lunedì 23 gennaio 2012

La Stampa 23.1.12
Intervista
Camusso: “Per noi è no Ma trattiamo su fisco e tempi dei risarcimenti”
«Per finanziare la riforma chiedere di più agli autonomi»
di Alessandro Barbera


I GIOVANI «Non serve un nuovo contratto ne esistono già due, apprendistato e inserimento»
SUI CONTENZIOSI APERTI «Per le dispute previdenziali c’è una proposta interessante dall’Inps»
LE NUOVE GENERAZIONI «Lo ammetto, il sindacato poteva fare di più per organizzarle»

ROMA. Segretario Camusso, il momento è arrivato. Il premier vi chiede di non porre veti.
«Abbiamo detto chiaramente che per noi l’articolo 18 non può essere oggetto di discussione. A meno che non pensino di estenderlo».
All’inizio di una trattativa si dice sempre così. Eppure il governo si siede con l’idea di trovare un compromesso attorno alla proposta Boeri-Garibaldi: in sostanza la tutela dal licenziamento verrebbe garantita solo dopo tre anni di lavoro.
«Si sono costruite aspettative sbagliate. Abbiamo firmato un accordo con Cisl e Uil proprio per sgombrare ogni dubbio. Non c’è bisogno di introdurre un nuovo tipo di contratto. Per i giovani ne esistono già di due tipi, si chiamano apprendistato e inserimento».
E’ opinione di molti che l’articolo 18 sia un elemento di irrigidimento delle assunzioni. Di più: crea un dualismo fra quelle con più di quindici dipendenti e quelle che ne hanno meno. Cosa risponde?
«Se la media delle imprese italiane avesse 14 addetti le direi che ha ragione. Invece i numeri ci dicono che sta fra i tre e i nove. Il problema delle imprese si chiamano credito e capitalizzazione. A giudicare dalle misure prese, mi pare l’abbia capito anche il governo Monti».
Ipotizziamo che io, imprenditore, assuma un dipendente a tempo indeterminato, e che poi quel lavoratore abbia comportamenti che ne meritino il licenziamento. Per ottenere ragione da un giudice devo aspettare in media cinque anni.
«Questa è l’unica questione sulla quale sono d’accordo con le imprese. Di soluzioni al problema ce ne possono essere diverse. Una può essere creare una corsia preferenziale. Per le dispute previdenziali c’è una proposta interessante elaborata dall’Inps».
I numeri dicono anche che siamo uno dei pochi Paesi in Europa in cui non c’è il licenziamento per motivi economici. Non è così?
«In Italia il licenziamento per motivi economici esiste eccome».
Se lei intende con questo la cassa integrazione è a carico dei contribuenti. O no?
«Sistemi come il nostro esistono in Francia e in Germania. E da loro lo Stato ci mette di più, non di meno. Qui semmai è troppo alto il prezzo che si chiede a imprese e lavoratori».
Nel documento unitario chiedete un minor carico fiscale sulle buste paga dei lavoratori. Può essere un elemento di trattativa?
«La manovra di dicembre ha introdotto nuovi sgravi Irap per l’assunzione di giovani e donne al Sud. Stessa cosa si è fatta per l’apprendistato. Questi interventi vanno nella giusta direzione».
Per estendere in via strutturale la cassa integrazione alle imprese più piccole chiedete un ulteriore aumento dei contributi a carico degli autonomi. Ma sono già saliti molto, e il ministro Fornero è contrario.
«Non capisco l’atteggiamento del ministro. A regime, se non ricordo male, i contributi degli autonomi resteranno di nove punti al di sotto dei dipendenti. Mi pare troppo. Io resto convinta che un sistema di previdenza pubblico debba avere forme di solidarietà interne».
Il ministro preferirebbe chiedere di più ai più ricchi. Ma non sarebbe un contributo simbolico rispetto a ciò di cui c’è bisogno?
«Certo, i parlamentari potrebbero dare di più. Ma non credo che quel contributo, per quanto alto, basterebbe a finanziare il sistema».
Direste no anche ad una riforma sul modello danese?
«Abbiamo fatto una simulazione di quel sistema in Lombardia. Costa troppo, non si può fare. Stiamo coi piedi per terra: qui il problema è evitare abusi e rendere il sistema più giusto».
Al tavolo oggi si siedono quattro sindacati che rappresentano lavoratori maturi se non pensionati. Mi dice una ragione per la quale un giovane si dovrebbe sentire rappresentato dalle vostre opinioni?
«In questi anni i giovani sono stati per così dire distratti da un mercato del lavoro che non li ha tutelati. Mi chiede se il sindacato poteva fare di più per organizzarli? Ebbene sì, lo ammetto. Ma credere che togliere tutele a chi un lavoro ce l’ha sia una risposta, beh, non credo nemmeno loro siano d’accordo».
E’ ottimista sull’esito della trattativa?
«Sono seriamente impegnata».

Repubblica 23.1.12
“L’articolo 18 pilastro di civiltà Palazzo Chigi non lo modificherà"
Camusso: la vera occupazione è a tempo indeterminato
di Roberto Mania


Le parole del premier Monti contengono una novità. Per la prima volta parla di negoziato tra l´esecutivo e le parti sociali Finora non si era mai posto in questi termini
Diremo no al contratto unico perché contiene un inganno Introduce solo un nuovo modello senza colpire la proliferazione della flessibilità

ROMA - Segretario Camusso, come replica al presidente del Consiglio Monti secondo cui l´articolo 18 non può essere un tabù?
«Intanto vorrei dire che nell´affermazione di Monti c´è una notizia: per la prima volta, e finalmente, parla di un negoziato tra il governo e le parti sociali. Finora non l´aveva detto».
È vero, ma l´articolo 18 per lei è un tabù?
«Guardi, io penso che dietro questo giochino di dire che l´articolo 18 non deve essere un tabù, si nasconda l´idea, che non condividiamo e non condivideremo, secondo la quale per combattere il dualismo del nostro mercato del lavoro si debba intervenire sulle tutele di chi è già occupato. Noi continuiamo a non essere d´accordo con questa analisi. L´articolo 18 non può essere un tema di discussione né in partenza del negoziato, né a conclusione del negoziato».
Eppure l´articolo 18 si applica solo ai dipendenti delle aziende con più di 15 dipendenti. Per tutti gli altri è previsto un risarcimento monetario, anziché il reintegro nel posto di lavoro, in caso di licenziamento ingiustificato. Perché non si può estendere questo meccanismo a tutti i lavoratori?
«Ormai in Italia si pensa che non si possa licenziare per motivi economici. Invece non è vero. Piuttosto inviterei tutti - anche molti professori che fanno tanti guai - a una lettura collettiva dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una norma che è esplicitamente ed esclusivamente dedicata alla tutela del licenziamento senza giusta causa a carattere discriminatorio. Così chi critica oggi l´articolo 18 dovrebbe avere il coraggio di sostenere che la buona sorte del Paese dipende dalla possibilità o meno di potere licenziare in modo discriminatorio».
D´accordo, ma perché non adottare il risarcimento economico al posto del reintegro?
«Non è casuale che lo stesso Statuto distinse tra grandi e piccole imprese. In quest´ultime una volta che si rompe il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore è complicato tornare indietro. E non dimentichiamoci che lo Statuto nacque in un´epoca in cui c´erano soprattutto grandi imprese».
Sono passati quarant´anni. Perché non si può cambiare?
«Perché l´articolo 18 ha una funzione deterrente. Continuo a pensare che sia una norma di civiltà, anche se a qualcuno dà fastidio. I destini economici di un´impresa si possono affrontare in tante maniere senza intaccare i diritti di chi lavora. L´articolo 18 dice che non si può usare il potere maggiore che hanno le imprese per discriminare le persone».
Se il governo porrà la questione dell´articolo 18, salterà il negoziato?
«Non ho avuto affatto l´impressione che fosse questa la priorità del presidente Monti. Non credo che il governo partirà da lì. Ha detto che intende fare una trattativa e penso che terrà conto delle proposte unitarie di Cgil, Cisl e Uil».
Quante possibilità ci sono che arriviate ad un´intesa con il governo e la Confindustria?
«Posso dire che ci presentiamo al tavolo in maniera molto seria e con le nostre proposte. Mi auguro che lo facciano anche gli altri, governo e imprenditori».
Perché siete contrari al "contratto unico" che nell´arco di un triennio permetterebbe di stabilizzare le nuove assunzioni? Perché la Cgil l´ha definito "un inganno"?
«È un inganno perché parte dall´idea che in Italia, e in Europa, non ci sia già una regola generale sulle assunzioni. Invece, c´è, eccome: è quella secondo cui le assunzioni normali sono a tempo indeterminato. In più aggiunge una nuova forma contrattuale, senza intaccare le cause, anche ideologiche e culturali, che hanno portato al proliferare di decine di tipologie contrattuali».
Ma lei vorrebbe tornare indietro a quando non c´erano i contratti flessibili?
«Non si torna mai indietro. Penso che si debbano fare le cose necessarie per il nostro mercato del lavoro: tornare alla normalità. Per questo pensiamo che vadano incentivate, sul piano fiscale e contributivo, le assunzioni attraverso il contratto di apprendistato e il contratto di inserimento per le donne e gli over 50».
E quali contratti flessibili salverebbe?
«Penso che vada rafforzato il part time, che vada riordinato il lavoro interinale, ma che si debba smettere di considerare le partite Iva come fossero lavoro subordinato».
Lei ha criticato le liberalizzazioni di Monti. Perché è contraria?
«Non sono contraria. C´è, però, un tratto che mi preoccupa molto: quello di intervenire scaricando gli effetti sulle condizioni di lavoro. Penso all´allungamento degli orari dei negozi, penso alla cancellazione per legge (una scelta davvero inaudita) del Contratto nazionale delle ferrovie, penso al riordino dei tirocini senza valutare gli aspetti retributivi, penso, infine, che un orario di lavoro più lungo per i tassisti non dia nemmeno un servizio migliore».

Repubblica 23.1.12
Contratti unici e capitale umano
di Chiara Saraceno


La riduzione dei circa 40 tipi diversi di contratto di lavoro legalmente possibili oggi in Italia, e l´introduzione di un contratto unico con tutele progressive, è sicuramente una proposta attraente dal punto di vista della civilizzazione dei rapporti di lavoro e della riduzione delle disuguaglianze tra lavoratori. Non è affatto sicuro che riduca la temporaneità di fatto dei contratti, che è uno degli obiettivi espliciti dei proponenti.
È vero, infatti, che il contratto unico sarebbe a tempo indeterminato. Ma in cambio di un periodo di prova di fatto allungato fino a tre anni. Durante questo periodo, secondo le proposte in circolazione, il lavoratore può essere licenziato senza vincoli di alcun tipo, salvo quelli che puniscono il comportamento discriminatorio da parte del datore di lavoro. In caso di licenziamento con motivazioni diverse dalla giusta causa, il datore di lavoro è tenuto a pagare un indennizzo, pari a 15 giorni di stipendio ogni trimestre lavorato, secondo la proposta di Boeri e Garibaldi ripresa nel disegno di legge Nerozzi e messa ufficialmente sul tavolo della trattativa. Al lavoratore licenziato senza giusta causa allo scadere dei tre anni spetterebbe un´indennità pari a sei mesi di stipendio. Questo obbligo di indennizzo, oltre ad offrire un cuscinetto di protezione per il lavoratore che perde il lavoro e il reddito, dovrebbe costituire un deterrente ai licenziamenti, divenuti costosi per il datore di lavoro. La proposta prevede anche l´impossibilità di ricorrere al trucco, molto utilizzato da diversi imprenditori, di licenziare e riassumere, per impedire sia la maturazione dei tre anni, sia di raggiungere il massimo dell´indennità. Ad ogni riassunzione si parte dal livello di anzianità di servizio raggiunto prima del licenziamento.
In un Paese con una classe imprenditoriale matura, che investe nella propria forza lavoro e che considera uno spreco di risorse un turn over troppo accentuato della propria forza lavoro, questo modello contrattuale apparirebbe ragionevole ed equilibrato. Le aziende, avendo un periodo di prova lungo in cui valutare, ma anche formare, chi hanno assunto, a meno che proprio non ne abbiano più bisogno per motivi economici e di mercato, se li terrebbero per non vanificare l´investimento fatto. Proprio i comportamenti delle imprese di questi anni inducono invece ad un po´ di pessimismo. Si pensi all´uso sfrenato che è stato fatto di ogni opportunità di utilizzo usa e getta della forza lavoro, anche di quella più qualificata, alla rincorsa che c´è stata alle forme contrattuali più precarie, al punto che in alcune zone oggi non si fa più neppure il contratto a tempo determinato, o stagionale, ma si utilizzano i buoni lavoro, che non richiedono nessun contratto. Il rischio è che i contratti unici a tempo indeterminato vengano utilizzati invece come contratti a tempo determinatissimo, cortissimo, con un turn over ancora maggiore di quello cui abbiamo assistito negli ultimi anni: invece di rinnovare brevi contratti a termine alle stesse persone faranno contratti unici che dureranno poco a persone sempre diverse.
Questo pessimismo non deve indurre ad abbandonare la strada del contratto unico. Piuttosto dovrebbe suggerire la necessità di introdurre di vincolo al rapporto tra numero di contratti rescissi e avviati nell´arco di un anno, oltre a qualche controllo su iniziative ben note di imprenditoria creativa, quali la scomposizione di una società in società diverse, in modo che i lavoratori licenziati da una possano essere riassunti da un´altra, figliata dalla prima, interrompendo ogni vincolo di continuità. È già successo per fruire di misure di fiscalità di vantaggio o di incentivi. Può succedere di nuovo per aggirare i vincoli del contratto unico. Se la creatività della classe imprenditoriale italiana si applicasse ai prodotti e ai processi produttivi con altrettanta intensità di quella sfoggiata nell´utilizzare le possibilità offerte dai contratti di lavoro per non investire nel capitale umano, forse avremmo minori problemi di competitività in Europa e nel mondo.

l’Unità 23.1.12
Paura, instabilità, futuro
Ecco la generazione 2.0 che si affaccia al voto
Ottimisti e attenti al «bene comune», ma già condizionati dalle prospettive di precarietà. Sono i ragazzi fra i 17 e i 21 anni che usano il web, comunicano con gli sms e temono di avere nella vita meno opportunità dei loro genitori
di Carlo Buttaroni
, presidente di Tecné

Ottimisti, attenti alle novità, positivamente orientati verso i diritti civili, la convivenza sociale e il bene comune. E naturalmente ipertecnologici. È questa la fotografia dei giovanissimi tra i 17 e i 21 anni. Nel complesso sono soddisfatti del proprio tenore di vita, ma allo stesso tempo, sono titubanti rispetto al futuro, anche perché un giovane su due ha paura di non trovare lavoro. Il 71% è convinto che valga la pena impegnarsi per valori come l’uguaglianza sociale e la solidarietà, piuttosto che puntare sui soldi e sul successo personale. Non si sentono rappresentati nella difesa dei loro diritti, se non parzialmente dai sindacati e dalle istituzioni. Nonostante questo non sono disattenti nei confronti della politica, che seguono prevalentemente attraverso internet o parlandone con gli amici. E, infatti tre giovani su quattro si collocano all’interno di un campo politico, anche se più della metà degli intervistati, se si trovasse davanti la scheda elettorale, non saprebbe quale partito votare.
È la generazione “2.0”, nata dopo la caduta del muro di Berlino, dopo il Caf, gli anni dell’edonismo e del rampantismo. Giovani cresciuti sotto il segno della globalizzazione, della comunicazione mobile, di internet di massa, delle classi multietniche. Bambini diventati adolescenti con le note del Grande fratello, i sentimenti compressi in pochi caratteri scritti sul display del cellulare, i sogni presi in prestito da una pubblicità che trasforma la realtà in videogioco.
Non hanno mai conosciuto la Prima Repubblica. E si sono formati interamente durante gli anni della Seconda. Nonostante questo non hanno mai avuto l’opportunità di eleggere un proprio rappresentante, esprimere un giudizio di merito sui governi che hanno tracciato il loro futuro, dare un indirizzo politico attraverso il voto. Apolidi nella società in cui hanno mosso i primi passi e sono cresciuti.
Troppo giovani per esprimere direttamente una rappresentanza e aver riconosciuto un ruolo. Troppo lontani dal cuore del sistema per dare qualcosa in cambio. Una generazione sulla quale nessuno ha investito nulla; non i politici, alla ricerca di consensi e voti; non le tv e i giornali, perché ci sono copie da vendere e obiettivi di audience da raggiungere; non gli uomini di economia e di azienda perché ci sono obiettivi di mercato da conservare; non gli intellettuali troppo distratti e appagati dai primi tre.
Saranno loro, nei prossimi anni, a pagare i costi di uno sviluppo che insieme all’aria, al suolo, alle risorse naturali, ha consumato quote del loro futuro. In eredità avranno molti debiti e poche certezze, se non quella di condizioni di vita peggiori dei loro padri. Non avranno in dote nemmeno la democrazia che abbiamo conosciuto, figlia dei grandi movimenti e delle grandi sfide del Novecento, ma una post-democrazia, dove i governi nazionali sono condizionati, nelle scelte di politica economica, da una finanza senza regole che distrugge quote di ricchezza reale e quote di democrazia sostanziale.
Vivono gli affanni della precarizzazione che si ripercuote sui progetti di vita. Una percezione che li spinge ad appiattirsi in un eterno presente, con il timore che ogni progetto possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente.
Paure che danno origine ad atteggiamenti che appaio contraddittori: da un lato, i giovani, sono portati ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall'altro sono disorientati e lo smarrimento li porta a vivere un’incertezza che appare come una rinuncia ai propri sogni. Una precarietà che si trasforma nella paura di vivere la vita reale, dando corpo a quella cultura del risparmio emotivo che sembra caratterizzare le loro relazioni. Anche perché, nel frattempo, l’io-ipertrofico che ha nutrito l’adolescenza della generazione “2.0” si è definitivamente ammalato, dopo essersi nutrito dei titoli tossici, del valore della conversione dell’etica in euro, dell’espansione verso nuovi mercati e nuovi individui.
Vivono l’assenza di valori, di mode propositive di costumi edificanti, immersi in una società nella quale predominano gli spazi grigi e la notte della coscienza. Seppur attraversati da nuove forme di coinvolgimento sociale e di partecipazione civile, sembra crescere in loro una nuova forma di malattia sociale: la malinconia.
Ecco allora che i buoni sentimenti si declinano in nuove e differenti attese: il senso di un’identità a cui appartenere e con cui riconoscersi, un “altrove” verso cui dirigersi. E l’assenza di risposte alle loro domande li spinge a gesti di esasperata esaltazione e a macabri rituali di devastazione, non più sostenuti da un modello familiare al cui interno, al posto dell’ascolto e della parola, si alternano distratte attenzioni e vuoti silenzi, occasionalmente compensati dall’ultimo modello di cellulare o dall’automobile lanciata a folle velocità.
I progetti di vita individuali non appaiono più sufficienti a restituire significato al senso di vuoto che avvolge i loro destini, ma è proprio da qui, dal sentirsi animati da un peso così poco sostenibile, che affiora un sentimento per un cambio di prospettiva verso un nuovo ordine di valori e di riferimenti. Reclamano parole sulla vita che viene avanti, risposte che indichino quale sia la via da percorrere, una visione e un agire che restituiscano senso all’intera società.
Dalle istanze che avanzano traspare l'esigenza di affermare una nuova identità, in un percorso reso difficile dal fatto ciò che era prima e i valori in cui si credeva sono messi continuamente in discussione. A tutto ciò si reagisce con atteggiamenti di vera e propria inedita conflittualità, un distacco che si colora anche di insofferenza, quando non addirittura di ostilità in un crescendo di contenuti e toni quanto più si accompagna a reciproci disconoscimenti e incomprensioni.
Andranno alle urne per la prima volta per un’elezione nazionale, l’anno prossimo, avendo maturato i pieni diritti politici. Nel frattempo lo scenario all’interno del quale sono cresciuti è cambiato. È calato il sipario sulla Seconda Repubblica e il Paese vive i fermenti e le tensioni che precedono l’entrata in scena della Terza.
La “generazione due punto zero” vive l’ansia di un credito di fiducia mai pienamente accordato. Esprime una domanda di rinnovamento e di riscatto, attende ma non si affida, ha bisogno di strumenti reali per creare e nuovi luoghi dove produrre, per dare vita a un nuovo patto che permetta ai giovani, di conoscersi, capirsi, collaborare, integrarsi reciprocamente, senza omologazioni e senza perdite d’identità.

La Stampa 23.1.12
Due ragioni per essere ottimisti
di Luca Ricolfi


Con il decreto-legge sulle liberalizzazioni, che il governo preferisce chiamare «pacchetto di riforme strutturali per la crescita», è ufficialmente iniziata la «fase 2» del governo Monti, volta a far ripartire l’economia italiana. Nel giudicare l’efficacia delle misure fin qui delineate, tuttavia, sarebbe bene distinguere nettamente fra effetti a breve termine ed effetti di periodo medio-lungo.
Nel breve periodo sarebbe sbagliato aspettarsi grandi risultati. La realtà, purtroppo, è che la «fase 1» (la manovra di fine anno), con le sue pochissime riduzioni di spesa e i suoi moltissimi aumenti di entrata, ha avuto un impianto fortemente recessivo. Il che significa, in concreto, che le misure della «fase 2», più che far ripartire la crescita, si limiteranno ad attenuare la recessione preparata dalla «fase 1».
Altrettanto sbagliato, tuttavia, sarebbe non vedere la straordinaria opportunità che le misure delineate nel decreto-legge di venerdì scorso offrono all’Italia nel periodo medio e lungo. Se quelle misure non saranno abbandonate o annacquate dal parlamento, e diventeranno invece il primo tassello di una strategia di scongelamento del sistema Italia, i loro frutti potrebbero essere generosi, anche se – realisticamente – credo sarà difficile raccoglierli prima di 2-3 anni.
Che cosa mi induce, contrariamente al mio solito, a un sia pure cauto ottimismo?
Essenzialmente due considerazioni. La prima è che, nonostante le previsioni di crescita dell’Italia nel 2012 si siano ancora deteriorate nelle ultime settimane, passando da –0.5% a –2.2%, il rendimento dei nostri titoli di Stato ha finalmente cominciato a scendere, non solo nel confronto con la Germania, ma anche in quello con paesi europei a noi più comparabili, come la Spagna, la Francia, il Belgio. Da circa due settimane lo spread italiano non si limita a beneficiare della boccata di ossigeno che i mercati stanno concedendo a diversi Paesi dell’area Euro, ma sta migliorando la sua posizione relativa rispetto a diversi paesi. Se anziché calcolare lo spread (rispetto alla Germania) calcoliamo lo «spread dello spread», ossia il nostro grado di penalizzazione rispetto alla media di Spagna, Francia e Belgio, non possiamo non registrare con soddisfazione che nelle ultime due settimane la nostra situazione è migliorata di 54 punti base, che salgono a 76 se il confronto è con la sola Spagna, un Paese rispetto al quale, fino a pochissimo tempo fa, eravamo invece in costante peggioramento. È difficile stabilire con certezza a che cosa si debba questa sorta di inversione del giudizio dei mercati, ma è difficile negare che gli ultimi segnali siano relativamente confortanti: la situazione è sempre gravissima (paghiamo oltre 4,3 punti di interesse più della Germania), ma il trend delle ultime due settimane è decisamente incoraggiante.
C’è anche un’altra considerazione che mi rende meno scettico del solito. Il decreto sulle liberalizzazioni, proprio perché è incompleto, pieno di limiti e di omissioni, offre a tutti gli attori in campo, e innanzitutto ai partiti, la possibilità di scegliere fra due strategie: prendere le distanze dal decreto perché si spinge troppo in là, facendo molto di più di quanto centrosinistra e centrodestra hanno saputo fare negli ultimi 15 anni, oppure andare oltre il decreto, combattere perché lo spettro delle liberalizzazioni sia più completo. Ferrovie, porti, aeroporti, mercato del lavoro, valore legale del titolo di studio, per fare solo qualche esempio, sono tutti ambiti su cui il decreto interviene poco o niente, e che invece meriterebbero di essere investiti da ulteriori ondate di liberalizzazioni.
Il presidente del Consiglio, con la sua dichiarazione di ieri sulla non intangibilità dell’articolo 18, sembra più che mai determinato ad andare avanti nella sfida delle liberalizzazioni, senza cedere alla retorica degli «opposti distinguo», secondo cui «questo si deve fare, quest’altro non è una priorità».
Più difficile è valutare le strategie di Pd e Pdl. Il Pd, almeno a parole, sembra criticare il governo perché non liberalizza abbastanza. Il Pdl, invece, sembra preoccupato che si liberalizzi troppo. Ma entrambi potrebbero scambiarsi i ruoli non appena si parlerà di mercato del lavoro e di articolo 18, con Bersani pronto ad isolare i riformisti à la Pietro Ichino, e Berlusconi tentato di sostenere una riforma radicale del mercato del lavoro.
Vedremo come andrà a finire. Però fin da ora almeno una cosa possiamo dirla. Il peggio per l’Italia sarebbe che i due maggiori partiti cercassero di riconquistare consensi cavalcando il malcontento delle rispettive basi sociali, con Berlusconi che soffia sul fuoco della protesta di taxisti e professionisti, e Bersani che legittima le resistenze sindacali a una riforma vera del mercato del lavoro. Il meglio per l’Italia sarebbe che Monti portasse fino in fondo la strategia delle liberalizzazioni, e i due maggiori partiti raccogliessero la sfida, pungolando il governo a fare di più e non di meno di quello che sta facendo.
Detto in modo più brutale, il peggio per l’Italia sarebbe che Pd e Pdl cercassero di arrivare alle elezioni con l’intento di cambiare nettamente rotta rispetto al governo Monti, interrompendo un’azione che ha disturbato troppi interessi. Mentre il meglio sarebbe che cercassero di arrivare alle elezioni competendo fra loro per portare il più avanti possibile un’opera che ha dovuto attendere la nascita di un governo di professori per essere avviata, ma che alla fine toccherà alla politica portare a termine.

