse viaggiare nel tempo, allora sarebbe possibile che qualcuno uccida suo nonno prima ancora che suo padre venga concepito (infatti che cosa potrebbe impedirgli di portare con sé una pistola e sparargli?)
2. Ma non è possibile che qualcuno possa uccidere suo nonno prima ancora che suo padre sia stato concepito (perché se potesse farlo, quel qualcuno potrebbe affermare con certezza che egli stesso non esiste, ma questa è una cosa che nessuno può affermare).
3. Dunque, non si può viaggiare indietro nel tempo.
Un altro argomento che può essere sollevato contro la possibilità di viaggiare nel tempo si basa sull’accettazione della verità del Presentismo (una teoria secondo cui solo gli oggetti e gli eventi del presente esistono, ndr). Se il Presentismo è vero, infatti, allora non esistono né gli oggetti del futuro né quelli del passato. In questo caso, sarebbe difficile immaginare come qualcuno possa viaggiare verso il futuro o verso il passato.
Nonostante l’esistenza di questi ed altri argomenti contro la possibilità di viaggiare nel tempo, ci sono, d’altro canto, problemi connessi con l’affermazione che i viaggi nel tempo non sono possibili. Per prima cosa, infatti, molti scienziati e molti filosofi credono che le leggi attuali della fisica siano compatibili con i viaggi nel tempo. E inoltre, come ho già detto, spesso pensiamo storie che hanno a che fare con i viaggi nel tempo. Ma è plausibile pensare che una storia non possa descrivere cose che sono addirittura impossibili.
SE DUE + DUE FA CINQUE
Per esempio, è naturale pensare che non potrebbe esserci una storia in cui due più due fa cinque, o in cui vi è una sfera che nello stesso tempo è e non è rossa. (Questo sembra particolarmente vero se la storia è raccontata con le immagini, come nel caso di un film.) Quindi, se il viaggio nel tempo fosse impossibile, noi non dovremmo nemmeno essere in grado di prendere in considerazione una qualsiasi storia in cui il viaggio nel tempo si verifica. Eppure lo facciamo in continuazione! Un compito che deve affrontare il filosofo che sostiene che viaggiare nel tempo è impossibile, allora, è quello di spiegare l'esistenza di un gran numero di ben note storie che sembrano riguardare in modo specifico proprio i viaggi nel tempo.
(traduzione a cura di Cristiana Pulcinelli)

l’Unità 20.1.12
Tutti i fisici pazzi per la macchina del tempo
Fu l’austriaco Gödel il primo a dimostrare che le equazioni della relatività generale consentono il ritorno nel passato
di Pietro Greco


Tra gli ultimi Seth Lloyd, docente a Boston e noto divulgatore. Ma anche Lorenzo Maccone, docente all’università di Pavia, e Vittorio Giovanetti, della Scuola Normale di Pisa. Sono ormai molti i fisici che credono possibile – almeno in linea teorica – costruire una «macchina del tempo» e scarrozzare a piacimento tra passato, presente e futuro. Il primo a pensarci, come tutti sanno e come spesso accade, uno scrittore: H. G. Wells, che nel 1895 scrisse, appunto, La macchina del tempo. Ma, al contrario di quanto molti pensano, l’idea non ha trasmigrato dalla letteratura alla fisica quando Albert Einstein elaborò, nel 1905, la teoria della relatività ristretta, con la quale mandò in soffitta il concetto di tempo assoluto. E neppure quando lo stesso Einstein, nel 1916, elaborò la teoria della relatività generale, dimostrando che la gravità può curvare le traiettorie spaziotemporali fino a chiuderle come in un laccio. No, abbiamo dovuto attendere Kurt Gödel – che molti ritengono il più grande logico di ogni tempo insieme ad Aristotele – e il 1949 prima che l’avveniristica macchina del tempo di Wells diventasse un’ipotesi scientifica. È solo in quell’anno che l’austriaco, emigrato negli Usa per sfuggire alle leggi razziali naziste, consegna all’amico Einstein una nota in cui dimostra che le equazioni della relatività generale consentono, in un universo che ruota su se stesso, di seguire una linea spaziotemporale chiusa e di ritornare nel passato.
«Che ne pensi?», chiede Gödel. Einstein è perplesso. Perché l’amico logico gli sta dicendo che, in linea di principio, è possibile che qualcuno torni nel suo passato, e novello don Rodrigo, impedisca che si celebrino le nozze tra suo padre e sua madre e con loro la sua stessa nascita. La «mia» relatività – rimugina Einstein – sta dunque mandando a gambe all’aria quel principio di causalità che io stesso sto strenuamente difendendo contro il possente assalto di quelli che Michele Bresso chiama, con ironia, i «malvagi quanta»?
Prima di ricordare cosa risponde Einstein a Gödel conviene ricordare che il tema della macchina del tempo, ovvero di come ritornare al passato, viene ripreso più tardi da un altro grande fisico teorico, John Wheeler, che scopre la possibilità di scavare nella topologia dello spaziotempo dei wormholes, dei buchi simili a quelli di un verme, e di trovare così una scorciatoia per viaggiare nel passato o nel futuro remoto senza dover percorrere l’intero periplo di quella strana mela che è l’universo quantorelativistico.
Dopo Wheeler, con i suoi wormholes (ancora oggi attuali), sono molti i fisici – da Roy Kerr a Frank Tipler, a Kip Thorne a Richard Gott – che, incuranti dei paradossi, si danno da fare nel proporre progetti per costruire la macchina del tempo. Certo finora i progetti si sono dimostrati difficili da realizzare. Ma se il problema è solo tecnologico e non fisico – dicono i fisici – allora il problema non c’è: prima o poi una soluzione si trova. Basta aspettare che la nostra società diventi abbastanza avanzata da riuscire a manipolare gli oggetti cosmici e il viaggio nel tempo potrà iniziare. Frank Tipler immagina, matematica alla mano, che questa società di crononauti presto (nel giro di alcuni miliardi di miliardi di anni) esisterà davvero. È per accorciare un po’ i tempi che ancora oggi molti colleghi di Tipler si spremono le meningi per trovare soluzioni pratiche più abbordabili. Ma, a proposito, cosa rispose Einstein quando Gödel gli mostrò che la sua relatività consente il ritorno al passato (o al futuro)? Caro Kurt – rispose con schietto scetticismo – se la teoria prevede la possibilità di costruire una macchina del tempo, allora o è una teoria sbagliata o una teoria incompleta. Lui alla causalità rigorosa non voleva rinunciare. Non senza combattere, almeno.

