mercoledì 25 gennaio 2012

l’Unità 25.1.12
Napolitano, gli ideali della Resistenza contro la crisi


Il «patrimonio di ideali e valori» della Resistenza «costituisce tuttora un essenziale riferimento per fronteggiare le sfide proposte dalla grave crisi economica e finanziaria e da un contesto mondiale profondamente cambiato». Lo sottolinea il presidente della Repubblica, nel messaggio all’Anpi in occasione dell’incontro su «L’Unità d’Italia alla prova di resistenza», «una significativa occasione di riflessione sulla tenuta dei valori fondamentali che hanno ispirato il processo di unificazione nazionale e che hanno conosciuto, dopo il ventennio fascista, nuova vitalità grazie alla Resistenza».

l’Unità 25.1.12
Ocse: «Falsa l’idea che la crescita economica si traduca nell’aumento dei redditi più bassi»
Mutamento «Le disuguaglianze non lo mettono in moto se non si creano pari opportunità»
Italia, ricchi e poveri
La distanza sociale aumenta
Ricerca Ocse sull’aumento delle disparità di redditto. In tutto il mondo sviluppato il gap aumenta. In Italia il reddito medio del 10% benestante è 10 volte superiore al reddito da lavoro minimo.
di Jolanda Bufalini


I precari dell’Istat che «hanno fornito gli indicatori e le misure della diseguaglianza», protagonisti e, al tempo stesso, oggetto della ricerca dell’Ocse sulle diseguaglianze, hanno salutato il ministro Elsa Fornero con uno striscione nell’Aula magna dell’Istituto di Statistica, ispirato al titolo della ricerca: «Precarious We Stand». Un inflessibile Enrico Giovannini non ha dato loro la parola ma il ministro ha assicurato: «I precari di tutta Italia sono nel cuore del governo».
Viviamo in un paese dove i poveri restano poveri, i ricchi sposano i ricchi, dove le diseguaglianze sono aumentate anche negli anni in cui cresceva l’occupazione, smentendo l’idea che «i benefici della crescita economica ricadano sulle classi meno abbienti e che una maggiore diseguaglianza stimoli la mobilità sociale». È il profilo dell’Italia che emerge dalla presentazione, fatta da Stefano Scarpetta, della ricerca comparata fra i paesi Ocse in cui si cerca risposta all’interrogativo: «Perché le diseguaglianze continuano a crescere?». Dice Scarpetta che della povertà in Italia preoccupa la sua «persistenza», che i matrimoni fra persone dello stesso ceto «contribuiscono per un terzo all’aumento delle diseguaglianze».
In Italia la crescita della diseguaglianza è all’apice dagli anni Novanta ed è superiore alla media Ocse: nel 2008 il reddito medio del 10% più ricco del paese era di 49.300 euro, 10 volte di più del reddito medio del 10% più povero (4.877 euro), venti anni fa la differenza fra ricchi e lavoratori poveri ra invece di sette punti. Se si allarga lo zoom e si guarda all’insieme il quadro è ancora più fosco: negli Stati Uniti i ricchi hanno 18 volte di più rispetto ai redditi minimi, in Brasile la differenza è pari a 50. Non solo, i maggiori guadagni in alcuni paesi sono raccolti dallo 0,1 per cento della popolazione: negli Usa la quota di reddito familiare netto per l’1 % della popolazione più ricca è più che raddoppiata, passando dall’8% nel 1979 al 17 % nel 2007. Solo alcuni paesi in via di sviluppo come la Turchia hanno ridotto il differenziale mentre anche nel Nord Europa le differenze sono aumentate, solo in Francia e Giappone sono rimaste stabili.
RIVOLUZIONE TECNOLOGICA
Passando dalla fotografia alle cause si scopre che la globalizzazione (cioè l’aumento degli scambi e degli investimenti stranieri) non sono la causa diretta del maggiore gap mentre le riforme del mercato del lavoro, come l’aumento dei contratti atipici, hanno ampliato la platea degli occupati ma anche ridotto i salari. Un fattore che ha influenzato, invece, direttamente le disparità è la rivoluzione tecnologica. Di qui una delle raccomandazioni della ricerca: investire sul capitale umano, cioè su scuola e formazione perché i lavoratori più qualificati hanno visto incrementare rapidamente i loro redditi mentre i meno qualificati sono rimasti indietro. E la sfida, per i paesi Ocse «è creare posti di lavoro qualitativamente e quantitativamente migliori». C’è un altro fattore che ha aumentato le disparità, l’esigenza di contenere la spesa di welfare: minore protezione sociale, minore capacità redistributiva delle politiche fiscali, meno previdenza, meno assistenza. Di qui la sottolineatura dell’Ocse: agire sulla qualità dei servizi gratuiti come la sanità e l’istruzione. E sulla leva fiscale, «perché le quote crescenti di reddito per le retribuzioni più elevate suggerisce che la capacità contributiva è aumentata» e con la recessione «le politiche di sostegno sono molto importanti».

Repubblica 25.1.12
Il reddito del 10% di popolazione più benestante è di 49.300 euro, mentre al 10% più povero ne vanno 4.877 I dati diffusi dall'Istat collocano l'iniquità economica italiana al di sopra della media dei Paesi dell'Ocse
Classi sociali, i ricchi sempre più su ora guadagnano 10 volte più dei poveri
di Luisa Grion


RICCHI sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. In Italia l'ascensore sociale si è rotto, le categorie di reddito sono sempre più chiusee il divario fra classi - invece di diminuire - aumenta. La tendenza accomuna quasi tutte le economie sviluppate, ma da noi la distanza è superiore rispetto alla media dei Paesi Ocse. Uomini e donne non salgono più i gradini della scala sociale e restano aggrappati alla ringhiera anche al momento delle nozze: il matrimonio tende a «polarizzare» i redditi. Il medico sposa quasi sempre il medico, l'avvocato dice «sì» solo all'avvocatessa, l'operaio all'operaia.
Ricchi con ricchi, poveri con poveri: una dura legge che nemmeno la favola bella di Cenerentola riesce a contrastare. Oggi i principi azzurri e le ricche ereditiere non rappresentano più la soluzione del problema: ce lo dice l'Ocse nel suo rapporto« Divided we stand », una spietata analisi sulla crescita delle ineguaglianze sociali presentata ieri all'Istat.
UNO A DIECI Le cifre indicate dallo studio dettano una tendenza netta: nel 2008, anno degli ultimi dati disponibili (e periodo comunque antecedente alla fase più pesante della crisi), il reddito medio del 10 per cento di popolazione più ricco del Paese era di oltre dieci volte superiore a quello del 10 per cento più povero (49.300 euro contro 4.887). A metà degli anni Ottanta il rapporto era di 8 a 1: il gap sta quindi peggiorando. Nonè un fenomeno solo italiano, sia chiaro: il divario fra più e meno abbienti, sottolinea l'Ocse, sta aumentano in quasi tutti i paesi europei. Francia a parte dove - come in Giappone - il quadro è rimasto più o meno stabile, il differenziale è salito anche nella ricca Germania e nell'evoluta penisola Scandinava (passando dall'1 a 5 degli anni Ottanta all'attuale 1 a 6). Imbarazzante l'1 a 17 degli Stati Uniti, drammatico - pur se in netto miglioramento - il dato del Brasile dove i più ricchi hanno redditi cinquanta volte superiori a quelli dei più poveri.
I MEGLIO E I PEGGIO PAGATI Più sei pagato, più lavori, più ti arricchisci: a guardare le tabelle dello studio Ocse par di capire che le occupazioni di basso livello difficilmente evolvono e permettono il riscatto. Secondo gli studi dell'Ocse in Italia (ma la tendenza è confermata anche negli altri paesi) quantità e qualità del lavoro vanno di pari passo. Dalla metà degli anni Ottanta ad oggi il numero annuale di ore di lavoro effettuate dai dipendenti meno pagati è passato dalla 1580 alle 1440 ore. Anche fra i lavoratori meglio pagati la quantità è diminuita, ma in minor misura, passando dalle 2170 alle 2080 ore. Faticare, quindi, non basta. Ed essere lavoratore dipendente non aiuta: a differenza di molti paesi Ocse in Italia la diseguaglianza sociale va di pari passo con l'aumento dei redditi dei lavoratori autonomi.
La loro quota sul totale della ricchezza è aumenta, negli ultimi trenta anni, del 10 per cento.
CENERENTOLA E ALTRI RIMEDI Cos'è che fa aumentare la diseguaglianza? Il livello minimo di istruzione, certo, la bassa percentuale di lavoro femminile, lo storico divario fra Nord e Sud.
Ma non basta. Il gap di casa nostra è causato anche dalla tendenza degli italiani a celebrare unioni fra caste: i principi azzurri non vanno più in cerca della loro Cenerentola e questa mancanza di fantasia ha contribuito per un terzo dell'aumento delle diseguaglianze di reddito. Cosa fare per invertire la tendenza? L'estensione dei servizi pubblici non basta più: istruzione, sanità e welfare riducono il gap, ma in modo meno incisivo rispetto al passato (di un quarto nel 2000, di un quinto oggi). La svolta, suggerisce l'Ocse, per l'Italia passa attraverso una riforma del fisco e della previdenza, il potenziamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche di sostegno al reddito.

Repubblica 25.1.12
Dai militanti pressing via Facebook sul segretario: "Se fai passare l'addio alla cassa integrazione, con noi hai finito"
Pd in tensione, Bersani stoppa il ministro "Non accetto di abbandonare i lavoratori"
di Giovanna Casadio


ROMA - Un colloquio con Fornero? «Ho quest'abitudine: non chiamo, ma sono a disposizione quando il governo mi chiama...».
Ufficialmente, nelle dichiarazioni alle agenzie di stampa, Bersani usa toni cauti. Ma nelle riunioni di partito, il segretario del Pd dà un alt secco al ministro del Welfare.
Uno stop «alla professoressa».
Brava, ma secondo i democratici astratta. E soprattutto poco consapevole delle conseguenze che la stretta sulla cassa integrazione - lanciata come un sasso nello stagno e poi ritirata - rappresenterebbe per centinaia di migliaia di lavoratori. Per non parlare dell'articolo 18. Perciò il leader pd suona l'allarme: «Al governo consiglio uno sguardo lungo ma i piedia terra, perché la crisi industriale è diffusa e non si lascia la strada vecchia senza vere alternative, mettendo nell'abbandono centinaia di migliaia di lavoratori».
Sono bastate le poche battute di Bersani in risposta a Fornero diffuse da tv e rete, perché sulla pagina facebook del segretario si scatenasse l'inferno. «Se fai passare questo, hai finito»; «Occhio kompagno»,e via in un crescendo di proteste, di contestazioni condite di insulti ma anche di appelli drammatici. Dal Sulcis un lavoratore posta: «Lei Bersani conosce la nostra realtà e sa cosa accadrebbe se si passasse alla sola cassa integrazione ordinaria». Un dramma.E più in generale, se Fornero mettesse mano, come ha detto, a misure radicali di riforma del mercato del lavoro, il Pd - il partito del lavoro, secondo l'imprinting che gli ha dato Bersani - dovrebbe scendere in trincea, peraltro lacerandosi al suo interno. I "full Monti", i liberisti e montiani a oltranza, già sono in rotta di collisione con i "gauchisti" come Fassina e Damiano. Bersani punta a mantenere il partito «nel solco». Per quanto riguarda Fornero e le sue misure "radicali", replica: «Si può essere radicali ma sempre avendo bene i piedi piantati nella realtà. Cambiamo prima i meccanismi contrattuali che stanno svilendo il lavoro, perché un eccesso di precarietà sta disperdendo il tradizionale punto di forza dell'Italia ovvero il bagaglio di competenze del lavoro. Noi a questo tavolo ci siamo con il nostro contributo. Quindi, bisogna indicare una prospettiva di riorganizzazione degli ammortizzatori, ma mai dimenticando che siamo nel pieno di una crisi difficile e che non sarà breve».
Il 2 febbraio nelle sede dei Democratici si sono dati appuntamento alcune associazioni, esperti, politici come Treu, Baretta e Damiano. Si parlerà di articolo 18e cassa integrazione. Damiano, ex ministro del Lavoro, ex sindacalista Fiom-Cgil, capogruppo democratico in commissione, ritiene che imboccare certe strade porterebbe a compromettere il rapporto tra il Pd e il governo: «Fornero ha detto sull'articolo 18 che se Monti le dice "fermati", lei si ferma: mi pare che glielo abbiano già detto in molti di fermarsi.
Immaginare che togliere la cassa integrazione straordinaria è una strada che Fornero non può imboccare. Possono esserci abusi certo, però se accadesse Passera si troverebbe a gestire non 200 tavoli di crisi ma molti di più. Si vogliono ammodernare gli ammortizzatori sociali? Ci vogliono soldi». La tensione nel Pd sale. Pietro Ichino è di parere opposto. Per il giuslavorista «Fornero andrà avanti, dovrà mettere a punto il modo in cui procedere, ma il disegno complessivo è sensato e ci saranno spazi di accordo». Il Pd? «Tutte le forze politiche sono sotto stress e il Pd non lo è più di quanto non lo sia già stato». Non è stato facile ieri neppure il vertice al partito sulle liberalizzazioni, però la partita del lavoro è, afferma il vice segretario Letta, quella che veramente «preoccupa».

l’Unità 25.1.12
Il Pd deve reagire
di Alfredo Reichlin


Ho deciso. Farò una rivelazione. Per più di dieci ore tra il 20 e il 21 gennaio, in una grande sala di Roma (peraltro pubblica) si è riunito il vertice del Pd, il primo partito italiano. Ha discusso insieme ai suoi parlamentari europei le iniziative da prendere in Europa e i problemi dell’Italia. La notizia è stata nascosta da gran parte dei giornali.
Nessun dissenso, solo un silenzio tombale. Parto da qui perché questo non è un problema di giornalismo ma di democrazia. Di degrado civile e intellettuale della democrazia italiana. Quello che, dopotutto è il principale partito politico italiano, a novembre poteva anche spingere perché si andasse subito alle elezioni, e poteva vincerle. Non lo ha fatto perché ha una certa idea della politica e delle responsabilità della sinistra. Ha avuto l’ingenuità di pensare che non si vince sulle macerie di un paese che stava per fare la fine della Grecia. Bersani non ha l’eleganza dell’avvocato Agnelli il quale disprezzava Berlusconi ma gli dette il via con l’argomento: se perde, perde lui, se vince vinciamo noi. La stessa cosa fecero, del resto, i grandi liberali del tempo nei confronti di Mussolini.
È questa la cultura profonda della nostra classe dirigente? È l’antipolitica? Si tratta di una minaccia molto grave al futuro della democrazia italiana. È il segno del disprezzo che si ha per le masse popolari: incaricare i media, che dopotutto dipendono da loro, di mettere la merda nel ventilatore, di ripetere in tutte le ore del giorno che i partiti sono tutti uguali e sanno soltanto complottare nell’aula sorda e grigia di Montecitorio contro il governo dei professori. È un martellamento.
Vengo adesso alle nostre responsabilità. È vero che nel modo di essere del Pd c’è stata finora una grande debolezza. Io capisco il dubbio sulla effettiva capacità del Pd di rappresentare una alternativa reale in quanto sentito dalla gente come tale, cioè come una guida necessaria dell’Italia, non solo della sinistra. È tempo, quindi di mettere i piedi per terra. Ma è esattamente ciò che abbiamo fatto in quelle due giornate. La domanda era, ed è: che ruolo siamo in grado di svolgere nel vivo di questo dramma di proporzioni storiche che scuote l’Europa? Qui si gioca il nostro destino. Fuori da questo orizzonte diventa abbastanza vano almanaccare sul futuro della sinistra. Ma allora non si va a testa china a questa prova, come se fosse una tattica o un obbligo. Io credo che sta qui detto nel modo più semplice la debolezza del Partito democratico. Basta con questa vecchia storia. Non si tratta di scegliere tra Casini e la “foto di Vasto”, ma di definire il nostro “campo”. Un campo che parla a tutti gli italiani e che va oltre i confini della sinistra storica e che perciò può coinvolgere soggetti, culture e interessi storicamente distanti da noi. Io non sono affatto sicuro che vinceremo. So però che molto dipende dal fatto che una vasta corrente di pensiero e di azione per il progresso e la democrazia torni a occupare la scena dopo decenni di egemonia anche culturale delle destre. Tutto è molto difficile ma l’obiettivo di portare nel mondo globale la forza di 450 milioni di europei, il loro enorme patrimonio di lavoro, creatività, cultura, il loro retaggio storico, è un obiettivo esaltante. Altro che “deriva centrista” del Pd. Certo, dobbiamo partire dall’Italia. Ma l’idea che abbiamo dell’Italia e del suo destino come nazione non può più restare chiusa nei vecchi confini.
Lo scontro è mondiale. I nemici dell’euro non sono i taxi. Il pericolo non è il “centrismo”. Io mi chiedo se misuriamo abbastanza gli effetti dell’enorme squilibrio che è in atto nella distribuzione della ricchezza e quindi nel mondo dei valori e dei significati dell’esistenza. La forza della sinistra sta nel collocarsi al centro di questo scontro, che è anche di civiltà. La ricerca senza limiti dei guadagni in conto capitale ha fatto si che valori come lealtà, integrità, fiducia, significati della vita, venissero via via accantonati per fare spazio al risultato monetario a breve termine. Bush è arrivato a far credere a milioni di persone che diventavano ricche con le carte di credito. Berlusconi pensava che bastasse comprare i deputati per governare.
Il nostro problema non è organizzativo. È capire quali spazi reali si aprono a una forza riformista all’interno di una società che in questi anni l’ha negata come tale, cioè come insieme di legami storici, culturali, anche ancestrali. Con l’idea, addirittura teorizzata, che il mondo è fatto solo di individui immersi in un eterno presente, i quali definiscono la loro identità in un modo solo, nel rapporto che hanno col consumo e quindi col denaro. Io sento il rischio che la sinistra e le forze democratiche si riducano a flatus vocis, a poco più che combinazione elettorali, se non si affronta questo problema e se non si stabilisce un rapporto con le nuove spinte sociali e ideali che sono un atto in Italia come in tante altre parti del mondo. Se la politica non produce senso.
Il problema quindi non è solo cosa fa il governo ma cosa facciamo noi. Nel senso che è la nostra voce, la voce di un partito che ha una fisionomia etico-politica diversa da quella delle altre nomenclature, è questa voce che si deve sentire alta e forte. Il gruppo dirigente deve rendere più chiara la grandezza della posta in gioco. Non è affatto vero che il governo dei professori toglie spazio alla politica perché non è possibile risanare la finanza pubblica e rilanciare la crescita senza una nuova idea dello sviluppo. Senza cioè porre la struttura italiana su una nuova base.
Servono quindi forze politiche, intellettuali e morali capaci di far leva su una combinazione diversa delle nostre risorse, a cominciare dal lavoro e dal capitale umano. Non siamo alla fine del capitalismo e delle cosiddette economie di mercato. Siamo però di fronte alla rottura dell’ordine economico mondiale di questi 50 anni, e quindi si è aperto un grande conflitto non economico soltanto, ma di potere, perfino di civiltà. L’Europa è il cuore dello scontro. E la sinistra si ridefinisce a partire da qui. La causa della giustizia non è un’altra cosa. Perché non si uscirà dalla grande crisi dell’economia mondiale senza una redistribuzione del reddito e della ricchezza. La vecchia domanda di consumi non è più riproponibile. La droga dell’indebitamento ci ha portati al disastro. Bisogna far leva su nuovi consumi di massa per rilanciare lo sviluppo. Una distribuzione della ricchezza diventa la condizione per il rilancio della crescita, essendo questa impossibile se non cambiano anche le condizioni del vivere, i bisogni, le domande, il modo di essere della società.

Corriere della Sera 25.1.12
I giornali di partito? Contributi per 850 milioni


ROMA — Nelle statistiche del finanziamento pubblico della politica manca una voce importante: i soldi che ogni anno vanno ai giornali. Un libro che esce oggi per i tipi di Marsilio prova adesso a fare qualche conto. Dal 1990, anno in cui è stata approvata la legge che stabilisce quei contributi, al 2009, ultimo anno per cui le cifre sono disponibili, sono andati ai giornali di partito, o che si sono presentati come organi di movimenti politici, 697 milioni 182.863 euro. Ma se rivalutiamo questa somma in base all'inflazione si arriva allora a 850.851.746 euro.
Titolo del libro è: «I soldi dei partiti — Tutta la verità sul finanziamento alla politica in Italia». Gli autori sono Francesco Paola ed Elio Veltri. Il primo, avvocato e saggista. Il secondo, medico e politico di lungo corso. Sono tanti soldi, 850 milioni. E a sentire gli autori del volume non sono nemmeno tutti: «I contributi complessivi a quotidiani, periodici, radio e televisioni di partito o contigui ai partiti sono molti di più. Nel 2009, ultimo anno di erogazione dei contributi, lo Stato ha distribuito 178 milioni 657.891 euro per mezzi di comunicazione di partito, vicini ai partiti e indipendenti, come lo si può essere in questo Paese. Orientarsi è difficile, perché la legislazione è complicata e sovrabbondante». Il capitolo dei soldi ai giornali politici rispecchia in pieno l'opacità che qui circonda il finanziamento pubblico dei partiti. Norme che non impongono il necessario e doveroso rigore nei bilanci. Trasparenza inesistente, come dimostra il fatto che per legge i contributi privati di importo inferiore a 50 mila euro possono restare anonimi. E disposizioni ipocrite, al pari di quella sui rimborsi elettorali. Basta dire che per le politiche 2008 i partiti hanno avuto diritto a 503 milioni di euro pur avendo documentato spese per 136 milioni. E hanno il coraggio di chiamarli rimborsi.
Nati con il motivo di garantire il pluralismo democratico si sono trasformati in alcuni casi in rendite di posizione, andando ad alimentare surrettiziamente anche organi d'informazione che con i partiti avevano poco o nulla a che fare. Raccontano per esempio Paola e Veltri che l'Avanti edito da Valter Lavitola, che Bobo Craxi definì «un foglio di spionaggio politico», ha ottenuto dal 2003 al 2009, «stando al sito del governo», 21 milioni di euro. Una somma enorme, anche in rapporto ai contributi, non proprio esigui, ottenuti dagli altri giornali. In cima alla lista dei maggiori beneficiari l'Unità, quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci: 169 milioni, attualizzati al 2010. Segue il Secolo d'Italia: 76,4 milioni. Quindi Liberazione: 63,6 milioni. La Padania: 63,6 milioni. Il Foglio, giornale diretto da Giuliano Ferrara, che figura come organo del movimento politico Convenzione per la giustizia: 44,6 milioni. Il Popolo: 41,8 milioni. L'Opinione: 30,5 milioni. Il Roma: 29,4. Europa: 26,6. La Voce Repubblicana: 31,3. Notizie Verdi: 24,3. E Libero: 24,9.
S. Riz.

il Fatto 25.1.12
Il magistrato partigiano
di Gian Carlo Caselli


Non contro la disoccupazione. Non contro l’evasione fiscale. Non contro la corruzione. L’unica vera guerra combattuta dal governo negli ultimi anni è stata quella contro la magistratura. In essa ha finito per trovarsi come bersaglio fisso – unicamente a causa del suo rigore – un collega che stimo e ho potuto apprezzare “sul campo”. Si tratta di Antonio Ingroia, contro il quale – del tutto pretestuosamente – sono state persino scagliate accuse di “cospirazione politico giudiziaria” e “calunnia di stato”, assieme alla assurda, ma screditante richiesta, di “tirar fuori l’art. 289 del codice pena-le” (attentato a organi costituzionali!) con il simpatico corollario di una decina d’anni di galera come possibile conseguenza.
Stante questo scenario, confesso che mi ha colpito la notizia di ieri che la competente commissione del Csm ha proposto (dovrà poi decidere il plenum) di qualificare come inopportuno un intervento sui temi della giustizia svolto da Ingroia in occasione del congresso di un partito politico nel quale il magistrato si definì “partigiano della Costituzione”. Inopportuno, ma non sanzionabile e perciò da archiviare, sia pure non del tutto: essendo stato richiesto l’invio degli atti ad altra commissione, quella che si occupa delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati.
MERITANO riflessione innanzitutto le tesi (ancorché diffuse a rullo) che la partecipazione del magistrato alla vita politico-culturale lo rende “sospetto” a chi non ne condivide le idee e che anche l’apparenza può nuocere all’immagine di imparzialità. Tesi suggestive, ma attenzione: più che la sede in cui si parla importa quel che si dice. E il dibattito sulla giustizia non può che essere a tutto campo. Perciò deve avere come interlocutori i cittadini di ogni opinione, compresi ovviamente quelli dell’area progressista (riferimento “naturale” per i magistrati che si richiamano – come il sottoscritto e Ingroia – alle opzioni culturali di “Magistratura democratica”).
È vero, Ingroia si è definito “partigiano della Costituzione”, ma dopo aver premesso l’obbligo di assoluta imparzialità nell’esercizio quotidiano delle proprie funzioni. Allora “partigiano” (per quanto dialetticamente impressiva possa sembrare la parola) significa semplicemente ribadire quella grande novità della Costituzione democratica – cui i magistrati prestano solenne giuramento di fedeltà – che impone ai giudici della Repubblica di essere “soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.). Quindi mai partigiani del “palazzo” e dei suoi esponenti, delle contingenti maggioranze, dei movimenti politici, dei potentati economici o culturali e via seguitando. Partigiani di nessuno: salvo che della legge, a partire appunto da quella costituzionale.
Il fatto è che non sono le idee né la loro espressione a ridurre l’imparzialità del magistrato, ma casomai le “appartenenze” (in particolare quelle occulte) e le interessate frequentazioni delle stanze del potere, specie se intrecciate con disinvolti “pareri” generosamente dispensati. Spesso anzi sono proprio la presunta “apoliticità” e l'indifferenza a mimetizzare fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. Passione civile e imparzialità nel giudizio non sono concetti incompatibili. L'imparzialità è estraneità agli interessi in conflitto e distacco dalle parti: non anche indifferenza alle idee e ai valori (pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono ad essa i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti personali e di gruppo: non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale, partecipazione che con la “professionalità” – a mio avviso – non c’entra proprio per niente, ben altri essendo i parametri di giudizio al riguardo (parametri, sia detto per inciso, che certamente Ingroia non teme).
Dopo anni di “assalto alla giustizia” sembrano talora emergere, nella magistratura, segnali di inquietudine e insofferenza che possono portare ad “avvitamenti” burocratici e formalistici. È la spia di una crisi che induce molti a rifugiarsi in un isolamento corporativo, consolatorio, ma controproducente per gli interessi della società. Contro queste tendenze il Csm dovrebbe reagire arginandole. Proprio per questi motivi mi auguro che il “plenum” sappia inquadrare nella giusta prospettiva la vicenda di Antonio Ingroia.

