giovedì 2 febbraio 2012

l’Unità 2.2.12
Lusi espulso dal gruppo del Pd
Ora i democratici facciano chiarezza
di  Francesco Cundari


I contorni del caso che riguarda il senatore del Pd Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita accusato di essersi intascato i rimborsi elettorali del suo ex partito, sono ancora tutt’altro che chiari. Non è chiaro, anzitutto, fin dove arrivino le sue responsabilità personali e dove comincino responsabilità politiche o di gruppo. Un aspetto, questo, che sta al Partito democratico, non alla magistratura, spiegare in modo convincente, perché la vicenda investe le radici del partito nato dalla confluenza di Ds e Margherita, la sua stessa genesi.
Ogni ombra va subito dissipata, e non con il fumo di un improbabile rogo purificatore, ma con parole chiare, che devono venire in primo luogo da chi nel Pd condivideva con Lusi la responsabilità di gestire quel denaro. Ombre che vanno dissipate subito anche perché non si possano confondere con accuse generiche e polemiche strumentali. Certo, il fatto stesso che si parli di fondi pubblici per un partito sciolto ufficialmente da anni non può non scandalizzare, anche se a ben vedere si tratta dei rimborsi per le ultime elezioni cui la Margherita aveva effettivamente partecipato. Da questo punto di vista, però, la rivendicazione di avere «bilanci in attivo» non sembra proprio un’attenuante: la sopravvivenza giuridica di partiti che non si presentano più alle elezioni si giustifica con l’esigenza non d’incassare crediti dallo Stato, ma di pagare i debiti verso fornitori, banche, dipendenti (ci mancherebbe solo che sparissero nel nulla da un giorno all’altro).
Fare chiarezza su questa vicenda è indispensabile anche per potere contrastare credibilmente la campagna contro il finanziamento pubblico della politica. Un argomento di cui si è occupato recentemente anche il Financial Times, in un articolo di Martin Wolf dedicato al dibattito sul «capitalismo in crisi», a partire da una sacrosanta preoccupazione per il rapporto tra ricchezza e politica democratica. «In assenza di difese per la politica ha scritto Wolf il risultato è la plutocrazia». E ancora: «Proteggere la politica democratica dalla plutocrazia è una delle maggiori sfide alla salute delle democrazie». E infine: «La difesa della politica dal mercato si ottiene regolando l’uso del denaro alle elezioni e attraverso l’offerta di risorse pubbliche a chi vi partecipa. Almeno un parziale finanziamento dei partiti e delle elezioni è inevitabile».
È davvero curioso che a segnalare il rischio che la democrazia possa essere comprata dalla grande ricchezza sia proprio il quotidiano della comunità finanziaria britannica, mentre nell’Italia appena uscita dal ventennio berlusconiano si continua a rimuovere il problema dal dibattito. Ma se non vogliamo che a giovarsi del discredito dei partiti, proprio come nel 92-93, sia un nuovo miliardario ansioso di scendere in campo col suo partito di plastica e i suoi personali mezzi di comunicazione e persuasione, sono i partiti democratici che devono per primi promuovere una riforma di questi meccanismi. A partire dalla piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per fare in modo che ogni forma di sostegno pubblico sia indissolubilmente legata non solo a meccanismi certi di trasparenza e rendicontazione delle risorse, ma prima ancora al carattere democratico della vita interna di quei partiti.

il Fatto 2.2.12
Il sistema gelatinoso. I rivoli sospetti del malloppo
Api e Pd: scatole cinesi nel partito-zombie
Somme inferiori ai 130mila euro non andavano giustificate:
tutti i bonifici infatti sono sotto quella soglia
di Luca Telese


Adesso sembra che nessuno conoscesse Luigi Lusi. A leggere le dichiarazioni pare che nessuno avesse a che fare con lui, che l'ex tesoriere fosse l'ennesima mela bacata, un solitario, una monade impazzita, che sia sopravvissuto come un marziano tra i suoi colleghi politici, e che l'unico responsabile di tutto sia il povero Francesco Rutelli, l'uomo che aveva favorito la sua ascesa quasi un’era geologica fa. In realtà, Lusi non era affatto isolato, non stava su Mar-te, era stimato e riverito da tutti i leader di tutte le correnti di tutto il Partito democratico (compresa quella che viene dalla Quercia), era il padrone di casa del Pd (prima di tutto in senso catastale) era al centro di una complessa rete politico-amministrativa che merita di essere decrittata e intitolata al suo nome. Se aveva un rapporto con Rutelli, dopo la scissione era quello di averlo "tradito" per restare in un partito più solido e sicuro (sia pure senza interrompere i contatti). Il primo paradosso del sistema Lusi, dunque, è proprio immobiliare: Lusi, come amministratore, era il padrone della sede più bella del Pd, quella di via del Nazareno, per cui il partito di Bersani pagava regolarmente l'affitto. Ed era anche il regista di un accordo retributivo incredibile per cui parte dei dipendenti dell'Api rutelliana erano e sono ancora (una dozzina) a tutti gli effetti stipendiati dalla tesoreria del Pd. Il che, tradotto in un’immagine più vivida significa questo: il partito morto (la Margherita) intascava un reddito dal partito vivo (il Pd), che a sua volta sosteneva le spese di un apparato inesistente (l'Api). In virtù di questo miracoloso gioco di scatole cinesi, si era verificato questo paradosso che per un partito politico dovrebbe corrispondere a un elettrochoc: durante le ultime amministrative, sotto lo stesso tetto, lavoravano funzionari di partiti che avevano simboli con-correnti e in competizione l'uno con l'altro. Di più: funzionari dell'Api dipendenti nella pianta organica del Pd lavoravano per conquistare voti a un partito diverso da quello che gli pagava gli stipendi. Ovviamente le persone in questione non avevano nessuna colpa: ma questo complicato e barocco gioco di specchi, molto più simile alla struttura delle società fantasma che a quelle tradizionali e sane della politica, rende l'idea di che tipo di ramificazioni avesse il sistema Lusi. E le complesse geometrie di specchiatura non sono finite. Il primo simbolo dell'Api era tutto incentrato proprio sulle api (intese come insetti), svolazzanti in un prato. Il secondo, varato solo sulle schede elettorali delle amministrative aveva bruscamente cambiato proporzioni e loghi. Il prato era diventato un fiore, inclinato, incredibilmente simile alla Margherita.
Simboli e dipendenti clone
E in mancanza dell'originale, il giochino era riuscito, se è vero che in Campania nel 2010 il partito aveva toccato il 3,5%. Un’operazione da manuale con un aiuto. La Margherita (cioè Lusi) proprietaria a tutti gli effetti del simbolo clonato, aveva rinunciato a tutelarsi (al contrario della fondazione di Ugo Sposetti, che ha vigilato sul "copyright" della Quercia. Ma il fattore più grottesco, nel coro dei cascanuvolisti di ieri erano quelle dichiarazioni di incredulità sulla finanza allegra di Lusi. Come dimostrano le veementi contestazioni di Arturo Parisi, Luciano Neri (e lo stupore di Dario Franceschini sulle incredibili dichiarazioni di Lusi, che gli attribuiva un finanziamento mirabolante di 4 milioni di euro!) nessuno ha voluto esercitare nessun potere di controllo sul tesoriere e nemmeno accettare destinazioni socialmente utili dell'incredibile mole di capitali gestita da Lusi. Anche qui, questa volontaria cessione di sovranità ha una risposta (e quindi una spiegazione) di natura tecnico-contabile. Il regolamento interno, infatti, consentiva al senatore del Pd di non dover rendicontare le sue spese fino a 130 mila euro. Esattamente la soglia al di sotto di cui Lusi si è tenuto frazionando il totale della sua truffa in 90 pagamenti. La vera domanda a cui i magistrati devono rispondere adesso è: quei 4 milioni di euro del partito-zombie che secondo Lusi erano stati destinati ad "attività politica", sono stati tutti accaparrati da lui, oppure distribuiti con parsimonia agli ex dirigenti della Margherita per le loro legittime attività politiche? Aver chiesto e ottenuto contributi da Lusi, infatti, non sarebbe un reato, ma sarebbe una spiegazione, assieme alla natura gelatinosa del suo sistema, dell'omesso controllo e della benevolenza sul suo operato. Il che spiegherebbe anche la malizia di quella frase sibillina consegnata dal senatore del Pd agli inquirenti: "Sono responsabile di tutto e per tutti". E chi doveva intendere ha inteso.

l’Unità 2.2.12
Bilanci certificati e trasparenti: il Pd li ha, e gli altri?
di Antonio Misiani, Tesoriere del Pd


L’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto il senatore Luigi Lusi, tesoriere nazionale della Margherita, mette in luce con crudezza alcuni nodi politici che vanno affrontati a viso aperto. Prima di parlarne credo che sia necessario chiarire che l’altra sera, nella sua performance, Maurizio Crozza, apprezzato da un vasto pubblico (tra cui il sottoscritto), ha lasciato intendere e detto cose sbagliate. È satira, ma c’è il rischio che per far ridere si incida nelle convinzioni di molte persone. Alcune cose vanno dunque precisate.
Primo: il Partito Democratico e la Margherita sono soggetti del tutto distinti, politicamente, giuridicamente ed economicamente. Il Pd, perciò, non ha alcun titolo per determinare indirizzi e fare controlli sul bilancio della Margherita, il cui presidente (Francesco Rutelli) è peraltro il leader di un'altra formazione politica. I 13 milioni di euro al centro delle indagini della magistratura sono stati sottratti alla Margherita, non al Pd. E il Pd non ha mai girato rimborsi elettorali alla Margherita: gli unici rapporti economici sono il pagamento da parte del Pd della sublocazione della sede di Sant'Andrea delle Fratte e il rimborso di alcune spese di gestione della sede e del personale distaccato.Secondo punto da precisare e ricordare: il bilancio nazionale del Pd, sin dalla nascita nel 2007, è controllato fino all’ultima fattura da una società di revisione indipendente (PriceWaterhouse Coopers, gli stessi che certificano il bilancio della Banca d’Italia). Siamo gli unici a farlo, sulla base di una precisa scelta politica di trasparenza. Terzo: il Pd ha reagito all'indagine che ha coinvolto un suo parlamentare senza alcuna timidezza, seguendo con rigore le regole che ci siamo dati.
Tutto questo, naturalmente, non toglie in alcun modo dal campo i riflessi politici della vicenda, perché il punto di fondo è la necessità di una profonda riforma del sistema dei partiti, in attuazione dell'articolo 49 della Costituzione. Uno snodo cruciale della più complessiva riforma della politica, che chiama in causa tutte le forze politiche, Pd compreso.
I rimborsi elettorali, di gran lunga la principale fonte di finanziamento dei bilanci nazionali dei partiti, negli anni più recenti sono stati drasticamente ridimensionati: è stato cancellata la prosecuzione dei rimborsi anche in caso di scioglimento anticipato della legislatura e sono stati ridotti del 30 per cento gli stanziamenti. Nel 2010 i rimborsi elettorali ammontavano a 290 milioni. Nel 2011, con la fine dei rimborsi relativi alle politiche 2006, questa cifra è scesa a 189 milioni. Con la progressiva entrata in vigore dei tagli già decisi le risorse si ridurranno ulteriormente a 143 milioni: è un livello inferiore, in termini pro capite, a quanto viene destinato ai partiti in Germania, Francia e Spagna.
Ciò che invece è rimasto invariato è il sistema dei controlli interni ed esterni sui bilanci dei partiti. Secondo la normativa vigente ogni partito che riceve i rimborsi elettorali deve redigere un rendiconto, che viene esaminato dai revisori dei conti interni. Il rendiconto è trasmesso al Presidente della Camera e un collegio di revisori, nominato d’intesa tra i Presidenti di Camera e Senato, verifica la regolarità formale del rendiconto. I bilanci dei partiti sono pubblicati su due quotidiani e sulla Gazzetta Ufficiale. Punto. È un sistema chiaramente insufficiente, che va radicalmente cambiato guardando alle migliori esperienze europee.
Il Pd ha da tempo detto come la pensa: proponiamo che i rendiconti siano sottoposti obbligatoriamente alla certificazione di organismi esterni, siano essi società di revisione o un'autorità indipendente o la Corte dei Conti. Chi sgarra, deve perdere il diritto ai rimborsi elettorali. I rendiconti dei partiti vanno pubblicati non solo sui giornali ma anche su Internet, a disposizione dei cittadini che hanno il diritto di vedere e capire come i partiti si procurano le risorse e come le spendono.
La trasparenza non è uno slogan, abbiamo scritto nelle pagine Internet in cui abbiamo messo online i conti del Pd. Oggi è una questione vitale, se vogliamo che i partiti riconquistino la fiducia e il rispetto dei cittadini.

il Fatto 2.2.12
Sistemi a confronto
Lo spread con Berlino anche sui fondi elettorali
di Fabrizio d’Esposito


I tedeschi sono quelli che lo fanno meglio, che piaccia o no. In materia di finanziamento pubblico alla politica, sono i più parsimoniosi e severi in Europa. Da noi, ai partiti vanno 4 euro per ogni iscritto nelle liste elettorali (e per cinque anni di legislatura), da loro appena 85 centesimi per ogni voto valido. È lo spread impietoso sulla Casta, tra noi e loro.
In Germania, i contributi non possono andare oltre il tetto dei 133 milioni di euro annui. Rigidamente suddivisi: una parte proporzionale ai voti avuti e l’altra legata all’autofinanziamento. In pratica per ogni euro donato da iscritti e simpatizzanti si ricevono 38 centesimi. Quest’ultima norma è per incentivare la militanza politica, mentre da noi è praticamente scomparsa. Non solo. In Italia, dopo il referendum che abolì il finanziamento ai partiti (legge introdotta nel 1974), fu fatto un tentativo per mantenere i partiti con la contribuzione volontaria. Ma fallì miseramente e venne fuori così la scandalosa legge sui rimborsi elettorali, che ha consentito ai partiti di accumulare tesoretti di milioni di euro. Giusto per fare un paragone rispetto ai teutonici: alle elezioni del 2006 i partiti italiani hanno speso 123 milioni di euro. In cambio hanno ottenuto 499 milioni 645 mila 745 euro, come spiegano Elio Veltri e Francesco Paola nel loro I soldi dei partiti. Una differenza percentuale, tra soldi spesi e incassati, del 406,63 per cento. Un altro spread senza vergogna. In Germania, poi, il sistema dei controlli è rigidissimo, non lacunoso. I bilanci devono un triplice timbro, non formale: presidenti dei partiti, vertice del Bundestag, Corte federale dei conti. Per chi sgarra, per i von Lusen della Margheriten, c’è il carcere da tre a cinque anni. In Francia, i partiti prendono i soldi sia come contributo annuale sia sotto forma di rimborsi elettorali. Ma le spese sono più contenute: 116 milioni di euro per il 2007 a fronte di 79 milioni impegnati in campagna elettorale. Anche i francesi cercano un equilibrio tra finanziamento pubblico e privato.
Da noi, invece, rispetto a Francia e Germania, i bilanci dei partiti sono costituiti soprattutto da soldi pubblici: nel 2005 l’80% per FI, Ds, An, Comunisti italiani e addirittura il 99% per Margherita e Italia dei valori. Nel Regno Unito, il rapporto è addirittura inverso: per la campagna elettorale del 2010 ci sono state donazioni private per 26,3 milioni di sterline e finanziamenti pubblici per soli sei milioni. La realtà è che in Inghilterra prevale la logica dei servizi, non dei soldi. Ai partiti vengono dati spazi tv e radiofonici, servizi postali, spazi pubblici per riunioni e incontri elettorali. In Spagna, infine, prevale il regime dei rimborsi elettorali, ma il finanziamento complessivo neanche qui raggiunge le cifre astronomiche dell’Italia: nell’ultimo decennio è passato da 57 a 82 milioni di euro all’anno. Non c’è dubbio: i partiti italiani sono i più ricchi.