Corriere della Sera 23.1.12
Politica spenta e terza élite
di Giuseppe De Rita


Fra aggiustamenti di convenienza e borbottii malmostosi, le prime settimane di lavoro del «governo dei tecnici» non hanno visto emergere una pacata riflessione sulle ragioni e sugli esiti dell'affidamento a una stretta cerchia elitaria del fronteggiamento della grave crisi che stiamo attraversando.
Forse non è inutile, avviando tale riflessione, rammentare che questa è la terza volta che nella storia repubblicana la dimensione tecnica assume potere e primato sociopolitico. La prima volta fu nell'immediato dopoguerra quando alcuni «tecnici» cresciuti all'ombra di Beneduce (i Menichella, i Saraceno, i Mattioli, i Cuccia) disegnarono sotto traccia significativi programmi di rilancio dell'industria, di liberalizzazione degli scambi internazionali, di sviluppo del Mezzogiorno. Non governarono direttamente perché la politica era allora ben forte e radicata; e perché furono così intelligenti da non sovrapporre la loro cultura e il loro potere ai partiti, che si sentirono così protagonisti della ricostruzione prima e del boom economico poi.
La seconda apparizione della dimensione tecnica nel governo del Paese avvenne nella tanto ricordata crisi del '92-95 sotto la guida di protagonisti decisamente elitari (Amato e Ciampi, e poi Dini) che riuscirono a mettere al governo personaggi altrettanto elitari, da Savona a Maccanico a Guarino a Baratta, solo per fare gli esempi che tornano più facilmente alla memoria. Erano diversi dai «beneduciani» del dopoguerra, ma furono altrettanto decisi nell'affrontare le enormi difficoltà di quel periodo; ed altrettanto discreti (con la raffinatezza un po' occulta dei normalisti pisani) rispetto alla dialettica politica. Ma specialmente essi si qualificarono giuocando la loro forza e il loro prestigio nel perseguire un disegno di futuro: far crescere il processo di unificazione europea (parametri di Maastricht e moneta unica compresi). Nessuno di loro però si rese conto che quel processo andava gestito sia nel governo dell'Europa, per ovviare al vuoto spinto degli organismi comunitari, sia nella gestione delle cose italiane per contrastare il vuoto altrettanto spinto della cosiddetta Seconda Repubblica e del berlusconismo.
È dal contemporaneo non-governo delle vicende europee e delle vicende italiane che nasce la crisi che attraversiamo da qualche mese, crisi che è insieme europea e italiana, quale che siano le reciproche attribuzioni di colpa. L'Europa è fragilissima e l'Italia è sempre più eterodiretta; ed allora ritorna alla ribalta la dimensione tecnica, con una terza stagione elitaria. La compagine è più eterogenea delle due precedenti (l'aggettivazione «bocconiana» le sta stretta visto il peso di alcuni leader cattolici e di alcuni alti burocrati); ma il mandato è praticamente lo stesso: fronteggiare un potenziale disastro («salva Italia») e impostare un possibile futuro («cresci Italia»).
Tale coincidenza, però, non permette di fare previsioni sul destino dell'attuale «terza élite». È possibile pensare che i suoi protagonisti, come fecero i «beneduciani», possano tornare nei riservati luoghi di potere da cui erano usciti; oppure che essi, come i protagonisti della seconda élite, vadano a presidiare luoghi di istituzionale prestigio; oppure che si trapiantino in qualcuna delle forze politiche e parlamentari oggi in via di ridisegno; o che diventino essi stessi, in forme oggi non prevedibili, una componente politica autonoma e competitiva.
Ognuna di queste ipotesi è verosimile, ma la loro attualizzazione dipende da due condizioni fondamentali: la consistenza dello spazio che i protagonisti politici concederanno alla terza élite; e la capacità di essa di restare una entità unitaria. Per la prima condizione, se da un lato si può constatare una dinamica delle forze partitiche molto più povera che sessanta o venti anni fa e quindi la possibilità che si possa creare uno spazio vuoto invitante e tentatore per chi nella terza élite voglia far politica; dall'altro lato è certo che un giorno o l'altro si ritroveranno in campo l'istinto e la voglia di sopravvivenza di una classe politica che può accettare una supplenza temporanea ma non una sostituzione di lungo periodo.
I prossimi mesi ci daranno qualche risposta, anche per la seconda condizione, quella relativa alle strategie della attuale compagine di governo, che è forte nella sua immagine di vertice (in termini di serietà, competenza, ironia, determinazione) ma potrebbe esprimere due debolezze sostanziali: la prima, e più profonda, sta nel fatto che essa non ha per ora espresso un traguardo futuro preciso nei contenuti e coinvolgente per l'emozione collettiva («cresci Italia» è più labile del mito dello sviluppo degli anni 50 e della utopia europea degli anni 90); e l'altra debolezza sta nel carattere composito dell'élite attuale, nella quale a medio termine ci saranno ambizioni diversificate (fare un partito, magari cattolico; sviluppare grande leadership europea; consolidare un ruolo politico nazionale; restare come mitici salvatori della patria; ed altro ancora) e quindi diversificate strategie individuali o di piccolo gruppo. Anche per la terza élite come per tutti noi, il futuro non presenta scelte e vie facili, ma essa non ha la possibilità di sottrarsi ad esse; ne va la sua stessa legittimazione di élite.

Repubblica 23.1.12
Semplificare senza sacrifici
di Stefano Rodotà


Vi sono due punti nel decreto sulle liberalizzazioni che meritano d´essere sottolineati per il loro notevole significato di principio. Il primo riguarda l´eliminazione della norma che, vietando ai Comuni di costituire aziende speciali per la gestione del servizio idrico, contrastava visibilmente con il risultato del referendum sull´acqua come bene comune.
Abbandonando questa via pericolosa e illegittima, il governo non ha ceduto ad alcuna pressione corporativa ma ha fatto il suo dovere, rispettando la volontà di 27 milioni di cittadini. Certo, la costruzione degli strumenti istituzionali necessari per dare concretezza alla categoria dei beni comuni incontrerà altri ostacoli nel modo in cui lo stesso decreto disciplina nel loro insieme i servizi pubblici. Ma il disconoscimento di una volontà formalmente manifestata con un voto avrebbe gravemente pregiudicato il già precario rapporto tra cittadini e istituzioni, inducendo ancor di più le persone a dubitare dell´utilità di impegnarsi nella politica usando tutti i mezzi costituzionalmente legittimi. Vale la pena di aggiungere che questa scelta può essere valutata considerando anche l´annuncio del ministro Passera relativo all´assegnazione delle frequenze, da lui definite nella conferenza stampa come "beni pubblici" di cui, dunque, non si può disporre nell´interesse esclusivo di ben individuati interessi privati. Senza voler sopravvalutare segnali ancora deboli, si può dire che il ricco, variegato e combattivo movimento per i beni comuni non solo ha riportato una piccola, importante vittoria, ma ha trovato una legittimazione ulteriore per proseguire nella sua azione.
Questa associazione tra acqua e frequenze non è arbitraria, poiché la ritroviamo nelle proposte della Commissione ministeriale sulla riforma dei beni pubblici. Si dovrebbe sperare che i partiti non continuino soltanto a fare da spettatori alle gesta del governo, ma comincino a rendersi conto delle loro specifiche responsabilità. Tra queste, oggi, vi è proprio quella che riguarda una nuova disciplina dei beni, per la quale già sono state presentate proposte in Parlamento, e che è indispensabile perché le categorie dei beni corrispondano a una realtà economica e sociale lontanissima da quella che, sessant´anni fa, costituiva il riferimento del codice civile. Se questa riforma fosse stata già realizzata, non sarebbe stata possibile la vergogna del "beauty contest" sulle frequenze. E ci risparmieremmo molte delle approssimazioni su una via italiana al risanamento che contempli massicce dismissioni di beni pubblici, quasi che la loro vocazione sia solo quella di far cassa e non la realizzazione di specifiche finalità che le istituzioni pubbliche non possono abbandonare.
Tutt´altra aria si respira quando si considera l´articolo 1 del decreto. Qui non si trova uno dei soliti inutili e fumosi prologhi in cielo che caratterizzano molte leggi. Si fanno, invece, tre inquietanti operazioni: si prevede l´abrogazione di una serie indeterminata di norme, affidandosi a indicazioni assai generiche, che attribuiscono al governo una ampiezza di poteri tale da poter sconfinare quasi nell´arbitrio; si impongono criteri interpretativi altrettanto indeterminati e arbitrari; soprattutto si reinterpreta l´articolo 41 della Costituzione in modo da negare gli equilibri costituzionali lì nitidamente definiti. L´obiettivo dichiarato è quello di liberalizzare le attività economiche e ridurre gli oneri amministrativi sulle imprese. Ma la via imboccata è quella di una strisciante revisione costituzionale, secondo una logica assai vicina a quella di tremontiana memoria, poi affidata a uno sciagurato disegno di legge costituzionale sulla modifica dell´articolo 41, ora fortunatamente fermo in Parlamento.
Indico sinteticamente le ragioni del mio giudizio critico. Le norme da abrogare vengono individuate parlando di limiti all´attività economica "non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l´ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità"; e di divieti che, tra l´altro, "pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate". Tutte le altre norme devono essere "interpretate e applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato rispetto alle perseguite finalità di interesse pubblico generale". Non v´è bisogno d´essere giurista per rendersi conto di quanti siano i problemi legati a questo modo di scrivere le norme. Non è ammissibile che l´"interesse pubblico generale" sia identificato con il solo principio di concorrenza, in palese contrasto con quanto è scritto nell´articolo 41. Il sovrapporsi di diversi soggetti nella definizione complessiva delle nuove regole può creare situazioni di incertezza e di conflitto. Il bisogno di semplificazione e di cancellazione di inutili appesantimenti burocratici non può giustificare il riduzionismo economico, che rischia di sacrificare diritti fondamentali considerati dalla Costituzione irriducibili alla logica di mercato. Si pretende di imporre i criteri da seguire nell´interpretazione di tutte le norme in materia: ma le leggi si interpretano per quello che sono, per il modo in cui si collocano in un complessivo sistema giuridico, che non può essere destabilizzato da mosse autoritarie, dall´inammissibile pretesa di un governo di obbligare gli interpreti a conformarsi alle sue valutazioni o preferenze. In anni recenti, si è dovuta respingere più d´una volta questa pretesa, che altera gli equilibri tra i poteri dello Stato.
L´operazione, di chiara impronta ideologica, è dunque tecnicamente mal costruita dal governo dei tecnici. Ma, soprattutto, deve essere rifiutata perché vuole imporre una modifica dell´articolo 41 della Costituzione, attribuendo valore assolutamente preminente all´iniziativa economica privata e degradando a meri criteri interpretativi i riferimenti costituzionali alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Questo capovolgimento della scala dei valori è inammissibile. Un mutamento così radicale non è nella disponibilità del legislatore ordinario, e dubito che possa essere oggetto della stessa revisione costituzionale. Quando sono implicate libertà e dignità, siamo di fronte a quei "principi supremi" dell´ordinamento che, fin dal 1988, la Corte costituzionale ha detto che non possono "essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale". Certo, invocando una qualsiasi emergenza, questo può concretamente avvenire. Allora, però, si è di fronte ad un mutamento di regime. Se ancora sopravvive un po´ di spirito costituzionale, su questo inizio del decreto, e non nella difesa di questa o quella corporazione, dovrebbe esercitarsi il potere emendativo del Parlamento.

La Stampa 23.1.12
Esecutivo diviso sull’abolizione del valore legale della laurea
Contrari il ministro Cancellieri e i sindacati dei docenti
di Flavia Amabile


ROMA Se dipendesse solo da lui, per Mario Monti il valore legale del titolo di studio sarebbe già superato. Non tutti all’interno del governo però sono d’accordo e ancora una volta un esecutivo si divide su una questione che da anni è sul tavolo dei ministri dell’Istruzione. Dove però è rimasta, almeno finora. Durante le oltre otto ore di consiglio dei ministri di venerdì scorso se n’è parlato di nuovo quando si è deciso di cambiare le norme sull’accesso dei giovani all’esercizio delle professioni e prevedere la possibilità di svolgere i primi sei mesi di tirocinio già durante la laurea. Monti sarebbe andato oltre, avrebbe rotto gli indugi e agito subito. Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, invece, si è opposta, e il ministro della Giustizia Paola Severino ha chiesto gradualità. Ne è nato un lungo dibattito che ha impedito di arrivare ad una soluzione ma ormai l’argomento è fra quelli in discussione e se ne parlerà ancora. Forse un provvedimento potrebbe arrivare già nel prossimo consiglio dei ministri se la fazione pro-abolizione dovesse spuntarla visto che ha fans trasversali e diffusi dal Pdl, alla Lega, al Pd, la Confindustria, la Crui dei rettori italiani, e persino tra i grillini come risulta a ripercorrere indietro il successo del tema fino all’ultima indagine conoscitiva in Senato avviata la scorsa primavera.
La novità a cui si sta lavorando in queste ore prevede un intervento nei criteri di selezione utilizzati nei concorsi pubblici. Dovrebbe cadere il vincolo per il tipo di laurea, fatta eccezione per i settori in cui siano necessarie competenze tecniche specifiche. Il laureato in Lettere potrebbe diventare dirigente di un ente pubblico, purché dimostri di essere in grado di superare brillantemente il concorso, e quindi però dovrebbero anche esserci concorsi in futuro, visto che da tempo non ce n’è traccia. Nemmeno il voto di laurea dovrebbe più avere un peso nella selezione ma diventerebbe importante l’ateneo dove ci si è laureati. E, quindi, un titolo conquistato anche a pieni voti nell’università X non avrebbe valore mentre lo avrebbe un titolo conquistato anche con una valutazione non brillante in un’altra università che abbia requisiti particolari che molto probabilmente verranno definiti sulla base dei parametri individuati dall’Anvur, l’Agenzia per la valutazione a cui il governo Monti proprio venerdì scorso ha attribuito i compiti di certificazione della qualità dei corsi e delle sedi universitarie, una sorta di bollino per far capire dove si studia meglio.
Contrari i sindacati dei docenti, dall’Andu alla Flc-Cgil, la Cisl, la Uil, ma anche la Rete 29 Aprile e le associazioni di base. Consideriamo il mantenimento del valore legale del titolo di studio un dato centrale del sistema universitario italiano e paventiamo che la sua abolizione possa incrementare le diseguaglianze sociali ed economiche».
Scandalizzato il Pdci. Riccardo Messina: «Una norma classista, discriminatoria e da un forte retrogusto leghista. Se questo principio venisse approvato, ci sarebbe milioni di studenti tagliati fuori dalla possibilità di diventare classe dirigente di questo paese solo perché senza risorse economiche o perché nati in zone disagiate».

Corriere della Sera 23.1.12
I dubbi dei rettori sul «federalismo» delle lauree
di Lorenzo Salvia


ROMA — «Una cosa è dare il giusto valore alle cose, un'altra eliminarlo del tutto». Enrico Decleva, rettore della Statale di Milano, ha qualche dubbio sugli interventi allo studio del governo per le università. Le ipotesi sono due. La prima è l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Se ne parla da anni, Luigi Einaudi ci scrisse un libro, ma cosa vuol dire davvero?
La laurea presa a Milano e quella presa Roma non avrebbero più lo stesso valore per legge ma sarebbe la reputazione delle due università a fare la differenza. Il piano «B» va nella stessa direzione ma in modo soft perché eliminerebbe il voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici. Il ragionamento di fondo è lo stesso: ci sono università buone e altre meno buone, un 110 non ha lo stesso valore se viene preso in un ateneo di tradizione o in una delle tanti sedi distaccate germogliate negli ultimi anni. E allora, pensa il governo, meglio eliminare quella eguaglianza prevista oggi per legge nel settore pubblico. Anche il rettore della Sapienza di Roma, Luigi Frati, ha molti dubbi: «In alcune aree, come per i medici e gli architetti, è impossibile perché il valore legale è previsto da norme europee. Ma poi, scusate, non è che così diamo mani libere alla politica che ha l'antico vizietto di mettere le mani sulle assunzioni nel pubblico?». Ma non è sbagliato che chi si laurea in una pessima università, dove prendono tutti la lode, sia alla pari di chi ha faticato in un buon ateneo e si è dovuto accontentare di un 100? «Sì, ma allora è meglio stringere i rapporti con il mondo del lavoro. Noi alla Sapienza abbiamo un accordo per far fare in azienda una parte della tesi. E l'imprenditore uno studente mediocre non lo vuole mica». Il suo collega milanese Decleva, però, vede una prospettiva: «Non buttiamo via il bambino con l'acqua sporca o almeno prima mettiamoci un po' di detergente». Il detergente? «Se eliminiamo il valore legale dobbiamo avere un altro strumento per capire quali sono i corsi buoni e quelli meno buoni. Per questo un anno fa è nata l'Anvur ma credo abbia ancora molta strada da fare». Quanto sia lunga lo chiediamo a Stefano Fantoni che dell'Anvur (Agenzia per la valutazione del sistema universitario) è il presidente: «Dal prossimo anno accademico saremo in grado di fare una prima valutazione dei singoli corsi. Ogni corso dovrà essere accreditato e non diremo un sì o un no secco ma esprimeremo un giudizio». Basterà questo per sostituire il valore legale? «Non lo so, la decisione spetta alla politica. Per arrivare a una valutazione completa dei singoli corsi e delle singole università avremo bisogno di più tempo». Si può fare, allora?
Salvatore Settis è stato per anni direttore della Normale di Pisa, uno dei simboli dell'eccellenza italiana, ma è proprio alla base della piramide che rivolge il suo sguardo: «In linea di principio sarebbe una buona cosa ma c'è il rischio di concentrare le risorse sulle università migliori emarginando tutte la altre. E questo vorrebbe dire introdurre un meccanismo di diseguaglianza tra i cittadini che si possono permettere quelle università e tutti gli altri. Ci vorrebbe un piano straordinario di borse di studio. Ma con questa crisi sarà possibile?».

l’Unità 23.1.12
Ecco i Paesi in guerra con le pistole che parlano italiano
Le nostre esportazioni di armi leggere in Stati soggetti a embargo internazionale o teatro di conflitti sono cresciute del 10%. Un affare di oltre 1 miliardo l’anno
tra Congo, Iran, Afghanistan, Yemen e altri. Il rapporto 2011 dell’Archivio disarmo
di Umberto De Giovannangeli


Commerciare armi non è di per sé un reato né un peccato. Ma la questione si fa politica, oltre che etica, quando questo commercio s’indirizza verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi e verso Paesi in cui ci sono conflitti o documentate violazioni dei diritti umani. È quanto emerge dal nuovo Rapporto 2011 dell’Istituto di Ricerche Archivio Disarmo che, facendo seguito ai precedenti rapporti sulle esportazioni di armi leggere italiane leggere ad uso civile, segnala un forte incremento sulle vendite. Nel biennio 2009-2010 l’Italia ha esportato complessivamente oltre un miliardo di euro (1.024.275.398) in armi leggere ad uso civile, precisamente 471.368.727 nel 2009 e 552.906.626 nel 2010 con un aumento di circa il 10% rispetto al biennio precedente. In particolare tra il 2009 e il 2010 la crescita si attesta a circa il 17%.
La ricerca dell’Archivio Disarmo su fonte Istat evidenzia che le esportazioni sono per la maggior parte dirette verso Usa e Paesi dell’Ue. Ma l’aumento più significativo per valore è sicuramente rappresentato dall’Asia passata dall’importazione di circa 28 milioni di euro nel biennio 2007 2008 ad oltre 142 milioni. L’Italia ha esportato armi comuni da sparo anche nel continente africano e nel Medio Oriente dove la situazione di molti Paesi, già critica negli anni passati, nel periodo recente è esplosa con l’ondata rivoluzionaria che ha portato al capovolgimento dei sistemi politici e centinaia di morti e feriti.Emerge l’esportazione verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi (Cina, Libano, Congo, Iran, Armenia e Azerbaijan) e verso Paesi in cui sono in atto conflitti e in cui si riscontrano gravi violazioni dei diritti umani (la Federazione Russa, la Thailandia, le Filippine, il Pakistan, l’India, l’Afghanistan, la Colombia, Israele, Congo, Kenya, Filippine ecc.). In particolare dalla ricerca emergono alcuni casi di esportazioni a Paesi in conflitto e dove avvengono gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani.
L’Italia ha esportato armi da fuoco in tutta i Paesi nordafricani interessati quest’anno dalla Primavera araba: l’Egitto, la Tunisia e in particolare la Libia che ha ricevuto oltre 8,4 milioni di euro, totalmente rappresentate da pistole e carabine Beretta e fucili Benelli finite nelle mani del settore di Pubblica Sicurezza del Comitato Popolare Generale (l’istituzione di governo libica), col rischio che possano essere state utilizzate per la repressione in atto negli ultimi mesi. Sono state fornite armi, proiettili ed equipaggiamento militare e di polizia usati per uccidere, ferire e imprigionare arbitrariamente migliaia di manifestanti pacifici in Paesi come la Libia, la Tunisia e l’Egitto e tuttora utilizzati dalle forze di sicurezza in Yemen.
Lo Yemen ha importato dall’Italia una cifra pari a 487.119 euro di armi e oggi versa in una situazione di conflitto che ha provocato centinaia di morti; la dura repressione del governo, nei confronti delle manifestazioni popolari verificatesi a sud del Paese, ha causato molte vittime tra manifestanti e civili. Destano gravi dubbi, per la possibilità che siano usate per compiere violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani, le esportazioni di armi nell’Africa Sub-Sahariana in: Congo (Brazaville), Kenya e verso la Repubblica Democratica del Congo verso cui sono state esportate munizioni per un valore di 81.152 euro malgrado l’embargo di Ue e Onu in vigore dal 1993; nel conflitto tra le vittime si annoverano numerosi civili e gli attacchi indiscriminati da parte di tutte le forze in campo, anche verso la popolazione civile, stanno creando un popolo di sfollati e rifugiati.
La Cina, tra il 2009 e il 2010 ha acquistato dall’Italia armi civili, munizioni ed esplosivi per un valore di oltre 3 milioni, in violazione dell’embargo, imposto dal Consiglio europeo nel 1989 in seguito ai fatti di Piazza Tienanmen, che mira proprio a tutelare i diritti umani. L’Honduras è stato teatro di un conflitto interno durante il 2009 e nella regione dell’Agùan è stato imposto uno schieramento militare permanente a causa delle manifestazioni dei contadini contro aziende agricole private che spesso sono sfociate in episodi di violenza. L’Italia ha esportato verso il Paese più di 600 mila euro di materiali rappresentati da pistole, fucili e loro parti ed accessori.
Dallo studio emergono le contraddizioni derivanti dal fatto che le procedure e i divieti previsti per le armi comuni da sparo (previste dalla legge 110/75) sono diverse dal quelle previste dalla legge 185/90 che si occupa dei trasferimenti di armi ad uso militare, una tra le discipline più avanzate a livello internazionale. Spesso attraverso vendite legali si passa poi a successive forniture a soggetti che di questi strumenti fanno un uso non consentito, finendo per armare anche la delinquenza organizzata, formazioni terroristiche, bande paramilitari ecc.
Come avviene già a livello europeo, ancora una volta appare necessario considerare, per i controlli sulle esportazioni, le armi comuni da sparo alla stregua delle armi leggere ad uso militare alla luce dell’ormai accertata pericolosità della loro presenza soprattutto nei numerosi scenari di conflitto che costellano i cinque continenti; conflitti in cui le armi, dalle più piccole alle più sofisticate, contribuiscono alla radicalizzazione della violenza e delle condizioni post-conflittuali con impatti devastanti sulle popolazioni.
Nota bene: secondo i principi definiti dalla legge 185/90, l’Italia non può trasferire materiali di armamento in Paesi in stato di conflitto armato, in Paesi che conducono una politica estera aggressiva e propensa all’uso della forza, in Paesi sottoposti ad embargo deciso dalle Onu e Ue, in Paesi cui governi sono responsabili di accertate gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani o qualora vi sia in rischio di «triangolazioni». Le autorizzazioni all’esportazione sono coordinate dal ministero degli Esteri e dal ministero della Difesa.

Corriere Economia 23.1.12
Piazza Affari Tutti i treni italiani per andare a Pechino
Campari, Tod's, Luxottica, StM, Ferragamo, Saipem, Tenaris: le società più favorite dalle ultime sorprese di crescita cinese
di Adriano Barrì


La Cina è vicina. Anche a Piazza Affari. L'ufficio nazionale di statistica di Pechino ha stimato per l'ultimo quarto del 2011 un incremento del Pil nell'ordine dell'8,9% in rallentamento rispetto al +9,1% del trimestre precedente, ma oltre le previsioni degli economisti. Un risultato che ha sorpreso anche gli investitori riaccendendo le speranza sulla tenuta del ciclo economico mondiale e quindi dei profitti aziendali.
Caccia
E in un mercato alla ricerca di opportunità e occasioni da sfruttare, ecco che gli investitori si sono messi a caccia delle società più esposte all'economia cinese o in generale a tutta l'area asiatica. In Piazza Affari la pattuglia delle società China-sensitive è abbastanza nutrita, considerato che l'Italia è un Paese produttore ed esportatore di beni molto apprezzati soprattutto nei mercati emergenti. Le buone notizie provenienti dall'Est fanno bene soprattutto a Ferragamo, Tod's, Luxottica, STMicroelectronics, Saes Getters e alle società dell'energia come Saipem e Tenaris. Meno interessate, ma pur sempre legate al ciclo cinese, sono invece Ansaldo STS, Campari, Pirelli e Fiat Industrial.
«Di fronte a un progressivo peggioramento delle prospettive dell'economia in Italia ed Europa — spiega Marco Paolucci amministratore delegato di Luxgest am —, è quanto mai opportuno diversificare il proprio portafoglio in società che offrono maggiori possibilità di difesa grazie alla presenza in un mercato dove il ciclo continua ad essere espansivo. Ma esistono anche aziende italiane che, pur non direttamente presenti sul mercato, traggono comunque un beneficio». Pensiamo ad esempio al prezzo del petrolio che viene sostenuto proprio dai consumi cinesi. Saipem è uno di questi beneficiari indiretti, in quanto continua ad essere vantaggioso investire su impianti in acque profonde. Stessa cosa per Tenaris che rientra tra gli operatori del settore fornendo la propria tecnologia.
Lista
CorrierEconomia ha messo in rassegna le società di Piazza Affari che, a gradi diversi, sono esposte alla domanda di beni e servizi proveniente dall'Asia. I risultati mettono in evidenza una situazione molto eterogenea. Scontata la presenza delle maison del lusso come Tod's, Ferragamo che in Asia crescono costantemente con tassi a due cifre. Luxottica è invece ancora poco presente ad Est, ma sta crescendo rapidamente grazie al forte aumento della domanda di accessori di lusso. Buone prospettive anche per Poltrona Frau, tra i leader mondiali nella pelletteria per la casa. Secondo Mauro Vicini, direttore di Websim.it, «l'Asia rappresenta il 15% circa del fatturato dell'area residenziale dove nel corso del 2011 il gruppo ha annunciato di avere registrato una crescita superiore al 20%. E all'interno di questo segmento la Cina ha fatto addirittura meglio». Su Poltrona Frau l'ufficio studi di Websim.it ha una raccomandazione «interessante» con un target di 1,40 euro. Buone opportunità anche per Pirelli e Campari. La società della famiglia Tronchetti Provera non vanta ancora una presenza significativa in Asia ma, spiega Paolucci, «le prospettive sono molto rosee. La domanda di auto sportive e di lusso in Cina è fortissima. Pirelli è leader nel segmento gomme ad alte prestazioni e nel secondo equipaggiamento. Per cui è lecito attendersi che nei prossimi anni il gruppo porterà a casa dei significativi benefici».
Una scommessa più di lungo periodo è invece quella che si può fare su Fiat Industrial. «La società del Lingotto — continua Vicini — è pronta ad aggredire, attraverso il marchio Cnh, il mercato agricolo cinese non appena gli operatori del locali inizieranno a investire sul rinnovamento del parco macchine e tecnologico». Una scommessa di medio periodo che non ha ancora convinto gli analisti di Websim.it (giudizio neutrale).

