sabato 4 febbraio 2012

Implicato Mario Montecchia, membro del consiglio di amministrazione della società che pubblica Europa e e anche del collegio sindacale della società che pubblica l’Unità
il Fatto 4.1.12
Il senatore e i suoi collaboratori
Gli amici di partito che controllavano i conti (e sapevano)
di Vittorio Malagutti


Strano tipo questo senatore Luigi Lusi. Di solito, chiunque metta in piedi una truffa come quella di cui è accusato l'ex tesoriere della Margherita cerca di nascondere il bottino in un posto fuori mano. Il denaro sparisce nei conti di una finanziaria off shore. E per fare la guardia al tesoro vengono ingaggiati professionisti stranieri abituati, come si diceva una volta dei carabinieri, "a obbedir tacendo".
LA STANGATA del senatore, invece, è andata in scena praticamente nel cortile di casa. Niente off shore. L'isola del tesoro è una piccola società romana, la Ttt srl, che nel giro di tre anni (al 2008 e al 2010) incassa oltre 11 milioni di euro. Chi gestiva la Ttt? Chi ne custodiva la contabilità? Forse un riservatissimo banchiere di Zurigo? Un fiduciario a Panama? Macché. A tenere i cordoni della borsa erano un paio di professionisti targati Margherita. Il Fatto Quotidiano, tre giorni fa, ha già rivelato che l'amministratore unico della società di Lusi era Paolo Piva, già consulente del Comune ai tempi della giunta Rutelli e poi dirigente dell'Atac, l'azienda di trasporti romana. Adesso però si scopre che il senatore Pd aveva scelto come professionista di fiducia tale Mario Montecchia. Il quale ospitava nel suo studio di commercialista la sede e le assemblee sociali della Ttt, di cui curava gli atti societari e la contabilità. Difficile che non si fosse accorto dell’improvvisa ricchezza che aveva colpito la società di Lusi, formalmente controllata da una finanziaria canadese, la Luigia ltd.
Montecchia, quindi, aveva accesso agli affari più riservati (almeno in teoria) dell’ex tesoriere. Ma lo stesso Montecchia doveva essere ben conosciuto anche ai vertici della Margherita e forse anche del Pd. Proprio lui, infatti, siede anche nel consiglio di amministrazione della società che possiede la testata Europa, il giornale della Margherita e nel settembre scorso è stato nominato anche nel collegio sindacale della Nie (Nuova iniziativa editoriale), che pubblica l'Unità.
Strano davvero. C’è un tizio che ruba alla grande dalle casse di un partito e consegna le chiavi della sua cassaforte a due signori che hanno rapporti con quello stesso partito. Di più.
A UN CERTO punto Lusi decide di investire una parte del tesoro per comprare una magnifica casa in pieno centro a Roma. A chi si rivolge? Tra tutti i possibili venditori di immobili della Capitale, il senatore Pd va proprio a incocciare in Giuseppe L’Abbate, un manager che siede nel consiglio di amministrazione di Europa e quindi, almeno in teoria, non dovrebbe essere del tutto sconosciuto alla Margherita. L’Abbate, 43 anni, sfoggia un curriculum da professionista navigato e liquida con un “non ne sapevo niente” le domande sui suoi rapporti con Lusi. Difficile, però, che L’Abbate non si sia posto qualche interrogativo su chi tirasse le fila della società, la Ttt srl, con cui stava trattando la vendita del suo appartamento da 2 milioni e passa di euro. Una vendita che strada facendo si è rivelata più complicata del previsto per una serie di problemi burocratici.
Già, perché l’istituto di credito (Banca Intesa), che a suo tempo aveva concesso un mutuo a L’Abbate per l’acquisto di quella casa, aveva da principio rifiutato di trasferire il prestito alla Ttt. Motivo: la società acquirente era controllata da una finanziaria straniera, la canadese Luigia ltd. Dopo mesi di impasse, il nodo è stato infine sciolto. Come? Nel bilancio della Ttt c’è un mutuo che dapprima risulta erogato dal Monte dei Paschi e solo dal 2010, due anni dopo la compravendita compare il finanziamento di Banca Intesa accompagnato da una garanzia che figura nei conti d’ordine della società e, quindi, è concessa a favore di terzi. Per chi garantiva la Ttt, cioè Lusi? Tutto molto complicato per una semplice operazione immobiliare. Il Fatto ha chiesto lumi al venditore L’Abbate, il manager di Europa. Risposta: “Non c’è niente da chiarire”. Davvero?

Repubblica 4.2.12
Il partito "estinto" spendeva più del Pd maxi uscite per consulenze e sito Internet
Due allarmi a vuoto. Castagnetti: lite col tesoriere che negava spiegazioni
Arturo Parisi denuncia: "Chiesi inutilmente dettagli su alcune voci di bilancio"
Per gli "esperti" spesi nel 2010 un milione e 600 mila euro, il doppio di due anni prima
di Carlo Bonini