Repubblica 25.1.12
Manifesti abusivi, anche il Pd nel fronte anti-condono


ROMA - Cresce alla Camera il fronte del no al condono delle multe ai partiti per le affissione abusive dei manifesti. Ieri, dopo la dichiarazione di voto contro di Giovanni Bachelet, un altro deputato del Pd, Walter Verini, ha annunciato il voto contrario: «Mi risulta che il Pd stia lavorando per superare l'emendamento, sarebbe importante perché l'emendamento-sanatoria è difficilmente votabile». Contro il sì si schiera anche l'Api di Rutelli. Donato Mosella annuncia un emendamento soppressivo perché «non è tollerabile che anno dopo anno si faccia ricorso ad una sorta di "salvacondotto"». Soddisfatti i Radicali, primi a contestare il condono. «Le dichiarazioni contrarie di queste ore e gli emendamenti soppressivi annunciati da Pd, Api e Idv, che si aggiungono a quelli Radicali - spiegano il segretario Mario Staderini e Marco Cappato - fanno sperare che il voto favorevole della settimana scorsa venga ribaltato».

il Fatto 25.1.12
L’ennesimo ritorno dei forconi siciliani
di Nicola Tranfaglia


Tutte le volte che l’Italia entra in crisi (e in questo momento ci sono crisi numerose e difficili da risolvere: da quella “economica” che tutti riconoscono a quella “morale e politica” che ci ha condotti al governo “tecnico”, dopo le ultime elezioni politiche dell’aprile 2008 vinte dalla destra berlusconiana) rispunta quello che forse è più corretto definire l’indipendentismo, o anche separatismo siciliano, che vorrebbe fare dell’isola uno Stato indipendente ed estraneo all’Italia unita. È accaduto, senza andare troppo lontano, nel drammatico quadriennio che va dal 1943 al 1947 e che ha segnato la caduta del regime fascista e l’inizio difficile verso la democrazia – al centro della Guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica – che ha caratterizzato il primo cinquantennio dell’Italia repubblicana.
Quel movimento era nato negli anni Trenta, all’interno dei primi tentativi di organizzazione antifascista e, aveva annoverato subito un sostenitore della destra proprietaria come il conte Lucio Tasca autore nel 1943 di un esplicito Elogio del latifondo, ma anche il più giovane prof. Antonio Canepa. Questi, nel 1933, aveva radunato un gruppo di cospiratori per tentare un colpo di mano antifascista nella Repubblica di San Marino e alcuni anni dopo divenuto agente dei servizi segreti inglesi, aveva scritto un opuscolo intitolato La Sicilia ai siciliani (1941). Due anni dopo lo troviamo al comando di un reparto dell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana) per guidare una sollevazione armata contro il governo nazionale. Insomma, già nel separatismo siciliano della guerra e del dopoguerra riuscivano a convivere due leader come Tasca e Canepa, separati sul piano culturale e politico da idee e posizioni molto diverse. Settant’anni dopo, con il movimento dei Forconi che ha conquistato nei giorni scorsi le prime pagine di alcuni quotidiani e persino di alcuni canali televisivi meno vincolati agli attuali centri di potere, emerge in primo piano il volto della destra razzista ed eversiva di Forza Nuova che connota alcuni segni importanti del movimento (come la bandiera che richiama soltanto la Trinacria siciliana e separatista) ma anche quello del disagio e della miseria delle popolazioni siciliane prive di lavoro, e in difficoltà nella vita quotidiana, in un’isola in cui ormai non arrivano più né il carburante per i tir né i generi alimentari necessari alla sopravvivenza dei siciliani che non hanno avuto neppure il tempo di accumulare scorte e provviste.
La verità è che la parola d’ordine del separatismo può mettere insieme, in maniera provvisoria e superficiale, forze e classi sociali diverse, ma non può costituire un programma credibile sul piano democratico per affrontare e risolvere i problemi della Sicilia contemporanea. Come, su un piano diverso, un governo tecnico come quello guidato da Monti a cui sono stati costretti a ricorrere i partiti politici maggiori, in mancanza di elezioni politiche vicine e di una soluzione accettabile da parte dei centri di potere più influenti (pensiamo alla Confindustria, ma anche, come è ovvio, al Pdl e al Pd), non potrà risolvere problemi centrali della crisi italiana e servirà piuttosto a rimettere in ordine i conti e a imporre agli italiani i necessari sacrifici di fronte alla grave crisi economica.
DIRE CHE tutto avvenga con la necessaria equità è francamente discutibile giacché l’imposizione di tasse è avvenuta ancora una volta a danno dei lavoratori e dei pensionati mentre i possessori di grandi patrimoni mobiliari e immobiliari sono stati rigorosamente risparmiati dai sacrifici e potranno godersi a tempo indeterminato il frutto, in certi casi, di affari fortunati, in altri di favori acquisiti in maniera illecita. Il peso sempre più rilevante che le organizzazioni mafiose hanno in Italia, in Sicilia come in Piemonte e Lombardia, nel Lazio come in Toscana e in Emilia Romagna o nel Veneto genera continuamente corruzione e favorisce i ceti e gli individui che si trovano in condizione di acquisire denaro e potere evadendo, in parte o in tutto, il connesso carico fiscale.

l’Unità 25.1.12
In preghiera contro uno spettacolo che non conoscono
A Milano Tra messe di riparazione e insulti, Militia Christi, lefebvriani tradizionalisti e militanti di Forza Nuova hanno manifestato ieri in piazza contro lo spettacolo di Romeo Castellucci andato in scena al Franco Parenti
di Luigina Venturelli


Nonne devote preoccupate dell’educazione cattolica dei nipotini, preti negazionisti che contestano la realtà storica dell’Olocausto, autodefiniti cavalieri templari, militanti lefebvriani che ritengono la diocesi di Milano occupata da eretici, e fedeli di buona volontà che vogliono riparare con un rosario ai supposti peccati commessi dagli artisti. La composizione dei circa duecento manifestanti che ieri sera si sono riuniti a Milano per protestare contro la prima cittadina dello spettacolo di Romeo Castellucci
Sul concetto di volto nel Figlio di Dio non poteva essere più varia. L’unica tipologia che davvero non si trovava era quella del contestatore informato, in grado di criticare la rappresentazione teatrale con cognizione di causa, dopo averlo visto. «Mi hanno riferito che è blasfemo, l’hanno scritto anche i giornali, sono qui per pregare perché non commettano il peccato di infangare il volto di Gesù» diceva Rita, pensionata trevigiana di 68 anni. «Ovviamente non sono andato a vederlo, sarebbe peccato, a meno che non me lo ordinasse un’autorità ecclesiastica. Non serve usare la droga per sapere che fa male» spiegava Alberto Magagna, dipendente pubblico di Verona. «Mi sono informato su internet, dove ci sono le immagini della rappresentazione di Parigi, di quella porcheria, quando proprio dei bambini insozzano l’immagine del Salvatore» riferiva Matteo Castagna, impiegato 35enne impegnato nella restaurazione del vero cristianesimo, «quello precedente all’eresia del Concilio Vaticano II». L’indignazione collettiva dei vari gruppetti tradizionalisti cristiani il circolo Christus Rex, Militia Christi, Italia Cristiana, Fondazione Lepanto e il Comitato No194 è stata suscitata dalla presunta scena di escrementi lanciati contro l’immagine del Cristo di Antonello Da Messina scelta dal regista come scenografia. E pazienza se una simile scena nella pièce di Castellucci non esiste. A decine sono arrivati dal Veneto, una trentina da Roma, e qualcuno in ordine sparso dalla Brianza e da Milano città, per riunirsi sulla grande aiuola di piazzale Libia, a qualche isolato di distanza dal teatro Franco Parenti diretto da Andrée Ruth Shammah (finita anche lei nel mirino di odiosi messaggi di minaccia per le sue origini ebraiche), che per l’occasione è stato blindato dalla polizia in tenuta antisommossa. Lì sono stati fermati dagli agenti, dopo qualche insulto e spintone, una ventina di militanti di Forza Nuova, presenta- tisi a sorpresa. E un gettone di presenza sul finire l’ha messo pure il Carroccio. I protestanti, del resto, non erano nemmeno consapevoli gli uni degli altri. Spiegava Teresa Mondin, pensionata di 76 anni: «Ho fatto un sacrificio per venire fin qui in pullman da Treviso, ma è importante testimoniare il nostro amore in Cristo. Ora recitiamo il rosario e poi si celebrerà una messa per espiare il peccato commesso all’interno del teatro. Pare che l’abbia organizzata la Diocesi di Milano». In- vece, sul furgone organizzato con candele, paramenti e microfoni per la funzione, c’era don Floriano Abrahamovic, lefebvriano negazionista. Uno che mostrerebbe «con orgoglio» la lettera di scomunica papale «se solo me l’avessero inviata» e che, davanti a microfoni e telecamere, predicava come «la filosofia dell’ecumenismo di papa Ratzinger è la stessa dello spettacolo di Castellucci, secondo cui Lucifero è il vero artista». La libertà d’espressione artistica, insomma, non era faccenda di un qualche rilievo.

l’Unità 25.1.12
Profili di letterati e politici attraverso gli occhi di Gramsci
Un volume curato da una trentina di giovani studiosi
e un convegno a Torino per discutere dell’identità dell’Italia
di Leonardo Pompeo D’Alessandro


L’identità italiana con gli occhi di Antonio Gramsci. È stato il tema di un incontro svoltosi a Torino, organizzato da Angelo d’Orsi e promosso dall’Istituto Gramsci piemontese. Occasione del convegno è stata la pubblicazione del volume Il nostro Gramsci. Antonio Gramsci a colloquio con i protagonisti della storia d’Italia, curato dallo stesso d’Orsi ed edito da Viella.
Il volume contribuisce a una messa a punto sul pensiero di Gramsci e consente di rivisitare, attraverso il suo pensiero, i processi che hanno condotto alla formazione dello Stato nazionale.
LA NAZIONE ITALIANA
Il progetto che ha portato al volume e all’incontro di Torino muove dall’idea che il tema fondamentale di tutto il pensiero di Gramsci sia il problema storico della nazione italiana. I 31 giovani studiosi che hanno contribuito alla sua realizzazione si sono confrontati sia con gli scritti giornalistici e politici che con la riflessione dei Quaderni del carcere, ricostruendo 52 profili di protagonisti della storia d’Italia (letterati, filosofi, politici) con i quali Gramsci ha dialogato dal 1915 al 1935. Si tratta infatti di quasi tutti gli autori italiani presenti nei suoi scritti.
Questi stessi personaggi sono stati al centro della giornata torinese, evocati dalla voce degli autori secondo il profilo tracciatone da Gramsci nei suoi scritti. Così, Petrarca, «l’intellettuale cosmopolita», ha potuto rivivere accanto ad un Foscolo «icona della retorica nazionale». Il «grande statista» Cavour accanto a Verdi, che ha saputo mettere in musica il «nazionale-popolare», e al letterato e «uomo di Stato» De Sanctis. Crispi, il giacobino «deteriore», accanto a Giolitti, «Machiavelli in sessantaquattresimo», e al meridionalista Fortunato, «conservatore», ma «illuminato». Il casto socialista e «colonialista di programma» Pascoli, col «fenomeno sociale» D’Annunzio; la «faciloneria di un linguista» come Panzini, con l’«ardito del teatro» Pirandello. E ancora, la riflessione sull’egemonia attraverso la figura di Croce, sui limiti dell’antigiolittismo attraverso Salvemini, e sul fallimento della classe politica liberale, attraverso Nitti, hanno potuto rivivere accanto alla figura del «geniale pagliaccio» Marinetti e dell’«onesto massimalista» Serrati. E, infine, il «gladiatorismo gaglioffo» di Gentile con un «intellettuale che non prende parte» come Prezzolini, col «capopopolo» Mussolini e col «camaleonte snob» Malaparte.
L’iniziativa si inserisce a pieno titolo nel dibattito sull’identità italiana sviluppatosi attraverso le innumerevoli iniziative che hanno caratterizzato le celebrazioni per il 150o anniversario dell’unità. L’individualità della figura di Gramsci viene così illuminata dalla sua riflessione su questi protagonisti e simboli della storia lunga della politica e della cultura italiana.
L’orizzonte concettuale entro cui ha preso corpo l’incontro torinese si individua nell’interesse che il Gramsci dirigente politico mostrava per la storia. Ciò è più evidente nelle note sul Risorgimento, in cui egli avvertiva che le sue ricerche erano finalizzate a un programma politico ed erano concepite «col fine di distruggere concezioni antiquate, scolastiche, retoriche, assorbite passivamente per le idee diffuse in un dato ambiente di cultura popolaresca», e suscitare «un interesse scientifico per le questioni trattate».
È quanto emerso nel corso della stessa presentazione del volume, per la quale sono stati chiamati a discutere, col curatore, Vera Schiavazzi e Giuseppe Vacca. Quest’ultimo, pur rimarcando l’assenza nel volume della riflessione di Gramsci sul ruolo dei cattolici nella storia d’Italia (emblematica la mancanza di una voce dedicata a Sturzo, fondatore del Partito popolare, la cui nascita Gramsci considerava «il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento») ha sottolineato l’originalità del contributo offerto dai giovani studiosi, che colloca il loro lavoro tra le migliori iniziative su Gramsci realizzate in questi anni.
RINNOVATO INTERESSE
Anche questo volume e questa iniziativa documentano l’ampiezza e la vivacità di una nuova stagione di studi gramsciani favorita anche dalla preparazione della Edizione nazionale degli scritti. Una stagione che ha riportato in Italia il centro propulsore degli studi dedicati a un classico del Novecento, uno dei pochi autori italiani sempre più letti, tradotti e studiati in tutto il mondo.
Grazie ai profili dei numerosi protagonisti della storia risorgimentale presenti nel volume, è possibile rileggere nella sua vera luce anche il dibattito sull’interpretazione del Risorgimento sviluppatosi nel secondo dopoguerra.
Lo stereotipo che ha attribuito a Gramsci la visione del Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata», tuttora presente in volumi di carattere sia scientifico che divulgativo, fa risalire a Gramsci un’idea del Risorgimento che non fu sua e che, se mai, ha avuto come principale interprete in campo marxista Emilio Sereni.
La manifestazione è stata intervallata da musiche medievali e rinascimentali suonate da Antonio Gramsci Jr. e conclusa da un suo intervento che raccontava la scoperta del nonno cominciata venti anni fa in Italia quando, insieme a suo padre Giuliano, venne da noi per alcuni mesi e cominciò ad impadronirsi della nostra lingua.

La Stampa TuttoScienze 25.1.12
Prima dei Greci, come è nato il sapere empirico che ha influenzato tutte le civiltà
Il filo da Babilonia a Internet
L’archeologo: un’eredità sconosciuta, tra astronomia e matematica
di Gabriele Beccaria


Siamo tutti un po’ Greci (antichi), ma pochi sospettano che siamo parenti, e nemmeno alla lontana, dei Babilonesi. L’aureola dei santi, gli orologi solari, gli oroscopi e il teorema, detto impropriamente di Pitagora, non esisterebbero senza le intuizioni sbocciate a Babilonia. E sono appena le briciole: si è scoperto che quell’eredità, poi inquinata da miti negativi altrettanto tenaci, tipo la Torre di Babele, ha plasmato l’invenzione della scrittura, della medicina, della matematica, dell’astronomia. Se Babilonia ci ha appiccicato addosso le superstizioni, ha suggerito allo stesso tempo gli strumenti originari con cui fare scienza, prima dei riveriti maestri della Ionia, come Talete o Anassimandro.
«Babilonia. All’origine del mito» è un saggio di Paolo Brusasco, archeologo all’Università di Genova, e racconta una storia che dribbla le pruderie bibliche di vizio e lussuria e non si accontenta delle solite meraviglie architettoniche di mura e giardini pensili: contiene anche la ricostruzione di un pensiero nascente che ha indagato la terra e i cieli e si è spinta fino agli organismi viventi. Un esperimento segnato da tali dosi di empirismo - sostiene da condizionare contemporanei e posteri. Perfino noi.
Professore, lei è uno dei critici dell’«ellenofilia» e ha raccolto molte prove di come le radici scientifico-tecnologiche del presente siano da retrodatare: ma così non si inquina il concetto stesso di ricerca? Come si fa a separare il lato razionale in senso stretto dall’aura magico-religiosa della sapienza babilonese?
«Sono molti gli storiografi che stanno rivisitando la vecchia nozione di scienza, frutto della concezione positivistica, che sosteneva, tra l’altro, il primato dei Greci. Sappiamo che le prime e concrete manifestazioni di interesse per i fenomeni del mondo naturale si manifestano proprio in Mesopotamia: è una realtà che si sta recuperando grazie a un approccio olistico, capace di rivalutare le diverse sfumature del sapere umano sia di tipo mitico-religioso sia di tipo empirico».
Lei sostiene che si deve utilizzare un nuovo parametro epistemologico e un caso emblematico è la coppia astronomia-astrologia: può spiegare?
«A Babilonia l’astronomia era intimamente legata all’astrologia e così sarà a lungo, fino all’età dei Lumi. Si basava sulla ricerca dei fenomeni ciclici dei movimenti degli astri, oltre che della Luna e del Sole, con una finalità duplice: da un lato regolarizzare i calendari e quindi ricavare un input conoscitivo e pratico, dall’altro predire attraverso la decifrazione dei segni celesti gli avvenimenti futuri e il destino di sovrani, nazioni e individui. Ed ecco che qui emerge l’astrologia, che si intreccia con le speculazioni scientifiche su un universo concepito come un insieme ordinato, retto da distanze misurabili in modo matematico: gli astronomi babilonesi, infatti, inventano le effemeridi, le tabelle con cui anticipare i movimenti degli astri e della Luna, mentre una delle loro celebrità, Kidinnu, mette a punto il “sistema B”, che prevedeva una stabilità ciclica di accelerazione e decelerazione del moto lunare e dei pianeti».
Un altro caso di sincretismo è la mappa del mondo conservata al British Museum.
«Sì. Mentre racchiude un valore mitico-esoterico, apre spiragli di ricerca cartografica. La tavoletta rappresenta la Terra in forma circolare, circondata dall’oceano: non solo anticipa le concezioni di Anassimandro ed Ecateo, ma nell’interpretazione di alcuni studiosi potrebbe delineare in forma bidimensionale la concezione, in anticipo sui tempi, di un emisfero».
Secondo la sua ricostruzione, Babilonia diventa non solo una culla della civiltà, ma il centro del mondo.
«E’ così: si può identificare sia una linea evolutiva che da Babilonia porta a Occidente sia un’altra che conduce verso Oriente. A quella del sapere trasmesso dall’eredità greca alessandrina e poi dall’era cristiana se ne affianca un’altra, proiettata verso il mondo arabo, persiano e indiano. Babilonia è un crocevia della cultura, anche se il processo di contaminazione non è stato riconosciuto dalla storiografia della scienza tradizionale».
Fondamentale è stata l’invenzione della scrittura.
«E infatti nel II millennio a-C. nasce una figura-chiave, quella del saggio caldeo itinerante, che fonda scuole in tutto il Medio Oriente e in Egitto: il cuneiforme diventa il mezzo di trasmissione delle conoscenze, comprese quelle scientifiche, e la lingua accadica-babilonese una sorta di lingua franca, come hanno rivelato gli scavi nel sito di Tell el-Amarna. Vengono fecondate tante civiltà, nel Mediterraneo e in Oriente, e il processo si propaga nel tempo, fino alle armate persiane e di Alessandro Magno e ai Greci di Alessandria. I saggi diventano precettori di principi e re: lo rivela anche una versione cristianizzata della vita di Gautama Buddha, in cui si narra la presenza di “55 uomini istruiti nella scienza delle stelle dei Caldei alla corte indiana”».
Si dice Babilonia, eppure si evoca sempre Babele: perché su questa eredità straordinaria è calata una pubblicità tanto negativa?
«All’origine c’è la presa del regno di Giuda nel 597 a. C. da parte di Nabucodonosor II e la distruzione del Tempio di Gerusalemme 10 anni dopo, con la deportazione degli Ebrei: la fine di Giuda e la cattività babilonese spingono profeti come Geremia ed Ezechiele a lanciare una maledizione che si propagherà nei millenni. Babilonia da prima città multiculturale del mondo diventa simbolo di tirannia e vizio».

La Stampa TuttoScienze 25.1.12
Un’altra storia è racchiusa nel Genoma
Dalla biologia alle culture: Cavalli Sforza ha trasformato le concezioni su noi Sapiens
di Alberto Piazza


Luigi Luca Cavalli Sforza è nato a Genova 90 anni fa Oggi un gruppo di studiosi e di allievi lo celebra a Milano

Luigi Luca Cavalli Sforza compie oggi 90 anni: il Comune, l'Assessorato alla Cultura e la direzione musei di Milano hanno organizzato in suo onore una tavola rotonda al museo comunale di Storia Naturale di Milano: titolo dell’evento, in programma oggi, è «Disseminare la scienza per seminare il futuro» e non c’è espressione più felice per descrivere ciò che in tanti anni CavalliSforza ci ha donato: scienza e futuro.
Non solo a Milano, dove ha passato la maggior parte della vita e dove ora abita, ma anche a Torino, città da lui sempre amata, conta centinaia di allievi e amici che gli debbono molto, e il festeggiamento che gli si tributa in questa pagina ne costituisce una meritata testimonianza. Cavalli Sforza è nato a Genova, ma da studente ha trascorso alcuni anni a Torino, prima al Liceo d'Azeglio, poi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia (di cui ama ricordare la figura di Giuseppe Levi, notissimo professore di Anatomia dell'Ateneo torinese) ; tuttavia si è laureato a a Pavia nel 1944. Subito dopo ha lavorato all' Istituto Sieroterapico Milanese (con qualche interruzione) fino al 1956, per poi ricoprire tutti i ruoli accademici.
La sua esperienza di straordinario ricercatore ha avuto inizio al dipartimento di Genetica di Cambridge con un altro ricercatore eccezionale, Sir Ronald Fisher. È lui, a buon diritto, che può considerarsi il padre della statistica moderna e uno dei padri (insieme con Haldane e Wright) della genetica evoluzionistica. La testimonianza dello stesso Cavalli Sforza ci lascia intravedere in Fisher il grande e austero sapiente e in se stesso il giovane esuberante, ricco di nuove idee.
Ritornato in Italia, all’attività di microbiologo all’Istituto Sieroterapico Milanese (dove in quello stesso periodo cominciava la sua attività scientifica un altro grande genetista italiano, Ruggero Ceppellini) Cavalli Sforza affianca l’insegnamento di genetica e statistica alle Università di Parma e Pavia, divenendo in seguito Professore di Genetica a Parma (1960 - 1962) e a Pavia (1962 - 1970).
Dal 1970 si trasferisce alla Stanford University School of Medicine, in California, dove lavora nel dipartimento di Genetica fino al 2008, quando ritorna a Milano. Quando gli venne chiesto il motivo di quel trasferimento, la risposta è semplice: «Perchè in Italia il lavoro non mi divertiva più: troppi impegni non scientifici e molte delusioni».
Oggi, 42 anni dopo, i suoi allievi diventati collaboratori ed amici, sparsi in ogni parte del mondo, gli sono grati non solo per la scienza che ha saputo molto generosamente trasfondere, ma anche per questa capacità di divertirsi, per questo gioioso «esprit de finesse» che ha sempre accompagnato la sua ricerca. Ricerca che, documentata da oltre 500 pubblicazioni e otto libri, ha spaziato nelle direzioni più diverse. Nei primi 15 anni (fino agli Anni 60) si è concentrata essenzialmente su argomenti di genetica batterica: tra questi studi, i più noti riguardano il sesso e la ricombinazione nel batterio Escherichia. Coli, cioè la scoperta del primo ceppo mutante di Coli con la presenza di un fattore, chiamato fattore F (da Fertility), in grado di trasmettere la capacità di scambiare il proprio materiale genetico con un altro batterio. Questo carattere di tipo sessuale non era mai stato osservato nei batteri e, ulteriormente analizzato da Joshua Ledeberg, è valso a Lederberg stesso il premio Nobel. A partire dagli Anni 60, poi, la ricerca di Cavalli Sforza si è sempre più focalizzata sulla genetica delle popolazioni umane, campo in cui da anni è indiscussa autorità mondiale.
La sua ricerca ha spaziato dagli aspetti metodologici per ricostruire la storia delle popolazioni umane, partendo dai dati genetici, alla demografia della Val di Parma; dalla consanguineità delle popolazioni italiane alle caratteristiche dei Pigmei africani; dall’influenza della tecnologia agricola dei Neolitici sulla struttura genetica delle popolazioni europee alla teoria della trasmissione culturale; dalle ricerche di laboratorio che hanno dimostrato l’identità della proteina Gc con quella che lega la vitamina D agli studi più recenti, che usano particolari marcatori del DNA (i cosiddetti SNP, Single Nucleotide Polymorphisms, distribuiti a milioni nel nostro Genoma) per datare l’origine della nostra specie e la sua successiva evoluzione nel mondo; e infine a quell’impegnativo compendio di storia e geografia dei geni umani nel quale si è tentato di correlare la storia dei nostri geni con quella della nostra cultura e in particolare delle nostre lingue.
Tutti questi temi riflettono un’ampiezza di interessi, uno sforzo di comprensione della nostra storia di uomini che non è e non può essere concentrata sulla sola biologia; che non può e non deve prescindere dalla nostra cultura.
Cavalli Sforza è membro delle principali accademie e società scientifiche del mondo; è stato insignito dei riconoscimenti più ambiti tra i quali, nel 1999, il premio Balzan per la scienza delle origini dell’uomo. «Tuttoscienze» è onorata di festeggiare Luigi Luca Cavalli Sforza, riportando l’inizio della motivazione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Cambridge (1993), quale sintesi ed augurio per il suo novantennio: «Know then thyself, presume not god to scan; the proper study of mankind is man» (da Alexander Pope, «An Essay on Man», 1734).