La Stampa 2.2.12
Un fiume di soldi aggirando l’esito del referendum del ’93
La Corte dei Conti ha certificato un aumento del 600 per cento del contributo in diciassette anni
I partiti hanno goduto anche di un doppio rimborso tra il 2006 e il 2011
di Paolo Baroni


2,25 miliardi. È quanto hanno percepito i partiti dal 1993 al 2011 aggirando il referendum sul finanziamento pubblico
FORZA ITALIA. Nel 2006 ha speso 50 milioni ma ne ha incassati 129 di rimborso elettorale
DEMOCRATICI DI SINISTRA Non da meno come «ricavi» Ne ha ricevuti 47 milioni a fronte di uscite per 10
ALLEANZA NAZIONALE Ha totalizzato un rapporto di uno a dieci: presi 65,5 milioni e ne ha spesi 6,2
MARGHERITA Anche lei non esiste più Ne ha ricevuti 30,7 e ne ha utilizzati 10,4

Può sembrare un paradosso che 20-30 milioni di euro restino sul conto di un partito, che tra l’altro nel frattempo non esiste nemmeno più, senza che i beneficiari - quelli che in una società privata sarebbero chiamati gli azionisti - di quei soldi ne se preoccupino più di tanto. Al punto da farseli fregare dal proprio tesoriere. Eppure se il caso-Lusi una cosa insegna è che ai partiti, nonostante il referendum che nel 1993 ha abolito il finanziamento pubblico, arrivano ancora tanti soldi. Troppi soldi.
Prebende per miliardi In 14 anni, tra le politiche del marzo 1994 e quelle dell’aprile del 2008 le forze politiche italiane hanno incassato la bellezza di 2,25 miliardi di euro. Di cui quasi un miliardo solo con le tornate elettorali del 2006 e del 2008.
A colpi di leggi e leggine i partiti, tutti senza distinzione di sorta, negli ultimi anni hanno via via rimpolpato il loro tesoretto. Nell’aprile 1993 il governo Amato reintroduce un «contributo per le spese elettorali» pari a 1600 lire per ogni italiano che risultava al censimento, anche quelli che non avevano diritto al voto. Le politiche dell’anno seguente, il 1994, portano così nelle casse dei partiti 46,9 milioni di euro di oggi, altri 23,4 arrivano con le europee che seguono di lì a poche settimane. Prodi nel 1997 introduce il 4 per mille a favore dei partiti con uno stanziamento di 56,8 milioni l’anno. Ma una norma transitoria valida solo per il primo anno alza lo stanziamento a 82,6 milioni di euro nonostante le scarsissime adesioni dei contribuenti.
Col governo D’Alema, nel 1999, si ritorna al finanziamento pubblico pieno, vengono così definiti 5 fondi per il rimborso delle spese elettorali (elezioni di Camera, Senato, Parlamento europeo, consigli regionali e referendum) e al contempo la quota «procapite» sale da 1600 a 4000 mila lire. Però, almeno, la base di calcolo viene un poco ridotta: non si tiene più conto dell’intera popolazione nazionale ma solo degli iscritti alle liste elettorali della Camera. In caso di legislatura piena ogni anno vengono così erogati ai partiti 193,7 milioni di euro. Ma è anche previsto che in caso di interruzione anticipata della legislatura il fiume di denaro venga sospeso. E così le europee del 1999 costano alle casse pubbliche 86,5 milioni di euro, 85,9 le regionali del 2000, e ben 476,4 milioni di euro le politiche dell’anno seguente.
Dalla lira all’euro Nel 2002 il governo Berlusconi cambia l’importo del rimborso per elettore: è arrivata la moneta unica europea e dalle 4 mila lire di tre anni prima si passa a 5 euro. Anche peggio, insomma, di quel cambio 1 a 1 tante volte contestato a ristoranti e bar in quei tempi. L’ammontare da erogare in caso di legislatura completa in questo modo aumenta più del doppio, si passa infatti da 193,7 milioni di euro a 468,8. L’ultimo «colpo» arriva nel 2006, ancora governo Berlusconi: la legge 5122 stabilisce infatti che l’erogazione sia dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura indipendentemente dalla sua durata effettiva.
Fantastico quel 2006! E’ esattamente l’anno in cui la Margherita inizia ad incassare milioni su milioni forte di un significativo risultato elettorale. Inizia però anche una fase di grandi trasformazioni che vedranno il partito di Rutelli e Franceschini fondersi coi Ds, An unirsi a Forza Italia per dar vita al Popolo delle libertà. Comincia insomma la stagione dei cosiddetti «partiti fantasma» che, anche se non esistono più (la Margherita si estingue a inizio 2007), incassano come se nulla fosse i contributi elettorali sino a tutto il 2011. E poco importa se nel 2008 si torna alle urne, la leggina di due anni prima garantisce comunque cinque anni di pagamenti. A Forza Italia vanno in tutto 96 milioni di euro, al Pd 74, 42 alla Margherita e via di questo passo. Anche le forze minori, come i Verdi, Rifondazione, l’Udeur, che per una ragione o per l’altra, si sono scissi, spaccati, fusi e riaggregati in varie forme incamerano quattrini, milioni su milioni.
Doppio incasso La sovrapposizioni tra i contributi della legislatura 2006-2011 e quella che inizia nel 2008 fa letteralmente esplodere il costo dei rimborsi elettorali. Si passa infatti dai 201,2 milioni del 2006 ai 290,5 di due anni dopo, cifra che poi scende a 168,4 nel 2009 e risale poi a 289,8 l’anno seguente. Dal 2011 in poi, finita la sovrapposizione con la precedente legislatura ed in seguito ad una serie di interventi che mirano a calmierare questa voce di spesa (dalla Finanziaria del 2008 che taglia 20 milioni di euro l’anno, al decreto 98 del 2011 che riduce i fondi di un altro 10%), si inizia a scendere: 189,2 milioni nel 2011 e nel 2012, 165,1 nel 2013, 153,7 nel 2014 e 143,3 nel 2015.
Tanto? Poco? Uno studio del tesoriere del Pd Antonio Misiani, che cita dati della Camera, sostiene che «dal 2013 in termini pro-capite i fondi destinati ai partiti saranno inferiori al livello della Germania (che nel 2011 ha speso 458 milioni di euro) e della Spagna (che staa quota 131) e superiori alle previsioni di spesa di Francia (161,9 milioni) e Regno Unito (8,1 milioni di euro).
Entrate e uscite Come certifica la Corte dei Conti, e come denunciano da tempo i radicali, la realtà però è un’altra: non solo dal 1993 ad oggi il finanziamento pubblico ai partiti è lievitato del 600%, ma i rimborsi sono almeno i triplo delle spese effettivamente sostenute dai partiti per le campagne elettorali. Solo per stare al magnifico 2006: Forza Italia ha speso 50 milioni e ne ha incassati 128,7, An ne ha spesi 6,2 e ne ha incamerati 65,5, i Ds 9,9 ricevendone 46,9, la Margherita 10,4 riprendendone 30,7. Poi c'era l’Ulivo (simbolo comune a Ds e Margherita) che ha documentato spese per 7,6 milioni ed ha ottenuto rimborsi per 80,66. Idem gli altri partiti minori: Rifondazione (1,6 contro 34,9) Udc (12,38 contro 36,6) Lega Nord (5,1 contro 22,. 4). Totale generale: spese accertate 117,368.302,29 euro, rimborsi assegnati 498.562.255,55 euro. Un incredibile, ingiustificato, 324,78 per cento in più.

Corriere della Sera 2.2.12
La teoria delle mele marce non convince
Partiti inquinati da troppo danaro
di Sergio Rizzo


Ci sono deputati, e il riferimento è a qualche tesoriere di partito, profondamente convinti che ridurre il finanziamento alla politica rappresenti un vulnus per il sistema democratico. Confessiamo di non riuscire a capire la relazione fra la democrazia e un sistema il quale consente che un fiume di denaro dei contribuenti finisca nei conti personali di qualche senatore. Per giunta senza che scatti una qualche valvola di sicurezza.
E non si può non notare la concomitanza di un fatto tanto grave, che dovrebbe indurre i responsabili dei partiti a una riflessione profonda sull'inquinamento di cui è ormai preda la politica a causa del troppo denaro che gira e del clima di impunità generale, magari preceduta da una profondissima autocritica, con altre notizie. Per esempio quella che un senatore dello schieramento opposto ha acquistato da un fondo facente capo a enti previdenziali un immobile per rivenderlo soltanto qualche ora dopo a un altro ente previdenziale. Intascando molti milioni di euro senza aver neppure tirato fuori un solo centesimo, facendo la cresta su un bene che dovrebbe garantire il pagamento delle pensioni. Semplicemente orribile, da ogni punto di vista. Qualcuno potrà liquidare le due faccende appellandosi alla teoria delle mele marce. Ce ne sono purtroppo ovunque. E se ad essere marce non fossero soltanto due mele, ma parti dell'intero sistema?
Tutto questo accadeva mentre il parlamento approvava, presentandola come una svolta epocale, un taglio di 1.300 euro lordi al mese delle indennità degli onorevoli. Un taglio, in realtà, inesistente come ammette lo stesso documento reso noto dalla Camera, nel quale si spiega che dal passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo per il calcolo dei vitalizi «deriva uno sgravio fiscale sull'indennità parlamentare le cui conseguenze rendono opportuna la riduzione dell'importo lordo della stessa indennità, al fine di lasciare invariato l'importo netto percepito». Da una parte milioni di euro di rimborsi elettorali finiti in conti correnti privati o nell'acquisto di abitazioni nel centro di Roma e milioni di euro lucrati impunemente su una transazione immobiliare quantomeno sospetta. Dall'altra, un finto taglietto di qualche centinaio di euro alle indennità. Siamo sicuri che non ci sia proprio niente da rivedere?

Corriere della Sera 2.2.12
Sondaggi sempre più negativi e difficoltà interne
I partiti impegnati nella lotta per sopravvivere
di Corrado Stajano


Compito del governo Monti di salute pubblica è, come si sa, il riscatto del Paese dalla crisi economico-finanziaria che ci attanaglia. Ma potrebbe anche essere quello di dar fiato ai partiti, indispensabili, di permettere loro di rigenerarsi, in nome della Costituzione e delle regole della democrazia.
Non pare che sia così e non solo per quello che sta facendo o non facendo il governo Monti. I partiti procedono nei loro comportamenti come se nulla o poco fosse accaduto. Sembra che pensino più alla loro sopravvivenza che alla comunità. Hanno dovuto cedere un potere che non sono stati capaci di gestire a uomini e donne non eletti in libere elezioni e recriminano, più o meno nascostamente, temono l'astio popolare che si è riversato contro partiti e politica.
L'ex maggioranza è implosa. Berlusconi sembra incerto, un giorno confida agli intimi di non volerne più sapere, il giorno dopo, di nuovo imbaldanzito, sembra sicuro di essere richiamato al governo a mettere le cose a posto, un po' Napoleone tra l'isola d'Elba e Sant'Elena, un po' Mussolini tra il Gran Sasso e il lago di Garda della repubblica di Salò. La Lega si è spaccata, Maroni è in conflitto con Bossi e proclama di voler rompere l'alleanza con il Pdl, di far «correre» da sola la Lega alle elezioni amministrative di primavera. Salvo il giorno dopo — ottenuta qualche concessione — mostrarsi pacificato accanto al fondatore-icona del movimento, rimasto fedele, sembra, a Berlusconi.
Il partito del predellino è anch'esso rotto, diviso tra i duri e i morbidi, i falchi e le colombe, tra quanti dichiarano, più o meno sinceramente, di voler sostenere il governo Monti fino al termine della legislatura e quanti, di ogni fazione, di An, di Forza Italia, vorrebbero «staccar la spina» in primavera. Sta nascendo davvero un movimento neocentrista intorno a Casini, il jolly del momento, con Pisanu e altri reduci moderati di partiti e di movimenti? Il panorama politico ne sarebbe rivoluzionato riportandoci a prima del 1994, l'anno della famosa discesa in campo del cavaliere di Arcore.
I sondaggi sono tremendamente negativi per l'ex maggioranza e Berlusconi lo sa bene. Quel che gli interessa, del resto, non sono le vecchie trame della politica, ma il processo Mills, più degli altri due in corso contro di lui, Ruby e Unipol-Bnl. Ce la farà, l'ex presidente, con i marchingegni dei suoi legulei, a impedire che il collegio del Tribunale di Milano entri in camera di consiglio? Non sarebbe dignitoso rinunciare, com'è possibile, alla prescrizione? Certo, una sentenza di condanna per corruzione in atti giudiziari pesa su di lui e sulle sue aziende. Ma dovrebbe averci fatto l'abitudine chi, almeno sette volte, è stato imputato in processi finiti con la prescrizione che non è assoluzione. Non ha qualche sospetto chi, ancora oggi, lo ritiene uno statista?
Anche l'ex opposizione di centrosinistra, nonostante sia avvantaggiata, almeno nei sondaggi, non naviga in acque placide. Deve infatti fare i conti con problemi che riguardano il suo elettorato: il mercato del lavoro, il precariato, l'articolo 18 tirato fuori di continuo da questo o da quel ministro come un misirizzi o uno spaventapasseri. Non può non assecondare il sindacato e prima o poi deve scegliere dove e come stare: con la Sel di Vendola e l'Idv di Di Pietro o accodarsi al neocentrismo di Casini? Lasciando senza rappresentanza politica il milione e mezzo di elettori dell'estrema sinistra, come nel 2006?
Il governo Monti non si risparmia. Ha ridato all'Italia il prestigio perduto in Europa e questo risultato è di somma importanza anche e soprattutto per la soluzione della crisi finanziaria. L'esecutivo è soltanto politico, con la difficoltà di avere in Parlamento il sostegno di una maggioranza impropria, di opposti e contrari. Come può, ad esempio, affrontare il problema centrale del conflitto di interessi e cancellare le leggi ad personam? La legge elettorale andrà in porto? E la giustizia?
Non si è sentita una sola parola sui poteri criminali — mafia, camorra, 'ndrangheta — con una rilevanza economico-finanziaria, non solo repressiva. Come si può poi far pagare quel nuovo balzello — da 80 a 200 euro — ai migranti? Si vuol commemorare così il bicentenario della nascita di Charles Dickens, il dolore dei poveri, raccontato nei suoi libri, lo sfruttamento e la crudeltà delle istituzioni?
Si ha qualche volta l'impressione che i nuovi governanti non conoscano la società italiana e applichino nel loro legiferare schemi teorici e libreschi a una realtà più complessa e bisognosa di umana comprensione.
Doveva essere pazzo il presidente Mao quando inventò il famoso slogan: «Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione quindi è eccellente».

il Fatto 2.2.12
Bambini stranieri per sempre
risponde Furio Colombo


Sei d'accordo con il ministro dell'Interno Cancellieri che vorrebbe concedere la cittadinanza italiana ai bambini stranieri nati in Italia solo “se i genitori sono stabilmente nel Paese e il bambino ha percorso un ciclo di studi” altrimenti creeremmo le condizioni per “far nascere in Italia i bambini di tutto il mondo”?
Fiorenza

SONO D’ACCORDO prima di tutto con il fatto che ogni volta mi sembra da celebrare: Roberto Maroni non è più il ministro dell’Interno in Italia. Lo ripeto perché ogni tanto sento persone perbene sussurrare che “quel Maroni non è poi così male” dimenticando il numero alto, ma ancora sconosciuto, di morti in mare di cui l’Italia si è macchiata con i suoi “respingimenti” (o la morte dei superstiti nelle prigioni libiche). Ma veniamo al punto. I bambini nati in Italia da cittadini non italiani devono essere italiani. Parlo naturalmente del diritto di esserlo, ovvero quando si desidera e si richiede, e non di una imposizione automatica. Ma sono sospettoso di ogni altra condizione. Personaggi come Maroni potrebbero tornare in un ministero italiano, e sarebbero in grado di usare quasi qualsiasi condizione limitativa, non importa se ispirata da cautela o malafede, contro il diritto dei bambini di cui stiamo parlando. È facile, se la pratica resta in balia della burocrazia, contestare la legalità della presenza dell'uno o dell'altro genitore, l'intenzione di restare, il tempo di presenza, il tipo e rapporto di lavoro. Non metterei mai la condizione di questo o quel ciclo di studi. Qualunque bambino che nasce in un Paese e vi resta, diventa psicologicamente e culturalmente figlio di quel Paese. Ciò che l’Italia fa adesso è un disumano atto di negazione di ciò che esiste già. Il diritto immediato di cittadinanza creerebbe una situazione giuridica che impedisce alla politica o alla burocrazia di negare ciò che è umanamente e moralmente dovuto. Abbiamo constatato, nel nostro Paese, che tale politica e tale burocrazia esistono. Da esse, e dalle loro direttive stupide e crudeli, vanno difesi i bambini nati nel nostro Paese. Occorre proteggerli da ciò che il presidente Napolitano ha chiamato giustamente “follia”.