ROMA - Come un mantra, Francesco Rutelli continua a ripetere che «non poteva sapere» cosa combinava il suo tesoriere con i bilanci della Margherita. Perché lui «non è un ragioniere» e quell´uomo, Luigi Lusi, «godeva di una stima generale e incondizionata» e «mai erano emersi anche solo indizi di una qualche irregolarità». Sarà. E´ un fatto che, ora, almeno due testimoni, Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti, raccontano un´altra storia. Utile a rileggere ancora una volta le voci più significative dei bilanci di esercizio del partito per gli anni 2008, 2009, 2010. A provare che in almeno due circostanze, nel giugno del 2010 e nel giugno del 2011, Lusi fu a un passo dall´essere smascherato e trovò protezione politica nei maggiorenti di un partito che non esisteva più.
2011, "la menzogna su Franceschini"
Ha racconto ieri ai pm Arturo Parisi: «Durante l´assemblea federale del 20 giugno 2011 al Nazareno per l´approvazione del bilancio di esercizio 2010, chiesi conto al tesoriere di come giustificava i 3 milioni e 800 mila euro di spese per propaganda politica, visto che il partito aveva cessato di esistere tre anni prima. Lusi mi rispose che con quei soldi era stata finanziata la campagna per le primarie nel Pd di Franceschini, candidato che proveniva dalla Margherita. Io obiettai che il tetto di spesa fissato dallo statuto era di 250 mila euro e chiesi ulteriori spiegazioni, che non ricevetti. Tanto che decisi di allontanarmi dall´assemblea e non partecipai al voto». Ma c´è di più: «Venni poi a sapere da Franceschini che quella spiegazione fornita da Lusi era un falso. Che lui, quei soldi, non li aveva ricevuti».
Nell´estate del 2011, dunque, Lusi mente. E - ricorda ancora Parisi - giustifica quella incongrua voce di spesa promettendo di fornire documenti che la giustifichino. Documenti che non solo non produrrà mai, ma che nessuno di quanti ne avevano titolo, Francesco Rutelli (ex segretario politico), Enzo Bianco (presidente dell´assemblea federale), Giuseppe Bocci (presidente del comitato di tesoreria), gli solleciterà mai.
2010, la lite con Castagnetti
Cambia ora la scena. Il luogo è sempre lo stesso (l´assemblea federale riunita al Nazareno per l´approvazione del bilancio), la data è precedente di un anno esatto, giugno 2010. Questa volta c´è da votare il rendiconto per l´esercizio 2009 e a mangiare la foglia è Pierluigi Castagnetti. Che così ricorda con "Repubblica" quella riunione: «Saremmo stati non più di una ventina. Tanto che posi prima un problema di numero legale e quindi di sostanza. La voce di spesa per la propaganda ammontava a poco meno di 7 milioni di euro. Un´enormità per un partito che non c´era più. Chiesi a Lusi di dettagliare quella voce e lui si inalberò. Mi disse che era nell´impossibilità di fornire quei dati. Io risposi che la sua risposta era inconcepibile. Ed avemmo un alterco importante. Annunciai allora il mio voto contrario sul bilancio. Cosa che feci, anche se ricordo che Bianco provò insistentemente e fino all´ultimo a convincermi di non farlo».
La Margherita spende più del Pd
In un´Assemblea federale che dorme da piedi, dunque, chi dimostra di tenere gli occhi aperti viene o allontanato (Parisi) o blandito (senza successo) per essere ricondotto a più miti consigli (Castagnetti). Eppure, non ci vuole un «ragioniere» per accorgersi che nel triennio 2008-2010 almeno quattro significative voci di spesa del partito che non c´è più (vedi la tabella pubblicata in questa pagina) si muovono come sulle montagne russe e in modo assolutamente incongruo. Il costo del "sito internet", tanto per dire, passa dagli 86 mila euro del 2009, ai 533 mila del 2010. Ma quel che è incredibile è che - sempre nel 2010 - la dissolta Margherita spende in "consulenze" 1 milione e 600 mila euro. Duecentomila euro in più di quanto spende, in quello stesso anno il Pd, come risulta dal suo rendiconto finanziario ufficiale. Dunque?
La nascita deLL´APi
C´è una coincidenza temporale che può forse aiutare a comprendere il potere assoluto e libero da controlli sostanziali che Lusi esercitava sulla cassa di un partito dissolto, e la forza di ricatto politico che gliene derivava. Nel 2009, Rutelli fonda l´Api. Un partito senza cassa (non è ammesso ai rimborsi elettorali), ma assai generoso nell´organizzazione delle sue manifestazioni pubbliche. A cominciare dagli happening in quel di Labro. Lusi aprì forse i cordoni della borsa? E se si, in che misura? E se lo fece, è questo che lo convinse che quel denaro che amministrava era diventata anche "roba" sua?

Corriere della Sera 4.2.12
Il Pci e il caso «Nino» Seniga
Quando scappare con la cassa era una ribellione politica
di Maurizio Caprara


ROMA — È proprio il caso di dire che nemmeno le appropriazioni indebite della cassa di un partito sono più quelle di una volta, se si prende per buona la tesi secondo la quale l'amministratore della Margherita Luigi Lusi avrebbe agito da solo e di testa sua. Ad alcuni l'inchiesta su questo tesoriere del Terzo millennio ha fatto tornare alla mente la storia di Giulio Seniga, nome di battaglia «Nino», l'ex partigiano viceresponsabile della «Vigilanza» del Partito comunista italiano che nel 1954 si portò via i fondi del Pci. Nino il ladro, restò per decenni nella tradizione orale di Botteghe Oscure. Quello però era il marchio d'infamia che conveniva a Palmiro Togliatti e ai vertici del partito, non la verità su un atto ribelle che comportò sì una fuga con danaro e tuttavia fu un gesto di rivolta politica dettato da un singolare amalgama di iperrealismo e ingenuità idealista.
Avvenne tra il 24 e il 25 luglio 1954, data scelta perché era l'anniversario della prima caduta di Benito Mussolini. Convinto che Togliatti fosse troppo incline al compromesso con la Democrazia cristiana e avesse rinunciato alla rivoluzione proletaria, Seniga fece un giro tra gli appartamenti segreti sui quali il Pci gli aveva affidato la supervisione affinché ci si potessero rifugiare i propri dirigenti in caso di colpo di Stato reazionario. A uno a uno, Nino li svuotò di documenti riservati, di parte dei fondi che vi erano nascosti e si dileguò. L'obiettivo di Seniga era di smuovere Pietro Secchia, il numero due del Pci che su Togliatti aveva analoghe opinioni. I soldi, in quel caso, costituivano il carburante che mandava avanti la macchina del partito, forza di massa intenta a ramificarsi per l'Italia con una sezione per ogni campanile.
Secondo l'analisi marxista, è la struttura a influenzare la sovrastruttura, l'economia a determinare in gran parte le scelte politiche. La logica del progetto di Seniga era quasi cartesiana, ma in politica 2+2 non fa necessariamente quattro. Secchia non se la sentì di assecondare sollecitazioni considerate avventuriste. Sapeva che anche in Unione Sovietica l'idea di destabilizzare l'Italia troppo in fretta non avrebbe trovato le sponde necessarie.
A Seniga il partito diede la caccia per giorni in ogni luogo: per rintracciarlo si mobilitarono ex partigiani comunisti con altrettanta esperienza in attività militari e clandestine, furono organizzati pedinamenti, attivati confidenti. Nel frattempo, il 28 luglio arrivò a Secchia un espresso. Lo aveva spedito Nino per informarlo in codice di avergli lasciato 50 mila dollari in assegni «per dar battaglia». La richiesta all'uomo del quale era stato collaboratore: decidere se dedicarsi alla famiglia o battersi «in seno al partito per affermare i giusti principi e il giusto costume».
Il gruppo dirigente del Pci subì in silenzio una scossa difficile da confessare. Come chi scrive ebbe modo di sapere, raccogliendo testimonianze di Seniga e Antonello Trombadori, i soldi portati via erano fondi che il Pci aveva ricevuto clandestinamente da Mosca. Né Togliatti né Secchia potevano denunciarne la scomparsa alla polizia. Si trattava di 421 mila dollari, ha spiegato Seniga a Carlo Feltrinelli che lo ha intervistato per il suo libro Senior Service.
Con i soldi, Nino non comprò appartamenti nel centro di Roma. Finanziò la sua testata Azione comunista, poi fondò la casa editrice «Azione comune». Scottato dall'aver visto da vicino i tentacoli del mostro sovietico nella versione italiana di una ferrea ragione di partito, diventò un socialista libertario. «Mio padre aveva deciso di darsi uno stipendio da operaio specializzato», ha ricordato il figlio Martino nel commentare il libro postumo di Giulio Seniga Credevo nel Partito. «Sia lui che mia madre non hanno mai acquistato o posseduto un immobile», ha scritto. Infatti il padre, con la sua giacca anni Cinquanta anche decenni dopo, malgrado i suoi occhi azzurri tutto era fuorché un dandy lussuoso. E' morto nel 1999 dopo aver vissuto in centro. Ma in un appartamento in affitto del Comune di Milano.