Repubblica 25.1.12
Il genetista che oggi compie 90 anni racconta la sua vita e i suoi studi "Se non avessi fatto l'università, mi sarebbe piaciuto diventare tipografo"
Luca Cavalli Sforza "Dai batteri al linguaggio ora so che l'uomo è meglio di come viene disegnato"
di Antonio Gnoli


MILANO Per un uomo che oggi compie novant'anni la vita non è più un riparo. "E' un bel traguardo, ma ci si sente più scoperti, più esposti all'accadere delle cose, allo scorrere del tempo", dice Luca Cavalli-Sforza, uno dei più grandi studiosi mondiali di genetica. Ha insegnato a Cambridge, a Stanford, a Milano. Ha allievi in tutto il mondo che proprio oggi lo festeggeranno con una video conferenza simultanea. «Ormai l'elettronica ha cambiato il nostro modo di viaggiare. Siamo fermi ma è come se fossimo ubiquamente presenti in tutto il mondo», commenta ironico. Ma non è ironico l'omaggio singolare che Gualtiero Marchesi ha fatto al "grande vecchio della genetica" dedicandogli un piatto. Sui suoi viaggi l'editore Codice ha recentemente pubblicato, a cura di Elisa Frisaldi, Ancora una volta ero io il curioso. C'è qualcosa di commovente nel modo semplice con cui rammenta la sua storia: «Nei miei anni giovanili viaggiare era tipico delle società occidentali. Lo si faceva per diletto, come esplorazione o conquista. Io ho viaggiato soprattutto per conoscenza. E già da piccolo, quando avevo dieci anni, fin dai miei primi spostamenti in America del Nord e del Sud, sentivo che era il rapporto con la novità a coinvolgermi».
C'è una foto che la ritrae su una nave insieme ai suoi genitori.
«L'ho presente. Posso avere sette o otto anni. E mio padre, ricordo, era appena tornato dagli Stati Uniti su una nave che si chiamava "Augustus". Con la mamma lo raggiungemmo a Napoli e di lì risalimmo fino a Genova. Credo che quello fu in assoluto il mio primo viaggio».
Suo padre di cosa si occupava? «Rappresentava alcune ditte americane per l'importazione di macchine domestiche. Fu il primo negli anni Venti a far giungere in Europa la prima lavatrice. Diceva di essere scappato di casa a 14 anni, per andare in Inghilterra dove, per guadagnarsi la vita, imparò il mestiere di tipografo. Se non avessi fatto l'università, mi sarebbe piaciuto intraprendere qualcosa di simile».
Dove ha studiato? «Il primo anno di medicina lo feci a Torino. Poi, con la malattia di mio padre, capii che avrei dovuto pesare il meno possibile sulla famiglia. Feci domanda per entrare al Ghislieri di Pavia. Era un collegio prestigioso che si sarebbe fatto carico di tutte le spese, vitto e alloggio, a patto che la media dei voti fosse alta. E lì ebbi la fortuna di incontrare un professore di genetica del quale divenni prima studente e in seguito assistente».
Cosa l'attraeva della genetica? «Era una disciplina nuova e quelli che la fondarono furono zoologi e botanici. A introdurla in Italia fu, appunto, il mio professore: Adriano Buzzati Traverso la cui nipote, in seguito, diventerà mia moglie. Passai gli anni della guerra in un laboratorio di Como a fare ricerche batteriologiche. Poi, finito il conflitto, conobbi Sir Ronald Fisher. Ci incontrammo durante un congresso a Stoccolma.
Conoscevo la sua fama di genetista. Ed ero felice di poter esporre la mia ricerca davanti a un personaggio così autorevole».
Fisher dove insegnava? «A Cambridge. Seppi in quei giorni che stava cercando una persona che si occupasse della sessualità dei batteri e mi propose di andare a lavorare con lui. Naturalmente accettai. Fu un periodo magnifico passato accanto a un uomo straordinario che in origine era stato un matematico».
C'è una relazione tra genetica e matematica? «La genetica è quella parte della biologia che ha sviluppato più di tutte l'analisi matematica dei dati. Ad esempio, lo studio della somiglianza tra genitori e figli si è servita di modelli speciali di ricerca che hanno fatto uso di calcoli statistici». Oltre il rapporto genitorie figli, la genetica richiama il problema delle razze.
«È una questione fondamentale». Perché le teorie razziste sono antiscientifiche? «Esagerano, ideologicamente, le somiglianzeo le differenze tra le razze. E sostengono, sbagliando, un grado di purezza nella razza che è inesistente».
Conta più il patrimonio genetico o culturale? «Contano in egual misura. Però tutto dipende da certi fattori che possono essere modificabili dalla vita in comune o dalle scelte reciproche». Lei più che sugli individui ha lavorato sulle popolazioni. Cosa cambia? «Offre una visione più di insieme. Ho studiato diverse popolazioni. Il primo approccio avvenne con i pigmei, i quali vivono in condizioni che sono senza dubbio molto più simili a quelle di migliaia di anni fa che di oggi. Il pigmeo vive in un ambiente a noi estraneo: dentro la foresta, nutrendosi di cibi che non sono mutati nel tempo. Gli animali, frutto della caccia, sono gli stessi di migliaia di anni fa, così le erbe e le radici. In fondo anche se l'uomo si è sviluppato nell'arco di un milione di anni, questo tempo è brevissimo se rapportato all'età della terra». L' homo sapiens - su cui si tiene a Roma al Palazzo delle Esposizioni una mostra curata da lei, da suo figlio Francesco e da Telmo Pievani - risale a centomila anni fa. «Sì. Ma in fondo anche trecentomila anni prima l'uomo non era così diverso da oggi. Differente era l'ambiente in cui viveva».
Parliamo di poche migliaia di individui? «Un milione di anni fa saranno stati meno di 100 mila. Si muovevano sapendo di imbattersi talvolta in gruppi ostili, che potevano rappresentare una limitazione importante agli spostamenti. Ma, al tempo stesso, esistevano ampie zone abitate da gente pacifica».
Lo spostamento era in funzione della caccia? «Sì, procurarsi il cibo, anche vegetale, richiedeva una notevole capacità di movimento».
Quando l'uomo diventa stanziale? «Esattamente diecimila anni fa quando, a causa della crescita demografica, ha inizio l'agricoltura.
In pratica ci sono più bocche da sfamare e questo grande rivolgimento, questa forma sociale nuova, ha inizio nel Medioriente, dove sono rimasti esempi di piccoli villaggi preistorici».
Ci ricordava i suoi studi tra i pigmei, ma anche tra i boscimani... Che ricordo ha di quel mondo remoto? «Per lo più di gente straordinariamente ospitale. I soli pericoli che ho corso sono stati nel Sahara, dove varie volte ho rischiato di perdermi». Visto il suo approccio multiculturale si ritiene un relativista? «Credo alle differenze, ma alla fine tutti mangiamo, anche se non le stesse cose. E riusciamo a comunicare, senza necessariamente conoscere la lingua dell'altro, con la sola nostra fisionomia.
Quando poi parliamo con persone che non conosciamo il comportamento può oscillare tra ostilità e gentilezza».
L'essere umano è meglio o peggio di come lo si descrive? «Meglio, altrimenti la convivenza sarebbe impossibile. Per mangiare avremo sempre bisogno di comunicazione e scambio». Perché allora scoppiano conflitti, gelosie, soprusi? «Quasi sempre sono dovuti al fatto che in molte persone c'è il desiderio per cose che appartengono agli altri».
Desiderare qualcosa che altri desiderano. «Più esattamente ciò che qualcuno ha e che l'altro non ha».
Si può intendere come un bisogno di possesso? «Sì, il cibo, ad esempio, dobbiamo procurarcelo. Se uno ha fame e non ha di che sfamarsi può diventare cattivo».
Equità e giustizia fanno parte del mondo della cultura o anche la biologia aiuta? «La cortesia è un'esperienza sociale. La giustizia non è molto diversa». Lei ha lungamente insegnato all'università di Stanford.
«È vero. Fu Joshua Lederberg a chiamarmi. Era un po' più giovane di me. Un talento della ricerca.
A soli 33 anni vinse il Nobel».
Le dispiace che a vincerlo fu lui e non lei? «Ha fatto cose più importanti di me. Poi, sa, non credo che sia così fondamentale. Non c'è bisogno, a questo livello, di una stimolazione del proprio ego. Bastano i risultati della ricerca. Comunque se me lo avessero conferito ne sarei stato felice».
Quanto tempo è rimasto a Stanford? «Più della metà della mia vita.
Sono rientrato definitivamente in Italia nel 2008».
Come ha trovato il suo Paese? «Mescoliamo un alto tasso di rissosità con la tendenza a sottovalutarci. Ma ormai esco poco di casa e il Paese si conosce bene uscendo dalle mura domestiche».
Tra gli scaffali della sua libreria vedo pochi romanzi.
«Non sono assolutamente bravo a leggere romanzi. Preferisco le storie vere. Meglio i giornali. In ogni caso, i libri di lavoro continuano a occupare la mia vita».
Cosa è importante nella genetica? «La nascita, il matrimonio e la morte. Riassumono la storia dell'umanità». Il suo matrimonio come è stato? «Bello e continua ad esserlo. Su nascita e morte non ci sono scelte.
Ma sul matrimonio sì e ho scelto bene». Nascita e morte sono anche un fatto culturale.
«Cosa intende per culturale? ».
Ci hanno insegnato che la vita e la morte sono un passaggio, a volte vissuto con speranza, altre con terrore.
«Ma lei crede all'Al di là? ».
Credo che molti credono.
«L'Al di là è un'invenzione intelligente e niente di più. Il cristianesimo gli ha dato una forma compiuta». È stato un modo per arricchire la speranza. Un genetista deve tenerne conto? «Il genetista è costretto a prescinderne. Non deve occuparsi dei problemi che riguardano i peccati, la punizione o la resurrezione». Immagino che le sarà accaduto di leggere la Bibbia. Cosa ne pensa? «Ho il massimo rispetto e considerazione per quel testo. Ma come membro della specie umana posso affermare che la sua narrazione dice ben poco sulle nostre origini. Anzi non dice un accidente di niente».
Uno scienziato può credere in Dio? «Ce ne sono parecchi che credono, io no. Penso che in questo caso credere sia un cedimento a un insegnamento privo di fondamento e come tale una forma di debolezza o di superstizione».
Ma ammetterà che l'uomo non è riducibile ai valori della scienza. «Penso chei soli discorsi che val la pena affrontare sono quelli scientifici, gli altri sono privi di consistenza». Ha nostalgia del mondo in cui ha viaggiato? «Sono quasi sempre stati viaggi molto faticosi e sono contento di averli fatti. Ma oggi non ho più l'energia di allora. E poi c'è un momento in cui si dice basta».
Tutto quello che voleva apprendere lo ha appreso? «Detta così sembra un'affermazione di superbia. Ma non mi è rimasta più molta curiosità. A novant'anni mi sento appagato. In fondo ho sempre avuto la consapevolezza precisa di ciò che posso o non posso fare. E se una cosa non la posso fare non me ne importa niente».
Molto pragmatico.
«La parola mi piace. Sono stato contento per come ho usato il mio tempo e non ho rimpianti. Ho soddisfatto molte curiosità e accumulato conoscenze che ho trasmesso ad altri. Credo di essere abbastanza in pace con me stesso e con il mondo».

La Stampa TuttoScienze
Intervista
“E adesso Cina e India preparano il sorpasso”
Ricerca/1. Il direttore della Sissa di Trieste: perché l’Asia sta investendo in mega-progetti “Una strategia globale per attirare i cervelli migliori. E l’Italia soffoca nella burocrazia”
di Stefano Rizzato


La geografia della scienza sta cambiando. In fretta. E, tra qualche anno, al posto di Harvard, Cambridge e Stanford, in cima ai desideri di ogni ricercatore potrebbero esserci Taiwan, Pechino, Bangalore.
L’exploit dell’economia di Cina e India non è una novità. Ma il resoconto annuale della rivista «Nature» rivela l’impetuosa crescita dell’Asia anche nel campo della ricerca. Lo scorso anno l’Iran ha incrementato il numero delle pubblicazioni scientifiche del 20%, la Cina del 15, l’India e la Corea del Sud del 10. Con gli oltre 142 mila articoli prodotti nel 2011 la ricerca cinese è la seconda del mondo, dietro agli Usa (310.206) e davanti a Gran Bretagna (90.018), Germania (82.550) e Giappone (68.308). L’Italia si conferma 8ª, con 47.403 lavori, ma alle spalle ora incalzano proprio India (39.640) e Corea del Sud (39.285).
Numeri che non riguardano solo gli specialisti, perché è anche grazie ai progressi fatti nei laboratori che i Paesi emergenti stanno rivoluzionando lo scenario mondiale. «E’ la ricerca il motore dello sviluppo di ogni nazione», conferma Guido Martinelli, direttore della Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, una delle poche eccellenze universitarie italiane -. C’è una correlazione molto stretta tra progresso scientifico-tecnologico ed espansione economica. Peccato che troppo spesso qui in Italia ce ne dimentichiamo».
Professore, anche nella ricerca la supremazia occidentale sta per finire?
«Si deve tenere presente che molte delle potenze emergenti partivano da un livello inferiore in campo scientifico: il loro progresso, in parte, è fisiologico. Di sicuro, però, la crisi non aiuta né l’Europa né gli Usa. La loro egemonia si basava anche sul fatto che l’Oriente ha continuato a lungo a produrre ed esportare solo manufatti a basso contenuto tecnologico. Ma da quando questi Paesi hanno cominciato a puntare sulla ricerca la musica è cambiata».
Cina e India sono le nuove icone: qual è la formula dei loro trionfi in laboratorio?
«Le ragioni del loro sviluppo, in realtà, sono semplici da spiegare: là lo Stato si è fatto promotore della ricerca e dell’innovazione, con investimenti importanti. E ora ha iniziato a raccogliere i frutti».
Taiwan è un altro esempio emblematico.
«Fino a qualche anno fa esportava quasi solo magliette e, addirittura, le etichette " made in Taiwan" erano sinonimo di scarsa qualità. Ora là ci sono università all’avanguardia e aziende che forniscono componenti sofisticate ai produttori di computer. Un bel salto».
E’ davvero imminente il sorpasso scientifico della Cina sugli Usa?
«Difficile fare previsioni, anche perché nel XX secolo gli Usa hanno dimostrato grandi capacità di rilancio. C’è però un fattore che gioca a loro sfavore: i giovani americani più brillanti stanno snobbando la ricerca per dedicarsi alla finanza. D’altra parte gli Usa conservano un importante punto di forza: continuano a richiamare talenti da tutto il mondo e a offrire condizioni di lavoro allettanti».
Nel grande gioco globale quanto è importante la capacità di attrarre talenti?
«I bravi scienziati sono sempre più ambiti. E in Oriente ci si attrezza. La Cina, infatti, si sta impegnando per invertire la fuga di cervelli, mentre a Bangalore ho visto centri di ricerca creati da zero, invitando studiosi dall’estero e dando loro carta bianca. E allora si torna alla questione degli investimenti: dove ci sono risorse e la possibilità di assumere si crea la situazione ideale».
È per questo che sempre più ricercatori lasciano l’Italia?
«La penuria di fondi è una parte importante del problema, ma c’è dell'altro. Spesso la ricerca viene imbrigliata da un contesto normativo che sembra di un’altra epoca e che rende difficile persino utilizzare le risorse dell’Ue. Io stesso ho ottenuto un “grant” dello European Research Council e posso dire che utilizzare i fondi non è per nulla semplice. E per assumere c’è un gioco dell’oca normativo pieno di trappole: così molti finiscono per portare il loro “grant” altrove. Scrissi una lettera all’ex ministro Gelmini, ma non mi rispose. Ora confido nel ministro Profumo, che conosce a fondo i problemi della ricerca».
Non sono però mancate critiche proprio contro uno dei primi provvedimenti di Profumo, quello sui Prin, i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, per cui sono stati stanziati 175 milioni. Fabio Beltram e Chiara Carrozza, direttori della Scuola Normale e del Sant’Anna di Pisa, hanno contestato il nuovo sistema di selezione, che limita il numero di progetti con cui ogni università può concorrere. Lei che ne pensa?
«Condivido le perplessità dei colleghi. Certo, è giusto promuovere la creazione di grandi reti e gruppi di lavoro allargati, come auspica il ministro. Allo stesso tempo, però, imporre un tetto ai progetti da presentare per i Prin significa tarpare le ali alle migliori università. Ci sono centri d’eccellenza dove si fa ricerca con grande qualità in tante discipline: per loro la nuova soglia rischia di essere troppo penalizzante. Credo che siamodi fronte a un errore da correggere».

La Stampa TuttoScienze 25.1.12
Scoop: 570 milioni di anni fa per riprodursi si faceva così
Nel Sud della Cina i micro-fossili dei primi organismi pluricellulari
di Luigi Grassia


Molto prima dei dinosauri Qui accanto il «rendering» dei mari di 570 milioni di anni fa e delle forme di vita che li abitavano In alto la tomografia del fossile di un grumo di cellule di Doushantuo con in corso fenomeni di suddivisione
Il fisico Rutherford diceva che «l’unica vera scienza è la fisica, tutto il resto sono collezioni di francobolli». Intendeva che quello della fisica è un sapere strutturato, mentre nelle altre scienze ci si limita a raccogliere e a classificare campioni, come fanno il botanico con le sue erbe (o il filatelico coi suoi rettangolini di carta). Il giudizio di Rutherford non era obiettivo, però in una cosa la fisica è di sicuro avvantaggiata su altre discipline: in fisica si può (almeno in teoria) scoprire e verificare tutto e persino sondare, in base a prove indirette, che cosa c’era prima del Big Bang, anche se nessun fisico era lì a vederlo; invece in certe scienze un po’ più sfigate, vedi la paleontologia, c’è il rischio che determinate cose non vengano scoperte mai, neanche fra un miliardo di anni; per esempio, se non si sono conservati i fossili intermedi fra l’animale X e il suo discendente animale Y, vissuto 50 milioni di anni dopo, non sapremo mai, prove alla mano, com’è avvenuto il passaggio.
Questa premessa dovrebbe far apprezzare per benino l’eccezionalità di un ritrovamento nel Sud in Cina ad opera di un team internazionale di zoologi: nella formazione di Doushantuo, vecchia di 570 milioni di anni (periodo Ediacarano), un deposito di fossili ci ha regalato la fotografia unica e irripetibile del passaggio degli animali dalla vita unicellulare agli organismi pluricellulari. È anche parte del nostro albero genealogico, perché veniamo tutti da lì. Niente garantiva che questa testimonianza ci venisse preservata, e invece eccola lì, miracolosamente a nostra disposizione. Uno studio condotto dall’università di Bristol è pubblicato sulla rivista «Science». Ammettiamolo, la scoperta è stata un incredibile colpo di fortuna, un po’ come trovare un intero foglio di «Gronchi rosa» (francobolli rarissimi e di valore) in un vecchio cassetto del nonno, ma con buona pace di Rutherford questa ci sembra vera scienza.
Attenzione: se i vostri ricordi scolastici non sono freschissimi e non vi risulta, a memoria, che sia mai esistito un periodo Ediacarano (fra i 635 e i 542 milioni di anni fa) non vi sorprendete, perché l’Ediacarano è stato introdotto ufficialmente dai geologi con un apposito convegno internazionale soltanto nel 2004, ritagliandogli un posto immediatamente prima del Cambriano; roba di non strettissima attualità, insomma, un’epoca di mucillaggini e poco altro.
Allora proviamo a spostare la lancetta della macchina del tempo a 570 milioni di anni fa. Che cosa troveremmo? Nel remoto Ediacarano la vita sul nostro pianeta era solo acquatica, ma i pesci ancora non esistevano (e tantomeno gli anfibi, o i dinosauri) ; se è per questi, persino i vermi erano organismi ancora troppo complessi e sofisticati e di là da venire.
Le terre emerse erano completamente vuote e sterili. Non un filo d’erba, non un insetto. Invece nei mari erano già presenti organismi pluricellulari vegetali (le alghe), la cui comparsa risalire addirittura a un miliardo e 200 milioni di anni fa. Quanto agli animali, erano un po’ indietro rispetto alle piante nella tabelle di marcia dell’evoluzione: all’inizio dell’Ediacarano erano esclusivamente unicellulari, tipo le amebe, e passarono alla multicellularità solo verso la fine del periodo. Di preciso non si sapeva come questo fosse avvenuto, adesso invece ce lo rivelano i microscopici ma fenomenali fossili di Doushantuo.
In questo sito nel Sud della Cina è stato scoperto un deposito fossile con migliaia di animaletti microscopici. Tenete conto delle difficoltà: non si tratta di grandi reperti che un paleontologo può scorgere a occhio nudo, come le ossa di un dinosauro o la zanna di una tigre dai denti a sciabola. Nell’Ediacarano non esistevano le ossa, le lische, i gusci, i denti o altre parti resistenti dei corpi di animali: c’erano solo tessuti morbidi, partendo dai quali un processo naturale di sostituzione, molecola per molecola, ci ha restituito alla fine la fotocopia solida di quegli esseri antichi, così com’erano. Sia chiaro: anche l’osso di dinosauro che troviamo oggi non è un vero osso, conservato per noi durante 100 milioni di anni, ma una roccia che preserva la forma dell’osso originario a seguito di un raro e improbabile processo di sostituzione molecola per molecola. Però è chiaro che questo processo è ancora più raro e più improbabile, se coinvolge non un osso o un guscio, con le loro strutture solide di supporto, ma solo delle amebe.
Bene, e che cosa hanno visto gli scienziati in questi microfossili di Doushantuo? Hanno trovato una gran quantità di «fermo immagine» dei progenitori degli animali attuali, sorpresi in tutti gli stadi del loro sviluppo, a partire dal processo di divisione con cui da una cellula si passa a due, quattro, otto cellule e così via, fino a formare grumi di centinaia di migliaia di cellule; poi sono state trovate «immagini» di questi grumi carichi di spore e, infine, è documentata la liberazione di queste spore nel momento esatto in cui avviene, per far ripartire il ciclo della vita dall’inizio. Il processo di divisione cellulare così «fotografato» nella pietra è talmente simile a quello che si verifica nei primi stadi di sviluppo degli embrioni animali (esseri umani compresi) che qualche anno fa, quando avvenne la scoperta di Doushantuo, questi micro-fossili furono interpretati, appunto, come gli embrioni di animali già arrivati allo stadio della multicellularità. Ma poi sono cominciati ad affiorare i dubbi: era strano che accanto a questi ipotetici embrioni non venissero mai rinvenuti, nonostante un raggio di ricerche sempre più ampio, anche i corrispondenti animali adulti.
La soluzione del mistero è arrivata da un’analisi hi-tech dei fossili. «È stata fatta una serie di tomografie usando come fonte di raggi X un sincrotrone - spiega il ricercatore John Cunningham -. Questo ci ha permesso di ricreare al computer dei modelli dei fossili da sezionare poi virtualmente». La scienziata Therese Huldtgren aggiunge che «le cellule fossili sono così ben conservate che persino i loro nuclei risultano chiaramente visibili». Alla fine è risultato che quei grumi di migliaia di cellule non erano embrioni di animali, ma animali adulti già formati, nello stadio più rudimentale della multicellularità.
Ecco, quello immortalato nel Sud della Cina è il Big Bang degli animali pluricellulari. Visibile oggi anche a chi di noi quel giorno lì non c’era.

