giovedì 26 gennaio 2012

l’Unità 26.1.11
Intervista a Pier Luigi Bersani : «Di Pietro scelga»
Se vuole l’alleanza non parli di inciucio
di Maria Zegarelli


Impegno «Costruire un’alleanza dei progressisti aperta ai moderati»
Su Vendola «Ha capito la nostra scelta, si confronti sui temi di oggi»
Monti Via libera alla mozione unitaria, premier più forte in Europa

«Anch’io vorrei mandare un messaggio». Pier Luigi Bersani entra nel suo ufficio a Montecitorio durante una pausa della discussione sulle mozioni per la politica europea, si siede sulla poltrona di cuoio scuro e inizia a parlare. «Adesso basta tirarmi per la giacca, meglio chiarire alcuni concetti». Il «messaggio» è per Antonio Di Pietro ma anche per Nichi Vendola, che oggi terranno insieme una conferenza stampa per rilanciare l’alleanza di centrosinistra e rispolverare un po’ la foto di Vasto. Segretario, Di Pietro sostiene che di fatto si sta creando una nuova alleanza. Quella del Pd con Pdl e Terzo Polo.
«Se non mi sbaglio quando si trattò di superare il governo Berlusconi e salvare l’Italia l’operazione che fu fatta fu sostenuta anche da Di Pietro e ben compresa da chi era fuori dal Parlamento, cioè Sel. L’alternativa non era quella di andare al voto, ma di andare avanti con Berlusconi fino al disastro. Per questo ho detto che non si poteva andare al voto sulle macerie».
Ma dopo quella fiducia l’Idv ha preso le distanze dal governo e accusa voi di votare qualunque provvedimento.
«Qui nessuno pretende che le forze di centrosinistra suonino ogni volta la stessa nota o che ci sia il pensiero unico, quello del Pd. Questa è una fase politica impegnativa per tutti, sia perché l’Italia è nei guai, sia perché dalle relazioni politiche che si determinano in questo passaggio può venire fuori un’ipotesi credibile di un centrosinistra di governo. Per questo è richiesto a tutti senso di responsabilità».
E invece?
«A Di Pietro lo dico amichevolmente, malgrado qualche volta si sia lasciato andare a termini come “inciucio”: sia chiaro, noi questo atteggiamento ad un alleato non lo consentiamo. Ciascuno si prenda le sue responsabilità per quello che dice. Aggiungo anche, e lo dico con il sorriso sulle labbra, che invece di tirare per la giacca me e lavarsene le mani, sarebbe meglio se si impegnasse anche lui in Parlamento. Se tutti dicessimo “voto solo quello che mi piace” saremmo al punto di partenza. Io accetto tutto, ma non le furbizie e all’Idv sottolineo che noi in Parlamento votiamo anche il loro documento sull’Europa».
Eppure su alcuni quotidiani la mozione unitaria è stata letta come un assaggio di grande coalizione.
«Se dico “l’Italia prima di tutto” intendo davvero che l’Italia viene prima di tutto. E se dico “alleanza dei progressisti aperta alle forze moderate” intendo dire esattamente questo. Un’alleanza di centrosinistra aperta anche alle forze civiche e ai moderati: questa è la nostra strategia di fondo per la ricostruzione del Paese. Dunque, sono gli altri a dover dire se ci stanno. Oggi siamo il più grande partito del Paese che, per senso di responsabilità verso l’Italia, non ha dato vita ad una nuova maggioranza, ma il proprio sostegno ad un governo di impegno nazionale».
Vendola le dice: subito l’alleanza e il cantiere del programma.
«A Vendola riconosco che ha compreso le ragioni della scelta del Pd e con questo spirito gli dico che sono disposto a riaprire tavoli programmatici ma sui temi di cui parliamo oggi, dal lavoro alle riforme. Il rapporto lo si avvia partendo da questo, dai temi che sono oggi sull’agenda dell’emergenza. Basta con i tatticismi, nessuno può pensare di prenderci alle spalle».
Bersani, i temi di oggi sono quelli più spinosi. Dall’ipotesi di cancellare la cassaintegrazione straordinaria all’articolo 18...
«Questi sono temi fuori corda, fuori luogo nel momento in cui si perdono migliaia di posti di lavoro».
Si riferisce al ministro Fornero? «Penso che non serva evocare l’articolo 18 e che la prospettiva di riordino del sistema degli ammortizzatori sociali non possa prescindere dalla drammatica crisi industriale che è in corso. Noi sosteniamo lealmente questo governo ma continueremo a dire la nostra sulle misure che vanno adottate. Rimarremo il partito del lavoro, dell’equità, della giustizia sociale e che combatte le rendite di posizione. Su questo fronte credo che il centrosinistra possa muoversi in modo collegato e Vendola ha mostrato un atteggiamento consapevole».
Secondo lei sull’equità questo governo ha corretto la linea?
«Sull’equità ci sono state alcune novità che non vanno sottovalutate, ma bisogna avere più coraggio. E bisogna dire con chiarezza che questo Paese non farà più manovre correttive ma soltanto manovre per la crescita. La cosa che dobbiamo chiedere al governo oggi è di rendersi conto che l’esigenza di riforme si deve muovere tenendo conto del contesto di emergenza sociale che c’è». Non teme che il Pd possa pagare un prezzo altissimo nel sostenere misure difficile da spiegare ai propri elettori? «So bene quanto sia difficile per il Pd, ma come potrebbe essere altrimenti? Questo è un momento difficile per tutti gli italiani, come potrebbe un partito come il nostro pensare “io speriamo che me la cavo”? Ma è in momenti come questo che un grande partito riformista non può perdere la bussola e per questo ho chiesto a tutti i democratici di tenere duro, di restare uniti, perché il 2012 sarà un anno difficile. Dico questo proprio mentre i sondaggi dicono che andiamo bene perché so che potrebbero essere momenti critici». Teme per la tenuta interna?
«Noi stiamo lavorando al nostro progetto, sono convinto che le scelte che abbiamo finora fatto alla fine saranno vincenti. Abbiamo una certa idea di democrazia e di leadership. Dopo Bersani ci sarà il Pd e sarà un grande partito solido».

Repubblica 26.1.12
Un sondaggio Ipsos rivela che le distinzioni ideologiche sono superate, conta la personalità
Di destra o di sinistra non importa l´elettore Pd vuole un leader forte
di G. C.


ROMA - Ma è vero che destra e sinistra sono modi distinti, opposti e hanno ancora un campo di battaglia su cui dividersi? La domanda cruciale - nell´era del governo Monti e della impasse della politica - offre risposte sorprendenti. Ipsos ha fatto un sondaggio, commissionato da Trecentosessanta, l´associazione di Enrico Letta, il vice segretario democratico. Nando Pagnoncelli partirà da grafici e percentuali per descrivere oggi in una lectio (ore 15 nella sede dell´associazione) cosa è cambiato a sinistra. Nel prossimo appuntamento sarà Alessandro Campi ad analizzare invece cosa resta della destra.
E quindi, parole e concetti associati a destra e sinistra. Ecco che - a sinistra - c´è una gran voglia di solidarietà e di uguaglianza. Rispettivamente per il 49% e per il 48% degli intervistati sono queste le bandiere della sinistra, subito seguite da "pace sociale" e da "cultura". Alla destra appartengono competizione in primo luogo (per il 41%), quindi modernità (40%) e sviluppo (per il 39%). Più di tutto (44%) di destra è ritenuto il benessere. Mentre "etica", "moderazione" e "cambiamento" sono caratteristiche che restano avvolte nell´incertezza: prevalgono infatti quelli che non sanno a quale degli schieramenti politici attribuirli. Hanno avuto ragione sia Bersani che Vendola nelle due ultime assemblee del Pd e di Sel a puntare l´uno sulla solidarietà («Alle liberalizzazioni, alla crescita... aggiungiamo il calore della solidarietà»), e l´altro sull´uguaglianza sociale.
Dato inatteso è quello che fotografa il bisogno di leadership. Per il 57% degli intervistati conta "la capacità dei leader, il fatto che siano di destra o di sinistra è secondario". Per il 35% invece "la diversa collocazione politica è importante, e tra destra e sinistra ci sono grandi differenze ideali e programmatiche". Un´opinione che vale per il 48% di chi aderisce al Pd (per il 45% la differenza ancora c´è); per il 54% di chi si dice del Pdl; e per 84% di chi è di centro seguito da un 67% di leghisti.
(g.c.)

l’Unità 26.1.11
Intervista a Ignazio Marino (Pd)
«Basta ospedali psichiatrici, svolta epocale di civiltà»
Il presidente della Commissione sanitaria d’inchiesta: «Il voto parlamentare ridà la libertà ad almeno 600 persone giudicate non pericolose socialmente»
di Claudia Fusani


Uscirà Giovanni chiuso da 22 anni nell’Opg di Barcellona Pozzo Li Gotto che l’hanno trovato legato a una rete metallica, senza materasso e piena di ruggine con un buco in mezzo a mo’ di latrina. Uscirà Antonio che nel 1992 era entrato in un bar e simulando di avere una pistola in tasca, s’era fatto consegnare 7 mila lire. Al processo fu giudicato “incapace di intendere e di volere” e se lo sono dimenticato là dentro. Ne usciranno almeno 600 così, persone giudicate non più pericolose socialmente e però così scomode «il sistema» le ha parcheggiate negli ospedali psichiatrici. Saranno ristretti in strutture diverse, più nuove e più piccole, gli altri 700-800 detenuti.
Chiudono i sei ospedali psichiatrici giudiziari. Giù il sipario, per sempre, sugli orrori denunciati dalla Commissione sanitaria d’inchiesta sull’efficienza del sistema sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino.
Senatore, una nuova legge Basaglia? «Lo psichiatra Vittorino Andreoli parla di svolta epocale, di scelta di civiltà superiore a quella compiuta nel 1978 dalla legge Basaglia che chiuse i manicomi e istituì ì servizi di igiene mentale pubblici».
Lega e pezzi del Pdl dicono che il decreto Severino dopo i ladri mette in libertà anche i serial killer...
« La legge è stata votata all’unanimità in Commissione anche dalla Lega, ha avuto nel collega del pdl Michele Saccomanno uno dei sostenitori più convinti ed è stata presentata come emendamento nel decreto Severino sulle carceri dal presidente della Commissione Giustizia Filippo Berselli, pdl. Ogni deputato ne ha compreso la necessità e l’urgenza».
La svolta è arrivata con la documentazione video raccolta da lei, dalla senatrice radicale Poretti e da altri vostri colleghi quando vi siete presentati all’improvviso a Barcellona Pozzo Li Gotto, uno dei sei Opg in Italia? «Quelle immagini hanno confermato quello che molti sapevamo già. Dopo quelle immagini nessuno ha più potuto dire “non sapevo”. Credo che quel video (coraggiosamente trasmesso da Presa diretta su Rai 3, ndr) sia stato importante anche nel colloquio che ho avuto prima con il presidente Monti e poi con i ministri Severino e Balduzzi e nella loro decisione di fare della chiusura degli opg una delle priorità del governo». Quando ha incontrato Monti?
«Il 2 gennaio alle 9 del mattino. Credo di essere stato il suo primo appuntamento di lavoro del nuovo anno. In due ore e mezzo abbiamo esaminato tutto il materiale raccolto in un anno dalla Commissione. Nei giorni successivi ho incontrato il ministro Severino (Giustizia, ndr) e Balduzzi (Sanità, ndr). Hanno ascoltato ogni singola osservazione, visionato ogni fotogramma. Non c’è stato bisogno di convincerli».
Cosa succede ora veramente?
«Quando il decreto sarà legge (manca ancora il via libera della Camera, ndr) 600 persone non più pericolose socialmente tenute là dentro per
mancanza di alternative saranno affidate dal magistrato di sorveglianza ai servizi di salute mentale del territorio»
E il territorio è in grado? Ce la fa?
«Siamo in Italia, paese industrializzato, membro del G8, nessun altro paese sopporta una vergogna come la nostra. Quindi il territorio ce le deve fare».
Gli altri 7-800 che restano reclusi?
«Saranno trasferiti in altre strutture, più nuove e idonee a questo tipo di detenzione. Ad esempio con psichiatri che incontrano i detenuti con cadenza settimanale regolare e non mezz’ora al mese come succede ad Aversa. E con farmacie che prescrivono le medicine: sempre ad Aversa il medico firmava le prescrizioni una volta all’anno».
Tempi?
«L’emendamento dice che entro il 31 marzo 2013 le Regioni e l’amministrazione penitenziaria devono individuare le nuove strutture interamente a carattere ospedaliero. Il governo ha stanziato 252 milioni. Questo lavoro non può e non deve correre il rischio di essere rallentato e sono certo che ognuno farà tempestivamente la propria parte». Soddisfatto?
«E’ un passo importante nella storia della sanità e della psichiatria. Per quello che mi riguarda dà senso al mio mandato parlamentare. Resta il rammarico che per molte di loro siamo arrivati tardi». Persone come Pietro, chiuso nell’Opg di Montelupo nel 1985 perchè andava in giro vestito da donna e disturbava. Quando la Commissione l’ha scoperto, un anno fa, faceva bigiotteria con materiali riciclati. Sempre vestito da donna. Imbottito di farmaci.

l’Unità 26.1.11
Legge svuota carceri tra stop and go
il primo sì del Senato
l testo punta a diminuire il sovraffollamento carcerario grazie ai domiciliari e accorciando i tempi delle udienze di convalida. Un emendamento decreta la fine degli ospedali psichiatrici giudiziari. Severino: «Norma rafforzata».
di C. Fus.