La Stampa 20.1.11
Il caso all’Onu
Il secondo più lungo della Terra
di Piero Bianucci


Non è la Guerra del Tempo ma la guerra dei tempi: quello misurato dalla cara vecchia rotazione della Terra e quello misurato dagli orologi atomici. Il primo è lievemente irregolare, il secondo è di gran lunga più stabile e preciso. La questione che si pone è: usare l’uno o l’altro?
Il mondo non va d’accordo, manco a dirlo, neppure sugli orologi. Finora si è adottato un compromesso.
Ogni tanto, cioè ogni uno o due anni, quando il tempo segnato dalla rotazione terrestre restava indietro di più di un secondo rispetto agli orologi atomici, si aggiungeva il secondo mancante mettendo forzatamente d’accordo Natura e Tecnologia. Un po’ come, per far quadrare gli anni con il moto della Terra intorno al Sole, si sono inventati gli anni bisestili con un giorno in più. Ma ora si litiga sul compromesso. Gli Stati Uniti vogliono abolire il «secondo intercalare». Adottiamo il tempo atomico – dicono – e non se ne parli più. Invece Gran Bretagna, Canada, Cina e la maggior parte degli altri Paesi difendono il compromesso tuttora vigente.
La disputa, che si trascina da anni, va allo scontro finale. Il 30 giugno le 70 nazioni che compongono la Commissione Telecomunicazioni, organismo dell’Onu con sede a Ginevra, dovranno prendere una decisione: mantenere o abolire il secondo aggiuntivo. Cioè fermare o non fermare per un secondo tutti gli orologi del mondo.
Non è un problema come il sesso degli angeli. Quel secondo ha conseguenze importanti. Stando agli esperti degli Stati Uniti, infilare ogni tanto un secondo in più è una operazione carica di rischi. I computer, le reti di telecomunicazione (a cominciare da Internet), le reti elettriche, i satelliti GPS sono sincronizzati sull’ora atomica. Intervenire con il secondo intercalare significherebbe mettere a rischio l’intero sistema. In effetti, su ognuno dei 30 satelliti GPS sono imbarcati orologi atomici perché le misure di distanza sono oggi in pratica misure di tempo basate sulla velocità della luce. I GPS, quindi, devono funzionare con la precisione dei miliardesimi di secondo, altrimenti con il vostro navigatore non arrivereste davanti al portone di casa del vostro amico ma a chilometri di distanza.
I Paesi che si oppongono ad adottare esclusivamente l’ora atomica fanno invece un ragionamento di buon senso: dopo tutto la vita umana è scandita dall’alternanza giorno/notte, cioè dalla rotazione della Terra. Questo, quindi, deve essere il vero riferimento, e pazienza se non è precisa come gli orologi atomici. Abolendo il secondo intercalare, tra decine di migliaia di anni si potrebbe arrivare al paradosso che il Sole brilla di notte e a mezzogiorno è buio. D’altra parte, se dagli Anni Sessanta del secolo scorso ad oggi per più di trenta volte si è aggiunto il famoso secondo per compensare il rallentamento della Terra e non è successa nessuna catastrofe né informatica né alle reti di telecomunicazione né ai sistemi di navigazione satellitare, è chiaro che un pericolo grave non c’è. Semplicemente, quando si ferma artificialmente la lancetta, ciò deve avvenire anche sui satelliti GPS.
Ribattono gli Stati Uniti che comunque il rischio sussiste, mentre lo sfasamento giorno/notte è un problema che si porrà tra un sacco di tempo.
In realtà dietro tutta la faccenda c’è anche un po’ di lotta di potere. La Gran Bretagna difende l’ora della Terra perché il riferimento è, alla fin fine, lo storico meridiano di Greenwich, che si impose su altri possibili riferimenti (concorreva, per esempio, anche Parigi) solo perché Sua Maestà stava anche a capo del più grande impero mondiale. Gli Stati Uniti, facendo passare l’ora atomica difesa dal Naval Observatory di Washington, instaurerebbero un loro imperialismo di carattere tecnologico-culturale.
Il rallentamento della Terra è dovuto all’attrito delle maree, e quindi è abbastanza costante. Talvolta però spostamenti di grandi masse d’aria o di magma e rocce nelle profondità del pianeta causano piccole irregolarità. Gli orologi atomici non sono soggetti a questi malumori. In essi scandisce il tempo in modo inesorabile lo strato esterno degli elettroni dell’atomo di cesio: 9 miliardi 192 milioni 631 mila 770 oscillazioni al secondo, non una di più né una di meno. Tanto che attualmente i migliori orologi atomici scarterebbero di un secondo in 30 milioni di anni.
Dunque: Terra o atomi? Fate voi. Tanto in ogni caso vi capiterà di arrivare in ritardo.

il Fatto 20.1.12
“Quando Scalfari si infatuò di De Mita”
Da Tangentopoli a B. Il racconto di Carlo De Benedetti
di Marco Damilano