Corriere della Sera 23.1.12
La musa segreta di Montale
«Cara Edith, ti voglio bene»: le lettere alla traduttrice americana
di Paolo Di Stefano


U ltime notizie dal pianeta Montale. A quelle di Esterina, Gerti, Liuba, Dora, Clizia, Mosca, Volpe e altre muse già note, bisognerà aggiungere una nuova voce, minore, certo, ma finora ignota. È quella di una signora americana che si chiamava Edith Farnsworth. Come spesso accade per Montale, le presenze femminili incontrate in vita diventano ispiratrici, figure, angeli o fantasmi poetici. Poche notizie biografiche sulla Farnsworth: nata a Chicago nel 1903, laureatasi nella sua città in letteratura inglese e creative writing, diplomatasi al conservatorio in violino e teoria della musica, seconda laurea in medicina, prestigiosa carriera come nefrologa, amante dell'Italia, dove impara la lingua negli anni Venti per perfezionarla quando decide di stabilirsi definitivamente a Bagno a Ripoli, nel 1967. È lì, in Toscana, che si dedica a un'altra sua passione, la traduzione in inglese della poesia italiana. Attività testimoniata da tre volumi pubblicati tra il 1969 e il 1976 con le versioni di Eugenio Montale, di Albino Pierro e di Salvatore Quasimodo.
Con la Farnsworth si propone per il vecchio Montale una situazione analoga a quella che il poeta aveva sperimentato anni prima a Firenze: nell'estate 1933, quando una giovane italianista americana, Irma Brandeis, aveva voluto conoscerlo. Era la futura Clizia delle Occasioni, che una mattina andò a trovarlo al Gabinetto Vieusseux: ne sarebbe nato un amore difficile, pieno di promesse e delusioni. Edith è meno intraprendente di Irma e decide di rivolgersi a conoscenze comuni. L'incontro viene ricostruito da Marco Sonzogni nel saggio «Un'"apparizione meravigliosa, quasi inverosimile": tracce di musa nei versi di In un giardino italiano», apparso nella rivista «Studi d'italianistica nell'Africa Australe». Sonzogni ha reperito, tra le carte della Farnsworth, una lettera non datata di Elena Croce, figlia del filosofo, che sta all'origine della conoscenza tra il poeta e la traduttrice: siamo nel 1968 e la Croce presenta l'«amica» a Montale (che di lei «già sa») come «una donna molto intelligente» («dico proprio molto — perché non è una cosa di tutti i giorni»), che «parla e scrive un eccellentissimo inglese New England, e le sue traduzioni hanno un grande fascino». Siccome Edith è «intimiditissima» dal già senatore Montale, la Croce si propone come mediatrice di un possibile incontro a Roma o a Milano. Da una nota a mano, si intuisce che Elena ha incoraggiato l'amica a scrivere all'indirizzo milanese del poeta per suggerirgli un incontro pomeridiano oppure di cercarlo in Senato.
Gli accenni alla Farnsworth sono molto rari nei carteggi montaliani. E contraddittori, aggiunge giustamente Sonzogni. Si trovano nelle lettere a Gianfranco Contini, di cui l'italianista americana era amica: può dunque darsi che l'incontro sia poi avvenuto, in realtà, tramite i coniugi Contini. Il 20 gennaio 1973, il filologo parla a Montale della Farnsworth come di una conoscenza comune. La risposta di Montale, il 26, è poco lusinghiera: «La Farnsworth è troppo remota e alquanto farneticante, con molte zaganelle (crede di essere una grande violinista)». Se rimane piuttosto criptico il riferimento, sembra invece molto chiaro il giudizio, che però contrasta con le parole che Montale le avrebbe rivolto direttamente per iscritto. Sono cinque le lettere di Montale conservate tra le carte della Farnsworth, due manoscritte e tre dattiloscritte. Una sola è quella indirizzata al poeta, scritta in un quaderno e datata 14 agosto 1974. L'unica datata di Montale (23 settembre 1973) contrasta con i giudizi espressi a Contini pochi mesi prima: il poeta, 77 anni, si scusa con Edith («sono pieno di rimorsi»): motivi di salute gli hanno impedito di raggiungerla. Spera di vederla in futuro e conclude: «Cara Edith ti voglio dire che ti voglio molto bene e che per me sei stata e sei un'apparizione meravigliosa, quasi inverosimile». C'è poi il saluto a una tartaruga, come altrove, e vedremo perché. Un'altra lettera è del 1972, poiché il poeta comunica alla «cara Edith» di essere stato operato alla prostata, sperando di poterle far visita all'Antella e chiedendole il numero di telefono. È probabile, precisa Sonzogni, che quando Montale soggiornava in Toscana, i due cercassero di vedersi. In un'altra lettera, probabilmente degli ultimi mesi del '75, si fa cenno al Nobel: «Io sto in piedi zigzagando e non so come me la caverò a Stoccolma dove devo andare per due o tre giorni. Non sono felice, il Nobel prize non significa più nulla».
Ma in genere, in tutte le missive inviate alla «Cara carissima Edith» e alla «Edith birbona» dal 1970 al '75, Eusebio (il nome con cui il poeta veniva chiamato dagli amici e con cui lui stesso si firma) mostra di provare un affetto non formale per Edith e di frequentarla con piacere: «Ti penso sempre con affetto e nostalgia per Carrot Street e i suoi cani e le sue galline mugellesi. Purtroppo al Forte non trovai il tempo il modo e la persona adatta che mi portasse da te. Ne ho avuto pena e rimorso». Non esita a farle confidenze sul proprio stato di salute non solo fisica: «Non so più nulla di te. Come stai? Io non ti ho più scritto perché mi trovo nelle condizioni in cui mi hai lasciato. Cammino poco e male (con l'aiuto di qualcuno, quasi sempre Gina), non posso salire né scendere scale. Alla meglio posso bere con 4 zampe, e mi arrangio alla meglio col cucchiaio. Non scrivo quasi nulla. Credi che io possa continuare a vivere in simili condizioni?». Come si già è visto, le esprime i suoi sentimenti di affetto senza riserve: «Voglio dirti solo che TI VOGLIO MOLTO BENE e che sono pieno di riconoscenza per il fatto che tu esisti e continuerai (spero) a vivere».
Nelle lettere si trovano anche notevoli osservazioni poetiche, per esempio laddove, in una lettera collocabile all'inizio del '70, illustra alla sua traduttrice, alle prese con La bufera, alcuni elementi lessicali de Gli orecchini: la «spera» non è un cannocchiale, ma «un grande specchio corroso dal tempo, dal salnitro e da altre muffe»; «le èlitre ronzanti non sono mosconi ma aerei bombardieri; siamo in guerra». E conclude con una nuova confidenza sul suo rapporto con le Muse: «Non c'è la fine di un amore perché i miei amori non finiscono mai anzi si accentuano dopo la morte o la scomparsa dell'oggetto amato». Invita poi la «birbona» a procedere nella traduzione «del vecchio poeta / dei cuttlefish», il poeta cioè delle seppie che ora «non trova parole adeguate / ad una Musa rubella /che domina e fa strage sull'Antella». Insomma, toni molto molto diversi da quelli che vengono esibiti con Contini.
All'Antella, esattamente nella villa di Edith, Montale deve essere andato più volte, al punto da ospitare la nuova musa almeno in una poesia, contenuta in Diario del '71 e del '72. Si tratta del componimento In un giardino «italiano», che si apre con una (ennesima) figura da bestiario: «La vecchia tartaruga cammina male, beccheggia / perché le fu troncata una zampetta anteriore». Nel piccolo e anziano animale, che «arranca invisibile in geometrie di trifogli / e torna al suo rifugio», il poeta riconosce una presenza fraterna, al punto da identificarsi nella sua età avanzata e nel suo precario stato di salute. La poesia era intitolata in origine All'Antella, come avrebbe rivelato Contini nel 1981, aggiungendo di conoscere il «padrone» di quel giardino italiano, «una signora americana purtroppo scomparsa da alcuni anni, che è stata la miglior traduttrice di Montale, anche se nessuno se n'è accorto». Il filologo, dichiarando il nome della Farnsworth, precisa che si trattava di una «grande medichessa», che «aveva sfiorato il premio Nobel per una scoperta clinica, poi aveva abbandonato tutto per la poesia e l'Italia», ritirandosi in una villa in Toscana. E la tartaruga, rimasta un enigma anche per i massimi esegeti di Montale? Sonzogni ci tiene a ricordare come il poeta prediligesse «partire sempre dal vero», lasciando poi che figure e presenze si trasfigurassero, acquistando dimensioni altamente simboliche. La tartaruga zoppa è un incontro reale nel «giardino italiano» dell'Antella. Lo dimostra il saluto epistolare di Montale e lo conferma con maggiore precisione l'unica lettera di Edith, dove si parla appunto del povero animale malconcio come di una creatura viva e presente: «La tartaruga, invece, è già sveglia — mi è venuta incontro sul sentiero l'altro giorno, la testina fuori, le tre zampe da rettile portandole avanti con una velocità sorprendente».
In una lettera scritta nel Capodanno 1978, Montale rispondeva agli amici Contini che gli avevano annunciato la morte della «padrona» dell'Antella, sempre cercando in tutti i modi di non tradire nulla di quel sentimento accorato che non molti anni prima aveva ispirato le missive tanto affettuose alla «birbona» e «cara carissima» amica: «La scomparsa di Edith mi ha molto addolorato ma il fatto è che ci siamo visti pochissime volte e questo attutisce il dolore. Forse dico una sciocchezza e dimostro durezza di cuore ma alla mia età non resta altro che indurirsi».

Corriere della Sera 23.1.12
Shoah

I volti degli ultimi testimoni: «La salvezza arrivò per caso»
di Iacopo Gori


«Non c'è una ragione, la salvezza è arrivata per caso, per tutti noi è arrivata per caso». Da queste parole pronunciate con una calma irreale da Goti Bauer, deportata quando era una ragazza di 19 anni, sopravvissuta ad Auschwitz e oggi diventata una paladina della necessità di testimoniare per non dimenticare mai la tragedia dell'Olocausto, è nata l'idea di Salvi per caso. Noi gli ultimi testimoni della Shoah. Ovvero il primo documentario web multimediale dedicato ai sopravvissuti di una pagina tra le più terribili della storia dell'umanità: lo sterminio scientifico di sei milioni di ebrei colpevoli — per la follia nazista — del solo crimine di essere ebrei.
Il docu-web dei giornalisti Antonio Ferrari e Alessia Rastelli da oggi online su www.corriere.it, il sito del «Corriere della Sera», risponde a una duplice necessità: offrire la testimonianza diretta, le parole e i volti di chi ha vissuto sulla propria pelle la tragedia dello sterminio nazista; garantire che queste testimonianze non vadano perdute, per fare in modo che i giovani sappiano cosa è successo settant'anni fa nel cuore della civile Europa, e che i meno giovani non rischino mai di dimenticarlo.
Antonio Ferrari, ex inviato e oggi editorialista del «Corriere della Sera», da sempre attento studioso della tragedia dell'Olocausto, e Alessia Rastelli, giovane collega della redazione di corriere.it, esperta di giornalismo multimediale, hanno dato vita — con passione e competenza — a questo innovativo documentario per il web navigabile su nove livelli diversi di narrazione («La vita prima», «La cattura», «Il viaggio», «L'arrivo», «La vita nel campo», «Scene dal lager», «Salvi per caso», «La vita dopo», «Riflessioni sulla Shoah»). Il docu-web è composto da 54 videoclip, oltre venti schede dei sopravvissuti e dei campi di concentramento, decine di foto e mappe delle deportazioni: il materiale si snoda tra le testimonianze degli otto superstiti della Shoah che appaiono in Salvi per caso e raccontano davanti alla telecamera la propria esperienza (Nedo Fiano, Liliana Segre, Goti Bauer, Franco Schönheit, Nina Benroubi, Heinz Salvator Kounio, Benjamin Kapon, Rachel Revah).
La fruizione del documentario web è completamente interattiva: è il lettore a scegliere quale storia ascoltare, quali materiali infografici e testuali aprire, quale livello narrativo scegliere. Salvi per caso è stato realizzato da CorriereTv, la web tv del «Corriere della Sera», in collaborazione con La Sarraz Pictures e La Testuggine web design.

Corriere della Sera 23.1.12
Quando il papa fa notizia. La Chiesa e l’informazione
risponde Sergio Romano


Ho letto l'articolo apparso sul Corriere del 31 dicembre in cui lei ha elencato le dieci notizie del 2011 a cui sarebbe stata data, secondo lei, una eccessiva importanza. Le chiedo una delucidazione riguardo ai criteri che l'hanno portata a collocare la visita del Papa a un carcere e, più generalmente, le sue apparizioni addirittura al primo posto delle notizie sopravvalutate (leggere quelle che seguono mi viene la pelle d'oca).
Maria Claudia Giannasi

Fra le altre notizie sopravvalutate ho elencato il matrimonio di William e Kate, i guai giudiziari di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, la nascita della figlia di Sarkozy e Carla Bruni, la immediata «canonizzazione» di Steve Jobs, le svendite di fine anno, il G20 di Cannes, la lunga telenovela americana sull'autenticità del certificato di nascita di Barack Obama, quasi tutti gli anniversari (compreso quello dell'11 settembre) e, infine, la questione delle intercettazioni che molti dichiarano di deplorare e moltissimi leggono avidamente (una contraddizione che complica ulteriormente la soluzione del problema). Mentre le altre scelte non sono state contestate, quella sulle apparizioni papali ha provocato stupore, indignazione e, in qualche caso, una esplicita accusa di anticlericalismo.
Mi è sembrato giusto collocarla al primo posto perché fra gli eventi della lista questo è quello che ha meno carattere di «notizia». Come tutti i monarchi, il papa deve dare continue prove della sua esistenza. Come tutti i vicari di Cristo deve annunciare i principi della fede, ricordare le sacre scritture, esortare i fedeli a rispettare i precetti della Chiesa. Svolge questo compito grazie a un calendario che prevede un certo di numero di apparizioni, udienze, visite pastorali. Ma è inutile aspettare dalla maggior parte delle sue apparizioni una «notizia». La ripetizione è una garanzia di continuità, costanza, fedeltà alla tradizione. Prima ancora di ascoltare il suo Angelus sappiamo che nelle sue parole vi sarà un elenco delle guerre che hanno maggiormente funestato la settimana precedente e un invito alla pace. Sarebbe notizia, se mai, il silenzio su una particolare vicenda che ha particolarmente colpito la pubblica opinione. Sappiamo quale sia l'importanza della sua persona e del suo messaggio per parecchie centinaia di milioni di persone e non possiamo sorprenderci se è accolto in piazza San Pietro e altrove da una moltitudine di fedeli. Sarebbe notizia, se mai, una piazza semivuota. (Ma il cronista della Rai che lo segnala ai suoi spettatori rischia d'incorrere in una sorta di censura).
Beninteso vi sono altre circostanze in cui il papa «fa notizia». È accaduto quando ha evocato, nella lezione di Ratisbona, la discussione fra un imperatore bizantino e un teologo musulmano, quando ha aperto le porte della Chiesa ai cattolici integralisti di monsignor Lefebvre (fra cui un vescovo che negava il genocidio ebraico), quando nomina nuovi cardinali, quando ribadisce o modifica le posizioni della Chiesa su questioni morali particolarmente attuali. Capisco che molti fedeli ricavino conforto dalle sue apparizioni. Ma i notiziari televisivi, i giornaliradio e i giornali d'informazione, pur dando spazio di cronaca alle apparizioni papali, non dovrebbero trattare come notizia ciò che trae la sua forza proprio dal fatto di essere, per quanto possibile, costante e immutabile.

Corriere della Sera 23.1.12
«Ho dimenticato mio figlio in auto. Poi la corsa ma era già morto»
«Il seggiolino spostato, l'insolito silenzio, la mente presa dal lavoro»
«Dalla morte di Bryce ho avuto altri tre figli.
Certo, sono terrorizzata al pensiero di ripetere quello sbaglio»
di Lyn Balfour


Per me è ancora difficile capire che cosa sia realmente accaduto quel giorno di marzo, quattro anni fa. Ricordo che era stata una settimana pesante. Bryce, mio figlio, aveva nove mesi e da qualche giorno era raffreddato e piangeva di notte. Mi sono detta, alzati, affronta la tua giornata, e domani è sabato.
Quella mattina in Virginia il tempo era fresco e coperto. Ho infilato a Bryce una maglietta con le maniche lunghe, i pantaloncini e una giacchina. Non immaginavo che la temperatura sarebbe risalita fino a 19 gradi, un tepore insolito dalle nostre parti negli ultimi anni. Fosse stato il giorno prima, o quello dopo, forse Bryce sarebbe sopravvissuto.
Di solito lasciavo Bryce a casa della babysitter prima di andare in ufficio, ma quel giorno ho accompagnato al lavoro anche mio marito, perché la sua macchina l'aveva presa mia sorella. Sistemavo sempre Bryce nel suo seggiolino, dietro il sedile del passeggero. Quella mattina invece avevo spostato il seggiolino alle mie spalle, fuori dal mio campo visivo.
In macchina, mentre andavo al lavoro, Bryce mi accompagnava cantilenando con la sua vocina, ma quel giorno era assonnato, non dava segno della sua normale vivacità. Ripensandoci, né io né mio marito ricordiamo di aver sentito la sua voce, presumo quindi che si fosse addormentato. Dopo aver fatto scendere mio marito, ho ricevuto un paio di chiamate di lavoro e ho cominciato subito a concentrarmi sui compiti che mi aspettavano in ufficio.
Avevo la netta impressione di aver sistemato ogni cosa. Ho lasciato l'auto nel parcheggio dell'azienda e sono uscita senza voltarmi indietro. È difficile immaginarlo, lo so, ma in quell'istante non sono stata neppur lontanamente sfiorata dal pensiero che Bryce potesse essere rimasto nel suo seggiolino in macchina.
Quel giorno non ho avuto un attimo di tregua. La babysitter deve aver pensato che Bryce fosse rimasto a casa, sapendo che era stato poco bene. Abbiamo tentato, tutte e due, di telefonarci a più riprese, ma le linee erano occupate. Quando alla fine ci siamo parlate, la babysitter mi ha chiesto, «Come sta Bryce?». Non capivo. Ho risposto: «Come sarebbe a dire? Il bambino è da te». Ma lei ha ripetuto, «Lyn, non è qui da me. Non me l'hai portato stamattina».
Sono tornata alla macchina correndo come una pazza. Ripassavo mentalmente il tragitto verso l'ufficio. Ricordavo di aver consegnato Bryce alla babysitter, di averle parlato. Si chiamano «ricordi falsi»: quando ripeti un'azione quotidianamente, ti ricordi di averla compiuta, anche se così non è.
Sono stata colta dal panico, non riuscivo a capacitarmi dell'accaduto. Il solo pensiero che avessi dimenticato mio figlio in macchina mi toglieva il respiro. Ero sconvolta, e speravo, se il piccolo era effettivamente rimasto chiuso nell'auto, di trovarlo stanco, bagnato, affamato, ma niente di più grave.
Solo quando sono arrivata alla macchina e l'ho visto mi sono ricordata com'erano andate realmente le cose. Non lo avevo consegnato alla babysitter. Bryce era nel suo seggiolino, il faccino un po' arrossato. Aveva gli occhi chiusi, non dava segni di vita. Sembrava un bambolotto. Mi sono messa a urlare. L'ho estratto dall'auto e ho cercato di praticargli la respirazione bocca a bocca, poi ho gridato cercando aiuto, chiedendo a qualcuno di chiamare un'ambulanza. Ma lo sapevo che era morto.
Avrei fatto qualunque cosa per essere io al suo posto. Come faccio a dirlo a Jarrett, mio marito, pensavo, come faccio a dirgli che ho ucciso nostro figlio? Che l'ho dimenticato in macchina e che è morto? Come potrà mai perdonarmi?
Era stata una giornata mite, ma all'interno della vettura la temperatura era molto più elevata, sfiorava i 43 gradi. Bryce era morto di ipertermia, il cosiddetto colpo di calore. Speravo, invano, che si sarebbe risvegliato. Ed è questo il pensiero che più mi tormenta: lo rivedevo sveglio, affamato, che mi cercava, e io non c'ero.
Quando Jarrett è arrivato in ospedale, ero fuori di me dal dolore. Gli ho chiesto scusa. Lui si è messo a urlare, Ma quando anche lui ha capito, non mi ha più accusato. Anzi, mi ha sostenuta da quel momento in poi, persino quando sono stata accusata di omicidio colposo, maltrattamenti e abbandono di minore, imputazione poi ridotta a omicidio preterintenzionale. Il processo è stato un vero trauma. Ero di nuovo incinta e la mia vita era appesa a un filo. Quello che più di tormentava era il pensiero di dover lasciare la mia famiglia per scontare la pena in carcere: abbandonare mio marito, un altro figlio di 14 anni, era per me un dolore insopportabile. Alla fine, la giuria popolare ha decretato che si era trattato di un tragico incidente.
Mi sono sentita dire che mai più avrei dovuto mettere al mondo altri figli. La gente non capisce come succedono queste disgrazie, non immagina che possano capitare a chiunque, come le statistiche confermano. L'anno scorso, circa 49 bambini sono morti per un colpo di calore, in America, dimenticati in macchina dai loro genitori. È successo al figlio di un poliziotto, di un'assistente sociale, di uno scienziato.
Dalla morte di Bryce ho avuto altri tre figli. Certo, sono terrorizzata al pensiero di ripetere quello sbaglio. Ma non accetto che quanto è accaduto debba metter fine alla mia vita e annientarmi. Ho sbagliato, lo so, ma voglio continuare a vivere.
(testo raccolto da Sophie Haydock © Guardian News; Media 2012 Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 23.1.12
La disciplina mancata a una mamma
di Federica Mormando


È questione di priorità. Tutto nel nostro stile di vita concorre a farci dare la priorità assoluta a ciò che in quel momento si impone rumorosamente, o incutendo timore: una telefonata, una scadenza. Infatti, dice la madre, il bimbo si era addormentato e non lo si sentiva. La priorità non è interiore, viene dal di fuori. Ma l'attenzione a chi dipende totalmente da noi deve essere interna, senza eccezioni o intervalli. Nello scritto della madre la prima preoccupazione è come dirlo al marito, la perdonerà? Un pensiero ovvio, ma così immediato indica un modo di essere infantile: il timore della punizione, del perdono di un altro, giganteggia subito, come per molti bambini. E, a scusante, la signora porta numeri: 49 bambini in un anno sono morti perché dimenticati in auto. Questa non è una scusante, ma un orribile documento di irresponsabilità criminale condivisa. Sarebbe paradossalmente segno di maggior partecipazione un omicidio volontario. La dimenticanza indica che il pensiero del bambino non è sempre nella mente, come ciò di cui solo noi possiamo e dobbiamo occuparci. Non sto parlando di amore o di sentimenti, ma di dovere e disciplina. Due parole affogate nel lago dei diritti e della confusione della libertà con il fare ciò che viene in mente. Non dimenticarsi un bambino in auto è un dovere. Se te ne dimentichi, è un delitto. La legge condannerà limitatamente, la vita continua, con altri tre bambini ad esorcizzare, ma il giudizio, deve pur essere dato, ed è una constatazione: sei venuta meno a un dovere fondamentale e le conseguenze sono state tragiche.