Le carceri non si svuotano ma prendono fiato. Chiudono i sei ospedali psichiatrici giudiziari definiti dall’Europa «luoghi di tortura» e tornano liberi 600 dei 1500 detenuti giudicati incapaci di intendere e di volere. Soprattutto, e questa è la vera rivoluzione, pena non fa più rima solo con cella e non sembra più essere l’unico strumento per la rieducazione e il reinserimento. Al netto di qualche trabocchetto e imboscata, alle otto di sera l’aula del Senato licenzia (226 sì, 40 no, 8 astenuti) il tormentato decreto voluto dal ministro Guardasigilli Paola Severino per alleggerire il peso del sovraffollamento carcerario, 68 mila detenuti per 45 mila posti.
«Non so se definirmi soddisfatta» commenta il ministro dopo il voto, «certo abbiamo portato a compimento un lavoro e il decreto esce dal Senato accresciuto nella sua portata, non è stato depotenziato». Adesso il testo va alla Camera dove dovrà essere convertito entro il 20 febbraio. «Proverò in tutti i modi ad evitare la fiducia perchè il dibattito è importante». E alla Lega che ha votato contro in compagnia di qualche falco pdl al grido di «escono ladri dalle celle e i serial killer dai manicomi criminali», il ministro manda a dire: «I detenuti pericolosi non saranno liberi ma detenuti in luoghi in cui si privilegia la cura ma ci sarà anche la vigilanza».
Il decreto, quattro articoli e vari commi, agisce sul sovraffollamento con due strumenti. Il primo manda agli arresti domiciliari i detenuti definitivi e con buona condotta a cui mancano 18 mesi di detenzione. Si tratta dell’allargamento di un misura già in vigore dal dicembre 2010 e che in un anno ha fatto uscire circa quattromila detenuti. Il secondo strumento cerca di agire sul fenomeno delle porte girevoli, quei 22 mila detenuti che ogni anno stanno in carcere solo tre giorni, il tempo che passa tra l’arresto e l’udienza di convalida che spesso e volentieri li rimette in libertà.
E’ il passaggio più contestato della norma. Ed è stato l’occasione per tendere imboscate al ministro. Per evitare le “porte girevoli” il Guardasigilli, e i suoi uffici, hanno pensato di ricorrere alle camera di sicurezza che esistono presso le questure, le stazioni dei carabinieri e della Finanza. Evitando così quello che spesso si rivela un inutile passaggio nell’istituto penitenziario. E qui c’è stato il primo intoppo con la rivolta del Dipartimento della pubblica sicurezza che per bocca del numero due Francesco Cirillo è andato in Commissione a dire che non si poteva fare: le camere di sicurezza sono poche (1057), vanno ristrutturate e servono almeno dieci agenti per una sorvegliare una persona 24 ore. Era il 4 gennaio. Fu una doccia ghiacciata per il ministro consapevole che il decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 22 dicembre aveva avuto il via libera anche del Viminale.
La soluzione trovata in Commissione ha cercato di mediare tra i no delle forze di sicurezza e quelli di Lega e falchi pidiellini: ridotti i tempi dell’udienza di convalida (48 ore anzichè 96); obbligo di tenere le udienze anche nei giorni festivi; tre opzioni dopo il fermo e in attesa della convalida a seconda dei reati: i domiciliari come prima opzione, a seguire camere di sicurezza e infine il carcere. Insomma, una «modulazione» che cerca di accontentare tutti. E che, nonostante tutto, venerdì della scorsa settimana e di nuovo martedì è stata stoppata tanto da costringere il Presidente del Senato Renato Schifani a dare un ultimatum per l’approvazione entro ieri sera.
Un percorso accidentato che fa preoccupare in vista dell’approvazione finale. Visto che il decreto contiene anche una norma necessaria e sicuramente coraggiosa come quella che chiude gli Ospedali psichiatrici giudiziari.
Quello che conta è il messaggio culturale che governo e parlamento vogliono dare alla questione sicurezza. «Il decreto approvato dal Senato costituisce l'inizio di un percorso virtuoso che deve ridefinire i rapporti tra difesa sociale e rispetto dei diritti umani, tra carcere e società, tra rieducazione e reinserimento» ha detto Silvia Della Monica, capogruppo Giustizia per il Pd, nelle dichiarazioni di voto. «Il Parlamento ha aggiunto finalmente pone l'attenzione sul tema del carcere non solo in termini di edilizia penitenziaria».

il Fatto 26.1.12
Un sobrio bavaglio: l’Usb sciopera, ma la Rai non ne parla


Una cappa di silenzio” attorno allo sciopero generale indetto per venerdì 27 gennaio: questa l’accusa mossa dall’Usb, Unione Sindacati di Base, che ha presentato ricorso all'Agcom e alla Commissione di Garanzia sullo Sciopero per la “non adeguata informazione all'utenza” dei mezzi di stampa e radiotelevisivi, almeno quelli del servizio pubblico della Rai, riguardo all'annunciata agitazione. Si tratta, secondo l'Usb, di una condotta in contrasto con la legge 146/90 e 83/200 che prevede l'obbligo di dettagliata e “tempestiva diffusione” delle notizie sugli scioperi. I sindacati manifestano contro il governo Monti e “le sue politiche di attacco al salario e ai diritti del mondo del lavoro”. Un silenzio voluto, forse, “per non disturbare il manovratore mentre è impegnato a far rispettare i dettami dell’Europa, delle banche, della finanza”. La protesta, promossa oltre che dall’Unione Sindacati di Base anche da altre 6 sigle sindacali, riguarderà l'intero territorio nazionale, coinvolgendo lavoratori pubblici e privati.

l’Unità 26.1.11
Grillo, cuore di destra
di Michele Prospero


Incontenibile slavina, alla caduta di Berlusconi è seguita la contestazione di Bossi. E dopo i fischi in piazza al leader leghista, è scoppiata la rivolta della rete contro le grossolane sparate di Grillo. Non corrono più tempi tranquilli per i capi che riducono la politica, da grande vicenda collettiva, a meschina faccenda privata, spesso coincidente con il loro capriccio.
Che il leader sia un rude capo territoriale o un comico che dimora nel virtuale spazio della rete, poco cambia: il re è ormai nudo e proprio dal suo pubblico di fedeli non trova più la scontata conferma della supremazia e quindi la reiterata disponibilità all’obbedienza.
In nome della rete celebrata come un luogo di libertà assoluta, in omaggio della partecipazione diretta attuata con scambi di mail, Grillo ha definito un inquietante processo politico di concentrazione assoluta del potere. Nel suo movimento personale, la potestà suprema risiede nel suo computer. Grazie a un centralismo computerizzato, il comico può decidere quello che vuole, può lanciare sfide a piacimento, può scagliare invettive alla cieca, può comminare scomuniche. Al movimento non resta che approvare la sortita imprevista o lanciare in rete timidi mormorii di disapprovazione o segnali più espliciti di scontento quando il comico l’ha combinata grossa. L’essenza del fenomeno è che il capo comico gestisce sempre lui i tempi, progetta come meglio crede le provocazioni pronte a rimbalzare dalla rete ai vecchi media.
Ammiccando il pubblico con una colorita fraseologia iperdemocratica, agitando un lessico infarcito di metafore orizzontali e spolverando i caldi miti di una costruzione sempre dal basso dell’agenda, Grillo ha in realtà allestito una macchina del tutto sregolata e leggera ma pur sempre impermeabile e poco trasparente. Con il miraggio della rete come veicolo della discussione infinita e della condivisione totale, il movimento si inaridisce nella vita quotidiana e approda nel meccani-
smo disarmante della assoluta delega in bianco alla persona. Il capo innalza così il proprio sbalzo d’umore a dottrina politica e chiude, nella sua imponderabile possibilità di deviare da un programma evanescente, una esperienza di politica che non garantisce apprendimento collettivo, che non dispone sanzioni verso scelte sbagliare, che non è in grado di imporre al capo sfuggente ed enigmatico degli impegni precisi, dei vincoli ravvicinati, degli atti politici gestiti con coerenza.
Sono evidenti, nel modello verticale e unidirezionale di conduzione del movimento, i tratti di una cultura populistica a sfondo autoritario che inneggia alla solitudine di un capo refrattario a convivere con regole, organi, mediazioni. L’immediatezza del capo populista, che si rapporta con il suo semplice corpo con il pubblico irrelato e sguarnito della fisicità dei luoghi di incontro, ha condotto stavolta Grillo a gettare la maschera. Il verbo ultrademocratico della rivolta contro la casta si colora delle tinte più accese della cultura politica reazionaria. Le parole insulse contro il diritto di cittadinanza a favore dei figli degli immigrati si spingono persino oltre le posizioni di una destra decente.
Nessun leader di destra in Europa si azzarderebbe a sostenere le ambizioni retrograde di Grillo. Il cancelliere Merkel ha sì annunciato il fallimento del multiculturalismo. Ma il suo governo non ha mai smesso di incoraggiare le politiche di integrazione e ha radunato in Parlamento 200 migranti per dire loro grazie in nome della Germania. Il presidente Sarkozy ha concesso ai migranti il diritto di voto amministrativo. Proprio su una materia che abbraccia i grandi principi etico-politici, Grillo assume invece le coordinate dei movimenti del populismo xenofobo (che esulta dinanzi alle cifre dei respingimenti e alle espulsioni collettive, agli accompagnamenti coattivi).
Il ricco comico ha un arido cuore di destra che pulsa non solo nella radicale venatura antipolitica del suo messaggio indirizzato contro la rappresentanza, ma anche nella profonda insensibilità culturale ed etica verso un tema, come quello della cittadinanza ai figli dei migranti, che abbraccia la dignità della persona umana. La retorica della rete aperta si chiude così nella cupa nostalgia dei solidi confini. Per Grillo si può navigare solo nella rete, non nel mondo reale dove non c’è posto per uno ius migrandi e tanto meno possono spalancarsi le porte dello status activae civitatis per i figli dell’errore. Per fortuna nella rete c’è ancora chi si indigna dinanzi a questa follia.

Corriere della Sera 26.1.12
Il diritto del sangue, la lezione dell'antica Roma
di Eva Cantarella


Di fronte alle proposte di modifica delle regole in vigore sul diritto di cittadinanza e alle reazioni suscitate, credo sia tutt'altro che inutile tornare indietro nel tempo e chiedersi che soluzione diedero, al problema, i nostri più lontani antenati. Back to the Romans, quindi, torniamo ai romani. Per i quali la soluzione era chiara: la cittadinanza si acquistava iure sanguinis. Come scriveva il giurista Gaio, nel II secolo d. C., nel suo celebre manuale di Istituzioni, erano cittadini romani i figli legittimi di un cittadino, ovvero quelli naturali di una cittadina. La regola, infatti, voleva che i figli nati da un matrimonio legittimo seguissero la condizione del padre al momento del concepimento, e che quelli nati fuori del matrimonio seguissero la condizione della madre al momento della nascita. E regola analoga era in vigore in Grecia dove, peraltro, a opera di un famoso decreto di Pericle (451 a. C.) il diritto di cittadinanza venne ulteriormente ristretto. A partire da quel momento infatti non bastava essere figlio di padre ateniese, come fino ad allora: era necessario che anche la madre fosse tale.
La nostra tradizione giuridica, dunque, privilegia la soluzione del sangue. E la tradizione è certamente importante nel determinare l'atteggiamento verso un problema come questo, tra l'altro fortemente legato a quello della cosiddetta identità nazionale. Ma a prescindere dal fatto che esistono altri fattori che contribuiscono a modificare questo atteggiamento, tra i quali ovviamente i flussi migratori (e lasciando comunque questo aspetto del problema a chi ne ha più competenza), torniamo alla tradizione romana. Certamente, come dicevo, legata al principio del sangue. Ma dir questo non basta, bisogna anche vedere il modo in cui questo principio venne declinato. E qui le sorprese non mancano: a differenza che in Grecia, infatti, a Roma il principio del ius sanguinis fu sempre aperto, sin dalle origini, alla possibilità di molte inclusioni. L'identità greca, come ben noto, era delineata dalla totale esclusione dell'altro. Un esempio per tutti: alla sopravvivenza dell'economia ateniese, che si basava sullo scambio marittimo, era fondamentale la presenza in città di stranieri chiamati «meteci», che come dice il loro nome (da metoikein, vivere insieme) risiedevano nella città. Ma erano e rimasero sempre privi dei diritti politici, non potevano possedere terra, non potevano sposare una donna ateniese, non potevano partecipare ai processi senza l'assistenza di un cittadino che garantisse per loro (il prostates).
I romani, invece (come il mito delle origini troiane della fondazione di Roma ricordava), riconoscevano che la loro comunità nasceva come un'unione di genti diverse, da un incrocio di mondi e culture. Già all'età di Romolo — scrive Dionigi di Alicarnasso (I,9,4) — i romani tendevano ad assimilare altre genti, nonché gli schiavi ai quali veniva concessa la libertà, (che acquistavano automaticamente la cittadinanza). Polibio scrive che essi erano più pronti di ogni altro popolo a cambiare i loro costumi, adottando i migliori (VI,25,11). Simmaco ricorda che avevano adottato le armi dei Sanniti, le insegne dagli Etruschi, e le leggi dei greci Licurgo e Solone (Sym., Ep, III,11,3). E nel corso dei secoli concessero la cittadinanza ai popoli conquistati con generosità pari alla lungimiranza politica. Alle nostre spalle, insomma, sta una declinazione del ius sanguinis che dovrebbe farci riflettere: e, io credo, pure vergognarci di quel che a volte accade di sentir dire. Conoscere il passato può essere utile anche per questo.

Repubblica 26.1.12
Pesaro anticipa la legge "Qui i figli di immigrati saranno cittadini onorari"
E Napolitano: è un esempio da imitare
di Jenner Meletti


Il presidente della Provincia ha ideato l´iniziativa. "Grillo? Parla alla pancia, non al cervello"
Attestato ai 4.536 bambini nati negli ultimi dieci anni Con il Tricolore e la Costituzione

PESARO - Piange come un disperato, Marhio, nato 3 mesi fa. Aspetta la poppata, non gliene importa nulla di diventare «cittadino onorario» di questa città sul mare. Ma sarà invitato anche lui, assieme al papà e alla mamma romeni, alla festa che si terrà presto, forse al palazzo dello sport. A 4.536 bambine e bambini nati nel pesarese negli ultimi dieci anni verranno consegnati un «attestato» che dichiara la loro cittadinanza italiana, una bandiera, una copia della Costituzione e anche una maglietta della Nazionale di calcio. L´attestato non sarà purtroppo un documento ufficiale, perché quel «ius soli» che negli Stati Uniti e in Francia dà diritto di cittadinanza a chi viene alla luce in quelle terre, in Italia viene annullato dallo «ius sanguinis». Ma è un passo avanti, è la firma di un impegno. «Quando ho proposto questa iniziativa - dice Matteo Ricci, 37 anni, presidente della Provincia di Pesaro - ho utilizzato le stesse parole del Presidente: "Chi nasce in Italia è italiano". E dal Quirinale adesso è arrivata una risposta che ci spinge ad andare avanti». «La vostra - questo il messaggio di Giorgio Napolitano - è una iniziativa di grande valore simbolico. C´è da augurarsi che questo esempio possa essere seguito anche da altre realtà territoriali».
Certe idee, come le piante, nascono solo se il terreno è quello giusto. «Mio nonno Luciano - racconta il presidente della Provincia - ha lavorato per otto anni nelle miniere di carbone del Belgio. Quasi tutta la periferia di Pesaro è stata costruita da emigranti partiti subito dopo la guerra per lavorare in Svizzera e in Germania e poi tornati a casa quando qui si è avviata l´industria del mobile. Operai che sabato e domenica diventavano muratori e pagavano pietre e cemento con i soldi guadagnati negli anni dell´emigrazione. Come i romeni, gli albanesi, i marocchini di oggi». Ci sono 34.700 residenti stranieri su 360.000 abitanti, in questa provincia. Impegnati alla Scavolini e alla Berloni e anche nell´edilizia. «Ma quest´ ultima è quasi ferma - dice Ricci - e tanti albanesi e romeni sono tornati a costruire case nella loro terra. Non è un caso che il Presidente abbia pronunciato quella frase così netta mentre stava aprendo la strada al nuovo governo. Dare la cittadinanza a chi nasce in Italia è una questione di civiltà - e con la nostra iniziativa faremo pressioni sul Parlamento - ma anche un segnale contro la crisi. Da questa si può uscire con più egoismo e solitudine oppure con più giustizia e solidarietà. Bisogna puntare sui valori, non solo sui numeri».
Si aspetta il ministro Andrea Riccardi, al grande incontro con i nuovi piccoli italiani. «L´altro giorno siamo stati assieme ai senegalesi, per un abbraccio dopo la strage di Firenze. Alla fine una bimba senegalese, avrà avuto cinque o sei anni, ha cantato "Fratelli d´Italia", e conosceva tutte le parole. Meglio dei miei due figli, Camilla e Giovanni. Come puoi dire, a quella bambina, che non è italiana? Come può, un Beppe Grillo, negare il "ius soli" a un milione di bimbi che sono nati nel nostro Paese? E´ solo un populista che parla alla pancia degli italiani, non al cervello e al cuore».
Marhio non piange più, nella sua casa di via Agostini, vicino al mare. Di fronte a lui abita Jurghen - nome tedesco perché suo papà Ardian, partito dall´Albania, ha lavorato anche in Germania - che è nato a Pesaro, frequenta la quinta elementare e dice subito che l´idea della cittadinanza onoraria gli piace molto. «E´ una cosa giusta - dice pesando le parole come se scrivesse un tema a scuola - anche perché io sono italiano. E anche albanese. Ho fatto l´asilo, la materna, il prossimo anno comincerò le medie. Con i miei compagni parlo anche in dialetto, e nessuno mi ha mai detto "albanese" come fosse un insulto». Il papà e la mamma Valbona, operaio e aiuto cuoca, raccontano che Jurghen «faceva ridere» i nonni, quando d´estate tornava a Tirana. «Provava a parlare albanese e nessuno capiva». «Ma adesso sono più bravo. Ogni tanto guardo la televisione dell´Albania, e anche i dvd con i cartoni animati, così imparo nuove parole. E poi sono ancora giovane, imparo presto. Quando vado dai nonni, dopo un paio di settimane riesco a parlare quasi come gli altri, e non li faccio più ridere». Una bandierina con l´aquila nera su fondo rosso in cucina, una grappa albanese da offrire agli ospiti. «Ma noi in casa parliamo italiano - dicono Valbona e Ardian - perché questo è il nostro Paese. Nostra figlia più grande sta facendo l´università a Urbino». La cittadinanza per i figli dovrebbe essere «una cosa naturale». «Vorremmo che i nostri figli fossero considerati una ricchezza, non un problema. Andando a scuola con loro si potrebbero imparare tante lingue, che al giorno d´oggi sono così utili per trovare lavoro». Solo qualche volta, nell´appartamento di via Agostini, si ascoltano parole arrivate dall´altra parte dell´Adriatico. «Quando mi arrabbio con Jurghen, lo sgrido in albanese. "Riurtè, mjaft", stai fermo, basta. E lui ride, fa finta di non capire».