Corriere della Sera 25.1.12
Se il computer ci ruba la memoria
Da Petrarca al fantascientifico iPhone 50: il ricordo affettivo e quello artificiale
di Joshua Foer


Ho passato un anno a cercare di allenare la memoria, studiandone il funzionamento e cercando di capire se c'era un trucco o un esercizio per ricordare meglio. Ho imparato che l'antica arte della memoria, che risale a circa 2.500 anni fa, richiede un impegno profondo — quello che gli psicologi contemporanei definiscono «codifica elaborativa». Si tratta di collocare le informazioni in un contesto, comprendere il loro significato, associarle alla rete di altri concetti che abbiamo in mente. Ricordare richiede tempo, impegno e concentrazione. Tempo, fatica, concentrazione: tutte cose che troppo spesso ci mancano. Siamo bombardati da informazioni e siamo diventati dei colabrodo che catturano solo minime particelle di quel che gli piove addosso, mentre il resto scorre via. Ogni giorno sembra che ci siano più blog da seguire, più riviste da leggere, libri da conoscere, informazioni che ci distraggono. Mentre il flusso di queste informazioni continua a crescere, diventa sempre più difficile essere adeguatamente informati. (...)
L'incapacità cronica e diffusa di ricordare è una caratteristica della nostra cultura, ed è così radicata che la consideriamo un dato di fatto. Ma non è sempre stato così. Una volta, molto tempo fa, la sola cosa che si poteva fare dei pensieri era ricordarli. Non c'era un alfabeto in cui trascriverli, carta su cui fissarli. Tutto quel che volevamo conservare doveva essere memorizzato. Ogni storia che si voleva raccontare, ogni idea che si desiderava tramandare, informazione che si intendeva trasmettere, doveva anzitutto essere ricordata.
Oggi abbiamo le fotografie per registrare le immagini, i libri per immagazzinare la conoscenza, e recentemente, grazie a Internet, per accedere alla memoria collettiva dell'umanità ci basta tenere a mente gli opportuni termini di ricerca. Abbiamo rimpiazzato la memoria naturale con un'ampia sovrastruttura di puntelli tecnologici che ci hanno liberato dall'onere di immagazzinare le informazioni nel cervello. Queste tecnologie che esternalizzano la memoria e raccolgono la conoscenza al di fuori di noi hanno reso possibile il mondo moderno, ma hanno anche cambiato il modo in cui pensiamo e in cui usiamo il cervello. Abbiamo dato meno importanza alla nostra memoria interna. Non avendo quasi più bisogno di ricordare, a volte sembra che ci siamo dimenticati come si faccia. Vorrei soffermarmi un momento su come questa situazione si sia venuta a creare. Come siamo arrivati a salvare le nostre memorie ma a perdere la nostra memoria?
Vivendo in mezzo a un fiume di parole stampate (solo ieri, ad esempio, sono usciti quasi 3.000 nuovi libri), è difficile immaginare cosa fosse la lettura prima di Gutenberg, quando un libro era un oggetto scritto a mano, raro e costoso, che richiedeva a un amanuense mesi di lavoro. Oggi scriviamo per non dover ricordare, ma nel tardo Medioevo i libri non erano considerati solo sostituti, ma anche aiuti della memoria. Ancora nel Quindicesimo secolo potevano esserci solo poche decine di copie di un dato testo, e molto probabilmente erano incatenate a una scrivania o a un leggio in qualche biblioteca, che se conteneva un centinaio di altri libri sarebbe stata considerata assai ben fornita. Gli studiosi sapevano che dopo aver letto un libro molto probabilmente non lo avrebbero mai più visto, avevano quindi un forte incentivo a ricordare quel che leggevano con grande impegno. Sui testi si ruminava, masticandoli, rigurgitandoli e rimasticandoli, e si arrivava così a conoscerli intimamente e a farli propri. Come scrisse Petrarca in una lettera a un amico: «Gustai la mattina il cibo che digerii nella sera: mangiai fanciullo per rugumare da vecchio; e tanto con loro mi addomesticai, talmente mi passarono, non dico nella memoria, ma nel sangue e nelle midolle». (...)
Oggi leggiamo libri «estesamente», senza una profonda concentrazione e, a parte rare eccezioni, li leggiamo una volta sola. Nella lettura anteponiamo la quantità alla qualità. Non abbiamo scelta, se vogliamo mantenerci aggiornati. Anche nei settori più specializzati, è una fatica di Sisifo cercare di dominare la montagna di parole che si riversa ogni giorno sul mondo. E questo significa che è praticamente impossibile fare uno sforzo serio per memorizzare quel che leggiamo. (...)
Si potrebbe sostenere che stiamo entrando in una nuova era nella quale avere una cultura profonda — possedere una mente ben coltivata e culturalmente attrezzata — non ha più l'importanza di una volta. Uno studio pubblicato all'inizio di quest'anno sulla rivista «Science» ha dato molta soddisfazione agli esponenti di quell'intellighenzia che, dall'altra parte dell'Atlantico, denuncia regolarmente gli effetti negativi che Internet ha sul nostro modo di pensare. Una serie di esperimenti condotti dai ricercatori della Columbia University ha dimostrato che quando impariamo delle nozioni che sappiamo essere anche immagazzinate nella memoria di un computer, il nostro rapporto con esse cambia. Quando sappiamo che qualcuno ricorda per noi, investiamo meno nell'atto del memorizzare. Per chi passa il tempo a navigare sul Web saltando da un argomento all'altro, facendo delle pause per controllare la posta e i risultati sportivi, questo è diventato il modo principale di acquisire informazioni. Leggiucchiamo, scorriamo pagine web, guardiamo qua e là distrattamente, senza grande impegno. E dimentichiamo.
«Google ci sta rendendo stupidi?» ha chiesto un giornalista televisivo. «Ci sta rovinando i ricordi?» ha domandato un altro. E se così fosse, sarebbe poi tanto grave?
Queste discussioni sono molto più vecchie di Google. Abbiamo usato un mezzo tecnologico per registrare all'esterno i nostri ricordi fin da quando il primo uomo ha spalmato del colore sulla parete di una caverna. (...)
Abbiamo fatto molta strada, dal temere la scrittura al preoccuparci di Google. Oggi credo che saremmo tutti d'accordo sul fatto che Socrate stava esagerando. Avendo convissuto con la scrittura per alcuni millenni, siamo più inclini a vederne i vantaggi che le insidie. Penso però che nei timori di Socrate si possa riconoscere un problema attuale.
Ai giorni nostri, quando ci troviamo di fronte a nozioni che non conosciamo o a una domanda per la quale cerchiamo una risposta, tiriamo fuori lo smartphone e avviamo una ricerca. Abbiamo tutta la conoscenza collettiva della civiltà umana — o, almeno gran parte di essa — a portata di pollice. O anche più vicino. (...)
Usiamo sempre più spesso qualche dispositivo come fosse un obiettivo attraverso il quale confrontarci con il mondo e mediare il rapporto con la realtà. La prossima tappa di questa escalation tecnologica sarà la realtà aumentata, una tecnologia che sta cominciando a essere adottata da un numero crescente di applicazioni mobili, e che molti credono sia destinata a trasformare i computer da cose che abbiamo a cose che indossiamo. L'iPhone 5.0 sarà un dispositivo con cui interagire con la voce e le dita, ma l'iPhone 20.0 sarà come un paio di occhiali e l'iPhone 50.0 potrebbe benissimo essere in grado di canalizzare le informazioni direttamente nella nostra corteccia cerebrale. Invece di dover comunicare indirettamente con le nostre memorie esterne, esse faranno sempre più parte integrante del modo in cui percepiamo il mondo e ne facciamo esperienza, ampliando automaticamente i nostri pensieri e le nostre percezioni con una vasta gamma di informazioni e una sempre maggiore potenza di elaborazione.
Questo futuro bionico potrebbe sembrare fantascienza, ma in realtà è la visione dei fondatori di Google. Larry Page ha detto che attende con impazienza il giorno in cui il suo prodotto sarà inserito direttamente nel cervello umano. (...)
Un giorno, nel futuro bionico che Larry Page e Sergey Brin prefigurano, quando la nostra memoria interna ed esterna si fonderanno completamente, arriveremo a possedere una conoscenza infinita. E sembrerà fantastico. Ma la cosa più importante da ricordare è che la conoscenza infinita non coincide con la saggezza.
(Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 25.1.12
Addio al regista Angelopoulos Fu l'antropologo del cinema
Travolto da una moto mentre camminava per strada
di Maurizio Porro


E' stato investito da una moto in una località del Pireo, mentre attraversava una strada. In quella località Theo Angelopoulos stava facendo delle riprese per il nuovo film. Gravemente ferito, è stato portato in ospedale in condizioni disperate. E' morto per una emorragia interna.
Era l'antropologo del cinema Thoduros Angelopoulos, detto Theo, di Atene, 76 anni, nato in un giorno del '36 come in uno dei suoi film, avvocato in Grecia, letterato e cinefilo in Francia, poi anche critico. E' stato uno dei più provocatori e intransigenti maestri del cinema europeo uscito da quel grande movimento di nouvelles vagues della fine anni 60.
Conosceva così bene i meccanismi del cinema che s'è potuto permettere di smontarli, evitando fin dove possibile le emozioni e i sentimenti proprio come accade nell'accezione "epica" del teatro brechtiano in cui i mezzi dello stile e la tecnica della ripresa tendono a prendere il sopravvento per farci sempre capire che siamo dentro un universo di finzione, ma per meglio analizzare l'uomo attraverso sottolineature e didascalie. Eppure ad incontrarlo era molto semplice, cordiale, mai supponente, un uomo innamorato del suo lavoro. In Italia il suo titolo di culto resta La recita uscito nel '75 con Italnoleggio, allora distribuzione di stato e osannato da schiere di fans accaniti ed instancabili: opera di 4 ore, radicalmente e spiritualmente vicina al teatro, fa parte di una trilogia (fra I giorni del '36 e I cacciatori) in cui l'autore raccontò la storia della Grecia dagli anni 30 ai 70, avendo egli iniziato a lavorare sotto la dittatura dei colonnelli.
Quest'opera ostica in cui una compagnia di teatranti mette in scena un dramma ma conserva i propri nomi che sono gli stessi degli Atridi nell'Orestea (e un destino li accomuna) si svolge su tre piani continuamente sovrapposti come se fossero una cosa sola: quello della recita, quello privato e quello pubblico. Il regista parte dal concetto che un film rivela un piano di spazio e tempo mai definibile con precisione, ma solo con sottili complicità subliminali: lungo i suoi piani sequenza, anche senza fine, egli può passare da un periodo a un altro, da un luogo a un altro, ma soprattutto dà l'importanza che merita al silenzio, alla pausa, alla non azione, nei momenti in cui lo spettatore si inserisce davvero dentro l'anima della storia.
Naturalmente in questo processo clamorosamente in controtendenza sul cinema action e fantasy di oggi è un procedimento che si addice ai cinefili. Quegli infiniti movimenti di macchina senza stacchi, quindi il montaggio ridotto al minimo, attraversano nei paesaggi spesso grigi sia la storia che la geografia (ce n'è uno mirabile nel Passo sospeso della cicogna che dura un'eternità ma non è lungo). In questo senso Angelopoulos, che quando ha avuto l'incidente stava girando un film col nostro Toni Servillo, non si è mai tradito, non ha mai fatto sconti né a sé stesso né al suo pubblico anche se il tempo lo rendeva quasi un reduce di un'epoca gloriosa in cui si aveva più fiducia nel mezzo. Vincitore di una agognata Palma d'oro a Cannes (L'eternità è un giorno, momento speciale nella vita di uno scrittore) e di un Leone di argento a Venezia '88 (Paesaggio nella nebbia odissea di due ragazzi), ha spesso raccontato delle piccole storie ma inserite in processi più vasti in cui il mondo si capovolge e urge tornare a ritrovare le proprie radici, tema spesso esplorato, con un complice perfetto, lo sceneggiatore Tonino Guerra, in film più recenti come Lo sguardo di Ulisse - dedicato all'amico Volontè che morì durante le riprese e fu sostituito da Harvey Keitel - in cui si va alla ricerca di vecchi reperti di pellicola ma si parla di Sarajevo e resta negli occhi il viaggio lungo il fiume dell'enorme statua di Lenin. Amante dei nostri attori (usò bene Mastroianni nel Volo e nella Cicogna), ed anche dei francesi, Theo è stato un moderno antropologo del cinema, come dimostra pure l'ultimo suo ammirevole puzzle intitolato La polvere del tempo storia di una famiglia alle prese con una difficile riunificazione attraverso varie capitali.
Ma soprattutto gli interessava il piccolo grande uomo di fronte alla storia, che fosse Alexandròs o un apicultore, sempre esprimendo il suo mondo interiore con ellissi, piani sequenza, fidando che il discorso dello stile diventasse la materia stessa del contendere l'accensione ultima dei suoi discorsi sulle radici della sua cultura greca che egli non separava mai dalla realtà.

martedì 24 gennaio 2012

l’Unità 24.1.12
Capitalismo in crisi
All’origine del sisma c’è l’indebolimento della democrazia
Lo scacco del modello liberista getta luce sulle radici materiali della crisi
dei sistemi rappresentativi. Non se ne esce rivolgendosi ai buoni sentimenti
di Michele Ciliberto


È vero: nel dibattito politico italiano c’è un elemento di grave provincialismo. Non so se questo dipenda, come pensa Donald Sassoon, dalla fine del Pci che si muoveva in un orizzonte internazionale e abituava i suoi militanti a guardare a ciò che accadeva nel mondo. Non c’è però dubbio che ciò pesi profondamente sia nell’analisi della situazione attuale che nella individuazione di nuove prospettive strategiche.
Basta pensare al modo con cui è stato, in generale, interpretato il fenomeno berlusconiano: come un fatto tipicamente italiano, caratteristico del «populismo» nostrano o, addirittura, come una rinascita, in forme diverse, del fascismo. Mentre è stato la forma specifica assunta in Italia dalla egemonia, a livello europeo, della destre, e si è inserito in un generale processo di crisi e di degenerazione delle forme democratiche.
In questi giorni si è osservato che in Italia, «per governare non è più necessario essere “rappresentanti del popolo”, cioè passati attraverso il filtro del voto». È una tesi discutibile; ma se così fosse, sarebbe, precisamente, l’effetto diretto della crisi della democrazia che si è avuta in Italia negli ultimi due decenni. Non lo sottolineo della generica «crisi della politica» di cui oggi tanto si parla, a proposito e a sproposito; così come, in termini altrettanto generici, e spesso retorici, si parla della necessità di una sua «rigenerazione». Quasi si trattasse di una questione di buona volontà o di un impulso di carattere morale; e non invece di un problema strettamente materiale, che su questo piano deve essere affrontato.
La «crisi» del capitalismo liberista (o finanziario) di cui si parla finalmente in modo aperto getta luce sulle radici materiali della crisi attuale della democrazia e della politica democratica (e sulle stesse ragioni dell’avvento e della fine del berlusconismo), spingendo a guardare oltre i confini nazionali e ad afferrare l’“intero” in cui va situata la vicenda italiana, senza illudersi che essa possa essere risolta adeguandosi al «rigore» di Bruxelles o limitandosi ad avviare una politica certo importante di liberalizzazioni.
Oggi ed è questo il punto centrale c’è un indebolimento generale delle democrazie, una perdita di credibilità delle istituzioni democratiche che viene da molto lontano e che si manifesta anche nella tendenza sempre più diffusa a risolvere direttamente, cioè senza intermediazioni politiche o parlamentari, problemi sia personali che collettivi.
Ma questa crisi ha matrici materiali assai precise e concrete: nei Paesi dell’Ocse per citare un solo, e drammatico, esempio fatto da Sapelli ci sono 250 milioni di disoccupati, e di questi una buona parte sono destinati a restare disoccupati per sempre. Né si intravede, a livello europeo, una presa d’atto di questa situazione; mentre le società diventano, giorno per giorno, più disuguali, più divise, più lacerate e le democrazie perdono sempre più credito, come avviene quando gli individui, volenti o nolenti, sono sospinti nella difesa del cerchio ristretto del proprio interesse particolare.
In una crisi di questo tipo non serve rivolgersi ai buoni sentimenti o indossare i panni di Menenio Agrippa, appellandosi ai valori dell’«ordine sociale». La democrazia vive e si sviluppa se ha solide basi materiali; altrimenti entra in crisi, decade, può morire. Si è sviluppata e diffusa dal 1945 agli anni 70 del secolo corso perché era basata su un organico e conflittuale compromesso tra capitale e lavoro. Oggi è come sospesa per aria, senza fondamento materiale.
Se oggi il problema centrale è quello di «rimotivare» la democrazia, la prima cosa da fare è perciò lavorare per darle nuove basi materiali, ridefinendo i termini di un nuovo «compromesso». E per far ciò le forze riformatrici devono far sentire senza timore la loro voce scegliendo se necessario anche il terreno del conflitto. Fino a poco tempo fa era di moda dire che Marx era morto e sepolto; ora se ne ricomincia a fare il nome.
Certo, i rapporti fra capitale e lavoro oggi si pongono in forme del tutto inedite rispetto al XX secolo; ma come si vede anche dalla crisi attuale, il nesso fra democrazia e lavoro è centrale, strutturale: simul stabunt, simul cadent. È da qui che bisogna perciò ripartire ma ed è un punto altrettanto importante oltrepassando gli orizzonti tradizionali del movimento operaio e costruendo legami materiali, culturali, etici, politici di tipo nuovo che consentano all’Europa di imboccare strade originali, svolgendo il compito che le spetta nel millennio che si è aperto.

il Fatto 24.1.12
GDF Scoperti 7500 individui e società che non dichiaravano nulla: solo nel 2011 avrebbero nascosto 21 miliardi
Dunque gli evasori si possono scovare
Storie di ordinari imbrogli. Come quella dell’imprenditore fuggito dallo Stato e dai suoi dipendenti. Si è dato all’ippica. E ora il figlio di Varenne corre per l’erario
di Paola Zanca


A Piacenza lo conoscevano tutti come un esperto in medicina alternativa. Le sue tariffe erano pubblicate sul sito internet dello studio. Ed è lì che la Guardia di Finanza ha capito che c’era qualcosa che non andava. Se prende quasi 100 euro all’ora, come fa a dichiarare un reddito da cinque mila euro l’anno? pag. 6  
A Piacenza lo conoscevano tutti come un esperto in medicina alternativa. Le sue tariffe erano pubblicate sul sito internet dello studio. Ed è lì che la Guardia di Finanza ha capito che c'era qualcosa che non andava. Se prende quasi cento euro all'ora, come fa a dichiarare un reddito da cinque mila euro l'anno? Lui ha provato a difendersi: visito solo due ore alla settimana. Ma si era scordato dei versamenti rigogliosi che affluivano sul suo conto corrente con regolarità. Così gli hanno contestato quasi 600 mila euro di entrate non dichiarate.
IL NOSTRO MEDICO piacentino, è uno dei 7500 lavoratori autonomi che nel 2011 sono spariti dai registri del fisco. E con loro hanno giocato a nascondino più di 21 miliardi di euro. Niente di eclatante, succede tutti gli anni. Nel 2010, anzi, gli evasori totali beccati in castagna erano stati 8850, sempre per una cifra di 26 miliardi di euro tra redditi non dichiarati e Iva non versata. È questo l'unico dato che ha subìto una variazione significativa: dall'anno scorso a oggi, i mancati pagamenti Iva in aziende che hanno volumi d'affari superiori ai 100 mila euro è triplicato. Nel 2010 le violazioni erano 1226, nel 2011 3867.
Ma i 21 miliardi mai arrivati nelle casse dello Stato per colpa degli evasori totali sono solo una piccola parte. Le verifiche delle Fiamme Gialle hanno trovato un totale di redditi non dichiarati che supera i 50 miliardi, a cui ne vanno aggiunti altri 8 di Iva evasa. I più difficili da scovare sono stati quelli nascosti “dalle triangolazioni fra società collocate nei paradisi fiscali, dalle intestazioni fittizie di patrimoni, dalle grosse operazioni elusive”. Poi ci sono almeno duemila soggetti che hanno emesso fatture false e altrettanti che hanno distrutto o nascosto la contabilità. Infine si evade anche con il lavoro nero: più di dodicimila i lavoratori trovati senza contratto, di cui 2500 extracomunitari.
ORA IL PROBLEMA è come recuperare questo immenso patrimonio. Quasi un miliardo (per la precisione 902 milioni di euro) è stato sequestrato immediatamente agli evasori. Tra le immagini registrate dalla Guardia di Finanza c'è perfino chi aveva nascosto mazzette di banconote da 500 euro in una spazzola per capelli. Quanto agli altri 49 miliardi, sarà compito dell’Agenzie delle Entrate provare a ritrovarli attraverso accertamenti ancora da avviare. Il 10 per cento di chi ha mentito al Fisco ha ammesso subito il dolo: anziché aspettare le cartelle esattoriali, hanno deciso di aderire alla riscossione “spontaneamente”. In passato erano meno: ora il clima aiuta. “In questo periodo di crisi economica spiegano dalla Guardia di Finanza anche chi prima giustificava l’evasione come una furberia, ha dovuto prendere atto della pericolosità sociale del fenomeno”. “Ora ci sentiamo meno soli”, dice il comandante Nino Di Paolo. Stia tranquillo il medico di Piacenza, anche lui è in numerosa compagnia.

La Stampa 24.1.12
Conti pubblici, la battaglia più dura
Il Fisco scopre 12.000 evasori nascosti redditi per 50 miliardi
Un anno record per la Guardia di Finanza. Altri 8 miliardi di Iva non pagata “Danni alla concorrenza, al bilancio pubblico e alla credibilità del Paese”
di Francesco Grignetti


Sbalorditive sono le cifre: nell’anno appena trascorso, la Guardia di Finanza ha scoperto redditi non dichiarati al fisco per 50 miliardi di euro, e inoltre 8 miliardi di Iva, e ben dodicimila persone che si erano resi responsabili di reati e frodi fiscali.
La Finanza sta spingendo sull’acceleratore quanto a economia sommersa, frodi e evasione. «Per i danni che producono al bilancio pubblico, alla concorrenza tra imprese e alla credibilità del Sistema Italia».
Ed ecco gli strabilianti risultati. Nel corso di indagini varie sono stati sequestrati immediatamente 902 milioni di euro. Altri 11 miliardi di euro erano stati trasferiti all’estero con residenze di comodo e sottratti al fisco italiani. Infine sono venuti alla luce 7500 evasori totali, di quelli che non presentano alcuna dichiarazione dei redditi. Finti indigenti: avevano occultato redditi per 21 miliardi di euro. «Ora ci sentiamo meno soli», dichiara il comandante generale del Corpo, Nino Di Paolo. Si riferisce al plauso con cui i contribuenti onesti hanno salutato le loro ultime spettacolari operazioni antievasione, ma anche alle parole d’incoraggiamento del nuovo governo. «Ma i tempi sono cambiati».
E’ un’Italia di soliti evasori, furbi trafficoni, truffatori impudenti. Il 39% degli esercizi commerciali del territorio fiorentino, ad esempio, non rilascia scontrini fiscali. Lo stesso accade a Bologna: su 370 controlli eseguiti, la mancata emissione è stata riscontrata in 170 casi. A Venezia controlleranno 4mila e 600 studenti dell’università di Cà Foscari per verificare chi ha effettivamente diritto a borse di studio e sovvenzioni. Ogni tanto, poi, incappano in storie degne di un film. A Padova hanno incastrato un imprenditore dell’autotrasporto, Roberto Cabbia, che non solo aveva omesso di versare tasse per 1,5 milioni di euro nonché contributi previdenziali per altri 2,2 milioni di euro (lasciando in braghe di tela 300 dipendenti), ma aveva nascosto dapprima i soldi in Svizzera per poi allestire una scuderia di purosangue in Italia. Cabbia aveva infatti la passione dei cavalli e pur di comprare un campione a quattro zampe non esitava davanti a nulla. E’ così che ha comprato «Mustang Grif», figlio del mitico «Varenne». «Mustang Grif», valutato 600 mila euro e vincitore già di diversi premi da 150 mila euro, ora corre per lo Stato: è stato sequestrato come provento illecito e i prossimi premi finiranno sul Fondo unico Giustizia. Serviranno a finanziare caserme e tribunali.
I successi maggiori, in termini quantitativi, vengono dalla scoperta degli evasori totali e dalle inchieste sulle finte residenze all’estero. Sono miliardi di euro recuperati alle casse dello Stato. Ma dietro e accanto all’evasione fiscale - spiega la Finanza - «si celano spesso altri reati: il riciclaggio, la corruzione, l’emissione di fatture false per beneficiare indebitamente di fondi pubblici, l’illecito trasferimento di capitali all’estero o la commissione di reati di borsa».
I verbali della Guardia di Finanza vengono poi recepiti dall’Agenzia delle Entrate per il cosiddetto «accertamento» e finiscono in ultima istanza sui tavoli di Equitalia. Non meraviglia, dunque, che molti, una volta pizzicati dalle Fiamme Gialle, aderiscano spontaneamente ai rilievi. La procedura consente una conciliazione pagando il 10% dei verbali.
«In questo periodo di crisi economica, anche chi prima giustificava come “furberia” l’evasione, non comprendendone la reale insidiosità, ha dovuto prendere atto della pericolosità sociale del fenomeno», spiega la Guardia di Finanza. Che ora, con gli ultimi decreti, ha davvero tutti gli strumenti per stanare gli evasori. E la caccia è aperta, soprattutto all’evasione «più consistente e sofisticata», ovvero le triangolazioni fra società dei paradisi fiscali, le intestazioni fittizie di patrimoni, le grosse operazioni elusive.
Con i suoi 600 reparti disseminati per l’Italia, la Finanza sta contrastando le cosiddette «frodi Carosello», dove stimabili società si approvvigionano dall’estero attraverso intermediari fasulli che nascono e muoiono al puro scopo di emettere fatture che nascondono l’Iva: scoperti quasi 2 miliardi di Iva evasa. Poi, certo, ci sono le operazioni più classiche, non meno insidiose: 12.676 i lavoratori «in nero» scovati, di cui oltre 2500 extracomunitari; 1981 casi di fatture false; 402 casi per non aver versato l’Iva; 2000 omesse dichiarazioni dei redditi e altri 2000 denunciati per aver distrutto o occultato la contabilità.