il Fatto 4.2.11
L’ora di Berlusmonti
Dalla giustizia all’economia alla Rai, i tecnici finiscono ciò che Pdl e Lega avevano cominciato
di Stefano Feltri


Se Mario Monti arriva addirittura a lamentare che “si è esagerato a usare lo spread come arma contundente contro il mio predecessore”, allora la situazione è davvero critica. Giusto un mese fa, alla conferenza stampa di fine anno, Monti arringava i giornalisti con una lezione sullo spread e un grafico che dimostrava come il picco della misura di rischio dei nostro debito pubblico – 575 punti di spread contro i 377 di oggi – coincideva con la sua nomina a senatore a vita, il 9 novembre. Poi è cominciato l’effetto Monti, con un po’ di doping dalla Bce di Mario Draghi che comprava titoli italiani.
COSA STA succedendo al professore se è costretto a smontare la base di legittimità finanziaria su cui poggia il suo governo? “Monti è preoccupato per la tenuta del Pdl e quindi cerca la sponda di Silvio Berlusconi”, ammette un sottosegretario.
Ma la maggioranza è “evanescente”, per usare un aggettivo sfuggito a Monti in un forum ieri pomeriggio con Repubblica Tv. Il Terzo Polo accetta qualsiasi cosa con entusiasmo (“siamo in sintonia su tutto”, dice Pier Ferdinando Casini). Il Partito democratico soffre, ieri il segretario Pier Luigi Bersani è andato a lamentarsi dal capo dello Stato Giorgio Napolitano: “Il nostro appoggio è senza condizioni, ma il Pdl non può fare così”, questo il senso del discorso di Bersani che ha chiesto udienza al Quirinale dopo l’incidente alla Camera, giovedì. Il governo viene battuto su un tema storicamente berlusconiano, la responsabilità civile dei giudici: risuscita la vecchia maggioranza Pdl-Lega e riesce a infilare nella legge comunitaria l’emendamento, con la strana complicità del presidente della Camera Gianfranco Fini che concede il voto segreto, scatenando i franchi tiratori. L’emendamento verrà cancellato nei successivi passaggi parlamentari, giurano tutti, ma il segnale politico è arrivato: se Monti vuole durare deve un po’ berlusconizzarsi. Magari a cominciare dalla Rai che il premier vorrebbe rifondare ma che per ora resta quella di sempre: al Tg1 non c’è più Augusto Minzolini, solo perché è stato rinviato a giudizio per aver abusato della carta di credito aziendale. Il pensionando Alberto Maccari, suo successore benedetto da Berlusconi, doveva restare in carica poche settimane. Invece lunedì il direttore generale Lorenza Lei è riuscita a farlo riconfermare per un anno, spaccando il cda ma dimostrando che l’asse Pdl-Lega è ancora decisivo. A marzo cambiano i consiglieri, Monti dovrà decidere che fare con quello scelto dal Tesoro (oggi c’è il supertremontiano Giulio Tremonti). Chissà se tra un mese riuscirà a emanciparsi dalla vischiosità berlusconiana o tutto proseguirà come prima. Sulle cose che contano (per Berlusconi), Monti garantisce quella continuità che tanto indispone il Pd. Basta dire che il gran regalo delle frequenze tv a Rai e (soprattutto) Mediaset, il beauty contest, è stato solo congelato per 90 giorni, non certo annullato. Nessuno crede che nel Pdl si pensi a sfiduciare Monti. Anche perché il professore della Bocconi sta facendo molte cose che a Berlusconi e ai suoi non erano mai riuscite, dalla riforma delle pensioni ai miliardi sbloccati per le grandi opere fino al cambiamento del mercato del lavoro. Il ministro del Welfare Elsa Fornero ha detto che, anche sull’articolo 18, si procederà comunque, con o senza i sindacati. Se l’avesse detto Maurizio Sacconi, ci sarebbe stata una sollevazione popolare, invece oggi perfino Eugenio Scalfari da Repubblica invita la Cgil di Susanna Camusso al pragmatismo, “ “Difendere i diritti sindacali è sacrosanto […] ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà è una sciagura”. Quando Monti dice che “se l’Italia è ridotta un pò male è perchè i governi italiani per decenni hanno avuto il cuore troppo buono, diffondendo buonismo sociale”, titilla quella parte liberista del Pdl che ha sempre predicato il taglio della spesa pubblica e del welfare (salvo poi aumentare gli sprechi una volta al governo). E ai berlusconiani piace ancor di più vedere Nichi Vendola, Sel, dire che Monti rivela “un profilo schiettamente conservatore”. Ma al professore della Bocconi sono chiare le priorità: rassicurare l’Europa, contenere Angela Merkel creando un asse con Barack Obama, spingere un po’ il Pil e fare le riforme chieste dalla Bce. Per raggiungere questi obiettivi è pronto a tutto. Anche a vedere Silvio Berlusconi intervistato a tutta pagina sul Financial Times, gazzetta ufficiale del montismo. Ed è rassegnato a sembrare, almeno per un periodo, un po’ un “Berlusmonti”.

il Fatto 4.2.12
Cecchi, sottosegretario senza deleghe Ma il vero ministro è lui
Da Verdiglione a Veltroni, l’ascesa ai beni culturali
di Malcom Pagani