l’Unità 26.1.11
Il bambino transgender
risponde Luigi Cancrini


Il bambino transgender più giovane del mondo, dicono, non sarebbe stato accolto in un gruppo scout americano ma il transengenderismo è una scelta ideologica che solo una persona adulta è in grado di fare. Parlarne a 4 anni è strumentalizzare un bambino che ha una problematica facilmente guaribile con l’ausilio dei genitori e dello psichiatra.
di Gianni Toffali

RISPOSTA  La ricerca moderna sull’orientamento di genere del bambino propone dati in aperta contraddizione con questa affermazione. Il cambiamento di genere non è una scelta ideologica ma una necessità che riguarda un numero ristretto ma significativo di persone il cui diritto a cambiare sesso è riconosciuto da una legge nazionale e dalle Regioni che hanno individuato il servizio pubblico in cui questo tipo di intervento viene realizzato: sulla base di accertamenti medici e psichiatrici molto rigorosi, ovviamente e con l’aiuto di un lavoro psicologico che permette di ricostruire l’origine lontana, intorno appunto ai tre anni, di una diversità che va rispettata e che non andrebbe contrastata né dai genitori né dallo psichiatra. Tormentoso e sostanzialmente inutile, il tentativo di far cambiare idea al bambino o all’adolescente si trasforma facilmente, infatti, in una forma di maltrattamento psicologico. Da evitare assolutamente anche attraverso la diffusione di informazioni corrette agli operatori scolastici e sanitarii cui i genitori propongono la loro ansietà e le loro paure nel momento in cui il loro bambino dimostra il suo bisogno d’aiuto.

il Fatto 26.1.12
Mauthausen. Briciole di pane per farci sgozzare
Gianfranco Maris, deportato nel ’44: “Dite ai giovani cos’era il nazismo”
di Silvia Truzzi


Milano In piazza Partigiani d’Italia, su un tram diretto nei pressi di via Montenapoleone, a pagina 83 di un libro bianco si legge: “Ho visto nella mia baracca, che si andava svuotando perché tutti stavano uscendo per andare alle docce, un compagno deportato, che non conosco, di cui non so neanche la nazionalità, mentre nascondeva nel suo giaciglio un grosso pezzo di pane. È stato in quel momento, quando ho visto il pane, che la fame mi si è presentata come idea. Un’idea che non mi abbandona, che continua a seguirmi nel buio che scende mentre sto andando verso le docce”. Per ogni pidocchio cinque bastonate (Mondadori, 126 pagg. - 17,50 euro, a cura di Mi-chele Brambilla) è la storia di una deportazione, andata e ritorno dalle tenebre dell’umanità. A Mauthausen, Gianfranco Maris c’è arrivato il 7 agosto del ’44: oggi ha 91 anni, un sorriso per nulla incline alla resa e una memoria senza indulgenze né lacrime. Presidente nazionale dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) dal ’78, senatore dal ’63 al ’72 poi membro del Csm, comunista da quando aveva 17 anni, avvocato penalista, riceve ancora nel suo studio.
Perché non ha rubato quel pezzo di pane?
Vede, organisieren è la parola tedesca che gli stessi nazisti diffondevano. Ti rubavano una cosa, tu lo dicevi al kapò e ti sentivi rispondere: “Organisieren, organisieren“. La legge del campo era: ti hanno rubato gli zoccoli, rubali a qualcun altro. Che a sua volta li ruberà. Quel giorno ero sconvolto dalla fame: l’organisieren diventa l’idea che mi domina. All’ultimo momento mi rendo conto che rubando venivo ricondotto alla logica del torturatore. E dico no. Ricordo che tremavo, tremavo per aver pensato che proprio io avrei potuto “organizzare”. Non c’era atto dei tedeschi che non fosse finalizzato alla distruzione dell’uomo.
A cosa pensa?
Al pane, sempre. Ce lo portavano in filoni da un chilo. Un giorno era per otto persone, un giorno per 12: è arrivato a essere per 24. Ce lo davano intero: dovevamo dividerlo noi. Volevano che noi ci sgozzassimo per una briciola. Le briciole erano vitali. (L’avvocato fa rabbiosamente il gesto di raccogliere le briciole con le dita).
E come facevate?
Avevamo fabbricato un bilancino e un coltello. Noi non volevamo diventare nemici. Il pane aveva un significato morale.
Ha mai cercato negli occhi delle Ss un motivo, una spiegazione?
Avevo intuito che se ti mettevi dalla parte della vittima, non avevi scampo. Era impossibile capire tanta ferocia. Lì o eri vivo lavorando o eri morto. I sistemi per sopravvivere li trovavi facendo funzionare il cervello. Tutti quelli che sono stati uccisi, prima di perdere le forze avevano smarrito la lucidità. Quando noi eravamo inquadrati per l’appello i tedeschi fumavano. E poi buttavano la cicca. Allora i prigionieri vicini si buttavano per terra per raccogliere le cicche e fare una boccata. Io li rimproveravo: non volevo che si abbassassero, proprio letteralmente, a raccogliere i loro avanzi.
È stata la disciplina militare a salvarle la vita?
È stata la ragione. Io ho cominciato subito a chiedermi perché ci facevano fare certe cose. Per esempio quando siamo arrivati al campo siamo stati per 15 giorni nudi con un cappello in testa: ci facevano ripetere ossessivamente il gesto di levare e mettere il cappello. Ci volevano ridurre a un’obbedienza meccanica. In cava io lavoravo con il professor Cuneo: un uomo debole nel corpo, ma di cultura formidabile. Portare le pietre con lui era faticoso, ma importantissimo. Ci faceva lezioni sui processi formativi del colonialismo francese o sulla Restaurazione del 1814. Poi avevo organizzato che il giro dopo lo facevo con un altro e gli riportavo la lezione. E la catena continuava. Gli altri, nei momenti di pausa, dicevano: “Mi ricordo gli agnolotti di mia madre”. Ecco, quelli erano destinati alla morte.
Scrive di non essere stato felice il giorno della Liberazione. Perché?
Il 5 maggio a Mauthausen arrivò una camionetta. Esplose un entusiasmo delirante. Dalla torretta vedevo i miei compagni festeggiare e pensavo: sì, siamo salvi. Ma quanti di noi sono morti? Sì, siamo vivi. Ma che cosa abbiamo pagato? Mi vennero in mente alcuni versi che Ungaretti scrisse sull’Isonzo durante la Prima guerra mondiale: “È il mio cuore il paese più straziato”.
Cosa succederà quando l’ultimo testimone sarà morto?
Un’associazione di ex deporta-ti a un certo punto scompare: per questo ho chiesto e ottenuto di creare, all’interno dell’Aned, una fondazione che raccolga e metta a disposizione gli archivi, senza cui il negazionismo sarebbe facile, facilissimo. Io non voglio che si perda la coscienza di cos’è stato il fascismo. La memoria oggi è solo la rievocazione sentimentale delle sofferenze. Non basta. Domani, come accade sempre nel Giorno della memoria, gli studenti andranno ad Auschwitz, vedranno le baracche, i forni, i visi dei morti. Escono e non sanno cos’è stato il fascismo, cos’è stato il nazismo.
Sa di non aver mai pronunciato la parola dolore?
(Silenzio e silenzio ancora. Gli occhi di Gianfranco Maris sono attraversati da un lampo disperatamente tempestoso). È vero. Io ero in guerra, contro un nemico che era nel mio cuore. Pensavo: devo restare vivo per ammazzarli dopo.
Ogni pidocchio cinque bastonate GIANFRANCO MARIS MONDADORI (17,50 EURO)

l’Unità 26.1.11
Piero Terracina e Adolfo Perugia: «Oggi come negli anni 30 non c’è fiducia nelle istituzioni»
Il sindaco e Casapound «Gli abbiamo chiesto di chiudere i rapporti, ma non ha fatto nulla»
«Ora basta tollerare Alemanno chiuda con i nuovi fascisti»
È un momento molto pericoloso», avvertono i due testimoni: «Come negli anni 30 la gente non ha fiducia nelle forze politiche. Qualcuno può avere la tentazione di scaricare le tensioni sociali sulle minoranze».
di Mariagrazia Gerina


«Un po’ di forza ce l’abbiamo ancora per combattere anche se in veneranda età e lo faremo fino all’ultimo», si schermiscono Piero Terracina e Adolfo Perugia, che, alla tenera età di 83 e 80 anni, alla giornata della memoria si preparano come due combattenti in servizio permanente. Pronti a imbracciare ancora una volta l’arma della testimonianza. Contro i fascismi di ogni tempo e natura.
«Se non ora quando?», si infervora Adolfo, ex bambino cacciato dalle scuole di tutta Italia, che, a capo dell’associazione Miriam Novitch, ha più di una volta ha dato del filo da torcere anche al presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici. «Io con quelli che gli altri definiscono post-fascisti mi sono rifiutato di andare ad Auschwitz. E non mi pento. Perché per me non sono post per niente e lo hanno dimostrato», rivendica dal canto suo Piero Terracina, che da quando Alemanno è sindaco ha smesso di partecipare ai viaggi della memoria organizzati dal Campidoglio insieme alla comunità ebraica di Roma. «Furono due fascisti ad accompagnare le SS fin sulla porta di casa nostra», spiega tornando a quel giorno del ‘44 in cui lui fu preso e deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia. «Mi dispiace solo per i ragazzi», aggiunge: «Ormai noi sopravvissuti ci contiamo sulle dita di una mano, dei 2091 deportati di Roma siamo rimasti in cinque o sei e stiamo facendo una gara con-
tro il tempo per andare ovunque c’è qualcuno disposto ad ascoltare la nostra storia». Due tipi difficili da ricondurre dentro una celebrazione stereotipata. Il succo di ciò che hanno da dire questi due anziani signori, che in un pomeriggio di gennaio decidono di convocare l’Unità («che dice l’Unità?», scherza Piero) è che «abbiamo tollerato anche troppo», sbotta Piero: «Siamo arrivati quasi alla ricostituzione del partito fascista». E poi: «Questo è un momento particolarmente pericoloso», avvertono, pensando a quello che sta accadendo nel paese. Ai consiglieri della Lega che invocano i forni, a quelli che se la prendono con i gay, alla spedizione contro i rom di Torino.
COME NEGLI ANNI TRENTA
«Stiamo attraversando una crisi molto brutta. Come negli anni Trenta la gente non ha fiducia nelle forze politiche. Temiamo che la storia possa ripetersi. Perché quando in una società si creano delle tensioni e non c’è fiducia nelle istituzioni è facile che le colpe di quello che non va bene vengano addossate alle minoranze, che non hanno nessuna o pochissime possibilità di difendersi», dispiegano il filo del loro ragionamento. Già suffragato da troppi esempi. «Non importa se riguardano gli ebrei, gli zingari, che come noi sono stati sterminati ad Auschwitz, o gli immigrati: noi abbiamo detto “mai più” e quello per noi è un impegno contro il rinascere di ogni forma di fascismo».
Compreso quello più becero, che trionfa nella capitale. Il cuore di ciò che ai due testimoni della Shoah preme dire riguarda proprio la città in cui vivono. Loro che il fascismo vero l’hanno guardato negli occhi non possono sopportare la fascisteria, le nostalgie, le faide persino, risorte all’ombra del Campidoglio, spiegano passando da un ritaglio di giornale a un documento recuperato dagli archivi. «Questa l’ha scritta Almirante a una deputata, il 17 novembre 1986», dice Piero agitando un foglio autografo: «Puoi stare certa che il mio ultimo respiro sarà fascista nel nostro senso del termine». «Ma come fa Alemanno a dire che su Almirante c’è bisogno di un supplemento di indagine storica?», si inalberano i due sopravvissuti: «Se Storace lo incalza sulla via da intitolare al segretario del Msi, da sindaco di una città che è Medaglia d’oro della Resistenza dovrebbe dire no e basta. E invece la questione non è ancora archiviata e alla fine quella via proveranno la farla: per noi è inaccettabile».
Dei tentennamenti di Alemanno non si fidano Piero e Adolfo. «Alemanno è inaffidabile», ripetono tirando fuori altri fogli. Documentano un Premio intitolato a una ausiliaria scelta e a un comandante della X Mas che da due anni si svolge in Campidoglio, pochi giorni prima del 4 giugno, Liberazione di Roma. Ospiti anche Gabriele Adinolfi, ex terza posizione, e io neo fascista Mario Merlino. «Non ci piacciono i balletti di chi da una parte celebra la Resistenza e dall’altra omaggia chi ha combattuto dall’altra parte».
LE PROMESSE DI ALEMANNO
Più del passato, però, a tormentarli è il presente. «Questi gruppi anche dichiaratamente antisemiti e razzisti, che imperversano su internet», dice Piero, aggiornatissimo. Lui e Adolfo, intanto, tirano fuori altri fogli. Parlano dei «Fascisti del Terzo Millennio» e di Casapound, “ospitati” in uno stabile di proprietà del Comune di Roma. «La loro capacità di penetrare nelle istituzioni locali è tale che persino in Germania li stanno studiando», dicono, leggendo un report: «Nel 2010 recita la formazione di estrema destra Npd ha anche organizzato nel nord della Sassonia una conferenza su Casapound».
Ecco, proprio del movimento che ha sede nel multietnico quartiere Esquilino Adolfo e Piero avevano parlato con Alemanno. «Fu Pacifici a dirci che il sindaco voleva incontrarci, non potevamo rifiutarci», raccontano i due che durante una conferenza stampa avevano tuonato contro un finanziamento a Casapound scoperto in quei giorni. «Alemanno cercò di sminuire le sue responsabilità», ricorda Adolfo: «spiegò che era stata la Destra di Storace a dare quei soldi. Noi, che non ci fidavamo, senza dargli la mano, gli consegnammo dieci punti che avrebbe dovuto rispettare come premessa a ogni dialogo. In sostanza gli chiedevamo di interrompere ogni rapporto con Casapound».
Strabuzzano gli occhi se gli chiedi se l’impegno è stato rispettato. «Non siamo noi a dirlo, è cronaca di questi giorni», rispondono: «Il consigliere diplomatico di Alemanno, che lo ha accompagnato ad Auschwitz, è salito sul palco di Casapound per inneggiare alla repubblica di Salò e lo stesso figlio del sindaco milita in quel movimento».