Esce oggi per Laterza il libro di Marco Damilano “Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica”. Anticipiamo alcuni stralci della testimonianza di Carlo De Benedetti.
Nel 1976 – ricorda De Benedetti – arriva Bettino Craxi. Di lui si può dire quello che si vuole, io sono sempre stato un suo avversario, lo consideravo un bandito con atteggiamenti fascistoidi, di quelli sei con me o contro di me, un atteggiamento che i democristiani non avevano. Ma è stato un personaggio politico che ha marcato la storia italiana. Il suo primo obiettivo è stato distruggere l’asse Dc-Pci (...).
Craxi si rese conto che doveva fare un salto di qualità: capì che senza i soldi non si fa politica. E dunque cominciò a reclamare risorse in modo palese, spiegando che gli industriali per evitare il ricongiungimento cattocomunista avevano l’obbligo di finanziare l’unico politico che lo poteva impedire. ‘Guardi’, ti diceva con il suo modo spiccio di fare, ‘lei di politica non capisce un cazzo. Questo Paese ha bisogno di superare la vera tenaglia di arretratezza economica, culturale che è rappresentata dal ricongiungimento di due forze che sono entrambe conservatrici’. Ti poteva infastidire per il modo con cui ti porgeva le sue argomentazioni, l’arroganza, il sudore, le amicizie di cui si circondava, la volgarità della persona. Ma in quei primi anni 80 era difficile dargli torto nell’esigenza di modernizzazione (...). Penso che all’inizio i soldi li chiedesse per finanziare il suo partito e la sua politica. Balzamo aveva l’incarico di passare a incassare: tu prendevi un ordine, per dire, alle Poste e arrivava Balzamo e ti chiedeva il 5 per cento. Tutti pagavano, tutti. Anche perché la virulenza di Craxi era temibile, si capiva che in caso contrario si sarebbe vendicato. Lo provai sulla mia pelle: per averlo contrastato anche su questi argomenti mi ostacolò sulla Sme. Per lui significava mandare un messaggio chiaro a tutti gli altri, per esempio a Romiti sull’Alfa Romeo. Colpirne uno per educarne cento (...). Negli anni 80 Craxi cercò in tutti i modi di allontanare il Pci dalla Dc, e riuscì nell’obiettivo. E poi ci fu la sua seconda evoluzione, quando si rese conto che (...) per coronare il suo sogno di diventare premier doveva fare un patto con Forlani, che rappresentava le correnti più moderate della Dc, e con Andreotti, che era una potenza politica vera, con gli americani, con il Vaticano, aveva agganci con la massoneria e con la P2. Craxi, che per anni lo aveva insultato, la volpe che finisce in pellicceria, Belfagor e Belzebù, per andare a Palazzo Chigi scese a patti col suo peggior nemico (...).
Sulla guerra di Segrate Craxi fu il motore di Berlusconi, non c’è dubbio. A Berlusconi della Mondadori non interessava niente, il suo compito era conquistare Repubblica, era lo scalpo da portare a Craxi, perché la fissa di Craxi erano Scalfari e De Benedetti. Bisogna tenere presente che a un certo punto Repubblica stava per fallire e io l’avevo salvata, per Craxi rappresentavo dal punto di vista finanziario la garanzia di solidità economica del quotidiano, al di là della mia condivisione delle idee e della mia amicizia con Scalfari. Allora ha tentato il colpo tramite Leonardo Mondadori e Berlusconi per arrivare a Repubblica. Però Berlusconi aveva già cominciato a maturare l’idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. ‘Sai’, mi disse, ‘se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie televisioni, lo faccio fuori in cinque minuti’. Ma aveva bisogno della legge Mammì, per ottenerla era disposto a fare qualsiasi cosa, era il suo business.
ANDREOTTI, che non ha mai potuto vedere Craxi, mi chiamò a Palazzo Chigi, nella sua stanza, e mi disse: ‘A lei la Mondadori non la daremo mai, è già abbastanza quello che ha con Repubblica. Ma ancor di più io non permetterò mai che Berlusconi si impossessi di Repubblica, è troppo potente già oggi. Dunque dovete trovare una soluzione’. Aggiunse: ‘E noi la aiuteremo a trovarla: quando lei uscirà da questa stanza troverà nell’anticamera chi le può dare una mano’. Uscii, nell’anticamera ad aspettarmi c’era Luigi Bisignani... Dopo arrivò la mediazione di Ciarrapico (...). La leggenda del partito trasversale di Repubblica-Espresso nacque con l’infatuazione di Scalfari per De Mita. Nell’82, in vista dell’elezione del nuovo segretario della Dc, Marcora organizzò una cena a casa di Mario Formenton con una decina di persone, c’erano Pirelli, Lucchini, Romiti e l’establishment milanese, alla fine ci disse che avevano deciso di puntare su De Mita. Ci fu un ululato di scontento: ai nostri occhi De Mita era quello che da ministro aveva bloccato il prezzo della pasta, era visto come un dirigista, un politico meridionale vecchio stile, il peggio che si potesse avere (...). Scalfari invece pensò di poter gestire De Mita e attraverso di lui la Dc. Fino a quel momento aveva provato a gestire il Pci, e c’era riuscito. Quando De Mita andò a Palazzo Chigi, Scalfari gli consigliò la nomina di Andrea Manzella a segretario generale della presidenza del Consiglio, che era vicino a Spadolini e con la Dc non c’entrava nulla. De Mita chiamava Scalfari tutte le mattine, c’era una sudditanza impressionante (...). Se mi si chiede con quale ipotesi politica l’establishment imprenditoriale italiano arriva al 1992 rispondo: nessuna (...). All’improvviso è crollato tutto il sistema delle alleanze. È stato come trovarsi di fronte a un deserto e ognuno ha cominciato a giocare per sé perché ognuno aveva la coscienza sporca. Ci siamo trovati di fronte a Di Pietro che faceva paura.
Nel maggio 1993 concordai con il pool tramite l’avvocato De Luca che mi sarei presentato spontaneamente e che mi sarei assunto tutte le responsabilità, indicando un elenco di 4-5 operazioni in cui la Olivetti aveva elargito soldi e a chi. Nessun capo di azienda si comportò come me. La mia esperienza a Regina Coeli fu tutta un’altra storia. C’erano tre mandati di cattura, per me, per Gianni Letta e per Adriano Galliani. Il gip Augusta Iannini disse di avere ottimi rapporti di famiglia con Letta e con Galliani, per via del marito Bruno Vespa, e che non poteva essere obiettiva. Io obiettai che questo valeva anche per me, al contrario, per i miei pessimi rapporti con Berlusconi. Comunque ci fu un interrogatorio, chiari ilamiaposizione, uscii di prigione e nel processo venni assolto (in parte per prescrizione, ndr). L’Avvocato mi chiese se si sarebbero fermati, io gli risposi: ‘Guardi, non c’è niente da fare, questi sono portati dal vento’. La condizione di Agnelli era di angoscia. Il solo pensiero non dico di un arresto ma di finire in un interrogatorio non lo faceva dormire la notte. La paura individuale era il sentimento prevalente. E ognuno andò per conto suo: non ci fu neppure il tentativo di organizzare, non so se la parola sia esatta, una forma di difesa. Di Pietro aveva un’incredibile forza organizzativa, fisica, psicologica, me ne resi conto da come faceva le fotocopie o telefonava. Era un fulmine, una valanga (...).
NELL’ESTATE del 1993 Claudio Rinaldi, il direttore dell’Espresso, mio carissimo amico, mi ripeteva: ‘Guarda, Berlusconi vuole fare un partito’. Andai da Agnelli a chiedere se ne sapesse qualcosa, era il mese di giugno. ‘È vero che Berlusconi entra in politica? ’, gli domandai. ‘Qualche giorno fa è venuto a trovarmi il professor Giuliano Urbani, il capo del centro Einaudi a Torino, e mi ha proposto di scendere in campo per prendere il controllo del Paese. Io non sapevo come sbarazzarmene, l’ho spedito da quel matto di Berlusconi’. Parola di Agnelli del giugno 1993. (...) Gennaio 1994, colazione nella sua casa di St. Moritz, lui e io. Parliamo di Berlusconi e del suo partito. E l’Avvocato fa una previsione: ‘Farà un buco nell’acqua. Prenderà al massimo il 3 per cento, come i repubblicani’. Io ero meno convinto di lui, pensavo che al 10 per cento sarebbe arrivato. Nessuno di noi pensava che sarebbe stato votato da un terzo degli italiani e avrebbe vinto (...). Subito dopo la sua nomina a premier nel 1994 ci fu una cena organizzata da Agnelli in casa sua, c’eravamo io, Marzotto, Romiti, Lucchini. Era una sorta di introduzione del Berlusconi premier di fronte all’establishment confindustriale. Agnelli gli dava del lei: ‘Adesso che è arrivato a Palazzo Chigi la prima cosa che lei deve fare è la privatizzazione della Stet’. Berlusconi lo bloccò subito: ‘Quella azienda ora è mia, va bene, perché dovrei venderla? ’ (...). Cos’è rimasto di Tangentopoli? Niente. Mani Pulite non ha cambiato il Paese. La bufera è passata, l’Italia è rimasta la stessa. E in questa Italia immutabile a lungo ha vinto Berlusconi”. Eutanasia di un potere
“STORIA POLITICA D'ITALIA DA TANGENTOPOLI ALLA SECONDA REPUBBLICA” DI MARCO DAMILANO, EDITORI LATERZA, 336 PAG, 18 EURO