Repubblica 23.1.12
Howard Gardner
“Un patto fra generazioni ci salverà da falsità e credenze"
In viaggio con lo psicologo fra le idee messe in crisi dal postmoderno
di Franco Marcoaldi


"Il concetto di realtà è stato rimosso E il web prende per buone le cose anche senza prova fattuale"
"Spesso i più giovani non fanno alcuna differenza fra un blog e l´inchiesta di un professionista"

Sono ormai in molti a sostenere che la lunga parabola del postmodernismo è entrata nella sua fase discendente e il dibattito aperto dai filosofi neo-realisti proprio su queste pagine sta a dimostrarlo. Tanto più pressante, dunque, si fa la necessità di ragionare su tutte le questioni che il movimento postmodernista, assieme festoso e sciagurato, aveva disatteso o negato. A cominciare dalla più importante: la ricerca della verità, che poi è sorella stretta del concetto di realtà.
Per farci aiutare in questa indagine, inizieremo dal volume dello psicologo americano Howard Gardner: Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo (Feltrinelli, pagg. 224, euro 20, traduzione di Virginio B. Sala). Famoso per i suoi studi sull´intelligenza, Gardner insegna Scienze cognitive e dell´educazione alla Harvard University, ed è uomo di vastissime letture e molteplici competenze disciplinari.
Professore, proviamo a concentrare l´attenzione sulla verità, la prima delle tre virtù che lei ripropone per il ventunesimo secolo. Tanto più difficili da far proprie, visto il potentissimo incrocio tra postmodernismo e media digitali.
«È proprio da lì che prendo le mosse. Dapprima il postmodernismo ha rimosso il tema della verità, riducendolo a mera preferenza di chi detiene il potere in un dato momento, poi il web ci ha messo del suo prendendo per buono tutto ciò che appare su Wikipedia, senza alcuna prova fattuale. Però, proviamo a vedere la questione da un´angolazione differente. Se la verità è essenzialmente una proprietà degli enunciati, ed esistono diversi metodi per raggiungerla, a seconda delle diverse discipline in campo, oggi è più facile avvicinarsi ad essa rispetto a quanto accadeva in passato. Un tempo avevamo meno informazioni e pochi detenevano quel potere che stabiliva cosa è vero e cosa è falso. Adesso, a meno che lei non abiti nella Corea del Nord, le cose non stanno più così. Naturalmente, se vuole ignorare una certa questione può benissimo farlo, ma se è interessato a sapere come sono andate le cose in Libia o su come vengono effettuati determinati trattamenti medici, avrà a disposizione una massa enorme di dati. Questo non significa che la verità venga automaticamente a galla, ma che abbiamo più armi per trovare una convergenza su ciò che è effettivamente accaduto».
La prima distinzione che lei opera è tra verità della conoscenza e verità della pratica.
«L´uomo della strada, indicando un oggetto, può dire: questo è argento e non oro. Ma se io sono uno scienziato, attraverso un´analisi atomica, posso dimostrare più a fondo il senso di quella differenza. La prima è una verità legata alla pratica, la seconda alla conoscenza. Inutile aggiungere che sia l´una che l´altra non hanno nulla a che fare con la verità di tipo religioso, dove si crede a qualcosa perché qualcuno ce l´ha detto, non sulla base di un test esperienziale o cognitivo».
Torniamo ai media digitali. Come scremare le informazioni che vi sono contenute se non si è sorretti da un´idea condivisa di autorità e di competenza?
«È il problema principale delle generazioni più giovani. Spesso i ragazzi non fanno alcuna differenza tra quanto compare in un blog e l´inchiesta di un reporter professionista. Sia ben chiaro, anche il New York Times compie degli errori, però li riconosce e comunque i redattori sono lì per controllare e vagliare l´articolo che verrà pubblicato. Per questo mi fido del New York Times o del Washington Post. Perché riconosco a tali imprese un´autorevolezza che si tramuta poi in affidabilità. Sia ben chiaro, quanto dico non mi fa dimenticare l´egregio lavoro di tanti blogger, che sovente possono superare in qualità quello dei giornalisti di professione, essendo meno condizionati di loro».
Diverse verità a seconda dei diversi metodi adottati. Prendiamo due discipline agli antipodi: la matematica e la storia.
«Ognuno sa che la verità matematica è la più certa, perché la più logica, la più formalizzata. Indifferente a tutte le variabili del mondo fisico. Però anche qui non esistono verità assolute, perché l´affermazione secondo cui due rette parallele non si incontrano mai vale per la geometria euclidea, non in quella non euclidea. Ma la principale differenza corre tra le ricerche di ambito fisico-biologico e quelle sociali. Nelle prime, gli oggetti di studio non sono soggetti ai risultati della nostra ricerca: le piante continuano a crescere e la rotazione terrestre non muta in relazione ai risultati scientifici ottenuti. Nell´ambito delle scienze sociali, invece, le opinioni che abbiamo di determinati fenomeni modificano i fenomeni stessi, come risulta chiarissimo in ambito economico. Quanto infine alla storia, mentre è evidente che ci sono dei fatti rispetto alla cui veridicità siamo sicuri, come il giorno della morte di John Fitzgerald Kennedy, è altrettanto evidente che ogni generazione riscrive il passato perché lo vede e lo giudica secondo la propria prospettiva. La storia dell´impero romano insegnata oggi in America è senz´altro diversa da quella di ottant´anni fa, non perché si sappia molto di più di quel periodo, ma perché da un certo punto in avanti l´America ha pensato di essere diventata essa stessa il nuovo impero romano».
L´idea iniziale di verità è legata al senso comune. Lei però ne rimarca la costitutiva insufficienza.
«Basta al massimo per la sopravvivenza. Se sono un bambino e cado in un fosso, non per questo apprendo qualcosa in ordine alla forza di gravità. La prossima volta starò più attento soltanto perché non voglio farmi del male. Affidandoci soltanto ai sensi, non possiamo fare molta strada. L´ho scritto nel libro e lo ripeto qui, più o meno con le stesse parole. Il modo migliore per stabilire lo stato di verità in un´era postmoderna e digitale consiste proprio nel mostrare la potenza ma anche il limite della conoscenza sensoriale. Impone di insegnare i metodi adottati dalle varie discipline per arrivare alla loro spiegazione del mondo e alla loro verità. Di illustrare il valore dell´esperienza e della competenza. Così come, per converso, di sottolineare tutte le forme di irrazionalità e pregiudizio degli esseri umani, con tutti i rischi che ne conseguono».
Come si evolve il rapporto con la verità a seconda delle diverse fasi della vita?
«Nel bambino credere in una cosa e contemporaneamente nel suo opposto non costituisce problema. E dunque il ruolo dell´educazione è quello di mostrare come certi convincimenti possono entrare in conflitto tra loro. All´adolescente, invece, la scuola dovrebbe mostrare innanzitutto che le verità incontrate nei testi non vengono dal cielo e non valgono per sempre. Sono soggette a continua trasformazione e sono differenti a seconda delle diverse discipline. La difficoltà, naturalmente, sta nel far convivere tale varietà e mobilità in un quadro unitario, senza cedere alla fiumana di informazioni e sovrapposizioni di un mondo ipersaturo».
Lei sostiene che i giovani sembrano più interessati all´autenticità e alla trasparenza di un messaggio che agli enunciati di verità contenuti in esso. Non è anche questa una prova della costante battaglia tra conoscenza e credenza? La verità rimanda alla conoscenza, ma è molto più facile affidarsi alla credenza.
«Purtroppo è così. Soltanto quando si sbatte personalmente il muso su una pagina del web che dice assolute falsità sul nostro conto, si capisce quanto importante sia la verità fondata sulla conoscenza. Senza dimenticare un altro aspetto del problema. Trent´anni fa non c´era la "familiarità" con i potenti che ci pare di avere oggi grazie ai media. Si ritiene di conoscerli e dunque di poterli giudicare secondo i crismi, per l´appunto, di autenticità e trasparenza. Magari quei tipi sono dei bastardi assoluti, ma se appaiono come persone a modo, ci basta e avanza».
Lei conclude il suo tragitto con una nota ottimistica. La comprensione di postmodernismo e media digitali, scrive, può ironicamente creare la possibilità di una seconda età dell´illuminismo. Perché?
«Credo che il passaggio storico in cui ci troviamo può offrire uno scambio inter-generazionale inedito e utile su entrambi i fronti. Oggi i "nativi digitali" possono insegnare a noi cose che noi non sappiamo, mentre noi possiamo offrire loro una metodologia di cui non dispongono. Malgrado tutto, i valori illuministici della tolleranza, dei diritti universali, della ricerca scientifica, sono validi ancor oggi. Ma oggi più di ieri, grazie a quell´incrocio inter-generazionale, possiamo esaltare un´idea di verità quale somma di proposizioni messe alla prova più e più volte».
(1-continua)

il Fatto 23.1.12
“Nella testa degli adolescenti”
Il cervello dei giovani in un libro

qui

La Stampa 23.1.12
In varie città la polizia usa musica classica per allontanare homeless dai posti pubblici
Se Beethoven diventa uno sfollagente
di Paolo Mastrolilli


Nel loro genio infinito, Mozart o Beethoven non avrebbero mai immaginato che un giorno sarebbero stati usati come manganelli. Spray repellenti per insetti fastidiosi. Eppure così scrive il Washington Post: in vari luoghi del mondo la musica classica viene adoperata dalla polizia per controllare la folla, e tenere lontani dai luoghi pubblici homeless e criminali. Un esperimento cominciato negli Anni 80 dai supermercati 7-Eleven, che sparavano le migliori sinfonie dagli altoparlanti dei propri parcheggi per tenere lontani gli adolescenti molesti, e continuato dagli agenti di West Palm Beach, Portland, Londra e forse New York. La musica classica fa scappare dalla metropolitana gli homeless e tiene a bada i rapinatori per strada. Roba da «Arancia Meccanica», dove il povero Alex finiva per vomitare durante la Nona sinfonia, a causa delle droghe che gli avevano iniettato per guarirlo dagli istinti violenti con la tecnica «Ludovico».
Non ci sono ancora studi precisi che confermino l’efficacia della musica classica come sfollagente, ma esistono un paio di ipotesi contraddittorie. La prima è che sia eseguita così male, da giustificare la fuga. La seconda è che suonare Mozart o Beethoven, in qualsiasi ambiente, ne migliora l’identità. Ascoltandoli, un criminale capisce subito che quella stazione non è casa sua. Scegliamo la seconda spiegazione, per il bene della nostra civiltà.

domenica 22 gennaio 2012

l’Unità 22.1.12
Bersani: «Sostegno a Monti ma senza tacere le nostre idee»
Dal Pd «precisi emendamenti» al decreto. «Il Porcellum? Va abolito»
Bersani chiude l’Assemblea nazionale del Pd ribadendo il sostegno a Monti «senza se, senza ma e senza tacere le nostre idee». Appello al gruppo dirigente: «Basta umore fragile, trasmettiamo serenità e tenuta».
di Simone Collini


Con Monti, senza tacere le nostre idee. Pier Luigi Bersani chiude la prima Assemblea nazionale Pd del post-Berlusconi ribadendo la linea. Se torna sul rapporto tra il suo partito e il governo è perché la lettura che alcuni quotidiani hanno dato della prima giornata di lavori non è piaciuta affatto al segretario dei Democratici. «Io avrei preso le distanze da Monti?», domanda retoricamente dal palco della nuova Fiera di Roma. La richiesta di «fare di più» e di «stringere» i tempi sulle liberalizzazioni resta, perché il timore è che alcune misure entreranno effettivamente a regime solo dopo l’approvazione di decreti presidenziali o nuovi contratti che chissà se e quando arriveranno. E per questo il Pd presenterà «precisi emendamenti» in Parlamento. Ma ciò non vuol dire freddezza: «Siamo a sostegno del governo Monti senza se e senza ma e senza tacere nostre idee».
A FIN DI BENE
Al premier, racconta Bersani, ha promesso «sincerità e trasparenza», oltre a dargli il consiglio di non pensare che chi lo loda di più sia «un amico vero» («spesso l’encomio smisurato che ti fanno è la condizione dell’oltraggio che vogliono fare alla politica»). «Noi diremo la nostra a fin di bene». Perché a creare problemi al governo semmai, sostiene il leader del Pd, è chi fa pressioni per limitare l’impatto reale delle liberalizzazioni o per tener fuori dall’operazione lobby ben precise. Per questo critica la «processione a Palazzo Chigi» che c’è stata la sera prima del Consiglio dei ministri, guidata da Gianni Letta, Massimo Corsaro, Maurizio Gasparri. I prossimi mesi saranno duri anche dal punto di vista della tenuta sociale, è il suo ragionamento, e non si può far pagare tutto il peso della crisi ai soliti noti.
Il Pd è «entusiasta» di quanto deciso dal governo ma vuole «incalzare» perché se non si fa chiarezza e se non si stringono i tempi il rischio è alto. E Bersani lo ribadisce anche dopo che Monti sconsiglia «variazioni». Dice il leader del Pd: «Guai se si scoprisse che i 500 notai in più sono ancora quelli del 2009, se si scoprisse che non c’è più l’equo compenso per i praticanti, che si separa la rete e il gas solo dopo un decreto che dovrebbe arrivare, che quando si mettono a concorso le nuove farmacie un farmacista che ha lavorato in una parafarmacia prende il 70% dei punti di chi ha lavorato nelle farmacie. Cos’è, abbiamo i farmacisti negri?». Bersani rivendica il diritto di intervenire su questo punto (ed è un po’ anche una risposta a certi commentatori che lo hanno criticato per aver chiesto «di più» sulle liberalizzazioni) ricordando che quanto fatto in Italia su questo fronte è tutta opera del centrosinistra. Un centrosinistra che, per dirla con Matteo Colaninno, domani dovrà governare «non più per interposta persona».
SOLIDARIETÀ E BASTA UMORE FRAGILE
Per Bersani l’«orizzonte» rimangono le prossime elezioni e un «patto di legislatura» tra forze progressiste e moderate «per la ricostruzione». E passata l’emergenza, la responsabilità maggiore spetterà a quello che oggi è il primo partito, che deve essere orgoglioso di quanto «seminato» e di quanto «può raccogliere». «Togliamoci un difettuccio che è la fragilità d’umore è l’esortazione che lancia al gruppo dirigente dobbiamo trasmettere un minimo di serenità, di tenuta, perché noi siamo non solo un partito ma un’idea di democrazia, noi siamo la politica possibile di domani, e nonostante i nostri difetti dobbiamo trasmettere solidità e fiducia, anche mettendo a frutto un’accresciuta solidarietà fra noi».
IL DIRITTO ALLA BIRRA
Chiusi i lavori, il commento di Bersani è positivo, anche se c’è chi parla di assemblea poco partecipata (c’è anche chi nota che anche questa volta Matteo Renzi non si sia fatto vedere) e di scarso entusiasmo. «È stata una bella discussione.
Quando non ci sono di mezzo posizionamenti riusciamo ad essere un gruppo dirigente. È stata un’assemblea senza lazzi, frizzi, ricchi premi e cotillon. Qui non facciamo comizi né cabaret, si discute per dare la strada giusta a un grande partito». L’unica battuta che si concede è sull’ormai famosa “foto con birra”: «In nome della comune umanità degli uomini e delle donne, anche di quelli che fan politica, non mi rassegno all’idea che si possa bere una birra in pace. L’importante è dire che la birra l’ho pagata, con lo scontrino».

l’Unità 22.1.12
Intervista a Susanna Camusso
«Vogliono fare i liberisti colpendo il costo del lavoro»
Il segretario Cgil: «Troppo entusiasmo, vedo rischi di smobilitazione dei servizi pubblici
Si torni a parlare sul serio di occupazione»
di Oreste Pivetta


Che cosa chiederete al governo? Susanna Camusso, segretario della Cgil, “accantona” un attimo il tema liberalizzazioni e riprende la questione del lavoro che non c’è: «Chiederemo al governo di operare perché venga ripristinata una condizione in cui i giovani e i cinquantenni lasciati a casa dalle loro aziende in crisi non siano costretti a imboccare la via crucis della precarietà. L’abbiamo detto tante volte: rimettere al centro il lavoro».
Le liberalizzazioni non creeranno appunto lavoro?
«Intanto bisognerebbe conoscere il testo. Intanto andrebbero ridimensionati certi entusiasmi. L’enfasi mi sembra eccessiva. Non credo che liberalizzando si dia via libera a quell’aumento pronosticato dei salari del dodici per cento. Magari diminuirà qualche prezzo. Non credo neppure a certi automatismi, che prometterebbero aumento dell’occupazione, anche se ovviamente c’è del buono nel decreto legge. Un esempio? La separazione tra il soggetto che fornisce il gas e quello che gestisce la rete distributiva».
Il cattivo sta forse nell’ennesimo attacco al contratto nazionale, questa volta quello dei ferrovieri, con l’idea di favorire la concorrenza?
«Quando si parla di Ferrovie o di Poste bisognerebbe sempre pensare che si tratta di servizi pubblici, che devono quindi rispondere alle necessità della collettività, necessità che nel caso dei treni si chiamano mobilità, economicità, sicurezza. Da qualsiasi luogo, per qualsiasi luogo. Smobilitare il contratto nazionale ha un senso allora? Non c’è il rischio di peggiorare tutto? Vogliamo costruire una concorrenza che concorre solo agendo sulla voce costo del lavoro? Non mi sembrerebbe un gran segnale. Proviamo a prendere consiglio da chi con le liberalizzazioni e con le privatizzazioni s’è sperimentato prima di noi. E non certo con risultati brillanti».
Ma i privati come li mobilitiamo?
«Il governo dovrebbe chiamare i venti più importanti attori dell’economia italiana, chiedere loro che strategie si danno, chiedere loro progetti concreti, proporsi con autorevolezza per discuterli e, se sono validi, per agevolarli, secondarli, contribuire. Non si tratta di dare quattrini. Si tratta di garantire condizioni favorevoli, di coordinare. E in primo luogo chiamare alla responsabilità davanti a un Paese in crisi: chi può, faccia. Ovviamente se è capace...».
Le agenzie di stampa hanno riferito una sua affermazione: «Le intemperanze liberalizzatrici ci porteranno dei guai». Conferma?
«Come può capitare, s’è colta una battuta sottraendola al suo contesto. Torno all’osservazione di prima: eccesso di entusiasmo. Le liberalizzazioni non sono tutto e qualche volta sono sbagliate».
Si riferiva agli orari dei negozi, ai taxi?
«In un caso bisognerebbe pensare alla qualità della vita in Italia, piuttosto che sognare l’America, consentire la vita a una rete commerciale che significa anche socialità e non consegnare tutto alla grande distribuzione, valutando i costi sociali non solo economici di aperture lunghe, che costringerebbero probabilmente molti a rivalersi sui prezzi oppure a chiudere. A danno dei cittadini, comunque, di una cultura, di una tradizione che non sono sempre da buttare. Per quanto riguarda i taxi, riflettiamo sulle origini: in partenza ci sono le licenze, non possiamo pensare di cancellare di colpo quell’investimento. Magari le resistenze appaiono eccessive. Bisogna discutere per raggiungere un punto di equilibrio. In primo piano dovrebbero stare i bisogni reali. Altrimenti si fa solo vecchia ideologia».
Liberista: come nel caso delle municipalizzate?
«Certo, perché alla fine si trascura quello che dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale: l’efficienza e quindi la bontà del servizio. Aggiungo che in alcuni casi, come quello delle farmacie, siamo solo ad un ampliamento della base. Ci saremmo attesi altre novità».
Dunque altro che “albero scosso”, bell’Italia dell’immagine dell’Italia che cambia. Domani il tavolo sulle questioni del lavoro. Lei raccomanda di non aver fretta...
«Di non aver la fretta con la quale si è chiuso il capitolo delle pensioni, capitolo che non riteniamo assolutamente chiuso, perché troppe ingiustizie sono rimaste e in particolare è rimasta quella ingiustizia che colpisce appunto quella generazione di ultracinquantenni che ha risposto ad una crisi aziendale progettando un altro futuro con le carte in regola per la pensione entro pochi mesi o anni e che si è vista cancellare un diritto acquisito. Più in generale la garanzia di una vecchiaia decente riguarda l’intera società. Quindi credo che la discussione sulle pensioni vada ripresa con grande serietà. Qui parlerei anche di flessibilità».
Che cosa vi aspettate che vi dica il professor Monti?
«Il governo finora non ci ha detto nulla. In compenso ha letto di sicuro il documento di Cgil Cisl e Uil, in cui si chiedono investimenti per creare l’occupazione, che non cresce smobilitando le regole. Abbiamo apprezzato che siano stati sbloccati investimenti, abbiamo apprezzato l’attenzione sul Mezzogiorno. Abbiamo apprezzato molto quanto è stato realizzato nella lotta all’evasione. Ma vorremmo che questa volontà s’applicasse anche nei confronti del lavoro sommerso».
Altra “voce”, di cui molto si è discusso, anche nel Partito democratico: gli ammortizzatori sociali. Si andrà a un cambiamento?
«Siamo in un Paese in recessione e dobbiamo rispondere all’emergenza. Non ci sono soldi per grandi riforme, per modelli danesi o altro. La cassa integrazione è peraltro un istituto di grande valore, anche ideale: è nata per mantenere un legame tra lavoratore e posto di lavoro. Il dovere è di garantirla a chi ne è privo. Prima di parlare d’altro».

il Fatto 22.1.12
Il licenziamento invisibile
di Silvia Truzzi


Certo che ti assumo. E non con un co.co.co. Con un contratto vero, sicuro, a tempo indeterminato: un sogno. Prima però ci sarebbe una cosetta, una formalità. Un’altra firmetta. Sulle dimissioni in bianco. Un auto-licenziamento? Un martirio volontario? No, no. Molto di più, molto peggio: un ricatto che costringe chi ha bisogno di uno stipendio a consegnarsi mani e piedi al datore di lavoro. Il quale nove volte su dieci naturalmente non è San Francesco, altrimenti quella letterina non si sarebbe mai sognato di proporla. Così un esercito di Bob Cratchit (l’impiegato maltrattato del “Canto di Natale” Dickens) aspetta invano, nell’Italia del XXI secolo, una conversione dei propri padroni. Siccome però la realtà è piuttosto lontana dai romanzi e non è il caso di affidarsi agli spiriti, sarà bene che il governo tecnico, tecnicamente si adoperi in fretta per abolire quest’orribile consuetudine. L’Istat ha svelato che fra il 2008 e il 2009 sono state licenziate con questo sistema 800mila persone. Il 15 per cento degli assunti a tempo indeterminato ha tra le mani un contratto “corretto” (o meglio, corrotto) dalle dimissioni in bianco. Trattandosi di una pratica illegale, i dati sono chiaramente approssimativi. E a guardarli bene, svelano una realtà ancora più feroce che costringe le donne a scegliere tra il lavoro e la maternità: i casi di dimissioni forzate riguardano il 13,1% delle donne nate dopo il 1973, percentuale che scende in maniera inversamente proporzionale all’età della lavoratrice. Fino ad arrivare al 6,8% per le assunte nate tra il 1944 e il 1953. Il licenziamento estorto riguarda, nel 90% dei casi, donne che hanno appena avuto un figlio. Per fortuna viviamo in un paese cattolico dove la “famiglia” è al centro dell’attenzione quando si parla di etica e valori, un po’ meno se si stratta di diritti. La morale di questa disgustosa prassi è: se vuoi lavorare non fare un bambino. E cerca anche di non ammalarti troppo, di ubbidire, di non creare problemi: altrimenti, basta solo mettere una data su un foglio già firmato. Il governo Prodi aveva approvato una legge intelligente (la 188 del 17 ottobre 2007) che imponeva per le dimissioni volontarie un modulo con numeri progressivi e una scadenza di quindici giorni. Con questo semplice accorgimento, il sistema delle dimissioni in bianco firmate contestualmente all’assunzione veniva neutralizzato. Naturalmente, appena tornato a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi (primo onorevole atto del ministro Sacconi) si è precipitato ad abrogare la norma che dava tutela ai lavoratori più esposti. Il provvedimento (ma come abbiamo fatto a tenerci un governo così?) s’intitolava “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica”. Come se la possibilità di cacciare su due piedi una dipendente incinta, fosse utile allo sviluppo economico o alla competitività dell’Italia. In questi giorni blog e social network chiedono il ripristino della legge 188. E anche il partito democratico, bisogna dirlo, si sta muovendo. Il ministro Fornero, interpellata dai sindacati, ha promesso che si occuperà urgentemente della questione, già nell’agenda dell’esecutivo Monti. Ci crediamo: si mise a piangere pronunciando la parola “sacrifici” durante una famosa conferenza stampa. E certo scegliere tra un figlio e il lavoro rientra a pieno titolo nella categoria “sacrifici”. Aspettiamo con fiducia, ministro.

Repubblica 22.1.12
Un New Deal per il lavoro
di Luciano Gallino


Ci sono due strade per creare occupazione. Una è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L´altra vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro. Rientrano palesemente nella prima le misure predisposte dal governo che sono entrate in vigore a gennaio.
La più rilevante sta nell´articolo 2: prevede, per le imprese che assumono a tempo indeterminato giovani sotto i 35 anni, una deduzione Irap di 10.600 euro per ogni neo assunto, aumentata della metà per le imprese del Meridione.
C´è una obiezione di fondo alle misure del governo: le politiche fiscali presentano una serie di inconvenienti che ne limitano molto la capacità di creare occupazione. Anzitutto esse offrono incentivi a pioggia, ossia non distinguono tra i settori di attività economica in cui appare più utile creare occupazione. Un nuovo assunto è un disoccupato in meno, però sarebbe meglio per l´economia se l´assunzione riguardasse un centro di ricerca invece che un fast food, scelta che non si può fare con incentivi del genere. In secondo luogo bisognerà vedere se le imprese aumentano realmente il personale grazie alle assunzioni incentivate dagli sgravi fiscali, oppure se ne approfittano licenziando appena possono un numero ancora maggiore di quarantenni. Infine le politiche fiscali hanno un effetto incerto. Un´impresa che sa di fruire entro l´anno fiscale di uno sgravio di imposta per ogni assunzione non è detto si precipiti ad assumere tot operai o impiegati il 2 gennaio. È possibile che aspetti di vedere come andranno i futuri ordinativi, i crediti che ha richiesto, i pagamenti dei clienti in ritardo di un anno; con il risultato che, ove decida di assumere, lo fa magari a novembre. Uno sfasamento troppo lungo a fronte di 7 milioni di disoccupati e male occupati in attesa.
Veniamo alla seconda strada. Dagli Usa provengono due casi che attestano, da un lato, la scarsa efficacia delle politiche fiscali per creare occupazione; dall´altro, il ritorno dell´idea che il modo migliore per farlo consiste nel creare direttamente posti di lavoro. A febbraio 2009 il governo Obama varò una legge sulla ripresa (acronimo Arra) comprendente un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere. Secondo uno studio di due consiglieri del presidente, grazie a tale intervento si sarebbe evitato che la perdita di posti di lavoro toccasse i 5 milioni, mentre entro fine 2010 se ne sarebbero creati 3.675.000 di nuovi. E la disoccupazione avrebbe toccato al massimo l´8% a metà 2009 per scendere presto al 7. In realtà i posti di lavoro persi dopo l´entrata in vigore della legge hanno superato gli 8 milioni, quelli creati ex novo erano soltanto un milione e mezzo a metà 2011 e il tasso di disoccupazione ha toccato il 10%.
Forse scottato dall´insuccesso di Arra, a ottobre 2011 il presidente Obama ha presentato al Congresso un altro piano in cui le politiche fiscali hanno ancora un certo peso, però accanto ad esse propone lo stanziamento di 140 miliardi di dollari per mantenere in servizio 280.000 insegnanti; modernizzare oltre 35.000 scuole; effettuare investimenti immediati per riattare strade, ferrovie, trasporti locali e aeroporti e ridare così un lavoro a centinaia di migliaia di operai delle costruzioni. In sostanza, il governo Usa ha deciso di puntare meno sui tagli di tasse e assai più su interventi diretti "per creare posti di lavoro adesso" (così dice la copertina del piano). È un passo significativo verso un recupero da parte dello Stato del ruolo di datore di lavoro di ultima istanza, quello che durante il New Deal creò in pochi mesi milioni di posti di lavoro.
Uno Stato che voglia oggi rivestire tale ruolo assume il maggior numero possibile di disoccupati a un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l´anno), e li destina a settori di urgente utilità pubblica; tali, altresì, da comportare un´alta intensità di lavoro. Quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. Tra i settori che in Italia presentano dette caratteristiche si possono collocare in prima fila il riassetto idrogeologico, la ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), la ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60%). Significa questo che lo Stato dovrebbe mettersi a fare l´idraulico o il muratore, come un tempo fece panettoni e conserve? Certo che no. Lo Stato dovrebbe semplicemente istituire un´Agenzia per l´occupazione, che determina i criteri di assunzione e il sistema di pagamento. Dopodiché questa si mette in contatto con enti territoriali, servizi per l´impiego, organizzazioni del volontariato, che provvedono localmente alle pratiche di assunzione delle persone interessate e le avvìano al lavoro. È probabile che non vi sarebbero difficoltà eccessive a farlo, visto le tante Pmi, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze idonee in uno dei settori indicati, le quali potrebbero aver interesse a impiegare stabilmente personale il cui costo è sopportato per la maggior parte dallo Stato.
La domanda cruciale è come finanzia le assunzioni il datore di lavoro di ultima istanza. Si può tentare qualche indicazione, partendo da una cifra-obiettivo: un milione di assunzioni (di disoccupati) entro pochi mesi. A 15.000 euro l´uno, la spesa sarebbe (a parte il problema di tasse e contributi) di 15 miliardi l´anno. Le fonti potrebbero essere molteplici. Si va dalla soppressione delle spese del bilancio statale che a paragone di quelle necessarie appaiono inutili, a una piccola patrimoniale di scopo; dal contributo delle aziende coinvolte, che potrebbero trovare allettante l´idea di pagare, supponiamo, un terzo della spesa pro capite, a una riforma degli ammortizzatori sociali fondata sull´idea che, in presenza di lunghi periodi di cassa integrazione, proponga agli interessati la libera scelta tra 750 euro al mese o meno per stare a casa, e 1.200 per svolgere un lavoro decente. Altri contributi potrebbero venire da enti territoriali e ministeri interessati dalle attività di ristrutturazione di numerosi spazi e beni pubblici. Non va infine trascurato che disoccupazione e sotto-occupazione sottraggono all´economia decine di miliardi l´anno. John M. Keynes - al quale risale l´idea di un simile intervento - diceva che l´essenziale per un governo è decidere quali scelte vuol fare; poi, aguzzando l´ingegno, i mezzi li trova.