Corriere della Sera 26.1.12
Non vita quotidiana all'interno dei campi
L'oltraggioso contrasto tra le tavole imbandite dei carnefici e le mischie feroci tra gli affamati per contendersi il pane
di Gian Antonio Stella


«A l di là della strada lavora una draga. La benna, sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida e azzanna vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave e ricomincia. Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d'Adamo danzano in su e poi in giù, miseramente visibili sotto la pelle moscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga».
Bastano queste righe tratte da Se questo è un uomo per avere un'idea di cosa significasse avere fame in un lager nazista. «Non appena il freddo, che per tutto l'inverno ci era parso l'unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame» scrive Primo Levi: «Il lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente». E racconta di un giovane viennese, Sigi, che «ha diciassette anni e ha più fame di tutti quantunque riceva ogni sera un po' di zuppa da un suo protettore, verosimilmente non disinteressato». Il ragazzo, alla vista di quella benna che divora e mastica la terra, «racconta senza fine di non so che pranzo nuziale e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli». (...)
Avevano alle spalle secoli di fame, gli italiani avviati nei lager nazisti. Eppure mai si erano confrontati con quella fame feroce descritta da Primo Levi. Tanto più feroce perché del tutto estranea alle carestie e alle catastrofi «naturali». Ma legata esclusivamente ai capricci scellerati dei carnefici. E resa ancora più insopportabile dal quotidiano, straziante, oltraggioso contrasto con quanto quei carnefici avevano a pranzo e a cena sulle tavole loro.
La triestina Nerina De Walderstein, sopravvissuta ai lager di Auschwitz, Birkenau, Flossenbürg, Plauen, ha raccontato in Testimonianze dai lager, di Rai Educational, l'insulto di certe kapò polacche: «Erano peggio delle SS! Se c'è una cosa che detesto, che non sopporto, sono proprio le polacche! Perdonami, Polonia, ma è così! Tutte quelle che sono state là, hanno subito le angherie delle bloccove e dalle blocstube… La notte, loro mangiavano, bevevano, si divertivano… Le sentivamo mangiare e bere, mentre noi, quasi morte di fame, eravamo là a languire. E loro erano pasciute… Nessuna era magrolina: erano tutte tonde, forse anche troppo, perché sfiguravano con noi…».
I profumi degli spezzatini, delle minestre d'orzo, degli stinchi di maiale che venivano dagli alloggiamenti dei carnefici erano una tortura per chi tentava disperatamente di tirare avanti con una tazza di brodaglia o «quelle rape grattugiate, secche, che gettavano dentro in questa chibla di acqua bollente». Era una tortura mangiarle, quelle rape: «Perché erano come tanti aghi che mandavi giù, ti grattava la gola, tante volte piangevi… Prima di mangiare piangevi, poi mangiavi, perché sapevi che non c'era altro. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano veramente meglio». E tutti lì, ad aspettare la «festa grande» della domenica: «Ti mettevi in fila, ti davano una patata, era festa… La tua festa della domenica: una patata con un pochino di margarina…».
Per questo il libro Padelle, non gavette di Fausto Carriero e Michele Morelli è un piccolo, delizioso miracolo. Perché quei due militari internati prima nel campo di concentramento di Leopoli e poi a Wietzendorf, nella Bassa Sassonia, riuscirono prodigiosamente a conservare, nelle condizioni più difficili (per quanto i due lager non fossero campi di sterminio e i carcerieri fossero probabilmente meno spietati che in altri mattatoi nazisti), una straordinaria vena ironica e autoironica. E il loro quaderno di ricette e memorie gastronomiche, con quelle elaborate leccornie dai nomi abissalmente lontani dalla grama vita quotidiana nelle baracche («Charlot di frutta», «Scorze d'arancio, limone e cedro caramellato», «Chantilly», «Chifel imbottiti»…) e accompagnati da quei teneri disegni che ricordano le illustrazioni dei vecchi sussidiari o di Giamburrasca, è un regalo prezioso. Che ci aiuta, grazie alla pubblicazione che avviene finalmente quasi settant'anni dopo per merito di Fausto Morelli, figlio di Michele, a capire come l'uomo, anche nei momenti più cupi, spaventosi, disperati, possa trovare in se stesso la forza di sopravvivere aggrappandosi alla fantasia, al sogno, all'ironia.
Certo, questa ironia, nelle condizioni bestiali di certi lager, a volte non era proprio possibile. Bruna Bianchi, nel libro Deportazione e memorie femminili, riprende una pagina di Aucune de nous ne reviendra dove l'autrice Charlotte Delbo «ricorda quando lei e le compagne, impietosite dall'aspetto degli uomini che si dirigevano al lavoro in colonna, decisero di raccogliere il pane che le ammalate non si lasciavano persuadere a mangiare e di lanciarlo agli uomini al di là dei reticolati. "È subito mischia. Afferrano il pane, se lo contendono, se lo strappano. Hanno occhi da lupo. Due di loro rotolano nel fossato e il pane sfugge loro dalle mani. Li guardiamo battersi e piangiamo. La SS urla, aizza il cane contro di loro. La colonna si ricompone, riprende la marcia. Sinistra. Due. Tre. Non hanno rivolto la testa verso di noi"».
Lo stesso Elie Wiesel, che pure non difetta di quella dote straordinaria degli ebrei che è proprio l'ironia, ricorda ne La notte la sua liberazione solo con parole crude: «Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né alla vendetta né ai parenti: solo al pane…» (...).
Sì, il meraviglioso «gioco» di Carriero e Morelli in certi lager non sarebbe stato possibile. Appena c'era un piccolo pertugio di umanità nel quale infilarsi, però, erano diversi i prigionieri che ci si infilavano. Lo testimoniano, tra le altre, le memorie di Karla Frenkel, un'ebrea tedesca che riuscì a sopravvivere ad Auschwitz e Bergen Belsen: «Il nostro accompagnatore fisso era la fame e il nostro patrimonio la nostra "scodella", noi la tenevamo sempre sotto il vestito, stretta al corpo, senza di essa eravamo perdute, perché chi non aveva una "scodella" non poteva ricevere la sua "zuppa" ed era così condannata alla morte per fame… Due donne avevano una mania, cucinavano sempre, confrontavano ricette e addirittura litigavano se una "voleva cucinare in modo diverso", a volte intervenivano altre che avevano migliori versioni o non erano d'accordo su come questa o quella "voleva cucinare"...». (...)
Lo conferma ne Le memorie dei sopravvissuti Myrna Goldenberg: «Le discussioni sulle ricette richiamavano alla mente delle donne la vita precedente, quando avevano una loro posizione in famiglia e nella comunità… Ma contribuivano anche a ricordare alle donne quante risorse avessero a disposizione per assistere gli altri, come casalinghe e cuoche fantasiose. Condividere i ricordi riaffermava il senso dell'esistenza di una comunità e scambiarsi le ricette in un contesto in cui l'affamamento era pianificato aveva quindi paradossalmente un effetto terapeutico, se non altro per il lungo tempo che le discussioni occupavano». Quello era il punto: parlare di manicaretti e ricette «aveva un forte effetto psicologico, poiché rappresentava un impegno per il futuro».

Corriere della Sera 26.1.12
Online la lista degli ebrei finiti nei lager
di Antonio Carioti


S ono online da oggi, all'indirizzo www.nomidellashoah.it. Adulti, anziani e bambini, maschi e femmine. Sono i nomi e i dati anagrafici dei circa 7.200 ebrei italiani che vennero deportati dai nazisti durante l'occupazione tedesca dell'Italia tra il 1943 e il 1945.
In grande maggioranza perirono nei lager, meno di un migliaio riuscirono a salvarsi: «A differenza di quanto hanno fatto siti analoghi realizzati in altri Paesi (Israele, Francia e Olanda), abbiamo deciso di mettere sul Web anche i dati dei sopravvissuti, perché furono comunque perseguitati e deportati» precisa Liliana Picciotto, autrice del Libro della Memoria (Mursia) che costituisce la base da cui è partita questa iniziativa del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) per il giorno che celebra l'apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dei sovietici, il 27 gennaio 1945. Mancano al momento gli ebrei dell'isola greca di Rodi (all'epoca possedimento italiano), che furono deportati in massa: sono altri 2.000 nomi che dovrebbero aggiungersi nel corso del 2012: «In agosto siamo andati a Rodi e abbiamo raccolto i dati: si tratta solo di avere il tempo di elaborarli».
Sempre quest'anno l'elenco delle vittime italiane sarà consegnato, nel corso di una cerimonia ufficiale, al sacrario israeliano dell'Olocausto, dove è stato allestito, all'interno del sito www.yadvashem.org, il Database of the Shoah Names Victims, in cui si possono già consultare i dati di circa tre milioni di persone sterminate.
Il sito italiano si apre con una schermata di circa ottanta nomi, scritti in corsivo: «È il nostro omaggio alle vittime — spiega Liliana Picciotto — una sorta di monumento digitale. Ogni giorno la homepage cambierà, con nuovi nominativi in ordine alfabetico, fino a completare l'elenco. Poi si ricomincerà da capo. Invece alla maschera di ricerca per trovare i singoli individui abbiamo dato una forma sghemba, in modo da esprimere il senso di disagio che si prova di fronte a un crimine così immenso: c'è anche la copertina del Libro della Memoria, come segno di riconoscimento nei confronti dell'editore Mursia, che si prese molti anni fa l'impegno di pubblicare il mio lavoro».
Di ogni vittima si trovano la data, il coniuge, il luogo d'arresto e quello di deportazione. Per una parte è disponibile anche la fotografia. «Il sito — precisa Liliana Picciotto — non è rivolto soltanto agli studiosi, che potranno facilmente accedere ai nostri dati da ogni parte del mondo, ma anche ai parenti dei deportati, nella speranza che possano fornire ulteriori notizie sui loro cari e magari foto di famiglia in cui siano effigiati, per arricchire la documentazione e dare ancora di più il senso di quella spaventosa tragedia».

il Fatto 26.1.12
Choc in Germania, a un giorno dal ricordo della Shoah pubblicate parti del Mein Kampf

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/25/iniziativa-choc-germania-giorno-ricordo-della-shoah-pubblicate-parti-mein-kampf/186466/

il Fatto 26.1.12
Coniugi Alemanno. I Pm riaprono il caso picchiatori
Dopo la denuncia del “Fatto” sull’aggressione fascista a Roma
di Marco Lillo Ferruccio Sansa


La Procura di Roma riaprirà le indagini sull’aggressione fascista avvenuta in un comprensorio sulla Camilluccia e coperta per due anni e mezzo da una coltre di omertà e paura. Altro che vicenda irrilevante. Altro che “inaccettabile strumentalizzazione di un familiare minorenne per attaccare Gianni Alemanno”, come ha dichiarato ieri Mara Carfagna. Altro che “barbarie” (riferita all’articolo del Fatto non al pestaggio dei fascisti, ovviamente) come ha dichiarato Fabrizio Cicchitto. L’inchiesta della Polizia presentava delle lacune e il pm titolare, Barbara Zuin, dopo aver letto sul Fatto alcuni particolari che non erano stati evidenziati nelle informative, ha deciso di riaprire l’indagine, per la quale aveva chiesto l’archiviazione, non ancora disposta però dal Gip. Magari si chiuderà comunque con un nulla di fatto ma - per rispetto alle vittime e alla dignità dello Stato - l’istruttoria sarà riaperta e le persone presenti sulla scena (forse anche il figlio del sindaco) saranno ascoltate direttamente dal pm. Anche perché nella strana storia di questo fascicolo ogni giorno Il Fatto scopre circostanze nuove e interessanti.
TRA I TESTIMONI convocati dalla Polizia come persone informate sui fatti c’è anche un signore che si chiama Luigi Bisignani. Proprio lui, l’ex giornalista già iscritto alla P2, finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4 e per la quale ha patteggiato due mesi fa una condanna a un anno e sette mesi. Cosa c’entra l’uomo che sussurrava ai potenti, da Giulio Andreotti a Gianni Letta, passando per le ministre del governo Berlusconi in questa storia di pestaggi e giovani fascisti?
Ovviamente personalmente Bisignani non c’entra nulla mentre è molto importante in questa storia seguire le mosse di un telefonino a lui intestato. Come è stato raccontato dal Fatto ieri, il 2 giugno del 2009 una comitiva di 13enni e 14enni si era “imbucata” in un comprensorio chiuso della Camilluccia per fare il bagno in piscina. I ragazzi, tra i quali c’era anche il figlio di Gianni Alemanno e Isabella Rauti, avevano cominciato a fare saluti fascisti urtando la sensibilità di un altro gruppo, invitato dal figlio di un primario, Carlo Vitelli, e di una giornalista, Ma-rida Lombardo Pijola, che risiedono nel comprensorio. Un amico del figlio della coppia aveva chiesto in malo modo ai ragazzini di destra “imbucati” di smetterla. Per tutta risposta un amico del figlio del sindaco, di nome Tommaso (la cui posizione è stata poi trasmessa alla Procura dei minori da parte del pm Barbara Zuin) aveva ribattuto a muso duro di appartenere al Blocco Studentesco, l’organizzazione che fa proseliti nei licei inneggiando al fascismo. Subito dopo, secondo alcuni testimoni - Tommaso (che sentito dalla Polizia su delega del pm Zuin si è avvalso della facoltà di non rispondere) aveva chiamato alcuni numeri con il suo telefonino. La Polizia aveva esaminato i tabulati e aveva scoperto che le chiamate più interessanti erano poche: quella brevissima (probabilmente un contatto a vuoto) con il leader del Blocco Studentesco a Roma, Guelfo Bartalucci, allora ventenne. Bartalucci, convocato in commissariato aveva ammesso solo di conoscere Tommaso ma aveva negato la sua partecipazione all’aggressione e aveva detto di non ricordare dove si trovasse quel giorno. Subito dopo la chiamata a Bartalucci però dal telefono del piccolo Tommaso partivano altre chiamate, più lunghe, a un’utenza intestata a Luigi Bisignani. Il potente lobbista non era ancora su tutti i giornali per i suoi rapporti con l’allora sottosegretario alla presidenza Gianni Letta o con il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro e i poliziotti non hanno contezza dello spessore del personaggio. Bisignani spiega che forse il telefonino era in uso al figlio Giovanni Bisignani, che oggi ha 21 anni ed è una figura importante nell’area che fa riferimento a Casa-Pound e al Blocco Studentesco e all’epoca del pestaggio era un simpatizzante di destra al quale mancavano solo due settimane al compimento dei 18 anni.
Le indagini non incedono con un ritmo forsennato. Solo un anno dopo, nel settembre del 2010 e poi ancora a distanza di quasi un anno nel maggio 2011 per la seconda volta, il denunciante, il primario Carlo Vitelli, viene finalmente convocato in commissariato per il riconoscimento. Tra le decine di foto che gli mostrano c’è anche quella di Bisignani jr. Vitelli scruta le foto tessera un pò sfocate e - un po’ scocciato per un simile riconoscimento solo a distanza di due anni - risponde che non è in grado di riconoscere nessuno. L’indagine della Polizia non va oltre. Nessuno convoca per esempio l’autista dell’auto che porta via Alemanno jr. Gli amici della vittima del pestaggio, che certamente erano più attenti alla scena della vittima, non sono chiamati a testimoniare. Il pm Barbara Zuin si convince che non c’è altro da fare e chiede l’archiviazione.
IERI Gianni Alemanno e Isabella Rauti hanno emesso un comunicato in cui non spiegano se è vero - come è stato riferito al Fatto da un investigatore - che alla guida della Mercedes che porta via il figlio dal comprensorio sulla Camilluccia c’era un poliziotto che nel tempo libero fa da autista alla famiglia. La famiglia Alemanno però si lamenta: “l’uso di nostro figlio per attaccare noi genitori è tanto più grave quanto è evidente l’assoluta inconsistenza delle illazioni. Nostro figlio”, prosegue la nota, “all’epoca appena quattordicenne, è stato un involontario testimone di un fatto gravissimo - spiega Alemanno -. Respingiamo in maniera netta e decisa l’insinuazione di aver tentato in qualche modo di insabbiare l’indagine: non avremmo potuto, non avremmo voluto, né ne avremmo avuto interesse”. E quindi la famiglia sarà contenta, come Il Fatto, della riapertura dell’inchiesta.