La Stampa 20.1.12
De Benedetti e Mani Pulite “Sì, il Pci fu protetto”
Nell’anniversario del ’92 un libro racconta la storia e interroga i protagonisti
E l’Ingegnere svela il ruolo di Bisignani come co-salvatore di “Repubblica”
di Fabio Martini


ROMA Craxi Di lui De Benedetti dice: «Un bandito, con atteggiamenti fascistoidi», «era uno che ti diceva, guardi lei di politica non capisce un c...»
De Benedetti In un libro appena uscito, l’Ingegnere destabilizza tanti luoghi comuni sulla stagione di Tangentopoli
Andreotti Il divo Giulio fu figura chiave per impedire a Silvio Berlusconi di mettere le mani su «Repubblica»
Di Pietro Il pm di Mani Pulite, snodo cruciale per capire gli ultimi vent’anni di storia italiana
Bisignani Andreotti disse a De Benedetti: «Quando lei uscirà, troverà nell’anticamera chi le può dare una mano». E spuntò Luigi Bisignani

Venti anni or sono - era il febbraio del 1992 - nello sciacquone della Baggina di Milano, assieme alle mazzette di Mario Chiesa, sembrò che potessero diluirsi anche i vizi più macroscopici della prima stagione della Repubblica. Di lì a due anni, effettivamente, lasciarono la scena leader e partiti che sembravano eterni, ma col passare del tempo sono poi riemerse quasi tutte le tare politiche, economiche e sociali che avevano portato a Tangentopoli e alla quasi bancarotta dello Stato. Al punto che Francesco Saverio Borrelli, qualche mese fa, è arrivato a dire: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani pulite: non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale». Nei venti anni successivi perché la rivoluzione di Tangentopoli è rimasta confinata alla sfera giudiziaria? Per comprenderlo, bisogna tornare al crepuscolo della Prima Repubblica, studiare meglio le viscere di quegli anni così intensi: è questo l’assunto attorno al quale ruota il libro «Eutanasia di un potere», scritto per Laterza dal giornalista dell’«Espresso» Marco Damilano e da oggi in libreria.
Assieme ad una rilettura storico-politica del biennio 1992-93 e al racconto di una stagione anche attraverso la cultura popolare (tv, canzoni, film, satira), la novità è rappresentata dalle testimonianze di alcuni dei protagonisti. Tra tutte, la più spiazzante e anticonformista è quella proposta dall’ingegner Carlo De Benedetti. Considerato dai leader del Psi e della Dc come uno degli affossatori della Prima Repubblica («Un unico mascalzone grandissimo», scrisse di lui Bettino Craxi) ; nemico numero uno di Silvio Berlusconi nella guerra di Segrate ma anche nei venti anni successivi, l’Ingegnere rivela episodi e giudizi che destabilizzano tanti luoghi comuni, compresi alcuni che lo riguardano. A cominciare dalla guerra per il controllo della Mondadori. Racconta De Benedetti: «A Berlusconi della Mondadori non interessava niente», il compito che gli aveva affidato Craxi «era conquistare Repubblica», la quale - fa sapere l’Ingegnere quando era stata sul punto di «fallire», era stata da lui «salvata». E ancora: «Andreotti, che non aveva mai potuto vedere Craxi mi chiamò a palazzo Chigi e mi disse: a lei la Mondadori non la daremo mai, ma non permetterò che Berlusconi si impossessi di “Repubblica”», «e quando lei uscirà, troverà nell’anticamera chi le può dare una mano». Con gusto letterario, l’” Ing” tira la tenda del sipario: «Uscii. Nell’anticamera ad aspettarmi c’era Luigi Bisignani», sbalorditivo personaggio per tutte le stagioni, così svelato nel suo ruolo di co-salvatore della “corazzata antiberlusconiana”. E Craxi, l’uomo nero? «Io lo consideravo un bandito, con atteggiamenti fascistoidi», «era uno che ti diceva, guardi lei di politica non capisce un cazzo», «ma era difficile dargli torto nell’esigenza di modernizzare il Paese», bloccato da quella «tenaglia di arretratezza economica e culturale» che il segretario socialista vedeva incarnato nelle «due forze conservatrici», Dc e Pci.
Tanto più De Benedetti rivela di non aver mai condiviso «l’infatuazione» di Eugenio Scalfari, carismatico direttore fondatore della “Repubblica”, per Ciriaco De Mita: nel 1982, in una riunione di imprenditori «ci fu un ululato di scontento» quando Giovanni Marcora chiese un appoggio, ma invece Scalfari «pensò di poter gestire De Mita», visto che «fino a quel momento era riuscito a gestire il Pci». E Mani pulite? «Nessun capo di azienda si comportò come me», perché racconta De Benedetti di se stesso, «accettai di presentarmi spontaneamente in tribunale», raccontando le operazioni con le quali la Olivetti aveva elargito soldi ai partiti, anche se «la mia esperienza a Regina Coeli fu tutta un’altra storia», nel senso che «c’erano tre mandati di cattura, per me, Galliani e Gianni Letta, ma il gip Augusta Iannini disse di avere ottimi rapporti di famiglia con Letta e Galliani per via del marito Bruno Vespa e che non poteva essere obiettiva». Il pool di Mani pulite? Anche in questo caso De Benedetti corregge la vulgata sinistrorsa: «In quella operazione certamente il Pci è stato protetto, perché sia Borrelli che D’Ambrosio volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti». Berlusconi in politica? Nel giugno 1993 Gianni Agnelli si sente proporre da Giuliano Urbani di entrare in campo, ma come racconterà a De Benedetti, l’Avvocato gli rispose di rivolgersi a Berlusconi. Passato alla storia come l’affossatore del Caf, l’Ingegnere rivela, col gusto del dettaglio, di essere stato ospitato da Andreotti: «Quando entri nella casa di un politico, ti fai immediatamente un’idea se ha rubato o no: da Andreotti c’era un salotto mesto, con le foderine bianche appoggiate al divano per non sporcare il tessuto con la brillantina dei capelli. Cose da Ottocento... ».