l’Unità 22.1.12
Capitalismo in crisi /1
«L’Italia è ferma da 20 anni, si torni all’economia mista»
Parla lo storico dell’industria: «Ovunque si discute di intervento pubblico Pure Marchionne senza i soldi della Casa Bianca avrebbe potuto ben poco»
di Rinaldo Gianola


Le stagioni migliori del capitalismo italiano, del nostro sviluppo, hanno sempre visto l’intervento e la presenza strategica dello Stato accanto alla mobilitazione delle imprese private. Questo modello ha accompagnato la crescita del Paese, non senza problemi e contraddizioni, ed è stato abbandonato vent’anni fa assieme alla distruzione del sistema politico della Prima Repubblica. Bisognerebbe fare una valutazione storica profonda su questa esperienza, sulle cause della crisi, sul ridimensionamento della grande industria e sulla possibilità di recuperare, aggiornato, quel modello».
Giuseppe Berta, storico dell’industria, già responsabile dell’Archivio Fiat, docente all’Università Bocconi, interviene nella discussione aperta dall’Unità sulla crisi del capitalismo concentrandosi sulle difficoltà del nostro sistema, sui ritardi anche culturali delle imprese, sulla carenza di leadership e sul ruolo dello Stato e della politica. Professor Berta, in che condizioni si trova il capitalismo italiano?
«Vorrei usare l’esempio della corsa alla presidenza della Confindustria per spiegare i mutamenti del nostro sistema. I candidati in pole position sono Squinzi e Bombassei, due industriali di medie imprese, diventate grandi in nicchie importanti di mercato. Due lombardi simili, noti nel giro degli addetti ai lavori ma certo non popolari nell’opinione pubblica. Difficile trovare rilevanti differenze: Squinzi si muove più nel solco della continuità con la presidenza Marcegaglia, Bombassei potrebbe invece modificare la rotta. Ma non ci sono rivoluzioni in vista. In più, caduto Berlusconi, è venuto meno il vincolo politico e per la prima volta non c’è la Fiat». Dove vuole arrivare?
«Voglio dire che siamo di fronte alla progressiva scomparsa delle grandi imprese in Italia, quelle che una volta stabilivano le regole, indicavano le linee di sviluppo, facevano pesare i loro interessi e le loro fabbriche. Il capitalismo industriale ha abdicato o è scappato, bisogna distinguere i casi, ma non esiste più come lo abbiamo conosciuto. Saranno contenti gli amici di Mediobanca guidati dal dottor Coltorti che da tempo studiano questo fenomeno. È un cambiamento epocale che ci impone alcune domande. Con questa architettura industriale il Paese regge? Con imprese brillanti ma fragili ce la possiamo fare?». Si dice che la proliferazione delle piccole imprese è un segno di vitalità.
«Certo. Il problema è che non ci sono quelle grandi. E bisogna stare attenti quando si parla di dinamismo. Sto terminando una ricerca per conto delle Camere di commercio di Milano e Torino sulle modifiche del tessuto economico sull’asse delle due capitali dell’industrializzazione del Paese. Uno dei dati che emerge è che la dimensione delle imprese è sempre più piccola, c’è una polverizzazione del tessuto economico. Ma il fenomeno non è un sintomo di una nuova stagione di sviluppo. I nuovi imprenditori sono oggi ex operai o impiegati che sono stati licenziati e che non trovano un altro posto e quindi s’inventano l’aziendina».
Proposte?
«Dobbiamo far crescere le medie imprese, dobbiamo farle diventare protagoniste assolute sui mercati. Dobbiamo riprendere il comando in qualche settore. È necessario che Mapei, Brembo, Zegna, Carbonato e gli altri diventino più forti, che facciano il lavoro di innovazione, investimento, ricerca, anche di confronto con la politica e il governo che una volta svolgevano le grandi imprese».
Qual è il limite del capitalismo italiano? Familismo? Paura? Mancanza di leadership? Assenza del sistema?
«I problemi sono diversi. Prendiamo un’impresa eccellente come la Ferrero. Ha sei miliardi di euro di ricavi. Ci sembrano tanti se guardiamo ad Alba, ma non sono nulla se li confrontiamo con i 93 miliardi di Nestlè. Ferrero avrebbe potuto conquistare la britannica Cadbury oppure prendersi Parmalat. Ma non lo ha fatto, ci hanno pensato altri concorrenti internazionali. Ferrero è grande, forte, ma fino a quando potrà resistere? Oggi in Italia arriva un investitore russo e si compra la Gancia, una piccola azienda ma con una lunga storia, senza opposizioni. Non riusciamo a difendere nulla».
Da tempo l’Azienda Italia non è una fortezza e chi osa difendere l’italianità passa per matto...
«Un conto è l’internazionalizzazione delle imprese, un altro è subire l’egemonia dei francesi nel lusso e nella moda dove eravamo noi a dettare legge. È assurdo perdere un primato come quello che avevamo nella moda o nell’agroalimentare. C’è poco da essere ottimisti. Negli ultimi vent’anni abbiamo perso la Montedison, l’Olivetti, c’è stato un ridimensionamento della Pirelli. E la tendenza generale del nostro capitalismo industriale è quella di diventare più piccolo. Così non andiamo lontano».
Come ne usciamo?
«Dobbiamo ripensare il nostro modello economico. L’Italia è cresciuta, si è sviluppata, quando si è affidata a quella formula mista di interventi dello Stato e di mobilitazione di energie private. Così siamo diventati un grande paese industriale. Il matrimonio pubblico-privato, con tutti i suoi difetti e patologie, ha segnato le migliori stagioni della nostra economia».
Quando è morto questo sistema?
«Vent’anni fa. Gli anni 90 hanno visto la crisi dei grandi gruppi industriali, la fine di quell’economia mista che aveva caratterizzato il dopoguerra, il crollo della classe politica della Prima Repubblica. Mani pulite denunciò i gravi fenomeni di commistione tra politica e impresa, la degenerazione dei rapporti tra pubblico e privato. Non si poteva andare avanti così. Ma da storico mi pongo il problema di capire come mai da vent’anni questo Paese non cresce più, perde posizioni, non produce nuovi leader imprenditoriali di livello mondiale».
Come possiamo ripensare il ruolo dello Stato in economia? Da noi è un argomento tabù.
«In tutto il mondo si discute dell’intervento pubblico. Lo Stato ha salvato banche, assicurazioni e anche Wall Street in questi anni. Il premio Nobel Paul Krugman, sul suo blog, sta dicendo che il debito pubblico non è un vincolo terribile, che si deve pensare anche al patrimonio, alle attività che ogni Paese indebitato possiede. La questione dell’intervento pubblico è centrale. Personaggi come Valletta, Olivetti e Mattei avevano ben chiara la loro missione imprenditoriale e quali interessi tutelare, ma nessuno di loro si è mai sognato di sminuire il ruolo della politica e di fare a meno dello Stato. Ezio Vanoni propugnava la cooperazione virtuosa tra lo Stato e le forze private dell’impresa».
Ma oggi lo Stato, i partiti sono osteggiati. Vanno forte i liberisti della “mano invisibile” che risolve tutto o manager come Sergio Marchionne che sbatte la porta. «Marchionne è il simbolo del successo dello Stato in economia. Ha potuto fare quello che ha fatto alla Chrysler perché la Casa Bianca gli ha concesso i soldi. Chrysler è viva perché ci sono Obama e i sindacati. Se avessero vinto i repubblicani la Chrysler sarebbe già morta e sarebbe morta pure la General Motors perché in campagna elettorale volevano abbattere le fabbriche fallite di Detroit. Questa è la realtà».
Forse l’Europa ci può spingere a cambiare?
«Non ci giurerei. Guido Carli ripeteva che solo il vincolo esterno avrebbe potuto salvarci dai nostri difetti e dai nostri ritardi. Non era vero. Nessun vincolo esterno può funzionare se la volontà di cambiamento non viene interiorizzata dal Paese».
Per la verità anche Mario Monti richiama il vincolo esterno come motore del cambiamento.
«Vedremo. Le liberalizzazioni ci faranno cambiare? Certo un po’ di concorrenza fa bene, è una ricetta che, in linea teorica, funziona per tutti. Però non vedo una specificità italiana in questa manovra».

l’Unità 22.1.12
Capitalismo in crisi /2
Turbo-liberisti senza benzina
Ormai c’è evidenza statistica: i sei Paesi europei con il Pil più alto sono quelli dove c’è più equità
di Nicola Cacace


Nel dibattito sulla crisi emergono con chiarezza i due principali fattori che l’hanno determinata, gli eccessi della finanza che hanno drogato un’economia basata su consumi e debiti, un calo della domanda da grandi diseguaglianze.
La svolta della crisi è datata anni 80, con la vittoria della filosofia iperliberista avviata da Reagan e Thatcher. Tra i primi a denunciare i pericoli del nuovo corso va ricordato uno studioso non di sinistra, Edward Luttwak, che nel suo Turbo-Capitalism (1998) avvertiva: «Lo chiamano libero mercato ma io lo definisco turbo capitalismo perché del tutto diverso dal capitalismo controllato che ha prosperato sino agli anni Ottanta... Ciò che i profeti del turbocapitalismo predicano è che l’impresa privata sia completamente liberata da regolamentazioni governative, senza intromissioni da parte dei sindacati e senza precisare nulla sulla distribuzione della ricchezza. Permettere al turbo capitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole élite di vincitori e masse di perdenti». E oggi, quando tutti parlano di crescita oltre al rigore, dobbiamo ripensare una crescita ispirata alla qualità più che alla quantità, perché «crescere diversamente significa tentare di creare nuove condizioni ispirate a nuovi valori, in cui l’acquisizione quantitativa non esaurisce l’intera esperienza umana» (Mauro Magatti).
Per uscire dalla teoria, faccio alcuni casi concreti: l’eguaglianza, la produttività, la centralità del valore lavoro, i tempi di lavoro e di vita, le delocalizzazioni. C’è evidenza statistica che l’eguaglianza è anche fattore di crescita. I sei Paesi europei a minor diseguaglianza, Germania, Olanda e i quattro Paesi scandinavi, sono i Paesi europei a più alto Pil procapite. Da anni la produttività in Italia non cresce (al pari del Pil), rispetto al 2 per cento l’anno medio di crescita in Europa. Come dimostrato anche dai ricalcoli Istat sull’export, la produttività cresce quando la qualità migliora. E più qualità si ottiene con più formazione da lavoro stabile, più istruzione, ricerca e sviluppo e soprattutto con misure di politica economica che stimolino l’innovazione. Nel periodo della ricostruzione post-bellica il valore è stato riconosciuto nell’obiettivo ricostruzione e nella centralità del lavoro. Chi non ricorda il Piano del lavoro Cgil di Di Vittorio?
A partire dagli anni 80 il consumo e l’arricchimento individuale hanno dominato, e ciò è dimostrato anche dai diversi andamenti dei tempi di lavoro e di vita. Mentre prima la settimana lavorativa si era accorciata da 48 a 40 ore, successivamente il trend si è invertito, gli orari sono aumentati. Grazie (purtroppo) alla defiscalizzazione degli straordinari oggi in Europa l’Italia è, con la Grecia, il paese col tasso di occupazione più basso e gli orari più lunghi. A differenza di Germania ed Olanda orari più corti e occupazione massima che, giocando su riduzioni di orario e contratti di solidarietà, hanno aumentato l’occupazione anche in presenza di Pil negativo.
Le delocalizzazioni non sono sempre da condannare, la «distruzione creatrice» è necessaria in periodi di veloci cambiamenti. Sono però da condannare le delocalizzazioni decise non per perdite di bilancio ma per puro obiettivo di massimizzazione dei profitti, come hanno fatto Omsa e molte altre imprese. Un capitalismo moderno è anche quello dove le imprese tengono conto degli interessi di tutti gli stakeholder. Perciò il nuovo modello di sviluppo deve puntare sulla qualità, non solo dei prodotti e dei servizi ma anche delle imprese e favorire quelle che, al pari delle cooperative, sono attente agli interessi intergenerazionali di tutti i fattori, lavoratori, azionisti, territorio, ambiente.

l’Unità 22.1.12
Cambiare il Porcellum è la priorità, poi si parlerà di primarie
Alla Fiera di Roma il confronto su riforma e candidature Finocchiaro: no a competizione interna a ridosso del voto Franceschini: cambiare sistema elettorale, più proporzionale
di Maria Zegarelli


L’Europa, certo, e poi l’appoggio al governo Monti, «senza se e senza ma» come dice il segretario Pd, eppure è soprattutto un altro il tema che tiene banco in questa seconda e conclusiva giornata di Assemblea nazionale dei democratici: la legge elettorale, con relativo strascico polemico sulle battute finali. Tutti d’accordo su un punto: la riforma per mandare in soffitta il Porcellum è prioritaria, irrinunciabile, vitale per il futuro assetto politico.
La polemica nasce su altro: se discutere ora delle primarie per scegliere i candidati nel caso in cui naufragasse nel mare dei veti incrociati il tentativo di cambiare la legge elettorale. Sarebbe come dare per persa la battaglia prima ancora di iniziarla.
Ma c’è un’altra preoccupazione che aleggia. La palesa Anna Finocchiaro durante il suo intervento: quanto rischioso potrebbe essere per il Pd andare ad una competizione interna in tutta Italia proprio a ridosso delle elezioni politiche. Rischio altissimo, proprio ora che il partito rivendica una insolita unità e un prezioso pluralismo, entrambi riconosciuti anche da Giorgio Tonini, veltroniano doc, spesso critico con i vertici del Nazareno. «Sarei molto preoccupata di dover effettuare le primarie in tutta Italia prima della campagna elettorale, avrebbero un costo troppo alto e non solo economico», dice raccogliendo un applauso la capogruppo Pd al Senato. Per questo l’obiettivo deve essere quello di portare a casa la riforma, possibilmente «un sistema più proporzionale», come dice il presidente dei deputati Dario Franceschini, «senza per questo rinnegare il passato».
La polemica nasce quando Salvatore Vassallo e Pippo Civati presentano un odg per decidere il regolamento delle primarie e la presidente Rosy Bindi, in sintonia con Bersani, decide di non metterlo ai voti. Nel mezzo della decisione, Nico Stumpo, statuto Pd alla mano, sostiene che comunque non si potrebbe votare, come dimostra l’articolo 19.
Spetta a Bindi spiegare. Il voto, dice, non serve perché l’Assemblea ha «assunto» l’impegno di modificare la legge elettorale. «Pro-tempore faccio il segretario e se ho detto che do per assunta la cosa, è così», scandisce Bersani, ribadendo che «nella malaugurata ipotesi che si arrivasse a votare con la legge attuale noi faremo le primarie per i parlamentari». E Civati, fischiato per aver detto che in sala non erano presenti più di 200 persone, commenta che in questo partito «non si vuole mai arrivare al voto, ma se il segretario dice “fidatevi di me”, noi cosa dobbiamo fare?».
«Non parliamo di primarie dice Franco Marini altrimenti diamo per scontato che falliremo nel cambiare la legge. Noi dobbiamo farlo per gli italiani. Il Porcellum è una legge contro la Costituzione». Priorità assoluta, insiste Franceschini, «noi pensiamo che una conferenza dei capigruppo congiunta di Camera e Senato possa servire a registrare se c’è un'intesa politica per cui il Senato fa le riforme istituzionali e la Camera quella elettorale».
Un sistema «più proporzionale», propone, e se è vero che il «Pd sopravvive con qualunque legge elettorale», bene sarebbe che si presentasse «con il proprio simbolo, in un sistema con i collegi uninominali e non con le preferenze che portano sprechi e corruzione». Dunque, il mandato è questo: riforma subito. Anche perché se così non fosse sotto elezioni, avverte Bersani, tornerebbe «l’indignazione per una legge elettorale devastante». Apre l’Idv purché non ci siano «giochi al ribasso o agli egoismi di bottega di questo o quel partito, ma ecco Fabrizio Cicchitto dal Pdl che stoppa i propositi del Pd: «Prima le riforme istituzionali», poi il resto.

Repubblica 22.1.12
Pd, salta il voto sulle primarie nuovo rilancio sul proporzionale
Bersani: cambiare il Porcellum, se no consultazioni
Ritirato l’ordine del giorno che introduceva il voto sui candidati al Parlamento
Sulla riforma elettorale restano divisioni, nel partito si avvia un tavolo di confronto
di Giovanna Casadio


ROMA - L´idea delle primarie per i parlamentari salta, se ne riparlerà in seguito. Ma quando accadrà, sarà una cattiva giornata: sarà il segnale che il Pd è stato sconfitto e la legge porcata non si è riusciti a cambiarla. Sulle primarie ci sono momenti di tensione all´assemblea nazionale del Pd. Pippo Civati e Salvatore Vassallo, che fino alla fine hanno insistito, ritirano l´ordine del giorno pro primarie. «E come avremmo potuto fare diversamente, dal momento che Bersani ha posto la fiducia su di sé, e ha dato la sua parola che non resterà lettera morta?», si sfoga Civati. E infatti Bersani s´impunta: «Perbacco, sono il segretario, sia pure pro tempore, se assumo l´impegno che quelle primarie le facciamo nel caso in cui non si riuscisse a cancellare il Porcellum, è così. Però chiedo: se nell´altro giro, avessimo fatto le primarie, con Berlusconi che vince e porta in Parlamento i nominati, in che cosa sarebbe cambiato il destino dell´Italia?».
L´assemblea è alla sua prima convocazione nell´era del governo Monti. Dal febbraio 2011, i delegati democratici non si riuniscono, Berlusconi è il passato, «l´incubo», lo chiama D´Alema. Però non ci sono «frizzi, lazzi, e cotillon ma una discussione pacata», come sintetizza il segretario. Preoccupata soprattutto, nell´inverno "caldo" che aspetta il paese, di sostenere Monti e al tempo stesso di non perdere l´anima. Civati, accettando di soprassedere, attacca: «Oltretutto con un´assemblea di così poche persone...». Contestazioni, qualche fischio. D´Alema si avvicina a Franceschini con la fotocopia di un quotidiano pugliese in cui si parla di infiltrati nelle primarie del centrosinistra a Lecce. Però tutto resta «nel solco». Lo rivendica il segretario. Il solco è due cose: «Appoggio a Monti "senza se e senza ma" e anche senza tacere sulle nostre idee»; pancia a terra per la legge elettorale. La riforma del Porcellum viene prima «delle nostre "robine". E quindi noi ci puntiamo con ogni mezzo». D´Alema è in platea e ha ribadito che «le riforme costituzionali sono necessarie, mentre la legge elettorale è un obbligo morale». Invece di «contare i minuti al governo Monti, la politica usi quest´anno e mezzo per riscrivere le regole del gioco», dichiarerà poi Veltroni.
I tempi? Brevissimi. Bastano tre mesi per Enrico Letta. Franco Marini alza i toni, ma si prende anche gli applausi: «Il Porcellum è il distillato del metodo anti democratico, se non si riesce a cambiarlo, significa che il discredito della politica è assoluto». Le primarie? Ora non c´entrano. Adesso si tratta di vedere le carte di Alfano, Casini, ma anche Bossi e Di Pietro. Franceschini, il presidente dei deputati pd, è già andato avanti con il lavoro. Annuncia la svolta proporzionale del partito e chiede una conferenza congiunta dei capigruppo: «Il Pd sopravvive a qualsiasi sistema elettorale; si vada senza timori verso un sistema proporzionale di collegi uninominali, no alle preferenze che portano corruzione, e il Pd correrà con un proprio simbolo». Il veltroniano Tonini gli dà l´alt in nome del bipolarismo. Franceschini lo invita al tavolo che il Pd ha creato per trovare la quadra nel partito. Contatti già ci sono stati con il Pdl. Inciuci? No, basta fare in fretta. Per le riforme istituzionali invece ci si può prendere più tempo.
Con franchezza Anna Finocchiaro afferma che le primarie dei parlamentari la preoccupano: bisogna investire tutto sulla legge elettorale. Rosy Bindi rinvia alla direzione. La legge elettorale si trascina il tema delle alleanze e della premiership. Vendola, che oggi riunisce Sel, commenta: «C´è un rilancio dell´alleanza del centrosinistra». Per Enzo Bianco invece si guarda ai moderati. Bersani dice di avere parlato chiaro. Su tutto - ironizza -«nonostante la birra» (la foto impazzava su twitter): «L´ho pagata e ho anche lo scontrino».

...ma Nichi “gesucristo-moscacocchiera” Vendola non è d’accordo...
La Stampa 22.1.12
Vendola: legge elettorale? Ora non si può cambiare
Il leader Sel: questo Parlamento non ha voglia né titoli morali
intervista di Riccardo Barenghi


Pensa che questo Parlamento non abbia «né la voglia né i titoli morali» per cambiare la legge elettorale. Sottolinea il cambiamento di stile dell’attuale governo rispetto a quello di Berlusconi, la capacità di ascolto da parte dei ministri che non si comportano come i loro predecessori in «modo gaglioffo o sadico», ma sul piano politico Nichi Vendola non è tenero verso Monti.
Neanche le liberalizzazioni le sono piaciute?
«E’ la montagna che ha partorito il classico topolino. Direi che si tratta di un provvedimento positivo soprattutto per le cose che non ci sono ma che erano state minacciate, tipo la possibilità di trivellare liberamente il mare o la privatizzazione dell’acqua malgrado il referendum. Mancano poi interventi seri nei confronti di coloro che ipotecano la nostra economia, le banche e le assicurazioni».
Quasi tutti i partiti applaudono.
«Io penso che le lenzuolate di Bersani all’epoca del governo Prodi fossero liberalizzazioni molto più corpose e radicali, oggi vedo provvedimenti modesti accompagnati da un’enfasi propagandistica che mi ricorda il nostro recente passato. Tuttavia qualcosa di positivo c’è sulle farmacie e i notai. Ma si può fare molto di più e soprattutto colpire molto più in alto».
E il suo giudizio complessivo sul governo attuale?
«Al netto dello stile che apprezzo, penso che Monti rappresenti la più onesta, alta e illuminata variante di un’Europa che sta morendo. Nella corsa affannosa verso il pareggio di bilancio viene schiacciata l’erba buona dei diritti sociali, vengono calpestati sentieri delicati come il welfare. Per salvare l’euro rischiamo di distruggere l’Europa».
Un’opera sostenuta però dal suo principale alleato del futuro, il Pd. Sarà ancora possibile una coalizione con Bersani e Di Pietro?
«Oggi alla nostra assemblea nazionale che si svolge a Roma dirò che la politica deve uscire da questa sorta di astinenza che si è autoimposta. Io sostengo il primato della politica sulla tecnica. Ai soggetti politici con i quali vorrei allearmi dico che la crisi è figlia della destra mondiale. E che di conseguenza non esiste una via d’uscita che non passi per un programma di sinistra. Ho definito la scelta del Pd di sostenere il governo Monti un atto di generosità, ma ora è il momento di indicare una prospettiva politica, elettorale e di governo. Ho apprezzato il fatto che Bersani abbia riparlato di centrosinistra, seppur mettendolo dentro un’alleanza tra progressisti e moderati. Vorrei che si camminasse in quella direzione piuttosto che celebrare l’autoabolizione della sinistra. Quando sento Enrico letta sostenere che il governo Monti è la nostra primavera, allora non so più cosa pensare. Mi conforta il fatto che il popolo di centrosinistra non sia affatto d’accordo con Letta».
Però nel Pd non sono pochi quelli che vorrebbero mollare lei e Di Pietro per allearsi con il Terzo Polo inglobando Monti e qualche suo ministro.
«Proprio per questo lavoro per evitare una prospettiva che considero letale per la sinistra. In ogni caso, il Pd deve sapere che se scegliesse la strada della primavera tecnocratica, rompendo con Sel e l’Idv, noi non ci rinchiuderemmo in un recinto identitario ed estremistico, non faremmo una nuova Rifondazione comunista. Al contrario tenteremmo di costruire un’alternativa di sinistra, politica e di governo, sfidando il
Pd e contando sui loro elettori. I quali, ne sono sicuro, sarebbero molto interessati a questa prospettiva».
Ma lei pensa sul serio che se voi andaste al governo col Pd e Di Pietro riuscireste a invertire la rotta del mondo occidentale? Bertinotti sostiene che non c’è alcuna possibilità di «rompere il recinto liberista».
«Io, al contrario di Fausto, penso invece che dobbiamo provarci. Condivido la sua analisi ma sono convinto che la conseguenza non sia quella di una lunga traversata nel deserto, bensì la costruzione della politica giusta per rompere quel recinto. Governando il Paese».

il Fatto 22.1.12
Laurea straccia
Monti toglie il valore legale al titolo di studio e darà 5,5 miliardi in Btp alle imprese
di Stefano Feltri