La Stampa 24.1.12
La rivincita dell’égalité
Dalla Francia, il politologo riformista Rosanvallon rilancia un valore rimosso negli anni del neoliberismo trionfante. Anche a sinistra
di Massimiliano Panarari


In tanti l’hanno cercata, nessun l’ha trovata. Stiamo parlando dell’uguaglianza, uno dei valori fondamentali (anzi, quello costitutivo, per Norberto Bobbio) del progressismo, sbrigativamente liquidato da Reagan e dalla Thatcher, e uscito alquanto ammaccato da questi nostri decenni di neoliberalismo trionfante. Persino all’interno della sua famiglia politica di pertinenza, che, data per persa la battaglia, ha preferito dedicarsi alla governance dell’esistente, limitandosi a smussare le punte più ferine degli spiriti animali dell’indomabile turbocapitalismo. O si è invaghita delle teorie normative della giustizia di filosofi politici come John Rawls e Amartya Sen, le quali, immerse nei «veli di ignoranza» e nei modelli astratti di approccio alle scelte pubbliche, tra l’eguaglianza e l’equità prediligono di gran lunga la seconda.
Ecco perché in Francia - il Paese per antonomasia del pensiero politico ugualitario è stata salutata alla stregua di un vero e proprio avvenimento la pubblicazione di La société des égaux (Seuil, pp. 428, 22,50), l’ultimo libro di Pierre Rosanvallon, uno dei più noti intellettuali d’Oltralpe, che rimette al centro proprio l’ égalité, questo grande rimosso della riflessione recente della sinistra. Già animatore della cosiddetta deuxième gauche anticomunista e antitotalitaria, storico politico celeberrimo, professore al Collège de France, Rosanvallon è stato uno dei padri spirituali del social-liberalismo e il protagonista di una serie di scontri furibondi con gli esponenti della sinistra radicale (in primis Pierre Bourdieu) che abbonda in terra transalpina. Ora ci consegna questa terza parte della sua monumentale trilogia sulla democrazia (di cui sono già apparsi La contre-démocratie eLa légitimité démocratique ), una impressionante e poderosa genealogia culturale che scandaglia le nozioni e le visioni di uguaglianza lungo il XIX e il XX secolo, impegnandosi anche a sfatare quelli che, nel frattempo, sono diventati spesso dei (falsi) luoghi comuni.
All’epoca della Rivoluzione del 1789 - la scena originaria, l’inizio di tutto per la politica francese contemporanea uguaglianza e libertà costituivano due sorelle inseparabili, da pensare rigorosamente insieme. Col passare del tempo, quanto più si rivelava vittoriosa la «democrazia-regime», sottolinea lo studioso, tanto più si indeboliva la «democrazia-società», mentre l’uragano della globalizzazione finanziaria minacciava duramente la coesione sociale delle nazioni occidentali e ne metteva irreversibilmente in crisi il Welfare State (o, come lo chiamano a Parigi, l’ État-providence ). Nel frattempo, dilagava una delle patologie della democrazia-regime, il populismo, e si diffondevano ondate di indignazione, inadatte però ad approdare a riforme politiche concrete.
È dunque arrivato il tempo, sotto l’incalzare dei guasti sociali e umani, ma anche economici, prodotti dalla dottrina neoliberista, di lanciare un progetto di democrazia integrale, in grado di coniugare insieme le idealità, a lungo contrapposte, di democrazia e socialismo. Uno choc: Rosanvallon è diventato un rivoluzionario? No, rimane il riformista di sempre, serio e rigoroso (sebbene molto più preoccupato), in una nazione come la Francia nella quale questa parola, a sinistra, ha coinciso a lungo con una sorta di epiteto ingiurioso. E, infatti, lo studioso continua a rifuggire da qualsivoglia politica identitaria (caratteristica del comunitarismo anglosassone), come dall’idea (cara a certa sociologia americana) che l’omogeneità (sociale e addirittura etnica) sia l’indispensabile premessa per sistemi egualitari. Nessun livellamento, ma la sfida di pensare, contemporaneamente, uguaglianza, singolarità e differenza (che il neoliberismo restringe e confina alla sfera esclusiva del consumo). Per riuscirci occorre tornare a un’idea di «uguaglianza-relazione» capace di produrre nuovamente legame sociale, e non soltanto un almanacco (troppo virtuale) di diritti.
Perché una società funzioni, sostiene lo studioso, tutti i suoi componenti devono condividere ed essere educati a tale idea egualitaria, come avevano ben chiaro i leader delle grandi rivoluzioni liberali, francese e americana, che ruotavano dichiaratamente intorno a tre declinazioni dell’idea di uguaglianza: la somiglianza (uguaglianza-equivalenza), l’indipendenza (uguaglianza-autonomia) e la cittadinanza (uguaglianza-partecipazione). Dalla loro confluenza scaturiva, giustappunto, quell’idea di eguaglianza-relazione che alimentava una visione di bene comune e portava con sé le nozioni benefiche di temperanza e misura, che dobbiamo riscoprire ora. Come pure quelle di frugalità e sobrietà, naturalmente nell’accezione di Adam Smith e non in quella del teorico della decrescita Serge Latouche (di cui sta uscendo da Bollati Boringhieri l’ultimo libro, Per un’abbondanza frugale ). Da qui devono dunque ripartire le democrazie liberali, «facendo società», in primis attraverso una nuova politica urbana che riduca i ghetti metropolitani e le barriere sociali tra quartieri.
La ricetta rosanvalloniana prevede anche dosi massicce di «reciprocità» (con un servizio civile a favore della collettività) e di condivisione, a partire da quella del sapere: scuola e educazione rappresentano gli strumenti che devono permettere agli individui di liberarsi da tutto ciò che limita i loro orizzonti. Et voilà il senso della società degli eguali, che rappresenta il luogo politico nel quale i cittadini possono, al tempo stesso, essere eguali e diversi, simili e singoli, dediti a costruire percorsi collettivi, senza tuttavia rinunciare mai alla loro irriducibile individualità. Per questo occorre una sinistra che archivi definitivamente la versione di «partito della spesa, del fisco e della redistribuzione» per trasformarsi in soggetto portatore di una concezione allargata dell’uguaglianza.
Insomma, nessuna paura, Rosanvallon non si è convertito in un teorico postmoderno del «comune» à la Toni Negri, ma resta un saldo social-liberale (o liberalsocialista come diremmo noi). Proprio da quei lidi politico-culturali, infatti, proviene ancora una volta - come già ai tempi di Gobetti - una delle più convincenti perorazioni sulla necessità di un ritorno alla nozione di eguaglianza: da Stéphane Hessel (di cui, per i tipi di Add, è appena uscito Danza con il secolo) allo scomparso Tony Judt, sono proprio i liberali di sinistra a raccontarci quanto Guasto è il mondo (come Laterza ha intitolato un bel libro dello storico inglese), a causa delle teorie dei ChicagoBoys.
Tutte letture da meditare attentamente - a partire da quella di Rosanvallon, accademico di Francia (e dunque anch’egli, decisamente, un professore doc) per quel pezzo di sinistra italiana che si trova a disagio con talune scelte del governo dei professori, ma non vuole tornare a inseguire improbabili utopie.

La Stampa Torino 24.1.12
In Sala rossa ordine del giorno a favore di una nuova lege sulla cittadinanza
Una bimba marocchina torinese ad honorem
Per sostenere l’appello di Napolitano a introdurre lo “ius soli”
Il consigliere Tricarico: «Il 35% dei neonati ha genitori non italiani»
di Maria Teresa Martinengo


Stranieri i primi nati del 2012 A Torino, come in molte altre città italiane, i primi bambini nati nel 2012 sono risultati figli di immigrati stranieri o di persone di origine straniera che hanno acquisito la cittadinanza

Una cittadina onoraria piccola piccola, come segno, come riconoscimento simbolico delle migliaia di bambini figli di immigrati che, nati in Italia, aspettano di diventare italiani. La bimba che potrà diventare torinese ad honorem, una volta che il Consiglio comunale avrà attivato la procedura prevista dall’articolo 7 dello Statuto, è Laila Abdane, figlia di genitori marocchini, nata il primo gennaio all’1,52 in un ospedale torinese.
La richiesta al sindaco Piero Fassino di conferire la cittadinanza onoraria ad una bimba in fasce è stata avanzata da Roberto Tricarico, responsabile Diritti del gruppo Pd in Sala Rossa, al termine dell’intervento con cui ha illustrato un ordine del giorno, poi approvato dal Consiglio. Il documento, presentato da Tricarico e da Marta Levi, presidente della Commissione Pari Opportunità, e sottoscritto da tutto il gruppo Pd, impegna il sindaco a farsi portavoce affinché non cada nel vuoto l’appello del presidente Napolitano, che ha esortato il Parlamento a legiferare per riconoscere la cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati.
«In Senato è stato depositato un disegno di legge con 114 firme di senatori per modificare la legge sulla cittadinanza e sancire il passaggio dallo “ius sanguinis” allo “ius solis” - ricorda Tricarico -, inoltre è in corso fino a febbraio la raccolta di firme a sostegno della legge di iniziativa popolare nell’ambito della campagna “L’Italia sono anch’io”. Che il Consiglio comunale affronti questo tema, pur nei grandi limiti delle sue prerogative, mi pare fondamentale come segno di attenzione verso quel 15% di popolazione di origine straniera residente in città e verso i suoi figli, che contribuiscono a disegnare la città del futuro».
E il futuro, a leggere le cifre dei nati nel 2011, è già qui: i nati da due genitori italiani sono stati 4918, i nati da almeno un genitore straniero 3067. Impensabile immaginare la città - la più vecchia d’Italia - senza questo secondo numero. Nella fascia zerodue anni, poi, i bimbi non italiani residenti sono 6940, oltre un quarto del totale. I minori stranieri sono in tutto 28.887. Tra loro, dunque, la piccola Laila, uno tra i primi nati a Torino nel 2012. La prima assoluta, Takwa, ha nome straniero ma è cittadina italiana in quanto figlia di genitori italiani di origine tunisina.
L’ordine del giorno ha incontrato l’opposizione della Lega. Il consigliere Fabrizio Ricca, nel ribadire che «i bambini stranieri che nascono qui hanno già gli stessi diritti degli italiani», ha poi evocato lo spauracchio di «madri straniere incinte che arrivano in Sicilia per partorire». Ne è seguito un animato botta e risposta con il sindaco, interrotto più volte anche dal consigliere Pdl Maurizio Marrone.
«L’immigrazione è un tema strategico per la vita della nostra città e del Paese. La modificazione strutturale della popolazione è in relazione alle nuove dinamiche economiche», ha rimarcato Fassino. E a chi tentava di interromperlo: «Il sindaco leghista di Treviso vanta i livelli di integrazione raggiunti nella sua città perché si rende conto che il fenomeno va governato e gestito, e non con la paura». Fassino si è detto disponibile ad aderire alla richiesta di conferimento della cittadinanza onoraria alla piccola Laila se il Consiglio attiverà la procedura.

l’Unità 24.1.12
Il 14 gennaio un barcone si ribalta: 55 dispersi
Ma a chi interessa?
di Luigi Manconi
e altri

Il 14 gennaio 2012, alle ore 3 del mattino un barcone parte dalla Libia con destinazione Malta, a bordo ci sono 55 persone (tutte somale). Dopo qualche ora, cominciano le difficoltà: il motore è in avaria e l’acqua invade la barca. L’allarme, lanciato da alcuni passeggeri, arriva in Italia, ma a nulla serve. Il barcone si ribalta. Bilancio: tutti dispersi a parte uno, il cui cadavere è stato già ritrovato. Nonostante l’Sos, l’imbarcazione non è stata soccorsa né dalla Marina italiana né da quella maltese perché il naufragio è avvenuto in prossimità della costa libica. Attualmente non c’è alcuna indagine in corso: quello che è stato trovato (o non è stato trovato) non lascia ombra di dubbio. Vicenda archiviata. Nelle stesse ore affondava la nave da crociera Concordia al largo dell’isola del Giglio. Una notizia, quella, seguita mediaticamente passo dopo passo: l’urto, le urla dei passeggeri, l’allarme dato attraverso gli altoparlanti dal comandante, la fuga con le scialuppe, i soccorsi, i morti e, poi, le polemiche. Tutto ben documentato anche dai corrispondenti esteri sia perché a bordo della Concordia c’erano molti ospiti stranieri, sia perché si è trattato di una tragedia inaspettata per una nave di quelle dimensioni. Numerose le differenze tra i due incidenti. Una, per esempio, riguarda le cause del naufragio. Quello avvenuto al largo della costa libica è sicuramente l’esito della combinazione di più irregolarità: delle imbarcazioni, del numero di passeggeri, delle condizioni di navigazione e di chi li trasporta verso l’Italia. Un’altra, ed è la più evidente, è la visibilità mediatica data alle due notizie. Ora, premessa l’umana pietà per i morti della Concordia, non si può non registrare il sospetto che i 55 somali siano considerati di una categoria diversa (inferiore?) di vittima del mare.

Repubblica 24.1.12
Un estratto dell´intervento dell’antropologo nell’ultimo numero di MicroMega
Ogni società produce il suo straniero
C´è un "noi" regionale oggi definito in termini etnoculturali, che si intrecciano a specifici interessi economici
di Marco Aime


«Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili». Sembra una parafrasi dell´incipit tolstojano di Anna Karenina, ma queste parole di Zygmunt Bauman mettono in evidenza il processo di produzione dello straniero come individuo, che oltrepassa quei confini che abbiamo creato e che talvolta mal sopportiamo.
Si definisce «straniero», continua Bauman, chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente. Secondo lo scrittore e saggista martinicano Édouard Glissant è proprio l´idea di trasparenza a essere pericolosa: «Io rivendico il diritto all´opacità. La troppa definizione, la trasparenza portano all´apartheid: di qua i neri, di là i bianchi. "Non ci capiamo", si dice, e allora viviamo separati. No, dico io, non ci capiamo completamente, ma possiamo convivere. L´opacità non è un muro, lascia sempre filtrare qualcosa. Un amico mi ha detto recentemente che il diritto all´opacità dovrebbe essere inserito tra i diritti dell´uomo» . Straniero è colui che sconvolge i modelli di comportamento stabiliti, che compromette la serenità diffondendo l´ansia (...).
«Gli oggetti si mondializzano, gli individui si tribalizzano». Con questa frase secca e un po´ sarcastica lo scrittore francese Régis Debray ha sintetizzato in modo esemplare un fenomeno che segna pesantemente questi ultimi decenni. È davvero così?
La messa in atto di politiche di liberalizzazione su scala mondiale, tipiche della globalizzazione, non si traduce affatto, come ci si potrebbe attendere, in un trionfo dell´individualismo, ma al contrario nella proliferazione di identità collettive. Il progressivo disimpegno dello Stato sociale costringe la cosiddetta società civile a farsi carico dei suoi problemi. Questo incoraggia il fiorire di tutta una serie di strutture (associazioni, ong), che hanno come missione la gestione del sociale al posto dello Stato e che spesso si appoggiano a forme comunitarie.
«Si assiste allora alla ritribalizzazione delle società contemporanee?», si chiede Jean-Loup Amselle. «La risposta è positiva se si considera che questo fenomeno è in relazione con la globalizzazione e la riduzione concomitante della sfera dell´intervento statale, e non con una qualsiasi essenza di società che ritornerebbero allo stato naturale. Così come le etnie africane sono il prodotto di una storia e quindi della modernità, nel senso che risultano dalla concrezione di categorie importate e di categorie locali, le tribù dei quartieri difficili sono anch´esse il prodotto della storia recente delle società occidentali e, in particolare, del disimpegno dello Stato».
Siamo in quella società liquida, incerta, descritta da Bauman, in cui i punti fermi tradizionali sono venuti via via a mancare. La postmodernità è un´epoca segnata dalla contingenza, dal sovraccarico di presente a scapito delle altre dimensioni. «L´incubo dei nostri contemporanei è quello di essere sradicati, senza documenti, senza patria, soli, alienati e alla deriva in un mondo di "altri" organizzati». In questa sorta di mare immenso in cui ci troviamo a galleggiare, senza meta e senza un faro in vista, siamo continuamente in cerca di un approdo. Come al naufrago si lancia una corda per aggrapparsi prima di venire portato via dalle onde, ai naufraghi della modernità si getta il salvagente della dimensione etnica.
«L´identità fiorisce sul cimitero delle comunità, ma lo fa grazie alla promessa di risurrezione». Nessun contadino ha mai fatto un museo per proclamare la propria identità: gli bastava esserlo, contadino. L´identità è un surrogato della comunità, che funziona nel nostro mondo individualista ed è «nel momento in cui la comunità crolla che viene inventata la nozione di identità». L´identità è qualcosa che va inventato, non scoperto. È il prodotto di un lavoro di costruzione, non una materia prima che si trova sotto il suolo di un determinato territorio, né un nutrimento per le piante di una certa regione.
È qui che entra in gioco l´etnicità e il «noi» regionale viene definito in termini etnoculturali, che si intrecciano a specifici interessi economici. Mentre il nazionalismo classico, quello sociale, si basava su una società che includeva al proprio interno delle differenze, accomunate da una cultura nazionale condivisa e da un sentimento unanimemente percepito, il nazionalismo etnico è esclusivo, non accetta differenze, perché si fonda esclusivamente sull´identità etnica. Un´identità, che così come viene concepita, indiscutibilmente legata all´autoctonia, non può essere negoziata, né modificata, pena la «contaminazione», termine che incute timore, e non a caso viene utilizzato nelle retoriche della purezza, perché evoca malattie contagiose e mortali.
Quando la ricerca di comunità si fa ossessione rischia di diventare tribalismo. È l´idea di una società «pura», fondata su una presunta origine comune, peraltro definita con vaghezza, ma capace di fornire quell´autoctonia a cui vene attribuita un´importanza fondamentale. Evitare mescolamenti, conservare la presunta purezza originaria.
La semplificazione, che riduce tutto a due elementi contrapposti, è una cifra della retorica xenofoba, che tradisce la mancanza di elaborazione della complessità, ma si rivela assolutamente vincente sul piano mediatico. Inoltre, risponde perfettamente al bisogno di appagare a basso costo un senso di appartenenza, che non prevede diversità interne al gruppo del «noi», né a quello degli «altri». Inoltre, questa visione dicotomica e antagonista, che non lascia spazio a sfumature, favorisce un´adesione acritica al «noi», che comunque risulterebbe migliore della soluzione opposta, costruita ad arte sulla base di connotazioni negative e diametralmente opposte alle nostre.
L´idea di società proposta da molti movimenti xenofobi europei è quella di una comunità chiusa, limitata e riservata agli autoctoni. Non una comunità «calda» fondata sulla mutua solidarietà, su legami interni forti, quanto piuttosto una fortezza nata per respingere il nemico e difendere i propri beni. Riprendendo la definizione di Huxley e Haddon a proposito della nazione in genere, si potrebbe dire che «è una società unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei confronti dei vicini».

Repubblica 24.1.12
Quella falsa metafora biologica che lega tradizione e identità
L’ultimo saggio di Maurizio Bettini è sull’invenzione delle origini Qui lo studioso ci spiega perché queste tesi sono pericolose
di Maurizio Bettini


Nel nostro dibattito culturale sempre più frequentemente ricorre l´associazione fra tradizione e identità, quasi che l´identità collettiva – l´identità di un certo gruppo – dovesse essere concepita come qualcosa che deriva direttamente e unicamente dalla tradizione. Una delle affermazioni oggi più circolanti è proprio la seguente: «l´identità si fonda sulla tradizione». Basta rammentare gli anatemi che negli scorsi anni sono stati lanciati contro l´immigrazione, in particolare islamica, e i mutamenti culturali che da essa sarebbero provocati. Ora, il rapporto di causa / effetto che viene stabilito fra tradizione e identità – l´identità è prodotta dalla tradizione – emerge direttamente dalle stesse metafore che vengono usate per parlarne. Quando si vuole indicare la tradizione culturale di un gruppo o di un paese, infatti, l´immagine più ricorrente è quella delle radici. Queste sono le nostre radici, si dice, questo dunque siamo "noi". Basta ricordare l´acceso dibattito relativo alla proposta di inserire nel preambolo della costituzione europea una menzione delle radici cristiane dell´Europa. L´immagine arboricola intendeva sottolineare il rapporto di stretta interdipendenza che, a parere dei sostenitori di questa tesi, legherebbe fra loro la cultura europea da un lato, il cristianesimo dall´altro. Esempi ulteriori della metafora delle radici possiamo poi attingerli ai discorsi pronunziati dal presidente Marcello Pera, alcuni passaggi dei quali hanno fatto anzi particolarmente discutere nel recente passato; mentre il paradigma metaforico arboricolo compare, sempre in prospettiva identitaria, nel manifesto educativo della Scuola Bosina, un´istituzione di ispirazione leghista sorta anni fa in provincia di Varese: «gli uomini sono come gli alberi» vi si legge «se non hanno radici sono foglie al vento e i bambini sono i semi che devono trovare il nutrimento dalla (sic) terra in cui vivono per diventare querce secolari, di quelle che affrontano le tempeste della vita rimanendo sempre salde al (sic) terreno».
In questa selva di radici identitarie c´è un aspetto generale della questione che merita di essere messo in evidenza: le immagini non sono oggetti neutri, anzi, molto spesso hanno la capacità di condizionare fortemente la nostra percezione della realtà. Ciò che definiamo "metafora" non è solo un ornamento del discorso, è anche un potente strumento conoscitivo. Così accade anche nel caso delle radici. Questa immagine ha infatti la capacità di suggestionare fortemente qualsiasi discorso su identità e tradizione, e per un motivo abbastanza semplice: in un campo così astratto come quello delle determinazioni filosofiche o antropologiche, l´immagine delle radici permette di sostituire il ragionamento direttamente con una visione. Diceva già Cicerone nell´Oratore: «ogni metafora... agisce direttamente sui sensi e soprattutto su quello della vista, che è il più acuto... le metafore che si riferiscono alla vista sono molto più efficaci, perché pongono al cospetto dell´animo ciò che non potremmo né distinguere né vedere». Nessuno ha mai visto la propria tradizione, tantomeno avrà visto la propria identità, ma tutti nella loro vita hanno visto delle radici. In una discussione sulla tradizione, anche il più accanito dei tradizionalisti avrebbe difficoltà a dirci da che cosa sia concretamente costituita la tradizione di cui parla. Lo stesso discorso vale per quella cosa che chiamiamo identità. Ecco il motivo per cui è molto meglio spostare tutto sul piano della metafora, e far balenare di fronte agli occhi dell´ascoltatore semplicemente delle radici.
Ma che cos´hanno poi, di così efficace, queste radici? Come spiegava il retore Trifone, fra i quattro tipi di metafore un posto di rilievo spetta a quello che procede «dagli esseri animati a quelli inanimati», attribuendo con ciò caratteristiche vitali a oggetti o concetti che di vivo non avrebbero proprio nulla. Ora, quando si designano con il termine di radici concetti astratti come la tradizione, si fa per l´appunto questo: si procede «dall´animato all´inanimato», introducendo la vita là dove di per sé non ci sarebbe. Tramite questa immagine vitale, la tradizione viene chiamata a far parte addirittura dell´ordine naturale, e dall´intrinseca validità di quest´ordine – chi oserebbe mai contrastare la natura? – riceve automaticamente anche la propria giustificazione. Le radici stanno immerse nella terra, il luogo da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna; le radici sostengono la pianta, che altrimenti cadrebbe al suolo; e soprattutto le radici trasmettono al tronco, ai rami e alle foglie il nutrimento di cui hanno bisogno. Tramite l´immagine delle radici, e dunque dell´albero, anche la tradizione si muta in qualcosa di biologicamente primordiale, che sta immerso nella terra, qualcosa che sorregge e nutre – chi? Ovviamente noi, la nostra identità. Il rapporto di determinazione fra tradizione e identità assume in questo modo l´aspetto di una forza che scaturisce direttamente dalla natura organica. Se un albero è quel certo albero perché è cresciuto da quelle radici, noi siamo noi perché siamo cresciuti dalle radici della nostra tradizione culturale. In un certo senso, è come se noi non potessimo essere altrimenti: se si dà retta a questa metafora, la nostra identità finisce ineluttabilmente per essere determinata dalle nostre radici, cioè dalla tradizione cui si appartiene.
Inutile dire che il ricorso alla metafora arboricola punta a questo scopo: costruire un vero e proprio dispositivo di autorità, che, attraverso i contenuti evocati dall´immagine, si alimenta di nuclei semantici forti quali la vita, la natura e la necessità biologica. Selezionando alcuni momenti della nostra storia culturale a scapito di altri – Gerusalemme o Atene, la Roma dei papi, ma non p. es. la Parigi dei Lumi – e presentandoli sotto l´immagine di radici, si attribuisce loro l´autorevolezza che promana dalla natura, dalla necessità biologica e così via. Una volta che questo dispositivo di autorità sia stato messo in movimento, la conseguenza non può che essere la seguente: l´identità culturale predicata attraverso la metafora delle radici viene estesa a un intero gruppo, indipendentemente dalla volontà dei singoli. Un ramo può forse decidere di non appartenere all´albero con cui condivide le radici o, addirittura, di non essere un ramo? Una volta "radicati" in una certa tradizione, scegliere autonomamente la propria identità culturale diventa impossibile, ci si può solo riconoscere in quella che altri hanno costruito per noi.

l’Unità 24.1.12
Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht
risponde Luigi Cancrini


È passato quasi sotto silenzio un importante anniversario: l’assassinio il 15 gennaio 1919 a Berlino di Rosa Luxemburg e del suo compagno Karl Liebknecht. Avevano fondato il movimento comunista detto «La lega di Spartaco». Represso nel sangue da coloro che in futuro si sarebbero trasformati in nazisti.