Repubblica 26.1.12
Capitalismo
Dal mercato alle diseguaglianze la crisi di un modello globale
di Federico Rampini


La recessione, i guasti della finanza, la ricerca di alternative: ecco perché anche i teorici del sistema economico dominante lo mettono in discussione
Cinque anni dopo il disastro del 2008 non ne siamo ancora usciti. Tramonta l´illusione di essere di fronte a un normale evento ciclico
La concorrenza tra paesi rischia di incoraggiare una competizione verso il peggio, dove tutti si adeguano al livello più basso

Il capitalismo ha un deficit mortale: di autostima. La crisi di fiducia in se stesso traspare dai dibattiti che animano due dei più influenti media economico-finanziari. Il Financial Times e The Economist dedicano inchieste, dibattiti e analisi a un interrogativo esistenziale: quella che viviamo è una crisi "terminale" o è ancora curabile all´interno delle regole di un´economia di mercato? Ha più probabilità di sopravvivenza il capitalismo di Stato che governa i Bric, cioè Cina India Brasile Russia?
Martin Wolf, l´economista più autorevole del Financial Times, ammette che l´idea di una "estinzione" del capitalismo oggi ha ancora più peso di quanto ne avesse quattro anni fa nell´epicentro della recessione. «Nel 2009 – osserva Wolf – dedicavamo una serie di inchieste al futuro del capitalismo, oggi abbiamo cambiato il titolo e il dibattito ruota sul capitalismo in crisi». La ragione: cinque anni dopo il disastro sistemico del 2008, non ne siamo ancora usciti. Tramonta ogni illusione di avere a che fare con un normale evento ciclico, nella fisiologica "distruzione creatrice". Chiamando a raccolta i migliori intelletti del mondo angloamericano, il Financial Times conclude che per sopravvivere il capitalismo deve affrontare sette sfide. Sono sette temi familiari, in cima alle preoccupazioni dell´opinione pubblica, presenti nell´agenda dei governi e sugli schermi radar degli espertti.
Al primo posto c´è la questione sociale: lavoro e diseguaglianze. Questo capitalismo ha generato società sempre più ineguali e la sua capacità di creare occupazione declina paurosamente. Le cause sono state individuate in passato nella globalizzazione e nel progresso tecnologico; più di recente si è rafforzata la scuola di pensiero secondo cui le diseguaglianze sono "fabbricate" da un sistema politico dove le oligarchie esercitano un´influenza spropositata.
A questo sono collegati altri tre temi. La questione fiscale, che ieri Barack Obama ha messo al centro del suo discorso sullo Stato dell´Unione: il finanziamento della spesa pubblica si è spostato in modo anomalo sul lavoro dipendente, alleggerendo il capitale. Il dinamismo dell´economia di mercato necessita di profonde riforme fiscali, tanto più in una fase di shock demografico per l´arrivo all´età pensionabile delle generazioni più popolose.
Terza questione, il rapporto fra democrazia e denaro; non è solo politica ma anche economica, perché la deriva oligarchica è una "inefficienza" che distorce sistematicamente le decisioni collettive, vedi le lobby scatenate contro le riforme del governo Monti.
Quarto tema nell´elenco del Financial Times è la riforma del sistema finanziario, un cantiere ancora largamente bloccato nonostante lo shock del 2008. La finanza ha sempre avuto una tendenza degenerativa, analizzata dal grande economista Hyman Minsky: dall´arbitraggio delle opportunità si scivola verso la speculazione, da questa si precipita nella frode. È una storia antica ma le potenzialità distruttive sono amplificate dalla dimensione e interconnessione dei mercati finanziari moderni.
È impossibile aggredire le patologie del sistema bancario senza affrontare la questione della corporate governance (numero cinque): l´azienda moderna ha tradito i principi di responsabilità e di controllo, nel momento in cui l´élite manageriale si è affrancata dagli azionisti, per esempio fissando paghe sempre più stratosferiche e inappellabili.
Il problema numero sei è la questione dei "beni pubblici" in una economia globale: il mercato si è rivelato un meccanismo inadeguato a gestire beni universali ma scarsi come l´acqua, l´aria, le risorse naturali; la sicurezza o l´accesso all´istruzione.
Infine, la settima emergenza riguarda la gestione delle "macro-instabilità" e la concorrenza tra sistemi-paese. Il mercato rischia di incoraggiare una competizione al ribasso: in cui tutti i problemi elencati sopra (diseguaglianze, bassa tassazione dei capitali, saccheggio ambientale) si risolvono in una rincorsa del peggiore, verso il minimo comune denominatore. Ci sono però indicazioni contrarie: per esempio società fortemente egualitarie o meno ingiuste della media (Germania e paesi nordico-scandinavi) che si dimostrano competitive nella globalizzazione.
La questione della concorrenza tra sistemi è quella evocata dall´Economist nell´inchiesta sul ritorno del capitalismo di Stato. La Cina è un modello alternativo la cui forza contribuisce al crollo di autostima dell´Occidente. Anche India Brasile e d statalista ha sempre avuto fortuna nelle fasi di decollo iniziale (dalla Prussia al Giappone, all´Italia dell´Iri), poi con l´arrivo alla maturità le crepe del modello dirigista diventano evidenti. In passato però la crisi dei capitalismi di Stato si confrontava con la forza del paradigma "puro", quello americano: oggi invece anche nel cuore di questo modello originario il dubbio esistenziale ha messo radici.

Repubblica 26.1.11
Come ricostruire il consenso sociale. Quell’avidità senza più freni
È Mefistofele a illustrare a Faust che dal desiderio individuale di arricchimento può nascere la prosperità per tutti. Ma ora il meccanismo si è inceppato e il circolo è diventato vizioso
di Giorgio Ruffolo


Ogni regime che abbia una durata considerevole deve poggiare su una base di consenso sociale. Si può parlare di consenso passivo quando si manifesta nelle forme di una violenza repressa ma tollerata a causa della paura che suscita o del castigo divino che minaccia; e di consenso attivo quando procede da un sostegno convinto. Così è per il capitalismo: una formazione storica tanto dinamica e mutevole da chiedersi se le fasi che attraversa possano essere comprese in un concetto unitario.
Il capitalismo nasce da una transizione storica decisiva dai regimi sociali dell´antichità, caratterizzati da rapporti sociali garantiti dalla forza politica e militare a quelli della modernità contraddistinti sempre più dalle relazioni di mercato: una transizione che si compie lentamente nel medioevo. Quella transizione è per lungo tempo ostacolata, in Occidente, dalla morale cristiana, in quanto si fonda su passioni incompatibili con i suoi principi, come l´egoismo e l´avidità.
Questa resistenza è stata definitivamente vinta solo alle soglie della modernità dalla filosofia illuministica e liberale dell´utilitarismo. Fino a quel punto il "pregiudizio" cattolico che preclude al cammello di passare per la cruna di un ago getta sul mercante capitalista un´ombra di discredito.
Il paradosso utilitarista, introdotto da filosofi come Bentham nell´Inghilterra alla vigilia della rivoluzione industriale, permette al capitalismo di liberarsi di questo pregiudizio, fornendogli una preziosa legittimazione morale. Quel paradosso può essere compendiato nella sentenza del Mefistofele goethiano che presentandosi provocatoriamente come lo spirito della negazione, afferma di essere "una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene". A Faust che gli chiede "che dir vuole codesto gioco di strane parole" Mefistofele risponde evasivamente. Gli risponderanno invece gli economisti classici spiegando che il desiderio umano dell´arricchimento investito nella produzione competitiva si tradurrà in ricchezza per tutti, anche se in diversa misura per ciascuno. Dall´avidità può dunque nascere la prosperità.
Si possono muovere due obiezioni a questo ragionamento. La prima, avanzata da Keynes, più che un´obiezione morale è un rilievo pratico. Per superare la riprovazione etica – Keynes afferma – il successo del capitalismo deve essere talmente decisivo da essere inimmaginabile. Il rilievo non convince. Il successo del capitalismo è stato effettivamente vincente.
La seconda è più convincente. L´avidità è una passione incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità si può avvitare in un circolo vizioso di sistematico arricchimento. Fine a se stesso. E allora il tacito accordo che assicura la base del consenso necessario si rompe. È ciò che avvenne dopo la fine della prima guerra mondiale provocando una crisi che sfiorò la catastrofe. È ciò che rischia di avvenire ora se la crisi che ha quasi travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sfocerà in una rovinosa recessione.
È possibile che il capitalismo superi anche questa crisi. Dopo tutto, come è stato detto, il capitalismo ha i secoli contati. Ma è anche possibile che non la supererà se resterà nel vortice del turbocapitalismo, o capitalismo finanziario, che lo ha travolto (Luttwak)
Ha bisogno di ricostituire un equilibrio soddisfacente tra finanza ed economia reale. Ha bisogno di ristabilire un equilibrio tra economia e politica. Ha bisogno di rinnovare quel compromesso storico con la democrazia che gli ha permesso di ritrovare le basi del consenso sociale nell´età dell´oro succeduta alla fine della seconda guerra mondiale.

Repubblica 26.1.12
Sfiducia. I dubbi etici dei giovani americani
Ma la banca non è il Male
di Nicholas D. Kristof


Nella fascia di età tra 18 e 29 anni coloro che non hanno fiducia nel mercato sono più numerosi E si inverte la tendenza dei neolaureati a trovare lavoro nelle società di investimento

Recentemente, parlando allo Swarthmore College, sono rimasto sorpreso da una domanda: per uno studente è immorale cercare lavoro in una banca? Il corollario di questa domanda, è questo: guadagnare milioni di dollari con il private equity è "antietico"?
No, a entrambe le domande.
Guardo con simpatia al movimento Occupy Wall Street, ma bisogna che ci rendiamo conto che la finanza non è il demonio. Le banche hanno dato un immenso contributo alla civiltà moderna: indirizzando il capitale sugli impieghi più efficienti hanno gettato le basi della rivoluzione industriale e della rivoluzione dell´informazione. Anche gli attacchi contro il private equity sono esagerati: non ha lo scopo di distruggere le aziende e raccoglierne le carcasse. L´obbiettivo è quello di acquisire aziende malgestite, renderle più efficienti (a volte licenziando la gente, ma spesso rivoluzionando il modello di impresa) e poi rivenderle realizzandoci un profitto. Questa è la natura dura e spietata del capitalismo.
Spero che i giovani che si dedicheranno alla finanza dimostrino giudizio, equilibrio e principi, invece di avidità e voglia di truccare le carte, come la generazione precedente. Così come i comunisti sono riusciti a distruggere il comunismo, i capitalisti stanno screditando il capitalismo.
Un sondaggio del Pew Research Center, a dicembre, ha scoperto che solo un americano su due reagisce positivamente alla parola capitalismo, contro un 40 per cento che reagisce negativamente. Nella fascia d´età fra i 18 e i 29 anni quelli che avevano una visione negativa del capitalismo erano più numerosi di quelli che ne avevano una visione positiva. Questi giovani americani vedono il socialismo in una luce più favorevole del capitalismo. In altre parole, i capitalisti arraffoni dell´America stanno trasformando i giovani americani in socialisti. Lo scetticismo dell´opinione pubblica è giustificato, a mio parere. Quasi tutte le grandi aziende hanno superpagato i loro amministratori delegati, compensando generosamente non solo i successi, ma anche i fallimenti. Le banche che hanno contribuito a provocare il disastro finanziario in cui ci troviamo sono riuscite a ottenere di essere salvate: hanno privatizzato i profitti e socializzato le perdite. Contemporaneamente, più di 4 milioni di famiglie si vedevano pignorare la casa. Banchieri e azionisti hanno trovato una rete di sicurezza a salvarli dalla caduta, le famiglie dei lavoratori no.
Negli ultimi anni, questo è certo, tutti i giovani che si sono lanciati nel mondo della finanza non l´hanno fatto per smania di riformare questo sistema truccato, ma per spremerlo fino all´ultima goccia. Nel 2007, alla vigilia della crisi finanziaria, il 47 per cento dei laureati di Harvard è andato a lavorare in società del settore finanziario: una colossale misallocation di capitale umano. Magari partono con buone intenzioni, ma poi tutti questi neolaureati finiscono per farsi prendere anche loro dalla smania dell´assalto alla diligenza.
Quando i finanzieri truccano il sistema dovrebbero ricordarsi dell´ammonimento di John Maynard Keynes: «L´uomo d´affari è tollerabile soltanto se è possibile riscontrare una qualche correlazione, anche approssimativa, fra i suoi guadagni e quello che le sue attività hanno apportato alla società».
Le banche e il private equity non sono il male e io non esorterei mai gli studenti del college a tenersene alla larga. Forse i giovani simpatizzanti socialisti di oggi, insieme a una sana regolamentazione e allo sdegno esplicito dell´opinione pubblica, contribuiranno a salvare il capitalismo dai suoi capitalisti corrotti.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Copyright The New York Times-la Repubblica

l’Unità 26.1.11
Libertà, arretrano le grandi democrazie dagli Usa all’Italia
È il 10 ̊ rapporto di “Reporters sans Frontières” che classifica 179 Paesi del mondo e segnala passi in avanti nei Paesi arabi
di Rachele Gonnelli