La Stampa 20.1.12
Riecco il compagno G: noi tutelati? Io dissi tutto...
di Jacopo Iacoboni


Primo Greganti, ex tesoriere del Pci Ora svela: io zitto? Macché, parlai ore con i pm
Altro che Pci tutelato, altro che compagno G. zitto come una tomba: Primo Greganti rivela che parlò e parlò, e di tutto, con Di Pietro; al contrario della vulgata, «era difficile farmi stare zitto».
In un libro gustoso scritto da Federico Ferrero, un giornalista che si occupa di tennis per Eurosport (fa le telecronache) ma è appassionato di politica ( Alla fine della Fiera, Add editore), compare una smilza galleria di interviste-ritratto che ogni cultore del genere dovrebbe praticare, perché rivelano utili spigolature del nostro passato recentissimo, dunque del presente. Chi di voi ricorda per esempio Luca Leoni Orsenigo? È il leghista che all’ora di pranzo del 16 marzo del ‘93, mentre il premier Giuliano Amato tentava di salvare il salvabile, e mentre mezzo Psi finiva al gabbio, si alzò in aula sventolando un cappio. Divenne il simbolo atroce di quella stagione, che pure meriterebbe dopotutto rispetto. Se non fosse che poi oggi, uno come Leoni Orsenigo - un ragioniere di Cantù che era proprietario di un negozio di apparecchiature tecniche a Como - racconta come Bossi lo selezionò. Lo incontrò per caso, «mi chiese cosa sapevo fare: maneggiare le antenne. Detto fatto: mi mandò alla vigilanza Rai. sempre antenne erano, no? ». Il quale Bossi, racconta Leoni Orsenigo, «tra l’altro neanche sapeva di quello che mi ero inventato col cappio. Formentini lo informò e lui si fece una risata: d’accordo il gesto plateale, mi disse - però ero andato un po’ oltre». Un po’, testuale, che meraviglia. E fece anche il bel gesto di sospenderlo per quindici giorni. Se ne andò presto, Leoni, dalla politica, dopo due legislature pure brevi. Stanco, logorato, anche sfiduciato dopo la storia della mazzetta alla Lega incassata dal «pirla» (parole del Senatùr), il tesoriere Patelli. Ferrero gli chiede: secondo lei Bossi sapeva della tangente? E Leoni, notevole: «Mi faccia una domanda di riserva, per favore»...
Ci sono diverse altre cose interessanti, nel libro, per esempio le parole di Luca Magni, l’uomo che denunciando Mario Chiesa, amministratore di una casa di riposo, il 14 febbraio del ‘92 fece partire l’ondata di Mani Pulite; e parla appunto Alessandro Patelli, che sulla tangente Lega è sibillino, «non voglio dire né che Bossi sapesse né che non sapesse». Racconta che per fare certe rivelazioni sul capo della Lega ci vorrebbero prove scritte, e lui non ne ha; ha narrato tutta la storia a una giornalista, voleva farne un libro, poi la tipa tre mesi dopo lo chiamò informandolo che sarebbero piovute cause pesantissime se non ci fossero stati riscontri. E non se ne fece più nulla.
Il boccone più singolare è l’intervista a Primo Greganti, il leggendario compagno G., tesoriere del Pci-Pds; che nega («una bufala») l’esistenza di finanziamenti da Mosca, e informa che i funzionari sovietici che venivano in Italia erano talmente con le pezze sdrucite che «dovevamo comprargli noi abiti e scarpe, come facemmo a Zagladin, inviato da Gorbaciov». Poi, sorpresa, si confida come gran ciarliero, proprio lui: «È passata la storia che io sarei stato zitto per proteggere il Pci. Ma non è vero: anzi, solitamente si fa fatica a farmi star zitto. Non mi sono mai rifiutato di rispondere ad alcun interrogatorio». Insomma, il Pci non fu protetto affatto, come rivela De Benedetti. Piccola postilla, il compagno G. rivela che anche fu assunto in fabbrica perché il papà l’aveva fatto raccomandare... da un prete.

il Fatto 20.1.12
La sede degli ex servizi segreti della Stasi diventa un museo
Berlino e la triste “Disneyland comunista”
di Alessandro Oppes