RISPOSTA  La storia del mondo sarebbe stata un’altra se un po’ di rispetto in più vi fosse stato per chi, come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, predicava la fratellanza, la solidarietà e l’uguaglianza fra gli esseri umani basandosi sulle idee di Marx e di Engels. Del comunismo si ricordano oggi solo le degenerazioni staliniste perché molto piace (fa comodo) a chi parla di storia senza averla studiata, identificare il comunismo con il totalitarismo sovietico e perché assai scomodo sarebbe parlare dei comunisti che sono morti per un ideale di libertà. Nati dall’odio verso questi uomini e queste donne e dalla paura delle loro idee, nazismo e fascismo in tutto hanno fallito, forse, tranne che nel tentativo di sporcarne la memoria e il compito di chi in un’idea comunista ha creduto diversa da quella paranoica di Stalin e dei gulag, è quello di restituire ai giovani di oggi il senso di quello che è stato ed è davvero il ruolo delle idee di Marx e di Rosa Luxemburg nella storia del nostro tempo. Senza nulla nascondere delle atrocità compiute in nome loro ma senza aver paura, neppure, di recuperarne e difenderne il discorso originario.

l’Unità 24.1.12
Emergenza penitenziari, l’allarme della ministra: suicidi fallimento delle istituzioni
Sovraffollamento 50 detenuti hanno preso il controllo di un piano della casa circondariale
Severino: «In Italia il carcere è tortura» Rivolta a Bolzano
Paola Severino a Firenze per il nuovo palazzo di Giustizia e per una visita al carcere di Sollicciano. La ministra ha speso parole dure per un sistema penitenziario ormai arrivato al collasso.
di Salvatore Maria Righi


Undici morti nell’ultimo anno, quattro di loro per cause ancora da accertare. Coi suoi 1039 detenuti, 932 uomini, l’istituto di pena di Sollicciano rappresenta un po’ tutte le realtà carcerarie della Toscana nelle quali, più o meno in linea con l’andazzo generale, il 2011 si è chiuso appunto con un morto al mese, oltre che con 168 tentativi di suicidio, 849 episodi di autolesionismo e 638 scioperi della fame. Anche per questo, acquistano una certa importanza le parole del ministro della Giustizia, Paola Severino, che ieri a Firenze ha vissuto una giornata tra tagli di nastro e parole posate come pietre. Tra l’inaugurazione del nuovo palazzo di giustizia a Novoli e una visita al carcere, in un pugno di chilometri, il Guardasigilli ha scattato una polaroid che vale per tutta la realtà penitenziaria italiana. La quale, è bene ricordarlo, a fine dello scorso novembre contava 68.047 detenuti, nei suoi 206 istituti, dei quali 24.600 stranieri. Quasi altrettanti sono quelli reclusi per reati legati alla droga, ossia alla legge Fini-Giovanardi: al 31 dicembre 2010, erano 27.294, più 16.598 detenuti tossicodipendenti. Tradotto e semplificato, ogni tre reclusi c’è uno straniero e una persona in carcere per spaccio o detenzione.
Sarà anche per questo che il ministro Severino, all’uscita dalla sua visita, ha detto che il carcere oggi «è una tortura più di quanto non sia la detenzione che deve portare invece alla rieducazione. Il carcere è, sì, un luogo di espiazione ma che non deve perdere di vista i diritti dell’uomo. L’uomo in carcere è un uomo sofferente, che deve essere rispettato».
Col ministro, per varare la struttura di Novoli che riunisce uffici, competenze e dovrebbe semplificare molto le cose, con uno sperabile risparmio in termini di risorse e costi, il sindaco Renzi, il presidente della Corte d’Appello Fabio Massimo Drago, il procuratore generale della Repubblica, Beniamino Deidda, il presidente dell’ordine degli avvocati, Sergio Paparo, e il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. «Oggi si compie un cammino cominciato nel 1995, costellato di ostacoli, che ci ha portato a inaugurare una vera cittadella della giustizia, la seconda in Italia». A Sollicciano, il ministro ha incontrato i detenuti reclusi nella terza regione italiana, per numero di istituti presenti: 18, dietro a Sicilia (27) e Lombardia (19). La struttura alla periferia di Firenze soffre per gli stessi motivi per cui l’intero sistema carcerario è in seria difficoltà, come testimonia l’ennesimo episodio di nervi scoperti. A Bolzano, una rivolta condotta da una cinquantina di detenuti, finita poi senza gravi conseguenze, a parte una guardia e tre reclusi finiti in ospedale per accertamenti. «Abbiamo ricordato quelli che tra loro non ci sono più e che dunque hanno rappresentato il fallimento vero e definitivo dell’esperienza carceraria. Abbiamo parlato di quelli che ci sono e che continuano a combattere per avere una vita migliore nel carcere» ha ricordato il ministro, soffermandosi sugli scenari futuri: «Quello che si deve fare in una proiezione futura è mettere insieme una serie di forme alternative alla detenzione. Che rendano effettivo il principio per cui la detenzione deve essere veramente l’ultima spiaggia, da attivare quando le altre strade non si possono più
Il ministro ha poi raccontato della sofferenza nel vedere dei bambini chiusi in cella con le loro madri. «Un bambino non si può svegliare la mattina e vedere davanti a sè le sbarre di un carcere. Non si può pensare che al compimento dei tre anni venga strappato dall’ unico luogo che ha conosciuto e dalla madre, con la quale ha vissuto i primi tre anni della sua vita, e portato via. Credetemi, è una pena immensa. La soluzione non è facile. Ma le case famiglia, l’attivazione di sistemi alternativi al carcere credo che siano la soluzione praticabile».

Corriere della Sera 24.1.12
Carlo Magno
Esaltato da laicisti e clericali, democratici e nazisti
di Paolo Mieli


Carlo Magno (742-814) fu senza alcun dubbio il più importante sovrano del Medioevo. La sua prima biografia fu scritta da un contemporaneo, Eginardo, tra l'817 e l'831. Gli si attribuiscono ben 53 imprese militari, tutte, o quasi, coronate da successo: contro i sassoni, i longobardi (seguaci dell'eresia ariana), i bavari, gli avari, gli slavi, i danesi, gli arabi di Spagna (e i loro alleati baschi che inflissero all'esercito di Carlo la sconfitta di Roncisvalle). Il papa Leone III gli chiese aiuto contro una ribellione di nobili romani e, in virtù di quell'alleanza, nella notte di Natale dell'800 lo consacrò imperatore.
In Carlo Magno. Un padre dell'Europa (Laterza) Alessandro Barbero ha scritto che quel giorno si costituì, benedetto da un pontefice, per la prima volta nel nostro continente uno «spazio politico unitario» — contrapposto a quello bizantino — che andava da Amburgo a Benevento, da Vienna a Barcellona, il cui asse commerciale erano il Reno e i porti del mare del Nord. Un'entità politica profondamente diversa da quella dell'Impero romano, che aveva al centro il Mediterraneo. Tanto più importante per il fatto che, come ha sottolineato Henri Pirenne nella Storia d'Europa (Sansoni), l'annessione e la conversione della Sassonia fecero entrare tutta l'antica Germania nella comunità della civiltà europea. Lo stesso Pirenne in un altro libro, Maometto e Carlomagno (Laterza), scrisse che la conquista islamica di parte dell'Europa era stata responsabile dell'irrimediabile frattura tra l'Est e l'Ovest del Mediterraneo. Anni dopo gli replicò Maurice Lombard, il quale in Splendore e apogeo dell'Islam (Rizzoli) sostenne, invece, che alla conquista islamica andava attribuito il merito di aver favorito una ripresa di contatto con le civiltà orientali e che erano state piuttosto le invasioni germaniche ad aver determinato «il regresso economico dell'Occidente merovingio prima e carolingio poi».
Adesso Georges Minois, in Carlo Magno, un importante libro che sta per essere pubblicato da Salerno editrice, entra nella disputa mettendo in risalto l'importanza della nascita (in quel contesto) dell'Occidente, «la cui identità inizia a prendere forma attraverso il confronto con tre civiltà percepite come ostili: i pagani slavi a est, i cristiani di rito greco dell'Impero bizantino a sud-est, i saraceni a sud». All'epoca «la religione è ancora un elemento tra gli altri» e «il concetto di guerra santa è del tutto assente». I re germanici «sono fondamentalmente dei capi clan, alla guida di una famiglia e di un popolo, che cercano di incrementare il loro potere personale». Il ruolo di Carlo Magno «sarà proprio quello di federare queste forze familiari ed etniche attraverso la religione cristiana e di forgiare una nuova identità che si chiamerà successivamente Impero d'Occidente, cristianità o Europa». Questa la realtà. Poi c'è il mito.
Con Carlo Magno, scrive Minois, «la penuria delle fonti e la distanza nel tempo hanno permesso alla leggenda di costruire un personaggio che ha ormai un rapporto molto alla lontana con il figlio di Pipino». Per di più, «essendo vissuto nell'età oscura dell'Alto Medioevo, prima dei confronti e dei dibattiti che hanno diviso l'Europa negli ultimi mille anni, rimane una figura "recuperabile" per tutte le cause, per tutti i partiti, per tutte le opinioni… Ognuno ha il suo Carlo Magno». Può «servire» altrettanto bene «ai fautori della monarchia assoluta quanto a quelli del parlamentarismo, a quelli della supremazia francese quanto a quelli del predominio tedesco, a quelli del nazionalismo quanto a quelli dell'Unione Europea, a quelli della scuola pubblica quanto a quelli dell'insegnamento confessionale, a quelli del laicismo così come a quelli del cesaropapismo, a quelli dello Stato di diritto quanto a quelli della dittatura, a quelli della cultura illuminista come a quelli della censura religiosa, a quelli della guerra santa come a quelli della Realpolitik».
Convivono in un'unica persona «un Carlo storico, capo barbaro della famiglia dei Pipinidi che conduce oscure guerre nelle foreste germaniche di 1200 anni fa» e un «Carlo mitico, superuomo dotato di tutte le qualità e patrono di tutte le cause possibili». Quando la dimensione mitica «raggiunge simili proporzioni, ci si può legittimamente chiedere chi sia il "vero" personaggio o si può anche affermare che entrambi sono "veridici"; il personaggio mitico diviene un archetipo nel senso che gli attribuiva Jung: per il suo ruolo nella coscienza collettiva e in quella individuale diviene altrettanto reale di quello storico». Ma, nonostante ciò, le singole personalità che hanno «usato» la sua immagine nei secoli successivi alla sua morte meritano una particolare attenzione storiografica.
Il primo a servirsi politicamente dell'immagine di Carlo Magno è, nell'anno 1000, Ottone III, imperatore del Sacro Romano Impero. In viaggio da Magdeburgo, si ferma ad Aquisgrana e ordina di scavare sotto la pavimentazione della basilica per aprire la tomba del suo lontano predecessore. Racconta la cronaca di Tietmaro di Merseburgo, scritta una dozzina di anni dopo i fatti, che Ottone ci mise un po' prima di trovare il sarcofago e che, rinvenutolo, lo fece aprire e trattenne per sé «la croce d'oro che pendeva al collo del morto e una parte dei vestiti non ancora putrefatti»; poi «con infinito rispetto rimise tutto al suo posto».
Un'altra cronaca riferirà che nel loculo in cui lo ritrovò Ottone III, 186 anni dopo la morte, Carlo era ornato di tutti i paramenti come se fosse sul trono. Ciò che ingenererà l'equivoco a causa del quale in molti dipinti, ad esempio quello del 1847 realizzato per la sala reale del municipio di Aquisgrana, Carlo verrà raffigurato in un sarcofago sì, ma seduto sul trono. Scomparsa nel IX secolo la dinastia carolingia, era stato Ottone I, figlio di Enrico I «l'uccellatore», un sassone della Francia orientale, che nel 936 si era fatto consacrare re nella cappella palatina di Aquisgrana e nel 962, a Roma per mano di papa Giovanni XII, si era fatto incoronare imperatore del Sacro Romano Impero Germanico. Per l'occasione, Ottone aveva fatto fabbricare una corona di Carlo Magno «senza tener conto», osserva Minois, «del fatto che quest'ultimo non ne indossava una… ma è questa un'epoca non certo schizzinosa nell'uso dei falsi». Poi l'altro Ottone aprirà la tomba di Carlo in cerca di una qualche reliquia e dell'affermazione esplicita «di un rapporto di filiazione spirituale tra il grande Carolingio e sé stesso, sovrano della Germania». Aquisgrana rimarrà sede dell'incoronazione dell'imperatore fino a Carlo V d'Asburgo, nel 1530.
Promosso a fondatore del potere imperiale tedesco, Carlo ottiene — stavolta in polemica con il papa Alessandro III — nel 1165-66 l'onore della santità. L'imperatore Federico Barbarossa assieme al suo alleato Enrico II Plantageneto re d'Inghilterra (e con la complicità dell'antipapa Pasquale III) decide di canonizzare Carlo Magno per aver fondato vescovati, abbazie, chiese, consacrato la sua vita alla conversione di infedeli e pagani, e per aver compiuto un «pellegrinaggio a Gerusalemme» (secondo una leggenda che aveva cominciato a diffondersi in quegli anni). Immediatamente il luogo di sepoltura dell'imperatore, morto tre secoli e mezzo prima, diviene un centro di pellegrinaggio che attira folle in cerca di miracoli e i presunti resti del suo corpo alimentano un lucroso commercio di reliquie.
La canonizzazione, nota Minois, non era stata altro che «un colpo di mano del Barbarossa, sostenuto per di più dal suo antipapa in spregio del legittimo pontefice». La Chiesa avrebbe potuto tranquillamente proclamare nullo l'atto, ma davanti all'ampiezza del fervore popolare, alla diffusione spontanea del culto, delle reliquie e dei pellegrinaggi, si accontentò di adottare «una tattica usuale e proficua»: non fece nulla. Papa Alessandro III, nemico del Barbarossa, non confermò né invalidò la canonizzazione. Dopo tutto, scherza Minois, «una celebrità come Carlo Magno era una buona recluta per le schiere celesti, anche se entrato in paradiso con un'effrazione». Così, piano piano, si procede ad una beatificazione di fatto. Nel 1226 un legato pontificio consacra nella cappella di Aquisgrana un altare dedicato ai santi apostoli e al «benemerito re Carlo», riconoscendone implicitamente la beatificazione di cui si è appena detto. Verso la metà del XIII secolo, il canonista Enrico di Susa afferma che per una speciale «tolleranza della Chiesa romana» si fa un'eccezione alla norma per cui solo il papa può decretare il culto di un santo. Finché, nel XVIII secolo, Benedetto XIV trae la conclusione che, «in assenza di una condanna, ci sia stata una beatificazione "equipollente", cioè per equivalenza, di Carlo».
Per tutto il Medioevo, Carlo Magno è stato in primo luogo un eroe e santo tedesco. Ma anche la monarchia francese ha provato a rivendicare questo antenato, tentando di francesizzarlo. La monarchia capetingia cerca in tutti i modi di costruire un legame con la dinastia carolingia. E in tal senso si muove l'abbazia di Saint-Denis nel XII secolo. Nel suo Carolinus, poema morale destinato all'educazione del futuro re Luigi VIII successore nel 1223 di Filippo II, il canonico di Parigi Gilles fornisce come esempio un Carlo Magno «che si contenta di quattro portate e quattro bicchieri di vino a pasto, incarna le virtù della prudenza, della giustizia, della forza e della temperanza». Gilles, nota Minois, «non ha neppure paura a farne un modello di fedeltà coniugale, spingendosi di fatto un po' in là nell'idealizzazione di un personaggio che aveva collezionato amanti e figli illegittimi… per l'autore è un modo di criticare le avventure matrimoniali di Filippo». Lo stesso accadrà per Luigi IX, che guiderà due crociate e verrà canonizzato da Bonifacio VIII: san Luigi, scriverà il cronista Matthew Paris, è «il successore dell'invincibile Carlo Magno». Carlo V di Francia, sul trono tra il 1365 e il 1380, si fa costruire un nuovo scettro (oggi esposto al Louvre) ornato con una statuetta in oro dell'imperatore, rappresentato seduto, con corona e scettro, e decorato con scene ispirate alla leggenda carolingia. L'iscrizione parla di «san Carlo Magno».
Carlo Magno, scrive lo storico, «è reclamato da tutte le grandi cause del Medioevo». È «senza dubbio il tuttofare dell'immaginario del Medioevo occidentale». Alla fine dell' XI secolo, ai tempi delle crociate, «lo si vuole promuovere a iniziatore del pellegrinaggio gerosolimitano e a patrono della lotta contro l'Islam». Il testo di riferimento di questa tradizione è la Chanson de Roland (scritta intorno al 1110), il cui protagonista è Rolando, dietro il quale, però, si staglia la figura di Carlo Magno. Un episodio qualsiasi, Roncisvalle, è elevato a pretesto per raccontare di Carlo Magno precursore della lotta agli infedeli, modello per i crociati. Poco importa, nota Minois, che «l'idea di guerra santa fosse lontana da Carlo Magno e che, nel corso del suo lungo regno, solo una volta si fosse recato in Spagna». Negli anni successivi Carlo è anche un eroe tedesco al quale si ispira Federico Barbarossa e ne esiste una versione spagnola dove è un prototipo del Cid, un anticipatore della Reconquista. Infine, quando le cose si complicano tra crociati e bizantini e si giunge addirittura, nel corso della quarta crociata, alla presa di Costantinopoli (1204), Carlo Magno diventa il grande rivale, nonché il vincitore, dell'Impero bizantino.
Carlo, scrive Minois, «viene utilizzato per incarnare le tesi più contraddittorie, per illustrare i dibattiti politici, sociali e religiosi tipici del Medioevo». Durante il grande scontro tra impero e papato «lo vediamo così impiegato per legittimare il cesaropapismo e la teocrazia»: con Federico II «a sottolineare il fatto che aveva sottomesso al suo volere il papa», e con Innocenzo III «a rimarcare che era il papa ad averlo incoronato imperatore». Campione al tempo stesso della monarchia e delle prerogative signorili, di Roma, Aquisgrana e Saint-Denis, questo ruolo universale risalta pienamente nel ritratto di Carlo dipinto nel 1220 sulle vetrate di Chartres, dove è rappresentato con l'aureola del santo, vestito da crociato, difensore della Chiesa, peccatore perdonato e modello del cavaliere cristiano.
Sulla spinta delle necessità «si forgiano aneddoti meravigliosi che illustrano la causa che di volta in volta si vuole difendere». Aneddoti che arricchiscono la leggenda di Carlo di nuovi elementi: «Lo si fa andare a Gerusalemme come a Santiago de Compostela, e il meraviglioso si diffonde per contatto anche alla vita dei suoi più stretti collaboratori come Rolando, Oliviero, Turpino, Eginardo e Alcuino». Nel 1288 un canonico di Colonia, Alessandro di Roes, divide in tre parti l'eredità di Carlo: a Roma egli avrebbe donato il sacerdozio, alla Germania la regalità elettiva e alla Francia quella ereditaria, insieme alle «alte scuole di filosofia e di arti liberali che trasferì da Roma a Parigi». Ed eccolo diventato anche, sulla base di dati in gran parte inventati di sana pianta, «patrono degli intellettuali».
«Manca ancora un ruolo al ricchissimo repertorio di Carlo: quello di liberatore dell'Italia», puntualizza Minois non senza una qualche ironia. Sono « gli autori fiorentini della fine del XV secolo ad attribuirglielo, anche in questo caso a prezzo di una distorsione partigiana dei fatti storici; fare di un re germanico che aveva distrutto la monarchia longobarda, e che governava la penisola dal suo palazzo di Aquisgrana, il campione della libertà d'Italia era infatti impresa non semplice». Tanto più che già Petrarca nel 1333 aveva scritto parole sprezzanti nei confronti di Carlo, indignandosi che gli fosse conferito il titolo di «Magno». Ma guelfi e ghibellini, incuranti di quel che aveva detto Petrarca, se ne disputarono il lascito, vedendo in lui, i primi, l'alleato del papa e, i secondi, il fondatore dell'impero. E lo stesso accadde nel corso del Quattrocento ai tempi di Carlo VIII e Luigi XII. Cosicché «nel momento in cui si annuncia il Rinascimento, Carlo ha ormai assunto un ruolo universale e si mostra in grado di indossare tutti i panni e di patrocinare tutte le cause». Carlo Magno, nel Cinquecento, diventa il «principe degli umanisti», precursore del Rinascimento. Talvolta è addirittura fattore di divisione «dal momento che sia Francesco I sia Carlo V hanno il loro Carlo Magno».
E continua così anche nei secoli successivi. Nel XVII secolo a lui riesce l'impresa unica «di fungere da ispiratore della monarchia assoluta, della Chiesa, dei gesuiti, dei giansenisti, degli accademici, degli universitari, della nobiltà». Nell'epoca di Luigi XIV la grande aristocrazia francese «aveva bisogno di una figura di riferimento capace di incarnare le sue rivendicazioni a favore di una monarchia temperata… Carlo Magno, ancora una volta, è il simbolo di questa operazione». Fiorisce l'immagine di un Carlo fondatore dei duchi e dei pari del regno e dunque di un governo monarchico limitato dall'aristocrazia.
Allo stesso modo nel XVIII secolo, mentre monta la contestazione nei confronti dell'assolutismo, Carlo Magno «indossa nuovi panni»: quelli di fondatore degli Stati generali e, ben presto, anche della monarchia costituzionale. Montesquieu, nello Spirito delle leggi, scrive: «Carlo Magno mirò a contenere entro i suoi limiti il potere della nobiltà … Tutto fu unito grazie alla forza del suo genio». Anche se poi, nei suoi appunti personali, aggiunge che si macchiò di «ingiustizia nello spogliare i longobardi e nel dare una mano alle prepotenze dei papi … I papi favorirono la casa carolingia nella sua usurpazione e i Carolingi favorirono i papi nella loro».
Alla vigilia della Rivoluzione francese, Carlo è un modello per riformatori e fisiocratici ma anche per i loro nemici. Fa eccezione Voltaire che riprende il tema dell'«usurpatore» per poi così concludere: «Sappiamo dei suoi bastardi, della sua bigamia, dei suoi divorzi e delle sue concubine; sappiamo che fece assassinare migliaia di sassoni; e alla fine se ne fa un santo… La sua reputazione è una delle maggiori prove del fatto che il successo fa dimenticare l'ingiustizia e dona la gloria». Altra eccezione all'ampia schiera dei laudatores di Carlo Magno è quella di Edward Gibbon il quale nella Storia del declino e della caduta dell'Impero romano (1776) scrive che «i suoi meriti sono stati sicuramente ingranditi» e si trascura la circostanza che ebbe occasione di combattere solo contro «nazioni selvagge e degenerate»; il suo comportamento nei confronti dei sassoni è definito da Gibbon «un abuso del diritto di conquista» e le sue leggi — a detta del grande storico — non furono «meno sanguinose delle sue armi». Anche Gibbon gli rimprovera di essere stato un depravato non solo per aver avuto ben nove tra mogli e concubine, con le quali mise al mondo una «moltitudine di bastardi», ma gli rinfaccia anche, accusandolo velatamente di incesto, le attitudini con le figlie che «amava di una passione eccessiva».
Il culto di Carlo riprenderà in pieno al momento del trionfo di Napoleone. Poi con i grandi scrittori dell'Ottocento, primo tra tutti Victor Hugo. Con l'eccezione dello storico Jules Michelet, che lo considera un tiranno, alla testa di un «governo di preti e giudici, freddamente crudele, senza generosità, senza l'intelligenza del genio barbaro». Solo nella seconda metà del secolo i repubblicani francesi si mostreranno tiepidi nei suoi riguardi e nel 1879 obietteranno al comune di Parigi, che aveva manifestato l'intenzione di erigergli — proprio «a lui che rappresenta principalmente il potere assoluto» — una statua (ciò che non era stato fatto per Voltaire, «il quale ha contribuito così tanto a illustrare il cammino della civiltà»). Anche se gli stessi repubblicani proporranno di rendergli omaggio come «promotore dell'istruzione pubblica».
Ma sarà nel Novecento che accadrà la cosa più bizzarra. Dapprincipio Carlo sarà l'idolo del movimento paneuropeo, una corrente di estrema destra che mirava al riavvicinamento tra Francia e Germania, sottolineando i tratti comuni ai due Paesi e insistendo sulla loro «parentela originaria». Poi servì ai nazisti a giustificare l'idea di una «trasmissione dell'Impero romano ai tedeschi». Inoltre Carlo Magno «visto come l'ariano tipo, grande e biondo, che lotta contro i sub-uomini slavi, prefigura la conquista dello spazio vitale a est». Nel 1940, con l'occupazione della Francia, Carlo «diviene il campione del collaborazionismo, celebrato dal regime di Vichy e dalle autorità militari tedesche». Nel 1944 Heinrich Himmler crea una divisione SS a cui dà il nome Charlemagne: «Ancora una volta», scrive Minois, «l'imperatore è impiegato come simbolo della fratellanza franco-tedesca finalizzata alla costruzione di un nuovo ordine europeo razzista e anticomunista». Il che però produce anche qualche irritazione: i collaborazionisti bretoni non gradiscono di essere incorporati in una divisione che porta il nome di un nemico del loro popolo. Il loro capo dichiara: «Noi apparteniamo a quella minoranza che ha preso le armi contro la Francia e vogliamo che ciò sia ricordato».
A questo punto poteva sembrare che l'immagine di Carlo Magno fosse stata compromessa, se non definitivamente, almeno per qualche decennio. E invece no. Minois definisce «stupefacente» che subito dopo la Seconda guerra mondiale quell'icona «non solo sia sopravvissuta al naufragio del Reich e del collaborazionismo, ma che sia stata prontamente recuperata dal campo delle democrazie e dai costruttori dell'Europa dei popoli». A soli cinque anni dalla fine del conflitto, nel 1950, il generale de Gaulle afferma: «Di fatto non vedo la ragione per cui il popolo francese e quello tedesco non possano superare i dissidi reciproci e le difficoltà esterne per giungere infine a unirsi; si tratterebbe insomma di riprendere su basi moderne — cioè economiche, sociali, strategiche e culturali — l'impresa di Carlo Magno».
Nello stesso anno la città di Aquisgrana istituisce il premio Carlo Magno, attribuito ogni 12 mesi a una «personalità attivamente impegnata nell'unificazione europea». Verrà assegnato a tutti i grandi dell'Europa. Nel 2008, quando lo riceverà Angela Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy dirà che, anche se «sarebbe eccessivo fare di Carlo Magno il primo fondatore dell'Europa», va riconosciuto che dal suo impero sono nate Francia e Germania e ne viene prefigurata l'alleanza. Così l'imperatore è riuscito, per 1200 anni, a sopravvivere a tutte le crisi e ad essere «successivamente, e a volte simultaneamente un santo, un crociato, un padre della Germania, della Francia, dell'Europa e della scuola, un nazista, un democratico, un sovrano assoluto, illuminato o costituzionale». Talché, l'autore si domanda non senza una punta d'ironia se, in omaggio ai tempi, «vedremo un Carlo Magno ecologista, precursore dell'agricoltura biologica, anticipatore del commercio equo e solidale in virtù delle sue prescrizioni contro il prestito a interesse, o ancora eroe cibernetico impegnato in un videogioco in una guerra virtuale contro i suoi nemici sassoni». Tutto è possibile, «soprattutto il peggio». E questi sono gli effetti perversi dell'uso politico della storia.