Repubblica 2.2.12
L'intervento del presidente della Repubblica riaccende la discussione sul diritto dei figli di immigrati nati nel nostro paese a non essere discriminati per le loro origini
Ios soli. Quei cittadini di serie B che l'Italia dovrebbe riconoscere
di Carlo Galli


È difficile essere cittadini. In ogni tempo sono stati molti, e assai diversi fra loro, gli ostacoli che sbarrano l'accesso alla cittadinanza o che ne condizionano e vanificano l'esercizio. Pare che non si possa includere alcuni nello spazio politico senza escludere o discriminare altri. In Grecia, infatti, la cittadinanza era ristretta a una sola parte del corpo sociale, ai maschi liberi figli di liberi, e - se si trattava di una democrazia - consisteva nella partecipazione diretta agli affari della città attraverso la pubblica deliberazione in assemblea. L'esclusione, o meglio l'inclusione subalterna e differenziata, di classi, ceti e generi (gli schiavi, le donne, i meteci, ossia gli stranieri residenti) era netta. Invece Roma si differenzia dal mondo greco perché concepisce la cittadinanza come uno spazio non etnico ma giuridico e istituzionale, all'interno del quale possono essere accolti (naturalmente, dopo dure lotte civili) ceti subalterni e genti diverse, politicamente sottomesse; certo, anche questa cittadinanza riguarda solo i maschi liberi, e perde progressivamente il significato di partecipazione politica via via che Roma si trasforma in un impero mondiale. Il mondo cristiano medievale predica la cittadinanza universale del regno dei cieli ma in questo mondo conosce cittadinanze plurime, particolari, gerarchizzate. La sua cifra è la differenza (fra nobili, clerici, plebei) ; solo nelle città si aprono spazi di conflitto e di lotta per l'accesso alla cittadinanza di larghe fette di popolo, a sua volta diviso fra ricchi e poveri. Che la cittadinanza sia un'inclusione che implica un'esclusione, o una discriminazione, resta confermato (si pensi non solo alle donne, ma anche agli eretici, o agli ebrei).
È la modernità che si incarica di affermare la cittadinanza universale, l'uguaglianza civile e politica, senza esclusioni. Più che di lotte, ora, si deve parlare di autentiche rivoluzioni che azzerano le discriminazioni; il cittadino dei tempi nuovi vive un'universale appartenenza alla repubblica. Eppure, quel cittadino è al tempo stesso un borghese; ovvero, dal godimento di quella cittadinanza sono per lungo tempo esclusi i non-proprietari, i poveri, ancora e sempre le donne, e tutto il mondo coloniale. Sono state ancora necessarie lotte durissime perché i diritti di cittadinanza diventassero effettivi, perché la cittadinanza fosse davvero inclusiva, perché ai diritti civili e politici si affiancassero i diritti sociali.
Ma anche quest'ultima fase della storia della cittadinanza, che coincide con la democrazia e con lo Stato sociale, ha i suoi problemi e le sue contraddizioni. Prima di tutto all'esercizio della cittadinanza: ciò che il mondo d'oggi produce è più un apatico consumatore che un cittadino. Ma un altro rischio sovrasta la cittadinanza moderna. L'attuale crisi dello Stato sociale è di fatto crisi della cittadinanza: la frammentazione della società, la marginalità, la precarietà, sono infatti espulsioni dalla sfera pubblica; la cittadinanza non è più appartenenza ma si rovescia in rancore, in frustrazione; e, ancora una volta, in esclusione.
A ciò si aggiunge il fatto che la cittadinanza moderna è sì universale, ma è determinata dallo Stato, che prescrive le modalità con cui si diventa cittadini; se prevale l'elemento della nascita, della cittadinanza dei genitori, vige lo ius sanguinis, mentre se prevale il territorio in cui si nasce o in cui si vive, vale lo ius soli. In Italia il primo è assai più importante del secondo: lo straniero residente può chiedere la cittadinanza solo dopo molti anni di permanenza e di lavoro. E i figli degli stranieri non diventano italiani neppure se nascono e vivono in Italia.
Quando la società era omogenea, quando lo Stato coincideva con la nazione, i problemi erano relativamente pochi: di solito, si nasceva in Italia, da genitori italiani. Ma oggi l'età globale implica la coesistenza, in dosi massicce, su un medesimo territorio di diverse culture, etnie, lingue, religioni. E la prevalenza dello ius sanguinis fa sì che nel medesimo spazio si creino differenze rilevantissime fra residenti cittadini e quantità sempre maggiori di residenti non-cittadini, molti dei quali nati in Italia, che come nuovi meteci condividono la nostra vita quotidiana ma non la nostra cittadinanza. Nasce così un'assurda società postmoderna, in cui la diversità culturale è disuguaglianza civile e politica; una società che non fa convivere le differenze ma le stratifica, le gerarchizza. Ritorna, insomma, la difficoltà della cittadinanza, secondo una modalità che sembrava superata; non si tratta più del suo cattivo esercizio, ma di uno sbarramento all'accesso.
L'argomento che allargando i casi di acquisizione della cittadinanza tramite lo ius soli si snaturerebbe l'identità italianaè del tutto erroneo: non c'è in Costituzione alcun accenno a una necessaria base naturale o culturale della repubblica, che è fondata solo sul lavoro e sui principi della democrazia. La cittadinanza esige non uniformità né omogeneità, ma uguaglianza e pari dignità. In realtà, chi chiede oggi la cittadinanza non universale ma selettiva e diseguale, propugna una sorta di uscita a ritroso dalla modernità, verso un nuovo feudalesimo delle disuguaglianze, verso nuove servitù. E, al contrario, la lotta per la cittadinanza degli stranieri residenti, può essere un'occasione per riaprire una stagione di partecipazione politica anche per chi la cittadinanza già ce l'ha, ma non ne fa buon uso. Non sono solo gli stranieri, ma tutto il Paese, ad averne bisogno.

Repubblica 2.2.12
Le differenze tra antichi greci e latini
Le due patrie dei romani
di Maurizio Bettini


Quando Romolo fondò Roma, accogliendo nel celebre asylum gente di ogni provenienza e condizione, non si limitò a scavare un solco destinato a segnare il perimetro delle mura. Al centro del tracciato aprì infatti una fossa, affinché ciascuno degli stranieri potesse gettarvi dentro una zolla della propria terra d'origine. In questo modo il suolo della futura Città risultò da una vera e propria mistione di terre, quella del Lazio e quella nativa di ciascun cittadino. Il significato di questo mito balza agli occhi se solo lo si confronta con il modo in cui immaginavano le proprie origini gli Ateniesi. Essi raccontavano infatti che i primi re - Cecrope ed Erittonio - erano venuti su direttamente dalla terra, e che erano addirittura per metà serpenti, le creature più terrestri che esistano. Conformemente a ciò gli Ateniesi consideravano anche se stessi autochthones, ossia (ancora una volta) "venuti su dalla terra". Il contrasto non potrebbe essere più evidente: se ad Atene è la terra che produce gli uomini, a Roma sono gli uomini che producono la terra.
Questi due miti rispecchiano due modi contrapposti di immaginare l'appartenenza civica. Ad Atene terra e sangue fanno tutt'uno, questa città di "autoctoni" accetta, come cittadini, solo coloro che sono figli a loro volta di cittadini ateniesi. Al contrario Roma costituisce una comunità della quale, indipendentemente dal proprio sangue, si può acquisire il diritto di far parte - ma sempre (per dir così) portando con sé una zolla della terra d'origine. In che modo? Ce lo spiega Cicerone, dialogando con Attico nelle Leggi.
Tutti coloro che vivono nei municipi - diceva - hanno due patrie, una di natura, l'altra di cittadinanza; una che riguarda il luogo, l'altra il diritto. Anche lui del resto aveva due patrie: da una parte Arpino, il municipio da cui proveniva la sua famiglia; dall'altra Roma. Ma come, si stupiva Attico, dunque non pensava che era Roma la sua patria? Certo, rispondeva Cicerone, e per la Città egli avrebbe dato anche la vita, secondo il dovere di ogni buon cittadino. Questo però non gli impediva di avere anche un'altra patria, non di cittadinanza ma di natura, non di ius ma di locus. Per comprendere il significato di queste singolari affermazioni dell'Arpinate (ecco perché lo hanno sempre chiamato così), bisogna ricordare che dopo la fine delle guerre sociali, all'inizio del primo secolo a. C., i Romani avevano inaugurato una politica della cittadinanza che, in qualche modo, traduceva in legge quella famosa zolla di terra. Ai cittadini veniva infatti attribuita una origo, ossia un "luogo originario", città, colonia o municipio che fosse. Tale origo connetteva ciascuno a una comunità i cui appartenenti avevano ricevuto collettivamente la cittadinanza romana. Questa "patria di luogo", come la chiamava Cicerone, che si trasmetteva di padre in figlio, poteva essere in Italia, però anche in Spagna o sulle coste del Mediterraneo. Di conseguenza gran parte dei cittadini romani erano tali proprio in quanto e perché avevano una "origine" non romana. Altro non ci si sarebbe potuti aspettare, del resto, da un popolo che immaginava in questo modo perfino i propri dèi e il proprio mitico antenato. I Penati della Città, divinità civiche per eccellenza, i Romani li avevano infatti collocati non a Roma ma altrove, a Lavinio, dove si sosteneva che essi avessero (al solito) la propria origo; mentre come capostipite si erano notoriamente scelti un troiano, Enea, che in quanto tale aveva un' origo ben lontana dal Lazio. Il fatto è che i cittadini di Roma avevano fatto una scoperta preziosa: come sentirsi se stessi non a dispetto dell'essere altri, ma proprio grazie a questo.

Repubblica 2.2.12
Storie di ragazzi e ragazze destinati a restare delusi
L’ingiustizia quotidiana
di Tamara Lakhous


Tre anni fa mi trovavo a Toronto, in Canada, per un festival internazionale di letteratura. Ricordo, in particolare, un incontro interessante con un simpatico musicista. Mi disse che aveva da poco ottenuto la cittadinanza italiana con estrema facilità, era bastato il certificato di nascita del bisnonno immigrato dal Veneto all'inizio del secolo scorso. Niente esame di lingua, di storia, di cultura, di costituzione, per misurare la sua italianità. Non parlo l'italiano - ripeteva ridendo - e non sono mai stato in Italia, Paese di cui conosco pochissime cose. Per essere sincero mi sento completamente canadese. Gli chiesi: Allora perché hai deciso di diventare cittadino italiano?. Mi rispose: Per far felice la nonna, l'unica in famiglia che parla ancora qualche parola di italiano.
Gli raccontai la mia storia per ottenere la cittadinanza italiana, una cittadinanza "sudata", non regalata. Un lungo percorso durato 12 anni di residenza, una maturazione profonda e una lenta italianizzazione fatta con la mente, la lingua, la conoscenza, il dialogo, la scrittura e soprattutto con il cuore.
Mi torna in mente spesso la storia del "canadese" quando incontro ragazze e ragazzi nati in Italia e con genitori immigrati. Mi colpisce la loro determinazione e maturità: non hanno dubbi identitari, si sentono italiani a tutti gli effetti. Capiscono che il problema non sono loro, ma il contesto in cui si trovano, fatto di propaganda, ipocrisia, cattiveria e mancanza di buon senso. Ricordo che una volta una ragazza nata a Roma, di origine marocchina, mi spiegò con poche parole la grande frustrazione e ingiustizia in cui vivono giovani come lei: Quando sono a Roma mi chiamano la marocchina, e quando vado in Marocco mi chiamano l'italiana. Non parla arabo, però va fiera del suo romanesco, si considera una grande tifosa della nazionale di calcio e conosce a memoria le canzoni di Lucio Battisti. Poi, con un tono pieno di tristezza e di sofferenza: Sono un'italiana con il permesso di soggiorno!. umiliante e assurdo chiamarli "immigrati di seconda generazione". Sono i genitori che sono immigrati, non loro. Aveva ragione il grande scrittore arabo Abu Hayyan Al-Tawhidi (morto nel 1023) quando sosteneva che lo straniero più straniero in assoluto è quello che vive da straniero nella propria patria.
In questi ultimi anni è stata concessa la cittadinanza italiana a tanti, soprattutto all'estero, in base solo allo ius sanguinis. Molti di loro votano anche se non pagano le tasse e possono condizionare la vita politica italiana. Invece i figli di immigrati nati in Italia sono esclusi perché non hanno un antenato italiano nel loro albero genealogico, cioè qualche goccia di sangue italiano nelle vene. Così si vedono costretti al diciottesimo anno a chiedere il permesso di soggiorno. L'Italia non dovrebbe essere il loro Paese? Perché continuare a rigettarli e a trattarli come figli illegittimi? Ne conoscono la cultura, la cucina, la storia, la geografia, lo sport e la politica. Ne parlano la lingua e i dialetti locali. Condividono con gli italiani "puri" felicità e dolori, pregi e difetti, caratteri e umori. Insomma amano questo Paese e vogliono essere amati.
Non dare la cittadinanza a chi è nato in Italia è semplicemente "vergognoso", come ha detto chiaramente il Presidente Giorgio Napolitano.

il Fatto 2.2.12
Camusso e Tiraboschi stasera ospiti a Servizio Pubblico


L’eguaglianza, in questa crisi, dov’è? Si salverà l´Italia, o solo una sua parte? Cosa risponde Susanna Camusso? Il governo incontra le parti sociali per discutere di mercato del lavoro, di licenziamenti e flessibilità, proprio mentre la disoccupazione giovanile raggiunge nuovi livelli record. La colpa, dicono i ragazzi dei movimenti e i precari, è dell’esplosione del debito. Ma chi pagherà davvero il conto? "La vita davanti" è il titolo della puntata di Servizio Pubblico in onda stasera alle ore 21. La trasmissione sarà visibile su una multipiattaforma: Cielo (canale 26 del digitale terrestre), rete di televisioni territoriali, Sky Tg24 (canali 504 e tasto active dei canali 500 e 100), web (oltre il sito dello stesso programma serviziopubblico.it  ,Corriere, Repubblica e il Fatto Quotidiano); e in esclusiva anche su Radio Capital. Ospiti di Michele Santoro: Susanna Camusso, segretario generale della Cgil e il giuslavorista Michele Tiraboschi. In collegamento, Sandro Ruotolo dal centro sociale Tpo di Bologna. Tra i servizi, un reportage esclusivo dalla Grecia.

il Fatto 2.2.12
Nel nome del padrino
Un saggio indaga gli ambigui rapporti tra mafia e Chiesa nel Mezzogiorno
di Nicola Tranfaglia


Ci sono, nella storia dell’Italia, problemi che gran parte degli storici e dei mezzi di comunicazione di massa evitano con molta cura di affrontare. Tra di essi, a mio avviso, ha un posto di rilievo una questione che si incontra più volte se si ha a che fare con il Novecento, quello che lo storico inglese Eric Hobsbawm volle definire, nel 1989, il secolo breve. E, se si affrontano in particolare, le vicende che riguardano nello stesso secolo l’Italia meridionale e le isole maggiori della Penisola. Stiamo parlando, per chi non lo avesse ancora capito, dei rapporti che la Chiesa cattolica ha intessuto da molto tempo con le associazioni mafiose. In un saggio apparso presso le edizioni Baldini, Castoldi, Dalai (I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica pagg. 367, euro 18.50) Isaia Sales ripercorre – sulla base di fonti tratte dalla stampa nazionale e locale, ma anche relative a processi penali – una storia tormentata che gli italiani (o la maggior parte di loro) sembrano aver dimenticato e che pone ancora oggi problemi di difficile soluzione.
PADRE Bartolomeo Sorge, che più volte è intervenuto su questioni ardue della politica italiana, disse una volta: “Mi sono chiesto perché questo sia potuto accadere: il silenzio della Chiesa sulla mafia. Non si potrà mai capire come mai i promulgatori del Vangelo e delle beatitudini non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione. Il silenzio, se ha spiegazioni, non ha giustificazioni”. E Gian Carlo Caselli, procuratore della Repubblica a Palermo nei primi anni Novanta, dopo le stragi di Falcone e Borsellino e delle loro scorte, ha di recente aggiunto: “Se Falcone, Borsellino, don Puglisi sono morti è perché lo Stato, la Chiesa, tutti noi non siamo stati ciò che dovevamo essere”.
L’affermazione del magistrato torinese non contrappone la Chiesa cattolica, istituzione di grande rilievo nella società italiana, allo Stato nazionale ma mette in luce, senza ipocrisia, i problemi che l’esistenza, e addirittura l’espansione delle associazioni mafiose (la ‘ndrangheta calabrese, anzitutto negli ultimi anni, ma anche la mafia siciliana e la camorra campana) ha provocato nel nostro paese.
Gli esempi che Sales nel suo libro riferisce, traendoli da una casistica solo in parte nota alla pubblica opinione, sono molto numerosi e paiono in certi casi addirittura incredibili a chi non si sia mai avvicinato al tema della presenza mafiosa nella nostra vita economica e sociale.
Il primo aspetto impressionante è costituito dalla fervida fede cattolica che mostrano di avere alcuni tra i più noti boss delle maggiori associazioni mafiose: nei covi di Bernardo Provenzano, catturato dopo 43 anni di latitanza, di Michele Greco noto come il “papa” della cupola palermitana, di Pietro Aglieri e di Benedetto Santapaola o ancora di Raffaele Cutolo, re della nuova camorra, o di Momo Piromalli, sono stati ritrovati Bibbie, libri religiosi, immagini di Santi e di madonne, addirittura altari su cui celebrare la messa.
COME SI spiega un simile atteggiamento e quale significato ha una vicinanza così grande tra quelle associazioni e la Chiesa meridionale, che pure ha avuto anche frati e sacerdoti che si sono spesi con generosità fino al martirio nella lotta contro le mafie? A un simile interrogativo, nel suo libro, l’autore cerca più volte di rispondere indicando “la lunga sedimentazione degli insegnamenti della Chiesa meridionale sul costume, sulla mentalità, sul senso civico, sui valori privati e pubblici della società meridionale. La Chiesa non ha fatto da argine alle mafie e ai mafiosi sia perché essa è stata parte fondamentale delle classi dirigenti meridionali, condividendone tutti i limiti e le compromissioni in quanto coinvolta pienamente nelle proprietà e nel controllo della terra. E questo sia perché la sua teologia morale ha permesso a degli assassini di sentirsi quasi dei privilegiati, essendo le pecorelle da recuperare e non avendo l’obbligo di legare la propria confessione dei delitti a una espansione sociale, pubblica, riparatrice dei danni provocati al singolo e alla società”.
È una spiegazione quella di Sales che attribuisce alle classi dirigenti italiane, e a quelle meridionali non meno che alle altre, le responsabilità maggiori per un problema storico che nel Ventunesimo secolo, a quanto pare, non siamo ancora riusciti a eliminare (e neppure a circoscrivere) insistendo esclusivamente sulla pur indispensabile repressione e non attivando invece per nulla il pedale fondamentale della lotta culturale e politica contro i metodi delle associazioni mafiose. C’è da sperare che gli italiani ritrovino (come è successo altre volte nella loro storia) l’energia e la forza per rovesciare il processo e liberarsi finalmente di un cancro che rischierebbe persino di distruggere la nostra giovane democrazia.