Il governo promette che il decreto liberalizzazioni regalerà all’Italia una crescita quasi cinese: + 11% di Pil, +8% di occupazione, +12% ai salari. In quanto tempo? “Nel medio periodo”, spiega il comunicato della presidenza del Consiglio.
MA LA PRIMA reazione delle imprese, che di quella crescita dovrebbero essere protagoniste, è stata di delusione: non un euro per pagare i crediti dello Stato verso le aziende. Una montagna da 70 miliardi, soldi dovuti che molte imprese non incasseranno mai perché falliranno prima, prive di liquidità. In conferenza stampa Mario Monti non ha neppure accennato al tema e all’ipotesi di pagare parte del dovuto con Btp o altri titoli di debito pubblico. La ragione però, secondo quando spiega una fonte governativa al Fatto, è che la ragioneria generale dello Stato stava ancora cercando le coperture. Doveva finire tutto nel decreto semplificazione in arrivo e invece entrerà nel decreto liberalizzioni quasi pronto per la firma del Quirinale. Almeno per gli interessi sui crediti ora i soldi ci sarebbero. La versione definitiva del testo, come sollecitato dal ministro dello Sviluppo Corrado Passera e approvato dal viceministro dell’Economia Vittorio Grilli, prevede quindi 5,5 miliardi di Btp da dare alle imprese per rimborsare i loro crediti verso l’amministrazione pubblica. Poi le aziende potranno venderli e avere soldi freschi per pagare dipendenti e fornitori. Sono solo una piccola parte dei 70 miliardi non saldati ma, notano dal governo, quasi un quinto di quelli dovuti dallo Stato centrale. Si vedrà, ormai le imprese credono a questi annunci soltanto se li vedono nero su bianco in Gazzetta ufficiale.
C’È UN ALTRO punto nell’agenda del governo ancora riservato ma che da lunedì susciterà una certa attenzione: l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Nel consiglio dei ministri si è discusso se inserirlo nel decreto liberalizzioni ma poi si è preferito aspettare il decreto semplificazione che sarà annunciato nei prossimi giorni. Monti finora non ha voluto rivelarne i contenuti – “vedrete” – perché sa quante polemiche possono derivare da questa mossa invocata da anni dai liberisti. Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo è da sempre sostenitore dell’abolizione. Il suo portavoce, interpellato dal Fatto, non smentisce che la modifica arriverà col prossimo decreto.
Il progetto c’è: sarà una rivoluzione nel settore pubblico. Nei concorsi la laurea, il celebre “pezzo di carta”, perderà il valore legale. E succederanno cose oggi impensabili, per esempio che economisti vincano concorsi per la Corte dei conti, cosa finora impossibile (e osteggiata dalle associazioni di categoria dei giuristi). Secondo i critici, visto che si valuteranno solo le competenze l’abolizione del valore legale favorirà la nascita di poli universitari di eccellenza (probabilmente costosi) contrapposti ad altri economici ma scadenti. “Le intemperanze liberalizzatrici ci porteranno dei guai”, avverte Susanna Camusso della Cgil, che ha sopportato il decreto di venerdì senza troppe proteste soltanto perché la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro sta entrando nella fase più delicata. E abolire il valore legale del titolo di studio è quasi come toccare l’articolo 18, per una parte della sinistra. “Qualcuno ha detto che avrei preso le distanze da Monti: mi scuso se non stato chiaro. Siamo a sostegno del governo Monti senza se e senza ma e senza tacere nostre idee”, ha detto ieri il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Nel partito qualcuno spera di emendare il decreto liberalizzazioni in Parlamento ma Monti intima: “Il Parlamento è sovrano ma sconsiglieremmo di fare variazioni che dovessero far venir meno la logica di insieme”. Messaggio anche al Pdl che prepara qualche imboscata su taxi e professioni. É bellicoso Maurizio Gasparri, presidente dei senatori Pdl: “Ascolteremo categorie e mondi produttivi per migliorare il testo in Parlamento, con l'obiettivo della crescita e dell’equità”. Fine del primo round. Da domani comincia il secondo.

il Fatto 22.1.12
Università. Se il diploma non vale più


Con l’espressione “valore legale del titolo di studio” si indica l’insieme degli effetti giuridici che la legge ricollega ad un titolo scolastico o accademico, rilasciato da uno degli istituti (sia statali che non), autorizzati.
Il titolo di studio è il requisito per l’accesso alle professioni regolamentate e agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni. Ovvero un “marchio di qualità” concesso dallo Stato agli atenei: lo Stato garantisce ai cittadini la qualità della formazione universitaria imponendo vincoli sull’organizzazione didattica, governando così lo sviluppo delle competenze professionali ai fini delle carriere. I cittadini che si servono di professionisti, le imprese e il settore pubblico che assumono laureati, dovrebbero essere garantiti sulla qualità della formazione di quelle persone in base a curricula “certificati”.
Quindi l’esistenza del valore legale ha tre effetti: la necessità per un lavoratore di possedere un titolo proveniente da una scuola riconosciuta dal ministero per accedere a certi settori del mercato del lavoro, la necessità per chiunque voglia istituire una scuola o università privata di ottenere la certificazione ministeriale e la parificazione nei concorsi della qualità dei titoli di studio che contano tutti allo stesso modo.
Il dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo divide mondo economico e mondo accademico: senza l’imposizione del valore legale si eliminerebbe un ostacolo alla concorrenza tra atenei, e le lauree non sarebbero più tutte uguali (ma nemmeno i costi d’iscrizione). Ci sarebbero quindi università di serie A, come in America, e di serie B, fino ai diplomifici. Rischio dal quale i paesi anglosassoni si sono tutelati con apposite leggi. Il mercato del lavoro ne riceverebbe una liberalizzazione, ovvero non servirebbe più una laurea corrispondente all’esame di Stato che ci si appresta a fare. Un geometra o un medico potrebbero presentarsi all’esame da avvocato e competere solo con la propria preparazione. Circostanza ovviata in alcuni casi negli Usa con apposite scuole di formazione (per avvocati, medici, ecc.) che conferiscono un titolo con valore legale.
Una “terza via” fra abolizione e mantenimento è quella dell’introduzione dell’accreditamento dei corsi, al quale la Conferenza dei Rettori sta lavorando con il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, che nel lungo periodo potrebbero portare, grazie alla valutazione, a un’automatica e graduale eliminazione del valore legale del titolo.

il Fatto 22.1.12
I totem di “Repubblica”
Privatizzare pallido e assorto


L’esperienza mostra che mettere sul mercato beni pubblici porta solo benefici e che i rinvii pesano sull’incasso finale”. Chi l’ha detto? Monti? Sbagliato. Passera? No, parola di “Repubblica”. “Troppi freni alle privatizzazioni”, il titolo a tutta pagina. E ancora: “Le imprese che escono dal controllo pubblico aumentano efficienza, fatturato e utili. Anche i dipendenti ottengono retribuzioni più alte”. L’articolo è un “dossier”, quindi indica la linea del giornale. Due pagine che snocciolano i vantaggi delle privatizzazioni. Perfino Telecom: “Un enorme successo”. Scusate, ma il disastro delle ferrovie inglesi? Chi avanza perplessità esprime “ragionamenti che suonano un po’ datati”. La parola d’ordine è vendere, anche la Rai, “con tutti i benefici dal punto di vista della libertà di espressione e concorrenza”. Già, vedi Mediaset. E poi, chissà, magari toccherà alle spiagge, per finire con la sanità. Ma se lo dice “Repubblica”…

il Fatto 22.1.12
Svolta leninista
Rizzo lancia il comunismo dei forconi


Nel giorno del novantunesimo anniversario della scissione di Livorno e della fondazione del Partito comunista d’Italia, Marco Rizzo, seppure “sommessamente”, annuncia “un processo valutato a lungo nel nostro comitato centrale”. Il centro congressi di via Cavour non è il teatro San Marco ma l’obiettivo è lo stesso: “Costruire un nuovo Partito comunista”. E non per andare alle elezioni. No, mettere “l’avanguardia del Partito” alla guida del movimento dei forconi in Sicilia e di quello nazionale dei tassisti sarebbe molto meglio di dieci o venti deputati in Parlamento. Il processo cui si riferisce Rizzo, già Pci poi Rifondazione e Comunisti italiani, oggi leader della Sinistra popolare, è infatti rivoluzionario. Costruire un partito leninista organizzato è l’unico modo per abbattere il capitalismo, prima del suicidio di una terza guerra mondiale.
AL CONGRESSO di Rizzo ci sono anche i rappresentanti di cinque “Partiti” fratelli: Spagna, Francia, Grecia, Cuba e Corea del Nord. La divisione è tra chi sogna la rivoluzione e chi invece l’ha fatta e la difende dalle “bugie mediatiche” dell’imperialismo. E così, di fronte alla crisi mondiale e dopo la controrivoluzione nell’universo sovietico, il marxismo-leninismo è la sola risposta della Storia. Ogni intervento dei compagni “fratelli” viene salutato da applausi e pugni chiusi. Il compagno greco del Kke, Panos Rentzelas, difende il sistema dell’Urss e denuncia: “La plutocrazia greca e l’Unione europea conducono una guerra senza fine contro la classe operaia e i ceti popolari, sfruttando la scusa della crisi per tenere alti i loro profitti”. Un’ovazione accoglie Ri Kwang Hyok, consigliere dell’ambasciata della Corea del Nord, e Vladimir Perez Casal, consigliere politico dell’ambasciata cubana. Il compagno Astor Garcia Suarez del Partito comunista dei popoli spagnoli è categorico: per spezzare le catene ingorde del capitalismo sono necessari il centralismo democratico e la dittatura del proletariato. Quest’ultima, per inteso, “è la più estesa forma di democrazia che l’umanità conosca” (dal programma della Sinistra popolare). Il Pc che vuole Rizzo è leninista ma anche stalinista, contro opportunismo, revisionismo, riformismo e socialdemocrazia, a partire dalla “cricca di Krusciov”. Ed è lui a concludere i lavori della sessione dedicata ai “Partiti fratelli”. Alla fine, tutti in piedi a cantare “Bandiera rossa”, compreso il grido finale: “Viva Marx, Engels, Lenin e Stalin”.

il Fatto 22.1.12
C’è chi evoca l’omicidio di Barack Obama
Il direttore di una rivista di Atlanta: “Ucciderlo per il bene d’Israele”
di Giampiero Gramaglia


Tre morti ammazzati (e un quarto, Reagan, rischiò grosso), quattro deceduti durante il loro mandato: fare il presidente degli Stati Uniti è un mestiere pericoloso, quasi una volta su cinque non ne esci vivo. Così, non c’è da stupirsi che qualcuno abbia pensato di uccidere Barack Obama: aeroplanini contro la Casa Bianca, matti scatenati che attraversano pezzi di Stati Uniti armati di tutto punto per arrivare a Washington e giustiziare il comandante in capo, esaltati che scavalcano la cancellata tutto intorno alla residenza presidenziale. Anche le cronache di Clinton e di Bush jr sono piene di scampati pericoli, a volte amplificati dall’efficienza dei meccanismi di sorveglianza.
Senza contare gli intrighi internazionali, veri o presunti che siano mai stati. Quella ora portata in primo piano dall’Huffington Post, in piena campagna elettorale Usa 2012, è una storia che mette insieme il fanatismo degli estremisti d’America e i temi più incendiari della politica internazionale, il Medio Oriente, la sicurezza di Israele, il ruolo Usa in quell’area. Andrew Adler, il proprietario di una pubblicazione della Georgia, l’Atlanta Jewish Times, ha suggerito al governo israeliano di prendere in considerazione l’assassinio di Obama. Un articolo di Adler, scritto all’inizio dell’anno, parte dalla necessità di proteggere il popolo di Israele dalle minacce rappresentate dai palestinesi di Hamas e dai libanesi di Hezbollah e indica che Israele ha sostanzialmente a disposizione tre opzioni: 1) attaccare Hamas e gli Hezbollah; 2) ordinare la distruzione delle installazioni nucleari iraniane a ogni costo; 3) uccidere Obama.
L’impressione è quella di avere a che fare con un esaltato, che non gode di contatti particolari e che non è l’emissario di qualcuno. Né si capisce come l’uccisione di Obama migliorerebbe la sicurezza di Israele, in un momento in cui l’importante sembrerebbe non fare nulla che comprometta gli equilibri della regione, già traballanti per gli incerti esiti della Primavera egiziana e dalla situazione in Siria. A Obama, con cui ha rapporti freddi, il premier israeliano Benjamin Netanyahu rimprovera l’apertura al dialogo con l’Islam e un’amicizia per Israele meno acritica di quella dei suoi predecessori, ma di qui a farne un “nemico pubblico numero 1” nel mirino del Mossad ce ne corre.
ADLER in una dichiarazione rilasciata venerdì alla Jewish Telegraphic Agency, fa una marcia indietro totale: “Me ne pento molto, vorrei non averlo mai scritto”. Episodio chiuso? Fin qui, la ricostruzione sull’Huffington Post. Certamente, non è la prima volta, e neppure, probabilmente, la più pericolosa che Obama è finito sotto tiro per la sua politica mediorientale, o per altri aspetti della sua politica estera, pensiamo solo al Pakistan, che molti suoi critici considerano eccessivamente passiva. Ma l’episodio acquista rilievo nel pieno della campagna per le elezioni presidenziali del 6 novembre, mentre gli aspiranti alla nomination repubblicana, che sabato si sono affrontati nelle primarie in South Carolina, appaiono divisi su tutto, meno che nell’attaccare il presidente proprio sulla politica estera. Quello lo fanno tutti, sia pure da angolature diverse. Un iper-conservatore come Newt Gingrich e un moderato cone Mitt Romney – i due favoriti in South Carolina – concordano nel contestare Obama: gestirebbe male le minacce provenienti da nazioni ostili agli Stati Uniti, specie l’Iran. E secondo The Hill, una rivista di Washington, più d’un aspirante repubblicano pensa che il presidente sia troppo duro con Israele e non lo sia abbastanza con i nemici di Israele. Parlando a dicembre a un forum di ebrei d’America repubblicani, Romney disse: “Obama appare più generoso con i nostri nemici che con i nostri amici”. Secondo Michelle Bachmann, una candidata già uscita di scena, “il presidente ha confuso l’impegno con la pacificazione e ha così dato corda ai nemici di Israele”. Eppure, la popolarità di Obama nella comunità ebraica americana, importante ai fini della sua rielezione, pare tenere bene: Forward, un sito ebraico, scrive che i principali finanziatori ebrei della campagna 2008 restano accanto al presidente, e soprattutto continuano a foraggiarlo, in questa campagna.
LO STESSO Obama, in un’intervista a Time, ha respinto le accuse repubblicane alla sua politica estera: “L’America è più forte”, dice. Certo, ha eliminato Osama bin Laden e altri suoi accoliti, ha portato a casa i ragazzi dall’Iraq e si appresta a cominciare a ritirarli dall’Afghanistan, riduce la presenza militare in Europa. E si sente così sicura da abbassare (un po’) la guardia alle frontiere e da puntare sul turismo per rilanciare l’economia.

Corriere della Sera 22.1.12
I vescovi Usa contro Obama
«Un attacco alla libertà religiosa e di coscienza». Così i vescovi americani qualificano la decisione dell'amministrazione Obama (foto) di obbligare gli ospedali, anche cattolici, a fornire contraccettivi e terapie abortive. Ieri il Papa, ricevendo un gruppo di prelati Usa in Vaticano, ha invitato a vigilare contro «il secolarismo radicale, che trova sempre più espressione nelle sfere politiche e culturali».

il Fatto 22.1.12
Shoah: la storia e la memoria
di Furio Colombo


Dal viaggio della memoria non si esce indenni”. Comincio con questa frase il testo che sto dedicando alla Shoah (il 27 gennaio è il Giorno della Memoria) perché l'ho ascoltata con emozione in un film nuovo e diverso che proprio in questi giorni si può (si deve) vedere in Italia. Cito altre frasi: “Se una storia non viene raccontata diventa qualcos'altro. E così ho scritto per te nella speranza che questa storia accompagni anche te. Siamo tutti figli della nostra storia”. Il film è La chiave di Sara, l'autore è il poco noto Gilles Paquet-Brenner, che qui si rivela un grande regista, la storia si svolge in Francia nel 1942. E oggi, mentre guardiamo il film, la domanda non è “che cosa avresti fatto allora” (che, certo, ricorre continuamente) ma è: “che cosa farai adesso”, dopo avere saputo che tutto ciò è accaduto davvero, e come è accaduto. L'originalità della domanda fa del film un esperimento unico. Per arrivare a quell'espediente e ricollegare i tranquilli cittadini di oggi a un giorno dimenticato, anzi insignificante per quasi tutti (Parigi, 11 luglio 1942) basta la banale vicenda di un appartamento da ristrutturare. Ci pensa con bravura il marito architetto mentre la moglie, giornalista, ha da fare con la frase di un discorso dell'allora presidente Chirac. Deve ricostruire per il suo settimanale d'attualità il riferimento di Chirac al Vél d'Hiv e ai fatti tremendi che in quel Velodromo si sono all'improvviso verificati, portando arresti di massa di intere famiglie, detenzione, violenza, deportazione, una tragedia priva di senso che ha sconvolto, travolto e in gran parte ucciso, attraverso la deportazione, diecimila persone, un terzo bambini.
“La chiave di Sara” e la rimozione francese
LA GIORNALISTA del film nota alcune cose: nessuno dei suoi giovani e abili colleghi sa niente o ha mai sentito parlare del Vél d'Hiv (come i parigini hanno a lungo chiamato per brevità il Velodromo d'inverno della città, fino alla dismissione). Non esiste una sola fotografia di diecimila persone ammassate per giorni, con i loro vecchi e i loro bambini, in uno stadio senza acqua e senza servizi igienici. Non esistono targhe o monumenti visibili (bisogna sapere e cercare). E una volta informati, i giornalisti nella redazione del settimanale di attualità, condannano la “cattiveria dei nazisti”. Tocca alla collega più anziana informarli: non i nazisti, i francesi. “Noi, siamo stati noi”. È un delitto francese, e per questo Chirac chiedeva scusa. Chiedeva scusa a chi? Intanto il marito architetto sta ristrutturando a regole d'arte l'appartamento, che è sempre appartenuto ai suoi genitori e ai suoi nonni. Sempre? Bastano due generazioni per risalire a chi sapeva, e non ha mai pronunciato il nome ebreo di chi era stato strappato da quell'appartamento, rendendolo libero all'improvviso, in tempo di guerra, in piena Parigi. È il segreto del film La chiave di Sara che ha questo di grande: il gioco terribile del “tu che cosa avresti fatto? ”si gioca adesso, e vi partecipa una famiglia parigina in cui nessuno è fascista e nessuno è antisemita, eppure deve decidere: si abita in quella casa espropriata con l'espediente della deportazione al Vél d'Hive poi ad Auschwitz, da cui, forse, nessuno di quella famiglia è tornato vivo? Non vi dirò di più del film (c'è di più e per questo va visto). Ma i lettori si saranno accorti che, per la prima volta dopo dieci anni e tante discussioni (alcune nobili, alcune colte, alcune difficili da condividere) mi sono imbattuto in un regista e uno sceneggiatore che hanno proposto la domanda: perché il Giorno della Memoria? E hanno dato una risposta: Perché il giorno della memoria è adesso. Per spiegare il mio sollievo devo riferirmi al saggio appena pubblicato da Valentina Pisanty, Abusi di Memoria, negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pag. 137, euro 16) a cui Il Fatto ha dedicato una pagina nei giorni scorsi. La Pisanty scrive in apertura del suo saggio: “Da dove derivano tanto il fastidio che taluni provano nei confronti del Giorno della Memoria, quanto la carità pelosa con cui altri lo celebrano? Il difetto, si direbbe, sta nel manico, e cioè nella scelta di rubricare la rievocazione della Shoah sotto la categoria della Memoria anziché della Storia. E ciò, si badi bene, non a ridosso degli eventi, quando gli italiani avrebbero potuto attingere ai ricordi vivi di uno sterminio appena perpetrato per interrogarsi sulle proprie responsabilità dirette, ma a distanza di decenni, quando la comunità commemorante cominciava a sentirsi sufficientemente estranea agli eventi in questione da poterli chiudere in una teca da museo. Come ha spiegato Maurice Halbwachs (1950) la memoria collettiva è sempre funzionale agli interessi, alle sensibilità, e ai progetti di chi la gestisce, e i filtri culturali che selezionano gli episodi ritenuti memorabili dipendono dai pensieri dominanti delle società a cui fanno capo”. Questa lunga e disturbante citazione mi serve per far notare la vistosa incoerenza con quanto si può leggere, appena poche righe prima, nello stesso capitolo (il primo) del libro della Pisanty. Cito: “La Shoah non è, come ci si è a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso frutto di incosciente faciloneria, piuttosto che una reale e diffusa intenzione omicida, ma un crimine anche italiano che, per decenni, gli italiani hanno spazzato via a copi di amnistia e di amnesia. Non per niente ci sono voluti quattro anni prima che Furio Colombo riuscisse a far discutere la proposta di legge in Parlamento: evidentemente nessuna delle parti politiche interpellate aveva particolare premura di affrontare la questione”. Valentina Pisanty è studiosa al di sopra di ogni dubbio quanto alla qualità scientifica e alla integrità morale, più che mai sul tema della Shoah. Ma il problema è logico. Quando ho scritto e proposto la legge sul Giorno della Memoria (che ovviamente sarebbe stato stravagante chiamare “il Giorno della Storia”) ero esattamente, per età e generazione, una delle persone giovani (nel mio caso al tempodelliceo) che, “aridossodegli eventi” aveva chiesto invano agli insegnanti, tutti membri del Cln o di diverse componenti della Resistenza) di parlare della Shoah come “delitto italiano”.
Ho raccontato questo colpevole vuoto nella mia introduzione al primo testo americano sulle leggi razziali e la persecuzione italiana (Susan Zuccotti, The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue, Survival, University of Nebraska Press, 1987,1992). E appena eletto deputato (1996) ho fatto ciò che non ho potuto fare a “ridosso degli eventi”. L’ho fatto ai nostri giorni, contro notevoli resistenze.
Il delitto italiano e la responsabilità
AVRÒ ESPRESSO “gli interessi della cultura dominante” o piuttosto l' ossessione che non mi aveva mai abbandonato su ciò che potevo ancora testimoniare del tempo in cui ero vissuto, e soprattutto su ciò che avrebbero potuto fare i pochi sopravvissuti che erano ancora in grado andare nelle scuole a raccontare, a consegnare ai più giovani la loro “chiave di Sara”, come faranno anche alcuni di loro venerdì prossimo? Ho detto ai miei colleghi deputati, nell'intervento finale con cui ho cercato di ottenere l'unanimità, che la Shoah era un delitto italiano, e l’ho fatto con la intenzione di negare per legge la presunta estraneità italiana allo sterminio degli ebrei. Ho chiesto ai deputati di ricordare che in quegli stessi banchi, in quella stessa Camera, centinaia di deputati italiani avevano votato all'unanimità le peggiori leggi razziali d'Europa, firmate dal solo re europeo che ha accettato di perseguitare una parte del suo popolo, violando perfino lo Statuto Albertino del tempo. Dov'è l'errore se dico che mai Storia e Memoria hanno coinciso in modo così netto, facendo insieme da impedimento a un vuoto che molti vorrebbero ancora?