Un anno grigio, anzi plumbeo, il 2011 per quanto riguarda la libertà di stampa e il lavoro dei giornalisti. E soprattutto nelle grandi democrazie. Non solo nei regimi dittatoriali, che oltretutto nel corso dell’anno sono anche diminuiti, travolti dalle istanze nate e cresciute sull’onda, proprio, del nuovo fenomeno del citizen journalism, il giornalismo “diffuso”, o netizens, il giornalismo che usa i nuovi media come i social network, a cominciare dalle Primavere arabe, dove però, si fa notare, «molti hanno pagato a caro prezzo per la loro copertura di aspirazioni democratiche o movimenti di opposizione». Nel rapporto annuale di Reporters sans Frontières, che prende in esame le diverse situazioni in 179 Paesi del mondo ma il nuovo stao del Sud Sudan risulta «non pervenuto» nel rapporto pubblicato ieri si rileva come la situazione, per ciò che concerne la libertà d’espressione, è sensibilmente peggiorata proprio dove meno si poteva prevedere. Ad esempio negli Stati Uniti, precipitati dal 20 ̊ al 47 ̊ posto in graduatoria. Cioè sotto l’Ungheria e e appena prima dell’Argentina.
L’Italia dell’era «Berlusconi al tramonto» non si posiziona meglio. Riesce 61esima, scivolando giù di 12 posizioni rispetto alla rilevazione dell’anno prima: peggio della Bosnia-Erzegovina e appena meglio della Grecia e di tutta una sfilza di Stati africani in lenta ascesa, dal Mozambico al Senegal. Perché? Non c’è stato alcun giornalista ucciso o incarcerato per i suoi scritti, ma pesano il progetto di legge «Bavaglio» del passato esecutivo e le minacce di morte a una ventina di giornalisti antimafia tra cui Roberto Saviano, Lirio Abbate, Rosanna Capacchione. Oltre alla solita concentrazione di media nelle mani di un solo soggetto: l’ex premier. Insomma, dice l’associazione internazionale, l’Italia è «fuori dagli standard europei» quanto a spazio di manovra per i reporter. Ed è l’autocensura, più delle ventilate norme che imporrebbero bavagli alle intercettazioni e a internet, a mettere la mordacchia alla stampa. Anche se Rsf sottolinea anche, come elementi di giudizio negativi: la limitazione all’accesso alla professione di giornalista e la legge Gasparri, che «ha rimosso tutti i limiti sulla distribuzione delle entrate pubblicitarie, aprendo la porta spesso ad una massiccio riorientamento a favore canali televisivi nazionali, in particolare quelli appartenenti alla famiglia Berlusconi». L’Italia resta nel 2011un Paese dove l’80 percento delle informazioni viene attinta dalla tv. In Francia, che infatti è trenta «gradini» più su, non è così. Per non parlare di Finlandia e Norvegia, stabili prime «della classe».
Nel resto del mondo ci sono miglioramenti sostanziali soprattutto nel Nordafrica, a cominciare dalla Tunisia, ancora 134esima ma in rimonta dopo la «rivoluzione dei gelsomini». Ancora nell’ombra invece l’Egitto, che resta al 166 ̊ posto e perde addirittura 39 posizioni per le molte violenze ai danni dei giornalisti e i blogger arrestati dalla giunta militare. La maglia nera se la contendono i soliti del «trio infernale»: Eritrea, Turkmenistan e Corea del Nord.
Quanto all’America, ciò che Rsf rimprovera maggiormente all’amministrazione Obama è di aver proseguito sulla scia di Bush sul restringimento della libertà d’espressione, a cominciare dalla base di Guantanamo che resta in funzione e rimane anche serrata per qualsiasi visita di giornalisti e organizzazioni di diritti umani. In Europa perde terreno l’Inghilterra, che però rimane a un livello molto alto, al 28 ̊ posto. Ma la libertà di stampa continua a fiorire rigogliosa in Germania, Spagna, Polonia, iniziando a rafforzarsi nell’Est, nei paesi baltici e nei Balcani.
Mentre si confermano in coda la Russia di Vladimir Putin (140esima) per i pochi media che sfuggono al controllo del Cremlino e la Cina (168esima) definita «una mega prigione per giornalisti, blogger e cyber-dissidenti».

l’Unità 26.1.11
Discorso sullo stato dell’Unione. «Uguali opportunità, più equità: chiamatela lotta di classe»
Il ruolo dello Stato Più tasse per i ricchi, puntare sul lavoro e sull’istruzione: «È buon senso»
Obama all’attacco: un’economia per tutti questa è l’American
Più tasse ai ricchi, per «costruire un’economia durevole» meno ingiusta. Nel discorso sullo stato dell’Unione Obama lancia la campagna elettorale sui temi dell’equità. E punta il dito contro la finanza irresponsabile.
di Marina Mastroluca


«Chiamatela lotta di classe. Chiedere a un miliardario di pagare tasse almeno quanto la sua segretaria? La maggior parte degli americani lo chiamerebbe buon senso». Sessantacinque minuti di discorso, per 34 volte Obama ripete la parola tasse, coniugandola variamente con lo stesso concetto: un fisco meno generoso con i più ricchi, per finanziare formazione e infrastrutture, rimettere in moto il Paese, e sì, certo, ridurre anche il deficit. Tasse, 34 volte la stessa parola che mette i brividi ai repubblicani, citata due volte in più di quello che dovrebbe essere un mantra della campagna elettorale democratica: lavoro, posti di lavoro, nell’America che nonostante la ripresa conta ancora oltre 13 milioni di disoccupati. E invece il numero che il giorno dopo si ricorda di più è il 30 per cento, l’aliquota che secondo la Buffett Rule, Obama vorrebbe imporre a chi ha un reddito superiore al milione di dollari. Denaro per accorciare la forbice tra i primi e gli ultimi e mantenere l’America ancorata ai suoi valori, quelli che legano il successo all’impegno, non alla nascita.
Applausi sotto tono, anche la stampa amica il giorno dopo nota il fuggi uggi che segue le conclusioni di Obama, persino tra i democratici un filo annoiati dal già sentito. Ma non è il Congresso americano, impopolare come non mai, la platea a cui il presidente americano parla di equità e di opportunità per tutti, nel discorso che inevitabilmente segna l’avvio della campagna elettorale. Molti temi del 2008, gli stessi già spiegati nel discorso anche un anno fa. Quello che è nuovo, meno presidenziale forse e più elettorale, è il tono. «Più duro» e più desideroso di puntare l’indice contro le storture alla radice di un’ineguaglianza e ingiustizia crescente, in un Paese dove la ricchezza nel tempo si è depositata su un numero sempre più ristretto di persone lasciando gli altri indietro. «Chiamatela lotta di classe», dice Obama, usando le parole con cui i repubblicani lo attaccano. Puro buon senso per i testimonial che Obama ha scelto di invitare al discorso. Accanto alla vedova di Steve Jobs esempio della tecnologia di successo accanto alla segretaria del miliardario Warren Buffett, c’è il dipendente e il datore di lavoro del Nord Carolina, che beneficiano della partenership tra pubblio e privato, c’è il proprietario di casa della Florida che ha salvato il suo tetto grazie al programma di rifinanziamento del mutuo voluto dalla Casa Bianca: classe media sull’orlo del baratro a cui lo Stato ha teso una mano. È a loro che parla Obama, è per loro che rivendica un ruolo protagonista della politica in economia.
ISTRUZIONE, ENERGIA PULITA & CO
«Dopo aver flirtato con il ruolo di ragionevole centrista» dopo la sconfitta di midterm, Obama ha scelto di puntare alla rielezione come «un populista liberal», scrive il New York Times. Che sintetizza il suo discorso in una parola: «more», di più. Più spese sull’istruzione, sull’energia pulita, sull’assistenza ai detentori di un mutuo, sulle opere pubbliche. Più spese per detassare le imprese ad alta tecnologia e le manifatture, quelle che riqualificano i lavoratori e non delocalizzano, che rinnovano... Più tasse ai più ricchi, per avere tutto questo. Perché la gara è truccata se le regole non sono le stesse per tutti. Lo confermano i sondaggi: quello che davvero preme agli americani non è l’eguaglianza in odor di socialismo ma l’accesso alle opportunità: una porta un tempo spalancata, ora forse solo uno spiraglio.
Lotta di classe, istigazione all’odio
sociale e alla divisione, come contestano i repubblicani, avvinghiati al credo del taglio del deficit e delle spese, come se quei buchi nelle casse dello Stato non avessero a che fare con gli sconti fiscali. Obama ha toccato marginalmente il problema della voragine dei conti la stampa glielo rimprovera. Ma alla classe media malamente scottata dalla crisi ha promesso di cancellare l’impunità della finanza, con regole più stringenti e una speciale sezione del Dipartimento alla giustizia per investigare sul marasma del credito. «Chi ha infranto la legge ne sarà tenuto responsabile, aiuteremo i proprietari a voltare pagina dall’era di irresponsabilità che ha danneggiato tanti americani».
Un discorso divisivo, per i repubblicani, inutili quando «siamo ormai poco distanti dalla Grecia». Il Wall Street Journal critica i toni da campagna elettorale, viziati da una ripresa troppo debole. Ma potrebbero anche funzionare, avverte, se i repubblicani nominassero un candidato «troppo cauto o colpevole» per rispondere.

l’Unità 26.1.11
«Discorso coraggioso al cuore della crisi globale»
Le opinioni degli scrittori James Grady (quello dei «Sei giorni del Condor») e Joe Lansdale e dello studioso William Farris: «È stato commovente:
ha colto il tema cruciale della nostra epoca, quello del divario economico»
di Ock Reynolds


Ci troviamo alle prese con una crisi economica globale. Ciò che potrebbe accadere a Roma, Atene e Tokyo la settimana prossima avrà effetti su tutti, proprio come i malanni della classe media americana impatteranno sulle grandi aziende cinesi. I politici privi di una visione globale porteranno i rispettivi paesi sull’orlo di una crisi economica incontrollabile. Ma non è questo il caso di Obama...». Non tutti sanno che gli autori di bestseller americani tendono a eludere qualsiasi domanda politica. James Grady, invece, autore del fortunatissimo I sei giorni del Condor (da cui il celeberrimo film di Sydney Pollack con Robert Redford), non si sottrae a un commento.
Da buon barricadero, Grady è convinto che «il debito e la crisi dell' Europa, le enormi difficoltà finanziarie dell'America e i sommovimenti che hanno scosso l'Asia siano stati cristallizzati dalla Primavera araba e dall'eco dei movimenti di occupazione di Wall Street e di altri luoghi simbolo. Nondimeno, il discorso di Obama non sarà accolto con favore da nessuna delle due parti. I repubblicani si sono scontrati tra loro e poi hanno cercato di attaccare Obama sulla base di slogan tali da non poter accogliere le sue parole, dato che invitano a reazioni riflessive e creative e a sacrifici. Quanto ai democratici, loderanno il suo discorso, iniziando peraltro a lagnarsi della dura strada da percorrere e cercando di non alienarsi nessuna fetta di elettorato. Il discorso di Obama ha posto le basi comuni per fare passi avanti, ma i politici e i poteri forti di entrambi gli schieramenti si faranno beffe di qualsiasi cosa che non tenda a far progredire gli interessi di parte, interessi spesso mascherati».
William Ferris, docente di storia e cultura sudista presso la University of North Carolina, consulente di Bill Clinton e autore dello splendido Il blues del delta (per chi in Italia voglia davvero capire da cosa nasce questa musica), è stato uno dei primi bianchi del Mississippi a frequentare la comunità afroamericana in un periodo storico, i primi anni Sessanta, in cui farlo poteva costare molto caro a un cittadino bianco, persino la vita.
Ecco come ha accolto le parole di Obama. «Credo che quello del presidente sia stato un discorso eloquente e commovente, incentrato sulla questione fondamentale del nostro Paese, il divario crescente tra ricchi e poveri, una questione che attanaglia altri popoli e altri paesi in tutto il mondo. Oggi, più che mai, l'America è legata a doppia mandata al resto del mondo. Il nostro futuro dipende intimamente da quello di ogni altro Paese. I nostri legami con Europa, Cina, India e Africa sono profondi. È per questo che l'elezione del presidente Obama è stata accolta dovunque con grandi festeggiamenti, in quanto forte segno di speranza trasmesso dagli Stati Uniti al mondo intero. Il suo discorso è stato seguito con attenzione e con grande speranza in altri Paesi che si trovano ad affrontare problemi analoghi ai nostri. Il popolo americano e altri popoli condividono il divario crescente tra ricchi e poveri e il disincanto dei giovani. Pertanto, quando il presidente Obama affronta con coraggio tali questioni, parla a nome di tutti i popoli e offre a tutti noi una speranza per il futuro».
Ne abbiamo parlato anche con Joe R. Lansdale, beniamino del pubblico italiano, autore, tra le altre cose di In fondo alla palude e di La sottile linea scura, uno che a New York rischia di passare quasi per reazionario, mentre nel suo Texas lo considerano un mezzo marxista. «Non avrei mai pensato di assistere a una spaccatura così netta fra ricchi e poveri. In parte è dovuta all'avidità di chi sta sopra e in parte all'avidità di chi sta in basso. Ma la verità è che la tecnologia ha distrutto molte professioni e fatica a crearne altre. Spero che le nuove politiche di Obama aggiustino le cose. È fondamentale affrontare questi problemi in un’ottica globale e non come se fossero esclusivamente americani».

l’Unità 26.1.12
Ritorno a Piazza Tahrir tra disincanto e orgoglio
«Rifaremo la rivoluzione»
Un anno dopo, due milioni nella piazza-simbolo della primavera egiziana
Lo scrittore Ala al-Aswani a l’Unità: «Torneremo nelle strade, la lotta non è finita»
di Umberto De Giovannangeli


Un anno dopo, la Piazza non smobilita. Ma rilancia la sua sfida di libertà. Una marea umana riempie la piazza del Cairo simbolo della rivoluzione che prese avvio il 25 gennaio 2011 e portò alle dimissioni di Hosni Mubarak. È un giorno di festa e di lotta quello vissuto dai due milioni di egiziani che hanno riempito piazza Tahrir e tutte le vie del centro del Cairo. Bloccato anche il ponte dei leoni che accede direttamente su piazza Tahrir. La rivoluzione non si arresta. A darne conto è scrittore egiziano Ala al Aswani, famoso in tutto il mondo per il romanzo Palazzo Yacoubian.
Aswani giustifica così la necessità di scendere nuovamente in piazza pacificamente: «Abbiamo recuperato la nostra dignità? Stiamo toccando con mano che c’è giustizia? Gli assassini dei manifestanti sono stati puniti? Una giustizia sociale minima è stata instaurata?», si chiede lo scrittore, dando per scontata la risposta negativa. Secondo Aswani, ad un anno dalla rivoluzione l’unico obiettivo raggiunto è il processo all’ex rais Hosni Mubarak, ai suoi figli e ai suoi consiglieri. «Dobbiamo scendere nelle strade come abbiamo fatto oggi (ieri, ndr) aggiunge lo scrittore non per celebrare una rivoluzione che non ha realizzato i suoi obiettivi ma per manifestare pacificamente la nostra determinazione a realizzare questi obiettivi».
L’ex candidato alla presidenza egiziana Mohamed El Baradei guida uno dei cortei dei movimenti che fa ingresso a piazza Tahrir. «Abbasso il potere militare» è lo slogan dei manifestanti. «Lavorare per il ritorno immediato dell’esercito alle caserme non è la priorità del momento dice il premio Nobel per la Pace raggiunto telefonicamente dall’Unità -. Ciò su cui dobbiamo accordarci è come raggiungere gli obiettivi della rivoluzione, iniziando dal redigere una vera Costituzione democratica e ristabilire l’economia». L’ex direttore dell’Aiea aggiunge che bisogna laorare per «ristabilire la sicurezza, l’indipendenza del sistema giudiziario e dei media e per garantire che le persone responsabili di omicidi dei manifestanti vengano perseguite».
Un altro candidato presidenziale, l’ex segretario della Lega Araba Amr Mussa, arriva in piazza con un altro corteo. «Il Consiglio militare rispetti l’impegno di cedere il potere entro il 30 giugno. Oggi non dobbiamo festeggiare ma trarre le nostre lezioni», afferma». In piazza c’è anche l’attuale segretario generale della Lega Araba Nabil el Araby. Accolto come un «eroe» della rivoluzione, è Alaa Abdel Fattah, il blogger e attivista detenuto dalla giustizia militare per due mesi e rilasciato il giorno di Natale. Fattah si è presenta in piazza col figlio Khaled, nato mentre era ancora in prigione. In vari punti della piazza sono state montate tende e collocati striscioni con slogan contro il Consiglio supremo delle forze armate, al potere dalla caduta di Mubarak. In Egitto si leva infatti sempre più forte la voce di quanti chiedono il passaggio dei poteri alle autorità civili. Piazza Tahrir nel primo anniversario della rivoluzione, racchiude tutto l’Egitto, dice Laila, preside di una scuola, attiva nei movimenti rivoluzionari e rientrata in Egitto dopo 40 anni passati negli Usa. Ci sono i rivoluzionari, le classi medie, giovani e anziani, i più poveri, molti che sono arrivati dalle campagne e che hanno passato la notte sui marciapiedi aspettando la grande giornata. Ci sono i Fratelli musulmani che danno prova della loro organizzazione, schierando i servizi d’ordine ai check point e facendosi riconoscere con berretti da baseball verdi col simbolo del partito Giustizia e libertà. Ci sono i salafiti e le donne in niqab. Si raccolgono sopratutto attorno alla moschea di Omar Makram, che dà sulla grande spianata al centro del Cairo. Ma anche se l’aria è di celebrazione e l’afflusso di persone è talmente enorme che già a metà pomeriggio non si riesce nemmeno più a entrare nella piazza, molti ritengono che non ci sia molto da festeggiare. I movimenti rivoluzionari organizzano cortei, che arrivano scandendo lo slogan «Questa non è una festa, è una rivoluzione».
Molti indossano maschere con le immagini dei martiri morti durante la rivoluzione e nei violenti scontri di novembre e dicembre. Fa il suo ingresso in piazza, accolto da decine di persone che lo avvicinano per salutarlo, Saad Eddin Ibrahim, figura molto nota dell’opposizione a Mukarak, incarcerato per tre anni nel 2000 e accusato a più riprese di diffamare l’immagine dell’Egitto dal passato regime. «Oggi qui in questa piazza mi sento orgoglioso e per tutto quello che ho passato mi sento vendicato, ma la rivoluzione non finisce qui», dice. La questione tuttora aperta per molti movimenti rivoluzionari è la permanenza al potere del Consiglio militare. Nemmeno la mossa di abolire parzialmente lo stato d’emergenza, annunciata l’altro ieri in un messaggio televisivo dal capo dei militari Hussein Tantawi, ha convinto. Anzi.
Per l’attivista dei diritti umani Momhsen el Bahnasi è inutile annullare lo stato d’emergenza senza fare altrettanto della legge che lo instaura: «Le polizia militare può fermare un attivista con la scusa che sta mettendo a rischio la sicurezza. Se il maresciallo Tantawi fosse stato sincero avrebbe dovuto chiedere all’assemblea del popolo di sospendere la legge d’emergenza». È quanto sottolinea anche il neo parlamentare indipendente Amr el Shobaki, circondato da attivisti mentre tenta di avvicinarsi a piazza Tahrir: «Il Consiglio militare vuole mostrarsi più democratico dei deputati, ma noi fa notare abbiamo già presentato una proposta per l’abolizione di tutte le leggi eccezionali».
E così, in serata, mentre i Fratelli musulmani, prima forza politica nel nuovo Parlamento che si è appena insediato, cominciano a lasciare la piazza, alcuni dei principali movimenti, come il 6 aprile e l’Unione dei giovani rivoluzionari, lanciano un sit-in. «Rimarremo qui fino a quando i militari non lasceranno il potere», annunciano. La Rivoluzione continua.