il Riformista 2.2.12
L’economia cinese sta rallentando
Tutti i dubbi sui bilanci di Pechino
Trucchi contabili? A dispetto dei dati in salita del settore manifatturiero e del comparto export, gli indicatori macro del Celeste Impero dicono «recessione».
di Mauro Bottarelli


La Cina rallenta. E, con molte probabilità, racconta bugie. Ieri Pechino ha reso noto che l’indice manifatturiero delle piccole e medie imprese (Pmi) in Cina è aumentato a gennaio a 50,5 punti dai 50,3 registrati a dicembre, un dato in netta controtendenza rispetto alle previsione generali che puntavano verso un 49,6. In sostanza, un risultato sopra i 50 punti, segnala espansione dell’economia. Ma c’è da crederci? Molti dati ci dicono di no, uno dei quali particolarmente inquietante. Il dato Pmi di gennaio, infatti, è risultato sopra le previsioni per un inusuale aggiustamente stagionale, visto che dal 2005 in poi il mese di gennaio ha sempre registrato un calo medio dello 1,1 essendo soggetto alla cosiddetta golden week, la settimana che preannuncia l’anno nuovo e durante la quale i lavoratori possono non andare in fabbrica la domenica. Di più, i numeri dell’economia cinese rendono impos-
sibile tutto ciò. Soprattutto l’export, visto che i nuovi ordinativi per componentistica hanno conosciuto un calo dal 49,8 di dicembre al 46,9 di gennaio, dati che non si vedevano dal 2009.
Inoltre, a scendere ai livelli più bassi da 35 mesi a questa parte è la componente occupazionale, passata dal 48,7 al 47,1, segnale che il settore ultra-intensivo dell’export non tirà più come un tempo. Altri dati. Le importazioni cinesi dal Giappone sono scese del 16,2 per cento in dicembre e quelle da Taiwan del 6,2, lo Shanghai Container Freight Index ha toccato in novembre il record negativo di 919,44 e il volume di trasporto merci su gomma, rotaia, fiumi e via aerea è sceso a 31.780 tonnellate metriche a novembre dalle 32.340 di ottobre.
Piatto per tutto l’autunno il consumo di energia elettrica mentre, annualizzato, è stato decisamente marcato il calo del tasso di crescita, dall’8,9 di settembre all’8 di ottobre fino al 7,7 di novembre. Male anche gli investimenti residenziali, con il conseguente crollo dei prezzi immobiliari nelle principali 70 città del Paese.
Alla luce di questi dati e con un’inflazione reale al 16 per cento, come ha fatto la Cina a crescere dell’8,9 per cento nel quarto trimestre del 2011, come annunciato da Pechino? Inoltre, anche l’extra supporto al Pil garantito da ogni singolo yuan di credito, è collassato a zero con la stretta sulla liquidità imposta dalla banca centrale. Mettendo insieme questi dati, emerge un’economia deformata dall’eccesso di investimento che vede i consumi interni bassissimi a causa dei bassissimi salari.
Infine, il arriviamo all’indicatore più inquietante. Ieri, l’indice Baltic Dry Index (Bdi) ha toccato il minimo decennale a quota 662, un calo dell’1,76 intraday e dieci punti più in basso del minimo assoluto di 672 punti toccato durante il picco di crisi post-Lehman: parliamo di un calo del 66,2 per cento in 50 giorni, quando il massimo relativo al 12 dicembre era di 1980 punti. Ma che cos’è il Bdi? È un indice dell’andamento dei costi del trasporto marittimo e dei noli delle principali categorie delle navi dry bulk cargo e, nonostante il nome, raccoglie i dati delle principali rotte mondiali e non solo quelle del Mar Baltico. Somma cioè le informazioni relative alle navi cargo che trasportano materiale dry, quindi non liquido e bulk, ossia sfuso. Riferendosi al trasporto delle materie prime o derrate agricole costituisce anche un indicatore del livello della domanda e dell’offerta di tali merci: proprio per queste sue caratteristiche viene monitorato per individuare i segnali di tendenza della congiuntura economica. Bene, dati come quelli odierni significano due cose: che non c’è più richiesta di merci (commodities) da Cina e India e, quindi, recessione globale già in atto ed esplosione della bolla del settore shipping, dovuta a sempre maggiori commesse per nuove navi durante il boom pre-crisi. Tutto ciò con un paio di aggravanti.
La prima, direttamente legata alla crisi della navigazione per trasporto merci, riguarda ancora le banche europee, soprattutto quelle tedesche e francesi. Il proliferare di nuove imbarcazioni, figlie appunto del boom delle commodities dal 2005 al 2008, ha portato oggi a una sovrabbondanza di mezzi che non significa per gli armatori solo tariffe più basse ma anche deprezzamento del valore delle stesse navi. Per Basil Karatzas, Ceo della Karatzas Marine Advisors, un’azienda di brokeraggio navale e consulenza finanziaria con sede a Manhattan, le banche europee hanno nei loro bilanci prestiti legati allo shipping per 500 miliardi di dollari, 100 dei quali potrebbero evaporare in perdite legate alla loro ristrutturazione causa crisi. La seconda aggravante riguarda la Borsa, con la mente che torna indietro al luglio 2010, quando il Bdi era a quota 3mila, salvo precipitare in area mille nel febbraio 2011: in quei sei mesi, sui listini si ballò la rumba.
E se il motore economico globale batte in testa, serve a poco negare la recessione globale. Come d’altronde hanno già confermato le stime del Fondo monetario internazionale: tagliate le previsioni di crescita del Pil globale per il 2012 al 3,3 per cento e per il 2013 al 3,9 per cento, rispetto a stime precedenti relativamente del 4 e 4,5 per cento. L’Fmi ha anche confermato che il Pil cinese del quarto trimestre del 2011 ha rallentato come non accadeva da 2 anni e mezzo.

il Fatto 2.2.12
Auschwitz. Le parole per dirlo: ai nostri figli
Le leggi razziali allora e il razzismo nell’Italia di oggi
di Paolo Nori


Appena tornato ho detto alla Battaglia che il vento, a Cracovia, ti tagliava la faccia.
“E come facevi? ”, mi ha chiesto lei.
“Eh, c'eran dei medici, in albergo, che tutte le sere ti ricucivan la faccia te la mettevano a posto”.
“Davvero? ” mi ha detto lei. No, – le ho detto io. – Scherzavo”.
Ero stato ad Auschwitz con la fondazione Fossoli, cinque giorni. Eravamo andati in treno. Eravamo andati da Carpi a Cracovia. Poi da Cracovia, in corriera, tutti i giorni andavamo sui campi, se così si può dire, ad Auschwitz e a Birkenau. Tutto il giorno sui campi, a quindici sotto zero, al vento, a tagliarsi la faccia. E dopo indietro a Cracovia. E di sera, tutte le sere, a veder gli spettacoli, al cinema Kijow, i primi due giorni, poi in una discoteca polacca nel quartiere universitario. Una discoteca che si doveva chiamare Officina Metallurgica e invece non si chiamava così. Si chiamava Studio zero, o Club studio, o qualcosa del genere. E, si vede, avevano appena lavato i pavimenti, c'era un gran odore di detersivo.
Eravamo in settecento.
E lo storico Carlo Saletti diceva: “Siamo qui in massa”. E a me veniva da pensare: “Siamo qui insieme”.
Tutta questa bontà
C'ERANO delle cose complicate, lì ad Auschwitz.
La cosa più complicata, mi sembra, era: tutta questa bontà. Esser lì insieme a settecento studenti, tutta questa bontà. Ma lì io non ci pensavo, ci penso adesso che sono tornato: tutta questa bontà. Noi, siamo abituati che essere buoni c'è da avere vergogna, mi sembra. Noi siamo abituati così. Non in Polonia, in Italia.
Agli studenti, uno, non sa cosa dirgli.
A uno studente di diciassette anni, che è lì ad Auschwitz e a Birkenau, in gennaio, con quindici gradi sottozero, a tagliarsi la faccia, uno, cosa gli dice? Uno magari non gli dice niente.
Però magari se ti chiedono di accompagnare le guide, di aggiungere ogni tanto qualcosa ai loro discorsi che sembrano preregistrati, tu, cosa gli dici? Magari gli dici che tu, un po' di anni fa, su youtube, hai trovato un discorso del presidente della camera Fini sulle leggi razziali che cominciava dicendo che era strano, che in un paese cattolico come l'Italia ci fossero state queste leggi contro gli ebrei e, quando avevi sentito così, ti era venuto in mente che ghetto, “ghetto”, è una parola italiana.
I ghetti e la bolla papale del 1555
E CHE i ghetti erano stati istituiti il 14 luglio del 1555 dal papaPaoloIV, italiano. Conlabolla Cum nimis absurdum. E che Cum nimis absurdum era l'incipit della bolla, e significava: “Poiché è oltremodo assurdo”. E la cosa oltremodo assurda e “disdicevole”, c'era scritto nella bolla, era il fatto “che gli ebrei, che sono condannati per propria colpa alla schiavitù eterna”, avevano “l'insolenza” di voler vivere in mezzo ai cristiani, e di voler possedere immobili, e di voler assumere balie e donne di casa. E per punirli per la loro insolenza, il papa italiano Paolo IV, con la bolla Cum nimis absurdum ordinava loro di “Abitare in un luogo separato dalle case dei cristiani”, il ghetto, che nella bolla viene chiamato il serraglio, serraglio che doveva avere un solo ingresso e una sola uscita, e che di notte doveva essere chiuso, e tutti gli animali dentro, e due sentinelle cristiane all’ingresso a controllare, e pagate dalla comunità ebraica. E la bolla del papa italiano stabiliva, per gli ebrei, l’obbligo di portare un segno distintivo di colore giallo (un cappello giallo per gli uomini e un fazzoletto giallo per le donne), e l’obbligo di non tenere servitù cristiana, e l’obbligo di non lavorare durante le festività cristiane, e l’obbligo di non prestare denaro a cristiani, e l’obbligo di mantenere buoni rapporti con i cristiani. E il divieto di esercitare alcun commercio al di fuori di quello degli stracci e dei vestiti usati, e l'esplicito divieto a commerciare “beni alimentari destinati al sostentamento umano”; non potevano toccare con le mani una cosa che doveva esser mangiata da un cristiano. E non potevano curare i cristiani, i medici ebrei; e non potevano farsi chiamare con l'appellativo di “signore” da alcun cristiano, e non potevano fare un sacco di altre cose.
Cultura e barbarie
E DOPO aver letto Cum nimis absurdum, dicevi, non c'era tanto da sorprendersi, che in un paese cattolico come l'Italia ci fossero state le leggi razziali, e che questa idea che noi italiani siam tanto bravi, e che con la Shoah non c'entriamo niente e che quello è stato il male assoluto e che son stati i tedeschi e l'han fatto allora e coi nostri tempi non c'entra niente, questo ti sembra un modo per farti dimenticare per esempio che tua nonna, quandoeripiccolo, tidicevadi stare attento agli zingari che rubano i bambini, e ti diceva che le zingare hanno le gonne così larghe perché sotto ci nascondono i bambini, e quella cosa lì, anche se la diceva tua nonna, che tu le hai voluto un bene che non si può dire, era una menzogna razzista, perchénonc'èmaistato, nellastoria della Repubblica Italiana, nessuno zingaro condannato per rapimento di bambini. E ti viene in mente quelli che pochi mesi fa, a Torino, hanno bruciato un campo rom per vendicarsi di uno stupro che non c'era mai stato, e poi hanno impedito ai pompieri di avvicinarsi per spegnere il fuoco, esattamente come i nazisti con i negozi degli ebrei la notte dei cristalli. E ti viene in mente Dickens, che da qualche parte racconta che quando, da piccolo, andava a scuola, c'era un insegnante che prendeva sempre in giro un ragazzochenonerasveglissimo; “Enoi, –scriveDickens, –cani, ridevamo”. E che forse comincia tutto lì. E che in quel senso, solo in quel senso, tu riesci a capire quello che dice lo storico Carlo Saletti che dice che la cultura è il miglior alleato della barbarie, e lui ti sembra non lo dica in quel senso. E difatti è per quello che il compositore Carlo Boccadoro dice che quella, adesso riassumo, è una gran puttanata. E in tutto il vagone ristorante, siete in treno, state tornando, si accende una discussione e sono tutti intorno a Carlo Saletti a chiedergli: “Ma cosa dici? ”. E lui dice che quello che voleva dire era che “La cultura non ti immunizza dalla barbarie”. E gli altri dicono “Ahhhh”. E una ragazza di diciassette anni ti chiede “Ma come faccio, a capire quello che devo fare? ”. E tu le rispondi che non lo sai. E di portare pazienza. E che se sta attenta, forse, se ne accorge da sola. E una ragazza di diciotto anni ti dice che lei, a Birkenau, voleva stare da sola. Senza la guida, senza la gente, senza la massa. Non insieme, da sola. E tu dici che Birkenau, è strano, ma è un posto bellissimo. E è un posto che non si può raccontare. E che ti mette addosso una voglia di raccontarlo che, da un certo punto di vista, inspiegabile. E che tu, la prima volta che l'hai visto, quando sei uscito, hai pensato Quando torno a casa lo devo raccontare alla Battaglia”. E ti sei inspiegabilmente commosso. E la Battaglia è tua figlia. E allora aveva tre anni. E dopo, quando sei tornato, hai avuto vergogna non gliel'hai raccontato.

Corriere della Sera 2.2.12
Pio XI, Pio XII e il nazismo, confronto tra due strategie
risponde Sergio Romano


È noto che Eugenio Pacelli firmò il 20 luglio 1933 il Concordato tra la Santa Sede e la Germania nazista con il vice cancelliere Franz von Papen rispettivamente per conto di Papa Pio XI e del presidente tedesco Paul von Hindenburg. Pacelli fu eletto Papa il 2 marzo 1939 col nome di Pio XII. Ho letto sul libro di Erich Schaake «Le donne di Hitler» che, quando il cardinale Pacelli arrivò al Berghof a fare visita a Hitler, Eva Braun fu costretta a nascondersi (cosa frequente nel corso delle visite di personalità, come ad esempio quella del duca di Windsor e consorte). La cosa mi sembra assurda perché in quei giorni, il cardinale Pacelli stava per essere eletto Papa. La visita è realmente accaduta?
Pietro Guido

Caro Guido,
L'assenza di Eva Braun a un incontro di Hitler con il cardinale Eugenio Pacelli, segretario di Stato della Santa Sede, non mi sorprenderebbe. La signorina Braun apparteneva alla cerchia personale e familiare del Führer. La sua presenza, in questa circostanza, sarebbe stata inutile e inopportuna. Ho usato il condizionale perché non credo (ma sono pronto a correggermi, se necessario) che Pacelli abbia incontrato Hitler, soprattutto nel periodo che precedette di poco la sua elezione al papato. Secondo Philippe Chenaux, autore di una biografia di «Pio XII diplomatico e pastore», pubblicata dalle Edizioni Paoline nel 2004, gli ultimi due viaggi all'estero del segretario di Stato furono in Francia e in Ungheria.
Il primo, motivato dalla inaugurazione della basilica del bambino Gesù a Lisieux, ebbe luogo nel luglio 1937, più di un anno dopo la vittoria del Fronte popolare e la costituzione di un governo molto laico presieduto da Léon Blum e sostenuto dal partito comunista. Pacelli non amava né il nuovo governo francese né quello che si era costituito a Madrid dopo le elezioni spagnole del febbraio 1936. Sapeva che esistevano cattolici «progressisti», soprattutto in Francia, disposti a collaborare con le sinistre, ma in un discorso pronunciato nella cattedrale di Notre Dame il 13 luglio accusò la società cattolica francese di non essere sufficientemente attenta ai pericoli «inquietanti» che minacciavano la Chiesa romana.
Il secondo viaggio fu a Budapest nel maggio 1938, in occasione del trentaquattresimo congresso eucaristico, ed ebbe luogo in circostanze internazionali alquanto diverse. Il pericolo «inquietante», in quel momento, non era la vittoria delle sinistre in due grandi Paesi latini, ma l'ingresso delle truppe tedesche a Vienna il 12 marzo e l'annessione dell'Austria alla Germania nelle settimane seguenti. Quale dei due pericoli era per la Chiesa romana il più minaccioso? Sappiamo che Pio XI, agli inizi di maggio, si era ritirato nella residenza papale di Castel Gandolfo, forse per evitare qualsiasi contatto con Hitler durante la sua visita in Italia. Sappiamo che il Papa, se lo avesse incontrato, avrebbe rimproverato al Führer le continue angherie del regime nazista contro il cattolicesimo tedesco. E sappiamo infine che papa Ratti, negli ultimi due anni della sua vita, non perse occasione per denunciare l'intolleranza nazista. Lo aveva fatto pubblicamente nell'enciclica «Mit brennender sorge» (con cocente preoccupazione). Lo aveva fatto ingiungendo al clero austriaco di non approvare pubblicamente l'Anschluss e commissionando a un gesuita americano, padre J. La Farge, un progetto di enciclica sul razzismo. Pacelli, invece, sperò sempre che il Concordato, benché spesso violato, avrebbe fornito alla Santa Sede il diritto e gli argomenti per contrastare le continue aggressioni di Hitler. La prudenza del diplomatico prevalse in lui sull'indignazione del pastore.