È un enorme blocco di cemento grigio dall’aspetto sinistro sulla Normannenstrasse, a poche decine di metri dalla Karl Marx Allee, quel lungo viale che è il tributo più pacchiano alla megalomania della Ddr, dove Erich Honecker e i gerarchi del regime sfilavano nelle imponenti parate militari, tra cigolìo dei carriarmati e sfrecciare dei caccia sovietici. Incute ancora timore la vecchia sede della Stasi, oggi che Der Mauer, il Muro di Berlino, non c’è più, e la Cortina di Ferro è solo un ricordo lontano. Così lontano che la maggior parte dei giovani della Germania unita (di sicuro tutti i liceali, ma ormai anche buona parte degli universitari) hanno notizia di quell’epoca solo grazie a vecchi filmati e ai racconti dei loro padri. Ma tra chi ha vissuto quegli anni, chi ha sofferto la dittatura dell’Est, la notizia dell’apertura al pubblico del lugubre quartier generale della polizia di Stato, è un evento che riapre vecchie ferite e suona come un’inopportuna operazione di marketing. “Un circo di cattivo gusto, una mancanza di rispetto nei nostri confronti”, dice alla Reuters un ex meccanico, Manfred, 71 anni, che riceve dallo Stato una “pensione di vittima”, la miseria di 250 euro al mese.
C’È CHI la chiama già “una Disneyland comunista”. Hanno speso 11 milioni di euro per ristrutturare quelle tetre stanze dove si pianificava la repressione di Stato, e ne hanno fatto un polemico museo della memoria. All’ingresso della Haus 1 – quello stesso edificio nel quale una folla indignata fece irruzione il 15 gennaio 1990 – ci si trova subito di fronte a un imponente busto di Karl Marx. Ma bisogna salire al primo piano per immergersi nel mondo dello spionaggio meticolosamente organizzato, tra pareti in legno color senape, grandi tappeti e poltroncine azzurre. Arredamento triste e modesto di una dittatura povera. Qui, da queste stanze, si teneva d’occhio un’intera nazione. Per i leader della Sed, il partito unico, era l’efficacissimo strumento di terrore e oppressione che gli consentiva di mantenere saldo il controllo del potere.
“Lo scudo e la spada” era l’espressione che loro stessi avevano coniato per definire lo Staatssicherheit, il Servizio per la sicurezza statale. Per tutti, semplicemente, Stasi. Che era un insieme di polizia segreta, agenzia centrale d’intelligence e ufficio d’investigazione criminale. Ai vertici, per oltre trent’anni, e sino alla caduta del regime, nel 1989, il temibile Erich Mielke. Era l’uomo che teneva in scacco un intero paese, grazie a 91 mila agenti e 173 mila informatori non ufficiali. Nel suo ufficio, spicca la sobrietà comunista, ma anche gli strumenti – per l’epoca – tecnologicamente avanzati. Un grande telefono con un’infinità di tasti, sofisticati registratori, un vecchio televisore Philips che gli permetteva di vedere le tv occidentali. La scrivania è la stessa sulla quale Mielke firmò la condanna a morte per tantissimi oppositori. Nelle altre sale, sono esposti gli strumenti impiegati nello spionaggio. Ci sono telecamere nascoste in cisterne d’acqua, o all’interno di pietre, e microfoni occultati alla bell’e meglio dietro cravatte. Cose che fanno persino sorridere, viste con gli occhi odierni, ma che è probabile vengano osservate con distacco solo dai turisti stranieri. Ma che rischiano di apparire un affronto alle vittime del terrore. Così come quei gadget – magliette, bandiere, accendini, portachiavi – con i simboli della Ddr, disponibili un po’ ovunque nei negozi di souvenir di Berlino. La capitale tedesca è permeata di ricordi della sua storia spesso tragica. E questa costante insistenza nel riesumare il passato continua a scuotere le coscienze. A molti non è piaciuta per niente l’idea, lanciata la scorsa estate dall’ex sindaco Eberhard Diepgen, di riedificare il Muro “per dare a tutti la possibilità di rivivere la storia”. E anche la ricostruzione, che costerà 590 milioni, dell’antico castello degli Hoenzollern sul sito dove il regime comunista aveva eretto il Palazzo della Repubblica, continua a suscitare polemiche.

il Fatto 20.1.12
Chi sacralizza la Shoah
Pubblichiamo un estratto dal volume “Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah”, apparso in questi giorni in libreria.
di Valentina Pisanty


L’8 febbraio 2011 Alberto Cavaglion pubblica una breve riflessione sulla newsletter dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in cui depreca l’appropriazione delle parole “Se non ora, quando? ” da parte del comitato promotore della giornata di mobilitazione nazionale delle donne programmata per il 13 febbraio. Ciò che lo infastidisce è il presunto oltraggio al titolo del romanzo di Primo Levi, ridotto a slogan femminista e messo al servizio di un progetto politico contingente – rovesciare Berlusconi e il berlusconismo – che secondo Cavaglion non può essere paragonato (pena la banalizzazione) alla resistenza ebraica sul fronte orientale raccontata da Levi. […] Da un punto di vista strettamente filologico, l’accusa non è infondata. Nel romanzo di Levi, “Se non ora, quando” è il verso della letteratura rabbinica. In rapporto alle vicende della guerra, la canzone inquadra la lotta partigiana in una storia al contempo più vasta e più particolare, e cioè la trama millenaria della diaspora, sino allo sterminio in corso e al soprassalto di rivalsa con cui si fa largo una nuova idea di autodeterminazione del popolo ebraico. [... ] La canzone attinge a un archivio di storie – Davide e Golia, l’assedio di Masada, la ghettizzazione, la resistenza, la nascita del sionismo – che concorrono a definire un’identità ebraica stratificata e conflittuale, fondata su valori apparentemente inconciliabili quali l’orgoglio e l’umiltà, la forza e la dolcezza, l’intransigenza e la tolleranza; valori nei confronti dei quali il testo di Gedale sollecita una drastica presa di posizione: se non ora quando?, appunto. Pur non essendo di indole particolarmente vendicativa, i gedalisti scelgono la lotta armata perché sanno che l’alternativa è il camino. [... ]
INTERVISTATA da Repubblica (14 febbraio 2011) sulla scelta dello slogan, Francesca Izzo – una delle promotrici della manifestazione del 13 febbraio – ha risposto: “Mi è venuto così, stava nelle mie orecchie e corrispondeva esattamente a quel che volevamo dire. Ci è piaciuto e lo abbiamo usato”. In questa dichiarazione c’è tutto ciò che serve per inquadrare il tipo di operazione semiotica compiuta sul frammento dalle promotrici della manifestazione. Nulla a che vedere con una rilettura critica del romanzo di Levi, il quale resta sullo sfondo come dato enciclopedico condiviso. Il gioco linguistico è tutt’altro: si tratta – come sempre con gli slogan – di ideare un “grido di guerra” icastico e memorabile, dotato cioè delle caratteristiche necessarie per bucare lo schermo sovraffollato della comunicazione politica. […] Generalmente, la citazione drammatizza le circostanze problematiche descritte dai discorsi in cui è di volta in volta trapiantata, iniettandovi un supplemento di pathos e adombrando un possibile (benché raramente esplicitato) parallelo con la guerra all’ultimo sangue combattuta dai partigiani ebrei contro i nazisti. [... ] Per un conoscitore dei romanzi di Levi quale Alberto Cavaglion è, si capisce che la disinvoltura con cui i linguaggi del giornalismo e della politica si sono impossessati di “Se non ora, quando? ” possa risultare irritante. […] A rileggere la nota dell’8 febbraio, è evidente che l’indignazione di Cavaglion non è tanto rivolta alla pratica banalizzante in sé, quanto all’infrazione di un tabù più specifico. La parola-chiave è “sacrilegio”: “Oggi vedo che nessuno protesta per quello che a me sembra un sacrilegio”.
MA “SACRILEGIO” significa “profanazione di oggetto, persona o luogo sacro”. In che senso il frammento di Levi può dirsi sacro e in che cosa consisterebbe la violazione della sua sacralità? La controversia sulla citazione di Levi è un sintomo apparentemente trascurabile di una tendenza culturale ben più macroscopica. Ne hanno già parlato diversi autori […], tutti concordi nel riconoscere che negli ultimi decenni la Shoah (o meglio, l’insieme dei discorsi che confluiscono nella memoria pubblica di questo evento) è soggetta a un meccanismo di sacralizzazione per effetto del quale il genocidio ebraico viene estrapolato dalla serie dei fatti storici e ricollocato in una dimensione “altra” – la dimensione del sacro, per l’appunto – che lo sottrae all’uso comune, ossia ai procedimenti del discorso ordinario, banalizzazione inclusa. [... ] Resta da capire da dove Cavaglion – e altri come lui – tragga l’idea che la memoria dello sterminio ebraico, con tutta la costellazione di testi che a essa fa capo, appartenga per diritto alla sfera del sacro.
Abusi di memoria di Valentina Pisanty, Bruno Mondadori PAGG. 151  16 EURO

il Fatto Saturno 20.1.12
Musei
Che ci fa Duchamp accanto a Fontana?
Al via il nuovo allestimento della Galleria Nazionale d’ArteModerna diRoma
Con accostamenti non sempre di facile comprensione
di Elena Volpato