Corriere della Sera 24.1.12
CasaPound cambia per un giorno: sarà intitolata a Carmelo Bene
di Luca Mastrantonio


Oggi inizia a Roma il processo a carico di CasaPound intentato dalla figlia del poeta americano Ezra Pound, Mary de Rachewiltz, contraria all'uso del nome del padre da parte del centro sociale di destra. A dispetto di ciò, per un giorno, CasaPound non si chiamerà CasaPound, bensì CasaBene, nel segno di Carmelo Bene. Pronti locandine e cambiamento di nome sul simbolo — la tartaruga su sfondo nero che si porta dietro, nel guscio, il diritto alla casa — e nuovi tributi all'attore pugliese che oggi verranno resi noti. Non è da escludere poi che, in caso di sconfitta al processo, il centro sociale si trovi a dover adottare definitivamente un altro nome.
La decisione della Rachewiltz è stata presa dopo il clamore suscitato dal recente pluriomicidio di Firenze, a sfondo razzista, ad opera di un folle legato a CasaPound. Alcuni scrittori e intellettuali italiani hanno sostenuto l'iniziativa legale con una raccolta di firme (appoggiati sul «Corriere della Sera», il 12 gennaio, da Sebastiano Vassalli, convinto che «la difesa del passato» possa «incominciare dai nomi»). Anche se Ezra Pound — come ha invece sottolineato Pierluigi Battista su «la Lettura» del 15 gennaio — è stato, oltre che un grandissimo poeta, un fervido sostenitore del fascismo.
A scanso di ulteriori equivoci (onomastici), il presidente dell'Associazione di promozione sociale CasaPound Italia, Gianluca Iannone, ha scritto alla sorella di Carmelo Bene, Maria Luisa, per chiederle l'adesione all'iniziativa CasaBene: «In un'epoca mediocre in cui gli spazi di libertà si vanno restringendo ogni giorno di più — scrive Iannone — la "Casa" romana dedicata al grande poeta americano decide quindi di omaggiare il grande attore italiano e il suo anticonformismo, intestandogli l'edificio per un giorno e facendo sì che "CasaPound" diventi per 24 ore "CasaBene", contro chi tradisce la memoria dei grandi e cerca di ridurre all'isolamento gli anticonformisti. In nome di un genio tradito e dimenticato che aveva sconvolto tutti i canoni della cultura tradizionale, scandalizzato tutti i custodi dell'ortodossia e indispettito i guardiani del bene. Quello con la minuscola».
Maria Luisa Bene ha aderito con un telegramma e al «Corriere» spiega le ragioni: «Carmelo viveva sempre la sua vita come una ricerca e una provocazione. Ma a differenza di Pasolini, non mescolava arte e politica, e non ha mai ceduto alla politica. Da vivo e da morto, politicamente, Carmelo è stato tirato per la giacca da ogni lato. Così ho aderito a questa iniziativa. Con lo spirito provocatorio con cui lui ha vissuto». Come quando al Maurizio Costanzo Show sparava contro lo Stato, «che garantisce solo mediocrità», e la democrazia, un «condominio» governato con «demagogia».
Se in passato CasaPound aveva goduto del «soccorso rosso» di alcuni esponenti di sinistra — come Piero Sansonetti e Ritanna Armeni — questa volta il centro sociale è solo, difeso da pochi (anche per certe uscite borderline di Iannone). Tra questi, Pietrangelo Buttafuoco, scrittore irregolare di destra, il cui romanzo «meticcio» Il lupo e la luna ( Bompiani) è sempre in vetrina nella libreria Testa di ferro del centro sociale. I suoi consueti collegamenti da CasaPound per InOnda di La7, però, da un po' non rientrano più nel format della trasmissione.

Corriere della Sera 24.1.12
Messe e teatro blindato per il Gesù di Castellucci
di Paola D'Amico


MILANO — Tutto esaurito per la Prima milanese del lavoro di Romeo Castellucci, Sul concetto di volto nel Figlio di Dio. Il sipario si apre in un clima di tensione. Il teatro Franco Parenti di Andrée Ruth Shammah, già oggetto di minacce nei giorni scorsi, stasera sarà blindato: Digos e servizi d'ordine.
Confermata anche la protesta dei movimenti cattolici. Qualcuno si sfila all'ultimo momento come il Comitato San Carlo Borromeo, informato della presenza di militanti di Forza Nuova. E chiede alla questura l'autorizzazione a una seconda manifestazione (sabato 28, alle 18.45). Altri gruppi, parrocchie intere, si mobilitano per un rosario collettivo. Alle 19 a due isolati dal teatro, in piazzale Libia accanto ai manifestanti di Militia Christi con striscioni e megafoni, il Circolo Cattolico Christus Rex organizzerà una «messa riparatrice» celebrata don Floriano Abrahamowicz in contemporanea con un'altra analoga che avrà luogo a Roma.
Alla chiamata dei blog cattolici (Riscossa Cristiana, Italia Cristiana e Messa in latino per dirne alcuni, ma i gruppi impegnatisi nella crociata hanno i nomi più disparati: da Vita Umana internazionale a Fondazione Lepanto, al Comitato No194, il tutto mentre il sito di Agerecontra rilancia un'asserita «dimensione gnostica e satanica dell'opera di Castellucci») il mondo del teatro reagisce sottoscrivendo un appello promosso dal Parenti in difesa della libertà di espressione di ciascun artista e di ciascuna compagnia. Ed ecco scendere in campo gli attori Ermanna Montanari e Fabrizio Gifuni, i registi Giuseppe Bertolucci e Gabriele Lavia, Elio De Capitani e Daniele Abbado, il filosofo Carlo Sini, il critico teatrale Oliviero Pontedipino, lo scrittore Luca Doninelli.
Per nulla preoccupato il regista. «Se qualcuno vorrà interrompere lo spettacolo — dice Castellucci — sarà libero di farlo. Chiuderemo il sipario e poi lo riapriremo, ricominciando da dove ci saremo fermati». Uno spettacolo nello spettacolo, insomma, dentro ma anche fuori dal teatro.
Fabrizio Lastei, portavoce di Militia Christi che per prima ha organizzato la protesta contro il teatro «eretico» del regista emiliano, precisa: «Abbiamo raggiunto un accordo con la Digos. Il ritrovo è in piazzale Libia. Arriveremo da tutta Italia in bus e in treno. Resteremo fino alle 22.30. Ma una delegazione potrà arrivare fino all'ingresso del teatro. La nostra parola d'ordine è fermezza e unità. Sono vietate le bandiere di partito o ideologiche». Intanto ieri in Università Cattolica sono comparsi manifesti, firmati da tre movimenti studenteschi di destra, con un esposto contro un docente a contratto di Organizzazione del teatro e dello spettacolo alla facoltà di Lettere, Andrea Bisicchia, che è anche membro del CdA della Fondazione Teatro Parenti.
Per la Prima sono attesi tra gli altri il filosofo Giulio Giorello, l'assessore alla Cultura Boeri, il regista De Capitani e Vito Mancuso.

Repubblica 24.1.12
Interpellanza Pdl, Lega e Udc contro la pièce di Castellucci. Stasera in scena a Milano
La crociata dei deputati cattolici "Quello spettacolo va bloccato"
Presidio integralista al Teatro Parenti che sarà blindato dalla polizia
di Carlo Brambilla


Teatro Franco Parenti blindato e forze dell´ordine in tenuta antisommossa, questa sera, per la contestata prima milanese dell´opera Sul concetto di volto nel figlio di Dio, del regista Romeo Castellucci. Agli oltranzisti cattolici provenienti un po´ da tutta Italia, che protestano contro la messa in scena di uno spettacolo considerato blasfemo, la questura non ha concesso via Pier Lombardo, dove ha sede il teatro, ma la vicina piazzale Libia, che dista un centinaio di metri. Solo a una piccola delegazione sarà forse concesso di esporre uno striscione davanti all´ingresso (lo spettacolo comincia alle 21.15) sotto la stretta sorveglianza degli agenti.
Dopo la reazione del Vaticano, che ha parlato di «spettacolo che offende i cristiani», una quarantina di deputati cattolici aderenti alla Lega Nord, al Pdl e all´Udc (primi firmatari i leghisti Massimo Polledri e Carolina Lussana, Luisa Santolini dell´Udc e Alessandro Pagano del Pdl) hanno inviato un´interpellanza al ministero della Giustizia, al ministero per i Beni e le attività culturali e al ministero del Lavoro, chiedendo la sospensione dello spettacolo». Mentre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha fatto ieri un breve accenno implicito alla vicenda. Parlando di «vilipendio della religione» ha detto: «Le intenzioni personali le giudica Dio, ma la sensibilità e il rispetto hanno dei confini oggettivi che non ammettono prevaricazioni».
Nel clima pesante e intollerante che si respira in queste ore contro questa pièce teatrale, si registrano però anche centinaia di mail e messaggi di solidarietà al teatro e alla sua direttrice, Andreè Ruth Shammah, fatta oggetto di odiose minacce antisemite per le sue origini ebraiche. Mentre si moltiplicano appelli a sostegno del regista firmati da protagonisti del mondo culturale italiano, da Mario Martone a Jovannotti e Tonino Guerra. Per dare voce al pubblico e aprire un dibattito culturale sull´ opera di Castellucci e sulla tolleranza a Milano, subito dopo lo spettacolo seguirà, fuori programma, un dibattito all´inteno del teatro, condotto dalla Shammah. In sala, tra il pubblico, saranno presenti numerosi intellettuali e uomini di spettacolo, tra cui Giuseppe Bertolucci, Gabriele Lavia, Giulio Giorello, Vito Mancuso, Antonio Scurati, Sergio Escobar, oltre all´assessore alla Cultura del Comune di Milano, Stefano Boeri. Totalmente assente, in questa edizione milanese, la contestatissima scena, nella quale dei ragazzini lanciano palle di liquido (e non escrementi come lamentano i contestatori) contro l´immagine di Cristo dipinto da Antonello da Messina che campeggia in scena. Ma la cosa non ha fermato l´ondata di Messe "in riparazione" e pubblici rosari annunciati per i prossimi giorni su Facebook e su decine di siti dedicati, dai gruppi cattolici più oltranzisti.

Repubblica 24.1.12
In 32 fogli il dramma del lager
È l´opera di un internato di Auschwitz che nascose il suo fumetto in una bottiglia perché arrivasse a noi
di Andrea Tarquini


Sono rimasti nascosti in una bottiglia per oltre sessanta anni. Adesso 32 disegni realizzati da un internato anonimo tornano alla luce, documentando la tragica realtà della fabbrica della morte del campo di concentramento Sono pagine straordinarie, tramandate come un reportage perché il mondo non dimentichi
L´autore misterioso si firmava "MM": si preoccupò di conservare i suoi bozzetti tra le fondamenta di una baracca
Sono le immagini dell´orrore che raccontano la separazione tra gli adulti e i bimbi, la prima selezione all´arrivo dei treni
Il documento ora è nel museo del campo di concentramento e sul web, a disposizione di tutti

Restarono per oltre sessant´anni nascosti in una bottiglia, come l´ultimo appello d´aiuto d´un naufrago, quei disegni che oggi tornano alla luce e ci documentano l´Olocausto in modo drammatico e straordinario. Trentadue schizzi, Auschwitz tramandato come in un reportage, quasi col genio giornalistico che ebbe al fronte in Spagna, e poi con gli Alleati, Robert Capa, l´ebreo ungherese, esule, inventore del fotogiornalismo, ma tutto tramandato solo con una matita, senza fotocamere Leica o Zeiss con cui scattare istantanee. Trentadue disegni, eccoli qui davanti ai nostri occhi di pronipoti smemorati dell´orrore. Sono stati trovati dai curatori del Museo di Auschwitz, l´istituzione internazionale che cura la memoria là a Auschwitz-Birkenau.
Era la fabbrica della morte costruita dalla Germania per ordine di Hitler nella Polonia che il Reich occupò e sognò di cancellare dal mondo. Un documento eccezionale, narra della Shoah fin nei minimi dettagli. Ci tacciono un solo particolare: chi fu mai il coraggioso che al rischio di essere eliminato nei modi più dolorosi e orrendi prese carta e matita per schizzare quelle immagini e lasciarle a noi posteri, sui semplici fogli d´un quaderno da disegno tenuti insieme da una spirale da cui uno a uno i disegni venivano strappati.
The sketchbook from Auschwitz, il libro degli schizzi di Auschwitz, si chiama questo documento eccezionale che ora il museo ha editato. Lo puoi comprare online oppure ordinandolo per telefono o per posta, basta rivolgerti al Memorial Museum Auschwitz-Birkenau (www. en. auschwitz. org). Riaprire gli occhi costa anche poco: 32 zloty, cioè circa 8 euro, è il prezzo del pamphlet curato da Agnieszka Sieradzka. Vale la pena, e ieri Spiegel online (www. spiegel. de) ha diffuso dieci delle trentadue immagini. Scorriamo i disegni dell´ignoto reporter-artista di Auschwitz, e il loro racconto. Affermare che facciano rabbrividire è poco. Nella prima vedi una folla enorme scendere dal treno merci piombato alla "Judenrampe", la rampa di scarico degli ebrei, quella dove finiva il binario davanti all´ingresso di Auschwitz 2-Birkenau. Quasi senti la locomotiva nazista "tipo 52" sbuffare dopo l´arrivo. Vedevano già la sinistra scritta "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Soldati delle SS, il fucile Mauser 9 o il mitra MP 38 in pugno, li spingono nella fabbrica della morte.
Sono ancora ben vestiti, dignitosi da crema della borghesia europea, gli ebrei portati là a morire nei modi più orrendi. Vedi donne in cappotti o vestiti decorosi. Un signore anziano sfoggia baffi ben curati, cappello e giacca da sartorie di qualità. Ancor più elegante è un uomo sulla quarantina, abito impeccabile, fazzolettino elegante sulla tasca della giacca, cappello da passeggio e trenchcoat al braccio. Suo figlio, un bel bimbo sui quattro o sei anni vestito alla marinara, lo tiene per mano. In un disegno successivo, il numero due ben numerato come tutti prima di venir nascosto nella bottiglia della memoria dal disegnatore-cronista sconosciuto, l´idillio apparente finisce. Arrivano le SS, strappano a forza il bimbo dalle braccia del padre. Invano il bimbo urla e piange, il disegno lo rende a perfezione. Le SS lo portano via, insieme a quel signore anziano dai baffi ben curati. È la prima selezione: vecchi, malati e bambini, inutili, perché incapaci di lavorare come forzati in condizioni disumane per la macchina bellica del Reich, vengono portati subito alle "docce", i locali sigillati dai cui sfoghi sul tetto non si diffondeva acqua, bensì il Zyklone-B, il gas letale prodotto dalla modernissima azienda modello IG Farben gloria della Germania. Nel disegno, il camion per portarli via verso l´ultimo destino è già pronto, l´autocarro d´ordinanza Opel Blitz della Wehrmacht (copia nazista del Dodge americano), sembra avere anche il motore già acceso.
Il racconto dell´orrore prosegue, una pagina schizzata dopo l´altra. Ma chi fu mai il deportato che ricordò il talento ed ebbe il coraggio di narrare tutto con i suoi disegni? Non lo sappiamo, forse non lo sapremo mai, dice Jarek Mensfelt, portavoce del Museo di Auschwitz. Il disegnatore misterioso lasciò solo una fragile traccia, un abbozzo di firma: "MM", scritto su ognuno dei disegni. Le iniziali, forse, ma vai a cercare tra i sei milioni e passa di vittime della Shoah. Il deportato "MM" non dedicò mai disegni a se stesso. Si preoccupò soltanto di nasconderli tutti insieme ben ordinati in una bottiglia, e di sotterrarla tra le fondamenta di una baracca del Lager. Forse nella sua genialità vitale e disperata ebbe un attimo di tempo per scegliere con cura il luogo del nascondiglio: la bottiglia era sotterrata proprio presso una baracca che sorgeva tra le camere a gas e i forni crematori numero 4 e numero 5. Fu scoperta per caso, nel 1947, da un altro ex deportato, Jozef Odi, che dopo la liberazione la consegnò ai custodi del museo. Odi continuò a lavorare per loro fino alla morte, adesso - tra i milioni di oggetti trovati nel territorio dell´orrore, là ad Auschwitz, o tra tutto quanto i nazisti sequestravano a chi scendeva dai treni - la bottiglia della memoria è stata riscoperta.
Il racconto continua, un disegno dopo l´altro. Vedi le SS caricare i più deboli, già magri oltre lo scheletrico, sui camion speciali dello "Haeftlingskrankenbau", il servizio medico per i deportati: chi non serviva più per produrre veniva finito con un´iniezione letale al cuore. Scorriamo ancora l´almanacco di Auschwitz: ecco chi ha tentato la fuga, e viene impiccato alla meglio con una corda appesa al tetto d´una baracca: efficienza, produttività, taglio ai costi erano il credo della fabbrica della morte. Oppure ecco immortalati i sadici e ben nutriti Kapò che con lo stivale spaccano l´osso del collo ai detenuti. O ancora il crematorio e le camere a gas, con fuori ufficiali SS che si godono la pausa d´una sigaretta mentre i loro sottoposti gettano salme sul pianale di carico di un camion, come fossero sacchi di patate. Fino a dettagli orridi del quotidiano: il timbro a fuoco del numero e del triangolo o di altri simboli sull´avambraccio.
Il documento è adesso online in tutto il mondo, perché ricordi. Mentre in una triste coincidenza uno studio ufficiale reso pubblico ieri dal vicepresidente del Bundestag (il Parlamento tedesco) informa che anche in Germania, tanti decenni dopo, l´antisemitismo «è enormemente diffuso in vasti strati della società, attraverso i ceti e nel cuore della società», non solo nelle violente, marginali frange neonaziste. L´albo dei disegni di Auschwitz chiama a ricordare vigili, come un altro reperto del museo dell´ex Lager, quelle poche righe scritte e sotterrate vicino alla baracca della bottiglia dal deportato ebreo polacco Salmen Gradowski: «Caro scopritore futuro di queste righe, ti prego, cerca dappertutto, in ogni centimetro di terreno qui dove noi fummo. Qui troverai tanti documenti, ti diranno quanto è accaduto qui, tramanda tracce di noi milioni di morti al mondo che verrà dopo».

Repubblica 24.1.12
Quello spazio di libertà nell’orrore quotidiano
di Miguel Gotor


L´autore è ignoto, sappiamo solo che si firmava «MM». La mano è ferma e il tratto sicuro, attento a cogliere ogni dettaglio e a registrarlo sulla carta ruvida di un taccuino. Lo immaginiamo intento a disegnare nella penombra, nelle ore di riposo tra un turno e l´altro, con il capo chino e la schiena curva, il blocchetto di fogli poggiato sulle ginocchia irrigidite, il mozzicone di matita stretto tra le mani nere e incallite dalla fatica. I suoi schizzi furono ritrovati nel 1947 dentro una bottiglia, occultati nelle fondamenta di una baracca del campo di sterminio polacco di Birkenau, non lontano dai forni crematori IV e V. Il fatto che l´ultimo disegno sia incompleto lascia pensare che quello poteva essere un nascondiglio quotidiano, un anfratto tra i tavolacci di legno, per sfuggire alla sorveglianza dei Kapò.
E  riprendere di volta in volta il lavoro, a ogni occasione possibile. Fino all´ultima volta, subito prima di un improvviso trasferimento o, assai più probabilmente, della morte.
Si tratta di un documento eccezionale in cui ogni segno rivela l´ardimento del disegnatore, in grado di infrangere, a rischio della propria vita, il divieto dei suoi custodi. Si scrive per ricordare, si scrive per resistere, si scrive per lasciare una traccia. E si disegna per le stesse ragioni, per sfidare la morte che ti bracca e riempire il tempo che separa da lei, per conservare uno spazio di intangibile libertà anche dentro il terrore, per aggirare il progetto totalitario dei nazisti, quello che angosciò e motivò Primo Levi al racconto: «tanto non vi crederanno». Per vincere l´oblio, la condanna peggiore, quella che rende la tua creaturale sofferenza senza comunicazione e senza testimonianza.
Non è la prima volta che dei disegni sopravvivono all´universo concentrazionario nazista e ce ne raccontano il raccapriccio. Sono celebri, ad esempio, quelli dei bambini rinchiusi nel campo di concentramento cecoslovacco di Terezin, i quali, sotto la direzione di un adulto, ingannavano il tempo che li separava dai forni crematori raffigurando scene della loro infanzia perduta o immagini della prigionia.
La peculiarità dei disegni di Birkenau è che sono certamente l´opera clandestina di un adulto. Sembrano fotografie in bianco e nero con un chiarissimo intento documentario: non c´è il lusso dell´astrazione, ma la necessità di un realismo estremo e angoscioso che raffiguri e informi. L´autore usa una matita e soltanto in alcuni casi aggiunge dei tocchi di colore: per evidenziare di rosso i tetti delle baracche e i mattoni delle costruzioni, per distinguere le fiamme dei forni crematori, per far risaltare la divisa scura di una SS o quella a righe blu di un Kapò.
In alcuni casi un unico foglio è diviso in due riquadri dallo stesso autore per distinguere scene diverse come se fosse un cartone animato dell´orrore. Evidentemente, la carta a disposizione non era molta, ma la voglia di raccontare tanta: l´esperienza della «rampa degli ebrei», ossia il capolinea dove i deportati arrivano in massa per essere subito divisi in sommersi e salvati, i vecchi e i bambini da una parte, gli uomini e le donne abili al lavoro dall´altra; la «casa della morte», ove si raffigurano i cadaveri trasferiti al forno crematorio, mentre una SS, in primo piano, inganna il tempo fumando una sigaretta; la condanna reiterata del comportamento dei Kapò e la brutale dimostrazione del loro dominio. Uno di questi è colto nell´atto di gettare in una pozzanghera un prigioniero e, in un altro riquadro, si vede ricompensato con del cibo speciale, mentre sullo sfondo i detenuti sono in fila per ritirare la zuppa di sempre. E ancora: il momento della selezione che separava i sani dai malati, una scena di tortura in cui un ebreo è legato attorno un palo e frustato sotto lo sguardo vigile delle SS; il vagone piombato, i prigionieri scheletrici avviati ai forni.
Non è solo la coincidenza topografica, ossia la contiguità del campo di Birkenau a quello di Auschwitz che fa pensare a Se questo è un uomo di Primo Levi. Le immagini sembrano le ideali quanto pertinenti illustrazioni di quel libro, e in una prossima edizione andrebbero pubblicate insieme perché riproducono una serie di scene e di momenti della vita quotidiana nei campi di sterminio che abbiamo già potuto leggere nelle pagine dello scrittore torinese.
Questi disegni sono riusciti a oltrepassare il filo spinato da cui hanno avuto origine per giungere misteriosamente sino a noi e sono la testimonianza di una vittoria della vita sulla morte, dell´ingegno umano sull´abisso delle coscienze, pezzi di carta, fragili e ingialliti dal tempo, che hanno saputo sopravvivere alle fiamme dell´inferno dei viventi.

Repubblica 24.1.12
Viaggio nella psiche di uno stragista
"Azioni eroiche" e "violenza purificatrice": il libro di Garlini racconta l´antropologia della destra eversiva
di Benedetta Tobagi


Mentre le cronache portano in primo piano episodi di inquietanti reviviscenze di una destra xenofoba e violenta, in Italia e in Europa, La legge dell´odio (Einaudi Stile libero, pagg. 816, euro 22; Gallimard ne ha già acquistato i diritti per la Francia) ci riporta all´orizzonte angoscioso della strategia della tensione, precipitandoci nella testa di un giovane terrorista neofascista, per raccontare il groviglio di ideologia, frustrazioni sociali, vicende personali e passioni prepolitiche che dà origine a una "vita violenta". Il romanzo interseca due piani narrativi. Tribunale di Milano, 1985: al banco degli imputati siede Franco, un leader di Lotta Nazionale (che nella fiction adombra Avanguardia Nazionale). Arrogante, provocatorio, reticente – come tanti personaggi reali visti sui banchi dei processi-monstre per le stragi – nella sua testa ripercorre l´infernale romanzo di formazione del giovane camerata friulano Stefano Guerra, dagli scontri di Valle Giulia nel ´68 al 1971, quando il folle volo del "lupo azzurro" si arresta alle estreme propaggini della Terra del Fuoco, che occupa gran parte della narrazione. Nonostante la mole, la lettura corre veloce. L´intreccio serrato e la storia d´amore tra il terrorista Stefano e la giovane archeologa Antonella, miraggio di un´altra vita possibile, fatta di bellezza, libertà, cultura, che ama appassionatamente, senza saperlo, il carnefice del proprio fratello, tengono alto il ritmo del racconto, nonostante alcune cadute: decisamente troppo lungo, ad esempio, l´excursus in Afghanistan, appesantito dall´artificio kitsch di un incontro con Bruce Chatwin che incrina le certezze di Stefano.
Alberto Garlini affronta in forma di romanzo l´antropologia della destra eversiva, un mondo che ha segnato profondamente la nostra storia, ma resta opaco, rispetto alla galassia del terrorismo di sinistra: pochi e molto contestati i pentiti "neri", rari anche memoir e interviste: sul terrorismo di destra perdura la coltre di omertà. Fuori dai recinti del noir o del giallo, il tema latita anche in letteratura: ricordiamo Avene selvatiche, l´autobiografia romanzata del sanbabilino Danieletti, in arte Preisner, o il "Nero" di Romanzo Criminale, ma era dal (bellissimo) Occidente di Ferdinando Camon, che già nel 1975 osò calarsi nella mente di uno stragista, che un romanzo non affrontava con questa intensità il mondo del terrorismo nero. Alberto Garlini contribuisce a colmare un vuoto di conoscenza e comprensione. La legge dell´odio racconta con linguaggio vivido i bagliori di esaltazione e la quotidianità asfittica di "soldati" giovanissimi e sbandati, tra alcol, sesso e bravate, ragazzi che vogliono abbattere il sistema e vedono nell´"azione eroica" e nella "violenza purificatrice" l´unica possibilità di trovare un senso. Sentiamo pulsare la rabbia, l´ebbrezza quasi erotica della distruzione, la fascinazione per le armi e la morte (Stefano e i suoi fedelissimi stingono il "patto di sangue" durante un picnic nella spettrale desolazione del Vajont). Per le loro stanze squallide passano gli intrecci con la criminalità comune e con apparati di sicurezza che "lasciano fare" (i Carabinieri che tante volte chiudono un occhio davanti ai traffici d´armi di Stefano), i finanziamenti di dubbia origine (chi paga davvero l´appartamento regalato a Stefano?), le ambiguità dei leader missini, la sovrapposizione di progetti eversivi diversi che rende così difficile da decifrare la trama esatta di un´azione stragista (nel romanzo è "piazza del Monumento", un calco di piazza Fontana), azione che non è chiara nemmeno alla stessa "manovalanza" coinvolta.
Verità e menzogne si confondono in un sottobosco in cui si mescolano complotti golpisti, ambizioni personali, vizi e debolezze, governato dalla legge onnipresente della vendetta e del ricatto, a tutti i livelli, che finisce per minare anche i rapporti d´amicizia, in un crescendo di desolazione umana. Confusa la percezione delle strumentalizzazioni da parte dell´intelligence: alcuni sono convinti di governare il gioco, altri, come Stefano, tentano l´estrema ribellione. Il romanzo fotografa bene anche i forti conflitti generazionali tra uomini d´ordine e giovani rivoluzionari, tra vecchi reduci di Salò e i giovani "lupi azzurri", adepti del guru dell´esoterismo nazifascista Evola che vogliono mostrarsi migliori dei vecchi nostalgici, nel culto di un ideale perverso di virilità. «Forse l´intera stagione di volontà rivoluzionaria, di violenza, nasce da una mancanza di scappellotti dei padri sui figli» pensa Stefano in un passaggio-chiave: la mancanza, o la patetica inadeguatezza, dei "padri" – a destra come a sinistra – percorre tutto il libro, fino alla scoperta del trauma originario di Stefano, colpo di scena rivelato nel finale.
Il nesso tra finzione e vicende storiche è forse l´aspetto più problematico del romanzo, al contempo rende più intrigante la lettura: chi s´interessa a quel periodo storico potrà giocare a tracciare una tabella di corrispondenze. Garlini, nella premessa, prende le distanze, ma resta sospeso a metà strada: nomi reali, da Pasolini a Feltrinelli, si mescolano a caratteri fittizi, e molto preciso è il calco di tanti personaggi ed eventi reali; in un quadro complessivo fedele ai dati storici e giudiziari disponibili, l´autore a tratti non resiste alla tentazione di interpretazioni, talora discutibili (come la presenza di una pluralità di ordigni nella strage di piazza del Monumento/Fontana). Ma è il dato umano, osceno e talvolta struggente, il cuore del romanzo, la sua forza. Garlini ci immerge negli aspetti più sconcertanti della psiche del protagonista. Stefano, pur combattuto, è incapace di arrestare la sua caduta in una spirale di violenza, per un´atroce perversione del senso d´onore e d´integrità. Ancora più disturbante, il giovane pluriomicida e complice in strage si sente un combattente, un puro, quasi un innocente. Solo nel grembo di infinita compassione della poetessa cilena Cesarea, amica, amante e madre (non a caso una vittima del golpe cileno), ricompone la scissione, assume le proprie responsabilità e consegna la sua autobiografia-confessione a un notaio: un accenno di lieto fine che nella realtà, purtroppo, non è mai dato.