il Fatto 2.2.12
Le Pen balla il valzer nazista
Tra i partecipanti alla serata di Vienna la leader della destra francese
di Tony Paterson


La scena all’interno della sfarzosa sala da ballo di Palazzo Hofburg a Vienna sembrava presa dal film Tutti insieme appassionatamente: giovani donne in abito lungo bianco allacciate ai loro cavalieri in frac nero che volteggiavano sulle note di un valzer di Strauss. Ma nelle strade adiacenti lo spettacolo era molto diverso. I poliziotti austriaci dei reparti speciali anti-sommossa con i loro caratteristici caschi bianchi presidiavano la zona. “Nazisti, scomparite, nessuno ha nostalgia di voi! ” diceva uno dei cartelli inalberati dai dimostranti. Sembra che nel corso dei disordini sia stato arrestato un uomo in possesso di un chilogrammo di esplosivo.
La protesta era diretta contro il tradizionale ballo studentesco detto “Korporierten-Fest” che, dal 1952, inaugura la stagione dei grandi balli viennesi e che quest’anno si è trasformato in un nostalgico revival dell’ultradestra europea.
Quanto è accaduto rischia di ripercuotersi negativamente sull’intera stagione dei balli, giustamente considerati in Austria una tradizione di cui andare fieri. A Vienna tra il 31 dicembre e i primi di marzo si tengono circa 250 balli i cui proventi spesso vanno in beneficenza. Il più famoso è il “Ballo dell’Opera” cui hanno partecipato in passato la duchessa di York e Paris Hilton.
Non è la prima volta che il “Korporierten-Fest” causa imbarazzo ai viennesi per i suoi stretti legami con l’estrema destra. Il mese scorso, a seguito di vivaci dimostrazioni anti-fasciste, l'Unesco ha cancellato i balli viennesi dall'elenco delle manifestazioni patrocinate. L’Unesco ha dichiarato che il ballo studentesco di Vienna è venuto meno ai valori di “tolleranza e rispetto per le altre culture”.
Ma la settimana scorsa lo scandalo è stato ancora più clamoroso: accolti da Heinz-Christian Strache, capo del Partito della libertà, una formazione austriaca di estrema destra, sono giunti a Palazzo Hofburg: Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale francese, ed esponenti del partito di destra belga Vlaams Belang. Il padre di Marine, Jean Marie Le Pen, rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano ragione della partecipazione di sua figlia a un evento così screditato, ha risposto con il suo solito umorismo razzista: “Mi ricorda la Vienna del 19° secolo – è Strauss senza Kahn”.
STRACHE ha approfittato dell'occasione per scaldare gli animi dei 3.000 ospiti con un delirante discorso antisemita e il giorno dopo in tutto il Paese si è ricominciato a parlare dell'inesorabile, preoccupante ascesa del nazionalismo populista di estrema destra in Austria.
Parlando dei dimostranti che affollavano le strade intorno a Palazzo Hofburg, Strache ha sottolineato che il loro “meraviglioso incontro culturale” rischiava di essere rovinato da pochi “dimostranti anti-democratici che incitano alla violenza”. Poi ha paragonato la dimostrazione di protesta alla Notte dei cristalli che il 10 novembre del 1938 preannunciò l'Olocausto e ha urlato: “Siamo noi i nuovi ebrei!”.
Come non bastasse il ballo studentesco è stato organizzato – coincidenza? – proprio il 27 gennaio, Giornata della Memoria in ricordo della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico. Eva Glawischnig, segretaria dei Verdi austriaci, ha commentato amaramente: “Il valzer lo hanno ballato proprio sulle tombe degli ebrei”.
La comunità ebraica austriaca ha chiesto per l’ennesima volta alla Procura della Repubblica di avviare una inchiesta su Strache mentre il Partito popolare, attualmente al governo, ha definito le parole di Strache “uno schiaffo in faccia alle vittime del regime criminale nazista”. Il Partito della libertà ha definito le critiche “ridicole e strumentali”. Ma le parole di Strache hanno sollevato nuovi, inquietanti interrogativi su quello che alle ultime consultazioni è diventato il secondo partito austriaco anche grazie a una violenta campagna islamofobica. E le ambizioni del 42enne odontotecnico che guida il Partito della libertà non finiscono qui: alle elezioni dell'anno prossimo punta a conquistare la maggioranza relativa. Per questa ragione di recente Strache ha rifiutato l’invito di un club studentesco di estrema destra nel timore di venirsi attribuire posizioni politiche estremiste. Inoltre per dissipare il sospetto di nostalgie naziste, Strache ha fatto visita allo Yad Vashem, il monumento eretto da Israele alle vittime dell'Olocausto. Ma invece di coprirsi il capo con la tradizionale kippa, ha preferito il suo berretto studentesco. “Uno spettacolo rivoltante”, ha commentato la comunità ebraica austriaca.
© The Independent

l’Unità 2.2.12
Gramsci
La leggenda del quaderno «rubato»
Antonio Gramsci di nuovo al centro di una polemica. Lo storico Franco Lo Piparo sostiene che Palmiro Togliatti avrebbe fatto scomparire un testo Ma una puntuale analisi filologica prova che la tesi è priva di fondamento
di Gianni Francioni


Il libro. Nell’opera di Franco Lo Piparo «I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista» (pp. VI-146, euro 16,00, Donzelli) la domanda centrale è: perché i Quaderni del carcere sono 33, e non 34, come in origine e più volte annunciato dallo stesso Togliatti? Un quaderno «si è perduto»? Gramsci sapeva che Sraffa trasmetteva le sue lettere a Togliatti?

Gramsci passò i suoi ultimi due anni e mezzo in libertà condizionale: è verosimile che in quegli anni abbia smesso quasi completamente di scrivere? E perché non riprese i contatti con i vertici del partito e dell’Internazionale comunista?
Nel suo recente libro I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli editore, 2012), Franco Lo Piparo dedica un intero capitolo (Un quaderno rubato?, pp. 77-94) ad argomentare la tesi secondo cui «i quaderni teorici (di Gramsci) furono trenta quando erano in possesso della famiglia (a Mosca) e negli anni successivi, diventarono ventinove a partire dal 1947», quando Togliatti poté disporne. La tesi non è nuova (di una manipolazione o «amputazione» dei Quaderni da parte di Togliatti si è parlato periodicamente sui giornali), ma questa volta è presentata con un tentativo di fondarla su elementi filologici che meritano di essere verificati.
Si consideri in primo luogo che i quaderni del carcere sono 35: 29 di lavoro teorico (numerati cronologicamente nell’edizione Gerratana da 1 a 29), quattro di sole traduzioni (che Gerratana ha contrassegnato con A, B, C, D), due – che pure recano i timbri del carcere di Turi – lasciati da Gramsci completamente in bianco (li indichiamo come 17 bis e 17 ter). A questi va comunque aggiunto (perché da sempre conservato con loro) il registro avviato dalla cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, per redigere un indice generale – rimasto peraltro incompleto – delle note contenute nei manoscritti. Essi vennero affidati da Tatiana all’ambasciata sovietica a Roma nel luglio 1937 e nel dicembre 1938 furono spediti a Mosca per posta diplomatica. Restarono presso la famiglia Schucht fino all’aprile 1941, quando furono depositati per motivi di sicurezza all’Archivio centrale del Comintern. Restituiti al Pci nel marzo 1945, i quaderni e il registro di Tatiana ritornarono a Roma, e sono tuttora custoditi all’Istituto Gramsci.
Per motivi di spazio esaminerò solo il principale argomento addotto da Lo Piparo, che concerne la numerazione in cifre romane data da Tatiana ai quaderni dopo la morte di Gramsci, a fini di mera inventariazione e senza alcuna pretesa di stabilire una cronologia. Secondo Lo Piparo, questa numerazione avrebbe «un salto: passa dal quaderno XXXI al quaderno XXXIII», che egli suppone motivato dal fatto che il quaderno mancante sarebbe stato talmente «esplosivo», per i suoi contenuti di «eresia» politica, da indurre Togliatti a eliminarlo.
Sulla base di una documentazione certa e accessibile, possiamo ricostruire come stanno effettivamente le cose. Verso la metà di giugno 1937, Tatiana procede a classificare i quaderni incollando sull’angolo destro superiore di ogni copertina una piccola etichetta ottagonale con una sottile cornice a stampa, entro cui appone a penna il numero romano assegnato al quaderno e brevi indicazioni sulla sua consistenza (ad esempio: «I | Completo | pg. 80»; «Incompleto da | pg 3 a 78. VI»); su un’altra etichetta con cornice a stampa più grossa, tagliata a metà a mo’ di tassello e incollata in alto sul dorso del quaderno, ripete a penna la stessa numerazione in cifre arabe («1», «6», ecc.). Tatiana mette etichette anche sui Quaderni 17 bis e 17 ter, lasciandole però completamente vuote.
In questa catalogazione sistematica vi sono anomalie ed eccezioni, molte delle quali segnalate da Lo Piparo.
Alcune non hanno un significato particolare, e provano tutt’al più che l’operazione di Tatiana è accompagnata da imprecisioni e sviste: mi riferisco ai Quaderno 9 e 1, che hanno, rispettivamente, i numeri XIV e XVI sulle etichette ma non presentano i tasselli con le cifre arabe sui dorsi; e al Quaderno 17 ter, che ha l’etichetta ma non il tassello sul dorso (mentre il Quaderno 17 bis ha anche questo).
TASSELLI ED ETICHETTE
Più interessanti altri casi: il Quaderno 10 è privo di etichetta ma provvisto di un tassello (diverso dai precedenti: è una strisciolina di carta rettangolare incollata sul dorso, in basso anziché in alto) con l’indicazione «XXXIII» a matita; mancano l’etichetta e il tassello di Tatiana nel Quaderno 18, che peraltro ha al centro un cartiglio con doppia cornice e fregi a stampa e l’indicazione della ditta produttrice, cartiglio in cui è scritto molto in grande a matita rossa, da una mano che non sembra quella di Gramsci, «N 4»; inoltre, nell’angolo destro superiore della copertina del Quaderno 18 (esattamente all’altezza in cui di solito Tatiana incolla le sue etichette classificatorie) si legge, a penna, «(34)».
Sulla base dei tipi di etichette e di tasselli apposti da Tatiana, i quaderni si possono dividere in quattro gruppi: 1) le etichette e i tasselli sono identici per quel che concerne i quaderni che Tatiana numera da I a XXII, nonché per quelli che oggi conosciamo come Quaderni 17 bis e 17 ter: tutti questi hanno l’etichetta ottagonale e il tassello con cornice più grande descritti sopra (con le eccezioni già dette per i Quaderni9=XIV,1=XVIe17ter); 2) nei quaderni da XXIII a XXVIII, al posto delle etichette ottagonali (evidentemente esaurite) compaiono striscioline di carta rettangolari senza cornice a stampa, rozzamente tagliate; 3) nei quaderni da XXIX a XXXI, al posto di queste ultime Tatiana usa le stesse etichette con cornice grossa che, tagliate a metà, impiega per i tasselli sui dorsi; 4) gli ultimi due quaderni (gli attuali 10 e 18) presentano caratteristiche peculiari, come vedremo tra poco.
Va notato che Tatiana compie un salto di numerazione già nel primo gruppo, quando, dopo aver marcato un quaderno come XXII (l’attuale 16), non assegna alcun numero ai Quaderni 17 bis e 17 ter, e passa quindi a quelli del secondo gruppo partendo dal numero XXIII. Arrivata al XXVIII, commette un errore nel classificare i cinque quaderni restanti (gli attuali 10, 12, 13, 18 e D), saltando o ripetendo almeno un numero: infatti, mentre l’etichetta del Quaderno D ha il XXXI, quella del Quaderno 13, che riporta il numero XXX, è incollata sopra i resti di una precedente etichetta, rimossa, che doveva con tutta evidenza contenere una cifra diversa; infine, l’etichetta del Quaderno 12, col numero XXIX, è incollata sopra un’altra in cui si riesce a leggere, in trasparenza, «Incompleto | da p. 1 a 26 | XXXII». Di seguito, Tatiana classifica il Quaderno 10 come XXXIII, e con ogni probabilità non vi incolla l’etichetta sull’angolo superiore destro perché risulterebbe troppo accostata al titolo, La filosofia di Benedetto Croce, che Gramsci ha vergato sulla copertina; usa pertanto solo una strisciolina di carta senza cornice come tassello (al piede del dorso e non in testa) ma in modo, per così dire, ancora provvisorio, giacché il XXXIII vi è segnato a matita e non (non ancora) a penna.
Quindi, di fronte all’ultimo quaderno che le è rimasto e su cui è annotato a penna un piccolo «(34)», suscettibile di essere poi coperto da un’etichetta definitiva –, ha un’incertezza, dovuta forse ad una riconsiderazione di quel grande «N 4» in rosso che già compare al centro della copertina, che potrebbe lasciare come numero del quaderno (se non fosse che un’etichetta con «IV» e il relativo tassello «4» sono già sul Quaderno 17), o forse dettata dall’acquisita consapevolezza dell’errore di numerazione. Sta di fatto che Tatiana strappa l’etichetta del Quaderno 13 e la sostituisce con una che presenta ora il numero XXX, mentre sopra quella del Quaderno 12 con l’originario XXXII incolla una nuova etichetta – «Incompleto | XXIX» –, apponendo sul dorso un definitivo tassello «29». Fermo restando il XXXI già attribuito al Quaderno D, dovrebbe ora dare un numero definitivo al Quaderno 18, superando con un XXXII quell’originario e provvisorio «(34)»: cosa che però Tatiana non fa, per ragioni che non sappiamo ma sulle quali è inutile dilungarsi con ipotesi. L’etichetta strappata del Quaderno 13 e quella originaria del Quaderno 12 sono sufficienti per provare che la tesi di Lo Piparo (è esistito un quaderno XXXII, oggi scomparso) risulta, all’analisi delle modalità di numerazione di Tatiana, destituita di ogni fondamento.

l’Unità 2.2.12
Quei dieci milioni di devoti di Santa Muerte
Un esercito di fedeli disseminati dall’Argentina al Texas al Messico
Un culto antico uscito dalla clandestinità anni fa e che si sta estendendo
a macchia d’olio sul web. Preghiere di poveri e ricchi perché «si porta via tutti»
di Fabrizio Lorusso