Repubblica 26.1.12
Piazza Tahrir un anno dopo
Quel che resta della Primavera
di Bernardo Valli


Anche alla festa di ieri i movimenti d´avanguardia hanno chiesto il ritiro dei militari
"Ho voluto indagare come mai un poveraccio fosse diventato un nemico del popolo"

La "primavera" è incompiuta, ma non si è spenta, continua, un anno dopo, sotto la tutela dei generali. È un po´ come se fosse imprigionata in una camicia di forza, dalla quale cerca di liberarsi. Potrebbe anche riuscirci, col rischio di provocare una controrivoluzione. Un colpo di Stato. Non si schioda in pochi mesi un regime militare che ha sessant´anni. Bastava un´occhiata alle immagini di ieri, al Cairo, dove si ricordava la prima manifestazione di piazza Tahrir, quella del 25 gennaio 2011, per rendersi conto che l´allegro sventolio di bandiere, i sorrisi, gli slogan scanditi con entusiasmo sulle sponde del Nilo, non riescono più a nascondere la tensione tra le fazioni, sostituitasi allo spirito unitario delle prime ore o dei primi giorni.
Spontaneità e ambiguità convivono nell´edizione egiziana della primavera araba: ed erano evidenti nel momento della memoria.
L´ambiguità era leggibile nell´atteggiamento del Supremo Consiglio delle Forze armate, detentore del potere dopo la destituzione di Mubarak, il raìs adesso sotto processo. I generali hanno dichiarato festa ufficiale l´anniversario del 25 gennaio, quindi dello scoppio della rivoluzione che subiscono e cercano nella realtà di contenere e di castrare. Di soffocare anche nel sangue, poiché contandoli soltanto a partire da ottobre i morti ammazzati sono stati almeno ottanta. Tutte le rivoluzioni sono destinate a frantumarsi in fazioni e correnti. I movimenti che ieri hanno percorso il centro della capitale erano cinquantacinque, radunatisi in dodici luoghi diversi prima di convergere su piazza Tahrir. Ma su tutti dominavano i Fratelli musulmani, che hanno appena conquistato alle elezioni quasi la metà dei seggi della Camera dei deputati.
I quadri del loro partito, "Libertà e Giustizia", guidavano i militanti ben inquadrati, e distinguibili per le bandiere e i simboli. E sembravano garantire l´ordine, in assenza dei militari (prudentemente invisibili), dei quali hanno sposato il programma. Secondo il quale il Supremo Consiglio delle Forze armate trasferirà i poteri soltanto alla fine di giugno, quando dovrebbe essere eletto il presidente della repubblica. Un calendario non condiviso dai gruppi laici, ai quali si affiancano non pochi giovani Fratelli musulmani disubbidienti al loro partito. Quei movimenti d´avanguardia continuano a chiedere, con spontanea tenacia, l´immediato ritiro dei militari nelle caserme, in particolare adesso che il Parlamento è stato eletto.
Essi temono che i generali influiscano sulla commissione incaricata di preparare la nuova Costituzione, da approvare con referendum prima dell´elezione presidenziale all´inizio dell´estate. Un programma poco credibile per via dei tempi tanto stretti da sembrare impraticabili, quasi fossero una trappola. Anche perché resta ancora da eleggere il Senato, destinato ad essere un ramo consultivo del Parlamento. I generali non lasceranno tanto facilmente il potere, che gestiscono dal 1952, quando hanno cacciato re Faruk e hanno proclamato la repubblica. I presidenti da allora sono sempre stati dei militari: Naguib, Nasser, Sadat, Mubarak. L´idea di un presidente eletto appare ai loro occhi un´eresia. Tanto più che le Forze armate non sono confinate nelle caserme. Controllano almeno un terzo dell´economia: ospedali, alberghi, campi petroliferi, fabbriche di alimentari e di armi. E pesano sulla giustizia. Grazie allo "Stato di emergenza", ancora in vigore, i tribunali militari hanno processato negli ultimi mesi dodicimila «delinquenti», non pochi dei quali erano militanti di piazza Tahrir. Puntualmente i generali promettono di essere più rispettosi delle libertà individuali.
Benché colti di sorpresa dalla rivolta del gennaio 2011 alla quale si sono subito accodati, salvaguardando abilmente i rapporti con i militari, gli islamisti hanno dominato la manifestazione di ieri. Oltre ai Fratelli musulmani, rappresentanti una forza moderata, c´erano i salafiti, gli integralisti dell´Islam, con barbe, bandiere e senza donne. Il loro nuovo partito, el-Nur (la Luce), ha raccolto un quarto dei voti, portando al settanta per cento la presenza degli islamisti in Parlamento. Ma essi non sono gli alleati naturali dei Fratelli Musulmani. Sono piuttosto i concorrenti. I Fratelli, ansiosi di provare il loro spirito democratico, non vogliono compromettersi con i salafiti il cui fine è l´applicazione della legge coranica, e pare preferiscano stringere intese con i laici, minoritari, ma ben presenti nel Parlamento, con poco meno di un terzo di deputati, oltre che nella società.
La prima domanda riguarda la natura della "primavera". E´ araba o è islamica? I Fratelli musulmani si sono inseriti in un processo di democratizzazione che non hanno scatenato. Che li ha, appunto, colti di sorpresa. L´avanguardia liberale, all´origine della primavera araba, non ha potuto, non ha voluto, non ha tentato di prendere il potere. C´è stata una protesta. C´è stata una rivolta, che ha spalancato un vuoto. Ma non c´erano veri rivoluzionari, o non ce n´erano di abbastanza forti per esserlo sul serio, quindi non poteva esserci una vera rivoluzione. La rivoluzione potrà prendere corpo col tempo.
In questo primo anno a inserirsi nella breccia aperta dalle avanguardie liberali è stata la sola forza formatasi in decine di anni di lotta politica contro regimi autoritari. I Fratelli musulmani, passando dalle prigioni alla semi clandestinità, dal fanatismo della jihad a un´opposizione politica, e accettando un vago fluttuante riconoscimento, mai ufficiale, si sono dotati di un´organizzazione capillare nella società abbandonata a se stessa. Hanno creato scuole, ospedali, centri di assistenza, un welfare che lo Stato non pensava di finanziare. Oltre che affondare radici nell´Egitto religioso e spesso analfabeta, hanno esteso la loro influenza ai ceti medi, conquistando le classi professionali, medici, avvocati, ingegneri.
Essi non hanno tuttavia arricchito le dinamiche avanguardie liberali. Al contrario. Rappresentano ormai una forza moderata ma una forza conservatrice. Pronta ad accettare la democrazia ma non a promuovere una società liberale. Non impongono la sharia, la legge coranica, ma predicano i valori della famiglia, hanno tratto insegnamenti dal fallimento dei regimi ideologici e guardano con interesse l´AKP, il partito turco, islamico - conservatore, rispettoso dei principi essenziali della democrazia e al tempo stesso dell´Islam. Tengono conto degli imperativi strategici, e non mettono in discussione ad esempio la pace con Israele, anche se pensano a una pace fredda. Insomma, l´islamismo, nella versione dei Fratelli Musulmani, che ha conquistato quasi la metà del nuovo Parlamento, e che dovrà presto governare, è profondamente cambiato. Appare insensibile ai vecchi richiami della jihad. Si è imborghesito.
Per ora tra islamisti e militari esiste più una tregua che un´intesa. I generali hanno promosso le elezioni e quindi favorito il successo dei Fratelli Musulmani, i quali non possono che essere riconoscenti. Tuttavia la legittimità acquisita con il voto democratico è destinata scontrarsi con il diritto di essere al di sopra della democrazia in gestazione, che i militari si aggiudicano in quanto garanti dell´unità e della sicurezza del paese. Sarà difficile evitare una prova di forza, anche perché i movimenti sociali si moltiplicano. Dai primi giorni si sono formati liberi sindacati operai che hanno infranto il monopolio del sindacato ufficiale. Anche su questo terreno si è manifestata l´ambiguità dei militari. Non hanno proibito i nuovi sindacati ma non li hanno neppure autorizzati. La pessima situazione economica, che sta minando ancor più la disastrata società egiziana, costringerà a scoprire le carte. La "primavera" è in mezzo al guado, tra rivoluzione e restaurazione.

Repubblica 26.1.12
Il regista Nasrallah ha finito di girare "Dopo la battaglia", il primo film sulle proteste
"La storia di un cammelliere per raccontare la rivoluzione"
"L´ultima scena è il massacro dei copti a Maspero. Lì l´esercito rivelò il suo vero volto"
di Laura Putti


Yousry Nasrallah è il più grande dei registi egiziani, è un copto, un intellettuale e un rivoluzionario. Un anno fa la sua vita è cambiata. Il 2011 era iniziato con una sceneggiatura alla quale teneva molto e con un film in preproduzione. Ma il 25 gennaio ha sconvolto i piani. «Non avrei più potuto girare qualcosa che non fosse ambientata nella Piazza Tahrir» dice. Nasrallah prima di essere cineasta (e dopo una laurea in Scienze economiche) è stato giornalista. È il primo ad ammettere che fare un film su un momento storico che, più che risposte, pone ancora molte domande, è stata durissima. Ma il film sarà pronto per marzo (e per il Festival di Cannes) e si intitolerà Dopo la battaglia. Racconta un triangolo amoroso al Cairo: una ragazza borghese e laica innamorata di un povero cammelliere per turisti alle piramidi, manipolato dai clan vicini a Mubarak, e la moglie di lui, analfabeta, ma forte e intelligente.
Qual è la storia?
«Non è importante la storia. È importante il contesto nel quale il film si svolge e come questo contesto influenzi le vicende dei protagonisti. Mi sono ispirato a Europa ´51 e in generale agli altri due film di Rossellini girati nell´immediato dopoguerra: Paisà, Roma città aperta. Le storie c´erano, ma c´era soprattutto un cinema che doveva raccogliere i pezzi dopo decenni di fascismo. Un cinema che doveva ridare un´anima e una dignità a un popolo al quale una dittatura le aveva sottratte».
Ha girato in Piazza Tahrir?
«Sì. Il film inizia con le immagini (reali) di quella che noi chiamiamo "La battaglia dei cammelli", quando cammellieri a cavallo caricarono i rivoluzionari sulla piazza. Era il 2 febbraio e protestavano a loro modo per la fame dei loro figli a causa della mancanza di turisti, per i loro cavalli che morivano, per i cammelli condotti al mattatoio. Erano i traditi della rivoluzione. Mahmoud, il protagonista del film, è uno di loro. Il film finisce il 15 ottobre con i fatti di Maspero, quando l´esercito attaccò una manifestazione pacifica di cristiani copti uccidendone 27, rivelando così il suo vero volto».
Come può un rivoluzionario fare un film dalla parte di un cammelliere, incarnazione della controrivoluzione?
«Perché è a partire dalla sua storia che potrò raccontare la rivoluzione. I cammellieri sono stati strumentalizzati dall´esercito. Dissero che erano armati, ma osservando al ralenti il video della "battaglia dei cammelli" (per il mio episodio in 18 giorni, film collettivo di registi egiziani, cui ho partecipato, subito dopo il 25 gennaio), mi accorsi che l´unica arma che avevano era la frusta, il loro strumento di lavoro. Li mandarono in piazza allo sbaraglio i loro padroni, tutti appartenenti a clan che durante la dittatura erano nel partito di Mubarak, sempre appoggiati dallo stesso esercito che ora dice di sostenere la rivoluzione. Cavalieri e cammellieri si sono fatti massacrare, la piazza li ha battuti e cacciati violentemente. E allora mi sono chiesto: un poveraccio che si è sempre guadagnato il pane sostenendo Mubarak e adesso è trattato come un nemico del popolo, come fa per ricostruirsi come essere umano?».
È ottimista, a pensare che con il voto del cammelliere le cose cambieranno in meglio…
«Non sono né ottimista, né pessimista. Non è questa la questione nell´Egitto di oggi la cui metà è analfabeta. Chi è abituato alla cultura e alla democrazia non potrà mai capire come, per esempio, dei copti abbiano votato per i salafiti. Ma, dopo la vittoria degli islamici alle elezioni di novembre, ci sono spesso episodi divertenti: in una piccola città del Delta i salafiti hanno cercato di chiudere i saloni dei parrucchieri e le donne li hanno cacciati con i bastoni. L´Egitto ha una società civile e femminile abituata a certi diritti. Non sarà facile per gli islamici cambiare questa maniera di vivere; e non sarà facile per noi conservarla. Quindi siamo tutti nella stessa barca. Ci siamo sbarazzati di Mubarak, ma qual è il nuovo Egitto che vorremmo?».

Repubblica 26.1.12
Le emozioni sociali
Dalla paura alla vergogna, così nasce l’etica
di Antonio Damasio


Il neuroscienziato dialogherà sabato, nell´ambito del Premio Nonino, con il teologo Hans Küng sui temi della morale. Ecco le sue idee sull´argomento
Ci sono comportamenti degli animali che indicano che quelli analoghi degli uomini non dipendono dalla ragione
Certi sentimenti prevalgono perché aumentano le possibilità di sopravvivenza indipendentemente dai pensieri consapevoli

Qual è l´origine della moralità umana? Le regole e le convenzioni morali sono costruite da un modo di ragionare consapevole, o nascono da processi inconsci? Ci sono sempre più prove che i comportamenti morali abbiano origine da processi inconsci, presenti negli esseri umani e in altre specie, quali i mammiferi il cui cervello ha molto in comune con il cervello umano. Ma questo non è tutto. Per la moralità umana c´è qualcosa di più delle direttive biologiche inconsce.
Per spiegare quello che voglio dire, comincio con l´esempio delle arvicole della prateria, una specie di roditore, in cui l´accoppiamento provoca il rilascio dell´ossitocina neuropeptide nelle parti del cervello collegate alle emozioni. Questo accade sia nel cervello dei maschi che in quello delle femmine. Il rilascio di ossitocina ha come risultato un attaccamento monogamo fra maschio e femmina; uno stretto legame e attaccamento della madre ai suoi piccoli; e un coinvolgimento del maschio nella cura della progenie. La soppressione del gene responsabile della produzione di ossitocina previene del tutto questi comportamenti.
L´attaccamento e la preoccupazione per gli altri, evidenziati da questi animali, non sono proprio come le azioni morali che gli esseri umani compiono in circostanze simili, ma la somiglianza è significativa. Il fatto che tali comportamenti perfettamente mirati esistano negli animali indica che i comportamenti umani che intervengono in circostanze paragonabili non sono stati inventati dalla ragione umana. I comportamenti umani paragonabili sono variazioni su precedenti biologici che sono emersi nell´evoluzione biologica senza l´ausilio della ragione.
Numerose emozioni umane, in particolare quelle che comunemente vengono definite sociali, quali la compassione, l´ammirazione, la vergogna, la colpa, il disprezzo, l´orgoglio, e la gratitudine, incorporano valori morali. L´ammirazione, per esempio, consiste di specifici comportamenti diretti verso altri, che danno una ricompensa per azioni che altri hanno compiuto. Questo implica un giudizio morale positivo. Il mostrare vergogna o colpa, implica giudizi che riguardano se stessi, assieme ad azioni e pensieri auto-punitivi. Ma molto spesso le emozioni intervengono prima che sia stato formulato un giudizio consapevole. La neuroscienza dimostra che i meccanismi per l´esecuzione e la pratica di queste emozioni utilizzano strutture del cervello coinvolte nel modo di regolare la vita. Assieme al fatto che negli animali ci sono precursori di tali emozioni, questo suggerisce una precedente origine evolutiva per questi processi cerebrali. Queste emozioni sono state selezionate nell´evoluzione perché contribuivano a migliorare la gestione della vita risolvendo i problemi sociali. Queste emozioni prevalevano perché aumentavano le possibilità di sopravvivenza prima che il ragionamento consapevole apparisse per la prima volta. In breve, le azioni con "contenuto morale" non sono state inventate dalla ragione.
D´altra parte, le vere regole e convenzioni sono creazioni umane. Hanno origine dall´accettare come vantaggiose, intuizioni e credenze precedenti derivanti da emozioni sociali, e trasformare tale accettazione in regole esplicite. Oppure dal rifiutare come errate alcune di queste intuizioni e credenze e trasformare tale rifiuto in una regola esplicita. In altre parole, non dovremmo ridurre il comportamento morale umano a programmi emotivi naturali. La natura è noncurante, poco scrupolosa, e moralmente indifferente. Imitare la natura non è affatto il modo per creare la moralità. Tuttavia i comportamenti emotivi che hanno favorito la vita negli organismi più semplici durante l´evoluzione, hanno generato alcuni comportamenti validi che sono stati incorporati con grande vantaggio nel comportamento morale umano. L´altruismo è un buon esempio.
La creatività e la ragione hanno esteso le "scoperte" della natura e la portata delle regole biologiche alla sfera sociale umana. Lungo il percorso hanno inventato l´omeostasi socioculturale. L´omeostasi di base del corpo umano (cioè la tendenza al raggiungimento di una relativa stabilità interna delle proprietà di un organismo vivente, n.d.r.) è automatica e inconscia, per garantire la nostra sopravvivenza. L´omeostasi socioculturale, invece, è deliberata e consapevole. La moralità è la conseguenza principale dell´omeostasi socioculturale.
L´ironia, naturalmente, è che un comportamento morale deliberato e consapevole può essere perfezionato al punto di diventare una "abilità automatica" per i problemi morali che si incontrano più di frequente. Con la pratica si raggiunge la perfezione, e, nelle situazioni quotidiane, il compimento di azioni morali diventa, ancora una volta, meno dipendente da un ragionamento consapevole, non dissimile dalle buone emozioni sociali che all´inizio hanno guidato il comportamento umano. Ma quando gli esseri umani si confrontano con problemi nuovi, allora, ancora una volta, la ragione consapevole e la creatività li aiuteranno a trattare la situazione in modo veramente morale.

Repubblica 26.1.12
Liste
Troppi impegni, poco tempo: l’elenco che libera la mente
di Enrico Franceschini


L´ossessione delle cose da fare spinge a segnarle ovunque: sull´agenda, sul calendario, sui post-it È un´organizzazione indispensabile al cervello che altrimenti, oberato dai pensieri, si "paralizzerà"

Ogni lunedì, dice uno studio britannico, ci sono 150 nuove incombenze all´orizzonte
Una delle regole più importanti è quella dei "due minuti": se bastano per fare qualcosa si fa, altrimenti si aggiunge la voce

Le scriviamo sull´agenda, sul diario, sul calendario appeso al muro, le digitiamo sul telefonino, le appiccichiamo con i post-it gialli sul frigorifero, sul computer, in bacheca, e ciononostante non le finiamo mai, ogni giorno cancelliamo un po´ di voci dalla precedente ma ne aggiungiamo un´infinità alla successiva. Pagare la multa, andare dal dentista, prenotare il ristorante, depositare l´assegno, fare gli auguri alla mamma, accompagnare i figli a pallavolo: siamo tutti oppressi dalla tirannia della lista delle cose da fare. Scrivi e cancella, scrivi e cancella, arrivare in fondo è impossibile: secondo uno studio britannico, ogni lunedì ce ne sono mediamente 150 nuove all´orizzonte. Eppure continuiamo a farle, come nel proverbiale sforzo di svuotare il mare con un secchiello.
Perché lo facciamo? Serve? Ed esiste un metodo per scrivere la "lista perfetta"? Manuali ed esperti cercano da qualche tempo di rispondere a simili domande. Preparare la lista delle cose da fare, afferma lo psicologo Roy Baumeister, autore di un libro di recente pubblicazione in merito, risponde a un evidente bisogno umano: cercare di mettere un po´ d´ordine nel caos della vita, diventata più rapida, frenetica, stressante. Ma la lista, avverte l´esperto, non serve tanto ad assicurarsi di fare effettivamente tutto quel che c´è da fare, quanto a sgomberare la mente dalla preoccupazione di non riuscirci: scrivere gli impegni, gli appuntamenti, le faccende del giorno o della settimana, libera la mente per dedicarsi ad attività in realtà più urgenti e importanti, come studiare per un esame, svolgere bene il proprio lavoro, sviluppare la creatività.
La consapevolezza di avere scritto che dobbiamo fare qualcosa, in pratica, ci assolve dal senso di colpa per averne rinviato l´esecuzione. Il libro di Baumeister e "Getting things done" (Portare a compimento le cose), un altro volume sullo stesso tema, firmato da David Allen, forniscono le istruzioni per compilare la "lista perfetta". Deve avere tutte le cose da fare, dalle triviali alle importanti, dalle private alle professionali; essere il più specifica possibile (al punto da indicare se contattare qualcuno per email o per telefono); essere realistica, nessuno può aspettarsi di fare tutto in un giorno; e seguire la regola dei "2 minuti", se bastano quelli per fare qualcosa, farla subito, altrimenti aggiungere una voce alla lista.
Lo studio della "lista dei doveri" è una cosa seria. Nasce dalla frustrazione di supermanager sempre più impegnati e sempre più a corto di tempo, che vedono riempirsi sulla scrivania la vaschetta dei documenti da sbrigare e non riescono mai a trasferirli tutti in quella dei documenti sbrigati. Una ricerca dell´università di Berlino lo definisce "effetto Zeigarnik", dal nome dello scienziato che lo ha scoperto: la memoria umana distingue tra un lavoro finito e uno non concluso. Se si accumulano troppi compiti non fatti, il cervello rimane paralizzato: ma annotare che si devono fare, magari più tardi o domani, permette di dimenticarli temporaneamente, archiviarli in una regione della mente in cui sappiamo che potremo recuperarli, e nel frattempo andare avanti.
Di certo c´è che tutti fanno liste di cose da fare. L´anno scorso ne è andata all´asta una fatta da John Lennon, con appunti banali come "comprare la marmellata, chiamare l´idraulico, restituire un libro": dopodichè aveva la mente abbastanza sgombra per scrivere "Imagine". In fondo, osserva il Times di Londra, anche la Bibbia si apre con una lista di cose da fare: lunedì la luce, martedì il cielo, mercoledì la terra, e così via. E il Signore Iddio, arrivato in fondo, deve avere tirato un bel sospiro di sollievo, proprio come succede a tutti noi.

l’Unità 26.1.11
Theo, il coraggio di raccontare la Grecia moderna
Addio ad Anghelopulos Il grande regista è morto in un incidente stradale nei pressi del set dell’ultimo film. «La recita» è stato il suo capolavoro, quattro ore di grande cinema mai superato nella produzione successiva
di Alberto Crespi


Ogni giorno la Grecia diventa più povera». È il commento di un greco apparso su Facebook, e sembra davvero il più adeguato ad una notizia che ieri mattina ha sconvolto tutti gli appassionati di cinema. Theo Anghelopulos è morto. In circostanze assurde: è stato investito martedì da una moto mentre attraversava la strada al Pireo, a due passi dal set dove stava lavorando al nuovo film L’altro mare. L’autista della motocicletta, anche lui ferito nell’incidente, è stato identificato come un poliziotto, ma in quel momento non era in servizio. Il regista ha riportato gravissime ferite alla testa ed è deceduto in ospedale.
Theo Anghelopulos aveva 76 anni. Era nato ad Atene il 17 aprile del 1935. Era l’uomo che aveva messo la Grecia sull’atlante del grande cinema mondiale. Prima di lui il cinema greco era Mikhalis Cacoyannis: Zorba il greco, film ispirati alla tragedia classica, spesso con il volto ieratico della grande Irene Papas. Un’idea di cinema al tempo stesso antica e internazionale, ma nel senso hollywoodiano del termine. Negli anni 70 Anghelopulos spariglia le carte e irrompe nella scena del cinema europeo come una novità folgorante. In quel decennio, è almeno in Italia il principe dei cineclub, e quindi di tutta una generazione (alla quale appartiene chi scrive) che si forma in quelle piccole sale dove si proiettano capolavori esoterici.
LA FORMAZIONE A PARIGI
Ateniese di nascita ma parigino di formazione (si trasferisce a Parigi per laurearsi in letteratura alla Sorbona, dopo un vano tentativo di studiare legge in patria), Theo ha «fallito» le nuove ondate degli anni 60 per un mero fatto generazionale: ha qualche anno in meno di giovani maestri come Godard e Truffaut, e viene da un Paese con una tradizione e un’industria cinematografiche minori. Al ritorno in Grecia lavora come critico e giornalista per la testata Demokratiki Allaghi, che però viene soppressa dal colpo di stato dei colonnelli. Esordisce come regista nel 1970, con un piccolo film a bassissimo costo: Ricostruzione di un delitto. Poi, nel 1972, dà il via ad una trilogia sulla storia greca aperta da I giorni del ’36, proseguita con La recita e conclusa da I caciatori. Il secondo di questi film, alla Quinzaine di Cannes del 1975, esplode come una bomba. Dura 4 ore ed è una fluviale ricostruzione degli anni che vanno dal 1939 al 1952, costruita su piani-sequenza (lunghissime inquadrature senza stacchi) all’interno dei quali spesso Anghelopulos fa passare i decenni, andando continuamente avanti e indietro nel tempo. Come filo rosso per raccontare la guerra e il dopoguerra, il regista sceglie una compagnia di teatranti di strada che percorre la Grecia interna, nevosa e povera, dando di quel Paese un’immagine diametralmente opposta a quella consueta. Non dimenticheremo mai la visione ininterrotta de La recita in un cinema di Milano, quando il film venne distribuito rigorosamente sottotitolato! nella stagione ’75-’76: il cinema era pieno e alla fine delle 4 ore ci fu un applauso, fu una delle esperienze più ubriacanti della nostra vita di spettatori. Che tempi: più o meno in quei mesi uscirono Nashville e Barry Lyndon, due altri film che sembravano non dover finire mai, per non parlare dello Specchio di Tarkovskij artista al quale Theo era vicino per stile, non per approccio al mondo, lui così dialettico e brechtiano a fronte del misticismo del grande russo.
Anghelopulos ha fatto molti altri film dopo La recita, ma non ha mai più raggiunto la complessità e la genialità di quel sommo capolavoro girato a 40 anni. Soprattutto il titolo successivo alla trilogia, Alessandro il grande, sembrò a molti un ripiegamento manieristico nello stile che nei film precedenti era apparso così innovativo. In seguito quello stesso stile si fece solenne, a volte magnifico a volte retorico. In tutti i film di Anghelopulos c’erano sempre immagini e metafore che lasciavano a bocca aperta, ma c’era spesso il senso di un classicismo simile a ciò che, a inizio carriera, il regista aveva contribuito a distruggere.
Restano comunque indimenticabili Lo sguardo di Ulisse, Il volo, Paesaggio nella nebbia e L’eternità e un giorno, che nel 1998 gli valse finalmente l’agognata Palma d’oro di Cannes (era molto competitivo, Theo). Nel ’95 Lo sguardo di Ulisse vinse «solo» il Gran Premio della giuria, beffato al fotofinish da Underground di Kusturica, e lui si presentò a ritirare il premio con la faccia di pietra e con una frase che restò nella storia di Cannes: «Avevo preparato un discorso per la Palma d’oro, ma me lo sono dimenticato». Nel ’98 finalmente vinse e Roberto Benigni, premiato a sua volta con il Gran Premio per La vita è bella, gli dedicò una battuta che lo fece sbellicare dalla risa: «Vincere a Cannes con Anghelopulos è come andare in Russia con Bertinotti».
IRONICO E SPIRITOSO
Vedendo i suoi film così austeri è difficile immaginarlo, ma Theo era una persona simpatica e molto spiritosa, che durante le interviste ti squadrava sempre con un sorrisetto ironico ma poi ti regalava grandi squarci di saggezza. Attori importanti come Marcello Mastroianni e Gian Maria Volonté gli hanno regalato talento e disponibilità, perché i set di Anghelopulos erano sempre molto impegnativi: si girava in esterni reali, con tempi di lavorazione molto lunghi, possibilmente d’inverno e sotto la pioggia. Che sia morto proprio su un set, attraversando la strada a due passi da casa, è veramente un feroce scherzo del destino. Ignoriamo a che punto fosse il nuovo film, ignoriamo anche se mai lo vedremo. Sappiamo che Theo ci mancherà. Moltissimo.