Repubblica 22.1.12
Giornata della memoria
Una tazza di tè con gli ultimi sopravvissuti della Shoah
di Enrico Franceschini


Sembra un centro anziani come tanti Ma Eva, David, Bella e gli altri trecento soci dell´Holocaust Survivors di Londra in comune non hanno soltanto l´età. Turchi, ungheresi, polacchi, sono ebrei passati per i campi di sterminio. E qui con fatica hanno imparato a non vergognarsi di essere stati salvati
I nostri racconti Nessuno voleva sentire la nostra esperienza Quando raccontavo dei campi, la gente si ritraeva spaventata Ma forse era vergogna
Perché non io? Ho perso la mia migliore amica che è stata catturata dalla Gestapo e spedita a Auschwitz. Lei è morta io sono sopravvissuta Perché lei e non io?
Il dottor Mengele Avevo due fratelli gemelli Il dottor Mengele li usò per i suoi folli esperimenti Mio fratello divideva il letto con un nanetto del circo, anche lui una cavia
Credi in te stesso Come ho fatto a resistere? Devi credere in te, dicevo Sopravviverò, gridavo silenziosamente. E sono sopravvissuto. Ma tanti cedevano e sono morti

LONDRA «Io mi dicevo: sopravviverò. Sopravviverò! E sono sopravvissuto. Ma tanti accanto a me si lasciavano vincere dalla fame, dal freddo, dal dolore, e dicevano: moriremo. E sono morti». Isaac mi stringe il braccio, mentre ricorda, poi d´improvviso gli vengono gli occhi lucidi. «Scusi», dice, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Anche i miei genitori sono morti nei campi. Ho dato a mio figlio il nome di mio padre, a mia figlia quello di mia madre. È importante per noi. È importante ricordare». Stringe più forte il mio braccio, e continua a piangere.
S´avvicina il Giorno della Memoria, la giornata della rimembranza dell´Olocausto, quando Israele e gli ebrei di tutto il mondo e tutto il mondo civile commemorano la pagina più nera del Novecento, forse la più atroce nella storia umana. Ci sono tanti modi per evocarla. Uno è venire in quello che sembra un normale centro per anziani, in un quartiere della Londra nord, dove tanti nonnini e nonnine si ritrovano a seguire lezioni di cucina e danza, a giocare a carte e cantare, a guardare vecchi film e conversare, a pranzare e a prendere il tè. Scherzano, ridono, hanno l´aria di divertirsi. Ma non è un centro per anziani come gli altri, perché ognuno dei suoi trecento soci ha un segreto in comune: è un sopravvissuto ai campi di sterminio, al progetto nazista di cancellare un intero popolo dalla faccia della Terra. Si muovono con delicatezza, come preoccupati di andare in pezzi, qualcuno con le stampelle, hanno volti pieni di rughe, schiene curvate dagli anni (quasi cento per il più longevo, quasi settanta per la più giovane), ma occhi che brillano. Sono quelli che lo storico israeliano Tom Segev, con un´espressione poetica e agghiacciante, definì «il settimo milione»: gli ultimi rimasti nell´Europa del 1945, i superstiti al genocidio ebraico. Sediamoci a tavola con loro, per qualche ora. Ascoltiamo le loro storie. Prendiamo un tè con la Shoah.
L´Holocaust Survivors Centre di Hendon, una manciata di chilometri da Buckingham Palace, è l´unico centro di questo genere esistente al di fuori dello Stato ebraico. Funziona con i finanziamenti di Jewish Care, la maggiore organizzazione di beneficenza ebraica nel Regno Unito. Aprì una ventina d´anni or sono, per rispondere alle esigenze del gran numero di sopravvissuti dei lager hitleriani che vivono da queste parti. È diventato un modello per reintegrare anche altri rifugiati, altre vittime: compreso un gruppo di musulmani bosniaci, accolti di recente. È in un´anonima palazzina di mattoni: nulla, non un cartello, non un campanello, indica da fuori di cosa si tratta. Riservatezza, precauzione, bisogno di sicurezza, un po´ di tutto questo: comprensibilmente, la mia guida chiede che io presenti passaporto e tessera stampa, prima di entrare. Un po´, mi sembra di essere tornato a vivere in Israele, di sentire lo stesso senso di minaccia incombente, di accerchiamento. «L´Olocausto lascia un segno indelebile, anche quando uno non ci pensa più», spiega Judith Hassan, fondatrice del Centro. «Un trasloco, qualsiasi cambiamento, può risvegliare incubi che uno credeva di avere sepolto». Il Survivors Centre offre assistenza, terapia, il supporto di una seconda famiglia, oltre a quella che molti di loro hanno, talvolta anche folta. Ma figli e nipoti non vengono dalla Shoah. Gli arzilli vecchietti con cui prendo il tè, sì. Tra loro, si capiscono al volo. Un segreto li unisce.
«All´inizio nessuno voleva sentire parlare della nostra esperienza», dice Bella, ebrea polacca. «Quando raccontavo che ero stata nei campi, la gente si ritraeva, come spaventata. Ma forse non era paura, era vergogna: vedere noi sopravvissuti significava confrontare l´idea che l´uomo ha potuto fare questo a un altro uomo, ammettere di che cosa è stata capace la nostra specie. E dunque provare vergogna per se stessi. Perciò preferivano non ascoltarci, girare la testa dall´altra parte. E anche noi ci vergognavamo quasi di essere vivi, come di avere partecipato a qualcosa di mostruoso, sia pure nella parte delle vittime».
A volte erano loro stessi a non volerne parlare. «La mia vita fino al 1945 è stata una fuga senza fine», racconta Eva, ebrea turca. «Dalla Germania sono scappata in Belgio, dal Belgio alla Francia, dalla Francia alla Svizzera e di nuovo alla Francia. Ho militato nella Resistenza, fabbricavo documenti falsi. Sono stata arrestata tre volte e due volte sono scappata. Ho perso la mia migliore amica perché un giorno abbiamo tirato a sorte, lei ha preso una strada, io un´altra, lei è stata catturata dalla Gestapo e spedita subito ad Auschwitz, io sono riuscita a rifugiarmi in un convento di suore cattoliche. Lei è morta, io sono sopravvissuta. Perché lei e non io? Continuo a chiedermelo anche ora. Le suore ci facevano pregare tanto, ma quando la Gestapo venne a cercarmi perfino in convento fecero vestire da suora anche me, mi fecero cantare con loro l´Ave Maria davanti all´altare e mi salvarono. Sapevo che la Gestapo sarebbe tornata, fuggii anche da lì e infine mi presero. Quando i russi ci hanno liberati, mi sono ricongiunta con il mio fidanzato: lui era stato a Birkenau, era sopravvissuto perfino in quell´inferno. Era sopravvissuto per rivedermi, questo lo aveva tenuto in vita e fatto resistere. Così mi disse. E più tardi, la notte prima di sposarci, annunciò: stanotte ti racconto tutto quello che mi è accaduto laggiù, poi non ne parlerò più, mai più. E così ha fatto, fino al giorno della sua morte».
David, ebreo ungherese, invece parla: «Quando i tedeschi occuparono il mio paese, la mia famiglia perse tutto e ci rifugiammo nel ghetto. Poi vennero a prenderci anche lì e ci portarono via. Io ero forte, fui spedito in un campo di lavoro vicino al fronte russo, da cui ci ritirammo un po´ per volta fino a Berlino. Mia madre finì ad Auschwitz e non ne è uscita viva. Ma avevo due fratelli gemelli più piccoli, un maschio e una femmina, e a loro si interessò il dottor Mengele per i suoi folli studi e i suoi esperimenti, perciò furono trattati un po´ meglio degli altri e sopravvissero. Li ho reincontrati dopo la guerra, mio fratello mi ha raccontato che divideva il letto con un nano, un nanetto del circo, anche lui cavia per la curiosità di Mengele: era stato lui a salvarlo, portandogli sempre qualcosa extra da mangiare».
Anche Isaac, ebreo rumeno, era un ragazzo forte, si capisce pure adesso che ha più di ottant´anni. Lo rinchiusero in un campo di lavoro in Germania. «Al mattino una tazza di caffè acquoso, per pranzo un pezzo di pane e un´orrenda zuppa, ma io sbafavo tutto in una volta, senza mettere niente da parte, per il timore che la mia razione andasse perduta o rubata: dentro lo stomaco almeno era al sicuro. Non era un campo di sterminio con i forni per ridurci in cenere, ma se ti ammalavi o diminuivi il ritmo di lavoro, il giorno dopo sparivi e non tornavi più. Come ho fatto a resistere? Devi credere in te, mi dicevo. Sopravviverò, mi dicevo. Io sopravviverò! Lo gridavo silenziosamente a me stesso. Sopravviverò, sopravviverò. E sono sopravvissuto. Ma tanti altri cedevano alla fame, al freddo, al dolore, allo sconforto e dicevano, qui moriremo, se non oggi domani, e sono morti. Non bisogna mai arrendersi». Asciuga le lacrime. Si scusa per essersi commosso. Mi stringe il braccio, poi lo carezza, dolcemente. «Verso la fine della prigionia, i russi e gli americani bombardavano il campo tre volte al giorno, suonava l´allarme, i tedeschi scappavano come topi nei rifugi, e noi prigionieri uscivamo all´aperto, momentaneamente liberi, io guardavo il cielo, vedevo le sagome dei bombardieri, respiravo la libertà. Sopravviverò, mi dicevo, ebbene sono sopravvissuto. Nel ´48 sono arrivato dopo un´odissea in Palestina, ho combattuto nella guerra d´indipendenza per Israele, sono stato ferito, decorato al valore, ecco, vede qui il segno del proiettile? Da giovane non ero religioso, ma poi a Tel Aviv ho cominciato ad andare in sinagoga ogni sabato, e lo faccio ancora. Non perché io sia un credente, non ci vado per pregare, ci vado per onorare la nostra tradizione. Ci vado per ricordare, capisce cosa intendo?».
Ci alziamo in piedi, ci abbracciamo, ci diciamo shalom. Ho preso un tè con i sopravvissuti della Shoah, le interviste sono finite, e adesso torno in ufficio a scrivere. Loro restano qui, ciascuno con i propri fantasmi.

Repubblica 22.1.12
Ai Weiwei
Diario d’artista "Sono tutto quello che ho"


Era l´archistar di regime, orgoglio dell´espansione di Pechino nel mondo. Finché un giorno chiese la verità sul terremoto in cui morirono migliaia di bambini e accusò la corruzione dei politici Da allora il suo blog è stato chiuso e lui vive sotto sorveglianza. Adesso esce in Italia un libro con i suoi post, dai pensieri intimi alla ribellione
La democrazia, la ricchezza materiale e l´educazione universale sono il terreno di coltura del modernismo. In Cina questi sono scopi puramente idealistici

Costruire non è un gesto naturale, è qualcosa che il genere umano fa per il proprio bene. La funzione utilitaria è dettata dal modo in cui usiamo qualcosa, e il modo in cui lo usiamo allo stesso tempo determina chi siamo e le implicazioni della nostra esistenza. I modi di costruire sconcertano le persone. Giudicare pensieri ed emozioni, superare ostacoli materiali, penetrare o prolungare sentimenti può far sì che le cose materiali diventino fattori psicologici e permettano agli oggetti materiali di trascendere se stessi. Desiderio di chiarezza, semplicità, esattezza e franchezza negli edifici. Oltre a "è" e "non è", esistono anche "se", "o", "altro" e "anche".
13 gennaio 2006

Una volta che la fotografia si è allontanata dalla sua funzione originaria come tecnica o strumento di documentazione, diviene semplicemente uno stato effimero dell´esistenza trasformato in possibile realtà. È questa trasformazione che rende la fotografia una sorta di movimento e le fornisce il suo significato distintivo: è semplicemente un tipo di esistenza. La vita è solo un fatto indiscutibile, e la produzione di una realtà alternativa è un altro tipo di verità che non intrattiene alcun rapporto autentico con la realtà. Entrambe attendono che accada qualcosa di miracoloso - il riesame della realtà. Come intermediaria, la fotografia è un medium che non fa che spingere la vita e le azioni percepite verso questo conflitto.
16 gennaio 2006

In Cina manca ancora un importante movimento modernista, perché alla base di un simile movimento dovrebbero esserci la liberazione dell´umanità e l´illuminazione portata dallo spirito umanistico. La democrazia, la ricchezza materiale e l´educazione universale sono il terreno di coltura del modernismo. Per la Cina in via di sviluppo, questi sono scopi puramente idealistici. Il modernismo non ha bisogno di maschere o titoli: è il frutto immediato dell´intuizione, l´idea definitiva del significato dell´esistenza e delle difficoltà del reale, è la presa sulla società e sul potere, è l´assenza di compromessi, il rifiuto di collaborare. L´illuminazione viene conquistata tramite un processo di autoriconoscimento, ottenuta attraverso una sete bruciante e la ricerca di un mondo interiore, raggiunta attraverso dubbi e interrogativi interminabili. La realtà disadorna, il vuoto e la noia esibiti da molte opere moderniste nascono da questa verità senza sconti. Non è una scelta culturale, perché la vita non è una scelta: è la preoccupazione per la propria esistenza, la pietra miliare di tutte le attività mentali; l´obiettivo finale è la conoscenza.
23 febbraio 2006

Scrivere i propri sentimenti è semplice, ma può essere anche difficile, per le seguenti ragioni:
1. Non puoi essere sicuro del fatto che sia realmente ciò che stai pensando.
2. Se scrivi una cosa, non potrà mai essere qualcos´altro.
3. È difficile mantenere una buona postura da scrittore dall´inizio alla fine.
22 maggio 2006

Silenzio per favore, niente clamore. Lasciate che la cenere si posi, che i morti riposino in pace. Dare una mano a chi è in pericolo, soccorrere chi rischia la vita e aiutare i feriti sono forme di umanitarismo che non hanno niente a che fare con l´amore per la patria o per il popolo. Non sminuite il valore della vita: essa richiede una dignità più vasta, più equa. In questi giorni di lutto i cittadini non hanno bisogno di ringraziare la madrepatria e i suoi sostenitori perché non è stata capace di offrire una protezione migliore. Né è stata la madrepatria, alla fine, a permettere ai bambini più fortunati di sfuggire al crollo delle loro scuole. Non c´è bisogno di elogiare i politici, perché queste vite in pericolo hanno molto più bisogno di mezzi di soccorso efficaci che di lacrime e discorsi di solidarietà. E c´è ancor meno bisogno di ringraziare l´esercito, perché ciò significherebbe che mobilitandosi per il disastro i soldati abbiano fatto di più che svolgere semplicemente il loro giurato dovere. Siate tristi! Soffrite! Sentitelo nei recessi del vostro cuore, nella notte spopolata, in tutti i posti senza luce. Portiamo il lutto soltanto perché la morte è parte della vita, perché le vittime del terremoto sono parte di noi. Solo quando i vivi continuano a vivere con dignità, i morti possono riposare con dignità.
22 maggio 2008

Se mai ci dovesse essere un giorno in cui i bambini puri e innocenti comincino a non avere più fiducia nel mondo e a diffidare della sua gente, quel giorno sarebbe oggi. Venti giorni fa, quando una calamità naturale ha causato il crollo di migliaia di scuole nella zona del terremoto, si stima che sotto i mattoni e il cemento siano rimasti sepolti seimila alunni. Oggi quegli edifici in rovina nascondono corpi di bambini che non saranno mai scoperti, perché i soccorritori hanno smesso di cercare, con il cuore ormai triste e pieno di disperazione. Non siate così impazienti di declamare che i disastri fortificano la nazione, o di elogiare «l´unione senza precedenti», e non usate parole arroganti per coprire i freddi, duri fatti. Per prima cosa, tirate fuori quel che resta dei corpi smembrati dei bambini dalle macerie, ripuliteli, trovate un posto tranquillo, e seppelliteli in profondità.
Sono passati venti giorni dal terremoto, e ancora non esiste un elenco preciso degli scomparsi, né è stato fatto un conteggio accurato dei morti. I cittadini ancora ignorano chi siano questi bambini defunti, chi siano le loro famiglie, chi ha mancato di rinforzare la struttura delle scuole con l´acciaio e chi ha preparato un calcestruzzo di qualità inferiore per le fondamenta e i pilastri quando sono stati costruiti. Il destino dei bambini è quello della nazione, il loro cuore è quello della nazione. Non ce ne può essere un altro. Che i responsabili possano vivere gli anni che restano loro nella vergogna. Al di là degli incarichi, della posizione, dell´onore, per una volta nella vita alzatevi e assumetevi le vostre responsabilità. Comportatevi come se aveste una coscienza e delle spalle capaci di sopportarne il peso. Nemmeno questo, tuttavia, basterebbe ad alleviare il nostro senso di vergogna. Non sono state solo quelle scuole malferme a crollare, è stata la buona coscienza e l´onore dell´intera nazione a sgretolarsi con loro. In questo giorno la bellezza è morta. Non avete notato l´assenza di tutte quelle voci che ridono?
1 giugno 2008

«Attenzione! Sei pronto?» Sono pronto. O meglio, non c´è nulla per cui essere pronti. Una persona. È tutto quello che ho, è tutto quello che qualcuno potrebbe ottenere ed è tutto quello che posso consacrare. Non esiterò nel momento del bisogno, e non mi distrarrò. Se ci fosse qualcosa di cui avere nostalgia, sarebbero i miracoli che la vita porta con sé. Questi miracoli sono gli stessi per ognuno di noi, un gioco dove tutti sono uguali, come le illusioni e la libertà che lo accompagnano. Considero ogni genere di minaccia a qualsiasi diritto umano come una minaccia alla dignità e alla razionalità umana, una minaccia al potenziale della vita. Voglio imparare ad affrontarla. Rilassatevi, io imparo presto, e non vi deluderò. Non molto tempo fa, le morti collettive di quei bambini mi hanno aiutato a comprendere il significato della vita individuale e della società. Rifiutate il cinismo, rifiutate la collaborazione, rifiutate la paura e rifiutate di bere il tè, non c´è niente di cui discutere. È sempre lo stesso detto: non venite a cercarmi di nuovo. Non collaborerò. Se dovete venire, portate con voi i vostri strumenti di tortura.
28 maggio 2009

Repubblica 22.1.11
Dal Nido d’uccello al Sichuan
di Giampaolo Visetti


Da archistar del potere a simbolo del dissenso contro la dittatura del Partito comunista. La parabola di Ai Weiwei si è consumata all´improvviso, tra il 2008 e il 2011, mentre l´artista cinese più famoso al mondo era al vertice del successo. La svolta si è compiuta quattro anni fa. Per le storiche olimpiadi di Pechino Ai Weiwei, 54 anni, aveva collaborato al progetto del "Nido d´uccello", lo stadio divenuto icona dei giochi e dell´irresistibile ascesa dell´economia nazionale. Poche settimane prima, il disastroso terremoto nel Sichuan aveva però svelato la corruzione dei funzionari pubblici cinesi, causa di migliaia di morti nelle scuole costruite con materiali scadenti. Ai Weiwei a sorpresa si era mobilitato a favore della verità, contro l´insabbiamento dello scandalo da parte dello Stato: è stata la scelta che ha deciso la sua vita. Da allora è entrato nel mirino delle autorità, inaugurando l´era del nuovo dissenso mediatico che tanto allarma i regimi dell´Asia. Il profeta delle rivolte online, autore di opere-denuncia esposte nei più importanti musei del pianeta, era del resto un predestinato. Suo padre, il famoso poeta Ai Qing, era stato perseguitato da Mao Zedong, deportato, incarcerato e riabilitato solo dopo la morte del Grande Timoniere. Anche il figlio è divenuto oggetto di aggressioni, arresti, persecuzioni e infamanti accuse pubbliche. Due anni fa la polizia gli ha spaccato il cranio a Chengdu, mentre Ai Weiwei, affetto da una grave forma di diabete e di ipertensione, si apprestava a testimoniare al processo per le vittime del terremoto. Pochi mesi dopo un ordine di demolizione ha distrutto il suo nuovo atelier di Shanghai, che le stesse autorità gli avevano chiesto di realizzare in vista dell´Expo. L´8 ottobre di due anni fa, Ai Weiwei fu tra i primi a ricorrere al suo blog per esprimere la speranza dei cinesi che non rinunciano alla libertà, dopo l´assegnazione a Lui Xiaobo del premio Nobel per la pace. E la sua voce è tornata a farsi sentire un anno fa, quando il vento delle rivoluzioni mediterranee sembrava dove soffiare anche sulla Cina. Per il potere in allarme è stato l´ultimo affronto. Arrestato in aprile, rilasciato a fine giugno, accusato di evasione fiscale e di reati sessuali, Ai Weiwei vive sotto sorveglianza e non può lasciare Pechino. Su di lui pendono una multa che non può pagare e la spada di Damocle di una condanna a 14 anni. L´isolamento in un´invisibile prigione senza sbarre: la pena per chi osa criticare l´autoritarismo dei tecnocrati del dopo-Tienanmen.


Repubblica 22.1.12
Massacri e ingiustizie ora l’Australia si scusa "Pari diritti agli aborigeni"
Il governo annuncia un referendum costituzionale
di Gianni Clerici


L´annuncio del premier Julia Gillard: "Un futuro di unità e di riconciliazione"
Due secoli e mezzo di discriminazioni per le popolazioni colonizzate nel tardo XVIII secolo

MELBOURNE - E finalmente, dopo due secoli e mezzo di stermini, ingiustizie, discriminazioni, il gran giorno è arrivato. Essere un aborigeno, uno di quelli che per quarantamila anni abitò questo continente, è permesso.
Lo ha dichiarato ufficialmente il primo ministro, guarda caso donna, Julia Gillard, seduta fianco a due personaggi che parevano inventati da un buon sceneggiatore: alla sua destra, con un barbone bianco e un cappellaccio multicolore, l´aborigeno Patrick Dodson, e alla sinistra, Mark Leibler, discendente ebreo di una famiglia belga che emigrò alla vigilia della seconda Guerra Mondiale per sfuggire i nazisti. Una commissione di ben ventidue membri, tra i quali indigeni, uomini politici e esperti legali, ha presentato un progetto di legge, che dovrebbe sanare una piaga sempre più vasta e purulenta dal giorno in cui la nave dell´ammiraglio Cook mise l´ancora in quello che era allora chiamata Porth Phillip, e di dove oggi vi scrivo, comodamente seduto nel più moderno e vasto tennis club del mondo. Nel ricevere la richiesta che ponga, almeno ufficialmente, termine all´umano disastro, la signora Gillard ha affermato che «un referendum ci consentirà di avere coscienza del nostro passato, di permettere una modifica costituzionale, per un futuro unito e più riconciliato che mai».
Le vicende degli aborigeni, sino a ieri spregiativamente chiamati "abos", mi hanno afflitto non meno di quelle degli ebrei dal giorno in cui qui sbarcai, giovane cronista, proprio a Melbourne. I poveri discendenti dell´etnia che aveva vissuto secondo strutture mentali e religiose del tutto estranee agli invasori, non facevano che mendicare in qualche periferia degradata, o si poteva vederli mentre tendevano la mano per una bottiglia di birra. Decimati non solo dall´alcol, ma da batteri con i quali gli invasori li avevano mortalmente contagiati.
Durante le ripetute visite in questo paese ebbi anche l´occasione di un viaggio aereo in un villaggio, e non finii di inorridire, alle condizioni di vita nelle quali vidi costretti gli abitanti.
La loro storia attraversò varie fasi, che passarono traverso un iniziale acquisto delle loro terre, seguito da autentici espropri, e da più di un massacro, quando qualcuno di loro si permise un tentativo di resistenza. Esemplare tra tutti, il caso della Tasmania, in cui la reazione di un aborigeno in difesa di una donna portò alla costituzione di una catena di coloni che, dal sud al nord, setacciò l´intera isola, uccidendo quasi tutti gli aborigeni, ad eccezione di una loro rappresentante, Treganini, che divenne una sorta di reperto vivente, mostrata quasi fosse la tigre della Tasmania, un animale ormai scomparso.
Attraverso maggiore comprensione, senso di colpa, iniziative parlamentari e lobby umanitarie, la storia della sventurata etnia ha subito una pur lenta evoluzione positiva, scandita da successi di personaggi pubblici, quali il pittore Namatjira, il primo a figurare nell´elenco degli australiani celebri, senza paradossalmente possederne la nazionalità. E, in seguito, dopo la concessione del diritto di voto, nel 1967, sono giunte le affermazioni della tennista Evonne Goolagong, vincitrice a Wimbledon e, della medaglia d´oro delle Olimpiadi di Sydney, Kathy Freeman. Si qui, forse, l´istante più significativo della triste storia era rappresentato dalle pubbliche scuse del premier Kevin Rudd, nel 2008.
Le risultanze, e l´attuale proposta della commissione diretta da Liebler e Dodson, sottolineano che centododici anni sono trascorsi dall´attuale Costituzione, forse un po´ obsoleta, in cui si menzionava la volontà di sei Stati australiani di formare una nazione. «Nel servire al meglio la maggior parte degli australiani, ha fatto torto agli aborigeni», afferma il documento.
C´è ora da sperare che non sia necessario un referendum per far sì che l´unica etnia, quella degli antichi padroni del suolo detto australiano, venga dichiarata ufficialmente comproprietaria del continente.

il Riformista Ragioni 22.1.12
Palermo e Budapest. Due storie lontanissime, un timore comune
Un filo lega quello che sta capitando in tante diverse plaghe d’Europa. Finora abbiamo cercato di spiegare questi fenomeni usando la categoria del populismo. Non è servito a niente
di Paolo Franchi

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il Riformista Ragioni 22.1.12
L’inverno ungherese: la libertà in pericolo il paese in bilico
di M. Benedettelli e A. Grimaldi

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il Riformista Ragioni 22.1.12
Forconi di Sicilia Chi c’è dietro?
No, cosa c’è davanti
di Giuseppe Provenzano

qui

il Riformista Ragioni 22.1.12
Urss, perché il partito non fu mai in discussione
di Sergio Bertolissi

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Corriere della Sera 22.1.11
La proprietà? è un furto, il socialismo di Proudhon
risponde Sergio Romano


Margaret Thatcher, Deng Xiaoping, Ronald Reagan, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, Tony Blair, Peter Mandelson e forse anche Massimo D'Alema sono alcuni personaggi politici che hanno contribuito a sdoganare, anche a sinistra, l'idea che essere ricchi è cosa buona e giusta. Sbaglio o adesso, almeno in Occidente, sta tornando di moda Proudhon?
Giancarlo Sallier de la Tour

Caro Sallier de la Tour,
Suppongo che lei alluda implicitamente a una famosa frase, spesso considerata la sintesi del pensiero politico e filosofico di un intellettuale francese, Pierre-Joseph Proudhon, che fu negli anni Quaranta e Cinquanta dell'Ottocento uno dei maggiori avversari di Karl Marx. Alla domanda «Che cosa è la proprietà?», formulata nel 1840 sulla copertina del suo primo saggio politico-economico, Proudhon rispose seccamente: «La proprietà è il furto». Ma quella definizione non gli rende giustizia. In altre circostanza disse che «la proprietà è libertà» e sostenne che era condannabile soltanto quando diventa «potere dell'uomo sull'uomo».
Piuttosto che economista Proudhon fu un filosofo e un moralista. Credeva nel diritto al lavoro, nella giustizia, nel rispetto dell'individuo, nella «eguaglianza delle intelligenze», nel «livellamento delle condizioni», nel federalismo, nella progressiva scomparsa dello Stato. Il suo grande sogno fu quello di una economia cooperativa in cui tutti i lavoratori avrebbero condiviso gli oneri e i benefici dell'impresa. Nel gennaio del 1849, dopo i grandi moti rivoluzionari dell'anno precedente, fondò una Banca del popolo che avrebbe dovuto funzionare senza capitali grazie al semplice scambio di carta moneta. Scrisse libri, articoli, saggi, fu brevemente deputato, venne condannato per «incitazione all'odio e al disprezzo del governo», passò tre anni in prigione, fu esule in Belgio all'epoca del Secondo Impero e amnistiato da Napoleone III nel 1860. Uno dei suoi libri più noti, «La filosofia della miseria», provocò una sferzante e sarcastica reazione di Marx intitolata «La miseria della filosofia». L'intellettuale tedesco trattava l'intellettuale francese alla stregua di pasticcione romantico, incapace di interpretare freddamente e realisticamente le leggi della storia. L'ultimo capitolo del duello fra Proudhon e Marx andò in scena in Italia quando Bettino Craxi, il 27 agosto 1978, pubblicò su l'Espresso un lungo articolo («Il Vangelo socialista») in cui fece dell'intellettuale francese un antenato del Psi e gli attribuì il merito di avere previsto gli errori del comunismo e gli orrori del regime bolscevico.
Un'ultima osservazione, caro Sallier de la Tour. Proudhon fu contrario alla creazione dello Stato italiano. Scrisse che Mazzini «si era fatto propagandista d'un sistema falso nel suo principio e funesto nelle sue conseguenze: l'unità d'Italia». Disse che non sapeva più se credere «alla sincerità di Garibaldi o alla sua perfidia». E concluse: «Credete forse al civismo intelligente dei pugnali siciliani, dei coltelli trasteverini, delle bombe orsiniane, delle baionette garibaldine?». Se il lettore vorrà saperne di più potrà leggere una breve raccolta di scritti di Proudhon, «Contro l'Unità d'Italia», pubblicata nel 2011 dall'editore Miraggi di Torino a cura di Antonello Biagini e Andrea Carteny.