Repubblica 24.1.12
"La grammatica è maschilista" Le donne francesi vogliono cambiarla
"La cosa grave è che arrivi nelle scuole l´idea di un genere superiore all´altro"
di Anais Ginori


Quattromila persone hanno sottoscritto una petizione ripresa da "Le Monde" chiedendo nuove regole Nei plurali il femminile risulta penalizzato, l´Académie Française però si oppone a ogni riforma

«Que les hommes et les femmes soient belles!», che gli uomini e donne siano belle. Nessuno può pronunciare questa frase senza venire immediatamente bacchettato dai puristi della lingua. Eppure è questo il titolo di un appello per riformare la grammatica che sta circolando in Rete, ripreso anche da Le Monde. Da secoli infatti la concordanza dell´aggettivo prevede che il genere maschile prevalga su quello femminile. Si dice "gli uomini e le donne sono belli", non il contrario. Sembra una di quelle tipiche sfumature che appassionano studiosi e accademici. Invece, secondo i gruppi che hanno promosso la petizione già firmata da oltre 4mila persone, questa regola nasconderebbe un immaginario maschilista duro a morire e avrebbe addirittura conseguenze nella vita di tutti i giorni. «Se neanche nella lingua esiste la parità di genere - spiega Clara Domingues, docente di letteratura e presidente di un´associazione femminista - come sperare che la condizione delle donne faccia progressi in famiglia o negli uffici?».
La forza delle parole. Nonostante pari diritti e dignità per entrambi i sessi siano iscritti nella Costituzione, argomentano le promotrici dell´appello, esiste ancora una grammatica "sessista". «La cosa più grave - si legge nella petizione - è il fatto che questa idea di un genere superiore all´altro venga trasmessa anche a scuola nell´insegnamento del francese ai bambini». Le associazioni militano per un cambio dei manuali nel quale sia prevista la possibilità di accordare aggettivi e participi secondo il genere del nome più vicino. Ad esempio: «Un cappello e una giacca nere». Oppure: «Laura, Giacomo e Paola sono simpatiche». Femminismo a parte, una grammatica meno schiacciata sul maschile, offrirebbe più libertà nella costruzione delle frasi e sarebbe esteticamente più elegante, aggiungono le promotrici. Contrariamente a quel che si pensa, già nel greco antico e nel latino funzionava così. La petizione è stata inviata all´Académie Française, guardiano della purezza della lingua, con scarse speranze di essere accolta. L´istituzione fondata nel 1635 dal cardinale Richelieu ha sempre fatto argine ad ogni cambiamento in questo senso. Già dieci anni fa, l´organismo si era rivolto con allarmismo al capo dello Stato. Le socialiste Martine Aubry e Elisabeth Guigou, appena nominate nell´allora governo, avevano osato farsi chiamare "Madame la Ministre". Da allora, ci sono state molte altre ministre e prima o poi l´Académie dovrà registrare la novità. Per tradizione, si tratta di un´istituzione esclusivamente maschile, sette donne tra i quaranta membri, la prima fu la scrittrice Marguerite Yourcenar nominata solo nel 1980. «Non abbiamo mai seguito le mode. La superiorità del maschile esiste almeno da tre secoli e non ho l´impressione che sia rimessa in discussione nell´uso comune del francese» spiega Patrick Vannier, che si occupa del dizionario dell´Académie. La parità di genere può aspettare, almeno in senso linguistico.

Repubblica 24.1.12
Ma la lingua non modifica la visione del mondo
di Stefano Bartezzaghi


Una volta ho partecipato a un dibattito sul maschilismo della lingua assieme a una linguista, a una scrittrice e a una giornalista. Per fare il conto totale la lingua mi obbliga a dire che «i relatori erano quattro: un uomo e tre donne». I relatori: è bastato un uomo (io) per far mettere tutta la frase a quel maschile che in italiano si finge neutro. Così la lingua dimostra che di dibattiti sul suo maschilismo ne servono ancora molti. Per evitare l´inghippo avrei dovuto articolare di più e dire che a quel dibattito c´era un relatore e tre relatrici. Sarebbe allora più fine sforzarsi di restare davvero nel neutro: «il dibattito ha avuto quattro partecipanti». Quando si scrive si può, ma quando si parla non è facile ed è invece comune che scappino anche dei «gli» per i «le». Per quanto si speri che non se ne accorga nessuno c´è sempre una signora, normalmente cortese e inflessibile, che chiede il microfono per notificare lo svarione, e mortificarne l´autore.
Quella volta si parlò poi dei nomi di battesimo usati per le donne al posto dei cognomi o dei cognomi con l´articolo (Alberto Moravia era «Moravia»; Elsa Morante era «la Morante», o «Elsa»); di parole a doppio taglio come «mondano /mondana» o «uomo allegro / donna allegra»; e di altre cose simili. Guardate ora il governo Monti: salvo errore è il governo italiano con la più forte componente femminile (in percentuale e per rilevanza dei dicasteri occupati) registrata sinora, ma Monti parla sempre «del ministro Fornero» (o Severino, o Cancellieri), come se la lingua italiana non avesse la parola «ministra». Del resto, la poetessa Giulia Niccolai, intervenendo a un convegno su Gertrude Stein, si è scusata perché avrebbe detto «la Stein», non riuscendo a correggere un´abitudine magari sbagliata ma molto radicata. E suonano molto strani quegli inviti in cui le desinenze maschiliste sono sostituite da asterischi «Gentili signor*, siete tutt* invitat*...» (un´amica aveva notato che le vocali che discriminano fra maschile e femminile sono quattro su cinque: voleva proporre la U come desinenza neutra: «siete tuttu invitatu...»).
Anche se tutti i (e, certo, le) parlanti fossero d´accordo su queste discriminazioni operate dall´italiano, come rimediare? A differenza di quanto si pensi normalmente, la grammatica viene dopo la lingua: non prima. Chiama regole le regolarità, e agli usi censurabili (per storia, per convenzione, per etica o politica) deve limitare a darsi titolo di errore, ma non può certo imporre alcunché. E poi, se è vero che la lingua è in relazione con un modo di vedere il mondo, è altrettanto vero che si può cambiare la visione del mondo agendo sulla lingua? Pensare di procedere per decreti, e solo così, sostituisce una mentalità autoritaria (ma soprattutto velleitaria) a quella dinamica di riflessione, casualità, tensione, intenzione, inconsapevolezza collettiva, che è poi l´unico modo in cui cambiano davvero le lingue e le culture.

Repubblica Salute 24.1.12
Pillola
Quartararo: "Dal 1960 a oggi una riduzione ormonale impensabile"
Rischi, costi, benefici anche l´ultima arrivata ora va sotto esame
di Elvira Naselli


Da una parte un questionario con interviste a 67 pazienti, dall´altra "misurazioni" su ventuno donne
In Italia arrivò nel ´65 ma solo nel 1971 la Corte Costituzionale abrogò il divieto di contraccezione e il farmaco diventò legale
Il trattamento ormonale è sicuro nel controllo delle nascite Restano dubbi e ricerche contrastanti sulle conseguenze trombotiche nel drospirenone. Gli esperti: molto dipende da dosi e storia personale

L’assunto da cui partire è che, per evitare una gravidanza, la contraccezione più sicura è quella ormonale. I preparati estro-progestinici (pillola, anello, cerotto), però, aumentano, seppure in misura inferiore ad una gravidanza, i rischi tromboembolici, nessuno escluso. Non fa eccezione neppure una delle pillole ultime arrivate, di quarta generazione, che ha come progestinico il drospirenone, molecola con un lieve effetto diuretico che dovrebbe aiutare a combattere la ritenzione idrica. Una pillola che ha avuto un enorme successo in tutto il mondo e che adesso sale sul banco degli imputati. È bene premettere che gli studi non sono a senso unico: nel 2008 la European Active Surveillance Study segnalò un aumento del rischio rispetto alle pillole di precedente generazione. Studi successivi, però, non confermarono differenze statisticamente significative.
A fine 2011, infine, il British Medical Journal ha pubblicato due lavori che indicano invece un aumento del rischio trombotico, tanto che la Fda americana, paese in cui il preparato al drospirenone è usatissimo, non ha ancora emesso una "sentenza" ma ha già indicato un aumento del rischio trombotico che va da 6 donne su diecimila tra le utilizzatrici delle pillole precedenti (con levonorgestrel o altri progestinici) a 10 su diecimila per quella con drospirenone, soprattutto per le meno giovani o le obese. Numeri non elevatissimi, ma tutt´altro che insignificanti, se si tiene conto che nel mondo utilizzano la pillola circa cento milioni di donne e che molte si sono convertite alla nuova anche per la sua efficacia nel trattare la sindrome premestruale e l´acne. Il consiglio – secondo la Fda – non è di sospendere la pillola, ma di parlarne con il medico. A cominciare dalla prescrizione. «Occorre un´anamnesi molto accurata - premette Chiara Benedetto, direttore della struttura complessa universitaria di Ginecologia e Ostetricia al Sant´Anna di Torino – per accertare se la donna ha in famiglia casi di embolia polmonare o altri eventi trombotici, ictus, anomalie genetiche che aumentano il rischio trombotico o iperlipidemie familiari o ancora se fuma, ha pressione alta, diabete, una storia di emicrania con aura o è in soprappeso. Solo a quel punto il medico è in grado di valutare la prescrizione. E se ci sono eventi tromboembolici in famiglia o precedenti eventi personali le linee guida della società italiana trombosi ed emostasi specificano che bisogna prescrivere lo screening trombofilico».
Anna Maria Fulghesu, responsabile dell´ambulatorio di Ginecologia dell´infanzia ed adolescenza dell´università di Cagliari, lo screening lo prescrive, soprattutto alle adolescenti. Anche perché in Sardegna - da sempre – il bacino di utilizzatrici è quasi doppio rispetto alla media nazionale. «Prescrivo sempre la ricerca delle mutazioni trombofiliche – precisa – perché è l´unico test davvero predittivo del rischio e dunque il solo esame che ha senso richiedere. Le mutazioni sono cinque diverse, ma ognuna riguarda tra il 5 e il 7 per cento della popolazione, come quella di Leyden, dunque una percentuale non insignificante. Direi che non si può proporre come screening di massa, per una questione di costi. Dal canto mio continuerò a prescrivere la pillola con il drospirenone, perché non vedo alternative e perché l´aumento del rischio è molto basso. Comunque dopo il test». E poi c´è la questione del dosaggio. «Gli studi presi in esame dalla Fda – precisa la professoressa Benedetto – si riferiscono al preparato con 30 mcg di drospirenone. Da noi si utilizzano anche pillole con un dosaggio di 20 mcg, che potrebbero non presentare lo stesso rischio. In ogni caso abbiamo a disposizione un tale ventaglio di sistemi contraccettivi ormonali che bisogna solo scegliere il più adatto in base alle esigenze della donna. E consiglio di non sospendere la pillola per paura, anche perché gli eventuali eventi avversi avvengono in genere entro il primo anno di assunzione, e dopo i primi sei mesi di utilizzo è consigliabile un controllo dal ginecologo. Insomma, anche i contraccettivi ormonali vanno cuciti su misura di chi li richiede».

Repubblica Salute 24.1.12
In 50 anni dosaggi più bassi e con meno effetti collaterali


Tutto cominciò nel lontano 1950, quando l´infermiera Margaret Sanger, convinta sostenitrice della necessità di una contraccezione efficace, nonché fondatrice della Planned Parenthood Federation of America, incontrò Gregory Pincus, biochimico, e lo persuase a iniziare la ricerca. Sei anni dopo, Pincus testò il farmaco su seimila donne di Puerto Rico e Haiti. Ma è nel 1960 che nasce la prima pillola, registrata e commercializzata negli Usa da Searle. L´anno dopo la Schering di Berlino mette sul mercato il primo contraccettivo orale in Europa. In Italia arriva nel 1965, solo per le donne sposate e per regolarizzare i disordini mestruali, dal ´71 diventa legale perché la Corte Costituzionale abroga l´articolo del codice penale che proibiva la contraccezione. Quattro anni dopo, nel ´75, nascono i consultori e, con essi, la possibilità di informare e prescrivere i contraccettivi. «Dagli anni ´70 a oggi - precisa Paolo Quartararo, ginecologo e autore di numerosi testi sulla storia della contraccezione - c´è stata una progressiva riduzione della dose di estrogeno e progestinico. Per capirci, siamo passati da 150 a 15-20 mcg di estrogeno e da dieci milligrammi a 75 microgrammi di progestinico, nelle pillole di seconda e terza generazione. È come passare dai chili ai grammi. La riduzione progressiva ha comportato la diminuzione degli effetti collaterali, dai più banali, come nausea, tensione mammaria, cefalea, all´aumento del rischio tromboembolico, ma talvolta provocava anche una perdita della regolarità del ciclo. Dopo vari aggiustamenti, e pillole bi e trifasiche che "mimavano" le diverse fasi del ciclo, si è arrivati - nel 2000 - alle ultime con il drospirenone, le più utilizzate negli Usa. Infine, qualche anno fa è arrivata sul mercato una pillola con un estrogeno naturale, pubblicizzata per questo come bio pillola».
(e. nas.)

Repubblica Salute 24.1.12
Migliora o peggiora la libido? Studi contrapposti e polemiche


La pillola dell´amore. Era stata presentata anche così, la pillola al drospirenone. Tra i tanti vantaggi extracontraccettivi, insieme alla promessa di non ingrassare, questo era certamente il più allettante. Effetto confermato da uno studio dell´università di Catania. Ma adesso, su Journal of sexual medicine, un lavoro dell´università di Bologna dimostra il contrario: la pillola non solo non migliora la libido ma la peggiora sensibilmente. «Lo studio dei colleghi catanesi - premette Cesare Battaglia, uno degli autori - si basava esclusivamente su interviste a 67 pazienti, un metodo poco oggettivo. Inoltre è dimostrato che, con un qualunque tipo di contraccezione sicura, la vita sessuale diventa più gratificante. Il nostro studio ha invece misurato oggettivamente la risposta sessuale delle donne che assumevano la pillola al drospirenone. Abbiamo effettuato su 21 donne ecografie a clitoride, piccole labbra e introito vaginale associata a Doppler-flussimetria, per indagare eventuali variazioni di forma e vascolarizzazione dei genitali esterni sia all´inizio dell´assunzione della pillola che dopo tre mesi. I risultati: minor spessore delle piccole labbra del 13 per cento, introito vaginale più ristretto del 22, ridotta vascolarizzazione. Poi abbiamo valutato l´aspetto ormonale ed erano diminuiti sia gli estrogeni che gli androgeni liberi. Del resto il drospirenone è un anti-androgeno e anche nella donna gli ormoni androgeni sono associati alla regolazione del desiderio sessuale, dunque una pillola al drospirenone non poteva aumentare la libido». E infatti dopo tre mesi di assunzione lo studio verifica frequenza dei rapporti sessuali ridotta del 42 per cento, quella dell´orgasmo del 26, mentre aumenta di oltre il 50 per cento la comparsa di dolore durante i rapporti.
(e. nas.)

Repubblica Salute 24.1.12
Ma il desiderio non si tratta con i farmaci


Di recente sono comparse tante pillole: per l´eccitazione, il controllo dell´eiaculazione, l´aumento del desiderio femminile. Riconfermiamo, come esperti in sessuologia, che non si deve mai eliminare il sintomo, per esempio la mancanza di desiderio, se non sappiamo cosa esprime, altrimenti il disagio tende a spostarsi, creando problemi diversi. Nel lavoro con le adolescenti sappiamo che una delle maggiori preoccupazioni, nell´assumere un contraccettivo come la pillola, è la paura di ingrassare e di avere meno desiderio. Nell´educazione alla sessualità lavoriamo molto con maschi e femmine perché imparino il funzionamento della fertilità e aggiungiamo le linee di condotta per le malattie sessualmente trasmesse che richiedono sempre il profilattico. Di recente sono comparse informazioni su una pillola che non produce aumento di peso e stimola il desiderio. Sulle virtù afrodisiache sono nate riflessioni opposte, sia di opinione, c´è chi dichiara che l´organo sessuale più importante nella donna è la testa, che di ricerca. Si sono visitate e intervistate donne dopo l´assunzione del nuovo farmaco per tre mesi, rilevando effetti opposti sul piano della libido, dell´eccitazione e dell´orgasmo. Sembrano invece fuori discussione le proprietà contraccettive e i benefici per la linea. Valutare serenamente vantaggi e problemi permette di scegliere in modo consapevole, considerando ogni ragazza/donna con le personali paure e preoccupazioni. Oggi si deve coniugare sicurezza sul controllo della fertilità e cultura del sesso sicuro. Il desiderio, ce lo spiega la psicoanalisi, è troppo complesso per poter essere trattato, nella sua difficoltà, solo dal punto di vista farmacologico. Sentiamo l´esigenza che le ragazze adottino una cultura della consapevolezza, il metodo migliore è il dialogo, perché per aiutare a scegliere è necessario riconoscere la persona che abbiamo davanti e dedicarle del tempo.
www.irf-sessuologia.it

Repubblica Salute 24.1.12
Se studiare Shakespeare migliora la diagnosi
Varie ricerche su Medical Humanities segnalano la particolare capacità che aveva il Bardo, nelle tragedie e commedie, nel descrivere l’intreccio mente-corpo. Sarebbe un´ottima lezione sulla psicosomatica per i futuri clinici
di Maurizio Paganelli


La letteratura a sostegno di diagnosi e cura in medicina: e chi meglio di William Shakespeare, allora? «Molti dottori sono recalcitranti nel mettere in relazione disturbi emotivi con effettivi sintomi fisici. Questo porta a ritardi diagnostici, moltiplicazioni di esami e test, trattamenti inappropriati. Potrebbero diventare migliori medici studiando Shakespeare e le correlazioni mente-corpo da lui descritte», così, nelle conclusione di una ricerca apparsa di recente su Medical Humanities (gruppo British Medical Journal), afferma Kenneth Heaton, gastroenterologo britannico. Heaton ha analizzato in modo sistematico un totale di 88 opere, 42 del Bardo, le altre dei suoi contemporanei, con attenzione alla descrizione dei sintomi psicosomatici. Nessuno ha mai descritto o capito meglio di Shakespeare tali sintomi. Mancanza di respiro e forti emozioni; vertigine/debolezza e aumentata sensibilità al dolore; stordimento e languore; stanchezza/fatica cronica e stato ansioso o stress; disturbi dell´udito e del sonno legati ad eventi traumatici. Freddezza, svenimento, debolezza sono usati da Shakespeare con maggiore precisione e più frequentemente di altri autori della sua epoca. La ricerca non è la sola che segnala il link tra medicina e tragedie e commedie shakespeariane. Sempre su Humanities Medicine, il professore di letteratura inglese Eric Langley (suo Narcisismo e suicidio in Shakespeare) ha affrontato il tema, assai pertinente in epoca di peste, del contagio e dell´infezione nei drammi del grande poeta. Non solo: lo psicologo Murray Cox usa da tempo Shakespeare come strumento psicoterapico. «Difficile che un medico non ne rimanga attratto... perché sembra sentirle e capace di farcele sentire», commenta un altro medico, Theodore Dalrymple sul Telegraph. E The Shakespeare Blog, a dimostrazione della tesi, si sofferma sul Macbeth. Primo commento sul blog: «Cosa i medici possono imparare da Shakespeare? Voglio sperare, un po´ di umanità».

Repubblica Salute 24.1.12
La docente di Lingua e letteratura inglese: "Modernissime le sue intuizioni"
Quel dottore dell’anima tra scienza e passione
di Nadia Fusini


Forse non tutti sanno che Shakespeare aveva un genero, di nome John Hall, che era medico. Pare avesse studiato medicina in Francia, dopo aver frequentato il Queen´s College di Cambridge. A Shakespeare doveva piacere quel genero, almeno quanto amava la figlia maggiore, Susanna, se è vero che li nominò esecutori testamentari. Immagino che con lui discutesse di medicina, e in particolare del legame tra psiche e soma, che non poteva non interessargli, visto che di passioni della mente tratta il suo teatro. John Hall da parte sua aveva intenzione di pubblicare le sue osservazioni "on english bodies", e cioè sui corpi inglesi, e sulle cure "sia empiriche che storiche" sperimentate sui suoi pazienti, "in casi disperati".
Shakespeare era uno scrittore, e non un medico, ma come riconoscerà Freud passeggiando sulle Dolomiti con il giovanissimo Rilke, un poeta arriva a profondità di conoscenza della psiche insuperate dalla scienza medica. E coglie con immediata intelligenza il fatto che corpo e anima sono inscindibili e gli affetti, cioè a dire le perturbazioni della mente, infettano entrambi. L´uomo è una specie di piccola trinità di memoria, ragione e volontà, come ben dimostra Amleto, e sarà bene che si conosca nei suoi impulsi e analizzi i propri affetti. E se finora si è predicato che l´uomo naturale deve rispecchiarsi in Dio e prendere a modello quell´immagine sublime, è bene anche che quella specie di "teologia clinica" che nei loro trattati sulle passioni invocano i pastori puritani si misuri non su un uomo ideale, ma sulla realtà dell´uomo naturale, così com´è. L´uomo si conosce con l´uomo, non specchiandosi in Dio. Serve uno studio oggettivo dell´ordine naturale, sia nel microcosmo uomo, che nel macrocosmo società.
Shakespeare articola questa conoscenza nel modo drammatico di un teatro, che mette al centro dell´agone lo scontro antico tra ragione e passione, e lo rinnova. Le fonti filosofiche del dibattito sono Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso insieme con Plutarco, Seneca, Cicerone, Boezio. Le fonti mediche sono Ippocrate e Galeno. È un patrimonio di sapere, dove è difficile separare l´astrologia dalla medicina, l´etica dalla filosofia e dalla teologia, come nel caso di De proprietatibus rerum di Bartholomeus Anglicus, riproposto all´epoca da Stephen Batman, studioso e bibliofilo. O del trattato di Sir Thomas Elyot, The Castell of the Health, la cittadella della salute. O del Trattato della melanconia di Timothy Bright. O dello specchio degli umori di Thomas Walkington, The optick glass of humours... Questo e molti altri trattati Shakespeare conosce. Shakespeare non è un filosofo, è un teatrante e arriva a conoscere la mente umana nel modo drammatico, in quei veri e proprii psico-drammi, dove porta in scena il profondissimo innesto dell´anima nel corpo, tra psiche e soma per l´appunto cogliendo con modernissimo intuito gli intrecci.

Repubblica 24.1.12
Il celebre psicoanalista è morto a Parigi all’età di 84 anni
Addio a André Green, l’anti-Lacan francese    
di Luciana Sica


Ultimo personaggio della stagione psicoanalitica francese, venerato ma anche detestato per quel suo stile più incline al sarcasmo che all´ironia, André Green è morto domenica a Parigi, all´età di 84 anni. Se in molti ambienti era considerato il più grande analista del pianeta, Green disprezzava buona parte dei colleghi come burocrati della psiche privi di ogni passione: "fanno" gli analisti, ne hanno l´aria, ma non lo "sono" – «per lo più – disse una volta in un´intervista – si tratta di aggiungere una piuma al cappello...».
Madre portoghese e padre spagnolo, Green era nato al Cairo nel marzo del ´27 crescendo in una comunità ebraica di segno cosmopolita che lascerà nel ´46 alla volta di Parigi. Dall´esperienza tra i circoli dell´ospedale Saint-Anne all´incontro con Winnicott, dal rapporto conflittuale con Lacan alla frequentazione di Derrida e Deleuze, Green ha attraversato in pieno l´epoca post-freudiana diventando l´incarnazione di una certa psicoanalisi attenta al dibattito filosofico, alla letteratura, al teatro. Non a caso – tra i suoi scritti – quelli sull´Amleto, su Proust e anche su Dostoevskij non sono marginali. Altri suoi titoli sono ormai dei "classici" come Narcisismo di vita narcisismo di morte, Il lavoro del negativo, La psicosi bianca (usciti da Borla), Il discorso vivente (Astrolabio), i saggi sulla "follia privata" e sulle Idee per una psicoanalisi contemporanea pubblicati da Raffaello Cortina: editore anche dell´ultimo libro di André Green. Di quel suo "testamento" bellissimo e spregiudicato sui fallimenti terapeutici che è Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico.