lunedì 30 gennaio 2012

l’Unità 30.1.12
Gli immigrati e l’Italia
I diritti spariscono nel lavoro sommerso
Continuano a crescere i flussi migratori e il bisogno delle imprese di mano d’opera. Ma l’occupazione «in nero» resta l’ostacolo principale a una vera integrazione. In questa partita diventa decisivo il ruolo degli enti locali
di Carlo Buttaroni


Le attuali migrazioni sono fenomeni complessi, destinati a trasformare profondamente l’assetto dei sistemi sociali contemporanei. Di fronte a questa pressione l’opinione pubblica oscilla tra eccessi di buonismo e atteggiamenti di esasperata intolleranza, mentre ancora manca un quadro esauriente del fenomeno che consenta di progettare politiche adeguate. Basti pensare che solo dal 2005 i dati Istat sulle forze lavoro contengono anche stime sulla partecipazione di manodopera straniera, colmando così una grave lacuna informativa in un contesto di crescente rilevanza del fenomeno.
Eppure il rapporto tra immigrazione e lavoro è quello che più rappresenta il fenomeno migratorio, coinvolgendo la natura stessa dei diritti civili. Un tema che riguarda, nella stessa misura, migranti e ospitanti. Proprio su questi aspetti si misura l’evidente contraddizione tra le buone intenzioni legislative, affidate a corposi apparati normativi, e la realtà del mercato del lavoro sommerso, alimentato, in misura crescente, dai flussi d’immigrazione clandestina.
Si tratta soltanto d’inefficienza dei sistemi di controllo e di repressione o, invece, è un fenomeno che ha a che fare con caratteristiche più strutturali? In realtà in questi anni i flussi migratori si sono mantenuti costanti anche con tassi di disoccupazione elevati, a dimostrazione che le spiegazioni economiche del fenomeno, legate alla struttura duale e segmentata dei nuovi mercati del lavoro, mantengono tutta la loro validità.
Il permanere di elevati tassi di disoccupazione, infatti, non ha fatto diminuire la necessità economica di convivere con l’immigrazione, facendo registrare una peculiare relazione tra economia post-fordista e ampliamento dell’economia sommersa e informale.
Il mondo del lavoro irregolare è l’ambito all’interno del quale gli immigrati offrono una risposta paradossalmente efficace alle trasformazioni e alla deregolamentazione dei sistemi produttivi. La presenza di una quota di economia irregolare si sta affermando come una caratteristica strutturale dei sistemi economici contemporanei e il lavoro immigrato sembra fatto apposta per rispondere efficacemente a questo tipo di domanda.
Basti pensare alla pratica del ricorso al lavoro nero per abbassare i costi di produzione da parte di imprese che operano in regime di subappalto, di fronte a sistemi di aggiudicazioni basati su forti rincorse al ribasso; oppure alla crescita della domanda di servizi come la cura degli anziani o l’assistenza ai bambini, cui è seguito lo sviluppo di lavoro ad alta flessibilità e a basso costo; o alla riduzione degli spazi economici per settori ad alta intensità lavorativa e a basso contenuto tecnologico, come le micro-imprese edili, l’agricoltura e il piccolo commercio al dettaglio.
Fattori che hanno fatto crescere la domanda di manodopera non specializzata e con margini di flessibilità elevata anche dal punto di vista reddituale, che il mercato del lavoro ufficiale non è in grado di offrire. A questo si aggiunga la particolarità del mercato del lavoro che riguarda il segmento dei giovani, il cui tasso di occupazione è più basso rispetto alla media europea e tende a diminuire ulteriormente man mano che cresce il livello di scolarizzazione.
Una dinamica che si alimenta anche della tendenza a rifiutare lavori scarsamente retribuiti e lontani dal percorso formativo seguito. E questo spiega, tra l’altro, il carattere prevalentemente non concorrenziale dell’offerta di lavoro immigrata.
L’alta incidenza degli oneri fiscali e contributivi che grava sulla retribuzione ha fatto il resto, alimentando la violazione degli standard retributivi minimi previsti dai contratti collettivi nazionali. E gli immigrati, irregolari e clandestini, finiscono per essere soggetti particolarmente esposti a simili violazioni, in ragione di convenienze relative, in quanto, proprio per evitare l’espulsione, non si rivolgono alle autorità amministrative per ispezioni, o alle autorità giurisdizionali per il riconoscimento dei propri diritti.
Tanto che per le imprese è più conveniente far lavorare immigrati clandestini anziché avvalersi in modo irregolare di immigrati in possesso di permesso di soggiorno, che potrebbero avviare dei contenziosi. L’idea che «sommerso è utile se non proprio bello» non è ormai sussurrato tra le labbra, ma esposto quasi come una necessità.
È evidente l’effetto di attrazione che finisce per produrre questa situazione. Molti immigrati non solo disperati ma spesso alla ricerca di un miglioramento della propria condizione tendono a considerare l’Italia un luogo dove è facile entrare, ancor più facile rimanere a causa della scarsa effettività dei controlli e, magari, trovare un lavoro ben retribuito rispetto al Paese d’origine, e dove l’impatto con fenomeni di intolleranza razzista e xenofobica è ancora relativamente basso, sebbene crescente.
Condizioni strutturali che non potevano che diventare il brodo di coltura dell’incontro tra immigrazione irregolare ed economia sommersa.Tutto ciò apre una prospettiva di ben altra portata che potrebbe assumere, come suo specifico oggetto, la relazione tra diritto e uguaglianza. Uno specchio nel quale si riflettono gli stadi di evoluzione del diritto, facendo diventare il fenomeno immigratorio, insieme alla prospettiva federalistica e alla giustizia intergenerazionale, uno degli elementi di problematicità costituzionale con cui debbono confrontarsi principi, valori e politiche.
Il banco di prova è indubbiamente quello del lavoro. L’ampio bacino del sommerso e senza regole, alimentato dal fenomeno immigratorio, costituisce una sfida non soltanto all’uguaglianza nel diritto del lavoro, ma alla stessa effettività dei diritti e dei suoi apparati di regolazione. La posta in gioco, prima ancora che l’alternativa tra parità e adattamento delle regole, è la dimensione di effettività dei diritti che nessun apparato di controllo e di repressione, né una legislazione di sostegno ispirata alla moral suasion, sono probabilmente in grado di garantire.
Si sente la necessità di un approccio nuovo che arrivi a concepire la cittadinanza come un diritto costruito su un fascio di relazioni mirate all’integrazione sostanziale, il cui principale medium è il lavoro. Proprio la complessità funzionale del rapporto tra immigrazione e mercato del lavoro potrebbe consentire una diversa sequenza che metta in collegamento il riconoscimento dell’identità attraverso l’inclusione e il riconoscimento dei diritti, l’acquisizione della cittadinanza sociale e l’integrazione sostanziale.
Se il fenomeno dell’immigrazione è strutturale, bisogna allora rifiutare l’emergenza come diaframma ideologico di approccio e operare interventi strutturali in grado di rispondere ai problemi inediti che questa sfida impone. L’affermazione dell’eguaglianza dei diritti costituisce la base teorica per affermare una civiltà che si non si arresti ai confini dell’immigrazione ma la includa e la riconosca nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. Una volta affermati i diritti, il problema è però attivare percorsi per renderli concreti.
Un passaggio delicato e complesso che richiede una nuova alfabetizzazione culturale e politica. In questo quadro un ruolo fondamentale può essere svolto dalle autonomie locali. Non solo perché le politiche dell’integrazione possono vivere soltanto se diventano pratiche attive, ma perché è proprio dal territorio che possono prendere vita politiche orientate a costruire le nuove città dei diritti.

l’Unità 30.1.12
La polemica sullo ius soli
Grillo e il medioevo della ragione
di Marco Pacciotti
coordinatore Forum immigrazione Pd

Leggendo i giornali o i blog, torna in mente l’espressione «il medioevo della ragione». Ragionamenti tagliati con l’accetta ed espressi con toni urlati. Un sostanziale imbarbarimento delle idee che da tempo colpisce il nostro Paese.
È esattamente questo che ho provato leggendo le recenti dichiarazioni di Grillo sul tema dello Ius Soli. Un medioevo della ragione, con la differenza che in quel periodo storico ingiustamente mal considerato, i comici che facevano satira svolgevano una funzione importante e costruttiva. Davano voce a chi non ne aveva al cospetto di re e vassalli. Questa era la funzione del giullare, non solo di divertire e schernire, ma di «riferire» la vox populi al sovrano perché ascoltasse quello che i fedeli vassalli temevano di raccontare per un eccesso di fedeltà mista al timore di perdere rendite e favori.
Circa mille anni dopo, un possibile erede di quei giullari viene meno al suo ruolo. Anziché portare la voce dei più deboli ed esposti nei luoghi del potere, si infila in una dietrologica e complottarda teoria, nella quale il tema dello Ius Soli si trasforma in un arma di «distrazione di massa» contro i cittadini. Commettendo un macroscopico errore e lasciando intendere velatamente due cose gravi. L’errore macroscopico è che nel tentativo di attaccare il sistema, finisce per colpire chi dal sistema è schiacciato, aizzando un certo populismo xenofobo sempre presente nella pancia della gente, specie in periodi di crisi economica. A questo si aggiunge l’idea odiosa che i sostenitori di tale proposta siano sostanzialmente agenti del nemico (quale?) sotto mentite spoglie o dei cretini nella migliore delle ipotesi. Come se non bastasse, si insinua l’idea che ci siano cittadini da difendere da altri che potrebbero indebitamente acquisire quel loro stesso status civico. Esattamente quello che la campagna L’Italia sono anch’io vuole confutare, affermando invece l’idea che quel milione circa di ragazzi e ragazze nati o cresciuti in Italia sono nostri connazionali e quindi possano
godere degli stessi diritti dei loro compagni di scuola e di gioco.
Idee, quelle di Grillo, che mai vengono messe a disposizione per un confronto sereno e di merito, ma spiattellate, gridate in rete su uno dei blog più frequentati in Italia. Questa prassi del comico-attore e politico fa rabbrividire. Mai un tema è lanciato per confrontarsi. L’arena che sia un teatro, una piazza o un social network è sempre priva di contraddittorio diretto. Un metodo che ricorda molto il berluscon-pensiero o quei movimenti e figure politiche del recente passato che hanno ben poco a che fare con il concetto di democrazia. Parola spesso abusata, specie da chi finisce con perderne di vista due prerogative essenziali, il rispetto verso gli interlocutori e il diritto di replica a parità di condizioni.
Il danno è fatto. Una battaglia di civiltà come quella per lo Ius Soli ricondotta nel calderone della politica con la p minuscola. Il ribadire ossessivo che tutti sono uguali, sempre e comunque. Sostenere contro l’evidenza che dietro a qualsiasi iniziativa da parte della politica ci sia la volontà di raggirare le persone. Purtroppo quel che resta in questa equazione è il niente, l’antipolitica.
Di questo stiamo parlando quindi, non di un moderno giullare fustigatore dei potenti, ma di un politico che cerca consenso blandendo le paure e gli stereotipi sempre presenti nella pancia delle persone. Un populismo becero e qualunquista, che ha poco a che vedere con la democrazia e la sinistra.

l’Unità 30.1.12
Il fattore diseguaglianza
di Massimo D’Antoni


Da tempo il tema della diseguaglianza non aveva il rilievo di questi giorni nel dibattito pubblico. Martedì il presidente Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha indicato quale sfida centrale del nostro tempo la creazione di un società in grado di distribuire all’intera popolazione, e non a pochi privilegiati, i benefici della crescita economica.
Il progressivo aumento della concentrazione di redditi e ricchezza è un processo in atto nelle economie avanzate a partire dagli anni Settanta, quando si è invertita la tendenza in atto dei decenni precedenti, in cui la crescita sostenuta si era accompagnata a una riduzione delle diseguaglianze.
Se solo ora il problema è avvertito come rilevante è perché la crisi finanziaria ha tolto credibilità all’illusione, a lungo alimentata, che la ricchezza ai vertici della scala sociale avrebbe prima o poi coinvolto tutti gli strati della società. Non solo. Ha tolto credibilità anche all’idea che la diseguaglianza fosse anzi essa stessa motore di crescita, in quanto fonte di incentivo e stimolo. La difficoltà in cui versano le economia più ricche sta dunque creando una seria crisi di legittimità. Soddisfare la domanda di equità è un problema tutt’altro che banale nel momento in cui il sistema di protezione sociale e di redistribuzione tramite il bilancio pubblico viene da molti considerato un lusso che non possiamo permetterci.
Non è soltanto questione di giustizia. Molte ricerche hanno evidenziato come la disuguaglianza sia associata a una cattiva performance rispetto ad importanti indicatori di qualità sociale: il tasso di mortalità, la salute (es. l’incidenza di malattie mentali), la frequenza di omicidi e violenze, la diffusione di sentimenti di ostilità e razzismo, gli abbandoni scolastici, si presentano con maggiore frequenza in Paesi caratterizzati da livelli più elevati di disuguaglianza. Non si tratta dell’ovvia constatazione che questi fenomeni sono più diffusi perché ci sono più poveri; il dato rilevante è che in società più diseguali la qualità della vita è peggiore anche per coloro che hanno un reddito medio o medio-alto, quando li si confronti con individui di pari reddito in società più egualitarie. Le società più egualitarie sono insomma società in cui si vive complessivamente meglio.
Con riguardo alle determinanti della crescita della diseguaglianza nell’ultimo quarto di secolo, un recente e accurato rapporto dell’Ocse tenta un bilancio. Accanto alle spiegazioni che sottolineano fattori strutturali e almeno in parte al di fuori del controllo delle politiche, quali la globalizzazione (in particolare i processi di delocalizzazione produttiva) e lo sviluppo tecnologico (che ha accentuato i divari di produttività tra lavoratori con minore o maggiore abilità), viene evidenziata la rilevanza dei processi di riforma del mercato del lavoro, in special modo la loro liberalizzazione e la conseguente crescita di disparità nelle retribuzioni, e della minore volontà o possibilità di attuare politiche redistributive, soprattutto a partire da metà anni Novanta.
E se la graduatoria vede all’estremo negativo le economie liberali di mercato (gli Stati Uniti e il Regno Unito) e all’altro estremo quelle del Nord Europa, che riescono a conciliare crescita e bassa diseguaglianza, anche l’Italia si colloca tra i Paesi ad alta diseguaglianza. Da noi il fattore determinante non è dato tuttavia dalle remunerazioni individuali, almeno tra i lavoratori dipendenti; la disuguaglianza si manifesta semmai nei redditi familiari, e dunque la ragione della cattiva performance va ricercata in fattori quali la scarsa partecipazione femminile al lavoro (e quindi l’alto numero di famiglie monoreddito) o l’incidenza di lavoro atipico, caratterizzato da elevata discontinuità e retribuzione mediamente più bassa rispetto al lavoro stabile.
Si conferma insomma la centralità della questione del lavoro. Un ulteriore richiamo alla necessità di ripensare una strategia che si è affidata unicamente alla flessibilità, e a mettere in campo politiche orientate ad aumentare la partecipazione al lavoro (soprattutto femminile e giovanile) e ridurre la “precarizzazione”. Se è vero quanto suggerisce lo stesso rapporto dell’Ocse, che la chiave è rappresentata da politiche che incoraggino l’investimento in capitale umano, un’efficace strategia di riduzione della diseguaglianza nel nostro Paese deve da un lato destinare risorse adeguate al sistema di istruzione, dall’altra favorire l’investimento on-the-job (sul posto di lavoro) da parte di imprese e lavoratori. Un investimento che, come ogni altro, richiede salvaguardie e un orizzonte sufficientemente stabile. Come dire che, anche da questo punto di vista, la riduzione delle tutele sul lavoro appare la direzione sbagliata da percorrere.

Repubblica 30.1.12
Noi, Lama e la crisi ma il ’78 è lontano
Quante differenze dagli anni di Lama oggi la precarietà è il primo problema
Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno
di Susanna Camusso


CARO DIRETTORE, nel suo editoriale di ieri Scalfari cita un´intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione "programmatica" dell´accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell´Eur.
La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall´inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d´acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.
La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei «capitalisti», a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.
Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l´idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.
Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.
Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.
Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell´intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera «assicurazione» o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.
Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.
A noi è chiara l´emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l´età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro.
Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all´immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.
Il coro sull´importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l´assurdità che sarebbe per colpa dell´articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l´occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.
Per noi l´urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall´intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l´emergenza con l´idea che «qualunque cosa può essere fatta».
Siamo i primi ad apprezzare che l´Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l´equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il « nuovo» con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma "salvare il soldato Ryan". Se sarà così, non si salverà l´Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie.
Questa è un´ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l´abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l´orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell´industria in cinque anni.
* Segretario generale della Cgil

La Stampa 30.1.12
Intervista
“Il capitalismo è un’auto vecchia Va cambiato”
Yunus: dobbiamo immaginare un mondo diverso con i giovani
di Francesco Manacorda


Nobel per la pace Muhammad Yunus è uno studioso di economia sociale e pioniere del microcredito, cioè della concessione di piccolissimi prestiti, che nei Paesi meno sviluppati sono sufficienti ad avviare un business Guida lo Yunus Centre

ASSENZA DI FUTURO «In Spagna metà dei ragazzi è senza impiego. E si tratta di Europa, non di Africa»

La novità peggiore di quest’anno? La crisi in Europa, che anche qui a Davos si avverte molto».
E quella migliore, professor Yunus?
«Il fatto che proprio grazie a questa crisi si sta capendo, anche se nessuno lo vuole ammettere, che il capitalismo è arrivato al capolinea». Muhammad Yunus è il più celebre pioniere del microcredito, che gli ha portato anche un Premio Nobel per la Pace. Lo scorso anno ha dovuto abbandonare la sua Grameen Bank per ombre sulla gestione degli anni passati e una dura polemica con il governo del Bangladesh, ma rimane una star anche oggi che guida lo Yunus Centre e si occupa di imprenditoria sociale. Una star anche a Davos, dove è uno dei personaggi più ricercati. Paradossalmente, si potrebbe dire, visto il suo messaggio pare conciliarsi poco con il verbo della competitività che sulle Alpi Svizzere va per la maggiore.
Eppure, proprio qui a Davos, si è dibattuto molto sui mali e le cure del capitalismo...
«E’ vero, il dibattito c’è, ma continua ad essere condotto secondo i soliti schemi. Penso che in cuor nostro siamo tutti convinti che il capitalismo non funziona più e non può più funzionare, ma nessuno ha il coraggio di dire che va abbandonato».
Ne è convinto davvero?
«Ma certo. E’ come una vecchia auto che cade a pezzi. Un’auto che forse ci potrà portare al prossimo isolato ma non certo adatta per un lungo viaggio. Invece di cercare di costruire un’auto nuova ci ostiniamo tutti a cercare di riparare quella vecchia. Ma è impossibile, il capitalismo è un modello nato più di cent’anni fa, non tiene il passo con un mondo che cambia così in fretta».
E quale dovrebbe essere la nuova auto da costruire?
«Non lo sappiamo ancora, ma se riflettiamo su ciò che vogliamo potremo costruirla di conseguenza. Dovrà avere le ali? Dovrà navigare? » Usciamo dalle metafore, professore. Lei quale società vorrebbe?
«Vorrei una società dove nessuno rimanga disoccupato, nemmeno una persona. Il lavoro è la priorità, ma non serve pensare a come creare più posti in questo sistema proprio perché il sistema non funziona più. Invece dobbiamo pensare che nessuno deve essere un mendicante, nessuno deve dipendere dal Welfare, perché tutti sono in grado di guadagnarsi da vivere».
Dalle banche, alle Tlc, alla chimica, lei ha creato molte imprese sociali. Qual è il modello che vorrebbe vedere affermarsi?
«Un modello nel quale la missione sociale dell’impresa sia integrato nella struttura dell’impresa stessa. Fare qualcosa di buono per la società non dovrebbe essere il risultato quasi accidentale dell’attività degli imprenditori, ma il fondamento della loro attività».
Lei ovviamente è conscio che molti la classificano come un sognatore.
«Naturalmente sì, ho una visione. Ma bisogna essere dei sognatori per pensare a un mondo diverso da questo. Tutti dovremmo essere sognatori, pensare di più al mondo che vorremmo tra vent’anni. Oggi il sistema è orientato a fare soldi: questo è assolutamente ridicolo. Lei pensa che lo scopo della nostra vita sia fare soldi? Io ritengo che sia la realizzazione di noi stessi».
Ma non pensa di essere una foglia di fico qui a Davos? Non è qui solo per far sì che gli esponenti del capitalismo ortodosso possano dire di essere aperti a idee diverse?
«Io parlo a lei, lei parla ai suoi lettori, questo è comunque un vantaggio per me. Se parlo a duemila persone la grande maggioranza potrà pensare che sono pazzo; ma se solo due persone cominciano a riflettere sulle mie idee per me è un successo».
Chi può aiutarla ad attuare questo cambiamento? Le multinazionali, con cui lei pure collabora, i governi o i singoli individui?
«I giovani. I giovani dai 15 ai 25 anni, oggi hanno tantissime competenze; sono più preparati di quanto fossimo noi alla loro età. Il nostro obiettivo deve essere realizzare un mondo dove le capacità dei nostri figli si possano realizzare. Non con un lavoro dalle 9 alle 5, ma in modo da realizzare tutte le loro capacità, da seguire la loro visione».
Sì, ma in concreto?
«Il mio messaggio è che si deve liberare la società. I governi sono anche loro vecchie macchine, piene di timbri e burocrazia, che funzionano come secoli fa. Non penso che siano in grado di traghettarci verso un altro modello, mentre può farlo la società civile».
E il mondo degli affari che contributo può dare?
«Dobbiamo cambiare il modello di business, che è una cosa che si può fare immediatamente. Creare società non profit, che facciano business sociale, è una cosa che si può fare subito».
Ma non è certo il modello dominante nel mondo degli affari...
«Ma se io e lei cominciamo, ci mettiamo i nostri soldi e cominciamo a decidere che la nostra attività deve avere come obiettivo il fatto che nessuno dei miei vicini resti disoccupato, allora muoviamo qualcosa. E’ questo l’importante. Altri seguiranno».
Vista dal suo punto di vista Davos è cambiata?
«Certo, quando si è in crisi si cercano soluzioni nuove, si pensa agli errori, si è più disposti a cambiare. Quest’anno le cose sono molto diverse e non parlo solo di Davos, ma del mondo dei giovani. In Spagna la metà dei giovani è senza lavoro. Stiamo parlando del cuore dell’Europa, non dell’Asia o dell’Africa. Che futuro ha questa generazione con il modello attuale? ».

La Stampa 30.1.12
La casta, il costo delle istituzioni
Il Parlamento italiano è il più caro d’Europa
Ma a pesare è soprattutto la struttura, non gli onorevoli
di Carlo Bertini


L’indagine I costi di Montecitorio sono stati confrontati con quelli delle Camere basse degli altri Paesi europei
27,15 euro pro capite. È quanto costa ad ogni cittadino il Parlamento: tre volte di più che in Francia (8,11 euro), sette volte più che in Inghilterra (4,18 euro) e dieci volte più che in Spagna (2,14 euro)
DIPENDENTI NEL MIRINO I loro stipendi valgono il 43% del bilancio. Quelli dei parlamentari il 24%
LA DIFFERENZA «In Europa hanno preferito assumere assistenti invece che commessi e stenografi»

Il dato in sé è impressionante e contiene uno dei paradossi del nostro Paese: i cinque grandi parlamenti nazionali d’Europa, Germania, Francia, Inghilterra, Italia e Spagna, costano 3,18 miliardi di euro l’anno, ma il Parlamento italiano spende più della somma degli altri quattro messi insieme. E la sorpresa sta nel fatto che la colpa non è tanto degli stipendi della Casta, bensì dei costi di una struttura molto più dispendiosa. La storia parte da lontano, se è vero, come raccontano i più anziani, che nel 1946, subito dopo il fascismo, si ritenne che fosse opportuno tenere il Parlamento sempre «aperto e agibile, un presidio democratico», con quel che ne conseguiva in termini di turni dei commessi e di apparati di sicurezza. Oggi non è più così, da anni si chiudono i battenti alle 22 e una delle polemiche sotterranee investe proprio il dispendio di risorse. Per una struttura che, di norma e salvo casi rari, potrebbe tranquillamente fermarsi due ore prima, evitando di far rimanere funzionari e documentaristi in servizio permanente effettivo pagandogli pure gli straordinari.
Ma il problema non è la quantità della forza lavoro, tanto meno la qualità, vista l’alta professionalità riconosciuta a tutte le maestranze di ogni ordine e grado, dai funzionari di prima fascia fino ai barbieri. In Italia e Regno Unito, il numero di dipendenti per i due parlamenti è simile (1.620 contro 1.868) ma a fare la differenza è il costo pro capite. Per dirla con Francesco Grillo della London School of Economics, che insieme ad Oscar Pasquali ha curato un’inchiesta per il think-tank Vision, gli altri parlamenti nel corso degli anni «hanno preferito assumere molti meno commessi e stenografi e viceversa molti più giovani assistenti che affiancano i parlamentari nel loro lavoro».
Dall’analisi comparata delle cinque più importanti «camere basse» d’Europa (Montecitorio, Bundestag, Assemblée Nationale, House of Commons e Congreso de Los Deputados) emerge che «non è il costo dei deputati italiani a determinare questa situazione». Perché la spesa per le retribuzioni dei parlamentari in carica e in quiescenza è pari a poco più di un quinto del totale del bilancio 2011 di 1,66 miliardi di euro: dove il costo per il personale in servizio e in quiescenza è del 42,8%, contro il 23,8% destinato ai parlamentari. E quindi, una delle conclusioni dell’inchiesta di Vision è che la norma inserita nella finanziaria di luglio che stabilì di equiparare il costo dei parlamentari alla media europea avrebbe dovuto prescrivere casomai di equiparare il costo del parlamento nazionale alla media degli altri.
Ad ogni cittadino italiano, il Parlamento costa tre volte di più che in Francia (27,15 euro rispetto a 8,11 euro), quasi sette volte più che in Inghilterra (4,18 euro) e dieci volte più che in Spagna (2,14 euro pro capite). E non è tanto il numero dei parlamentari ad incidere (in Italia poco superiore alle medie europee) ma il costo del Parlamento per deputato. «Più del 40% delle risorse del nostro palazzo sono assorbite dal personale della Camera. Stenografi o commessi - si legge nel documento - che individualmente arrivano, al massimo dell’anzianità, ad avere stipendi superiori ad alcune delle più alte cariche dello Stato». Ed è vero che i nostri parlamentari, a differenza dei tedeschi, devono pagare i propri collaboratori a valere su uno specifico rimborso a forfait, che proprio oggi verrà dimezzato con una delibera dell’ufficio di presidenza di Montecitorio. «Tuttavia, mentre il parlamento tedesco (o quello europeo) paga direttamente assistenti parlamentari di qualifica elevata, il parlamento italiano paga, in misura maggiore, un numero assai più alto di commessi». E qui scatta l’accusa del rapporto Vision: «Se è vero che non sono i parlamentari ad intascare la differenza di costo rispetto agli altri parlamenti europei, rimane una domanda ineludibile: come è possibile che i deputati italiani in cinquanta anni hanno consentito che crescesse e si consolidasse il sistema retributivo più assurdo di un paese che pure ha conosciuto privilegi di tutti i tipi? ».
Passando dall’analisi alla proposta, tra le ipotesi su come riuscire a collegare costi della politica e qualità dell’attività legislativa e di governo, eccone una suggestiva: dare valore all’astensione, con una riduzione lineare dell’ammontare dei rimborsi elettorali collegata all’incremento oltre una certa soglia della quota di rinunce al diritto di voto, per stimolare i partiti «a migliorare la propria credibilità».
Uno dei membri del Progetto Vision, Sandro Gozi, per anni di stanza a Bruxelles con Prodi e oggi deputato del Pd, sostiene che «oggi sono i giovani a pagare gli errori del passato perché noi delle nuove generazioni preferiremmo avere due collaboratori in più pagati dalla Camera per preparare i dossier e fare meglio il nostro lavoro». L’accusa è che si sia lasciato lievitare un sistema «non più efficiente di quello di altri parlamenti, lasciando in una zona grigia il pagamento dei collaboratori: che adesso verrà pure rendicontato al 50% per lasciare il resto ai partiti. È ridicolo. Se avessimo avuto una struttura con costi meno elevati e il cosiddetto portaborse pagato dalla Camera, non avremmo avuto l’esplosione dell’antipolitica».

Corriere della Sera 30.1.12
Battaglia a Damasco Periferie della città nelle mani dei ribelli
Quasi 300 morti civili in tre giorni
di Lorenzo Cremonesi


DAMASCO — La guerra per Damasco appare soprattutto una tragica sfida ad armi impari. L'esercito siriano mantiene con arrogante violenza la superiorità militare e logistica. Le opposizioni — sparse, disorganizzate, prive di un effettivo coordinamento nazionale che unifichi il confronto armato — attaccano e si disperdono a seconda delle circostanze. Il risultato sono i tragici bilanci degli ultimi giorni. Secondo i Comitati Locali di Coordinamento (uno dei gruppi più noti che operano tra le sommosse) i morti tra civili e guerriglieri sono stati 103 venerdì, 98 sabato e quasi 70 ieri. I feriti sarebbero centinaia. Nessuno si reca agli ospedali nazionali, verrebbero immediatamente arrestati, ma sono curati in modo approssimativo nelle piccole cliniche clandestine sempre più diffuse.
Ieri mattina presto, viaggiando dal centro della capitale verso l'aeroporto internazionale per lasciare il Paese (il visto per i giornalisti stranieri che non siano considerati «amici» come russi e cinesi è limitato a 10 giorni), abbiamo intravisto gli effetti della nuova mobilitazione in atto: rafforzati i posti di blocco dovunque, colonne di soldati in movimento, traffico civile nullo lungo le periferie. A un semaforo due auto cariche di agenti in borghese del mukhabaràt (il servizio di sicurezza interno) che brandivano i mitra visibilmente eccitati strombazzavano a velocità folle per chiedere strada. A bordo erano ben visibili due giovani uomini ammanettati, gli occhi bendati, con il viso, i capelli e i vestiti arrossati di sangue. Uno sembrava incosciente, con la testa ciondolante a ogni accelerata e la bocca spalancata in una smorfia di dolore.
Ma quello che non si vede della nuova battaglia per Damasco è molto più grave di ciò che si riesce in qualche modo a individuare. Da almeno quattro giorni il regime ha deciso di fare piazza pulita dei gruppi della rivoluzione attorno alla capitale. È la fine di una fase. Dopo l'arrivo degli osservatori della Lega Araba nei giorni di Natale, le azioni repressive si erano in qualche modo attenuate, in alcune zone i soldati si erano limitati a controllare da lontano. Le forze ribelli avevano dunque conquistato terreno. Alcuni quartieri periferici e numerosi villaggi nella regione di Damasco si erano autoproclamati «liberati». Di giorno una calma tesa, inframmezzata da spari isolati e brevi blitz dell'esercito. Di notte il buio totale per il taglio della corrente elettrica, la popolazione tappata nelle case e le imboscate occasionali.
Ma sabato la Lega Araba ha deciso di ritirare tutti gli osservatori. La questione della Siria insanguinata da oltre 10 mesi di rivolte passa ora al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Nei prossimi giorni si dibatterà la proposta incentrata sulle dimissioni del presidente Bashar Al Assad. Russia e Cina continuano a imporre il veto. È in questa situazione di stallo che la dittatura passa al contrattacco. L'agenzia di stampa ufficiale Sana insiste nel rilanciare la versione del regime, per cui i manifestanti sarebbero per lo più «terroristi», o addirittura nemici infiltrati dall'estero con il patrocinio di Israele, Stati Uniti, Arabia Saudita e Qatar.
Il tam tam della gente in rivolta segnala gravissime azioni repressive nel cuore dei centri abitati contro i civili. I carri armati e le artiglierie ieri hanno colpito i sobborghi di Kfar Batna, Saqba, Jisreen, Arbeen. Guerriglia nei villaggi di Doura, Harasta, Ghouta, Hammouryia. Sono segnalati movimenti di 2.000 soldati, accompagnati da una cinquantina tra carri armati e cingolati trasporto truppa. «È guerra urbana. Ci sono morti per le strade», gridano i ribelli su YouTube. Nuovi incidenti con numerose vittime sono tornati a interessare anche le città di Homs, Idlib e Hama. Ad Aleppo decine di studenti sono stati arrestati mentre manifestavano presso l'università.

Corriere della Sera 30.1.12
Tibetani in rivolta, il Sichuan in stato d'assedio
La polizia schierata da Pechino nella regione apre il fuoco, decine di vittime
di Paolo Salom


PECHINO — Dopo le fiamme che da un anno a questa parte hanno avvolto almeno sedici monaci, ora gli scontri di strada, le pallottole, lo stato di assedio. Il Sichuan torna ad accendersi: o meglio, bruciano le contee autonome nell'ovest della provincia, abitate dai tibetani che già nel 2008 avevano aderito alla grande rivolta partita da Lhasa. A dimostrazione che la brace lasciata dalle auto immolazioni nel nome della «libertà da Pechino» ha continuato ad ardere, spingendo migliaia di seguaci del Dalai Lama a scendere nelle strade per confrontarsi con gli agenti in tenuta anti sommossa. Il bilancio è pesante. Pechino ha denunciato tre morti tra i tibetani mentre fonti dei ribelli parlano di almeno undici vittime e decine di feriti. Le autorità centrali hanno ammesso l'uso di armi da fuoco da parte dei poliziotti, ma «solo perché sono stati oggetto di aggressione armata: 19 agenti sono rimasti feriti». Opposta la versione dei manifestanti: «Sono loro che sparano, non noi».
Impossibile avvicinarsi alle cittadine e ai villaggi che si sono sollevati: le autorità hanno chiuso ogni via di comunicazione, tagliando anche telefoni ed Internet. Ufficialmente non si può viaggiare nell'ovest del Sichuan, tra verdissime montagne e vallate che aprono la strada verso il Tibet, perché «il ghiaccio ha reso pericolose le strade». La realtà è che in questo freddo inverno, il fuoco della rivolta rischia di riportare la Cina nel caos. Certo non è un buon auspicio per l'inizio dell'anno del Dragone, il segno più fausto dello zodiaco tradizionale. A Ganzi, per esempio, lunedì scorso alcune migliaia di manifestanti hanno marciato verso il municipio cantando slogan contro «l'occupazione» del Tibet da parte dei cinesi. I soldati avrebbero aperto il fuoco uccidendo tre persone. L'indomani, nuovo corteo spontaneo nella stessa cittadina: altri due morti. Pochi giorni più tardi, nella contea di Aba, un giovane tibetano ha affisso un poster con la propria foto e un testo che diceva, più o meno: «I monaci continueranno a darsi fuoco e morire fino a che il Tibet non sarà libero». Il giovane invitava la polizia ad arrestarlo. Proprio quello che è successo due ore più tardi. Salvo che l'azione ha provocato un'immediata rivolta finita nel sangue: altri spari, altri morti. «La Cina deve affrontare alla radice le cause delle proteste: una repressione sempre più dura e una politica fallita verso la minoranza — ha detto Sharon Homs, direttore della Ong Human Rights in China —. I tibetani vogliono la demilitarizzazione della loro terra e il rispetto dei diritti fondamentali».
La risposta di Pechino non è stata incoraggiante. Fonti locali raccontano di arresti nei monasteri e nelle case prima dell'alba, e obbligo di «rieducazione» per i monaci ribelli. Il timore: da episodi singoli, per quanto brutali e ad effetto — le auto immolazioni — i tibetani sono passati a una vera sollevazione popolare. «Il governo cinese, come sempre — ha detto Hong Lei, portavoce del ministero degli Esteri — combatterà tutte le violazioni della legge e sarà risoluto nel mantenere l'ordine sociale». Da New Delhi, Youdon Aukatsang, ha confermato all'Ap che Pechino ha paura di un «possibile movimento sotterraneo» capace di organizzare segretamente un'insurrezione in vista del Capodanno tibetano (22 febbraio). Di fatto ogni anno, intorno al 14 di marzo, anniversario della tragica rivolta del 2008 (22 morti ufficiali), il Tibet viene sigillato. Da Dharamsala, in India, dove il Dalai Lama vive in esilio dal 1959, non è arrivato alcun comunicato ufficiale. Nelle strade del Sichuan occidentale i tibetani si sentono sempre più soli e disperati.

Corriere della Sera 30.1.12
«La Cina aprirà ai capitali privati»


PECHINO — Il premier cinese Wen Jiabao si è detto favorevole a «rompere i monopoli» contro la partecipazione del capitale privato nel settore finanziario, aggiungendo che i prestiti privati hanno «un ruolo positivo» nell'economia e che occorre una maggiore regolamentazione. Le dichiarazioni di Wen sono contenute in un discorso pubblicato oggi sul Quotidiano del popolo. Il governo, prosegue Wen delineando le prossime riforme, garantirà un più deciso sostegno alle piccole imprese e incoraggerà l'azione delle banche. Secondo il primo ministro, il debito pubblico di Pechino è «a un livello complessivamente sicuro e sotto controllo».

Corriere della Sera 30.1.12
Lo spirito che si fa arte nell'Estetica di Hegel
di Armando Torno


L' arte occupa un posto d'onore nel sistema di Hegel. Oltre ad essere il primo momento dello «spirito assoluto», e di esso è la «manifestazione sensibile», ha in sé il proprio fine: non rinvia a una natura da imitare, né presenta un significato edificante. Hegel consegnò le sue idee in materia alle pagine delle lezioni di Estetica. E quest'opera rappresenta uno degli sforzi più grandi per comprendere l'arte.
In italiano l'Estetica ha avuto una prima traduzione a Napoli nel 1863-64 (in quattro volumi), poi ci è voluto un secolo per vederne una seconda: apparve nel 1963 da Feltrinelli, curata da Nicolao Merker (ristampata da Einaudi nel 1967 e ancora nel 1997). Ci sono state anche versioni di parti o di singoli corsi (per esempio, quello del 1823, sotto il titolo Lezioni di estetica, è stato tradotto nel 2000 per Laterza), ma un tentativo per restituire l'insieme dei testi nati in anni diversi vede soltanto ora la luce. È il primo titolo del 2012 della collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani. La non facile impresa si deve a un giovane docente, Francesco Valagussa. Presentata con l'originale tedesco a fronte, seguendo l'edizione di Hotho — con le varianti delle lezioni del 1820-21, 1823 e 1826 — viene dunque pubblicata nuovamente tutta l'Estetica di Hegel (pp. 3.036, 50).
In margine a questa fatica degna della massima considerazione, va detto che Valagussa ha fatto tesoro delle ultime ricerche. L'edizione di Hotho — che seguì le lezioni direttamente e utilizzò i quaderni autografi di Hegel e numerosi appunti, poi perduti, del filosofo — uscì in tre volumi tra il 1835 e il 1838 (una seconda tra il 1842 e il 1845) oggi ritradotta è arricchita da un corpus di poscritti che hanno visto la luce nell'ultimo trentennio grazie al lavoro degli studiosi dell'Hegel-Archiv dell'Università di Bochum.
Nel saggio introduttivo Valagussa si sofferma anche sulle questioni riguardanti la fedeltà della lezione di Hotho e gli inevitabili confronti che si devono fare tra il suo testo e i quaderni di altri (uno dei capi d'accusa riguarda la significativa presenza dell'estensore all'interno dell'opera hegeliana). La soluzione adottata risolve diversi problemi. È stato creato un doppio registro di note: il primo aiuta a identificare l'immenso patrimonio di personaggi, figure, brani citati dal maestro; il secondo riporta le varianti e le integrazioni più significative emerse dagli appunti degli studenti berlinesi da poco ritrovate. Il tutto per comprendere che «nell'arte entriamo in rapporto non con un congegno meramente gradevole o utile, bensì con la liberazione dello spirito dal contenuto e dalle forme della finitezza».

Repubblica 30.1.12
Stefano Levi Della Torre
"Vivere consapevolmente di illusioni ecco la lezione di Leopardi, mistico laico"
L´intellettuale e il tema della crisi dei punti di riferimento classici
"Possiamo volare liberi con interpretazioni e fantasie, ma restiamo soggetti alla forza di gravità dei fatti"
"La religione è poco metafisica e finisce per addomesticare l´abisso. Preferisco lo sguardo del poeta"
Intervista di Franco Marcoaldi


BASSANO IN TEVERINA Il luogo d´incontro con Stefano Levi Della Torre non è irrilevante. Perché la passeggiata che precede la nostra conversazione, un lento periplo di questo fascinoso borgo del viterbese costruito sul tufo, raffigura plasticamente il senso del successivo periplo attorno all´inafferrabile quanto imprescindibile concetto di verità. E proprio un intellettuale irregolare come Levi Della Torre sembra essere la persona più indicata a compiere tale genere di esercizio.
Leggendo le sue scarne note biografiche, si scopre che è pittore e docente a contratto della Facoltà di Architettura di Milano. Ma prima ancora, direi, è un uomo che ama pensare, sempre pronto a indagare il lato rovescio di ogni questione. Una lezione, questa, che gli viene dalla sua origine ebraica e da una lunga frequentazione del Talmud. Dal quale ha anche imparato a praticare l´ironia e il paradosso, come si evince già dal titolo del suo ultimo, acutissimo saggio in uscita per Einaudi: Laicità, grazie a Dio.
Se è d´accordo, comincerei dall´idea di verità che ci viene dal vocabolario, dove si afferma che «il vero» risponde alla «realtà effettiva delle cose». Insomma, verità e realtà marciano di pari passo.
«Io direi così: la verità è una realtà orientata, dotata di senso. La realtà, di per sé, può apparire come qualcosa di inerte; è la verità a offrirle orientamento. La verità, dunque, non è una semplice constatazione, anche perché in tal caso risulterebbe illusoriamente istantanea, mentre ha una pretesa di durata.
La mia polemica con i postmodernisti nasce da qui: concentrano la loro attenzione esclusivamente sull´interpretazione, lasciando da parte la realtà. Ora, è del tutto evidente che noi umani siamo condannati all´interpretazione, ma su cosa gravita quell´interpretazione? Qual è il suo baricentro, se non la realtà? Interpretazione di cosa, se non di fatti veri o presunti? Tutto questo per dire che possiamo sì volare liberi con le nostre interpretazioni e fantasie, ma restiamo comunque soggetti alla forza di gravità dei fatti, che prima o poi ci chiedono il conto».
Potremmo dunque dire che, tanto per cambiare, la nostra ricchezza e la nostra povertà sta nel linguaggio?
«Certamente, perché grazie ad esso facciamo in modo che la realtà ci parli, ci dica delle cose, mentre per contro può anche accadere che un´interpretazione si spinga talmente in là da sembrarci più reale della realtà. Finendo così nell´ideologia. E´ la questione affrontata da Andersen nella sua fiaba Il vestito nuovo dell´imperatore. Nella prima parte del racconto assistiamo al trionfo dei tessitori imbroglioni, che dicono di tessere un tessuto meraviglioso, ma invisibile. Mentre in realtà non tessono nulla. Così l´imperatore si pavoneggia in mutande tra ali di una folla ammirata che inneggia al suo abito regale, non sentendosela di infrangere una credenza creata ad arte da una convenzione linguistica. Fino a quando interviene un bambino che dice la semplice verità: il re è nudo. Ecco, i postmoderni, affermando che non esistono i fatti ma soltanto le opinioni, si sono rassegnati alla realtà del linguaggio, rinunciando al linguaggio della realtà».
Resta però che la verità non si dà mai una volta per tutte.
«E difatti Bloch, con estrema perspicacia, distingue tra conoscere e comprendere, in apparenza sinonimi, mentre nascondono una divaricazione. Perché il conoscere, cioè l´addentrarsi nello sconosciuto, ci mette in crisi, scombina le nostre conoscenze precedenti, mentre comprendere significa sistemare, fissare tutto dentro una cornice precisa. Un´operazione, beninteso, necessaria, ma allo stesso tempo rischiosa, perché indicativa di un meccanismo di autoconservazione. Questa del resto è l´inevitabile parabola di ogni ideologia, che nasce come istanza di liberazione, e poi invece, pian piano, si irrigidisce rendendosi indisponibile a nuove forme di conoscenza».
Nel suo libro ci sono pagine molto polemiche verso Richard Rorty, uno dei padri del postmodernismo. Ce ne spiega i motivi?
«Cosa fanno i pensatori come lui? Volendo contraddire le pretese autoritarie della verità, giungono a prediligere le pretese autoritarie dell´opinione. Niente di più confacente al populismo autoritario, al prevalere della propaganda sulla scienza. La verità finisce per combaciare con ciò in cui si crede, diventa un atto di fede. Così questa caricatura della laicità e del relativismo più radicale si trasforma in un´apoteosi dell´assoluto, nel miglior alleato del fondamentalismo religioso: ciascuno ha le proprie convinzioni e nessuno ha il diritto di interferire in esse.
Per non parlare poi di quell´altra solenne sciocchezza in base alla quale non esisterebbe la natura umana, ma soltanto la cultura. Con la pretesa di combattere ogni potere – politico o religioso – che giustifica la sua presenza come se fosse dettata dalla natura, si finisce per escludere la natura dalla storia. Si finisce per dimenticare Darwin e per sposare inconsapevolmente l´idealismo, che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. La concezione della storia come puro atto umano indipendente dalla natura mi ricorda la nostra percezione ingannevole delle città: vediamo le luci e ci dimentichiamo che sotto ci sono le fogne, dove scorre l´enorme flusso del metabolismo umano. Dietro la storia ci sono le sue materie prime, ci sono corpi che agiscono secondo i meccanismi ripetitivi e universali della natura umana. Negarlo è uno dei tanti modi per edulcorare la realtà, per ammansire la caoticità del mondo».
Proviamo a riordinare le idee: la ricerca della verità procede attraverso il dubbio, la lotta contro la censura, la credenza, l´edulcorazione della realtà…
«A questo punto, però, voglio ricordare un passo di Leopardi in cui si dice che ci sono dei filosofi talmente illusi da pensare che bisogna distruggere le illusioni. Straordinario, no? Ecco così che le cose si complicano ulteriormente. Perché non c´è niente da fare: anche il nostro desiderio di senso è in qualche modo falsificante. Il bambino, ad esempio, stabilisce che una certa pianta vuole bene a una certa pietra che vuole bene a un certo animale…. Questa teatralizzazione del mondo è fisiologica, attiene alla sopravvivenza umana. Ma appunto, è un´illusione. Del resto, volendo addentrarci ulteriormente nel labirinto: cos´è l´antropologia se non lo studio delle illusioni umane, le quali a loro volta rappresentano una concretissima realtà sociale? Così il circolo ricomincia e ricomincia anche la nostra ricerca della verità».
Per questo lei afferma che non possiamo mai arrivare alle verità ultime, definitive. Kafka affermava che siamo «abbagliati» dalla verità. «Vera è la luce sul volto che arretra con una smorfia, nient´altro». Ecco perché la verità risulta inafferrabile, insondabile, abissale.
«E sono totalmente d´accordo con lui. Tant´è che, da laico, non obietto alla religione di essere troppo metafisica, ma di esserlo troppo poco. Perché pretende di dare un volto definitivo a quell´abisso. I veri, grandi mistici laici del moderno sono proprio Leopardi e Kafka. Perché accettano l´abisso e ci sprofondano dentro. Senza riempire il mistero di parole volte ad addomesticare quell´abisso, per addolcirne l´angoscia. Senza tradurre la vertigine dell´insondabile in liturgie consolatorie. Freud sosteneva che si investono più energie nel ripararsi dagli stimoli che nel riceverli. Ecco, le religioni costruiscono delle formidabili fantasmagorie proprio per incistare lo scandalo del caos, per dare senso alla realtà e al contempo ripararsi da essa».
Mentre lei parlava, mi è venuto in mente un aforisma di Canetti che suona più o meno così: non si può tenere a guinzaglio la verità. La verità è come un temporale che spazza l´aria e poi va via. Cosa ne pensa?
«Provo a risponderle riprendendo quanto dicevo all´inizio: la ricerca della verità è la storia della nostra gravitazione verso la realtà, nello sforzo di dare ad essa un senso, riconoscendo però in questa ricerca tanto il tratto vitale quanto la sua necrosi, perché il senso è inevitabilmente transeunte. Ma la verità opera anche in un altro modo, come vera e propria rivelazione. E accade allora che si finisca per coglierla con la coda dell´occhio, di straforo, quando un improvviso cortocircuito, una breccia si apre mettendo in subbuglio il nostro sistema codificato delle cose. Un po´ come con le due dita di Dio e Adamo dipinte da Michelangelo, che inaspettatamente si incontrano e producono una scossa: quanto era separato, ora, trova il suo nesso. Si è rotta una crosta e si è creato un nuovo contatto tra soggetto e realtà, magari impedito proprio dal precedente conferimento di senso, dalla precedente idea di verità, che è diventata essa stessa un´istanza di pregiudizio».
(2-continua)

Repubblica 30.1.12
Dai ricordi ai dati. L’oblio è un diritto?
Il pericolo è quello di limitare le informazioni a danno della democrazia
di Stefano Rodotà


Dalla cancellazione alla imposizione. Ieri la damnatio memoriae, oggi l´obbligo del ricordo. Che cosa diviene la vita nel tempo in cui "Google ricorda sempre"? L´implacabile memoria collettiva di Internet, dove l´accumularsi d´ogni nostra traccia ci rende prigionieri d´un passato destinato a non passare mai, sfida la costruzione della personalità libera dal peso d´ogni ricordo, impone un continuo scrutinio sociale da parte di una infinita schiera di persone che possono facilmente conoscere le informazioni sugli altri. Nasce da qui il bisogno di difese adeguate, che prende la forma della richiesta di diritti nuovi – il diritto all´oblio, il diritto di non sapere, di non essere "tracciato", di "rendere silenzioso" il chip grazie al quale si raccolgono i dati personali.
La cancellazione della memoria, l´oblio forzato sono antiche tecniche sociali. A Roma, per i condannati per fatti gravissimi, v´era la damnatio memoriae, l´eliminazione d´ogni traccia che potesse mantenerne il ricordo: scomparso il nome dalle iscrizioni, distrutte le immagini e le statue. In Francia, nel 1598, dopo una stagione di guerre laceranti, l´Editto di Nantes stabilì "che la memoria di tutte le cose accadute da una parte e dall´altra, dall´inizio del mese di marzo 1585 fino al nostro avvento al trono, rimanga spenta e assopita come di cosa non avvenuta. Vietiamo a tutti i nostri sudditi, di qualunque ceto e qualità siano, di rinnovarne la memoria". Solo la liberazione dalle tossine del ricordo poteva consentire il ritorno alla normalità sociale.
Un confronto con i nostri tempi mostra come queste impostazioni possano essere rovesciate. In paesi usciti da regimi dittatoriali, commissioni per la verità e la riconciliazione, sul modello creato nel 1995 dal governo sudafricano, hanno messo in evidenza l´importanza di una luce piena sul passato per una riconciliazione fondata sulla costruzione di una memoria "condivisa". Per quanto riguarda le persone, la vera damnatio è ormai rappresentata dalla conservazione, non dalla distruzione della memoria. Che cosa diventa la persona quando viene consegnata alle banche dati e alle loro interconnessioni, ai motori di ricerca che rendono immediato l´accesso a qualsiasi informazione, quando le viene negato il diritto di sottrarsi allo sguardo indesiderato, di ritirarsi in una zona d´ombra?
Questa domanda è occasionata da un cambiamento tecnologico, ma illustra un mutamento antropologico. Non a caso si parla di persona "digitale", disincarnata, tutta risolta nelle informazioni che la riguardano, unica e "vera" proiezione nel mondo dell´essere di ciascuno. Non un "doppio" virtuale, dunque, che si affianca e accompagna la persona reale, ma la rappresentazione istantanea di un intero percorso di vita, un´espansione senza limiti della memoria sociale che condiziona la memoria individuale. Il mutamento di qualità della memoria sociale nasce dapprima con la creazione di banche dati sempre più gigantesche, che rendono possibile la raccolta di tutte le informazioni disponibili, i loro collegamenti, la loro massiccia diffusione. Ma il vero cambiamento si ha quando Internet fa sì che quelle informazioni siano accessibili a tutti attraverso motori di ricerca che le "indicizzano", le organizzano e le rendono suscettibili non solo di più diffusa conoscenza, ma di rielaborazioni continue.
Si crea così un contesto che neutralizza le modalità che storicamente avevano consentito il sottrarsi ad una sorta di dittatura implacabile della memoria sociale. Limitate, fino a ieri, le possibilità di raccolta delle informazioni; ardua o impossibile una loro conservazione totale; lontani o difficilmente accessibili gli archivi; ristrette le opportunità di una diffusione su larga scala. In alcuni casi, come quello americano, vi era poi il contrappeso della "frontiera", dimensione non soltanto fisica come ci ha ricordato Frederick Turner, ma luogo d´ogni opportunità e di rinascita della persona libera dal passato. E poi la possibilità di scomparire, cambiando nome, immergendosi nella "folla solitaria" delle metropoli.
Tutto questo è oggi cancellato dalla "tracciabilità" consentita dalle raccolte di massa delle informazioni, dal fatto che la folla non è più solitaria, ma "nuda", restituita ad una realtà nella quale ogni individuo è scrutato, schedato, ricondotto ad una misura che lo rende riconoscibile e riconosciuto. Sembra scomparire l´antica alternativa intorno alla quale tanti si sono affaticati. La memoria come accumulo di esperienza e saggezza o peso insostenibile del quale liberarsi? L´oblio come condanna o come risorsa? Se pure vi fosse un fiume Lete dove abbeverarsi, per cancellare ogni ricordo, Internet rimarrebbe lì, implacabile, con la "sua" memoria che si imporrebbe alla nostra.
Qui è la ragione di una discussione sul "diritto all´oblio" che si diffonde in ogni luogo, tema divenuto cavallo di battaglia della commissaria europea Viviane Reding e che ha trovato riconoscimento nelle nuove norme europee sulla privacy. Liberarsi dall´oppressione dei ricordi, da un passato che continua ad ipotecare pesantemente il presente, diviene un traguardo di libertà. Il diritto all´oblio si presenta come diritto a governare la propria memoria, per restituire a ciascuno la possibilità di reinventarsi, di costruire personalità e identità affrancandosi dalla tirannia di gabbie nelle quali una memoria onnipresente e totale vuole rinchiudere tutti. Il passato non può essere trasformato in una condanna che esclude ogni riscatto. Non a caso, già prima della rivoluzione tecnologica, era prevista la scomparsa da archivi pubblici di determinate informazioni trascorso un certo numero di anni. La successiva "vita buona" era considerata ragione sufficiente per vietare la circolazione di informazioni relative a cattivi comportamenti del passato. Soprattutto negli Stati Uniti le leggi prevedevano minuziose casistiche riguardanti le attività economiche, tanto che dopo quattordici anni non si poteva dare notizia neppure d´una bancarotta. Ombra protettrice di Max Weber, con l´etica protestante a dare una mano a chi, benedetto dal successivo successo negli affari, doveva considerarsi assolto da ogni precedente peccato?
Nelle regole di oggi, rinvenibili nei paesi più diversi, si va dal diritto della persona di chiedere la cancellazione di determinate informazioni al potere di impedirne la stessa raccolta; al divieto di conservare i dati personali oltre un tempo determinato e di trasmetterli a specifiche categorie di persone (i datori di lavoro, ad esempio). E si prospettano ipotesi radicali: la cancellazione della gran parte delle informazioni dopo dieci anni, una tabula rasa che consentirebbe a ciascuno di ripartire liberamente da zero e riscatterebbe la persona dalla servitù d´essere considerata come semplice produttore d´informazioni.
Ma il punto chiave sta nel rapporto tra memoria individuale e memoria sociale. Può il diritto della persona di chiedere la cancellazione di alcuni dati trasformarsi in un diritto all´autorappresentazione, alla riscrittura stessa della storia, con l´eliminazione di tutto quel che contrasta con l´immagine che la persona vuol dare di sé? Così il diritto all´oblio può pericolosamente inclinare verso la falsificazione della realtà e divenire strumento per limitare il diritto all´informazione, la libera ricerca storica, la necessaria trasparenza che deve accompagnare in primo luogo l´attività politica. Il diritto all´oblio contro verità e democrazia? O come inaccettabile tentativo di restaurare una privacy scomparsa come norma sociale, secondo l´interessata versione dei nuovi padroni del mondo che vogliono usare senza limiti tutti i dati raccolti?
Internet deve imparare a dimenticare, si è detto, anche per sfuggire al destino del Funes di Borges, condannato a tutto ricordare. La via di una memoria sociale selettiva, legata al rispetto dei fondamentali diritti della persona, può indirizzarci verso l´equilibrio necessario nel tempo della grande trasformazione tecnologica.

domenica 29 gennaio 2012

l’Unità 29.1.12
Pollock che andò a scuola dai Navajos
Anniversario Cento anni fa nasceva il padre dell’Action Painting
La sua particolare tecnica di pittura subì, tra le altre, l’influenza dei nativi Cominciò a fare grandi murali a New York durante gli anni del New Deal
di Renato Barilli


I centenari sono pretesti alquanto drogati e artificiosi, ma vale la pena accoglierli quando ne sia oggetto un artista di straordinaria potenza come Jackson Pollock (Wyoming, 1912, Long Island, 1956), colui che rappresenta l’emergenza assoluta degli Usa nel secondo dopoguerra, capace di fondere in sé un’eredità profonda dalle radici della propria terra con una fecondazione di fermenti provenienti dal Vecchio Continente.
Il padre di Jackson era amministratore delle riserve indiane in cui l’artista da giovane lo seguiva, e incontrava con stupefazione i riti tribali, come per esempio il tracciare serpeggianti ghirigori colando dell’argento fuso sulla sabbia. Era già un invito a uscire fuori dal «quadro» caro alla tradizionale occidentale, ispirandosi invece ad enigmatiche figure totemiche. Su questo tronco fecondo Pollock seppe anche innestare una vivace tradizione nordamericana, prendendo lezione da un pittore di provincia, Thomas Benton, che era un figurativo ad oltranza, pronto a riempire le sue tele di una folla di personaggi, che però già si cancellavano per troppa pienezza.
NEL ’29 ERA DISOCCUPATO
Poi Jackson, nel 1929, si porta a New York, ed è un disoccupato assieme a tanti altri giovani, travolti dalla grande crisi di quegli anni, cui però reca sollievo l’illuminato progetto del New deal roosveltiano, capace perfino di dare lavoro agli artisti, commissionando loro l’esecuzione di grandi murali. Se ne dovrebbero ricordare, gli amministratori di oggi, seguendo questo fecondo incitamento e dando davvero corpo alla cosiddetta arte pubblica, destinata altrimenti a restare una vana chimera.
Dire muralismo, significava collegarsi al fenomeno più forte e vistoso partorito allora dal continente americano, ma non nella versione yankee, bensì in quella latino-americana dei grandi messicani, non tanto il troppo colto Diego Rivera, quanto i più cupi e tragici Orozco e Siqueiros, meglio intonati ai drammi di quei tempi.
Però, pur nutrendosi di queste valide soluzioni di ordine figurativo, Pollock non intende affatto rimanerne prigioniero, in fondo la sua generazione intuisce che si sta ormai marciando verso la deflagrazione nucleare, e dunque i contorni, i perimetri di cose e persone non «tengono» più, bisogna darsi a una feroce opera di de-semanticizzazione. Ebbene, su questa strada, ecco giungere un provvidenziale influsso dai nostri «vecchi parapetti», grazie al movimento che anche da noi aveva provveduto a liquefare le icone descrittive, il Surrealismo, almeno in una sua faccia, attraverso le varianti firmate da Mirò, Masson, Tanguy. Qualche collega del Nostro aveva provveduto di persona a traghettare quei germi per impiantarli sul tronco sano e fecondo d’oltre Atlantico, si pensi all’olandese Willem De Kooning e all’armeno Arshile Gorky, che sono in prima linea con Jackson nel compiere una simile fusione dei corpi. È come dire che la ricezione delle figure subisce un ritmo accelerato, ovvero si passa a una sorta di stenografia, spariscono le sembianze di senso compiuto, tradotte in una serie di tratti grafici impazziti.
C’è comunque una fase, nei primi anni ’40, in cui il tormentato lavoro del nostro artista si presenta proprio come un combattimento tra immagini che tentano di resistere, magari abbarbicandosi all’andamento sintetico e riduttivo di un totem, e un processo di fusione che le sta sgretolando. Dipinto tipico di questa fase, La lupa, 1943, in cui la figura totemica tenta di resistere alle forze che la aggrediscono ai fianchi.
Ma finalmente, dal 1947 in poi, quella sorta di fusione, o forse più, di fissione delle ultime sopravvivenze iconiche, ha partita vinta, l’artista si ricorda degli insegnamenti ricevuti dai Navajos e come loro passa a sgocciolare direttamente il colore dal barattolo camminando sulla tela per essere sicuro di saturarne ogni tratto.
Nasce così la fase del «dripping», che è anche una piena intuizione di come il nostro universo sia solcato da un’infinita ridda di onde elettromagnetiche, da una ragnatela gigantesca, invisibile ad occhio nudo, ma compito di ogni artista è proprio di visualizzare quanto sarebbe invisibile ai sensi. Si pensi a certe rapine raffinate in cui il ladro si vale di un apparecchio che gli fa apparire appunto il reticolo dei raggi laser da cui scatterebbe l’allarme. Pollock visualizza per noi la fitta trama che ormai ci avvolge, e che del resto invita anche a risalire verso un universo di «nutrimenti terrestri», cioè verso una giungla vera e propria, stringente con le sue liane. Tutto questo viene redatto dall’artista in decine di esemplari, fino a una vetta suprema, i Pali azzurri del 1952.
LA STRADA DI FONTANA
Ci sono ancora dei limiti, in quel passeggiare sopra la tela e farvi colare in diretta il colore, non per nulla nell’etichetta che lo connota, «action painting», sussiste qualche contraddizione tra i due termini. L’azione di per sé non conoscerebbe confini e vorrebbe sottrarsi ai vincoli della pittura, condannata a stare entro una superficie. Questo fu allora il limite storico di Pollock, e con lui dei vari comprimari dell’«action painting», al pari dei colleghi europei, addetti a quanto venne anche detto Informale «caldo», cioè ribollente qui e ora, e dunque ingolfato in una residua sopravvivenza nel «quadro».
Non per nulla quelle enormi tele istoriate col «dripping» erano fatte per essere in seguito issate sulle pareti, attaccate al muro. Ma è bene che le cose siano andate così, la storia ha i suoi tempi e ritmi, doveva rimanere aperto lo spazio per generazioni future che dall’Informale «caldo» sarebbero passate a una versione «fredda», ovvero svincolata dalla superficie. Da noi, Fontana stava intuendo che occorreva squarciare la tela e andare oltre. Un limite di Pollock, invece, fu di rimanerne prigioniero, ma di agitarvisi dentro come furioso animale in gabbia, consumandone in breve ogni potenzialità. Forse, raggiunto l’acme, egli cominciò a decelerare, e non sapremmo che cosa sarebbe successo se un malaugurato incidente d’auto, nel 1956, non ne avesse interrotto il percorso comunque fondamentale e decisivo.

l’Unità 29.1.12
Intervista a Graziano Delrio
«Quei ragazzi sono italiani. Con che coraggio si dice no?»
Il presidente dell’Anci e la cittadinanza agli immigrati nati nel nostro Paese «C’è una forte azione dal basso, il Parlamento dia subito una risposta»
di Natalia Lombardo


Il Parlamento guardi in faccia questi giovani e dica loro “voi non siete italiani”, così come gli uomini dovevano dire in faccia alle donne, “voi non votate”». Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia alle prese con il terremoto, presidente dell’Anci, è anche presidente del comitato promotore «L’Italia sono anch’io» per la legge sulla cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati nel nostro Paese.
Sta crescendo un fronte trasversale, ci sono tante proposte di legge, pensa che il Parlamento le recepirà? «Esiste un’azione forte dal basso di tante associazioni che chiedono al Parlamento di avere più coraggio e guardare in faccia la realtà: quasi un milione di giovani che si sentono a tutti gli effetti italiani».
Di quale fascia di età parla?
«Da zero ai diciotto anni, parlo sia di chi è nato qua che di chi è arrivato da piccolo e ha concluso due cicli di studi. Bambini a tutti gli effetti italiani, parlano e studiano nella nostra lingua, vivono l’Italia come loro patria, invece a diciotto anni verranno trattati come stranieri. Noi produciamo stranieri con questa legislazione. Ma ora il tempo della paura iniziale, comprensibile per un’immigrazione rapida con un impatto forte, è finito, si deve fare un passo in avanti come in tutti i paesi europei. E affrontare il tema dell’immigrazione come “il tema” del Terzo Millennio».
Come comitato promotore cosa farete?
«Abbiamo messo insieme le anime più diverse, dalla Cgil all’Ugl, l’Arci e il centro studi gesuiti. Abbiamo raccolto 50mila firme per la proposta di legge popolari con banchetti in tutta Italia, trovando gli italiani più disponibili di quanto non si dica. Ora dobbiamo certificarle, poi depositeremo le proposte di legge in Parlamento; a febbraio chiederemo ai presidenti della Camera e del Senato e ai capigruppo di avviare un iter e un calendario per discuterle».
Ci sarà la forza per mandarla avanti, secondo lei?
«Credo che in Parlamento adesso ci siano le condizioni ideali per fare questo passo: sono caduti quelle paure e quei ricatti politici di chi minacciava di far cadere il governo». Sono caduti del tutto?
«Be’, con un governo concentrato sul fare dovrebbe esserci un Parlamento concentrato sul fare. E questo può fare in modo che la legislazione determini uno scatto di civiltà, riconosca diritti che ci sono già, e aiuto anche a far meglio i propri doveri. Perché chi è in grado di sentirsi cittadino può dare un contributo maggiore al proprio Paese».
La formula è quella dello ius soli.
«Sì. Certo non siamo favorevoli al fatto che uno venga qui a partorire e diventi automaticamente cittadino italiano, non è questo il tema. Ma se nasce un bambino da genitori già legalmente soggiornanti in Italia, quindi da almeno cinque o sei anni, a questo bambino deve essere riconosciuta la cittadinanza. Oppure può avvenire dopo che ha concluso i primi due cicli di studi. Sarà il Parlamento a decidere, ma intanto deve guardare in faccia questi giovani, che io sento cantare l’Inno Nazionale, e dire loro “voi non siete italiani”. Come gli uomini dovevano dire alle donne “tu non hai il diritto di votare”, facile dirlo tra uomini, più difficile dirlo alle mogli. Per fortuna oggi c’è un’ampia sensibilità, grazie al presidente della Repubblica, al presidente della Camera, i partiti possono riconquistare molta credibilità se affrontano questi temi».
Come giudica le posizioni di Grillo?
«Grillo ha fatto una lettura da politichese, “questo serve alla Lega... questo alla sinistra buonista...”. Questa legge non serve né a far aumentare il razzismo, né a farlo diminuire. E il buonismo non c’entra. È una scelta di migliore coesione della società e di qualità della vita anche nostra. Perché quando abbiamo concesso diritti non ci abbiamo mai rimesso».
Il governo non ha tolto l’aumento della tassa per il permesso di soggiorno. Pesano i ricatti della Lega, con il Pdl che non vuole rompere del tutto?
«Non so, ma non c’è peggior politica di quella degli annunci. Una volta che si è detto sarebbe utile farlo; non dico che non debbano pagare, ma senza sovrattasse, un immigrato non deve sentirsi in colpa perché chiede il permesso di soggiorno». Lei parla come se vivesse molto da vicino le storie di questi ragazzi.
«Sì, tutti i sindaci le conoscono. Ho davanti agli occhi storie di ragazzine nate in Italia da genitori marocchini o ucraini che prendono nove in italiano e mi dicono “la maestra è stupita, perché, io cos’ho di diverso dai miei compagni italiani?”. Mi scrivono tantissime lettere: ragazze bravissime in ginnastica, atlete quindicenni, che non possono essere scritturate da società professionistiche perché non hanno la cittadinanza. Ecco, il Parlamento dovrebbe avere davanti queste storie commoventi, più che i calcoli politici».

l’Unità 29.1.12
Il governo ritiri la tassa sugli immigrati
di Pietro Spataro


«Una cosa che non ho capito bene è cosa sono io però. Per esempio io ho i miei genitori che sono nati in Tunisia e io sono nato però in Italia: allora quale è la mia patria?». È la domanda che angoscia Daniel, un bambino di 11 anni che va a scuola a Reggio Emilia e la cui testimonianza è stata raccolta dal maestro-scrittore Giuseppe Caliceti in un bellissimo libro («Italiani, per esempio») che dovrebbe essere letto da tutti coloro, i parlamentari innanzitutto, che in questi giorni
stanno contrastando la sacrosanta proposta di concedere la cittadinanza italiana ai figli di immigrati che sono nati in Italia. È una semplice idea di buon senso, una scelta di civiltà. Eppure il Pdl, oltre ovviamente la Lega, si stanno scatenando. Alcuni addirittura minacciano di far cadere il governo nel caso una legge del genere venga approvata. A loro si è unito un comico populista che ha fatto infuriare il web in questi giorni.
La battaglia per riconoscere questo legittimo diritto però non si ferma con i ricatti. Lanciata da una serie di associazioni guidate dal presidente dell’Anci Graziano Delrio con lo slogan «l’Italia sono anch’io» è fortemente voluta dal Pd (Bersani l’ha ribadito con decisione in un suo intervento alla Camera un paio di mesi fa). La sollecitazione è stata raccolta anche dal presidente Napolitano: negare la cittadinanza a questi bambini è «un’autentica follia, un’assurdità». Fini è d’accordo con lui. C’è insomma una parte consistente del mondo politico, istituzionale e civile che vuole cambiare.
In giro per l’Italia ci sono un milione di bambini in questa assurda condizione di minorità civile. Van\no a scuola insieme ai nostri figli, giocano con loro, guardano la nostra tv, frequentano i nostri cinema, parlano la nostra stessa lingua e i nostri stessi dialetti. Si sentono e sono a tutti gli effetti figli d’Italia come tutti noi. Ma la legislazione
oggi in vigore prevede che possano diventare davvero italiani solo se prima i loro genitori diventano cittadini italiani (e i tempi come sono lunghissimi) oppure quando avranno compiuto diciotto anni. Bisogna usare altri argomenti per far capire che c’è qualcosa di vergognoso in questa trafila burocratica che esclude e discrimina?
È per questa ragione che la decisione del governo Monti di confermare la tassa per il permesso di soggiorno, voluta da Bossi e Tremonti, ci è parsa sbagliata. Nel governo, oltre a personalità con una cultura liberale dell’integrazione e dei diritti civili, ci sono ministri che hanno anche una sensibilità particolare verso questo tema. È il caso di Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio che ha ripetuto più volte che sull’immigrazione occorre uscire dalla «fase emergenziale».
Però, oggi in Italia senza cittadinanza ci vuole il permesso di soggiorno. E il permesso di soggiorno (anche per i bambini) da domani costerà molto caro: da 80 a 200 euro in più rispetto ai 57 che oggi si spendono per bolli e imposte. Dice il governo: non c’era copertura finanziaria per eliminare quella norma. La copertura finanziaria andava trovata. Anzi, diciamo che va trovata: perché ci auguriamo che Monti e i suoi ministri sentano il dovere di riparare a questo doppio torto. Così come speriamo che tutti i partiti in Parlamento abbiano la necessaria forza morale per riconoscere il legittimo diritto di questi bambini italiani.
Noi non ci fermiamo: l’Unità sosterrà ogni iniziativa utile a fare approvare rapidamente la legge. I nostri lettori possono darci una mano mandando la loro adesione e i loro commenti sul nostro sito (www.unita.it) o su twitter usando l’hashtag #figliditalia.

La Stampa 29.1.12
Immigrati. La cittadinanza non basta
di Giovanna Zincone


Una classe politica oberata da pesanti e spinose decisioni da prendere ha un gran bisogno di proposte ragionevoli, che la aiutino ad alleggerire il carico. In questi giorni ne arriva una. L'idea di Sartori di introdurre un tipo di permesso che sia inclusivo dei figli e non obblighi gli immigrati a continui rinnovi è ottima. Lo è anche perché ha un costo decisionale pari a zero: quello che suggerisce c'è già. La carta di soggiorno permanente per lungo-residenti è uno strumento di cui si sono dotati con tempi e modi diversi tutti i paesi dell'Unione Europea. E direttive dell'Unione hanno introdotto un permesso di soggiorno comunitario per i lungo-residenti negli Stati membri, che rende anche più facile la circolazione da un Paese all' altro. La carta di soggiorno per lungo residenti è uno strumento valido e convincente, ma può sostituire l'accesso alla cittadinanza dei figli nati o arrivati molto piccoli in Italia? Non credo, e le ragioni addotte contro i potenziali piccoli nuovi cittadini non mi convincono.
Il primo argomento contrario segnala il rischio che questi bambini, in particolare quella gran parte costituita da musulmani, non si integrino mai. Divenuti maggiorenni, visto che avrebbero diritto al voto, potrebbero dar vita a sovversivi partiti islamisti. Questa tesi non regge alla luce dei fatti. La maggioranza degli immigrati in Italia viene da Paesi di matrice cristiana e, a causa dell'aumento relativo dei flussi dall'Europa dell'Est rispetto al Nord Africa, la componente non musulmana è in aumento.
Ma anche guardando a un ipotetico incremento di flussi legato all'instabilità sull'altra sponda del Mediterraneo, lo spettro di gruppi politici islamici non incombe. Da anni altri Paesi europei ospitano forti minoranze musulmane, ma salvo casi marginali e politicamente irrilevanti, di partiti islamici proprio non si trova traccia. Il primo partito islamico che si è presentato in Spagna nelle elezioni locali del 2011 non ha suscitato grandi consensi. Inoltre, osservazione più rilevante, l'equazione «musulmano uguale integralista» è irrealistica. Le ricerche empiriche sulle opinioni religiose e politiche di chi viene da Paesi di cultura islamica presenta un quadro molto variegato, nel quale sostanzialmente dominano atteggiamenti pacifici. Non solo, a volte individui che arrivano piuttosto apatici sotto il profilo religioso si trasformano in convinti aderenti alla comunità musulmana e, in casi estremi, alle sue frange più pericolose, proprio come reazione alla condizione di emarginazione sociale e culturale che devono affrontare. Mettere un silenziatore ai giudizi sprezzanti contro gli immigrati in genere, e contro quelli che vengono da Paesi musulmani in particolare, oltre a costituire un richiamo alla moderazione e a un minimo di buone maniere nella comunicazione pubblica, potrebbe rivelarsi un'utile strategia di supporto all'integrazione.
Un altro punto mi convince poco nelle argomentazioni usate contro riforme liberali della cittadinanza, e cioè che in assenza di cittadinanza è facile espellere i cattivi stranieri. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha accettato diversi ricorsi contro l'espulsione di lungo-residenti che avevano commesso reati anche di un certo peso; in particolare hanno avuto successo i ricorsi da parte di immigrati arrivati da bambini. Gli immigrati non sono mobili Ikea che puoi restituire se non funzionano a dovere. Non è semplice rimandare nel Paese di origine dei genitori o dei nonni un ragazzo che non conosce la lingua dei suoi antenati, che è ormai estraneo a quella cultura lontana, alle abitudini di luoghi dove è stato poco o nulla. Ormai, piaccia o non piaccia, quel ragazzo è diventato un membro del Paese in cui è vissuto: di fatto se non di diritto è diventato un cittadino, purtroppo un cattivo cittadino. Persino le garanzie Ikea valgono solo per un certo numero di anni, e solo se il prodotto è stato trattato come si deve. L'obiettivo è piuttosto far sì che gli immigrati diventino buoni cittadini, trattandoli come si deve. Non credo che rendere meno difficile l'accesso alla cittadinanza dei bambini stranieri costituisca l'unico elemento di un buon trattamento, non credo sia una misura sufficiente per una loro buona integrazione, ma almeno aiuta a non provocare un numero ancor più alto di integrazioni fallite. Può darsi che si tratti di un abbaglio collettivo, ma tutte le democrazie prevedono percorsi semplificati per i nati sul territorio, e sebbene la nostra legislazione sia più restrittiva delle altre, persino il figlio di stranieri nato in Italia può chiedere la cittadinanza a 18 anni più facilmente dei genitori che volessero ottenerla in base alla durata della loro residenza.
Ma se non convincono le motivazioni di chi, in materia di cittadinanza, non vuol concedere nulla, suscitano dubbi anche quelle di chi vuol dare tutto e subito. Quest'ultima è la posizione dei promotori del referendum di iniziativa popolare: la loro legge attribuirebbe la cittadinanza ai figli di immigrati che hanno un soggiorno regolare anche solo da un anno. Mi sembra poco per stabilire se quella famiglia con il suo bambino vorrà davvero vivere nel nostro Paese, né mi sembra in grado di far quagliare intorno a sé una maggioranza parlamentare. C'è spazio però per soluzioni bipartisan intermedie, già emerse, che collegano la concessione della cittadinanza a un ragionevole tempo di soggiorno regolare dei genitori o del bambino stesso.
Ho sostenuto prima che facilitare l'accesso alla cittadinanza può aiutare a integrare, pur se non è l'unica determinante. Sono molti i fattori che incidono sui processi di integrazione: l'istruzione, l'apertura del mercato del lavoro, la congiuntura economica. Non sappiamo quale sia il peso specifico della cittadinanza in questo processo, perciò è difficile elaborare in questo campo quella linea di azione che Weber predilige e definisce «razionale allo scopo», cioè orientata a valutare i mezzi e la loro capacità di ottenere risultati. Ma è anche impossibile in questa materia evitare di agire con un orientamento ai valori, un comportamento pubblico in cui Weber, come Sartori, vede a ragione rischi di derive ideologiche. A mio avviso, però, in certi ambiti la coerenza ai valori è un ingrediente non solo inevitabile, ma salutare, purché la si coniughi con la razionalità strumentale, la ricerca di mezzi adeguati. Dagli orientamenti rispetto alla riforma della cittadinanza in Italia traspaiono valori di fondo, atteggiamenti emotivi distanti: una maggiore simpatia o antipatia per gli immigrati, una maggiore fiducia o sfiducia rispetto a sistemi politici e sociali aperti. Come suggerisce Weber esplicito i miei valori: confesso di appartenere al secondo gruppo. Ma non dimentichiamo la buona, vecchia, prudente razionalità strumentale. Simpatizzare per gli immigrati, auspicare una società aperta non basta, se non si individuano soluzioni capaci sia di ottenere i consensi politici necessari nell'immediato, sia di funzionare bene per il futuro. Non basta essere puri come colombe se non si è anche astuti come serpenti.

l’Unità 29.1.12
Storia e antistoria
Negazionismo, radici antiche
di Bruno Bongiovanni


Sembra alle nostre spalle il giorno della memoria. Non è vero. Il 27 gennaio 1945 con l’irruzione dell’Armata Rossa ad Auschwitz riemerge tutti i giorni. Né mancano sparuti oltre che ignobili i negazionisti che non riconoscono lo sterminio. Cosa che questa rubrica ha già sfiorato lo scorso ottobre. Aggiungo comunque che la cosa ha preceduto la parola. La deriva è iniziata in Francia con Maurice Bardèche (1948) e soprattutto con Paul Rassinier, un socialista anticomunista, autore nel 1950 de La menzogna di Ulisse e poi diventato di estrema destra. Seguirono, sempre in Francia, gli scritti di Faurisson e altri. Nel 1978, in California, ebbe inizio la pubblicazione del Journal for Historical Review.
Negazionisti vi furono così in Francia e negli Usa, ma anche in Germania, in Russia, in Inghilterra, in Italia, in Spagna, in Sudamerica, in quasi tutti i Paesi arabi, in Iran, in varie sette cristiane. Ma va anche ricordato che, mentre ad Auschwitz si sterminava, parve ad alcuni che il mondo si trasformasse. Tra questi anche Orwell, che denunciò il falso socialismo sovietico. Un possibile convergere di tutti gli assetti in un unico sbocco non era dunque scongiurato. Così, in una recensione del 9 aprile 1944 al celebre La via alla schiavitù di Hayek (liberale) e all’oggi dimenticato The Mirror of the Past di Zilliacus (socialista), Orwell notò che entrambi erano convinti che la strada indicata dall’altro portava alla servitù. Tutti e due ecco l’inquietante commento avevano ragione. Ma lo sterminio nei campi? Non si può dimenticare quanto scritto da Jean Améry (Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, 1987): «Sul mio avambraccio sinistro ho tatuato il numero di Auschwitz; si legge più in fretta del Pentateuco o del Talmud, eppure è più esaustivo».

l’Unità 29.1.12
Intervista a Nicola Latorre
«Più spazio ai cattolici e apertura a Vendola: il Pd punti al 40%»
Il senatore democratico: «Sono crollati i fondamenti del capitalismo, la ricostruzione oggi passa attraverso il rafforzamento dei soggetti politici e sociali»
di Maria Zegarelli


In questi due anni è cambiato il mondo, la domanda che si pone è se il capitalismo sia arrivato al capolinea e se c’è una possibilità di ripartire su nuove basi». Nicola Latorre, senatore Pd, parte da questa premessa per spostare l’asse del dibattito politico italiano e del suo stesso partito in vista di future alleanze di governo. «Io sono convinto che il Pd dando sempre più rappresentanza alla componente cattolica e intensificando il dialogo con Nichi Vendola possa puntare al 40% realizzando il sogno per cui è nato: un grande partito nazionale riformista». Latorre, il Pd può aspirare al 40%, proprio mentre crolla la fiducia degli elettori nei partiti?
«Non nel Pd, che sta crescendo nei consensi. Ma prima di tutto è necessario fare una premessa partendo da una riflessione generale. Noi non siamo in presenza di una classica crisi economica ciclica, lo stesso termine crisi è inadatto a descrivere questo passaggio di epoca. Dal 2008 è in atto il crollo dei fondamenti del capitalismo e gli indicatori del fallimento delle classi dirigenti europee e delle loro politiche neoliberiste sono sotto gli occhi di tutti. Per questo dobbiamo interrogarci su come fronteggiare l’emergenza italiana e su come legare le scelte di oggi con la costruzione del domani che vogliamo. In questo c’è tutto il nesso con il ruolo della politica. Il segretario Bersani sta sottolineando con grandissima efficacia quanto sia necessario sostenere il governo Monti, con lealtà, come stiamo facendo, e contestualmente costruire un nuova alternativa politica».
Bersani sulle pagine di questo giornale ha ribadito: alleanza fra progressisti aperta a forze moderate e civiche. «Questo è il cuore della nostra azione politica che passa attraverso il rafforzamento di soggetti politici e sociali, gli unici in grado di ricostruire la coesione sociale indispensabile per qualunque cambiamento. Penso che nella situazione attuale ci siano tutte le condizioni per attuare il sogno che ispirò la nascita del Pd, costruire cioè il moderno partito riformista di massa che oggi può davvero aspirare a prendere il 40% dei consensi».
Usiamo un paradosso, Monti e la crisi possono far bene al Pd?
«Esatto. Noi possiamo essere sempre di più il luogo in cui ha un grande peso il pensiero cattolico che oggi è all’avanguardia nel cogliere la crisi del capitalismo e nel proporre risposte in base ai valori del solidarismo cattolico. Tra l’altro siamo nelle condizioni di aprirci alle istanze di una sinistra, rappresentata da Vendola e da Sel, che pur non rinunciando ad una lettura radicale, intende misurarsi con la sfida del governo. Insomma, ci sono le premesse affinché questo processo politico si possa concretizzare».
Lei non ha mai citato l’Idv che l’altro ieri insieme a Sel ha rilanciato la foto di Vasto pur ammettendo che va ampliata.
«Qualcuno dice che le nostre foto sono ingiallite ma vale la pena di ricordare che nell’altra metà del campo le strappano in mille pezzi. Noi non dobbiamo strappare le nostre, semmai dobbiamo arricchire l’album fotografico e quelle che più di altre rendono l’idea di dove noi vogliamo portare il nostro progetto politico sono altre».
Non quella della birra, si presume. Quindi quali?
«Quelle che ritraggono Bersani insieme a Francois Hollande, vincitore delle primarie socialiste francesi e il leader della Spd Sigmar Gabriel, perché le nostre aspirazioni di cambiamento si realizzeranno soltanto attraverso una svolta in Europa e le campagne elettorali di Hollande oggi e di Gabriel nel 2013 devono essere anche le nostre».
La crisi ha cambiato l’agenda politica e di conseguenza i presupposti stessi per future alleanze?
«Oggi il ragionamento sulle alleanze non può più essere quello di un anno fa. È cambiato il mondo da allora. Parlare di un’alleanza con il mondo cattolico è molto più facile: su giustizia sociale, equità, diritto di cittadinanza per i figli degli stranieri suoniamo le stesse corde. Noi del Pd spesso abbiamo affrontato il ruolo dei cattolici nel partito in termini dirigenziali, mentre il tema è il contributo fondamentale che in termini culturali possono dare in presenza di questi nuovi scenari. E in questo contesto io non vedo incompatibilità con la sinistra rappresentata da Vendola in una stessa alleanza, ma addirittura in uno stesso partito».
Lei sta prospettando un Pd in grado di erodere consensi al centristi ma al tempo stesso attirare la sinistra vendoliana?
«Non c’è dubbio. Questo è il grande progetto politico del Pd, poi è evidente che al momento delle elezioni si vedrà quali sono le forze in campo. Questa discussione interna se dobbiamo andare con Casini o con Vendola non ha più senso». Intanto però i partiti devono riuscire a cambiare la legge elettorale. Cosa pensa della proposta Ceccanti?
«La riforma elettorale deve essere la priorità assoluta del Parlamento. La proposta di Ceccanti contiene nel merito uno sforzo e un’apertura importanti, tuttavia, lo dico con il massimo rispetto, non credo che ci sia bisogno di presentare nuove proposte di legge. Il Pd ha la sua, gli altri partiti se hanno davvero intenzione di fare la riforma, inizino il confronto. Non è più il tempo dei segnali di fumo».

l’Unità 29.1.12
L’Azione cattolica: un patto per ridare forza alla politica
Un Patto di responsabilità per il futuro del Paese. Lo chiede l’Azione cattolica che ieri ha riunito i «suoi» amministratori locali presenti nei diversi partiti. Difesa della famiglia. Appoggio a Monti ma nell’equità e nel rigore
di Roberto Monteforte


Prova concreta ieri alla Domus Pacis di cosa sia quel «soggetto unitario diffuso», forma pre-politica dei cattolici impegnati in politica, richiamato più volte dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Oltre duecento amministratori locali impegnati nei vari schieramenti, tutti aderenti all’Azione cattolica, si sono confrontati per un’intera giornata per discutere di politiche sociali, a partire da quelle a sostegno della famiglia e del lavoro. Nessuna logica di lobby e nessuna nostalgia per la vecchia Dc.
La bandiera della difesa della famiglia ha molto poco di ideologico. Pesa più il ruolo essenziale di ammortizzatore sociale svolto in tempi di crisi. Ma i tagli del governo del professore Monti pesano sulle strategie delle amministrazioni locali. Così partire dalla famiglia diventa emblematico per affrontare il nodo dei bisogni delle città e del futuro possibile. Del come affrontare la crisi anche come opportunità di cambiamento. Lo puntualizza il presidente dell’Azione Cattolica, Franco Miano. «Emergono le difficoltà, ma anche la fiducia. La crisi impone rigore e creatività per attivare nuove solidarietà» assicura. Se vi è sostegno all’azione del premier Monti, nessuno sposa la linea dell’antipolitica. «Ciascuno faccia responsabilmente la sua parte di sacrifici» aggiunge Miano. «La politica non sia spettatrice, dunque non solo cooperi responsabilmente all’azione riformatrice del governo, ma accompagni tale azione con riforme istituzionali altrettanto necessarie per combattere la crisi» a partire da quella elettorale. Non sono appelli generici. Li riassume un appello trasversale per «un Patto di rinnovata responsabilità» lanciato ieri. L’invito è alle scelte nette per l’equità e la
solidarietà, al coraggio contro i monopoli e gli oligopoli, a colpire gli «interessi particolari» di chi «non paga mai» e a tutelare le fasce medio-basse della società.
È un confronto bipartisan quello che si sviluppa alla Domus Pacis. I cattolici si incontrano, si confrontano, trovano punti di impegno comune. «Il confronto oggi è più semplice, perché meno ideologico», osserva Alberto Mattioli, già vicepresidente della provincia di Milano, ora con Pezzotta. Sottolinea come le divisioni interne ai partiti, «legate oggi a logiche particolaristiche, impediscano una libera riflessione».
Gli incontri di Ac possono far maturare un «tessuto comune» dei nuovi diritti per la presidente del Provincia di Bologna, Beatrice Draghetti (Pd). Nessun partito cattolico c’è all’orizzonte assicura Andrea Ferrazzi, assessore a Venezia. Per Santina Mastropasqua, invece, i cattolici potrebbero confluire in un centro moderato, «ma se c’è il proporzionale».

La Stampa 29.1.12
Giustizia, è scontro sulla prescrizione “Agente patogeno”
Milano, affondo del presidente della Corte d’Appello Cicchitto: “Vuole solo la condanna di Berlusconi”
di Fabio Poletti


MILANO L’imputato Silvio Berlusconi, nemmeno lo nomina. Ma si capisce che è a lui e ai suoi processi che si riferisce il Presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio, nell’aprire l’anno giudiziario a Milano. L’ultimo braccio di ferro di questi giorni tra l’ex premier e i suoi giudici, è sul processo Mills che rischia di svaporare a momenti per prescrizione. Il giudice Canzio guarda al calendario che corre e a quello che potrebbe succedere molto presto in aula: «La prescrizione del reato è un agente patogeno del sistema giustizia perchè incentiva strategie dilatorie della difesa e implementa oltre ogni misura il numero delle impugnazioni in vista dell’esito estintivo». Silvio Berlusconi e i suoi legali hanno deciso di ricusare il giudice al rush finale, per accelerare la conclusione del processo. Ma il giudice - sempre senza nominare nè Berlusconi nè i suoi avvocati - bacchetta chi adotta facili trucchetti: «Il dovere di lealtà processuale di tutte le parti è necessario contro ogni ipotesi di abuso del processo».
La reazione della politica non si è fatta attendere: «È evidente - dice in serata il capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto - che Canzio vuole confermare pubblicamente che tutto il “rito ambrosiano” si muove per assicurare a Berlusconi una sicura condanna. In questo modo Canzio ha voluto mettere in evidenza, se ce ne fosse bisogno, che la cosiddetta terzietà del giudice per quello che lo riguarda è andata a farsi benedire».
Ma il richiamo al mondo della politica del giudice Canzio mica finisce qui. Nomi continua a non farne, però si capisce dove va a parare nella sua relazione inaugurale. Spiega il magistrato milanese: «I rappresentanti dei poteri esecutivo e legislativo dovrebbero evitare, nel commento delle decisioni dei giudici, ogni critica che possa compromettere l’indipendenza della magistratura e minare la fiducia del pubblico nella stessa». Meglio, molto meglio per il giudice Canzio, se i politici si limitassero a usare il codice di procedura e solo quello: «I politici dovrebbero astenersi da qualsiasi azione che possa mettere in dubbio la loro volontà di rispettare le decisioni dei giudici, diversa dall’esprimere l’intenzione di proporre impugnazione».
E però - prescrizione o non prescrizione - i «processi politici» a Milano stanno finendo. All’imputato Silvio Berlusconi manca un niente per uscire di scena pure qui. Per questo, secondo il giudice milanese, il palazzo di corso di porta Vittoria potrebbe non essere più così sotto i riflettori: «La speciale e obiettiva sovraesposizione che negli anni più recenti ha caratterizzato gli uffici giudiziari milanesi, sul piano dei rapporti con i media e con la politica, per la particolare importanza e rilevanza sociale sia dei fatti sia delle persone coinvolte in indagini e processi, è destinata a stemperarsi». Di sicuro - ed è l’unico ammonimento esplicito alla sua categoria - il giudice Canzio non ha amato il protagonismo di certi magistrati milanesi in questi anni: «Tutti osservino le regole deontologiche. Come raccomanda il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, i giudici devono dare prova di moderazione nei loro rapporti con i media». Ma il lavoro dei magistrati milanesi - Berlusconi o non Berlusconi - va avanti. Anche se è chiaro per il Presidente della Corte d’Appello di Milano che avere avuto ed avere tutt’ora un imputato di questo rilievo certo non ha aiutato nel lavoro di smaltimento delle pratiche arretrate. Però spiega Giovanni Canzio - qualcosa si è fatto: «Nonostante siano stati trattati processi delicati è diminuito anche se di poco il numero dei processi pendenti che è passato da 6205 a 6119». Una inversione di tendenza magari non sempre visibile vista la notorietà di alcuni processi come ammette il giudice: «I quattro procedimenti a carico dell’ex Presidente del Consiglio sono di notorio e notevole impatto mediatico».

il Fatto 29.1.12
“Se toccate la prescrizione cade il governo”
La linea del Pdl fa breccia sul ministro

qui

La Stampa 29.1.12
E nell’oroscopo dei leader il 2012 spaventa anche la Cina
di Francesco Manacorda


Al lavoro Tutti i big dell’economia mondiale sono d’accordo: bisogna battere la crisi Sulle ricette, i tempi e le priorità, però, non c’è accordo Nella foto, pulizie nei locali del Forum di Davos
Ma anche l’Iran che fa paura, le elezioni americane, l’Asia che vista da vicino è tutt’altro che omogenea. Il World Economic Forum, con il suo carico di accademici, politici, businessmen e qualche visionario, è anche il posto giusto per cercare di abbozzare qualche previsione sul 2012. Chiamatelo, se volete, l’Oroscopo di Davos.
A Asia. Cina e India, unite dalla crescita interna, divise dalle condizioni economiche. «Gli asiatici - spiega Kishore Mahbubani, rettore dell’Università di Singapore - hanno capito che devono contare sempre di più sulla loro domanda interna». «Ma la Cina può spingere sulla domanda interna - avverte il ministro dell’Industria di Delhi Anand Sharma - mentre noi dobbiamo affrontare un deficit di bilancio che rende questo più difficile».
B Banalità. Diciamolo subito: spuntano più di una volta tra le previsioni. Ad esempio quella del presidente della Banca Mondiale Bob Zoellick: «Il mondo non tornerà mai quello che abbiamo conosciuto». In effetti.
C Cina. Ancora lei, la seconda economia mondiale un po’ sottorappresentata a Davos, complice anche il Capodanno cinese. «C’è un misto di speranza e di preoccupazione - spiega alla Reuters Nariman Behravesh, capo economista della Ihs Global Insight - su due fronti. Il primo è che la Cina è ancora troppo dipendente dalle esportazioni e questo la rende vulnerabile. Il secondo riguarda il mercato immobiliare», che si è gonfiato a dismisura. «Ci sono pochi Paesi in cui si riesce a sgonfiare una bolla immobiliare senza creare altri danni all’economia».
D Draghi. Mario Draghi e la sua Bce conteranno molto anche nel 2012. Ma forse dovrebbero contare un po’ meno. Zoellick è molto chiaro: «Siamo contenti che la Bce abbia deciso di finanziare il sistema bancario. Ma è inutile far finta di nulla: è una mossa che serve solo a prendere tempo».
E Europa. Ce la farà? Schiere di governanti europei e alti funzionari internazionali si sono alternati sui palchi di Davos per spiegare di sì. Dall’altra parte dell’Atlantico però la prognosi non è scontata. C’è il solito Nouriel Roubini: «La Grecia fuori dall’euro in dodici mesi. Entro 3/5 anni c’è il 50% di probabilità che l’euro esploda». Ma anche il docente di Harvard Kenneth Rogoff si domanda: «Quando è che la zona euro si sveglierà e capirà che almeno due o tre Paesi della periferia hanno bisogno di grandi pulizie in bilancio e forse di un periodo di ferie dall’euro? ».
F Forze politiche. «In Europa vedo una radicalizzazione dei partiti - dice il condirettore del Financial Times, Gideon Rachman -: ad esempio si prevede che alle imminenti elezioni olandesi estrema destra ed estrema sinistra prendano circa il 30%. E c’è la possibilità che aumenti il sentimento antieuropeo, anche a Berlino o a Bruxelles senti dire che ci vuole più Europa».
G Gas. La novità la segnala Thomas Friedman, editorialista della rivista Foreign Affairs: «Pochi se ne sono accorti, ma la scorsa settimana gli Usa sono diventati esportatori netti di gas». Questo significa anche che sul panorama energetico internazionale, Iran compreso, aumenta il peso della Cina, grande importatore di risorse. IIran. «La paura più forte degli Usa - spiega ancora Friedman - è che Israele dia inizio a una guerra contro l’Iran che poi gli Stati Uniti dovrebbero finire. Almeno nei prossimi dodici mesi questo, secondo gli Usa, non deve succedere».
L Latin America, come si chiama qui. «Non è mai stata in condizioni migliori per andare avanti», dice l’ex Governatore della Banca del Messico Guillermo Ortiz. E anche se l’inflazione schizzerà a livelli impensabili per Ortiz «riusciremo a fare quello che dobbiamo fare. Questo è il nostro decennio».
M Media. Tenete d’occhio la sorella di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook. Si chiama Randi ed è venuta ad annunciare la sua nuova iniziativa nei media «sociali». Si chiama R to Z Media e propone di portare sui vari sistemi - da Twitter a, ovviamente, Facebook - temi di impegno sociale, assieme alle Nazioni Unite.
N Nuovi mercati. Con il Doha Round sul commercio internazionale bloccato si dovrà puntare - dice il cancelliere dello Scacchiere britannico George Osborne - «su accordi regionali o anche bilaterali. Ma non bisogna cedere al protezionismo».
O Obama. Le previsioni sono orientate a suo favore in vista delle presidenziali. Robert Shiller, l’economista che per primo vide le «bolle» destinate a scoppiare della finanza Usa, è convinto «che se l’economia andrà bene nell’election day, Obama sarà rieletto».
P Primavera Araba. I segnali non sono incoraggianti. Ma sull’Egitto il candidato alle elezioni presidenziali Amr Mussa ha buone speranze: «La Costituzione, qualunque sia l’esito delle elezioni, non può essere scritta da un solo partito, tutti dovranno collaborare. Anche i fratelli Musulmani sono d’accordo».
S Spread. Non è solo quello dei titoli di Stato, ma anche il verbo «to spread», che segna la diffusione, possibile se non probabile, della crisi. Sentite il Governatore della regione di Hong Kong Donald Tsang: «La crescita in Asia sarà vicina al 7%. Noi abbiamo conti pubblici in equilibrio, zero debito e siamo vicini alla piena occupazione. Bella situazione, no? Eppure io non sono mai stato così spaventato come adesso. Temo il contagio europeo».
T Tempesta perfetta. La prevede sempre il pessimologo Roubini, che però altre volte c’ha azzeccato. «Nel 2013 potrebbero arrivare un indebolimento dell’economia Usa, un significativo rallentamento di quella cinese e una grave recessione nella zona euro».
U Usa. «Cresceremo tra i 2 e il 3%», dice il Segretario al Tesoro Tim Geithner. Una visione decisamente più ottimista - Europa permettendo - di quella del presidente della Fed ben Bernanke, che ha deciso di tenere molto bassi i tassi d’interesse fino al 2014.
Z Zelo. Sarà eccesso di zelo ricordarlo, ma i critici di Davos ricordano che spesso, in passato, i tanti leader qui riuniti non hanno visto arrivare tempeste enormi: dalla crisi finanziaria asiatica al contagio delle finanze pubbliche greche. Andrà meglio per le previsioni di questo 2012?

Repubblica 29.1.12
L’uguaglianza dei diritti
Salviamo la Russia dall´autoritarismo ora un referendum sulla Costituzione
Un nuovo partito democratico per cambiare il Paese
di Mikhail Gorbaciov


L´obiettivo più importante è escludere la possibilità di un monopolio del potere da parte di una singola persona o di un gruppo
La gente vuole che si osservi il principio dell´uguaglianza delle opportunità, dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge

Il dicembre 2011 ha mutato la situazione socio-politica in Russia. La società si è svegliata, proclama i suoi diritti. Se all´inizio il potere sperava di superare felicemente le proteste, ben presto è stato chiaro che non ci sarebbe riuscito. Non l´avrebbe "scampata". Ha dovuto reagire. Probabilmente c´è stata la tentazione di ricorrere ad azioni di forza, come già in passato, ma la ragione ha avuto il sopravvento.
Si è preferito agire in modo più diplomatico, riconoscendo nelle manifestazioni di protesta una testimonianza della maturità democratica della società. Ma il potere rifiuta di accogliere le richieste dei manifestanti: di annullare il risultato delle elezioni, falsato dalle irregolarità, e indire una nuova consultazione.
E dietro all´indignazione dei cittadini per i brogli elettorali s´intravede qualcosa di ancora più importante: il malcontento della parte più illuminata della popolazione urbana per il potere esistente, per i sistemi, i metodi e gli strumenti di cui si serve. Tenendo conto del carattere delle richieste avanzate, rivolte non solo contro persone concrete, ma anche contro la "verticale del potere", si può dire che il paese stia vivendo una grave crisi politica. E poiché la famigerata "verticale" è sorta nell´ambito della Costituzione vigente, quella odierna è anche una crisi costituzionale. A tutti coloro che non sono indifferenti al destino del Paese, lo sviluppo degli eventi pone con grande urgenza la domanda: che cosa accadrà poi? Quali obiettivi deve porsi la società civile dopo le elezioni presidenziali?
Quello che ci appare come il più importante obiettivo strategico è un cambiamento che escluda la possibilità di un monopolio del potere da parte di una singola persona o di un gruppo. La Costituzione del 1993 fu approvata in condizioni di una feroce lotta del potere esecutivo, nella persona del presidente Eltsin, con quello legislativo, rappresentato dal Soviet Supremo. Il potere esecutivo, uscito vincitore da questa lotta, dettò la concezione generale della struttura politica: formalmente democratica ma sostanzialmente autoritaria, assegnando al presidente del Paese dei poteri di fatto illimitati. Sarebbe ingenuo credere che un Paese con una lunga tradizione di governo (e di pensiero) autocratico e autoritario possa, d´un colpo solo, approdare a un sistema politico che risponda a tutti i requisiti della democrazia parlamentare. Ma è ciò che bisogna perseguire, se vogliamo una vera modernizzazione politica.
2. Paradossalmente i circoli liberali di destra cercano di cavalcare l´indignazione dei cittadini per i brogli avvenuti durante le elezioni della Duma. Nella loro scala di valori al primo posto ci sono la proprietà privata, l´arricchimento personale, alti standard di consumo individuale, la giustificazione dell´ineguaglianza sociale. Dallo Stato si aspettano una difesa dell´ordine basato su questi "valori". La maggioranza dei russi invece dà la preferenza a richieste che si è soliti definire "di sinistra". Suscita scontento l´esasperata disparità patrimoniale. La gente vuole che si osservi il principio dell´uguaglianza delle opportunità, dell´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Fra i diritti civili sono ritenuti prioritari quelli sociali, "di sinistra": il diritto all´istruzione e all´assistenza medica gratuite, alle garanzie per la vecchiaia e la malattia, il diritto al lavoro e a una sua retribuzione dignitosa.
3. Nel XX secolo la Russia ha sperimentato due modelli opposti di sviluppo sociale. Il "socialismo di Stato" sovietico ha permesso di portare avanti l´industrializzazione del paese, ma a prezzo di enormi perdite umane e materiali. Il modello neoliberale, inaugurato all´inizio degli anni ´90, ha portato a una crescita inaccettabile della disuguaglianza sociale, alla polarizzazione di ricchezza e povertà. È possibile un´altra via? L´esperienza dei paesi dell´Europa Occidentale, soprattutto di quelli Scandinavi (non priva, naturalmente, di contraddizioni e problemi) permette di rispondere affermativamente a questa domanda. Nella società, come hanno mostrato i risultati delle elezioni della Duma, cresce la richiesta di una politica nello spirito di un progetto social-democratico. Una politica che coniughi le esigenze del mercato e dell´imprenditorialità privata con un ruolo attivo dello Stato nella sfera economica e sociale. Se si considera anche l´orientamento di valori prevalente della coscienza sociale, risulta evidente che esiste il terreno per un consenso social-democratico.
4. A mio avviso non deve esistere un "partito del potere" che s´identifica con lo Stato, mentre gli interessi della società s´identificano con quelli della dilagante e corrotta burocrazia russa. I partiti devono essere "separati dallo Stato". Se un partito debba esistere oppure no (purché agisca nel campo costituzionale) devono deciderlo non i funzionari, ma i cittadini, attraverso il meccanismo delle elezioni. Solo a tale condizione e con l´indispensabile garanzia della libertà e dell´indipendenza dei mezzi d´informazione, compresi quelli elettronici, saranno possibili delle elezioni oneste e libere, una reale concorrenza dei partiti politici per il diritto di partecipare al governo dello Stato, la responsabilità e l´alternanza del potere, cioè un normale funzionamento del sistema politico.
Intravedo la comparsa in Russia di un nuovo, forte partito democratico, capace di prendere l´iniziativa di un rinnovamento della Costituzione: rinnovamento dettato dalla vita stessa. La via concreta per arrivarci è il referendum. Ecco cosa si dice nella Legge sul referendum: «Il referendum, al pari delle libere elezioni, è suprema e diretta espressione del potere del popolo». Agli elettori si potrebbe proporre il quesito: sostenete una riforma politica e costituzionale che elimini "l´autocrazia" e garantisca il potere popolare? E dunque, referendum popolare!
(Copyright Novaja Gazeta. Traduzione Emanuela Guercetti)

l’Unità 29.1.12
Il giovane Gramsci non è un alieno
I primi scritti del grande pensatore, secondo l’analisi di Leonardo Rapone, rivelano discontinuità con le riflessioni della maturità. Non si tratta tuttavia di posizioni estranee a quelle che conosciamo attraverso i «Quaderni»
di Giuseppe Vacca


Il libro. Il volume dello studioso Leonardo Rapone «Cinque anni che paiono secoli» ha dato spunto ad aspre polemiche. Sul Corriere della Sera Paolo Mieli ha scritto una recensione dal titolo «Il giovane Gramsci contro la democrazia. “È la nostra peggior nemica”, scrisse sull'Avanti! Preferiva il liberalismo proprio perché borghese». Marcello Veneziani sul Giornale ha sostenuto la tesi che i primi scritti rivelano addirittura un giovane Gramsci mussoliniano. Su l’Unità Bruno Gravagnuolo ha già contestato quest’ultima tesi: «Il Gramsci di destra? Mai esistito. Perché l’iniziale radicalismo del pensatore non ha nulla a che fare con Mussolini».

Cinque anni che paiono secoli» è l’espressione con cui Gramsci riepilogò il suo vissuto della Grande Guerra. Leonardo Rapone l’ha eletta a titolo della sua biografia del «giovane Gramsci» (L. Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo. 1914-1919, Carocci editore) che si può considerare l’opera più spiccatamente storiografica finora dedicata agli anni della sua formazione. Come si sa, Gramsci, autore decisamente postumo, venne conosciuto prima per le Lettere dal carcere e i Quaderni del carcere, e solo dal 1954 cominciarono a essere pubblicati in volume gli scritti del periodo precedente. Editi in un arco temporale molto lungo, essi furono oggetto di attenzione e di dibattiti condizionati dal mutare delle congiunture politiche e culturali ancor più di quanto non fosse avvenuto per i Quaderni. Il primo aspetto da sottolineare del libro di Rapone è che, anche per la distanza che ci separa da quelle stagioni, il suo è un libro di storia: vale a dire non un libro asettico, ma neppure piegato a finalità politiche strumentali, bensì una ricerca dominata dalla passione di comprendere e spiegare. Perciò nel libro c’è un esauriente contrappunto con le precedenti stagioni interpretative e, storicizzandole, Rapone si getta alle spalle le dispute del passato.
Un secondo aspetto di questo libro è la periodizzazione. A che periodo si può fermare la «giovinezza» di Gramsci? La questione non è accademica poiché pensiero e azione politica di Gramsci furono scanditi da decisive «discontinuità». La periodizzazione proposta da Rapone, che sceglie come termine della sua ricerca la nascita dell’«Ordine Nuovo» (maggio 1919), mi pare del tutto persuasiva. Sebbene Gramsci avesse avuto incarichi di rilievo politico fin dall’autunno del ’17, solo con la direzione del movimento torinese dei consigli diventò un «capo», sia pure di dimensione territoriale limitata. Al tempo stesso, quella esperienza caratterizzò il suo approdo al bolscevismo, decidendone il destino, e ne mutò radicalmente lo spettro intellettuale.
Quanto poi al metodo, il criterio seguito da Rapone è quello di ricostruire il modo in cui la vita e il pensiero del «giovane Gramsci» furono condizionati dalla «grande storia» e sotto quest’aspetto l’evento decisivo fu la guerra: il modo in cui Gramsci la percepì e prese parte ai sommovimenti da essa originati nella lotta politica e nell’intellettualità europea, filtrati dal crogiolo della città più moderna dell’Italia di allora, Torino. Tra il ’14 e il ’19 Gramsci era un intellettuale più che un politico, un «giornalista integrale» piuttosto che un pensatore; ma il solco della sua vita era già tracciato. Gramsci si iscrisse al Partito socialista nel 1913, cioè dopo il sopravvento del socialismo «intransigente». Il suo «programma di ricerca» era, quindi, scandito da uno straordinario impegno intellettuale per dare coerenza teorica e culturale al «socialismo rivoluzionario». Tener ben fermo questo dato consente a Rapone di ricostruire l’individualità della figura di Gramsci nel suo farsi utilizzando e rielaborando con grande libertà elementi della cultura europea attinti prevalentemente al di fuori delle correnti ideali del socialismo. Si sciolgono, così, molti dilemmi che, cominciando dai suoi avversari dell’epoca e attraversando la boscaglia della letteratura successiva alla pubblicazione degli scritti, hanno quasi sempre fallito il compito di coglierne l’autonomo sviluppo e l’unitarietà. Conviene fare qualche esempio: il «giovane Gramsci» fu bergsoniano, soreliano, gentiliano, crociano? Una rilevante mole di scritti si è cimentata con questi esercizi dissolvendo molto spesso la figura di Gramsci nella molteplicità delle sue fonti culturali. La via seguita da Rapone ci consente invece di enucleare il profilo del suo pensiero sviluppatosi attraverso le più ardite «contaminazioni» della cultura europea del primo Novecento: un pensiero sincretico, di cui si può riconoscere l’unità e l’autonomia ricostruendone la finalizzazione al progetto politico perseguito. Il caso politicamente più rilevante riguarda il primo articolo scritto da Gramsci, Neutralità attiva e operante (31 ottobre 1914) che gli costò più d’un anno di ostracismo nel suo partito e ancora viene citato per sostenere che inizialmente Gramsci fosse stato «interventista». Per brevità non racconto il modo in cui Rapone giunge a dimostrare il contrario, ma invito a soffermarsi innanzitutto su quel «caso» per avere un’idea di quanto i suoi criteri storiografici siano efficaci.
Questo libro contribuisce, infine, a fare chiarezza su un problema che solo all’apparenza riguarda gli «studi gramsciani», mentre in realtà ha un interesse storico e culturale molto più vasto: la questione della continuità o discontinuità fra il «giovane Gramsci» e il Gramsci dei Quaderni. La questione ha origini lontane, dovute all’autorevolezza dei primi sostenitori della continuità – a cominciare da Eugenio Garin – che continuarono ad affermarla anche dopo la pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni del carcere (1975). L’interesse più vasto a cui ho accennato riguarda la storia del comunismo italiano e la tendenza storiografica, prevalente fino a pochi anni fa, a considerarlo in blocco una eccezione, o quanto meno un «comunismo nazionale» tendenzialmente autoctono grazie all’impronta che Gramsci gli avrebbe impresso fin dal 1926. La scansione della biografia politica e intellettuale di Gramsci serve a fare chiarezza anche su questo, a condizione che, ricostruendo l’itinerario del «giovane Gramsci», si abbia piena consapevolezza della novità costituita dai Quaderni, che Rapone mostra di padroneggiare sapientemente.
Il carattere sistematico dei Quaderni, la novità del pensiero politico e della filosofia che li percorre vengono utilizzati da Rapone non già per presentare il pensiero precedente come un reticolo di felici anticipazioni, bensì per cogliere le differenze politiche e teoriche fra il Gramsci «giovane» e il Gramsci «maturo», e fare emergere come il suo cammino sita stato scandito dai mutamenti della storia mondiale nel ventennio 1915-1935. Per fare solo un esempio: se fra il 1919 e il 1926 si può dire che il tema principale della biografia di Gramsci sia stato l’attualità della rivoluzione mondiale, sarebbe difficile provare ch’essa fosse ancora al centro della ricerca dei Quaderni. La biografia di Gramsci si può dividere così, grosso modo, in tre periodi: pre-bolscevico, bolscevico e post-bolscevico. Ricostruire storicamente il primo al modo di Rapone consente di tener fermi gli eventi epocali (la guerra e la rivoluzione russa) e la temperie intellettuale (la crisi della cultura europea del primo Novecento) su cui Gramsci continuò a riflettere in carcere, ma anche di individuarne le discontinuità concettuali e strategiche originate dal mutare della situazione mondiale (l’«americanismo» e le sue proiezioni sull’Europa) ben oltre i confini che il comunismo sovietico potesse abbracciare.
Il comunismo italiano del secondo dopoguerra s’innestò senza dubbio nel pensiero dei Quaderni, ma solo nei limiti consentiti dall’interdipendenza fra un comunismo nazionale che aveva il vantaggio di operare fuori dalla sfera d’influenza sovietica, e la sua appartenenza al comunismo internazionale. Valore e limiti di quella esperienza appartengono, quindi, a un tempo storico che non fu quello di Gramsci e liberare le potenzialità del suo pensiero, scandagliare la contemporaneità di un classico del Novecento, quale Gramsci è ormai universalmente considerato, è tanto più agevole quanto più se ne svincoli la biografia dalla vicenda successiva del suo partito. In questa prospettiva, l’individualità del «giovane Gramsci» che Rapone ci restituisce è una pietra miliare per la ricerca che oggi impegna una nuova generazione di studiosi non solo di Gramsci, ma della politica e della cultura del Novecento.

La Stampa 29.1.12
Yang Lian: il poeta è una zavorra
Parla lo scrittore cinese esule vincitore del Nonino «Il governo di Pechino non poteva tollerare i miei versi»
«Dai tempi di Tienanmen la Cina è cambiata: non è più un Paese chiuso, ora è parte del mondo»
di Mario Baudino


Yang Lian: figlio di un diplomatico cinese, è nato a Berna nel 1955

Yang Lian, che cos’è un poeta? «Quello che stabilizza la barca, la zavorra» risponde da Percoto, dove ha ricevuto il premio Nonino. Il termine inglese che sceglie è «ballast», in cinese chissà come sarà. È una zavorra senza nessuna delle connotazioni negative che le attribuiamo in italiano. «Il mio lavoro è creare linguaggio, perché il pensiero e la cultura sono infissi profondamente nel linguaggio. Per questo non mi dispiace affatto di essere un poeta in questo tempo in cui nessuno legge poesie». Neanche in Cina, dove venne dichiarato persona non gradita all’indomani della strage in piazza Tienanmen, quando i carri armati sbaragliarono gli studenti che chiedevano democrazia. Si trovava casualmente a Auckland, in Nuova Zelanda. Organizzò proteste e solidarietà, ma soprattutto scrisse una poesia.
Incominciò da allora un lungo esilio, anche se col tempo, a partire dagli Anni Novanta, Yang Lian ha avuto la possibilità, da cittadino neozelandese, di rientrare con un visto turistico. «Là ci sono i miei affetti, gli amici, la famiglia, la lingua. Mio padre ha novant’anni». Era un diplomatico di alto rango (Yang Lian è infatti nato a Berna), fu travolto dalla «rivoluzione culturale». Il figlio si segnalò presto come uno dei poeti più importanti; faceva pare di un movimento d’avanguardia, sospettato di voler «occidentalizzare» la poesia cinese. Ha tradotto molti autori americani e europei - soprattutto Ezra Pound ma il cuore del suo lavoro è proprio il confronto con la tradizione. «Noi viviamo, tutti, a Est come a Ovest, nella ricerca e nella fascinazione dell’Altro. Ma rispetto alla Cina moderna, anche la tradizione classica è radicalmente Altro. Confrontarsi con essa ti dona una grande libertà».
Di scrivere, e nonostante le tempeste politiche, anche di pubblicare. L’anno scorso scoprì tuttavia di essere andato un po’ oltre. Uscì la sua autobiografia in versi. E restò in libreria meno di un giorno. «Io e il mio editore speravamo che non avrebbe attratto l’attenzione. Parlavo della morte, che è il cuore del poema: la morte pubblica, il massacro di piazza Tienanmen, e quella privata, di mia madre. In Cina i fatti dell’89 sono l’unico vero tabù, e tuttavia noi pensavamo che nel mare dell’editoria commerciale nessuno avrebbe fatto caso a un libro di poesia. Eravamo ingenui. L’editore fu consigliato - direi costretto - a ritirare immediatamente il libro». L’autobiografia è però pubblicata in volume a Hong Kong, Taiwan, Singapore, e in Cina è reperibile su Internet. «Il Paese sta cambiando velocemente. C’è censura su temi politici, ma per la letteratura è spesso più una questione di autocensura da parte degli editori stessi». Quando venne in Italia per il premio Flaiano, cercò di spiegare la situazione che stava vivendo allora: «Fino all’89 la protesta non era davvero politica, il vero oppositore era lo scrittore. Mi dissero che il governo non poteva tollerare una poesia come la mia. Risposi che la poesia non poteva tollerare un governo come quello».
Era il ‘99, la Cina è molto cambiata? «Non è più un Paese chiuso, è parte del mondo. Anche noi, singolarmente, non possiamo non avere una visione globale, basata sull’individuo, sulla sua indipendenza e sulla sua creatività». Quando dice anche noi, pensa agli intellettuali, agli scrittori, ai poeti come lui. Il suo obiettivo, ogni volta che scrive una poesia, è «toccare i limiti della lingua cinese». Oppure «costruire una torre partendo dal tetto». Un buon esempio possono essere alcuni versi della raccolta Dove si ferma il mare, tradotta in Italia da Scheiwiller: «Nei cimiteri cinesi i pini respirano così come crescono / ma il vento cambia tranquillo la direzione della giornata / l’aratro va avanti e indietro fino alla fine del campo / verde fertile libro di agosto / la vita semina i semi dei morti».
Il mare non si ferma mai. Può farlo solo nella poesia, spiega. «Nella grammatica cinese non c’è il passato remoto, e ciò dà la possibilità di cogliere ogni movimento in una situazione atemporale». Non è un bizantinismo, anzi ha pesanti ricadute sulla realtà. «La poesia su Tienanmen, nell’89, finisce così: “Questo è senza dubbio un anno perfettamente normale”. Fece scandalo anche fra i miei amici: non era assolutamente un anno normale. Ma io intendevo che era già accaduto migliaia di volte». Il regime non gradì.

Corriere della Sera 29.1.12
Non facciamo come le formiche
Il mito dell'insetto «eusociale» genera l'incubo di un'umanità sottomessa
di Edoardo Boncinelli


«Non ti conosce né il toro né il fico, / né i cavalli né le formiche di casa tua. / Non ti conosce il bambino né la sera / perché sei morto per sempre». Chi non ricorda questa mesta e trionfale considerazione di Federico García Lorca in Alma ausente? Oppure il Montale di Ossi di seppia: «Nelle crepe del suolo o su la veccia / spiar le file di rosse formiche / ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano / a sommo di minuscole biche»? Ebbene, le formiche e le loro minuscole biche (i monticelli del formicaio) pongono un formidabile problema alla biologia evoluzionistica e alla biologia in generale. E non da oggi. Api, termiti e formiche hanno attratto da sempre la curiosità del naturalista e fatto speculare sul fondamento biologico della loro eccezionale cooperatività e avanzata eppure disinvolta socialità.
Perché tanta mirabile armonia nelle colonie di questi insetti, detti non a caso sociali o anche «eusociali»? Come mai ciascun membro della colonia fa sempre e comunque quello che deve fare, senza curarsi, almeno apparentemente, della fatica e del proprio tornaconto? Chi controlla, in sostanza, questa gigantesca macchina da sopravvivenza collettiva? A poco a poco si è fatta strada l'idea che un formicaio (o un termitaio o un alveare) costituisca una sorta di superorganismo, un'inusitata entità biologica che è ora l'oggetto di un libro formidabile, Il superorganismo, di Bert Hölldobler ed Edward O. Wilson (Adelphi, pp. 602, 49), che ne analizza molti degli aspetti fisiologici, genetici ed evolutivi. Si tratta di un'opera a suo modo definitiva e destinata a restare, scritta da due eccezionali entomologi e biologi teorici. Un formicaio in sostanza non è una collettività di individui interagenti, ma una sorta di superorganismo composto di quasi-cellule interagenti e spesso strettamente imparentate dal punto di vista genetico: più strettamente di quanto siano normalmente gli individui componenti una popolazione. Comportarsi correttamente, in sintesi, è utile alla colonia ma anche, seppure indirettamente, ai singoli componenti della stessa. Una visione semplice e lineare, ma quanta perseveranza, immaginazione e consequenzialità ci sono volute per arrivare a tale conclusione, peraltro non ancora a prova di bomba.
Lasciamo parlare i due autori: «Grazie al suo sistema di comunicazione e alla divisione del lavoro basata sulle caste, ogni colonia di insetti sociali è abbastanza integrata da poter essere definita "superorganismo". L'organizzazione sociale, tuttavia, varia enormemente da una specie all'altra, ed è possibile ravvisare diversi livelli evolutivi del superorganismo». E ancora: «Il superorganismo si colloca a un livello di organizzazione biologica compreso fra quello degli organismi individuali che costituiscono le sue unità e quello dell'ecosistema, per esempio un'area di foresta di cui esso stesso rappresenta un'unità. Questo spiega perché gli insetti sociali siano tanto importanti per lo studio generale della biologia». Infine: «I superorganismi sono, per gli scienziati, vere e proprie finestre attraverso le quali assistere all'emergere, l'uno dall'altro, dei vari livelli di organizzazione biologica. Questo è importante, perché quasi tutta la biologia moderna consiste di un processo di riduzione di sistemi complessi alle loro componenti, seguito poi da un lavoro di sintesi».
A parte l'interesse intrinseco dell'argomento, possiamo imparare qualcosa che ci riguardi da vicino dallo studio degli insetti sociali? Possiamo cioè trarre spunto dal loro comportamento per regolare la nostra vita sociale? Ho qualche dubbio. Intanto gli insetti sociali non sono l'unico tipo di animali e nemmeno l'unico tipo di insetti. Sono solo uno dei tanti modi che gli esseri viventi hanno scovato per venire incontro ai problemi della sopravvivenza, in un ambiente che se non è ostile, ci è certamente indifferente. In secondo luogo le loro modalità e le nostre sono profondamente differenti. «Gli insetti sociali sono rigidamente governati dall'istinto, e lo saranno sempre. Gli esseri umani sono dotati di ragione e hanno culture in rapida evoluzione. Noi umani siamo capaci di introspezione e possiamo trovare il modo per tenere a freno i nostri conflitti autodistruttivi». O almeno si spera. I nostri vantaggi sono insomma anche i nostri svantaggi, e viceversa. A coloro che sognano per noi un futuro socialmente assai più pianificato e disciplinato occorre far notare che anche costretti a fare gli insetti, gli esseri umani sarebbero in ogni caso molto probabilmente dei pessimi insetti.

Corriere della Sera 29.1.12
Negli alveari la felicità è sconosciuta
di Piero Ostellino


L'alveare era una comunità felice perché ogni ape seguiva il proprio istinto; e, tanto meno, ubbidiva a un disegno prestabilito. Il disordine individuale era la pre-condizione del benessere generale. Ma le api si erano chieste se quello fosse il modo migliore di vivere e ne avevano concluso che sarebbero vissute meglio in un sistema che ubbidisse a un qualche disegno regolatore. Il desiderio era stato esaudito, ma l'alveare era deperito e le api avevano smarrito l'originaria felicità.
La favola di Bernard de Mandeville non è solo una metafora contro ogni progetto collettivista e pianificatorio della convivenza civile, ma, in qualche misura, anche, se non soprattutto, l'elogio dell'egoismo, della ricchezza e persino della dissipazione; che, da «vizi privati», si traducono in «pubbliche virtù». Il suo è una sorta di paleo-liberalismo, come pura «dottrina delle libertà», che ha il difetto, però, di rappresentare l'uomo liberale, invece di animale sociale, solo come puro egoismo. In realtà, il liberalismo, da Adam Smith a Friedrich von Hayek, non è una teoria dell'egoismo, bensì dei vantaggi della divisione del lavoro in una condizione di conoscenza dispersa. Il tornaconto del macellaio, del fornaio e del birraio di Smith — che ci forniscono il desinare non per benevolenza, ma per il loro tornaconto — non è egoismo, ma cooperazione in un contesto sociale in cui nessuno, teorizzerà Hayek, sa dove approdi la Storia, come vuole la concezione hegeliana del cammino della libertà, né lo sa una mente centrale, pianificatrice e dirigista, secondo la versione comunistica della liberazione dal capitalismo.
La superiorità del liberalismo come teoria empirica della conoscenza sta tutta nel fatto che gli uomini — perseguendo razionalmente i propri ideali e i propri interessi — realizzano inconsapevolmente anche il bene comune. Non è una «prescrizione» (un dover essere), ma la «descrizione» di un dato di fatto (la realtà effettuale, per dirla con Machiavelli). Qui, la divisione del lavoro e del commercio, teorizzata nella Ricchezza delle nazioni e, più ancora, la naturale «simpatia» fra gli uomini, della Teoria dei sentimenti morali di Smith e l'epistemologia hayekiana si sposano con l'egoismo mandevilliano, coniugando un principio meramente utilitaristico con l'imperativo etico che Luigi Einaudi porrà a fondamento della libertà economica e dello spirito di intrapresa. Non siamo né formiche, né api; l'umanità non è il «superorganismo» sociale che ne caratterizza le vite e chi pretende di ridurci alla loro condizione tende sempre a costruire un inferno concentrazionario dentro il quale rinchiudere chi rifiuta di essere formica o ape.

Corriere della Sera 29.1.12
«Arte e Scienza» a Bologna

Sul filo rosso del tempo che passa si muoveranno anche i quattro incontri bolognesi di «Arte e scienza in piazza»: venerdì 3 febbraio lo storico della medicina Gilberto Corbellini e l'antropologo culturale Emilio Franzina parleranno di «Come eravamo, come siamo»; l'appuntamento del 4 febbraio «Le età del corpo» sarà curato dal professore di fisiologia e biomeccanica Alberto Enrico Minetti e quello del 10 febbraio «Le età nella storia» dallo storico Alessandro Barbero; infine il genetista Edoardo Boncinelli sabato 11 febbraio indagherà «Le età della mente». In occasione della trasferta milanese della mostra, la Fondazione Marino Golinelli con la Fondazione del Corriere della Sera a Milano organizzerà in Sala Buzzati altri tre incontri: 6 marzo «Quando inizia e finisce la vita»; 13 marzo «Le età del cervello»; 20 marzo «Le età digitali».

Corriere della Sera 29.1.12
Le età variabili
La mutevole percezione del tempo durante i secoli Così l'idea di anzianità cambia di epoca in epoca seguendo gli usi culturali
Lo storico Alessandro Barbero parlerà delle età nella storia il 10 febbraio alle 18 alla Biblioteca Salaborsa (Auditorium Biagi) in piazza Nettuno
di Alessandro Barbero


Nell'XI secolo il cardinale Pier Damiani era uno degli uomini più potenti della Chiesa romana. Già vecchio, rievocò in un suo scritto un ricordo di quando, da ragazzo, era andato ad abitare a Parma per studiare le arti liberali: in pratica per fare il liceo. Erano i tempi in cui non era ancora stato imposto il celibato ai sacerdoti e accanto a lui abitava una coppia: un ecclesiastico e la sua donna. Erano giovani e allegri e per il ragazzo abitare vicino a loro era un tormento: attraverso la parete sentiva tutto, e quel che non sentiva lo indovinava. Io, dice il cardinale, ero nel fiore dell'adolescenza, la faccia cominciava a coprirsi di barba, e nella carne lo sentivo eccome, l'aculeo del desiderio, e non pensavo ad altro che a quei due, alle loro risate e ai loro giochi, e alla bocca rossa di lei, nell'alloggio accanto.
È uno dei primi testi medievali che ci parli dei turbamenti dell'adolescenza, non col tono scientifico di un trattato sulle età dell'uomo, ma con la commozione di chi a tanti anni di distanza ricorda com'era. Saltiamo avanti di qualche secolo: alla metà del Quattrocento papa Pio II, che prima di diventare Papa era l'umanista Enea Silvio Piccolomini, scrive una lettera a un amico su com'è brutta la vecchiaia. Mi accorgo che tutto è diverso, osserva il Papa: il corpo non risponde più, i movimenti diventano difficili, tutta la macchina scricchiola, non posso mai dimenticarmi che siamo mortali, e che la mia morte non è più tanto lontana.
Lo studente adolescente che comincia a radersi la barba e scopre il desiderio sessuale, l'uomo anziano che constata con angoscia il proprio deterioramento fisico: si è tentati di dire che questa è la condizione umana, e che in ogni epoca vivere ha significato attraversare queste esperienze. Ma è anche vero che ogni epoca le ha declinate a suo modo. Pier Damiani a Parma avrà avuto quindici anni: per i pochi che studiavano, in un tempo in cui le buone scuole erano ancora scarse, era normale già a quell'età esser mandati a vivere da soli in una città lontana. D'altra parte, a sedici anni un orfano diventava maggiorenne, il figlio di un nobile poteva essere armato cavaliere, e ancora molto tempo dopo, nei secoli XVIII e XIX, chi era destinato alla carriera militare entrava al reggimento a un'età in cui oggi si è considerati ancora bambini. Quanto a Enea Silvio, difficile non riconoscersi nel suo cupo quadro della vecchiaia che incalza, tranne per un particolare spiazzante: quando scrisse quella lettera, il Papa aveva quarantacinque anni.
Nel passato, insomma, si diventava adulti in fretta, e si invecchiava presto. Ammesso poi di riuscire a invecchiare, perché si moriva a tutte le età, come si può verificare leggendo a caso le epigrafi romane, o anche soltanto le lapidi d'un vecchio cimitero. Certe età erano più pericolose di altre, e fra queste l'infanzia: un bambino su tre moriva entro il primo anno di vita. Nasce dalla paurosa mortalità infantile l'idea, sbagliata, che la gente del passato non si affezionasse ai bambini. Preferivano evitare di affezionarsi ai neonati: in una pagina agghiacciante, Montaigne dice «anch'io ne ho persi due o tre», ed è chiaro che è sincero, non si ricorda davvero quanti erano. Ma quando il neonato diventava bambino, era amato come li amiamo oggi; salvo che le regole erano altre, e i genitori dovevano trattenersi, perché, soprattutto per il padre, mostrare il proprio amore era considerato diseducativo. Giovanni di Pagolo Morelli, mercante fiorentino del Quattrocento, racconta nel suo diario lo strazio indicibile della morte del figlio maggiore. Sono passati mesi, dice, e né io né sua madre abbiamo ancora avuto il coraggio di entrare nella sua stanza; e si dispera pensando che finché era vivo non gli ha mai detto una parola buona, non gli ha mai fatto sentire quanto lo amava, e adesso è troppo tardi.
Forse più di tutte le età della vita, l'infanzia è quella che esemplifica al tempo stesso la fondamentale unità della natura umana, e i mutamenti culturali che ci rendono diversi da un'epoca all'altra. In un registro del 1346 è annotata una decisione del consiglio comunale di Torino riguardante il salario del maestro di scuola; al notaio che scriveva, l'argomento ha fatto tornare in mente i bei ricordi d'infanzia, e sul margine del registro ha disegnato... un frustino. D'altra parte, i bambini di oggi continuano a costruire castelli di sabbia, come i bambini del Medioevo: di un'epoca cioè in cui il castello era il centro del mondo (che i bambini medievali costruissero castelli di sabbia, lo sappiamo da una vita di santo: lui, come capita di solito ai santi, era un bambino speciale, e invece di castelli costruiva chiese). Ignari di tutto, i nostri bambini non costruiscono grattacieli, ospedali o svincoli autostradali, costruiscono castelli: guardarli giocare è come essere trasportati indietro dalla macchina del tempo.

Corriere della Sera 29.1.12
Alla ricerca del misterioso algoritmo che migliora (e allunga) l'esistenza
di Andrea Rinaldi


Lasciarsi suggestionare dalle opere e alla fine capire i cambiamenti scientifici che sono occorsi sull'uomo. Scoprirsi così più alti di dodici centimetri dei nostri trisavoli, riconoscere di avere una resistenza alla fatica pari al maratoneta vincitore nel 1908, di aver vissuto un'adolescenza più lunga dei nostri predecessori e dunque di aver fatto vivere al nostro cervello una nuova stagione di maturazione.
A svelare questo miracolo evolutivo — avvenuto grazie non a protesi bioniche, ma a un contesto sempre migliore — sarà una mostra d'arte che si potrà ammirare sotto le volte di palazzo Re Enzo a Bologna dal 2 al 12 febbraio: «Da zero a cento, le nuove età della vita», curata da Giovanni Carrada e Cristiana Perrella e organizzata dalla Fondazione Marino Golinelli come punta di diamante dell'altra manifestazione che ha allestito nello stesso periodo, «Arte e scienza in piazza 2012», con centinaia di appuntamenti in città.
Le opere di sei artisti contemporanei si ripartiranno in sei spazi, ognuno legato a una fase della vita, e verranno messe in relazione con alcune scoperte scientifiche. L'esposizione traslocherà poi dal 21 febbraio al 1° aprile alla Triennale di Milano, già partner nell'allestimento.
Hans Peter Feldman sarà presente con 100 years, 101 scatti fotografici esposti per la prima volta al Ps1 del MoMa di New York nel 2004, che ritraggono conoscenti dell'artista tra gli 8 mesi e i 100 anni. Anche il poliedrico Gabriel Orozco presenterà un lavoro fotografico, La isla de Simon, che ritrae il ventre gravido della moglie nell'acqua come se fosse un uovo in sospensione, mentre la serie The illuminati della giovanissima Evan Baden finalmente ferma i teenager nel loro uso quotidiano di smartphone e console. Il «new british sculpturist» Anish Kapoor porterà poi a Bologna Untitled, un grande cubo di plastica trasparente con al suo interno una bolla d'aria, metafora del palpito vitale che modifica l'inerzia del materiale nel suo farsi forma. Ammicca al potenziale inespresso il video di Adrian Paci: girato nella sua città natale in Albania, riprende il rito giornaliero di venti uomini disoccupati che offrono la loro forza lavoro sui gradini della piazza centrale.
«La vita è un algoritmo — ammette Marino Golinelli, presidente dell'omonima fondazione —. In tutte le età dell'uomo la creatività è lo spirito che ci tiene vivi e che contribuisce, attraverso la linfa di una cultura che tutti insieme siamo chiamati a elaborare, ad alimentare il pianeta, dotando di senso, allo stesso tempo, le nostre stesse esistenze».
Per il secondo anno dunque si rinnova la collaborazione tra Milano e la fondazione bolognese in un percorso pluriennale che, dopo il focus sull'età, l'anno prossimo porterà l'attenzione sull'energia, sulla salute nel 2014 e sull'alimentazione nel 2015 per l'Expo.

Corriere della Sera 29.1.12
La grande famiglia del Dna «Le galline? Nostre cugine»
L'epistemologo: parenti delle scimmie, non discendenti
di Paola Caruso


Le galline sono nostre cugine. Alla lontanissima. L'affermazione sembra ardua, ma non è sbagliata. Tutti gli esseri viventi sono imparentati tra loro. Senza eccezioni. Perché condividono una parte di Dna, sufficiente a conferire una certa «familiarità» tra le diverse specie della Terra. A spiegare ai bambini (e non solo) i dettagli di questa teoria è Telmo Pievani, esperto di evoluzione e docente di filosofia della scienza all'Università Milano-Bicocca. Lo studioso, insieme a Federico Taddia (autore comico per personaggi come Fiorello e Maurizio Crozza), è l'animatore di uno degli eventi più attesi alla manifestazione «Arte e scienza in piazza», a Bologna dal 2 al 12 febbraio.
Il suo intervento è previsto per il 10 febbraio (alle 11.30 presso l'Auditorium Biagi, Biblioteca Salaborsa). Il titolo: «Siamo parenti delle galline?». Ovviamente la risposta è sì. «Siamo tutti cugini — afferma Pievani — abbiamo almeno un antenato in comune, anche se la parentela risale a milioni di anni fa. Forse con lo scimpanzé siamo cugini di primo grado perché l'antenato in comune è di circa 6 milioni di anni fa. Invece, per trovare un nonno in comune con la gallina dobbiamo andare indietro di centinaia di milioni di anni. E poi, bisogna sfatare una credenza: noi non discendiamo dalle scimmie. Perché non siamo nipoti delle scimmie, ma cugini. È diverso».
In realtà, l'evento «Siamo parenti delle galline?» è la messa in scena dell'omonimo libro per piccini di Pievani e Taddia (pubblicato da Editoriale Scienza). Il testo è composto da 90 domande/risposte scientifiche tra le più curiose, da cui prendere spunto per lo show. «Sul palco sarà tutto improvvisato — sottolinea Pievani — e lasceremo che il dibattito guidi il tempo a nostra disposizione, tra i quesiti dei presenti e le battute comiche di Taddia». Insomma, si punta sui lati umoristici della conoscenza. «Un aspetto ironico che affascina i bambini è la storia di come i dominatori, i dinosauri, sono stati sconfitti dai più deboli — precisa l'esperto —, semplicemente perché sono cambiate le regole. Oggi siamo noi i dominatori e potremmo fare la stessa fine».
Perché ha scelto la gallina come simbolo? «Perché si collega agli uccelli e ai dinosauri — dice Pievani —. I dinosauri non si sono estinti. Alcuni, tipo i dromeosauri, si sono evoluti trasformandosi proprio in uccelli. Questa teoria, sostenuta anche dal curatore del museo di Storia naturale di New York, Mark Norrell, è stata motivo di accesi dibattiti nella comunità scientifica tra il 1996 e il 2006. Oggi è confermata da tantissimi scienziati».
Il linguaggio di Pievani è semplice, pensato per un target baby, eppure mai banale. «Non bisogna dimenticare precisione e rigore», sottolinea lo studioso. La teoria dell'evoluzione si presta alla narrazione di una bella storia, da arricchire con le ultimissime scoperte. In modo da spiegare che la scienza è una materia in divenire. Che tutte le specie si specializzano in qualcosa e diventano più intelligenti. Compreso le galline. Non è un caso se i pulcini già dalla nascita dimostrano di avere conoscenze, riuscendo a elaborare l'illusione di Ebbinghaus (un oggetto appare piccolo o grande a seconda delle dimensioni degli oggetti che ha intorno).
All'incontro con Pievani non mancheranno le domande da un milione di dollari, giusto per mettere in difficoltà lo specialista. «I bambini chiedono "perché c'è la vita?" oppure "come saremo in futuro?". È difficile rispondere». La domanda più curiosa? «È stata questa: "il pollice opponibile si è evoluto per mandare gli sms?"». Anche.

Corriere della Sera Salute 29.1.12
Evoluzione. Raccontata dal punto di vista del dermatologo
ci fa capire perché uomini e donne sono di tanti colori diversiLa pelle è bianca oppure nera per garantire le vitamine necessarie
Già nel 1861, Charles Darwin asseriva che la specie umana è una sola, dal momento che «ogni razza confluisce gradualmente»
di Daniela Natali


Vi siete mai chiesti perché ci sono persone con la pelle nera e altre con la pelle bianca? O perché i neri hanno i capelli crespi? Sicuramente sì, e qualche risposta l'avete trovata da soli. Per esempio non è difficile intuire che la pelle nera difende dai cocenti raggi del sole dell'Africa, ma come spiegare le diversità nelle caratteristiche dei capelli e le tante altre differenze nelle forme di occhi, nasi e così via? Tra i tanti che di tutto questo si sono occupati, ci sono anche i dermatologi che di pelle (e di capelli) si interessano per mestiere. Aldo Morrone, poi, se ne è occupato non solo perché è un dermatologo (a lungo direttore della Struttura di Medicina preventiva delle migrazioni e di Dermatologia tropicale, al San Gallicano di Roma, e ora direttore generale del San Camillo, sempre a Roma), ma perché, dal 1985, con la sue équipe è impegnato in progetti di cooperazione in Africa, Sud Est asiatico e America Latina.
Un'esperienza importante ora che le massicce migrazioni degli ultimi anni sono arrivate in Italia portando con sè alcuni specifici problemi medici (di pertinenza anche dermatologica, vedi box) e, soprattutto, come sottolinea Morrone: «Riproponendo con forza la vecchia questione: esistono le razze?».
Già nel 1871, Charles Darwin, ne L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto al sesso, asseriva che la specie umana è una sola, dal momento che «ogni razza confluisce gradualmente». E, per arrivare più vicino a noi, dopo l'orrore nazista, nel 1950, l'Unesco, con una solenne dichiarazione, affermava che le razze non esistono. «Eppure i nostri pregiudizi continuano a pesare. Basterebbe, invece, fermarsi un attimo a pensare per rendersi conto, — dice Morrone —, tanto per restare nel campo che mi è proprio, che le diverse tonalità di colore della pelle, le diverse caratteristiche somatiche sono dovute all'adattamento alle condizioni ecologiche e climatiche. Il colore nero della pelle protegge chi vive vicino all'equatore dalle radiazioni ultraviolette, che possono indurre carcinomi cutanei».
Ma la spiegazione evoluzionistica — ché di questa stiamo parlando — dei diversi colori delle pelle nell'uomo potrebbe essere anche più complessa e intrigante. «La forte pigmentazione — chiarisce Morrone — difende infatti anche dall'azione distruttiva del sole nei confronti delle vitamine del gruppo B, tra cui c'è l'acido folico importantissimo nelle donne in gravidanza per evitare la nascita di bambini con gravi difetti genetici che portano a malformazioni come la spina bifida. E che questo secondo ragionamento sia probabilmente più vicino al vero, lo dimostra il fatto che la natura avrebbe poco interesse a darci una pigmentazione scura solo per proteggerci dal carcinoma, patologia che non insorge pressoché mai in età giovanile, età in cui siamo più "utili" dal punto di vista riproduttivo e che, comunque, i nostri progenitori difficilmente superavano. Quanto ai capelli crespi, tipici di chi ha la carnagione scura, permettono al sudore di restare più a lungo sulla testa, prolungando l'effetto raffreddante della traspirazione».
E i bianchi, allora, perché sono bianchi, o sono diventati bianchi? «I nostri progenitori — risponde Morrone, ripercorrendo la teoria evoluzionista — hanno visto la luce nell'Africa Orientale, circa 200 mila anni fa, poi, nel corso di migliaia di anni, si sono spostati verso i Poli e lì conveniva perdessero la pigmentazione scura che riduce, nell'organismo, la vitamina D (perché impedisce la trasformazione della provitamina D in vitamina D, trasformazione che viene attivata dai raggi solari) con il conseguente rischio di rachitismo».
Ma non è solo questione di cambiare colore di pelle… «Nei climi più freddi, — fa notare Morrone — il corpo, e soprattutto la testa, tendono alla rotondità e questo diminuisce la superficie in rapporto al volume corporeo (ricordiamo che la sfera è la figura tridimensionale con il minimo rapporto tra superficie e volume) riducendo la perdita di calore verso l'esterno. Il naso è piccolo (minore pericolo di congelamento) e così pure le narici, in modo che l'aria arrivi ai polmoni più lentamente e abbia il tempo di essere umidificata e scaldata. Gli occhi sono protetti dal freddo grazie alle palpebre, che sono vere e proprie borse di grasso (che forniscono un isolamento termico eccellente) e lasciano un'apertura molto sottile».
A ttenzione però a non esagerare con le spiegazioni evoluzionistiche. È vero che spostandoci dall'Africa dove sono nati i nostri progenitori ci siamo via via adattati ai nuovi ambienti in cui ci siamo venuti a trovare, ma non siamo perfetti, e ci sono rimaste anche caratteristiche sfavorevoli o poco favorevoli. Il passaggio alla posizione eretta, ci insegnano i paleoantropologi, è avvenuto in tempi relativamente brevi dal punto di vista evoluzionistico, pochi milioni di anni, e il nostro bacino non si è adeguato altrettanto rapidamente. E questo è stato un guaio: è infatti la ragione dell'alta mortalità perinatale, di madri e figli, maggiore nell'uomo che in qualunque altra grande scimmia. Ma anche la nostra schiena non ha fatto in tempo ad adattarsi ed ecco spiegati i nostri frequentissimi mal di schiena.

Corriere della Sera Salute 29.1.12
«Quando si è arrivati a contare 200 razze si è capito che non ne esistevano affatto»
di D. N.


Dell'inesistenza delle razze è un convinto sostenitore Guido Barbujani, presidente dell'Associazione genetica italiana. «Possiamo raggruppare gli esseri umani in tantissime maniere — spiega Barbujani — in base al colore della pelle, o al gruppo sanguigno, ma questa classificazione non ci permette di prevedere in quali altre caratteristiche i nostri gruppi avranno effettivamente caratteristiche simili. Possiamo dire che tutte le persone con gruppo A negativo avranno anche la tendenza a diventare obese o a essere allergiche agli acari? Evidentemente no. Il fatto è che non siamo tutti uguali, anzi, siamo così diversi da essere difficilmente "raggruppabili"». «Si sa come sono andati i tentativi di dividere la popolazione umana in razze — prosegue il genetista —. Nel Settecento si è cominciato a parlare di quattro razze, poi le quattro sono di ventate dieci, poi venti, poi trenta, e man mano che gli esploratori tornavano in Europa e nelle Americhe con descrizioni di nuove popolazioni che non rientravano nelle razze già note se ne aggiungevano delle altre. In questo modo si è arrivati a compilare cataloghi delle razze umane che ne contenevano duecento. Finché si è capito che l'esercizio era sterile».
Ma il genoma di un uomo di quanto può differire da quello di un altro? «Il nostro genoma è un testo con tre miliardi di caratteri, le cosiddette basi del DNA — risponde Barbujani—. Novecentonovantanove di queste sono uguali in tutti noi umani, una è variabile. Ma, attenzione, una su mille significa che abbiamo tre milioni di possibili differenze. Da qui l'estrema variabilità individuale di cui parlavo prima».
Ma tra me e il mio vicino di casa, italiano come me, e qualcuno che è nato in Africa, ci sono le stesse «diversità geniche»? «Se prendo la persona più lontana da lei, mettiamo Mandela, e pongo che le differenze tra di voi siano del 100%, quelle tra lei e il suo vicino saranno, in media, pari all'88%». Eppure Mandela mi sembra molto più «lontano» dal mio vicino? «Il fatto è che siamo molto sensibili alla diversità e facilmente confondiamo quello che è biologico con quello che è culturale — osserva Barbujani —. È probabile che questo dipenda da un meccanismo ancestrale. Riconoscere e quindi diffidare di chi non era imparentato con noi poteva essere un mezzo per proteggersi». E non lo è anche oggi? «No, oggi possiamo benissimo dire che non approviamo i costumi di una persona, le sue abitudini, il suo credo, senza invocare nessuna differenza biologica, nessuna distinzione razziale».

Repubblica 29.1.12
Walter Benjamin
Ghirigori per fare ordine dentro il caos
di Fabio Gambaro


Pensieri, riflessioni, note. Sulle rivoluzioni di Marx, i tempi di Proust, la guerra, l´arte. Su fogli sparsi, taccuini, biglietti. In una mostra a Parigi l´archivio dell´autore di "Angelus novus" Che testimonia non solo il suo metodo di lavoro, ma la costruzione mai sistematica della sua filosofia

Parigi. Walter Benjamin amava Parigi. L´amava tantissimo. Proprio nella città di Baudelaire e Proust, della Bibliothèque Nationale e dei passages, dei caffè frequentati dagli artisti e dei lungosenna inondati di sole, il filosofo tedesco aveva cercato rifugio nel 1933, per sfuggire al nazismo. Per lui la Ville Lumière fu un´oasi di pace e di cultura, dove rimase fino al 13 giugno 1940, quando le truppe del Reich alle porte della città lo costrinsero ancora una volta alla fuga. E non a caso, alla capitale francese Benjamin dedicò uno dei suoi libri maggiori, I passages di Parigi, a cui lavorò fino all´ultimo momento, abbandonando poi il manoscritto incompiuto a Georges Bataille, prima di lasciare precipitosamente il suo appartamento di rue Dombasle.
Quella tra il filosofo tedesco e la capitale francese è una storia fatta di legami forti e di affinità nascoste, che oggi riemerge in occasione della mostra "Walter Benjamin Archives" (fino al 5 febbraio al Musée d´Art et d´Histoire du Judaisme). Il ricchissimo materiale esposto a Parigi (manoscritti, lettere, appunti, schede, cartoline, registri, taccuini, foto, agende, libri e riviste) consente di leggere tutta l´opera di Benjamin come un archivio del pensiero, della percezione, della storia e delle arti.
Archivista di se stesso e grande collezionista, l´autore di Angelus novus compilava elenchi di ogni tipo, liste di libri e di cose da fare, elenchi di argomenti da approfondire e cataloghi di parole. Tra le carte c´è anche un "archivio dei suoi archivi personali", comprendente ventinove diverse voci, dalle lettere degli amici ai lavori sulla poesia, dalle notizie sui genitori alle ricerche filosofiche, dai ricordi di scuola alle fotografie. Ecco per esempio un attualissimo commento all´idea di Marx sulle rivoluzioni come locomotive della storia: «Forse le cose stanno diversamente. Forse le rivoluzioni sono il gesto della specie umana che viaggia sul treno per tirare il segnale d´allarme». Su un foglio con la pubblicità dell´acqua San Pellegrino redige invece alcune riflessioni sull´aura come «apparizione di un lontano per quanto vicino», mentre su un tagliando della Berliner Staatsbibliothek butta giù il primo schema de Il dramma barocco tedesco.

Repubblica 29.1.12
Dietro le sue citazioni il segreto della parola
di Antonio Gnoli


Ci sono stili di pensiero che seguono la corrente di un fiume e altri che la risalgono. Walter Benjamin appartiene a questa seconda categoria. È molto più faticoso stargli dietro. Egli ha fatto dell´oscurità la più solenne delle promesse al lettore. Ed è come se il venir meno di un certo ideale di chiarezza e di leggibilità coincidesse con la crescente avversione in lui per i luoghi comuni e le facili spiegazioni. Dunque pensatore complesso. Frammentario. Folgorante. Espressione di quel Novecento che ha fatto dell´inquietudine linguistica l´arma bianca con cui difendersi da una tragedia incombente. Quale? Le cose e i nomi non corrispondono più tanto bene. C´è un crollo denotativo e non si sa più cosa e con chi comunichiamo. Si può constatare - Benjamin lo fa quotidianamente - che l´idea della lingua e l´uso delle parole hanno perso di icasticità. Mancano di quell´autorità che ne legittima l´uso. Adorno osserva che gli scritti di Benjamin «avevano la risonanza del segreto». Essi ci interessano più per quello che non dicono che per quel che mostrano nella loro seducente ellitticità. Nulla è preordinato nella mente di Benjamin che continua a coltivare frasi come fossero fiori in cima a un burrone.
Un aspetto non secondario del suo stile è l´uso della citazione. Niente a che vedere con le ironiche sottigliezze post-moderne. La citazione per lui equivale alle mosse di un esercito che occupa una città. Irrompe, cattura ed espone i suoi trofei di parole. È questa la sua arte di narrare: talmudica e al tempo stesso irriverente. Tutta la sua vita è un insieme di citazioni che riporta nei suoi piccoli quadernetti di appunti. «Quel cumulo di citazioni - nota Hannah Arendt - rappresenta il lavoro principale di fronte al quale la stesura è solo un episodio secondario». Ha occhi, si direbbe, solo per il lavoro altrui. Ma è davvero così? La citazione interrompe un ritmo, crea un diversivo. Assomiglia a un´operazione di guerriglia. Scrive Benjamin: «Le citazioni nel mio lavoro sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati, estraggono l´assenso all´ozioso viandante». Ma citare non è solo tendere agguati è anche mettere in relazione aspetti e cose molto diversi tra loro. È una rete invisibile di connessioni. È Internet prima di Internet. La citazione è un gesto distruttivo, ma al tempo stesso carico di utopia: «Solo per l´umanità redenta, il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti», si legge in una delle Tesi di filosofia della storia. Ma il libro che più di ogni altro riassume lo stile benjaminiano, il suo carattere rapsodico è il Passages di Parigi, il grande affresco metropolitano che egli dipinge come fosse un montaggio-smontaggio di citazioni.
Torniamo al segreto di cui parla Adorno. Si tratta di qualcosa di essenziale che sfuggirebbe senza aver chiaro che ogni frase e ogni pensiero hanno in Benjamin una tensione messianica, una relazione con l´autorità dell´inespresso. Per questo fu uno dei pochi a pensare seriamente che la parola umana tanto più si sarebbe riscattata quanto più avrebbe riecheggiato quella divina.
Appunti che messi insieme diventano un vasto schedario, il supporto necessario di un pensiero proposto per frammenti, frutto della consapevolezza dell´impossibilità di strutturarne la presentazione in modo definitivo. «Per qualcuno i cui scritti sono dispersi come i miei e a cui le circostanze storiche non consentono più l´illusione di vederli un giorno riuniti, è una vera soddisfazione sapere che un lettore, in un modo o nell´altro, si sia sentito a casa sua in mezzo a questi miei scarabocchi», scrive Benjamin.
Possedeva taccuini per ogni occasione. C´era quello in cui annotava i libri letti e quello in cui conservava le citazioni che avrebbero potuto servirgli in futuro, quello per gli schemi e i piani di lavoro, e quello in cui finivano arborescenze di parole e costellazioni di pensieri come quelle relative a Proust, Baudelaire o Karl Kraus. Documenti preziosissimi che evidenziano il modo di procedere del filosofo che avanza per approssimazioni successive, accumulando idee, organizzando il tutto per temi e argomenti, alla ricerca di una presentazione appropriata del pensiero. Proprio come fece negli anni parigini, quando lavorava al famoso libro sui passages. In quel testo incompiuto Benjamin accumulò una gran quantità di citazioni secondo l´immagine cara a Baudelaire dello straccivendolo che raccoglie «gli scarti di una giornata nella capitale». Immagine che trasferì al lavoro dello storico materialista, presentato come colui che raccoglie avanzi e residui della storia. I passages di Parigi doveva essere un´opera fatta di stracci, scarti e residui, in cui - secondo il sommario manoscritto presentato a Parigi - potevano coesistere la moda e la storia delle sette, il sogno e la prostituzione, Jung e Fourier, Marx e Baudelaire, la noia e la pigrizia, il dinamismo sociale e il materialismo antropologico.
A Parigi però Benjamin era anche al centro di una rete di relazioni intellettuali. È a loro che Benjamin confida angosce, dubbi e paure, come ad esempio in questa lettera ad Adorno del 2 agosto 1940: «La totale incertezza di ciò che può portare ogni nuovo giorno, ogni nuova ora, domina la mia esistenza da molte settimane. Sono condannato a leggere i giornali come una sentenza e cogliere in ogni trasmissione radiofonica un messaggio di sventura».
Per sfuggire a quella sventura annunciata Benjamin approderà a Marsiglia nell´agosto del 1940, tentando poi di raggiungere clandestinamente la Spagna. Arrestato e respinto dai doganieri spagnoli, il 26 settembre, si darà la morte con una forte dose di morfina nel paesino di Portbou, dopo aver scritto un ultimo laconico biglietto all´amica Henny Gurland: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta che farla finita. La mia vita si conclude in un piccolo paese dei Pirenei dove non mi conosce nessuno. La prego di trasmettere il mio pensiero all´amico Adorno e di spiegargli la situazione in cui mi sono trovato. Non mi resta abbastanza tempo per scrivere tutte le lettere che avrei voluto scrivere». Queste drammatiche righe sono l´ultimo atto della vita di Benjamin, di cui l´affascinante mostra parigina ricorda la ricchezza di un progetto inclassificabile, che proprio a Parigi conobbe uno dei suoi momenti culminanti.

Repubblica 29.1.12
Lo sguardo di Theo
Scene di lotta da un film senza finale
di Concita De Gregorio


Il padre è un politico potente e senza scrupoli, la figlia una ragazza che ama Brecht e i miserabili. Sullo sfondo la Grecia tragica dei nostri giorni. Di questo parla "L´altro mare", l´ultima fatica di Angelopoulos, rimasta incompiuta dopo l´improvvisa morte del regista. Ecco alcune sequenze dalla sua sceneggiatura
La marcia Orestis ed E. salgono sulla moto, gli altri salgono in macchina e seguono gli scioperanti È una marcia. Una marcia lenta, silenziosa e corrucciata che scende in città, terrorizzando i rari passanti e le auto che circolano di tanto in tanto

Theo è morto come uno dei miserabili del suo film, come uno degli immigrati clandestini che cercano al porto un imbarco e trovano - di notte - le ruote di un Tir. Come uno degli scioperanti disperati della Biohalkos, la fabbrica che chiude perché si va a produrre dove costa meno, e volano giù nudi dai tetti, i cinquantenni licenziati, per strada i cordoni di polizia. Solo non è stato un camion a travolgerlo, è stata la moto di un poliziotto fuori servizio, ché se fosse stato in servizio sarebbe stata con esattezza una scena del suo film. È morto con loro, stasera alle undici saranno cinque giorni, al porto del Pireo, sul set, davanti ai figuranti che a centinaia cercano un imbarco e a decine muoiono, davanti al protagonista del film, Toni Servillo, tra le braccia del suo amico della vita Amedeo Pagani - Amedeo si chiama anche l´italiano che i trafficanti di uomini sentono al telefono per assicurarsi che la spedizione sia andata a buon fine, a Bari. «Chiama Amedeo, naturalmente», dice la battuta sul copione e sembra davvero di sentire la sua voce, la voce di Angelopoulos, che centinaia, migliaia di volte in questi anni ha detto: chiamate Amedeo. Il quale Amedeo, quello vero, quando tornavano dalla fine delle riprese e sedevano a Roma attorno a un tavolino di legno, all´aperto, rideva dicendo che Theo è impossibile, proprio impossibile, un perfezionista visionario, ti ho già detto di quando dopo aver allagato la vallata - ma allagata davvero, col paese sott´acqua e tutto - ha visto il girato, ha detto no, non va bene, la rifacciamo, allaghiamo la valle di nuovo? Hai presente cosa voglia dire allagare una valle non una, due volte? E Theo accanto, in silenzio, lo guardava ironico e solo con gli occhi sorrideva. «Non parlo mai molto», disse una volta a Wim Wenders che ascoltava dagli amici il racconto dei suoi silenzi, perché «vivo in un paese dove ogni sasso ha molta più storia, molte più cose da raccontare di ciascuno di noi. Ascolto i sassi, e serve silenzio per sentirli».
Il copione del suo film, eccolo, sono settantaquattro pagine appena - la data è 3 ottobre 2011 - ma sarebbero diventate certo cinque ore di girato, forse sei. Piani sequenza infiniti, silenzi più eloquenti delle parole. Poi due ore di film, alla fine, dopo i tagli e il montaggio. Un´ora è già girata, erano arrivati a metà del lavoro. Servillo sarebbe rimasto una settimana ancora, le scene principali c´erano già tutte. Chissà se si finirà mai, L´altro mare. Chissà se è possibile anche solo concepire che qualcun altro metta le mani sugli appunti di Theo e racconti la Grecia che muore come l´ha vista agonizzare lui, con la «tartaruga con innumerevoli zampe» - un telo di nylon immenso che ripara dalla pioggia torrenziale centinaia di scioperanti - che scende «lenta silenziosa e corrucciata» verso il centro deserto e spaventato della città.
L´altro mare, il titolo, sgorga da un verso di Seferis: "Abbiamo attraversato il mare che porta all´altro mare". Siamo ad Atene, oggi. Una città (un Paese) piegata dalla devastante crisi economica e sociale: «La metà dei negozi è chiusa, le vetrine sono vuote, i cartelli indicano affittasi o vendesi. I senzatetto occupano lo spartitraffico delle grandi strade. Sui marciapiedi cartoni lamiere tende, persone che cucinano sulla strada cercando di evitare le auto. Una lunga fila di miserabili in attesa di un pasto in un piatto di carta». Il protagonista, P., è un uomo politico e un imprenditore, per così dire. Gestisce il traffico dei clandestini in transito dalla Grecia verso l´Italia. Afgani, soprattutto. Muove i Tir, corrompe la polizia, lavora di notte ai bordi delle strade. Scende dalla sua jeep nelle piazzole buie, controlla i carichi, parla con gli autisti, poi di giorno torna in municipio dove siede tra gli scranni del partito di maggioranza. Se il sindaco si dimette, come sembra, toccherà a lui. Dunque bisogna immaginare Toni Servillo, nella finzione un uomo sui 65 anni, silenzioso, sempre solo, sotto processo per qualche misterioso reato, politico potente e trafficante senza scrupoli. Ha un autista, P., un avvocato e una figlia. La figlia, E., vive sola con lui da quando aveva cinque anni. La madre è stata uccisa - nella prima scena del film - mentre scendeva dalla macchina di un inglese, forse il suo amante. E. ha quasi trent´anni, adesso. Lavora nella compagnia teatrale che sta mettendo in scena l´Opera da tre soldi di Brecht. Lei è Jenny dei pirati. Col padre non parla quasi, dividono una grande casa nella quale si sfiorano appena, lui la cerca, lei lo evita. Il conflitto per strada e nel paese è il conflitto nella casa. Il politico potente che gestisce il vergognoso traffico di uomini, responsabile o corresponsabile della chiusura delle fabbriche, e la giovane attrice che recita nella compagnia in cui gli operai e i clandestini fanno da comparse. Uno di loro, Selab, oggetto del suo amore. Tutto accade di notte, in un triangolo di strade al Pireo, alla vigilia di Capodanno.
Gli operai della Biohalkos sono in sciopero da tre settimane. Sul tetto della fabbrica, in piedi, un uomo nudo. La polizia circonda l´edificio, troupe tv piantonano l´ingresso. Un elicottero scende fino a trovarsi davanti all´uomo nudo. Un reporter commenta l´evento. L´uomo getta via i suoi abiti. Uno a uno. L´impeto del vento li fa danzare. E., la ragazza, lo guarda dalla strada. Una nave entra in porto con un fischio. In Piazza del teatro si riunisce la protesta, ogni sera. Selab è un giovane iraniano che era stato arrestato in una manifestazione contro il regime di Teheran. Appena uscito di prigione aveva passato la frontiera, è arrivato in Grecia da clandestino. Incontra E. a teatro. I figuranti dello spettacolo sono operai della compagnia amatoriale della fabbrica, e clandestini del campo profughi. Si prova. Brecht. L´Opera da tre soldi, la sfida alla decenza del pubblico borghese, la società dei miserabili e delle puttane: gli affari di chi fa affari non sono diversi dai delitti della malavita. «Che cos´è la rapina di una banca in confronto alla fondazione di una banca?».
In teatro si prova, in municipio c´è riunione del consiglio comunale. Una donna delle pulizie ha trovato nel seminterrato del palazzo comunale una bambina di colore che piange, abbandonata. Per strada una donna scippata rimane sull´asfalto, arriva l´ambulanza. Dentro, nella sala del consiglio, una rissa politica: la tv accesa dà in diretta le immagini dello scioperante sul tetto che adesso si butta. Si schianta a terra. Il morto. La troupe teatrale irrompe nella sala, annuncia che reciterà l´Opera il primo dell´anno con la partecipazione degli scioperanti delle fabbriche. C´è anche E. Sui banchi siede suo padre. La polizia fa sgomberare l´aula. La rappresentazione è un pretesto, dicono i politici: ci saranno sommosse. Bisogna radere al suolo il campo nomadi. Gli operai organizzano per il pomeriggio una marcia funebre per il suicida, i teatranti saranno con loro.
La marcia, la sera. La sepoltura sarà nella zona delle fabbriche abbandonate. Migliaia di persone accorrono. Ma ecco, all´altezza dell´accampamento dei clandestini afgani, il diluvio. La folla si disperde. Baracche di legno e nylon, teloni, spaghi. P. arriva con la jeep a cercare la figlia. L´acqua inonda la bidonville. Alluvione. Il feretro comincia a galleggiare, esce dalla porta di una baracca: il morto se ne va, urlano tutti. «Va verso il mare, come una vera nave…».
Selab ed E. hanno messo ad asciugare i vestiti a un fuoco, sono nudi in una baracca. Arrivano i bulldozer che devono abbattere il campo. Lei esce, nuda, li ferma sotto gli occhi luminosi dei fari che la circondano. Il padre la guarda dall´auto. Parte il corteo, sotto il telo che deve ripararlo dalla pioggia. L´immensa tartaruga che muove verso il centro della città. Di nuovo al porto, per l´ultima scena. I Tir pieni di clandestini stanno imbarcando, anche Selab ha pagato e trovato un passaggio. E. capisce che lui sta partendo, corre verso il Pireo. C´è un incidente, un immigrato muore travolto da un camion, non si capisce chi sia. P. insegue sua figlia sul molo. C´è uno sparo. Un altro morto. C´è qualcuno che parte, qualcuno che resta. Amedeo sta per ricevere il suo carico, a Bari, aspetta. L´altro Amedeo, quello vero, chiede che non si dica chi vive e chi muore, nel film, né come. Chiede che si faccia silenzio sull´ultima pagina del copione, pagina 74, ed ha ragione lui. È la storia di Theo, questa. La sua ultima storia, e se non ha finito di girarla è perché la vita è entrata dentro il film, e con la vita la morte. Non tutto si può raccontare, non di ogni cosa si conosce la fine. Al contrario, anzi. La fine come sarà davvero non la si conosce mai.

Repubblica 29.1.12
Ultime profezie dal Villaggio Globale "La tecnologia cancella l’identità privata perché il mittente diventa il messaggio"
Chi invia l’informazione diventa l’informazione
di Marshall Macluhan


Le riflessioni del sociologo in un saggio scritto nel 1973
Dire che il libro è obsoleto non significa dire che si estinguerà ma che è destinato a trasformarsi, con l’elettronica, in una forma d’arte
La comunicazione non avviene attraverso il semplice trasporto di dati: chi invia l’informazione diventa l’informazione
Quello che sta davvero cambiando è che lo sfondo è più importante della figura e gli effetti precedono le cause

Innanzitutto, vorrei spiegare che cosa intendevo quando ho detto che "il libro è obsoleto". Obsolescenza non significa estinzione. Al contrario. Per esempio, dopo Gutenberg, e sicuramente dopo Remington, la scrittura a mano è diventata "obsoleta", eppure oggi si scrive a mano più di quanto non si sia mai fatto in passato. "Obsoleto" è insomma un termine che si riferisce al rapporto tra figura e sfondo, e la condizione di obsolescenza è il risultato di qualche cambiamento spettacolare nella natura dello sfondo che altera lo statuto della figura. Così, Gutenberg ha smantellato la cultura manoscritta e l´ha elevata, per così dire, a una specie di forma artistica. Allo stesso modo, l´automobile è stata resa obsoleta dall´aeroplano a reazione ed è considerata sempre più come una forma d´arte. Il nostro pianeta e la natura sono stati resi obsoleti dallo Sputnik nell´ottobre 1957 e sono diventati anch´essi forme d´arte. Lo Sputnik ha visto la nascita dell´ecologia, e l´arte rimpiazzare la natura. Anche il libro, ora più prolifico che mai, è stato sospinto a diventare una forma d´arte dal contesto elettronico dell´informazione. Il libro era sfondo, ma è diventato improvvisamente figura contro il nuovo sfondo elettronico. Allo stesso modo, tutte le attrezzature dell´industrialismo occidentale sono state rese obsolete e, come dice Toynbee, «etereizzate» dal nuovo contesto dei servizi elettronici di informazione.
L´alfabeto fonetico e la cultura visiva
Il nostro stesso alfabeto sta perdendo il suo ruolo tradizionale e sta ormai assumendo, in molti modi diversi, un nuovo statuto di forma artistica. Per esempio, lo I.T.A. (Initial Teaching Alphabet) di Pitman ha rivelato che le vecchie forme manoscritte delle lettere dell´alfabeto sono più comprensibili, per i bambini, di quelle stampate. Ernest Fenollosa ci ha mostrato l´importanza dei caratteri cinesi come strumento per costruire una nuova relazione tra figura e sfondo in Occidente. Ezra Pound e gli imagisti erano profondamente consapevoli che, con l´era elettronica, la scrittura occidentale fosse entrata in una nuova fase; d´altra parte, in questo momento i giapponesi stanno allestendo un programma da sei miliardi di dollari per introdurre il nostro alfabeto fonetico nel loro mondo. Se i giapponesi e i cinesi occidentalizzassero il loro sistema di scrittura, acquisirebbero la nostra intensa tendenza visiva alla specializzazione e alla ricerca aggressiva di risultati e, al contempo, cancellerebbero gran parte della loro cultura audio-tattile con la sua propensione iconica a interpretare un ruolo nel contesto tribale, piuttosto che a perseguire obiettivi in modo privato. Il mio libro Take Today: The Executive as Dropout è un resoconto dei cambiamenti a livello culturale e in particolare manageriale che si stanno realizzando nel mondo occidentale con l´obsolescenza delle nostre apparecchiature industriali e con il nuovo predominio di ambienti informatici simultanei e istantanei. La cultura visiva, basata sull´alfabeto, non solo ha prodotto l´individuo civilizzato greco-romano, ma ha anche condotto, attraverso Gutenberg, allo sviluppo di mercati mondiali e di sistemi di valutazione dei prezzi delle merci basati sulla parola stampata e sulle tecniche della catena di montaggio insite nell´uso dei caratteri mobili.La parola stampata continuerà a giocare un ruolo importante ancora per molto tempo, sia nell´emisfero orientale che in quello occidentale. Paradossalmente, però, il ruolo del software in Oriente sarà antitetico e complementare al suo ruolo in Occidente. Per molti secoli, l´Oriente è stato dominato dalla cultura orale, e ciò gli dà un vantaggio considerevole nell´era elettronica. D´altra parte, l´Occidente, per molti secoli basato sulla cultura visiva dell´alfabeto fonetico e poi della parola stampata, nell´ultimo secolo di crescente tecnologia elettrica è tornato risolutamente alla cultura orale. Mentre pare che noi stiamo acquisendo il software orientale, l´Oriente sembrerebbe stia prendendo, insieme all´alfabeto occidentale, anche l´hardware occidentale. Ciò che si è venuto a creare è un "campo da gioco" di dimensioni globali completamente nuovo e con regole del tutto sconosciute. La parola stampata e scritta avrà in ogni caso una funzione rilevante. (...)Quello fonetico è l´unico alfabeto in cui le lettere siano semanticamente neutre, prive di struttura o di forza verbale. Proprio perché l´immagine visiva presentata nelle lettere è neutra dal punto di vista acustico e semantico, esse hanno avuto sui loro utilizzatori l´effetto straordinario di rafforzare in modo considerevole la facoltà visiva rispetto a tutti gli altri sensi, come il tatto o l´udito. Il potere di isolare la facoltà visiva, che di conseguenza ha acquisito grande intensità, ha favorito la nascita della geometria euclidea e le immagini dell´individuo separato e dell´identità privata. Così isolati, gli spazi e le forme congeniali alla visione hanno acquisito quasi un carattere a sé, che è stato spesso identificato con la razionalità e la civilizzazione. Lo spazio visivo come manifestato nelle forme euclidee presenta le qualità basilari di uniformità, di continuità e di stasi. Lo spazio visivo, al contrario degli spazi che sono correlati o che emanano dal tatto, dal gusto e dall´udito, ha carattere stabile e durevole. Tale spazio non è però caratteristica esclusiva del mondo infantile, né dei mondi pre-alfabetici o post-alfabetici. Il bambino che, al suo primo viaggio in aereo, chiede: «Papà, quand´è che cominciamo a diventare più piccoli?» sottolinea proprio questo problema. Quando un aeroplano si stacca dal suolo, rimpicciolisce velocemente, ed è comprensibile che il bambino faccia una domanda simile. Se l´aeroplano diventa più piccolo dall´esterno, perché non dovrebbe diventare più piccolo anche dall´interno? Forse, la risposta sta nel fatto che lo spazio chiuso dell´abitacolo dell´aereo è visivo e statico. In realtà, lo spazio visivo è una figura senza sfondo, perché si è astratta dallo sfondo degli altri sensi. Lo spazio acustico, ad esempio, ha proprietà del tutto diverse dallo spazio visivo. La sfera acustica è discontinua, non uniforme e dinamica. Lo spazio tattile è invece il mondo dell´intervallo o del gap dell´esperienza, e si può pensare ad esso come al rapporto tra la ruota e l´assale, in cui il gioco tra i due elementi è il fattore strutturale cruciale, senza il quale non ci sarebbero né ruota né assale. Varrebbe la pena meditare a lungo sul fatto che il "gioco" non caratterizza solo lo spazio visivo. Nel suo studio classico sul gioco, Homo Ludens, J. Huizinga rivela come sia indispensabile un rapporto mobile tra figura e sfondo, che crea schemi di profondo coinvolgimento e di partecipazione per l´utilizzatore.La domanda su quando lo spazio avrebbe subìto un cambiamento non sarebbe venuta in mente al bambino se fosse stato nella cabina aperta di un piccolo velivolo, e forse non verrebbe in mente a un astronauta. Durante una visita a Nassau, chiesi ad Al Shepard se si può parlare di "sotto" e di "sopra" quando si viaggia nello spazio. Dopo averci pensato un po´, rispose: «Dove stanno i piedi, lì è il sotto». Ciò sembra avere una certa attinenza anche con altre questioni, visto che per la maggior parte dei bambini piccoli un libro di figure non ha né sopra né sotto. Questa relazione viene scoperta solo più tardi dai nostri bambini, ma sembra non rientrare mai nell´esperienza degli eschimesi. Per un eschimese adulto, non c´è il sopra e il sotto delle immagini prese dalle riviste che attacca alle pareti del suo igloo, e niente lo diverte di più che guardare l´antropologo che si fa venire il torcicollo per metterle a fuoco, con il lato giusto in alto. Allo stesso modo, i pittori delle caverne facevano gran parte del loro lavoro senza poter vedere quel che disegnavano, sotto qualche sporgenza della roccia. Sembra, insomma, esserci una relazione tra l´idea che il lato giusto va in alto e l´alfabetizzazione.Anche se non è stato molto studiato, c´è poi il mistero delle lenti di Stratton, che richiamano la nostra attenzione sull´abitudine umana di capovolgere il mondo in modo che si presenti "nel verso giusto", sebbene, in realtà, sulla retina lo riceviamo sottosopra. All´inizio, la persona che indossa le lenti di Stratton percepisce il mondo capovolto. Dopo qualche ora, però, il mondo torna nel verso giusto. E poi, quando si toglie le lenti, il mondo si capovolge di nuovo e così rimane per alcune ore. (...)
L´elettronica e la fine della prospettiva privata
Vorrei richiamare l´attenzione su un ribaltamento altrettanto drastico del rapporto tra figura e sfondo che tutti noi attualmente stiamo sperimentando. Con l´elettronica, viviamo in un mondo di informazione simultanea in cui condividiamo immagini che arrivano istantaneamente da tutte le direzioni nello stesso momento. Se lo spazio acustico è una sfera il cui centro è ovunque e il cui margine è in nessun luogo, questa sua caratteristica si è ora estesa a tutte le strutture di informazione che vengono esperite in ambienti costituiti dalla tecnologia elettrica. In altre parole, l´uomo occidentale e civilizzato, da lungo tempo abituato a una prospettiva privata e individuale e a strutture giuridiche e politiche coerenti con tale visione, adesso si ritrova immerso in un ambiente acustico. È come se il bambino nell´abitacolo dell´aeroplano si ritrovasse all´improvviso in un ambiente sconfinato e silenzioso, a «esprimere desideri mentre guarda le stelle cadenti», per così dire. L´orientazione dell´uomo visivo, la sua prospettiva privata, il suo punto di vista individuale e i suoi obiettivi personali sembreranno tutte cose irrilevanti nell´ambiente elettronico. E c´è un´altra particolarità di questo ambiente simultaneo con il suo accesso istantaneo a tutti i passati e a tutti i futuri: la comunicazione non avviene attraverso il semplice trasporto di dati da un punto all´altro. In realtà, è il mittente a essere inviato, ossia, in un certo senso, chi invia il messaggio diventa il messaggio.Il mondo elettrico e simultaneo ha cominciato a manifestarsi e a influenzare la nostra coscienza dalla metà del XIX secolo. C´è una strana proprietà dell´innovazione e del cambiamento che può essere riassunta dicendo che gli effetti tendono a precedere le cause. Si può mettere anche in un altro modo: lo sfondo tende a venire prima della figura. In un numero recente di Scientific American (marzo 1973) un articolo su "La tecnologia della bicicletta" spiega come «la bicicletta abbia letteralmente spianato la strada all´automobile».
(Traduzione e cura di Laura Talarico) © McLuhan Estate per la traduzione italiana © Lettera Internazionale

il Riformista Ragioni 29.1.12
Il professor Monti, Riccardo Lombardi, le riforme di struttura
Qualcuno ha detto che parlare di programmazione delle liberalizzazioni è un ossimoro. Ma io credo che il modo migliore per farle sia quello di metterle in coerenza con un piano
da un intervento di Mario Monti


Maggio 2007. L’Istituto Riccardo Lombardi organizza, presso la Camera dei deputati, un convegno su Lombardi e le riforme di struttura. Tra gli interventi, c’è anche quello di Ma-rio Monti.
Claudio Signorile lo ha ritrovato tra le sue carte, e ce lo ha fatto avere, nella convinzione – fondata – che in quel discorso di Monti, di un Monti non ancora investito di responsabilità politiche e istituzionali, si possano leggere, in nuce, i suoi comportamenti attuali e le scelte programmatiche e di metodo che il suo governo sta compiendo.
Anche a noi pare che le cose stiano così. Non solo. In questo intervento, non rivisto dall’autore, e quindi qua e là limato in redazione per renderne più agevole la lettura, Monti si confronta con parole chiave della storia della sinistra: riforme di struttura, piano, programmazione. Il giudizio sul tentativo è, naturalmente, aperto. Ma un Monti che per ragionare di liberalizzazioni prende le mosse da Lombardi già basta a suscitare curiosità politica e intellettuale. In noi e, ne siamo certi, anche tra molti nostri lettori.
qui


il Riformista Ragioni 29.1.12
Ragionando intorno ai limiti del linguaggio e ai principi fisici
Albert Einstein detta il tema del Festival della Scienza:«L’immaginazione è più importante della conoscenza». Che cosa vuol dire? Cominciamo a discuterne
di Paolo Maria Mariano

qui


La Stampa 29.1.12
Teodora, la escort in carriera
Partita dal basso, arrivò a sposare Giustiniano e salì sul trono di Bisanzio: la sua gestione del potere fu realistica e geniale
di Silvia Ronchey


Nell’immagine Teodora (Costantinopoli, 497 - 548) come appare in un mosaico del coro di San Vitale a Ravenna: eseguita entro l’anno 547, è una delle raffigurazioni più attendibili della sovrana Lezione oggi a Roma La bizantinista Silvia Ronchey tiene oggi a Roma (ore 11, Sala Sinopoli dell’Auditorium) una lezione su «Teodora l’imperatrice». L’appuntamento rientra nella serie delle «Lezioni di Storia» organizzate dall’editore Laterza e sponsorizzate da Acea e Unicredit, che sono dedicate quest’anno al tema della condizione della donna e stanno ottenendo uno straordinario successo di pubblico, con i 1500 posti ogni volta esauriti.
Il mito di Teodora non conosce limiti nello spazio né nel tempo: sopra, l’imperatrice in un manga giapponese; accanto al titolo, nell’interpretazione di Sarah Bernhardt, che vestì i suoi panni in una pièce di Victorien Sardou del 1884

SESSO E VOLENTIERI. Dalla testimonianza di Procopio di Cesarea alla pièce con Sarah Bernhardt invisa ai bizantinisti
PRIMA DI UNA SERIE. Dopo di lei una ininterrotta linea di imperatrici ancora più influenti, indipendenti e decise

Tutto era cominciato con un ballo in maschera. Una giovane principessa romena, Marthe Bibesco, era appena arrivata a Parigi, nel 1902. Non avendo un costume, e nemmeno troppo denaro per comprarlo, si era presentata travestita da Teodora usando antichi abiti e gioielli di famiglia, che in Romania erano straordinariamente simili ai modelli bizantini. Fece il suo ingresso, avrebbe poi raccontato, «portando le insegne, la dalmatica, la corona, i gioielli e le babbucce di porpora di Teodora, tale e quale la vediamo nel famoso mosaico di Ravenna». A rovinare la festa arrivò un suo zio paterno, anziano e compassato erudito, che la accusò di avere dato scandalo: sua nipote, al debutto nel bel mondo parigino, che si presentava come una poco di buono, come una donna perduta, come una prostituta!
Che Teodora avesse cominciato la sua carriera come prostituta le fonti antiche lo testimoniano senza mezzi termini. Secondo Procopio di Cesarea, lo storico del VI secolo suo contemporaneo, già prima dello sviluppo Teodora era stata avviata alla professione della sorella maggiore, ma «non essendo ancora formata per unirsi agli uomini come una donna» si vestiva da schiavetto e «si dava a sconci accoppiamenti da maschio» nei lupanari. Con la crescita un certo sadomasochismo si era manifestato in lei, insieme a una crescente spudoratezza: «Non esitava ad acconsentire alle pratiche più svergognate, e anche se veniva presa a pugni e a schiaffi se la rideva della grossa, si spogliava e mostrava nudo a chicchessia il davanti e il didietro». Al culmine della carriera, «lavorando», scrive Procopio, «con ben tre orifizi, rimproverava stizzita la natura di non avere provveduto il suo seno di buchi dei capezzoli più ampi, così da poter escogitare anche in quella sede un’altra forma di copula».
Al di là degli osceni virtuosismi di Procopio, che Teodora abbia usato il proprio corpo per passare dallo strato sociale in cui era nata agli ambienti dei funzionari di corte, di cui divenne via via «escort», amante, mantenuta, e sedurre alla fine il futuro imperatore Giustiniano, non abbiamo ragione di dubitare. Né lo ha fatto alcuno storico, sino alla fine dell’Ottocento. «Con lei», ha scritto a metà del Settecento Montesquieu, «la prostituzione è salita al trono». «Sul mestiere svolto da Teodora nella prima giovinezza Procopio fornisce dettagli di una precisione tale», scriverà poco dopo Gibbon, «da non poterli né equivocare né ritenere inventati».
Quando i dossier di Procopio furono tradotti in Francia, un famoso commediografo, Victorien Sardou, decise di farne una pièce teatrale. Ai suoi occhi, il personaggio era perfetto per incarnare la figura di femme fatale tanto cara al grande pubblico. Scelse così come protagonista un’attrice che era l’incarnazione vivente di quel mito: Sarah Bernhardt.
La pièce era un vero e proprio feuilleton, con al centro un improbabile intreccio amoroso e alla fine il pentimento e la punizione capitale della protagonista. I costumi sessuali di Teodora erano rappresentati in termini più soft che in Procopio, ma Sardou si atteneva comunque alle sue indicazioni. Sarebbe stato furiosamente attaccato per questo. Da chi? Dai bizantinisti.
La bizantinistica comincia con questa negazione - e la negazione è rivelatrice di una rimozione, e la rimozione è tout court quella della realtà di Bisanzio. Una realtà che non si vuole o non si può vedere. Bisanzio entra nel Novecento sotto l’immagine di Teodora, ed è un’immagine incappucciata dal moralismo.
Da quest’immagine, accreditata dagli storici borghesi di inizio secolo come Charles Diehl nelle sue Figure bizantine, proviene l’opinione distorta che di Bisanzio ha avuto il Novecento: la percezione di quella corte come regno esclusivo di intrighi femminili o effeminati, il senso spregiativo che diamo tutt’oggi all’aggettivo «bizantino», e anche l’irragionevole percezione della storia bizantina come decadenza indefinitamente protratta hanno radice nell’attrazionerepulsione per la femme fatale SarahTeodora, che pure aveva avuto uno strepitoso successo di massa.
Ma gli stereotipi dell’irrazionalità e di una prepotente quanto frivola passionalità mascherano ed esorcizzano la storicità di un potere femminile bizantino che ha in Teodora la più celebre esponente. Il suo potere, nella «diarchia» con Giustiniano, non aveva avuto nulla di arbitrario, ma si era esercitato in modo efficace e spesso geniale. Dopo di lei, e lungo tutto il Millennio bizantino, si snoderà una lignée quasi ininterrotta di imperatrici ancora più influenti, indipendenti e decise. Da Irene, Teofàno, Zoe Carbonopsìna alla Teodora Macedone legislatrice raffigurata nella Cronografia di Michele Psello e a tutte le altre grandi sovrane che seguirono, questo potere femminile — secondo la letteratura maschile contemporanea crudele, sanguinario, tinto di erotismo — ebbe un peso politico senza pari nella storia occidentale. Se ci atteniamo a un’analisi attenta degli storici antichi, era oggettivamente forte e diffuso. E perciò tanto più inquietante agli occhi degli storici moderni, in quanto per nulla irrazionale e passionale, anzi, se mai fin troppo spregiudicato e realistico.

La Stampa 29.1.12
Rio, grande mostra di Modigliani


Sarà inaugurata martedì a Rio de Janeiro la più grande mostra di Amedeo Modigliani mai vista in Brasile: 230 opere, tra cui 12 dipinti e cinque sculture. La rassegna, dal titolo «Immagini di una vita», sarà aperta al Museo Nazionale di Belle Arti fino al 17 marzo. L’obiettivo hanno spiegato gli organizzatori - è quello di raccontare il «cammino dello sguardo» e le influenze dell’artista livornese, cercando così di carpirne l’essenza. Tra le opere esposte a Rio, il ritratto Jeune femme aux yeux bleus (nell’immagine), dipinto a Parigi nel 1917.

Corriere della Sera La Lettura 29.1.12
Non tutto Marx viene per nuocere
Ha aiutato la democrazia: non fu solo il «cattivo maestro» del Gulag
di Paolo Ercolani


In un'epoca che ha fatto della semplificazione la sua cifra portante, non c'è da meravigliarsi troppo che, nell'esercizio di comprendere le vicende umane, si stia verificando quanto esemplificato dal filosofo Hegel: «Ciò che è noto, proprio perché noto, spesso non è conosciuto». La semplificazione, ad ogni livello, ci conforta nelle visioni armoniche e poco problematiche con cui vogliamo spesso interpretare i fatti, fornendoci la comoda illusione di poter non riflettere più su quanto ormai abbiamo rubricato alla voce «noto». È quanto è accaduto con l'equazione «Marx uguale Gulag», ovvero con la visione dominante secondo cui la «vecchia talpa», giocando il ruolo di cattivo maestro e falso profeta, avrebbe posto le basi ideologiche per il regime terrorista realizzatosi in Urss nel Novecento. Visione che trae alimento da una lunga tradizione di pensiero, divenuta dominante e pressoché incontrastata dopo l'Ottantanove.
Ai giorni nostri, può essere rappresentata dall'operazione editoriale che va sotto il nome di L'altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, una serie di volumi che stanno uscendo per Jaca Book coordinati da uno storico avveduto come Pier Paolo Poggio. Ma è bene sapere che è stata a vario titolo supportata da personalità diverse, come Luciano Pellicani, Marco Revelli, Marcello Flores, fino ad Alberto Mingardi, sulla «Lettura» di domenica scorsa. Insomma, bene che vada bisogna cercare un altro Marx, o meglio ancora rubricarlo fra i dannati, perché quello che conosciamo conduce dritti al Terrore. Eppure è sufficiente leggere Popper, quasi unanimemente considerato il filosofo che ha posto una pietra tombale sopra Marx, per capire che le cose non sono così lineari.
Sì, per quanto possa sembrare blasfemo nell'era della semplificazione, è stato il Popper tanto glorificato dagli anti marxisti nostrani a riconoscere a Marx il merito di aver analizzato e denunciato il carattere di «spietato sfruttamento» del capitalismo ottocentesco. È Marx ad aver affermato quel principio dell'«interventismo politico» in grado di superare il capitalismo «sfrenato» che faceva lavorare gli operai nelle fabbriche, compresi donne e bambini, fino a venti ore al giorno. Tanto che è assurdo, scriveva Popper, identificare il sistema economico delle democrazie moderne con quello che Marx aveva chiamato «capitalismo». È sempre Popper ad ammettere che i dieci punti programmatici elencati da Marx nel Manifesto, punti senza i quali non potremmo capire le democrazie in cui viviamo, si sono realizzati tutti e anche di più, permettendo il superamento di odiosi privilegi e drammatiche discriminazioni a carico delle fasce sociali e umane più deboli. Fu fondamentale, in una parola, il contributo di Marx alla democrazia.
Quale, allora, la sua colpa più grave secondo Popper, quella in grado di inficiarne il grande contributo e di fargli elaborare un sistema che avrebbe condotto fino ai Gulag? La violenza. Pensare che si potesse ottenere la democrazia soltanto attraverso la rivoluzione e non in maniera gradualistica come di fatto è avvenuto. Il fatto curioso è che Popper precisava di giustificare la violenza in un solo caso: per ottenere la democrazia stessa, le elezioni generali aperte a tutti, che consentissero al popolo di sostituire un governo senza spargimento di sangue. Il guaio è che, ai tempi di Marx, nei Paesi europei avanzati la percentuale di popolazione a cui i governi capitalistici riconoscevano il diritto di voto era ben lontana dal 10 per cento.
Mai come oggi, in tempi di nuova crisi del capitalismo, varrebbe la pena di evitare le semplificazioni ideologiche e la damnatio memoriae di un autore che tanto ha contribuito a delineare la civiltà occidentale. Memori anche dell'ironico aforisma con cui Galbraith riassumeva la questione: «Sotto il capitalismo l'uomo sfrutta l'altro uomo. Sotto il comunismo avviene il contrario!».