 ALLA GALLERIA NAZIONALE d’Arte Moderna di Roma si è inaugurato il nuovo ordinamento delle collezioni unitamente al riallestimento delle sale. Il settimo, di questa importanza, dal 1915 – anno in cui le raccolte furono trasferite da Palazzo delle Esposizioni all’attuale edificio di Valle Giulia.
Ripensare l’esposizione delle opere, modificarne gli ambienti e la presentazione è la più impegnativa delle avventure nella storia di un museo e la GNAM non è un museo qualsiasi. Le opere esposte sono tra le più belle di Otto e Novecento che si possano vedere in Italia e l’insieme è certamente all’altezza delle più rilevanti collezioni europee. Ha ragione chi, come Alessandra Mammì, lamenta una troppo limitata considerazione da parte della stampa per il progetto portato a termine, ma non si può stupirsene. Si è voluto che i musei diventassero spazi per continue mostre a ricambio veloce, così che quando esercitano le loro precipue funzioni, lavorando sulle collezioni e mettendo mano ai cataloghi ragionati, se ne trascurano gli esiti. Fortunatamente, oltre la scalinata e il colonnato neoclassico della GNAM, si preservano sacelli di studio e di benedetta prudenza. Non si sono buttati all’aria gli elementari criteri storici, sempre più disattesi nei musei, dopo la scelta della Tate, nel 2000, di procedere per temi (arriva ora la notizia che Sheena Wagstaff, proveniente dal museo inglese e passata in questi giorni al Metropolitan di New York, annuncia “un’inedita comprensione dell’arte tra passato e presente”), ma neppure si è congelato il preesistente, come non lo si fece in passato, quando si passò dall’ordinamento per scuole regionali a quello per movimenti.
Nell’attuale assetto si attraversano tre grandi stagioni storiche cui sono state affiancate delle titolazioni “tematiche”: Il mito la storia e la realtà 1800-1885; Verso la modernità 1886-1925 e Un altro tempo, un altro spazio 1926-2000. Aiutano la comprensione del pubblico e non sono arbitrarie. Per chi ama l’Ottocento quella prima triade di parole corrisponde a gruppi d’opere e d’autori piuttosto definiti, così come la modernità è una questione storico artistica di ampio respiro e tradizione. In alcuni spazi ci sono delle aperture più propriamente tematiche. La prima, subito dopo l’atrio, s’intitola Scusi ma è arte questa? Con opere di Fontana, Burri e Manzoni, realizzate attorno il 1960, inframmezzate con ready-made di Duchamp, ideati all’inizio del Novecento. L’occhio non si persuade dell’insieme, ma una ragione storica c’è. Come Duchamp continua a scandalizzare, anche quegli artisti, in passato, costarono al museo pubbliche proteste e interpellanze parlamentari. Sarebbe l’inizio di un’ottima mostra con cui riaccendere la consapevolezza della carica rivoluzionaria di quelle opere, attraverso aspetti di storia del gusto e delle istituzioni, è forse, però, una prospettiva troppo obliqua per farne una scelta permanente. E se è vero che alla domanda del titolo il successivo attraversamento delle sale consente al visitatore più avvertito di rispondere affermativamente per gli italiani, Duchamp resta uno scoglio inspiegato nell’insieme della collezione GNAM e non solo perché lo è, in parte, costituzionalmente.
Diverso è il caso di due ampie sale speculari: una dedicata al mito, l’altra alla guerra. Il raffronto iconografico è stringente e si tratta di due costanti della ricerca artistica: due moti verso l’immaginario e il preesistente, l’altro dentro la crudezza degli eventi – contrapposti,
non a caso, rispetto al piano storico cui resta affidata nelle sale attigue la comprensione
delle differenze linguistiche tra gli artisti presentati e la consapevolezza di tutto ciò che è accaduto nel mezzo.
Un cedimento alla moda, anche se veniale, c’è stato. Alcuni dei colori alle pareti investono il visitatore come uno squillo di tromba. Si vede bene che nessuno di essi è stato scelto a caso, ma l’acuto di qualche ciclamino e qualche azzurro, sembra dar noia al conversare pacato di alcune opere.
Nel complesso la serietà dei criteri di lavoro, la capacità di sollevare dei quesiti e la straordinaria bellezza di quanto è in mostra, meritano attenzione e più di una visita.
www.gnam.be  niculturali.it

il Fatto Saturno 20.1.12
Evgen Bavcar
Il cieco che fotografa i sogni
di Grazia Lissi