In America c’è una santa che non è sul calendario, ma ha un esercito di dieci milioni di devoti. Dal Texas all’Argentina si moltiplicano i fedeli della Santa Muerte. La chiamano con affetto Niña blanca o bonita, cioè Bambina bianca o carina, ed è una santa popolare affascinante e controversa.
Proprio quando la morte si fa presente nella società messicana, sconvolta dalla guerra al narcotraffico dei cinquantamila morti in cinque anni, ecco che il suo culto e la sua figura, lo scheletro con la falce in una mano e il globo terracqueo nell’altra, riemergono prepotenti.
In Italia la Parca ossuta troneggia sbiadita sulle pareti degli ossari, ma nel nuovo mondo era stata santificata dalla gente già dai tempi degli spagnoli. Solo dieci anni fa è uscita dalla clandestinità ed è tornata per le strade, sui mezzi pubblici e nei cortili delle case popolari con poster, altarini – sono millecinquecento a Città del Messico – processioni e rosari.
Ora i devoti camminano a testa alta tenendo in mano le statue della Santa Muerte. Ce ne sono di tutti colori: oro per l’economia familiare, rosse per l’amore, bianche per la protezione totale e nere per la forza. Il culto si diffonde a macchia d’olio grazie al web, alle riviste e ai negozi esoterici e al passaparola che la dipinge come la «più miracolosa delle sante».
E dove mai poteva nascere questo fenomeno se non in Messico, paese in cui le cerimonie e le decorazioni coloratissime per la Commemorazione dei defunti – il Día de muertos del 2 novembre – sono diventate patrimonio dell’umanità dell’Unesco?
FESTA ADDOMESTICATA
Secondo Elsa Malvido, studiosa della Santa Muerte, la festa cattolica, che in Messico s’è fusa con alcune tradizioni indigene, è una morte addomesticata, un culto «adottato e imposto dal gruppo politico dominante dopo la Revolución del 1917 per creare un nazionalismo religioso che includeva dei presunti elementi precolombiani e innesti posteriori». Ma la Niña bonita è un’altra cosa, resta un culto spontaneo, senza gerarchie, in espansione dai settori marginali alla classe media, come la crisi.
«Santa Muerte del mio cuore, non mi negare la tua protezione». Così cominciano le invocazioni che chiedono amore, denaro, fortuna, salute e anche sicurezza, per tornare a casa sani e salvi, oppure un lavoro e una fine tranquilla, niente più.
Sia le «guardie» che i «ladri» la pregano per farsi coraggio, mentre altre categorie a rischio come le prostitute, i tassisti e i commercianti le chiedono protezione, «perché è stata creata da Dio, è democratica perché si porta via tutti, ricchi e poveri, ed è tutta la mia vita», confessa Doña Queta Romero, custode dell’altare principale di Tepito, il quartiere più famigerato e ribelle della capitale. «Da Doña Queta nessuno si sente escluso e ogni primo del mese c’è una festa di canti, preghiere, regali e speranze che non ha eguali», racconta Juán, un habitué dell’altare.
Relegata da secoli nei ghetti cittadini e nelle comunità indigene e rurali, la Niña Blanca, patrona dei dimenticati e Santa 2.0, oggi costituisce una sfida per le istituzioni come la Chiesa e lo Stato. Un anno fa l’Arcivescovo di Mexico City, Norberto Rivera, ha annunciato il dispiegamento di decine di esorcisti per ricondurre i devoti della Santa Muerte sulla retta via. Però loro continuano a definirsi cattolici e denunciano piuttosto lo scarso sostegno e gli scandali del clero.
«La morte è ovunque / non se ne parla / politici e capi le fanno altari / non è un delitto pregare / alla Santissima Muerte», intonava Beto Quintanilla, il re del corrido, un genere musicale che è parte della cosiddetta narco-cultura con brani che cantano le gesta dei boss mafiosi. Anche la Santa Muerte è entrata nella mitologia del narcotraffico, anche se il santo più in voga tra i narcos è Jesús Malverde: un bandito come Robin Hood, vissuto cent’anni fa a Culiacán, la Corleone del Messico.
Il mito della Muerte Santa «protettrice dei delinquenti» sorge nel 1998 quando viene catturato il «mozza orecchie», un famoso rapitore che aveva in casa una statua della Gran Falciatrice collocata davanti alla Madonna di Guadalupe, la massima icona religiosa messicana. Nel 2001 un’offerta alla Niña blanca è rinvenuta in una villa dei sicari di Osiel Cárdenas, storico boss del Cartello del Golfo. Da allora il legame tra la Santa e il crimine organizzato diventa mediatico, moneta comune tra i giornalisti in cerca di storie facili e accattivanti. «Sacrifici umani per la Santa Muerte», «La Madonna dei narcos», «Setta satanica», si legge su testate messicane ed estere.
«Dopo la Madonna di Guadalupe e San Giuda Taddeo, patrono delle cause disperate, la Santa Muerte è la terza figura più venerata nel paese, ma Lei non è approvata dalla Chiesa che la combatte dai tempi dell’Inquisizione e ora usa i media e le pressioni politiche», spiega Alfonso Hernández, direttore del Centro Studio su Tepito.
La morte è così sicura di sé che ci dà tutta una vita di vantaggio. Quindi, come recita un cartello di Tepito, «oggi sei tra le braccia della vita, domani sarai tra le mie, dunque vivi la tua vita, ti aspetto. Firmato, La Muerte». Forse, non ci resta che piangere.

il Fatto 2.1.12
Cinema d’impegno. Vita, morte e dubbi
La bella addormentata nell’odio
Tutti i segreti del film di Bellocchio su Eluana
Bellocchio inizia le riprese di un film in cui la vicenda di Eluana Englaro
serve a raccontare la violenza della comunicazione e la solitudine nell’Italia di oggi
di Malcom Pagani


Eluana è un pretesto. Un fantasma, senza volto, tra gli spettri italiani. Eluana è un silenzio, mentre intorno, anche chi non dovrebbe, parla di lei. Eluana è vita, morte e dubbio. Marco Bellocchio lo coltiva da sempre. Si fa domande. Non offre risposte, ma solo visioni. Campi in cui piantare il seme. Isole per ragionare. Militari, preti, matti, brigatisti. Gerarchie, arbitrii e sovrastrutture da mettere in crisi perché l’uomo grida, anche quando non ha voce. Da mezzo secolo, Bellocchio disturba tenendo i pugni in tasca. Lo amano. Lo odiano. Lo temono, con qualche ragione. A 72 anni, distante dai languori dei personaggi di mezza età del suo Regista di matrimoni (“Noi siamo finiti perché non riusciamo a raccontare per immagini il mondo di oggi”), il piacentino che vide nascere i quaderni rossi e morire le ideologie, continua a credere nelle idee. Bella addormentata è l’ultima.
UNA SETTIMANA di storia nazionale ma universale, quella della morte di Eluana Englaro, fitta di simbolismi e richiami. Il territorio di Bellocchio. Non voleva che il film fosse “un’asserzione”. Non gli bastava essere d’accordo con Beppino Englaro, il padre della ragazza rimasta in stato vegetativo per 17 anni, per immergersi in un caso che sul proscenio vedeva muoversi i temi eterni della sua poetica. Il sogno, il trapasso, l’illusione. La profezia della fiaba originaria: “Prima che il sole tramonti sul suo sedicesimo compleanno la principessa morirà(...) ”, i rovi metaforici e gli inviolabili castelli del dogma. Per trovare la chiave giusta ha impiegato 2 anni. Alla fine ha aperto la porta attraverso la cronaca. Osservando i telegiornali, le dirette, i titoli e le urla “assassini”. Studiando gesti e preghiere dei contrapposti drappelli di crociati. Una Belfast fuori latitudine, di fronte alla clinica di Udine “La quiete” dove il 9 febbraio del 2009, dopo 10 anni di battaglia giudiziaria si interruppe la nutrizione forzata a una ragazza caduta nel buio. Alimentata e idratata con un sondino dal gennaio del ’92 per un incidente stradale e poi lasciata andare per “la mancanza della benché minima possibilità di un recupero della coscienza e di ritorno a una percezione del mondo esterno”. In un incongruo clima da stadio, con la curva violenta di stanza a Montecitorio e gli schermi per seguire la “partita” accampati ai piedi di una casa di cura friulana con la scritta azzurra, l’ingresso rosso, le pareti bianche e le bottiglie d’acqua allegoriche, l’Italia manifestò il proprio collasso ben prima dell’epitaffio dell’economia. Lo scontro istituzionale, le sedute sospese, i proclami impudichi. Le parole di Berlusconi. Un abisso più profondo di qualunque telefonata in questura: “Eluana potrebbe anche avere un figlio”. Bellocchio ha plasmato la materia. L’ha riproposta in Bella addormentata senza filtri (la corsa del palazzo a neutralizzare la magistratura, l’ossessivo metronomo della tv) per come si mostrò. Ha interpolato invenzione (Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher arrabbiata militante ultracattolica, Toni Servillo, suo padre, lontano, in un’altra dimensione) a frammenti di presa diretta (come in Sbatti il mostro in prima pagina, Buongiorno Notte, Vincere. Li ha inseriti in un mare senza confine dove scelte individuali, trascendente e fideismo hanno incontrato l’irriducibile desiderio di conoscenza di un ribelle. L’immanentista Bellocchio ha fatto uno sforzo. Si è messo dalla parte dell’irrazionale. Ha tacitato lo scetticismo dando voce e ruolo a chi spera nell’aldilà per non lasciarsi andare. Ha esplorato altre ottiche. Abbandonando il dilemma divino come in suo film del recente passato: “Se Dio è davvero dappertutto, non sono più libera di essere sola neanche un secondo”, le pressioni del Vaticano e quelle della politica. In Bella addormentata il Parlamento c’è e sullo sfondo si muove un deputato berlusconiano. Ex socialista, passato nel Pdl. Lacerato tra ordini di scuderia brutali, interessati consigli “presidenziali” e intime convinzioni per poi approdare altrove. Nella sfera dell’inconsolabile assenza già descritta dalle poesie di Tarkovskij nell’Ora di religione: “Non sono bruciate le foglie/ non si sono spezzati i rami/ Il giorno è terso come cristallo/ Eppur questo non basta”. Nella landa di mezzo dove vittime e carnefici si confondono nelle impressioni, la vita indurisce, ci si smarrisce e per ritrovarsi, non basta un’intenzione. Eluana e Beppino Englaro (“Un eroe laico” per Bellocchio) nel film iniziato Lunedì non ci sono. Se non per il ruolo che anche al di là delle loro volontà hanno più o meno consapevolmente “recitato”. Nessun attore a interpretarli. Nessun tentativo di imitazione. Nessuna debole, illusoria finzione. Perché Bella addormentata non è un film su Eluana, e l’impossibile normalità degli Englaro è repertorio d’epoca che nella messa in scena accompagna altre parabole esistenziali con sofferenze simili, coraggi, viltà e qualche punto (ma non sempre, non necessariamente) di contatto. Tre storie minori, tre tunnel non illuminati dalla consolazione, tre affluenti del fiume Trebbia che a Bellocchio scorre dentro da una vita. Anche quando con Rulli e Raimo scriveva per Rai Cinema e Cattleya Bella addormentata, mentre i rumori nell’aria inquinavano la riflessione, Bellocchio cercava la semiotica di un’allucinazione collettiva.
IL LINGUAGGIO dei segni. La liturgia smodata. La suggestione ipnotica. La spiritualità senza cupole da trovare dentro di sé. Ora che l’ha intravista, con o senza finanziamenti, proseguirà. Bellocchio ha da tempo abdicato a ogni appartenenza che non si proietti oltre le convenzioni. È pazzo. Eretico. Diverso. Felice di esserlo. I Leoni d’Oro alla carriera e quelli che verranno sono la conseguenza e non la causa di un processo creativo. Così ipotizzare uno suo stanco elogio dell’eutanasia è troppo pigro persino per chi lo detesta senza intuirne la complessità. Monsignor Fisichella ha dubitato dell’operazione: “Mi auguro che il regista non esprima solo una visione unilaterale del problema”. Un auspicio deludente col sospetto del pregiudizio. Sono passati quasi tre anni, ma Eluana è ancora lì. Con Guelfi e Ghibellini, repubblicani e monarchici, fascisti e comunisti. Nella notte italiana senza stupore, alba o prospettive. E il rifiuto della Regione Friuli a contribuire al progetto (150.000 euro) o il diniego dei consiglieri d’amministrazione de “La quiete” alle riprese nella clinica: “La richiesta riguarda attività del tutto estranee ai fini istituzionali dell'azienda (...) ”. sono solo due facce della stessa luna. Un medioevo immobile e dormiente in cui la discussione muore, i sordi ascoltano magnificamente e chi non si risveglia, fa più paura di chi respira.

La Stampa 2.2.12
Intervista a  Richard Armstrong
L’arte contemporanea non è solo spettacolo
Il boss del Guggenheim: come sfuggire alla tentazione di essere modaioli, evitando il rischio della noia
di Francesco Bonami


DA NEW YORK A BILBAO «Le condizioni per espandersi: leadership politica molto forte e capacità di alti investimenti»
IN ITALIA «Abbiamo già Venezia: più che sufficiente per parlare al pubblico italiano»

I direttori del Guggenheim sembra li cerchino tra i giocatori dell’Nba, il campionato di basketball americano. Dopo il gigante Thomas Krens che per due decenni è stato lo zar del mondo dell’arte internazionale, nel 2008 è arrivato Richard Armstrong, un metro e novantanove, 62 anni. Krens pareva uscito da un film western, Armstrong, con la sua barba bianca, arriva dal Nome della rosa di Umberto Eco. A parte la statura non ci potrebbero essere due personalità più diverse. Armstrong arriva a Torino (oggi alle 18,30 conferenza alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, a precedere l’inaugurazione della mostra «Press Play») scortato da un manipolo di fedeli trustees, quelli che mettono mano al portafoglio per consentire al suo museo di essere fra i più importanti del mondo. «Mi hanno detto che Torino è una bellissima città con molti tesori da conoscere e il cibo è eccezionale, non vedo l’ora». Il suo ufficio è sopra la famosa spirale di Wright dove stanno smontando la mostra di Maurizio Cattelan. «La seconda mostra più visitata per il mese di dicembre nella storia del museo. La più visitata fu quella di Armani nel dicembre del 2001».
Armani, Cattelan: come vede questa tendenza del pubblico a prediligere lo spettacolo e l’intrattenimento all’arte «pura»?
«Che dire. La gente ama vedere la moda. È una questione a metà tra il voyerismo e l’aspetto estetico ed esteriore della realtà. Nel caso di Maurizio però credo che il pubblico fosse più seriamente interessato all’arte. Un pubblico giovanissimo, mediamente tra i 16 e i 25 anni. Hanno preso la mostra molto seriamente. Maurizio fa spettacolo, ma se da una parte non si vergogna di questo, da un’altra parte sembra chiedere perdono. Questa contraddizione è chiara e la gente l’apprezza molto».
Cosa è cambiato in quindici anni, da quando nel 1995 fu nominato direttore del Carnegie Museum a Pittsburgh?
«Direi che la cosa più dolorosa è il fatto che l’arte contemporanea è diventata così cara che per un museo è molto difficile continuare a collezionare. Sono felice che gli artisti facciano tanti soldi, ma per noi direttori è un problema. L’arte è diventata così desiderabile come bene di consumo che il suo valore è sconcertante. Ma credo che sia un fenomeno temporaneo».
Non saranno felici di sentirlo quelli che stanno investendo pesantemente in arte.
«Non dico che l’arte costerà meno, dico che in futuro ci sarà un numero sempre maggiore di gente generosa. Il nostro benessere è così diffuso che il privato non sarà sufficiente per assorbirlo e quindi tornerà a spostarlo sulle istituzioni pubbliche».
Come è cambiata la strategia del Guggenheim dai tempi in fu inaugurato il museo di Bilbao, nel 1997?
«Siamo diventati più cauti e razionali. Pochi sanno che non è il Guggenheim ad andare a cercare posti dove espandersi. Ci cercano. Ogni settimana qualcuno viene a parlarmi per esplorare la possibilità di diventare un nostro partner. La maggior parte delle persone che vedo è molto seria ma spesso non capiscono cosa voglia dire ripetere l’esperienza di Bilbao».
Già, che cosa vuol dire?
«Una leadership politica molto forte, la capacità di investimenti altissimi e una fede nel contemporaneo che non ammette dubbi».
Ovvero non l’Italia.
«In Italia abbiamo già Venezia: la riteniamo più che sufficiente per parlare al pubblico italiano».
Che cosa blocca possibili progetti?
«Quando approfondisco mi rendo conto che le proposte arrivano da entusiasti imprenditori che però non hanno una forte influenza sul potere politico. Inoltre la quantità di denaro per mettere in piedi qualcosa di serio è brutale».
Lo spieghi a noi italiani che pensiamo sempre di fare le nozze con i fichi secchi: quanto costa avere un Guggenheim?
«È molto astratto dirlo, comunque, considerando un museo di 12 mila metri quadri, in Europa costa almeno 165 milioni di dollari - e mi sono tenuto basso. Dopodiché ci sono i costi per far funzionare una macchina del genere».
Quindi il segreto di Bilbao sono stati i soldi.
«I soldi uniti a una fortissima volontà politica e al desiderio di reinventarsi che i Paesi Baschi avevano in quel momento».
Come a New York il successo del museo è dovuto all’architettura.
«Sicuramente Bilbao come New York sono edifici irresistibili. Ancora oggi a Bilbao va un milione di persone, il che è incredibile in una città che ha lo stesso numero di abitanti».
A New York quanti visitatori fate?
«Paganti circa un milione e centomila, più un centomila non paganti. Di questi il 37% viene dagli Stati Uniti e di questo 37% il 70% dalle regioni attorno a New York».
Siete più cauti ma non immobili: state portando avanti Abu Dhabi, sempre disegnato da Gehry.
«Dovrebbe aprire nel 2017».
Helsinki: come mai questa città, una scelta abbastanza anomala...
«Helsinki è una città che ci sta insegnando molto. È una delle città tecnologicamente più avanzate».
Che tipo di pubblico vi aspettate di attrarre?
«Finlandesi prima di tutto, ma anche russi e turisti che arrivano nel porto di Helsinki con le crociere. Non dimentichiamo poi che la città ha un aeroporto che è diventato uno snodo internazionale importantissimo, fermano qui moltissimi voli per l’Asia».
I costi per mandare avanti un museo sono sempre più alti: questo mette in pericolo l’autonomia dei programmi?
«Non bisogna essere troppo puritani. Ma al tempo stesso bisogna sempre ricordare che un museo ha un impegno morale e quindi deve fare quello che è necessario, non solo quello che è di moda».
Cosa è necessario?
«Costruire una collezione e un programma di mostre che vada a fondo geograficamente e storicamente, indipendentemente dal fatto di quanta gente poi viene a vedere le mostre. Un museo deve ancora essere un luogo sacro che viene preso seriamente».
Cosa considera conflitto d’interessi nel mondo dell’arte di oggi, dove i confini tra le professioni e i ruoli si sono molto confusi?
«Credo che sia essenziale mantenere separata l’idea d’investimento e quella di ricerca e studio. Il pericolo è sempre quello di diventare lo specchio del mondo commerciale».
Può un museo sostenere un numero di visitatori illimitato senza mettere in pericolo l’esperienza culturale?
«Credo di sì. È una questione di organizzazione, di orari, di come si distribuisce il pubblico nel corso della giornata».
Quanto guadagna?
«Può andarlo a vedere sul sito dell’Irs (il fisco americano ndr), ma sarà sorpreso di come sono contenuto».
Armstrong guadagna attorno ai 700 mila dollari, quasi un terzo di quello che guadagnava Krens. È stato difficile raccogliere l’eredità di Krens?
«Dopo vent’anni il museo era diventato un tutt’uno con la sua figura e la sua personalità. Ma con calma abbiamo trovato il bandolo della matassa».
Quando ha visto il progetto di Cattelan si è spaventato...
«Ero un po’ preoccupato lo ammetto. Avevo paura per il pubblico, per l’arte e per l’edificio».
Se dovesse scegliere per forza, preferirebbe che si danneggiasse l’edificio, un’opera d’arte o la testa di uno spettatore?
«Oh mio Dio, nessuna di queste opzioni! ».
Qual è la cosa più difficile per un direttore di museo oggi?
«Capire cosa è rilevante. Come si fa a creare un programma forte senza cedere alla tentazione di essere modaioli e al tempo stesso evitando di essere noiosi».