Repubblica 22.1.12
Emerson - Thoreau
"Impariamo a goderci i frutti della vita"
Dialogo su natura, amore e altre meraviglie


Il pensiero dei due filosofi nei diari tenuti per anni
L´urlo della tempesta, il fruscio della foglia: in essi vi è un´armonia essenziale e inesplorata
Un innamorato non nomina volentieri la sua amata poiché ella è sacra
Io non preferisco una religione Amo Brahma e Buddha al pari di Dio

Emerson: È strano come il mondo, che da un punto di vista speculativo e serio noi sappiamo così insoddisfacente e oscuro, ci debba essere tanto caro. Nulla, neppure il suo massimo fulgore, quando la Natura sfoggia il suo abito più bello e l´Arte fa di tutto per dilettare – né lo stesso lucente sole e lo splendente firmamento in cui esso sta come un capo – può impedire a un uomo, in certi momenti, di dire alla sua anima: «È solo vanità». Neppure le più fantastiche ipotesi, né un elaborato ragionamento, possono sostituire questa testimonianza alla familiare verità che lo spirito umano ha origini più alte della materia, una patria più nobile della Terra; che esso è troppo grande per essere ingannato con queste inezie, e troppo eterno per amalgamarsi alla caducità mortale.
La filosofia ha scoperto che la materia luminosa si autoconsuma e, fuor di ogni metafora, ciò è vero per questo mondo splendido che continua a corrompersi ma che ancora ci attrae col suo falso splendore.
16 aprile1822 (19 anni)
Thoreau: La Natura non fa rumore. L´urlo della tempesta, il fruscio della foglia, il picchiettio della pioggia non disturbano: in essi vi è un´armonia essenziale e inesplorata.
18 novembre 1837 (20 anni)
Società
Emerson: La socialità come unione imperfetta. Non è patetico che l´azione dell´uomo sugli uomini sia così parziale? Noi ci tocchiamo solo in certi punti. È possibile che tutto quello che posso fare o essere per il mio simile è leggere il suo libro o ascoltare i suoi progetti in una conversazione? Io mi avvicino a un Carlyle con desiderio e gioia. Di mese in mese sono stato mosso dalla speranza di un qualche totale abbraccio e di una perfetta unione con una nobile mente, e alla fine apprendo che è solo un atto così debole e remoto e irrisorio come leggere uno scritto di Mirabeau o di Diderot, e di pochi altri come loro. Ecco tutto ciò che possiamo ricercare. Di più di quello non saremo l´uno per l´altro. Oh, anima ostacolata! Non che siano il mare e la povertà e la carriera a separarci. Ecco Alcott alla mia porta, eppure l´unione è forse più profonda? No, il mare, la vocazione, la povertà sono solo recinti apparenti, invece l´uomo è un´isola e non può essere toccato. Ogni uomo è un cerchio infinitamente respingente, e in quello stato mantiene la sua essenza individuale.
19 maggio 1837 (34 anni)
Thoreau: L´uomo non è nato subito nella società – a malapena nel mondo. Il mondo che egli è nasconde a un tempo il mondo che egli abita.
La massa non s´innalza mai al livello del suo esponente migliore, ma al contrario si degrada al livello di quello peggiore. Come dicono i riformatori, è un livellamento verso il basso, non verso l´alto. Di qui, società è solo un altro nome per calca. Gli abitanti della terra, riuniti in un unico luogo, costituirebbero il più grande accalcamento.
La massima vicinanza cui gli uomini pervengono tra loro ammonta sì e no a un contatto meccanico. Come quando sfregate due pietre: sebbene emettano un suono che è udibile, in realtà esse non si toccano.
In ossequio a un istinto naturale, gli uomini hanno costruito le loro capanne e piantato il grano e le patate a una distanza tale che gli consentisse di parlarsi tra loro, e in tal modo hanno dato origine a città e villaggi, ma non si sono associati, si sono solo riuniti, e la società ha significato semplicemente un raduno di persone.
Il nostro incontro sia simile a quello tra due pianeti, i quali non si precipitano a mescolare le loro sfere discordi, bensì sono avvinti assieme dall´influsso di una sottile attrazione, per presto roteare distintamente nelle loro rispettive orbite: da ciò il loro perigeo, o punto di massima vicinanza.
La società non sia l´elemento in cui nuotiamo, o in cui siamo sballottati in balìa delle onde, ma sia piuttosto una striscia di terraferma che si protende nel mare, la cui base è lambita ogni giorno dalla marea, ma la cui sommità solo la marea di primavera può raggiungere.
14 marzo 1838 (21 anni)
Amicizia
Thoreau: Ancora una volta mi presento solo a me stesso.
La conversazione, il contatto, la familiarità sono i passi che portano all´amicizia nonché i suoi strumenti, ma essa è davvero perfetta quando quelli non servono più e la distanza e il tempo non oppongono barriere.
Non ho bisogno di chiedere a qualcuno di essere mio amico, non più di quanto il sole abbia bisogno di chiedere alla terra di essere attratta da esso.
Non spetta a lui dare, né a me ricevere. Io non posso perdonare il mio nemico – che si perdoni da sé.
Normalmente noi degradiamo l´Amore e l´Amicizia col presentarli sotto l´aspetto di un banale dualismo.
Il mio amico sarà tanto migliore di me quanto la mia aspirazione è superiore alla mia prestazione.
1839 (22 anni)

Emerson: Un innamorato non nomina volentieri la sua amata – piuttosto parla di tutte le persone e di tutte le cose che la circondano – poiché ella è sacra. Al pari un amico rispetterà il nome del suo amico. Nominalo per inorgoglirtene e vedrai che già smette di appartenerti. L´amante vile e di bassa lega viene ferito nel suo orgoglio dalla naturale dignità della vergine che lo intimidisce e lo sconcerta, faccia pure quel che vuole. Egli desidera possederla, affinché possa almeno riacquistare la lingua e il proprio contegno in sua presenza. In tal modo egli ruba la vittoria, che invece doveva nobilmente guadagnarsi coll´innalzare il proprio carattere al regale livello di quello di lei. La stessa etica vale per l´amicizia. Venera le superiorità del tuo amico. Non augurargliene di meno neppure col pensiero, ma fanne un mucchio e dichiarale tutte a voce: esse sono la forza elevatrice per mezzo della quale t´innalzerai a nuovi gradi di evoluzione.
La fiducia in se stessi traslata su un´altra persona è rispetto, ossia: solo chi rispetta se stesso sarà rispettoso degli altri.
21 giugno 1840 (37 anni)
Amore
Emerson: Nel nostro mondo, la donna nasconde la sua forma agli occhi degli uomini: di essi – pensa correttamente – non ci si può fidare. In un giusto stato di cose, l´amore di una donna, che ciascun uomo recasse nel suo cuore, dovrebbe proteggere tutte le altre donne dai suoi sguardi, come avvolgendole in un impenetrabile velo di indifferenza. L´amore di una donna dovrebbe renderlo indifferente verso tutte le altre, o piuttosto il loro protettore e santo amico, proprio per il bene di lei. Ora, invece, negli occhi di tutti gli uomini vi è un certo lampo maligno, un vago desiderio che li incolla alle forme di molte donne, mentre i loro affetti si concentrano su una sola di esse. Lo sguardo del loro occhio naturale non coincide con quello del loro occhio spirituale.
28 settembre 1841 (38 anni)
Thoreau: Non è facile trovare una persona tanto coraggiosa da giocare al gioco dell´amore da sola con te, ma ha sempre bisogno di una terza persona, o del mondo, che la incoraggi. Mette gli altri di mezzo. L´amore è così delicato ed esigente, che non vedo come esso possa mai iniziare. T´aspetti forse che io ti ami, a meno che tu non ponga il mio amore in cima alla tua lista? Le tue parole mi giungono corrotte, se il pensiero del mondo si è insinuato tra te e il pensiero di me. Non sei abbastanza audace per l´amore. Esso s´avventura da solo, senza paura, nelle terre selvagge.
14 marzo 1842 (25 anni)
Lavoro
Emerson: A giudicare dalla mia personale esperienza, temo che io debba rimangiarmi tutte le belle cose che ho detto a proposito del lavoro manuale dei letterati. Questi dovrebbero essere sollevati da ogni genere di responsabilità pubblica o privata. La cavalletta è un fardello per loro. Io sorveglio i miei umori tanto ansiosamente quanto l´avaro i suoi soldi; poiché lo stare in compagnia, gli affari, le mie faccende casalinghe turbano la mia armonia e mi rendono incapace di scrivere.
4 febbraio 1841 (38 anni)
Thoreau: La maggior parte degli uomini è così presa dalle preoccupazioni e dalle grossolane pratiche della vita, da non poterne cogliere i frutti più delicati. In effetti, chi lavora duramente non riesce a godere giorno per giorno di una vera e propria integrità: non può permettersi di mantenere con gli altri i rapporti più nobili e belli. Il suo lavoro si deprezzerebbe sul mercato. Come può ricordare con chiarezza la propria ignoranza, chi deve così spesso fare ricorso alle nozioni che sa?
Agosto 1845 (28 anni)
Religione
Thoreau: Io non preferisco una religione o una filosofia rispetto a un´altra. Non ho alcuna comprensione per la bigotteria e l´ignoranza che fanno effimere, parziali e puerili distinzioni tra la fede o forma di fede di un uomo e quella di un altro – tra cristiani e pagani, ad esempio. Dio mi scampi e liberi dai pregiudizi, dalla parzialità, dall´estremismo, dalla bigotteria. Per il vero filosofo tutte le correnti, tutte le civiltà, sono uguali. Io amo Brahma, Hari, Buddha, il Grande Spirito, al pari di Dio.
Maggio 1850 (33 anni)
Emerson: In materia di religione, le persone fissano avidamente lo sguardo sulle differenze fra il loro credo e il vostro: mentre il fascino dello studio sta proprio nel trovare i punti di accordo e le identità in tutte le religioni degli uomini.
Sono i trenta milioni di americani, o sono le tue dieci o dodici unità a incoraggiare il tuo animo di giorno in giorno?
Senza data 1869 (66 anni)
L´insegnamento
Thoreau: Per quanto misera sia la tua vita, affrontala e vivila; non evitarla, e non insultarla. Essa non è cattiva come te. Più sei ricco, più povera ti sembrerà. Un brontolone troverà qualcosa che non va perfino in paradiso. Ama la tua vita, per quanto povera sia. Forse puoi trascorrere qualche ora piacevole, eccitante e meravigliosa, anche in un ospizio per i poveri. Il sole che tramonta viene riflesso con la stessa lucentezza dalle finestre dell´ospizio come dalla casa del ricco. In primavera la neve si scioglie altrettanto rapidamente sulla soglia di quest´ultimo.
Non vedo come un animo tranquillo non possa vivere felicemente anche là, all´asilo dei poveri, e dilettarsi con lieti pensieri, come in ogni altro posto; e, di fatto, i poveri del paese sembrano vivere una vita più indipendente di chiunque altro. Forse semplicemente perché sono abbastanza grandi da ricevere senza sentirsi umiliati. Coltiva la povertà come la salvia, come un´erba aromatica del tuo orto.
Non darti pena di ottenere cose nuove, siano esse abiti o amici. È distrarsi. Rivolta quelle vecchie, ritorna a loro. Le cose non cambiano – siamo noi a cambiare. Se per tutta la vita fossi confinato nell´angolo di una soffitta, come un ragno, il mondo per me sarebbe ugualmente grande finché avessi la compagnia dei miei pensieri.
31 ottobre 1850 (33 anni)
Emerson: Tieni attentamente d´occhio i tuoi pensieri. Essi giungono inaspettati, come un nuovo uccello sui tuoi alberi, e, se ti volgi alla tua occupazione abituale, spariscono: e non ritroverai mai più quella percezione; mai, dico – ma magari anni, secoli, e chissà quali eventi e quali mondi potrebbero frapporsi tra te e il suo ritorno!
Nel romanzo, l´eroe incontra una persona che lo sbalordisce dimostrandogli di conoscere perfettamente la sua storia e il suo carattere, e da lui si fa promettere che, in qualunque momento e in qualunque luogo lei lo dovesse rincontrare, il giovane dovrà immediatamente seguirla e obbedirle. Altrettanto vale per te e il nuovo pensiero.
21 ottobre 1871 (68 anni)

il Riformista Ragioni 22.2.12
La forza della poesia, Pound e lo scoglio della sua illusione
di Melo Freni

qui

Repubblica 22.1.12
Giulia Lazzarini fa la rivoluzione con Basaglia e i matti di Trieste


Mariuccia Giacomini era un infermiera dell´ormai famoso manicomio di Trieste. Dopo anni di lobotomie ed elettroshock condivise, prima sorpresa, poi, via via, sempre più convinta, la "rivoluzione" di Franco Basaglia che nel ´78 dette dignità alla malattia mentale. Una testimone eccellente, dunque, la signora Mariuccia, che Renato Sarti triestino, autore e regista di spettacoli di impegno civile, ha usato per il suo Muri, un monologo che lega abilmente (solo qualche tono moralistico nel finale), il percorso umano al percorso politico che impose l´idea di cura come comprensione e rispetto del malato, anche se negli anni, poi, più volte tradita. Cose risapute, d´accordo, ma che qui trovano un nuovo calore, grazie anche al lavoro scenico di Giulia Lazzarini, attrice del teatro di Strehler: davanti a un leggìo, vestita semplicemente, offre una performance espressiva di gran livello, fatta di intonazioni, pause. Sottrazioni. Che è la cifra del recital, a cui avrebbe giovato essere più che una lettura, un vero spettacolo. (anna bandettini)

Corriere della Sera 22.1.12
Il gene che controlla la memoria umana


Nel nostro cervello c'è un controllore superiore della memoria di cui non si sospettava l'esistenza. Scienziati del Mit di Boston hanno scoperto un gene che esercita un ruolo di coordinatore generale delle operazioni compiute dai neuroni quando dobbiamo ricordare.
Il gene (Npas4) è particolarmente attivo nell'ippocampo, una struttura cerebrale caratterizzata nel trattenere memorie a lungo termine.
Il gene individuato accende una serie di altri geni che modificano le connessioni tra i vari neuroni. Gli esperimenti descritti sulla rivista americana Science sono stati condotti sui topi e sono giudicati preziosi anche perché permetteranno di creare una mappa cerebrale con tutte le aree impegnate nel memorizzare i nostri ricordi.

Corriere della Sera 22.1.12
Addio a Cioffi, «nemico» di Freud


Il filosofo statunitense Frank Cioffi, l'epistemologo che ha messo in dubbio la veridicità degli scritti di Sigmund Freud, sostenendo che in più casi il padre della
psicoanalisi avrebbe mentito falsificando i dati dei pazienti, è morto all'età di 84 anni nella sua casa di Canterbury, in Inghilterra, dove si era trasferito dagli anni Novanta.

Corriere della Sera Salute 22.1.12
Farmaci e psicoterapia spesso alleati


F ino a qualche anno fa gli ansiolitici erano ai primi posti fra i farmaci più venduti, venivano prescritti con facilità e assunti a dir poco con disinvoltura. Ora si usano molto meno.
«Oggi i farmaci di prima scelta sono gli antidepressivi serotoninergici: ne esistono molti, con caratteristiche diverse e per ogni paziente il medico può scegliere il più adatto — spiega Liliana Dell'Osso, di cui sta per essere pubblicata un lavoro che fa il punto sulle terapie più efficaci nei disturbi d'ansia —. Si tratta di farmaci efficaci, e più maneggevoli rispetto alle benzodiazepine, i classici ansiolitici. In alcuni casi possono dare tolleranza, ovvero la necessità di aumentare le dosi per avere lo stesso effetto, o perfino dipendenza. Si possono usare in alcune fasi della terapia, ma non a lungo termine. Per di più spesso non sono risolutive, ad esempio in caso di attacchi di panico: attenuano ma non eliminano le crisi di panico, per cui il paziente continuerà a vivere nell'ansia che possano capitargli di nuovo e non guarirà». Purtroppo, molti ansiosi patologici ricorrono al fai da te, scegliendo l'ansiolitico più a portata di mano, l'alcol: «L'alcol rilassa, perciò molti lo considerano una panacea per superare momenti difficili — interviene Laura Bellodi del San Raffaele —. Ma è una bomba a orologeria. Sono tanti gli alcolisti che hanno iniziato a bere per curare da soli un disturbo d'ansia e poi non sono riusciti più a fermarsi».
Il primo passo per un trattamento adeguato è chiedere aiuto: oggi i pazienti lo fanno più spesso rispetto al passato, ma in alcuni casi, ad esempio in coloro che soffrono di fobia sociale, è la malattia stessa a rendere difficile rivolgersi al medico. L'unico, peraltro, che può fare la diagnosi.
«I test fai da te sono sconsigliabili, i pazienti hanno ossessioni e difficoltà che possono perfino essere acuite da domande non mediate da un professionista, che sa come porgerle e interpretarle» sottolinea a questo proposito Liliana Dell'Osso.
Il medico, anche quello di medicina generale, può capire di che disturbo si tratta e soprattutto se dipende da un problema organico.
«Esistono infatti malattie, come il decadimento cognitivo nell'anziano e alcune patologie endocrine o della tiroide, che possono presentarsi con i sintomi di un disturbo d'ansia» avverte Bellodi. «Una volta certi della diagnosi, — prosegue la specialista — spesso è utile associare agli antidepressivi una terapia cognitivo-comportamentale. È fondamentale chiedere che tipo di psicoterapia sarà impostata, perché nei disturbi d'ansia la classica psicanalisi, ad esempio, non è molto utile». «Quel che conta, infatti, — spiega Laura Bellodi — non è indagare la personalità, ma fornire al paziente gli strumenti cognitivi e "pratici" per tornare in una logica di comportamenti sani, che non siano dettati dall'ansia. Una psicoterapia ben fatta garantisce risultati in breve tempo: entro sei, otto mesi si deve vedere un cambiamento, altrimenti vuol dire che quella psicoterapia non è quella giusta».
Ma qual è il disturbo più difficile da affrontare?
«Di certo il disturbo ossessivo-compulsivo — risponde Bellodi, che presiede il comitato scientifico dell'Associazione Fuori dalla Rete per aiutare i pazienti ossessivo-compulsivi —. Ha caratteristiche un po' diverse dagli altri e si è anche ipotizzata una reale compromissione di alcune strutture cerebrali. Tuttora non riusciamo a risolvere quattro casi su dieci. Ma in tutti gli altri disturbi le cure sono quasi sempre risolutive: purtroppo, non tutti i pazienti l'hanno ancora capito. E questo è forse l'equivoco peggiore sui disturbi d'ansia».

Corriere della Sera Salute 22.1.12
Perché ci baciamo resta un mistero
di Marco Rossari


Nonostante sia un gesto comune che per amore o amicizia quasi ogni individuo reitera addirittura su base quotidiana, le opinioni intorno all'«osculazione» divergono. Gli scienziati proprio non sono riusciti a trovare una linea univoca sui motivi che ci hanno spinto a questa pratica bizzarra: sarà un fenomeno naturale o di natura culturale? Derivante dall'istinto o dall'apprendimento? E quali reazioni scatena nel nostro corpo, dalle estremità fino al cervello? Soprattutto: di che diavolo parliamo quando alludiamo all'atto definito da questo termine infelice? Parliamo di bacio, semplicemente. Questo gesto, che innesca una forte reazione emotiva e ha un palese significato evolutivo, ha spinto Sheril Kirshenbaum, giornalista scientifica dall'anima pop, a indagare con l'aiuto della biologia e dell'antropologia, delle neuroscienze e della psicologia, quella che l'attrice Mae West, primo sex symbol del cinema americano, chiamava «la firma di un uomo».
O di un animale, tanto per cominciare. Perché quando Darwin si convinse che l'uomo fosse il solo a sapere baciare prese un abbaglio grande come una casa. Anche se parrà un brano partorito dalla fantasia di Gianni Rodari, oggi sappiamo che le talpe si strofinano il muso, le tartarughe si danno qualche colpetto con la testa, i porcospini si sfregano il naso (altre parti libere, d'altro canto, non sarà facile trovarne), i criceti si piazzano faccia a faccia, i gatti si leccano, le giraffe intrecciano il collo e diverse specie di pipistrelli usano perfino la lingua. D'ora in poi, vietato affermare: "Baci come un animale". Potrebbe essere scambiato per un complimento.
P iù complesso determinare come la prassi si sia affermata fra gli esseri umani. Le teorie sono tante. Secondo il neuroscienziato Vilayanur S. Ramachandran, i nostri antenati, una volta suggestionati a puntare sul colore rosso a caccia di cibo (leggi: i frutti maturi in mezzo al fogliame), hanno applicato quell'istinto all'anatomia femminile, passando dalle zone intime alla bocca, che già il celebre etologo Desmond Morris definiva "un'eco genitale". A quest'ultimo si deve anche la seconda teoria, che collega in modo ragionevole la sensazione di benessere alla fase dell'allattamento.
Sempre all'infanzia si fa risalire la terza ipotesi, quella sulla "premasticazione", un metodo essenziale da che esiste il genere umano per svezzare bambini ancora non autosufficienti.
Se ci rivolgiamo all'anatomia potremo invece scoprire che non c'è alcuna relazione tra la mano con la quale scriviamo e il fatto di inclinare la testa a destra nel corso di un bacio. Anche qui le opinioni divergono: c'è chi sostiene che la faccenda abbia inizio nell'utero e chi con l'allattamento
Di sicuro, per quanto poco sexy, sarà istruttivo sapere che lo zygomaticus major, lo zygomaticos minor e il levator labii superior lavorano di concerto a sollevare il labbro superiore, mentre il depressor anguli oris e il depressor labii inferioris spostano quello inferiore. A quel punto entrano in gioco le terminazioni nervose: le minuscole ma alacri connessioni mandano una cascata di segnali alla corteccia somatosensoriale e al sistema limbico. Così gli impulsi neurali spingono il nostro corpo a produrre una serie di neurotrasmettitori e ormoni, tra cui dopamina, ossitocina e serotonina. Crederete di aver baciato il principe azzurro o la donna ideale, ma in verità siete solo manovrati da una cascata di endorfine prodotte dalla ghiandola pituitaria e dall'ipotalamo. Forse non sembrerà molto romantico, ma l'amore ha un nome ed è epinefrina (più nota come adrenalina).
C erto, se diamo retta ai biologi potremmo invece farci l'idea che a spingerci a baciare siano soprattutto i nostri germi, smaniosi di fare a cambio con i loro consimili. Negli anni Cinquanta un ricercatore del Baltimore City College stabilì che due individui innocentemente dediti a sdilinquirsi nelle ultime file di un drive-in si scambiano 278 colonie di batteri, per quanto innocui al 95%, e questo perché la nostra saliva contiene cento milioni di germi al centimetro cubo. Sarà da qui che avrà origine la cosiddetta filematofobia, ossia "paura del bacio", dietro la quale si nasconde il timore per l'Herpes o per il virus Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi o "malattia del bacio"?
Nell'ambizione di scoprire quale eco avesse nel nostro corpo lo stucchevole "apostrofo rosa" (così definito da Rostand, l'autore del Cyrano), la Kirshenbaum s'è spinta fino al laboratorio di un neuroscienziato cognitivo, per cercare - con risultati poco rilevanti, va detto - di "vedere" grazie a uno strumento di scansione cerebrale, ossia la macchina della magnetoencefalografia, detta affettuosamente MEG, la reazione di un gruppo di volontari alla visione di qualche bacio in fotografia. S'è arresa con un nulla di fatto. Ci vuole anche un briciolo di mistero. O di poesia, se si preferisce. Quella di uno come Edward E. Cummings, ad esempio, che se ne intendeva: "I baci sono un destino migliore della saggezza". Parole sagge che cascano al bacio.

Corriere della Sera Salute 22.1.12
Chi lo teme, chi lo trova osceno e chi preferisce mordicchiare le ciglia


Nel tentativo di capire l'uso del bacio nel mondo, anche gli antropologi ebbero i loro bei grattacapi. Dare per scontato un gesto tanto semplice fu un grave errore e a volte ebbe qualche risvolto grottesco. Nell'Ottocento, ad esempio, l'avventato William Winwood Reade, autore di Savage Africa, decise di provare a baciare la figlia di un capotribù e la ragazza fuggì a gambe levate, spaventata a morte e convinta che il mite studioso volesse divorarla viva. In un altro libro datato 1872, The Martyrdom of Man, lo stesso Reade raccontò il ritorno a casa dei cacciatori in una comunità africana. Venivano accolti con grande affetto, «accarezzandoli in viso, — scrive Reade — dando loro colpetti sul petto e abbracciandoli in tutti i modi, ma senza usare le labbra, perché il bacio è sconosciuto fra gli africani». Non solo, con tutta probabilità avrebbero anche trovato parecchio sgradevole il fiato al dentifricio. Ugualmente spiazzato rimase uno scrittore di viaggio che, nella stessa epoca, fece una trasferta in Finlandia e lì notò che uomini e donne non disdegnavano di fare il bagno nudi tutti insieme, ma consideravano la pratica del bacio oscena oltre ogni dire. «Che ci provi, mio marito — lo avvertì una simpaticona — e gli brucio le orecchie, tanto da fargli sentire la scottatura per una settimana».
Il celebre Bronislaw Malinowski, antropologo polacco naturalizzato britannico, a zonzo per le isole Trobriand, vicino alla Nuova Guinea, notò che durante l'atto sessuale, per qualche inesplicabile motivo, al posto di baciarsi, i trobriandesi si mordevano le ciglia. «Non sono mai riuscito a comprendere — scrisse Malinowski — il meccanismo o il valore sensuale di questo atto».
Farà sorridere invece ricordare che negli anni Venti del Novecento, «Il bacio», statua scolpita da Auguste Rodin (1888-1889), venne esposta a Tokyo, ma con qualche cautela: fu circondata da una cortina di bambù per non offendere il pudore del pubblico.

Corriere della Sera Salute 22.1.12
In rete 150 anni di salute italiana


Interessanti sono le informazioni su sanità e salute contenute nel contributo che l'Istat (Istituto italiano di statistica) dà per celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia. Il sito appositamente creato (http://seriestoriche.istat.it/) fornisce dati storici che descrivono, iniziando dal 1863, i mutamenti del Paese, compresi quelli che hanno riguardato la salute degli italiani. Scopriamo così che, se appena dopo l'unità d'Italia moriva, entro il primo anno di vita, un bambino su quattro, oggi si è saliti a uno su 100.
Anche l'aspettativa di vita è assai cresciuta e le serie storiche ci descrivono le componenti di questo miglioramento: prima di tutto una riduzione, nettissima a partire dal secondo dopoguerra, delle malattie infettive. Interessante anche la statistica sui posti letto negli ospedali, disponibile dal 1954: descrive una parabola con il suo vertice negli anni 70 (11 posti ogni 100 mila abitanti), poi si registra una contrazione che ha portato a 4 per 100 mila abitanti il numero di posti letto nell'ultima rilevazione del 2006. Altra cifra significativa, la statura alla visita di leva: nel 1872 i ragazzi erano alti in media 1 metro e 62 cm; nel 1998 (ultimo dato) 1 metro e 74 cm.