Titolo: “I beni culturali”. Autore il sottosegretario in tema del governo Monti, Cecchi Roberto. Editore, nel 2006 per la casa editrice Spirali, l’amico Armando Verdiglione. Il filosofo accusato nel 1985 di bancarotta, tentata estorsione e circonvenzione d’incapace per poi arrivare, 7 anni dopo, a patteggiare una condanna a 16 mesi. Amante delle dimore di lusso, Verdiglione ospitò Cecchi in occasione della presentazione del suo libro. Preconizzandogli con lungimiranza un futuro da ministro e ricoprendolo di elogi come in altre analoghe occasioni: “Ho capito che su questa materia è l’unico che potesse fare il volume, assumere l’esperienza dei beni culturali e stabilire elementi, ipotesi, direttive per quanto riguarda l’avvenire in questo settore”.
Cecchi, allora direttore generale per i beni architettonici e paesaggistici ringraziò e iniziò a pensarci. Distraendosi. Nella cornice di Villa San Carlo Borromeo, dieci ettari a circondare una meraviglia del XIV secolo, tra quadri e arazzi e lampadari di Murano, Cecchi dimenticò di accendere la luce sul fatto che la stessa fosse stata restaurata grazie ai fondi del Mibac. L’attuale sottosegretario ai Beni Culturali del governo Monti si interessò personalmente al caso, con una lettera del febbraio del 2006 inviata alla Direzione generale della Lombardia e alla società che gestiva l’immobile. Nella missiva, Cecchi non disperava sulla concessione di fondi utili alla causa nell’ottica “delle risorse disponibili”.
ANNI DOPO, mentre Verdiglione combatte a Milano per l’emissione di fatture false per decine di milioni di euro in riferimento a lavori edili sovvenzionati con denaro pubblico, l’architetto Cecchi prosegue nel sentiero tracciato allora. Dopo aver deciso per il silenzio, l’altero toscano a cui il ministro Ornaghi si rifiuta di concedere le deleghe, ha deciso di mettere in naso fuori dal guscio. I detrattori insinuano che non abbia l’ironia nel dna e alzi poco la voce, ma non si azzardano a dire che non sia loquace. Sette, il magazine del Corriere della Sera lo ha lungo intervistato. Facendo le domande giuste sul caso Colosseo e ricevendo risposte, per così dire, interlocutorie. Al centro di due delicate indagini (apertura di un fascicolo a Piazzale Clodio per la concessione dei lavori di restauro del monumento romano a Diego Della Valle e abuso d’ufficio per aver fatto togliere il vincolo a un prezioso mobile settecentesco in una complicata storia di imprudenze formali intricata come un romanzo) Cecchi non si piega.
Scrolla le spalle anche di fronte all’interesse della Corte dei Conti per l’acquisto a oltre tre milioni di euro di un Cristo michelangiolesco di incerta attribuzione. Nell’attesa, prova a togliersi dall’ angolo. Per farlo, ha sacrificato gli amici di un tempo. Dicono che Cristiano Brughitta, ex portavoce del sottosegretario ai Beni Culturali, ad esempio, non sia dell’umore migliore. Dopo dieci anni di onorato servizio a “casa” Cecchi, è stato messo alla porta per far spazio a Silvio Di Francia, ex assessore alla cultura di Veltroni al Campidoglio. La sensazione che la nomina di Di Francia non dispiacesse a Walter, è più di un’impressione. Se chiedi delucidazioni a Di Francia, lui nega, con trasporto: “Prendo 2.400 euro al mese, non rubo e non sono un addetto stampa. Offro una consulenza sulla comunicazione a un signore che credo non provenga dalla politica”.
LICENZIATO il giorno di Natale, per Brughitta, il predecessore di Di Francia, solo qualche scatolone di ricordi e una stretta di mano perché per Cecchi, dietro la barba bianca, non è più tempo di sentimentalismi né di epifanie. L’uomo che doveva diventare ministro e si ritrovò vice di un signore, Ornaghi, con cui ancora non è passato al “tu”, deve accelerare. Uscire dal fortino del Collegio Romano. Far sapere che esiste, anche al di là di una proverbiale riservatezza. Il professor Cecchi, architetto, gode di disegni celesti, apprezza l’instancabile lavorio dietro le quinte e conosce l’arte della mimèsi. Ex comunista duro e puro a cavallo tra i ’70 e gli ’80, sodale del ministro Giuliano Urbani ai tempi del suo dicastero (sognava di diventare Capo dipartimento, ma la Corte dei Conti seppellì l’ambizione con inusitata durezza) stella polare di Francesco Giro all’epoca in cui il Pdl romano propugnò e ottenne nel 2010 la sua nomina a Segretario Generale del Ministero. E oggi, con mirabile giravolta, dopo aver valutato il contesto, in scambio di amorosi sensi con il Pd suo principale sponsor nel governo Monti (in una buona e trasversale compagnia, dall’area montezemoliana al parere decisivo del professor Carandini, ottimo amico del presidente Napolitano), Cecchi mette nel mirino la tappa successiva. L’ex presidente della scorsa edizione del Campiello, scrittore, è anche un buon lettore. Arriva fino in fondo al libro. A patto di leggerlo prima degli altri.

il Fatto 4.2.12
La giustizia del più forte
di Gian Carlo Caselli


Continua, incessante, l’assalto alla giustizia. Chi sperava che la più sistematica e devastante operazione “culturale” che per anni ha avuto il suo principale esponente nell’ex presidente del Consiglio potesse svanire col cambio di governo, si è illuso. Tutto come prima, se non peggio. Lo prova la disinvoltura con cui la maggioranza della Camera (con voto segreto e “inciuci” vari) ha approvato una norma destinata a introdurre nel nostro ordinamento la cosiddetta responsabilità civile dei magistrati. Al danno si sono aggiunte le beffe dell’esuberante tripudio che ha affratellato parlamentari di ogni colore. La norma è palesemente un pateracchio obbrobrioso con evidenti profili di incostituzionalità. Ma intanto il regolamento di conti con la magistratura – che la politica insegue da anni – registra un ennesimo capitolo che ha il sapore velenoso dell’intimidazione .
IN UN PAESE civile il magistrato deve poter agire sine spe ac metu, cioè senza speranza di premi o paura di rappresaglie se la sua azione dovesse garbare o invece dispiacere a qualcuno. Non è vero che i magistrati non pagano mai per i loro errori. Non basta ripetere all’infinito una falsità per renderla meno falsa. È vero invece che la disciplina della responsabilità professionale dei magistrati non può essere equiparata a quella di altre categorie, perché la natura stessa del processo impone prudenza al fine di evitare condizionamenti e pressioni strumentali. La nuova norma ha invece l’obiettivo evidente di intimorire i magistrati per farne dei piccoli burocrati, preoccupati di non dare fastidio a chiunque non sia un ladro di polli. Quando volano gli stracci, si sa, va tutto bene; ma se si indaga o si processa uno che conta, con la nuova disciplina il magistrato si troverà esposto a una tempesta di azioni risarcitorie, possibili grazie a un cumulo di formule generiche, imprecise e subdole. Perciò pericolose: in quanto la loro somma dà come risultato un vuoto tecnico intrecciato col nulla, il dominio della confusione e dell’incertezza, una prateria sconfinata per cavilli d’ogni risma, l’ennesima variante della difesa non “nel” ma “dal” processo.
Per esempio, prevedere la responsabilità del magistrato per “violazione del diritto” è un gioco di prestigio che utilizza una scatola vuota perché ritorsioni e vendette possano riempirla con i pretesti più speciosi. E poi “diniego di giustizia”: che vuol dire? Che se il giudice mi dà torto (quindi mi nega giustizia!) posso chiedergli i danni? Oppure che se nei vari gradi del processo mi si dà torto una volta e ragione nell’altra (com’è nella fisiologia, cioè nella normalità di un sistema che prevede appunto una pluralità di gradi di giudizio) posso citare in giudizio il magistrato che mi ha condannato, magari facendomi forte della sentenza del collega che mi ha assolto? Sarebbe un quarto grado di giudizio, come se non fossero già fin troppi i tre esistenti. Una colossale assurdità. Comunque un pericolo per l’indipendenza della magistratura, che essendo chiamata a scegliere (è nel dna del suo mestiere) fra opzioni diverse, tutte possibili nel perimetro della legge, sarà inesorabilmente spinta verso la scelta più “tranquilla”, che espone di meno al rischio di ritorsioni da parte di coloro (politici e non solo) che non accettano di uscire dal cerchio magico dell’impunità.
SACRIFICANDO sull’altare dell’impunità dei potenti ogni speranza di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (ridotta a mera utopia senza una magistratura davvero indipendente), si vuol tornare a una cinquantina d’anni fa, quando la magistratura era un corpo burocratico chiuso che formava un blocco unico col potere dominante. Magistrati sensibili al vento che tira, plasmati sui modelli culturali imposti dai politici e disponibili alla omologazione. Uomini (come ha scritto Italo Calvino) “appartenenti alla razza delle persone ammodo; una razza dalla pelle liscia e floscia, dai peli nel naso e nelle orecchie, dalle natiche stabili come fondamenta sulle poltrone imbottite; una razza che sa fare le leggi e applicarle e farle rispettare nella misura che gli fa comodo”.

Corriere della Sera 4.2.12
«Il problema c'è ma è lo Stato che deve pagare»
Vietti (Csm): il magistrato non si può paragonare a medici o avvocati, è un unicum
di Giovanni Bianconi


ROMA — «Il fatto che non ci sia un meccanismo di rivalsa diretta del cittadino contro il giudice che può averlo danneggiato, in Italia come nel resto d'Europa, non è un privilegio del giudice, bensì un presupposto che tutela la sua indipendenza, e quindi la sua imparzialità» dice Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Nemmeno a lui, che pure non è un «togato» ma un «laico» dell'organo di autogoverno dei giudici, piace l'emendamento approvato l'altro ieri dalla Camera dei deputati grazie alla ricomposta alleanza Pdl-Lega più qualche decina di «franchi tiratori».
Che c'entrano l'indipendenza e l'imparzialità con la responsabilità di chi commette un errore, presidente Vietti?
«C'entrano perché così ha scritto la Corte costituzionale in molte sue sentenze: l'indipendenza è il presupposto del giudice imparziale. Che significa libero da qualunque condizionamento, da timori e influenze che lo possano portare a decidere in un senso piuttosto che nell'altro. Di fronte al rischio di essere chiamati a risarcire chi viene danneggiato dalla propria decisione, non è difficile immaginare una predisposizione a non inimicarsi la parte più forte e influente. Ed è così che si mina l'imparzialità».
Ma il principio del «chi sbaglia paga» vale per tutti i professionisti, dai medici agli avvocati. Perché non anche per i magistrati?
«Perché i magistrati rappresentano un unicum non paragonabile agli altri professionisti che con la loro attività possono condizionare i destini delle persone, nemmeno ai medici o agli avvocati. A differenza di questi ultimi, infatti, in ogni suo provvedimento il giudice reca potenzialmente un danno a qualcuno. Perché quando decide c'è sempre un soccombente, sia esso il condannato o la parte chiamata a risarcirne un'altra; perfino quando assolve, la parte civile può invocare un preteso danno. In questa situazione, consentire alla parte soccombente di agire direttamente in giudizio contro il magistrato significa rischiare di snaturare e paralizzare il sistema: perché il magistrato non sarà più indipendente e perché si finisce per moltiplicare i processi».
Allora una persona che si ritiene ingiustamente danneggiata, che deve fare?
«Deve chiedere i danni allo Stato, come accade ora, perché è per conto dello Stato che il giudice si pronuncia. Dopodiché sarà lo Stato a rivalersi sul giudice. Questo è un meccanismo che va mantenuto. D'altro canto, per modificarlo il precedente governo aveva proposto una riforma costituzionale, segno che procedere con legge ordinaria è quanto meno azzardato».
Secondo i propugnatori della nuova norma è l'Europa a chiedere all'Italia di adeguarsi ai parametri europei, introducendo la rivalsa diretta del cittadino sul giudice.
«L'argomento è pretestuoso. Le sentenze della Corte di giustizia europea affermano tutt'altro, per certi versi il contrario di quello che si pretenderebbe. Ci chiedono di introdurre il principio di responsabilità anche nel caso di disapplicazione delle normative europee, ma sempre in capo allo Stato, mai al giudice. Cito testualmente da uno dei provvedimenti: "Il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non quella del giudice ma dello Stato". E' chiarissimo, non c'è possibilità di fraintendimento».
Il problema è che in un referendum, 25 anni fa, gli italiani hanno votato per introdurre la responsabilità civile dei giudici, ma ne è nata una legge che non ha prodotto grandi risultati. Non pensa che da noi i giudici paghino troppo poco per i loro errori?
«Forse sì, ma la strada per farli pagare di più non è certamente questa. Che tra l'altro contiene formule ambigue tipo "il soggetto riconosciuto colpevole" del danno: da chi e come? E si parla di "violazione del diritto", che significa inevitabilmente entrare nel campo dell'interpretazione della legge, che è di per sé attività opinabile».
Però i giudici del «caso Tortora», tanto per citare l'errore giudiziario per antonomasia, non hanno subito conseguenze. Come la mettiamo?
«Non voglio entrare in situazioni specifiche, peraltro precedenti alla legge attuale, ma è vero che il problema esiste. E forse l'emendamento appena approvato dalla Camera può diventare l'occasione per trovare soluzioni più adeguate, facendo nascere da quello che il plenum del Csm in una delibera del giugno scorso ha considerato un errore, qualcosa di utile. Ci si può dunque muovere da un lato rispettando le indicazioni europee per quello che davvero contengono e quindi facendo sì che lo Stato risarcisca i cittadini quando viene disattesa una norma comunitaria; dall'altro introducendo meccanismi di responsabilità del giudice che non creino sconquassi e consentano caso per caso di accertare chi ha sbagliato».
In che modo?
«Credo che il Csm, sul piano disciplinare, stia già facendo la sua parte. La Sezione che presiedo sta realizzando una giurisprudenza più rigida, non solo in tema di ritardo ma anche di interpretazioni abnormi, che già possono essere sanzionate. Per il resto tocca al Parlamento. Probabilmente occorre inasprire il regime di rivalsa dello Stato nei confronti del giudice, oggi troppo blando, per renderlo più incisivo e più efficace. Indipendenza non significa irresponsabilità di fronte all'errore grave e oggettivo. La legge in vigore pone criteri troppo restrittivi e di difficile applicazione, quasi una corsa a ostacoli che un po' ha tradito lo spirito del referendum dell'87. Ma la necessità di sanare questa situazione non può diventare il pretesto per innescare un corto circuito che provocherebbe danni irreparabili al sistema».

Corriere della Sera 4.2.12
Franchi tiratori, ammissioni nel Pd: principio giusto
di Maria Teresa Meli


ROMA — Pier Luigi Bersani è inquieto. Secondo il segretario del Partito democratico il voto sull'emendamento Pini «era una trappola» per cercare di far saltare il governo Monti. Per questa ragione è nero con quelli che nel Pd hanno giocato ai franchi tiratori. Anche se ufficialmente il segretario nega: «Voti nostri? È una cazzata».
Ma i conti non sono difficili da fare: durante il fatidico voto segreto sull'emendamento alla legge comunitaria che sanciva la responsabilità civile per i magistrati, i partiti schierati ufficialmente per il no (Pd, Idv, Terzo polo) contavano su 250 voti, tolti i sei deputati radicali, che avevano esplicitamente appoggiato l'emendamento leghista. Dunque, i franchi tiratori sono stati una quarantina e, numeri alla mano, nella migliore delle ipotesi quelli del Partito democratico sono stati più di dieci.
Spiega la radicale Rita Bernardini, che in aula ha dichiarato il proprio voto favorevole e ha ricordato ai compagni di gruppo il caso dell'ex presidente Pd della regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco: «Credo che sia stato proprio quel caso a far riflettere molti, nel Pd. Del Turco è finito in galera, la sua giunta è stata abbattuta per via giudiziaria con accuse che stanno finendo nel nulla: vogliamo che siano i magistrati a decidere chi va eletto e chi no?». Ma allora, le dure reazioni di Bersani e Franceschini? Bernardini le definisce «ridicole: hanno alzato i toni per coprire una crisi di coscienza che attraversava anche i loro, per timore delle reazioni della magistratura. La norma andrà aggiustata, ma una cosa è certa: se non passava in quel modo, la responsabilità civile non sarebbe mai passata». E infatti, sottolinea, dall'inizio della legislatura le proposte di legge in materia sono state affossate.
Che il voto dell'altro ieri fosse rischioso lo aveva capito subito il segretario del gruppo Roberto Giachetti, che aveva avvertito Franceschini e la capogruppo in commissione Giustizia Donatella Ferranti, sollecitandoli a chiedere un rinvio e a concordare con il governo una formulazione che recepisse il principio della responsabilità: «Dobbiamo concedere qualcosa, altrimenti si va allo scontro e può passare il testo Pini. E al Senato non sarà facile correggerlo, visti i numeri del centrodestra». Ma Franceschini e Ferranti sono andati avanti: «Il Pdl ci ha assicurato che voteranno no».
Come era ovvio, così non è stato. Il Pdl ha votato sì e lo ha anche rivendicato. Ma l'atteggiamento del centrodestra non basta a spiegare quel risultato. Un altro radicale, Matteo Mecacci, che è stato preso a male parole in aula dalla deputata pd Cinzia Capano, contraria al principio della responsabilità civile, osserva: «È assurdo sostenere, come fa il Pd, che in quel voto si è ricostituita la vecchia maggioranza» ragiona Mecacci. «Nei banchi Pdl mancavano 80 deputati, il che vuole dire che non c'era stata alcuna mobilitazione per far passare l'emendamento e che molti voti sono venuti da Pd e Udc».
Nessuno, come è ovvio, lo dichiara esplicitamente. Ma qualcuno lo lascia capire. L'udc Renzo Lusetti ride, mentre dice: «Abbiamo votato compatti come un sol uomo secondo le indicazioni». Il pd Giovanni Lolli si stupisce dello scandalo: «Che anche i magistrati debbano essere responsabili dei loro errori non è una bestemmia: il testo magari è eccessivo, ma il principio è sacrosanto». Come l'ex Ppi Antonello Giacomelli: il testo sarà pure «cattivo», ma «il principio è giusto». L'ex tesoriere ds Ugo Sposetti, da sempre renitente alla leva giustizialista non svela quello che ha fatto: «Come ho votato? Come dice la Ferranti, ovvio». La quale Ferranti, per la verità, si era esercitata in diverse battute sul possibile voto di Sposetti.

Corriere della Sera 4.2.12
Nella Cgil si rafforza l'ala dura. Sfida aperta in Confindustria
Bombassei e Squinzi «saltano» il confronto pubblico
di Roberto Bagnoli


ROMA — Il nervosismo sull'articolo 18, innescato dalle parole di Mario Monti e dal decisionismo del ministro del Lavoro Elsa Fornero, dai partiti che sostengono il governo si trasmette alle parti sociali. In attesa del nuovo incontro tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil, che si terrà mercoledì prossimo nella foresteria di Via Veneto per tentare un'intesa che tolga all'esecutivo qualsiasi scelta unilaterale, nel sindacato di Susanna Camusso alza la testa l'ala più radicale. Nicola Nicolosi, segretario confederale e coordinatore dell'area di minoranza, Lavoro Società (che fa capo a Giorgio Cremaschi, ndr) lancia la proposta di prepararsi per uno sciopero generale «se dovessero arrivare decisioni che cancellano o modificano in modo peggiorativo l'articolo 18».
In Confindustria, alle prese con una difficile successione a Emma Marcegaglia il cui mandato scade in maggio, i due sfidanti principali, Alberto Bombassei e Giorgio Squinzi, sono stati protagonisti di un gustoso scambio di colpi di fioretto. Insieme al terzo sfidante Andrea Riello, i due avrebbero dovuto partecipare al primo confronto «pubblico» il 7 febbraio a Mogliano Veneto. Ma ieri Squinzi, che si trova negli Usa da dove rientra domani, ha comunicato di non poter partecipare per un precedente impegno. Per lo staff di Bombassei si tratta di una incomprensibile marcia indietro visto che dal 20 gennaio erano stati diffusi gli inviti con i nomi dei partecipanti. Per quello di Squinzi le cose non stanno così: il 13 gennaio aveva comunicato la sua disponibilità fornendo tre date ma dal Veneto ne sarebbe spuntata una quarta non concordata. Un «incidente» di percorso corredato da uno scambio di lettere ed email con le quali i due diplomaticamente spiegano le loro ragioni. Il presidente di Confindustria Veneto Andrea Tomat si è detto «dispiaciuto della sua impossibilità a partecipare all'incontro» e «nutre ancora qualche speranza» di un ripensamento. Mentre i saggi devono ancora iniziare il monitoraggio tra le categorie e le associazioni, giovedì prossimo in Assolombarda Squinzi e Bombassei illustreranno, in sedi separate, il loro programma. Al centro della grande discussione sull'articolo 18 il problema resta quello del reintegro che Confindustria vorrebbe limitare solo ai casi eccezionali di discriminazioni. E su questo fronte sembra difficile credere che gli imprenditori possano dividersi anche se ci sono sensibilità diverse sull'approccio negoziale.
Il sindacato si muove con grande cautela. Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni continua a predicare la calma e anche ieri si è sentito con Fornero per convincerla a evitare decisioni unilaterali. Susanna Camusso ha preferito il silenzio. Al suo posto ha parlato il segretario confederale Fulvio Fammoni che ha criticato il governo per «essersi inventato uno strano metodo, ci ha detto parlate tra voi poi ci rivediamo, ma se troviamo un accordo il ministro poi lo accetta?»
Quella dell'intesa tra le parti è una strada tutt'altro che semplice. Il direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli ieri lo ha riconosciuto ammettendo che «non sarà facile trovare il consenso di tutti» e che i temi da affrontare sono tanti in un contesto dove «il ricorso al nero è diffusissimo». Oggi il ministro Fornero interverrà a Sky ospite di Maria Latella e vedremo quali novità porterà. Atteso anche un passo avanti sull'arbitrato, varato dal governo Berlusconi nel 2010, ma scaduto nella sua applicazione nel novembre scorso. La legge prevede che da allora il governo ha sei mesi di tempo (entro maggio) per convincere le parti a trovare una intesa, altrimenti può varare un decreto. L'arbitrato comunque sarà in via sperimentale e non si occuperà di licenziamenti.