La Stampa 2.2.12
Perché non possiamo non dirci occidentali
Dalla filosofia alla scienza alla geopolitica: nel suo nuovo libro Rusconi va alla ricerca di quel che resta della nostra identità
di Gianni Riotta


UN MONDO «POST». Una particella che si applica a tutto: post-ideologico, post-secolare, post-cristiano...
CONTRO IL NICHILISMO. Una rivendicazione ponderata e non pessimista dei limiti e della potenza della ragione umana

Gian Enrico Rusconi. In Cosa resta dell’ Occidente (Laterza) tenta di ridefinire la razionalità occidentale, affronta le variabili geopolitiche, lo «scontro di civiltà» e l’opposizione di «orientalismo» e «occidentalismo», i problemi della natura e della natura umana dopo Darwin, il post-secolarismo, la democrazia e la razionalità della fede La statua del generale James McPherson, a Washington, con la maschera di Guy Fawkes durante una dimostrazione degli anti-Wall Street
Nell’era del web e dei talk show tv i commentatori si dividono in tribù, «con il volto coperto da colori di guerra», come diceva il presidente Barack Obama quando ancora si illudeva di introdurre «razionalità» nella politica Usa. Pro Berlusconi e anti Berlusconi, filo Monti e anti Monti, pro Tav e anti articolo 18, anti Tav e pro articolo 18, filo e anti Islam, Occidente, America, fast e slow food, globalizzazione, web, religione e, infine, la tribù «tardo Nanni Moretti», narcisi opportunisti, «Mi si nota di più se dico che Schettino è un eroe e De Falco un gaglioffo, o viceversa? ».
E poi ci sono, pochi e discreti, analisti e filosofi come Gian Enrico Rusconi: leggere il suo nuovo saggio, Cosa resta dell’Occidente (Laterza, pp. 190, 19) è esercizio di umile, ma orgogliosa, fede nell’uso della ragione, analizzare la realtà a partire da fatti e teorie, misurandole non contro i nostri smisurati ego, voglie, ubbie, fanatiche ambizioni ideologiche, ma contro le loro conseguenze dirette e strategiche, che amiamo o detestiamo. In un mondo che, nell’accademia come nei blog populisti, si dedica a una cernita minuziosa di «fatti» e «teorie» che «provano» il proprio punto di vista, rigettando nella calunnia la contraddizione, Rusconi - firma familiare ai lettori della Stampa - si incaponisce a cercare ogni elemento che indebolisca il suo punto di vista, per esaminarlo e discuterlo con equanimità.
È nel metodo usato, dove studioso e editorialista si fondono secondo il precetto di Gramsci che vedeva nel giornalismo l’evoluzione da Hegel a Marx, il valore profondo di queste pagine. Il lettore non troverà «conclusioni», solo poche righe di sommario: «… per l’uomo vale quel complesso specifico di costrizioni e opportunità, di cogenze e di chances che solo in ultima istanza sono governate o governabili da quella che chiamiamo libertà. È una concezione controfattuale e minimalista di libertà, ma del tutto congruente con l’idea di razionalità radicata nell’Occidente che ci ha accompagnato nelle nostre riflessioni». Come Walter Benjamin in Uomini tedeschi, Rusconi impiega il metodo filosofico che Adorno deprecava, montare la teoria a partire dai materiali della realtà.
Nella sardonica partenza Rusconi irride la moda del «post». «Nulla rivela… l’incapacità di definire le caratteristiche del nostro tempo che per noi è il tempo dell’Occidente - quanto l’uso ormai coatto della particella post. Dopo l’irresistibile invasione del post-moderno e della sua narrativa, tutto è diventato post. Post-ideologico, post-secolare, postmetafisico, post-democratico, postcristiano, post-eroico, post-imperiale». Lo svolgimento non potrebbe avere maggiore gravitas: alla ricerca tragica di ciò che «resta dell’Occidente», in filosofia, nella scienza, nella geopolitica, in pace e in guerra, nel nesso con chi Occidente non si sente né vuol farsi e infine con quanti si proclamano nemici mortali del nostro mondo, Rusconi non cela nessun male, la finanza avida, la globalizzazione materialistica, l’accademia cicisbea, un laicismo che declina al nichilismo, ma al tempo stesso non maschera mai i mali esterni a noi, nei Brics o nella umma islamica.
Davanti ai saggi sull’Orientalismo e la letteratura post coloniale (rieccoci!) di Said, e alle tesi contrapposte sull’Occidentalismo di Buruma e Margalit, Rusconi mostra con severità come sia impossibile vivisezionare i due mondi. Quando studiosi come il controverso islamista Tariq Ramadan criticano l’Occidente nutrendosi dei suoi modi e luoghi, o quando la nostra Realpolitik, su fino al presidente premio Nobel precoce per la Pace Obama, si misura con la Turchia, ecco che «Noi» e «Loro» siamo network, di poli opposti ma unitario. Proprio la Turchia, islamica e secolare, fa parlare Rusconi di «Occidentalismo» e «Orientalismo» intrecciati in politica: e farebbero bene Merkel e Sarkozy a leggere Cosa resta dell’Occidente prima di svendere quel che resta del rapporto Europa-Turchia al suq dell’intolleranza. E la Bundeskanzlerin potrebbe imparare molto sulla Germania leader in Europa, dal nefasto «romanticismo di ferro» al «Sonderweg», la speciale «via tedesca alla modernità».
Occidente è per Rusconi ricerca di razionalità. La ragione può deformarsi in mostruosità, imperialismo e genocidio nazista, che l’autore ci invita a non candeggiare con l’ipocrisia del «non sono la nostra identità», ma a studiare come cellule tumorali del nostro genoma. Ma infine, scrive Rusconi, «non possiamo… congedarci dall’Occidente perché siamo noi l’Occidente, ce lo portiamo dentro, anche nelle narrazioni del suo tramonto o declino che alimentano, da oltre cent’anni, una redditizia letteratura». Capire «l’essenza dell’Occidente» significa - e qui Rusconi è consapevole del post moderno pur non facendosi catturare dalle sue Sirene - narrarla. Citando il sociologo americano Bellah, Rusconi conclude: «Narrare è più che fare letteratura: è il modo in cui capiamo le nostre vite; la narrativa non è irrazionale… ma non può essere derivata dalla sola ragione. La cultura mitica (la narrativa) non è una sottospecie della cultura teoretica, né lo sarà mai. È più antica della cultura teoretica e rimane sino ad oggi una via indispensabile per relazionarsi al mondo».
In un saggio dove gli «indignados» e la difficoltà della loro protesta convivono con Zarathustra e Confucio, Rusconi invita il lettore a non cadere nelle trappole degli schemi, Pro/Anti, Pre/Post, Noi/Loro, che pure tentano teorici formidabili da Lewis a Fukuyama e Huntington. La caduta nel nichilismo, che scienza, tecnica, politica e società occidentale rischiano se scambiano la laicità per riduzione del mondo a materialismo e consumismo, è contrastata da Rusconi con una ponderata e non pessimista rivendicazione dei limiti e della potenza della ragione umana, chiave d’Occidente.
Portandovi a ragionare di Islam e modernità, scienza e anima, libertà e determinismo biologico, guerra umanitaria e neocolonialismo globalizzante, Rusconi dialoga con Ratzinger e Berlin, il Papa e un filosofo, con fiducia che ragione, fede e storia non siano perdute nel terzo millennio. Senza volere imporre l’Occidente a «valore universale», Rusconi non è però timido nel suggerire che ragione, verità, fede, democrazia, ricerca libera, spiritualità, parte della migliore «essenza occidentale», restino imprescindibili componenti per le civiltà a venire.

La Stampa 2.2.12
Le risorse della razionalità sono tutt’altro che esaurite
Anticipiamo uno stralcio da Cosa resta dell’Occidente , il nuovo saggio di Gian Enrico Rusconi in libreria da oggi per Laterza
di Gian Enrico Rusconi


Grazie a molti dei suoi esponenti intellettuali (studiosi, analisti, pubblicistici), l’Occidente mostra una straordinaria capacità analitica, critica e autocritica. Ma ad essa non corrisponde un’adeguata o coerente capacità di orientamento politico e di governo dentro e fuori del suo orizzonte geopolitico. Alla razionalità analitica e critica non corrisponde un’altrettanto forte capacità performativa, politicamente realizzatrice.
Si tratta di deficit settoriali di razionalità economico-finanziaria che sono correggibili, o di una alterazione profonda della sostanza stessa della razionalità occidentale così è stata concepita sino ad oggi?
Possiamo evitare una risposta deprimente a questo interrogativo soltanto se, ripercorrendo puntigliosamente alcuni sentieri storici del razionalismo e le questioni da esso sollevate, ci convinceremo che le risorse intellettuali e operative offerte dalla razionalità occidentale sono tutt’altro che esaurite. In controtendenza con il pessimismo intellettuale che ci può prendere, possiamo mostrare che i concetti-base della razionalità occidentale sono ancora vivi e vitali. Se sappiamo rileggerli e riapplicarli.

Corriere della Sera 2.2.12
Metro C, l'incompiuta più costosa d'Europa
il chilometro d’oro della «Metro C». I costi per la rete? sono triplicati
La spesa a Roma è salita a oltre 5 miliardi. Un «cantiere» iniziato nel '90
di Sergio Rizzo


La linea C della metropolitana di Roma è destinata a diventare l'opera pubblica più costosa e più lenta d'Europa e del mondo. Se mai si completerà. La spesa è salita da 1,9 a oltre 5 miliardi. E il cantiere è partito nel 1990. Ma c'è pure il rischio che la linea rimanga a metà, senza la parte più importante del tracciato che dovrebbe collegare il Colosseo con piazzale Clodio passando per San Pietro.

ROMA — «Non è inopportuno ricordare che il cantiere di piazza Venezia è nel centro della città storica...per cui dovranno essere adottate tutte le tecniche disponibili per garantire la tutela del patrimonio archeologico, indipendentemente dai loro costi e dai tempi». Firmato Angelo Bottini, soprintendente per i beni archeologici di Roma. Questo avvertimento, spedito il 19 dicembre 2007 alla società Roma metropolitane, aiuta a capire perché la linea C della metro della capitale è destinata ad aggiudicarsi il record dell'opera pubblica più costosa e più lenta d'Europa. Probabilmente anche del mondo. Se mai si completerà. Perché il rischio che rimanga a metà, senza cioè la parte più importante del tracciato che dovrebbe collegare il Colosseo con piazzale Clodio passando per San Pietro, è più che concreto.
Questo c'è scritto in un rapporto di 182 pagine con cui i magistrati della Corte dei conti Antonio Mezzera e Antonio Bucarelli hanno fatto le pulci all'operazione. Cominciando dai costi. La storia della metro C comincia 22 anni fa, nel 1990. Doveva essere pronta per il Giubileo del 2000, ma si parte davvero soltanto nel 2001, con l'inserimento nella famosa legge obiettivo. All'inizio doveva costare un miliardo 925 milioni. Poi il conto è salito a 2 miliardi 683 milioni. Quindi a 3 miliardi e 47 milioni. Per arrivare, oggi, a 3 miliardi 379 milioni. Ma senza considerare 485 milioni di maggiori esborsi per quattro arbitrati già aperti, altri 100 milioni appena stanziati dal Cipe e il miliardo 108 milioni delle cosiddette «opere complementari» per la tutela archeologica. Totale: 5 miliardi e 72 milioni, il 163,5% in più rispetto alle stime iniziali. Che potrebbero però salire a 6 miliardi, triplicando le cifre di partenza, se il rincaro della tratta Colosseo-Clodio sarà in linea, ammonisce la Corte dei conti, con quello registrato per il resto della linea. E per ottenere un risultato ben diverso da quello previsto, se come si è ipotizzato verranno soppresse alcune stazioni intermedie, fra cui proprio quella di piazza Venezia.
Si sta così materializzando la profezia di Mario Staderini, attuale segretario radicale all'epoca consigliere comunale di Roma che insisteva sul pericolo di andare a sbattere contro numeri ciclopici. Questi: sia pure con le modifiche al ribasso, il costo della tratta incriminata non sarebbe comunque inferiore ai 273 milioni al chilometro. Il doppio rispetto ai costi europei, con una media che oscilla fra 120 e 150 milioni. Ma senza quelle modifiche si potrebbe arrivare a 434 milioni: tre volte tanto.
E i tempi? Per il completamento della parte fino al Colosseo non se ne parlerà prima del 2016. Il pezzo rimanente è nelle mani di Dio: qualche tempo fa si parlava del 2018, ma il progetto definitivo non c'è ancora. «Si è quindi verificato», ci dicono i magistrati, «un ulteriore slittamento a data da definirsi».
C'è da arrossire al pensiero della nuova linea del metrò di Madrid, realizzata in appena 36 mesi. La morale, amarissima, si condensa in una domanda: il sistema Italia è in grado fare opere pubbliche di questa complessità? La realtà dice di no, aggiungendo anche la metropolitana romana alla lunga lista dei fallimenti della legge obiettivo che si poggia sul pilastro del general contractor, un unico soggetto nelle cui mani viene messo il boccino dell'operazione con l'idea di garantire costi e tempi certi.
Nella fattispecie, la società Metro C. È un consorzio composto con il bilancino, come si faceva ai tempi d'oro degli appalti pubblici. Ci sono i privati: Caltagirone e Astaldi. Una vecchia conoscenza delle partecipazioni statali: l'Ansaldo. E le coop: Ccc di Bologna e Cooperativa muratori braccianti di Carpi. Tutti consapevoli del ruolo che svolgono. Al punto che nel 2010 Metro C spunta fra i finanziatori del Popolo della libertà, partito del premier Silvio Berlusconi e del sindaco di Roma Gianni Alemanno. Cui versa un contributo liberale di 50 mila euro. Notizia che da sola farebbe fare un salto sulla sedia. Ancora più sorprendente, però, è il miracolo delle coop che indirettamente finanziano il Cavaliere. Proprio lui che aveva annunciato di voler andare in tribunale «per denunciare lo sconcio dell'intreccio tra sinistra e cooperative» in qualità di «avvocato accusatore».
I soci di Metro C gestiscono il 15% dei lavori: il restante 85% è ripartito fra 2.400 ditte subappaltatrici. Il che non ha mancato di creare qualche problemino, come ha sottolineato la stessa Roma Metropolitane, segnalando «il caso clamoroso di un'impresa affidataria per la quale l'istruttoria della direzione lavori aveva dato esito positivo, nonostante l'attestazione soa (l'abilitazione a operare, ndr) della medesima impresa fosse scaduta e non ancora rinnovata».
Eppure Roma di questa opera avrebbe bisogno come il pane. La città è letteralmente strangolata dalle macchine: un quinto della sua superficie è occupata da vetture in sosta o in movimento. Mentre «l'uso dei mezzi collettivi rappresenta» nella capitale, sottolinea la Corte, il 28,2% della «mobilità motorizzata», contro il 67,7% di Barcellona, il 63,6% di Parigi, il 47,7% di Londra e il 47% di Milano.
Le verità, affermano i magistrati contabili, è che il Cipe ha sottovalutato i costi reali. Ma a questo si sono aggiunti molti altri fatti. Alcuni davvero assurdi. Intanto, appena un anno dopo la firma del contratto, è scoppiato il contenzioso sfociato in una serie di arbitrati. Un pezzo del tracciato coincidente con un tratto di linea ferroviaria appena ristrutturato «con notevolissimi ritardi» al termine di lavori iniziati addirittura nel lontano 1995, poi, è stato chiuso e rifatto «rendendo inutili alcune opere realizzate in dieci anni». Per non parlare di alcune follie. Come quella dei 115 milioni di interessi pagati sui mutui bancari, mentre somme ingentissime «non utilizzate» sono «giacenti presso la tesoreria dello Stato». O quella dei contributi regionali disponibili ma non erogati.
La Corte dei conti stigmatizza poi il fiorire di comitati vari, tutti regolarmente retribuiti. Il solo «corrispettivo autorizzato per le attività» del Comitato tecnico scientifico «ammonta a complessivi» 4,1 milioni. Ma è al capitolo collaudi che vengono riservati i commenti più ustionanti. Perché secondo i magistrati contabili quei compiti avrebbero dovuto essere affidati non all'esterno e «intuitu personae», bensì a personale interno a una struttura, quella di Roma metropolitane, «anche in considerazione che si tratta di una società che grava sul bilancio di Roma capitale, costituita da circa 180 persone, in gran parte ingegneri e tecnici». Tanto più, aggiunge la Corte dei conti, in considerazione «dei compensi percepiti dai collaudatori». Circa mezzo milione ciascuno. Al presidente della commissione, l'ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, 516.614 euro. Comprensibile che per avere quegli incarichi si siano scatenate pressioni di ogni tipo. L'ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, per esempio, aveva caldeggiato senza però spuntarla la nomina del provveditore alle opere pubbliche: Angelo Balducci.