NELLA SUA NOTTE senza fine sono entrati i sogni e lui ha deciso di fermarli con uno scatto. Evgen Bavcar, scrittore, poeta, laureato in Filosofia estetica alla Sorbona, ricercatore per il Cnrs di Parigi, fotografo non vedente racconta: «La tecnica mi ha regalato la macchina fotografica, l’immaginazione le idee, insieme danno forma alle mie foto interiori». La mostra Il buio è uno spazio, a cura di Enrica Viganò al Museo di Roma in Trastevere fino al 25 marzo, omaggia l’artista che, paradossalmente, ha trasformato «il mezzo fotografico, strumento della vista, in strumento del non vedere». Ecco la corsa di una bambina, una violoncellista che suona, un campo di tarassachi, uno stormo di gabbiani impazziti… Intense immagini in bianco e nero, frammenti di luce e movimento che anticipano gli ultimi scatti, per la prima volta, a colori. Fra gli autori più apprezzati nel mondo della fotografia, Bavcar sembra rincorrere i ricordi della sua infanzia, conservati gelosamente da quando, all’età di dodici anni, ha perso completamente la vista camminando su una mina. «Le mie immagini vengono da un mondo interiore, dai sogni, dalla mia vita spirituale. Non vedrò mai con i miei occhi le mie foto, ma non è importante: so che altri le vedranno». Nato in Slovenia nel 1946 si definisce «figlio di un paese dai confini mobili e dalle tante culture stratificate». L’artista parla cinque lingue, ma non gli bastavano, per questo ha aggiunto il linguaggio delle immagini. Non vuole che gli si chieda come fa a fotografare, ma perché lo fa: «Per secoli i non vedenti sono stati usati come modelli dai fotografi. Io non volevo esserlo, volevo poter ricambiare lo sguardo degli altri». Si avvicina a ogni soggetto, persona o paesaggio, come fosse spinto da una forza interiore. Quando scatta si fa accompagnare dalla nipote Veronica, o da bambini, lo sguardo più libero; gli amici l’aiutano a scegliere le foto che espone. «Ieri ho incontrato una ragazza russa, una maestra di scacchi. L’ho fotografata qui, nel buio di questa stanza, sentivo le sue mani sulle pedine. Prima di scattare mi sono avvicinato tantissimo al suo volto, le ho chiesto se potevo farlo. Non tocco mai, guardo da vicino». E continua rincorrendo ricordi lontani: «Quand’ero al liceo credevo di esser-mi innamorato di una ragazza, la stessa che amavano tutti i miei compagni di scuola, per questo me ne parlavano. Mi ero innamorato dei fantasmi degli altri. Questo è ingiusto. Oggi come artista so di avere diritto a percezioni di altro tipo, posso provare anch’io a vedere una donna». Il suo desiderio di luce si fonda con i suoni, gli odori, le voci e diventa una fotografia: «La bellezza è un’utopia in cui continuerò a credere, l’infinito che mi spinge in avanti. Ne ho bisogno, vivo con i sentimenti estetici di chi mi racconta una piazza, un quadro, una statua». Ha mai provato nostalgia? «Si, per i luoghi della mia infanzia, mi accompagnano come in uno specchio magico. È la staticità del mio mondo, come se il destino mi avesse condannato a vivere per sempre la stessa immagine. Ma la nostalgia è la mia speranza, il filo invisibile che mi porta nel futuro».
Evgen Bavcar, Il buio è uno spazio, Museo di Roma in Trastevere, fino al 25 marzo;
www.museodiromaintrastevere.it

il Fatto 20.1.12
È arrivata l’Armata Rosa
“E ora dove andiamo?” della libanese Nadine Labaki è una bella commedia sul fanatismo religioso sconfitto dalle donne
di Gianni Canova


SONO tutte in nero. Alcune a capo scoperto, altre con il velo. Una accanto all’altra, avanzano ondeggiando su un sentiero sassoso e polveroso che porta al cimitero. In mano hanno o un mazzo di fiori o la fotografia di un uomo scomparso: un padre, un figlio, un marito o un fratello che non c’è più. Siamo in una zona di guerra, e la guerra i maschi se li porta via a grappoli. Le donne – orfane o vedove nere – piangono i loro morti. Cantano una nenia funebre per loro. Unite, solidali, armoniose. Anche se, arrivate al cimitero, inevitabilmente si dividono. Le cristiane vanno a sinistra, le musulmane a destra. Da un lato le tombe hanno le croci, dall’altro no. Un corpo sociale che sembrava unito si mostra in realtà diviso. E nell’uniformità – degli abiti, dei canti, degli sguardi, dei riti – si affaccia il germe della differenza. Quella che – da sempre – genera il conflitto e la violenza. Comincia così, con un corteo funebre ridisegnato come se fosse una coreografia, l’opera seconda di Nadine Labaki, la giovane regista libanese che nel 2007, a Cannes, aveva stupito il mondo e incantato il Festival con Caramel, un’operina fresca e sensuale ambientata in un salone di bellezza di Beirut frequentato solo da donne. Lì, fra uno shampoo e una ceretta, un colpo di spazzola e una depilazione al caramello, cinque donne di diverse generazioni parlavano di sé e si scambiavano confidenze, in un film così fisico e sensoriale da illuderti di sentire gli odori e i profumi dell’ambiente, il calore dei corpi, i suoni e i fremiti dell’anima. Con E ora dove andiamo? – premio come miglior film al Festival di Toronto – Nadine Labaki lascia Beirut ma non il Libano: si trasferisce infatti in un anonimo villaggio sulle montagne libanesi per raccontare le dinamiche attraverso cui esplodono l’integralismo e il fanatismo religioso.
A trasformare questo sperduto villaggio rurale in un villaggio “globale” provvede – manco fossimo in un saggio di scuola macluhaniana – la televisione. Che arriva al villaggio sottoforma di un vecchio apparecchio anni Sessanta. L’evento è epocale, si mobilita il sindaco e la sera, per vedere la Tv, gli abitanti accorrono in massa come avveniva con il cinematografo nell’immaginario villaggio siciliano di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. Ma la Tv non mostra solo procaci corpi di donne che annunciano il meteo o rapinosi baci in vecchi film hollywoodiani. Trasmette anche notizie. Notizie che risvegliano l’odio assopito. Che ricordano che c’è chi uccide solo perché invoca un dio diverso da quello del “nemico”. Così anche nel villaggio riesplode il conflitto. Le capre cristiane finiscono nella moschea musulmana e una statua in gesso della madonna viene distrutta a bastonate. Cristiani e musulmani, che pure frequentano le stesse scuole e bevono il caffè nello stesso bar, si riscoprono nemici. Di qua la chiesa, di là la moschea. Qui il prete, là l’imam. Sono allora le donne – tra cui la bellissima proprietaria del caffè, interpretata dalla stessa regista – a inventarsi gli espedienti più geniali e spesso esilaranti – come l’ingaggio di alcune biondissime ballerine delle repubbliche ex-sovietiche – per offrire ai maschi una distrazione che li distolga dalla loro viscerale voglia di guerra e di sangue. Raccontato così, E ora dove andiamo? potrebbe sembrare un’operina a tesi («fate l’amore, non fate la guerra»). In realtà, pur non disdegnando alcuni tratti di sano didascalismo (ma un po’ nel tono e nello spirito dei nostri Don Camillo e Peppone), Nadine Labaki evita le trappole del manicheismo ideologico grazie alle qualità della messinscena: che è ironica e leggera, scanzonata come una commedia italiana degli anni Cinquanta ma anche ariosa e colorata come un film di Jacques Demy. Nadine Labaki opera con continui salti di registro, passa dalla commedia al melò e perfino al musical (sublime la sequenza ballata e cantata in cui le donne preparano e infornano il pane e le torte). A derivarne è un film che convince soprattutto nella messinscena della vita quotidiana, nella rappresentazione dei gesti minuti della gente comune, nella celebrazione di un matriarcato gentile. L’integralismo e il fanatismo ne escono a pezzi, ma a colpi di sorrisi.
E ora dove andiamo?, di e con Nadine Labaki, 110’, Francia, Libano, Egitto, Italia