il Fatto 4.2.12
Abusi sui minori, il Vaticano al rendiconto
Per la prima volta un convegno sulla pedofilia
di Marco Politi


È la sfida del Vaticano dinanzi alle responsabilità della Chiesa per gli scandali di pedofilia. Confrontarsi con le vittime e riformare l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche rispetto a decenni (e secoli) di abusi. L’ambizioso progetto, che sarà lanciato in un simposio di quattro giorni all’università Gregoriana e che proseguirà con un programma di formazione continua sul web per la durata di tre anni, rivela la consapevolezza di papa Ratzinger della necessità di dare una scossa alla Chiesa universale perché nessuno si illuda che sia “passata” la tempesta provocata dalle violenze ai minori. “Verso la guarigione e il rinnovamento” è il titolo dato all’iniziativa, sostenuta dalla Segreteria di Stato, dalla Congregazione per la Dottrina della fede e da altri dicasteri vaticani, che lunedì riunirà per la prima volta a Roma – a discutere con psicologi ed altri esperti – vescovi e religiosi di tutto il mondo, delegati di oltre cento episcopati e una trentina di ordini religiosi.
A SUO MODO è un evento storico, che va al di là dell’emanazione di norme più severe da parte del Sant’Uffizio. L’obiettivo è quello di mobilitare tutta la Chiesa sul dramma (e le responsabilità) dell’abuso sessuale all’interno delle proprie file, gettando le basi di una strategia globale. Imperniata su tre punti: 1. attrezzare diocesi e parrocchie nella vigilanza, nella scoperta e nella denuncia del fenomeno; 2. coinvolgere concretamente nel contrasto alla pedofilia tutta la comunità ecclesiale; 3. portare in primo piano la sorte delle vittime, ascoltarle, prendersi cura di loro, accompagnarle in un percorso di guarigione dai traumi.
Motori dell’iniziativa sono due personalità particolari. Un maltese e un tedesco. L’uno “promotore di giustizia” (procuratore generale) del Sant’Uffizio, l’altro cardinale di Monaco di Baviera. Il maltese Charles Scicluna, uomo di fiducia di Benedetto XVI, è il prelato che l’allora cardinale Ratzinger, in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, spedì negli Stati Uniti e nel Messico durante l’agonia di Giovanni Paolo II per indagare sui crimini di Marcel Macial, fondatore dei Legionari di Cristo. In una dozzina di giorni, prima ancora che si aprisse il conclave che elesse Benedetto XVI, Scicluna tornò in Vaticano con prove schiaccianti che inchiodarono Macial e portarono alla sua rimozione e poi alla sua damnatio memoriae. Sull’Avvenire il maltese ha criticato nel 2010 la “cultura del silenzio”, che aleggia nella Chiesa italiana a proposito degli abusi. Oggi insiste sulla necessità di “prevenire altri crimini”, sostenendo che non bisogna “partire dall’omertà” ma bisogna avere di mira la guarigione delle vittime. Che anzitutto vanno ascoltate.
Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera, è il cardinale che nella sua diocesi ha data carta bianca ad una donna, l’avvocato Marion Westpfahl, per un’inchiesta indipendente sugli abusi del clero. Il risultato, comunicato pubblicamente, è che dal dopoguerra ad oggi si sono verificati nella diocesi monacense circa trecento casi di abuso, ignorando sistematicamente le vittime e con una diffusa manipolazione e distruzione della relativa documentazione. Domanda: come mai nessun cardinale italiano ha promosso una simile inchiesta? Perché non è stata aperta un’inchiesta ecclesiastica in nessuna parte d’Italia con la sola eccezione della diocesi di Bolzano-Bressanone? Sul sito della diocesi di Monaco appare ben chiaro l’indirizzo di due avvocati a cui le vittime possono rivolgersi per segnalare abusi. E anche il programma di rimborso delle terapie psicologiche e di risarcimento danni per i minori violati.
AL CONVEGNO – cui seguirà a cura dell’università Gregoriana la creazione di una banca dati – interverrà una vittima celebre, l’irlandese Marie Collins. Nel 2009 denunciò “con orrore” il palleggio di responsabilità sul suo abuso tra le autorità di polizia e il suo vescovo. “Ero sorpresa di quanto fosse noto sul mio abusatore”, raccontò. Il vescovo ausiliare della sua diocesi avrebbe voluto denunciare il crimine, ma l’arcivescovo McQuaid non fece nulla. “Fui mobbizzata e minacciata”.
Il simposio della Gregoriana dovrà sciogliere due nodi fondamentali. Dovrà o no il vescovo denunciare sempre i crimini alle autorità di polizia? O deve farlo solo nei paesi dove lo obbliga la legge? Papa Ratzinger finora non ha dato l’ordine di denunciare immediatamente. Tutte le associazioni a tutela delle vittime invece lo esigono.
Il secondo nodo riguarda l’apertura di indagini per scoprire i crimini insabbiati del passato. Molti episcopati, fra cui l’italiano, non vorrebbero imboccare la strada della trasparenza a 360 gradi.

La Stampa 4.2.12
L’esorcista che ha visto il diavolo in Vaticano
Padre Amorth: Satana tenta le gerarchie. E il rapimento Orlandi...
di Giacomo Galeazzi


Gabriele Amorth, modenese, partigiano con il nome di battaglia di Alberto, laureato in giurisprudenza, dal 1986 è esorcista nella Diocesi di Roma