Corriere della Sera 2.2.12
Leonardo
Il moto dell'animo che svela l'interiorità
di Flavio Caroli


André Derain, che amava pazzamente l'arte del passato, detestava la Gioconda. Lo faceva per polemica, naturalmente, contro tutte le baggianate sentimentalistiche o romanzesche che veleggiavano intorno al ritratto, ulteriormente alimentate dal leggendario furto che fece sparire il dipinto dal Louvre. Aveva ragione. Aveva capito ciò che per gli innamorati d'arte del XXI secolo dovrebbe essere una verità acquisita. Il segreto ragionevolissimo e motivatissimo della Gioconda risiede nel fatto che Leonardo ha concepito e ultimato il suo capolavoro sulla consapevolezza di un mistero, che è il mistero dei «moti dell'animo», come diceva lui, o della psiche, come diremmo noi che veniamo dopo Freud. Leonardo aveva usato le proprie più alte qualità intellettive, nei lustri precedenti, utilizzando appunti grafici e annotazioni teoriche di infinita genialità, per arginare quel continente sconosciuto (l'«Africa interiore», la definirà tre secoli dopo il poeta romantico Jean Paul Richter) che lui chiamava anima e noi inconscio. Bisogna dire a chiarissime lettere che Leonardo è un anello risolutivo nell'evoluzione di una scienza che definiamo appunto Psicologia. Il primissimo, gigantesco appuntamento, per lui, era stato il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie, con le drammatiche reazioni psicologiche di dodici Apostoli nell'istante in cui Gesù dice «Uno di voi mi tradirà». Poi si trattava di scavare nell'infinita complessità dell'anima individuale, specificamente nel genere del «ritratto». L'appuntamento era segnato, ed era fissato con l'anima di una donna, Monna Lisa. Bellezza. Mistero. Sorrisi. Verità non dette e indicibili. La consapevolezza che lì, nell'anima e nel volto, c'è l'oceano che si apre oltre le Colonne d'Ercole delle certezze quotidiane. L'oceano inesplorato che si è chiamato, e si chiama, modernità.

Repubblica 2.2.12
L’invenzione della lettura
Quando Venezia fabbricava bestseller
di Nello Ajello


Di pari passo con il cinema nel cinema, con il teatro nel teatro, con il romanzo nel romanzo, anche al mondo della carta stampata va riconosciuto il diritto di contemplarsi orgogliosamente la coda. E' il primo pensiero con il quale ci si accosta al volume di Alessandro Marzo Magno L'alba dei libri (Garzanti). L'autore, un veneziano trapiantato a Milano, dove è stato caposervizio agli esteri per settimanale Diario, s'intrattiene in quest'opera su una serie di deliziose vicende della sua città. E lo fa con una minuzia a tratti struggente, che finisce per irretire il lettore. L'inno al libro, da lui composto, coinvolge l'immagine storica della Serenissima, così come traspare dal sottotitolo "Quando Venezia ha fatto leggere il mondo".
Si tratta di una rievocazione del capoluogo lagunare in quanto capitale mondiale dell'editoria lungo quel secolo, il Cinquecento, che fu al centro delle nostre glorie rinascimentali. I motivi di quella supremazia in campo editoriale non sono difficili da scrutare. Oltre a rientrare, con Parigi e Napoli, nel trio dei centri europei considerati delle megalopoli in quanto abitati da più di 150 mila abitanti, la Dominante (mai appellativo fu più doveroso) era all'epoca, in primo luogo in virtù della posizione geografica, un luogo più simile a un mondo intero che a una città.
L'Adriatico andava visto come una sorta di lago veneziano: lo sapevano siai letterati chei mercanti. I domini da mar della Signoria Serenissima si estendevano su Istria e Dalmazia, coinvolgevano gli odierni serbi e croati - questi esponenti della "Slavia veneta" - investivano la Grecia, inglobavano, da Creta a Cipro, le grandi isole mediterranee e intrattenevano attivi (anche se spesso turbolenti) scambi culturali con l'universo islamico e con quello ebraico.
Non a caso fu proprio dai torchi d'una bottega di Venezia - dove ebbe sede il primo ghetto del mondo - che uscì un esemplare leggendario del Talmud. Sempre lì, con il titolo Alcoranus arabicus, venne dato alle stampe il primo Corano che vedesse la luce nella lingua di Maometto. A questa ultima rarità bibliografica, di cui si sarebbero perse le tracce per mezzo millennio, l'autore dedica un romanzesco capitolo. Da Aldo Manuzio, questo Michelangelo dell'editoria, in giù, attraggono l'ammirata attenzione dell'autore decine di persone che consacrarono la vita agli esordi della carta stampata. Il risalto geloso acquisito da Venezia in materia sarà alla base di un non casuale equivoco, quando essa volle contestare a Gutenberg l'ideazione della stampa per attribuirlaa Panfilo Castaldi, medico e umanista di Mestre. Sul piedistallo del monumento che gli ha dedicato la città natia figura ancora oggi una scritta che gli attribuisce la paternità di un'invenzione non sua. Risulterà lampante a questo punto quanto fossero eminentemente marittime, fra Quattro e Cinquecento, le vie di diffusione commerciale dei libri tra Venezia e il resto d'Europa. Desta curiosità il modo di "vestire" i volumi per sottrarli all'insidia delle onde. Essi viaggiavano raccolti in balle o chiusi dentro botti o casse rese impermeabili con la catramatura. Se simili cautele connesse alla navigazione dei libri oggi non sono più attuali, restano valide molte delle scoperte tecniche in materia di editoria risalenti a quei tempi: dall'introduzione del corsivo - un carattere capace, secondo Manuzio, di assicurare alle stampe l'eleganza e la bellezza del manoscritto umanistico - alla realizzazione di punzoni in piombo o altri metalli, dovuta, sulla metà del XVI secolo, al francese Claude Garamond, il cui nome ancora oggi distingue un particolare carattere tipografico.
Quanto alla voga riservata nel Rinascimento al libro "portatile" o "economico" in piccolo formato, ritenuto adatto agli studenti o studiosi che vagavano tra le grandi università europee, non è neppure il caso di soffermarsi sulla sua perennità. Per non parlare del best seller, categoria editoriale della quale l'autore individua un antenato nell' Orlando furioso di cui il veneziano Gabriel Giolito de' Ferrari pubblicò tra il 1542 e il 1560 ben ventotto edizioni. Con connotati squisitamente moderni si presenta, nel racconto di A.
Marzo Magno, la tendenza delle stamperie lagunari a concentrarsi fra loro in holding che, accogliendo anche soci stranieri, prefigurano altrettante multinazionali del libro.
L'epoca delle grandi scoperte offrirà all'editoria veneziana un nuovo avvio di penetrazione commerciale: la produzione di testi, carte e documentari geografici. Gli scritti di Cristoforo Colombo, raccolte nel volume anonimo dal titolo Libretto de tutta la navigazione de' Re di Spagna de le isole et terreni novamente trovati e soprattutto la famosa lettera di Amerigo Vespucci a Lorenzo de' Medici, di cui nella prima metà del Cinquecento si moltiplicarono, le edizioni con il titolo Mundus Novus, sono solo alcuni esempi di questo ricco filone. Altri se ne aggiungono: trattati di musica, di medicina, di ginnastica. Ma forse a comunicare l'idea di un originale anticonformismo è il soprattutto il consenso commerciale che arrise alla produzione galante, e in molti casi estrosamente oscena, di Pietro Aretino, in una località come la Dominante, dove per tradizione la censura pochissimo attecchiva. Il poeta rappresentò un'autentica delizia sia per i bibliofili che per i patiti dell'Eros. Con gli inviti al piacere che racchiudevano (Fottiamoci, anima mia, fottiamoci presto - perché tutti per fotter siamo nati) i Sonetti lussuriosi dovevano essere per molti una lettura da comodino. Nella Serenissima, che lo accoglie per quasi un trentennio, dal 1527 fino alla morte, lo scapestrato autore dei Ragionamenti diventa una sorta di attrazione turistica, al punto che in quest' Alba dei libri viene eletto a fondatore della genìa degli scrittori-divi. Tiziano gli farà un ritratto e lo definirà condottiero della letteratura. Sebastiano del Piombo e Iacopo Sansovino saranno suoi unanimi amici. L'imperatore Carlo V lo proteggerà. Anche questo è stata la Serenissima nella sua stagione d'oro, prima che gli interdetti pontifici, sempre più frequenti in epoca di Controriforma, non si impegnino a vietarne le mattane. Ma qui s'affaccia un'altra storia, con tanti sorrisi in meno.

Repubblica 2.2.12
Cervello La macchina che legge i pensieri svelato l'ultimo mistero della mente
Parole tradotte da segnali elettrici, ecco come i neuroscienziati californiani hanno realizzato l'esperimento Lo scopo è aiutare i pazienti che, dopo un trauma o per una malattia, non riescono a esprimersi. E in futuro...
di Elena Dusi


Ascoltare i pensieri, sbirciare tra le pieghe del cervello: quello che la fantascienza aveva etichettato ieri come telepatia, oggi un gruppo di neuroscienziati l'ha realizzato. Grazie a chip impiantati nella testa. Gli elettrodi, fissati in quel lobo temporale in cui i suoni vengono convogliati dal nervo uditivo e scomposti in fonemi, hanno fedelmente registrato gli impulsi elettrici generati dai neuroni impegnati ad ascoltare una serie di parole. Con molta pazienza e l'aiuto di un computer i ricercatori dell'università californiana di Berkeley hanno poi collegato ogni gruppo di segnali emessi dai neuroni a una parola. Fino a ricostruire, passo dopo passo, il vocabolario che il cervello usa per tradurrei suoni in concetti. La ricerca appena pubblicata sulla rivista Plos Biology si va ad aggiungere a uno studio giapponese che, sempre analizzando gli impulsi elettrici del cervello, l'anno scorso aveva ricostruito le scene di un film che in quel momento passava davanti agli occhi di un uomo. E nel 2006 a un ragazzo di 26 anni paralizzato dal collo in giù, Matthew Nagle, era stato impiantato un chip nel cervello capace di tradurre gli impulsi elettrici dei neuroni in comandi per muovere il cursore di un computer o una mano artificiale. La lingua che le cellule del cervello usano per comunicare tra loro cominciano a essere captate e decifrate. E questo sguardo diretto che i neuroscienziati gettano da qualche anno nel nostro organo del pensiero apre prospettive illimitate. L'esperimento di Berkeley per esempio ha coinvolto 15 pazienti che dovevano subire un intervento al cervello a causa di una grave epilessia. I 256 elettrodi fissati nel lobo temporale avevano il compito principale di segnalare al chirurgo il punto esatto da cui scaturiva un attacco epilettico. Ma i segnali sono stati usati anche dai neuroscienziati guidati da Brian Pasley per studiare l'elaborazione del linguaggio. Il nostro scopo- ha spiegato il ricercatore- era capire come fa il cervello a comprendere le parole nonostante tutte le variazioni che il loro suono può avere, a seconda che a pronunciarle sia un uomo o una donna e che il ritmo del discorso sia lento o veloce. Il cervello, hanno scoperto gli scienziati californiani, riesce a scomporre il suono di una parola in frammenti di decimillesimi di secondo, con frequenze che variano da 1 a 8mila hertz. Ascoltando attentamente i segnali dei neuroni è stato possibile fotografare l'impronta lasciata nel cervello da alcuni termini comuni in inglese come jazz, cause, deep. Da lì,i ricercatori di Berkeley sono passati alla seconda fase dello studio, quella più utile per restituire la parola a pazienti che l'hanno persa per ictuso malattie degenerative come il morbo di Lou Gehrig. Una delle persone che in teoria potrebbero beneficiare di questi esperimenti è l'astrofisico inglese Stephen Hawking. Colpito da Sla e ormai settantenne, lo scienziato riescea comunicare solo attraverso la contrazione di un muscolo della guancia. Ma a Berkeley non solo è stato possibile ascoltare una parola e "fotografarne" l'impronta nel cervello. Gli scienziati sono stati anche capaci di percorrere il sentiero opposto: partendo dalla traccia dei neuroni e trasformandola di nuovo in suono con l'aiuto di un computer. Per attivare le scariche dei neuroni infatti, spiega Pasley, non c'è bisogno di pronunciare la parola, basta infatti solo immaginarla.

Repubblica 2.2.12
Ma per capire gli altri (e cosa scriveva Kant) non servono elettrodi
di Maurizio Ferraris


La risonanza magnetica funzionale ci aiuta a capire che tipo di meccanismi si attivino nel cervello umano quando si ascoltano e si pensano certe parole. Si tratta di una lettura del pensiero? Non ne sarei affatto sicuro, e non perché le ricerche non siano importantie promettenti per spiegare il funzionamento del cervello, in cui le tecniche di brain imaging diventano sempre più sofisticate, ma perché le parole, cioè le realizzazioni mentali dei fonemi, non sonoi concetti né tanto menoi pensieri, che a livello cerebrale sono una cosa molto più complicata, di cui si sa pochissimo. Però si sa che sono una cosa diversa dalle parole. Proprio per questo, nonè ovvio stabilire che cosa si intenda con "leggere nel pensiero". C'è un senso banale in cui tutti i soggetti normali sono capaci di leggere nella mente altrui, ed è quando, dall'azione combinata delle parole, della mimica facciale e di altri movimenti del corpo, riteniamo di capire che cosa pensino le persone che ci stanno di fronte. A volte, ovviamente, sbagliamo di grosso. Ma nella maggior parte dei casi conseguiamo l'obiettivo con una sufficiente accuratezza.
Lo stesso vale quando leggiamo gli scritti di qualcuno: ci sembra di capire che cosa ha in mente, sempre che il testo sia sufficientemente chiaro. Le tecniche di brain imaging trasformano queste congetture in certezze e permettono davvero di penetrare nel pensiero altrui? Non ne sono sicuro. Di certo ci permettono di accedere al cervello altrui, e per esempio di capire quali emozioni stia provando, oppure (come nell'esperimento in questione) quali parole stia ascoltando o pensando. Ma questo non significa che noi sappiamo quello che pensa, per il banale motivo che lui stesso potrebbe non sapere quello che pensa.  un'esperienza molto comune: a volte, capiamo esattamente quello che abbiamo in mente solo quando lo raccontiamo a qualcun altro.  per questo che il dialogo è considerato utile per chiarirsi le idee, ed è per questo che si consiglia di scrivere per cercare di mettere ordine nei propri pensieri. Questo però significa che i pensieri non erano davvero nella mente prima che noi li esprimessimo. Hanno incominciato a esistere solo nel momento in cui li abbiamo manifestati all'esterno con una certa forma linguistica. In effetti, è una situazione non molto diversa da quanto accade con certe operazioni aritmetiche complesse, che richiedono carta e penna (o un calcolatore) per essere eseguite. Il numero non è nella nostra testa, ma fuori, e cercare di leggere nel pensiero sarebbe una impresa vana. Così, le passioni di Werther si leggono meglio nelle sue lettere che non nella sua testa. E se all'epoca di Kant fosse esistita la risonanza magnetica funzionale non credo che sarebbe stato sufficiente applicare degli elettrodi alla sua testa per dispensarsi dalla lettura della Critica della ragion pura. Volando più basso, il modo migliore per capire che cosa qualcuno pensi di noiè sempre venire a sapere che cosa dice di noi agli altri, cioè affidandosi alle sue esternazioni, piuttosto che vedere quali aree del suo cervello si attivino quando pensa a noi.