Lavora nell’ombra, spesso osteggiato anche dalla Chiesa. Padre Gabriele Amorth, l’anziano sacerdote paolino che sotto il pontificato wojtyliano divenne l’esorcista ufficiale della diocesi di Roma, continua ancora a combattere indefesso contro colui che egli chiama «Il Grande Nemico»: Satana, il principe dell’inferno.
La sua battaglia è ben enucleata nell’esplosivo libro scritto a quattro mani col giornalista del «Foglio» Paolo Rodari: «L’ultimo esorcista», appena uscito per le edizioni Piemme.
Amorth lotta anche contro i molti che all’esistenza di Satana non credono: «Eminenza, lei dovrebbe leggersi un libro», disse a un cardinale della curia romana che sosteneva che Satana fosse soltanto «frutto della superstizione». «Quale libro? » gli chiese il porporato. «Lei dovrebbe leggere il Vangelo» gli rispose Amorth domandandogli ancora: «Sbaglio o una delle attività principali di Gesù nei Vangeli è quella di compiere esorcismi? ».
Amorth esegue ancora oggi dagli otto ai dieci esorcismi al giorno, compresi le domeniche e il giorno di Natale. Per lui Satana è ovunque, anche nelle sacre stanze del Vaticano. Lo sapeva Giovanni Paolo II che, infatti, non rinunciava a fare in prima persona degli esorcismi.
Una prima volta è il 27 marzo 1982. L’allora vescovo di Spoleto, Ottorino Alberti, gli porta una giovane donna, Francesca Fabrizi, che al vederlo si mette a gridare, a rotolarsi per terra, incurante che il Papa intimi più volte al diavolo di uscire da lei. Si quieta di colpo solo quando Giovanni Paolo II le dice, «domani dirò messa per te».
Qualche anno dopo la donna torna dal Papa col marito, tranquilla, felice, in attesa di un bambino. «Non avevo mai visto una cosa simile», confida il Papa al suo prefetto di casa, il cardinale Jacques Martin. «Una scena biblica».
Benedetto XVI non compie esorcismi, ma è talmente odiato da Satana da essere ritenuto dal demonio «peggio di Giovanni Paolo II». Molti cercano l’aiuto di Ratzinger, soprattutto durante le udienze del mercoledì in piazza San Pietro.
Due assistenti di Amorth qualche mese fa ne hanno accompagnati in piazza due. Alla vista del Papa hanno cominciato a urlare, a rotolarsi per terra, a sbavare. Papa Ratzinger li ha notati. Si è avvicinato di qualche passo e li ha benedetti. Per loro è stato come ricevere una potente frustata. Sono volati all’indietro di qualche metro tra lo sgomento generale.
Dice Amorth che Satana ha sempre tentato le gerarchie della Chiesa e in particolare coloro che abitano in Vaticano. Dice che più che la pista del complotto internazionale, dietro la scomparsa di Emanuela Orlandi ci sarebbero a suo avviso le sette sataniche.
Dice: «Io penso che una ragazza di quindici anni non sale su una macchina se non conosce bene la persona che le chiededi salire. Credo dunque che occorrerebbe indagare dentro il Vaticano e non fuori. O comunque indagare intorno alle persone che in qualche modo conoscevano Emanuela. Perché secondo me solo qualcuno che Emanuela conosce bene può averla indotta a salire su una macchina. Spesso le sette sataniche agiscono così: fanno salire su una macchina una ragazza e poi la fanno sparire».
Un libro, anni fa, scritto da Luigi Marinelli e intitolato «Via col vento in Vaticano» denunciò «storie di carriere, arrivismi, avventure amorose». Ma nessuno fece niente: «Doveva essere un allarme per la Chiesa, ma non lo fu».
Satana tenta tutti, religiosi e laici, adulti e bambini. Un caso eclatante quanto ai bambini, o comunque agli adolescenti, si ebbe nell’omicidio di suor Maria Laura Mainetti a Chiavenna, un paesino in provincia di Sondrio, nel giugno del 2000.
I giornali posero l’accento sull’interesse delle ragazze omicide per l’esoterismo e per il cantante rock Marilyn Manson. Che ruolo può aver avuto questa passione musicale nel gesto delle tre ragazze?
Dice Amorth: «Certo, non posso dire che la causa che ha scatenato l’omicidio sia stata una canzone di Manson o addirittura Manson stesso. Ma una cosa va detta. La musica satanica è uno dei principali veicoli di diffusione del satanismo tra i giovani. I messaggi della musica satanica riescono a influenzare la mente e il cuore dei giovani. Attraverso un certo tipo di musica i giovani hanno la possibilità di avvicinarsi ad argomenti nuovi. Sconosciuti. Frontiere del male prima inesplorate».

Corriere della Sera 4.2.12
L'antropologo nominato cardinale che ha riscoperto la Preistoria
Julien Ries: Lévi-Strauss sbagliava, ha trascurato la trascendenza
di Armando Torno


Julien Ries, professore emerito a Louvain La Neuve di Storia delle religioni, è cappellano presso la Famiglia spirituale l'Oeuvre a Villers Saint Amand (nel Belgio vallone). La Cattolica di Milano, alla quale ha lasciato biblioteca e archivio, gli ha conferito la laurea honoris causa nel 2010. La nomina a cardinale è giunta per i suoi lavori scientifici e culturali. Riceverà la berretta il 18 febbraio. Le sue opere complete stanno uscendo da Jaca Book, casa editrice con cui collabora da un quarto di secolo. Lo abbiamo intervistato.
La porpora a 92 anni. Cosa dice il suo cuore?
«È stata una grande sorpresa, ero totalmente meravigliato. Non me l'aspettavo. Nella vita capita quello che succede nell'evoluzione: un imprevisto permette un salto in avanti. Ho riflettuto sulle ragioni e ho pensato che prima di me c'era stato Franz König, di Vienna...»
Che giocò un importante ruolo nel Concilio...
«...come storico delle religioni. Era un grande conoscitore dell'Iran e aveva, tra i molti lavori, comparato l'escatologia di Zoroastro con l'Antico Testamento. Ma, al di là di tutto, credo che siano i miei studi di storia delle religioni e anzitutto quelli sull'antropologia religiosa che hanno giocato nella nomina».
Continuerà la sua opera o la porpora è troppo pesante?
«No, non lo è; anzi è una leva che permette di avere una visione migliore della missione intrapresa e un'idea più entusiasta del lavoro ancora da compiere. La mia giornata di studio e di raccoglimento continuerà. Comincio alle 5 di mattina: preghiera e meditazione, poi celebro la messa a cui vengono le suore dell'"Oeuvre". Tengo una omelia tutti i giorni, nella quale ricordo santi e avvenimenti della Chiesa per orientare il nostro lavoro. Traggo ispirazione da Ambrogio, che influenzò anche Agostino. Dalle 9 fino alle 12 mi dedico allo studio e alla scrittura. Lo stesso faccio dalle 3 di pomeriggio alle 6 di sera. Poi la cena. E il riposo».
Cosa manca oggi alla cultura?
«Primariamente la coscienza della storia, della storia dell'umanità. È una disciplina quasi dimenticata. E la storia della cultura ha bisogno di essere conosciuta per sapere dove mettere i piedi. Il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes, che parla della relazione Chiesa-mondo, ha posto un capitolo importante sulla cultura, che andrebbe riletto oggi. Per la Chiesa è stato un impegno serio e il lavoro di figure quali il cardinale Ravasi ne è la prova».
Cosa va scoperto e valorizzato nella cultura di oggi?
«La cultura attuale ama la superficie e ha perso il senso: smarrirlo equivale a non trovare più la ragione della vita. In Europa, per esempio, manca la coscienza della storia cristiana. C'è dunque un lavoro in profondità da fare e occorre, tra l'altro, attivare il dialogo con i non credenti. Non si deve inoltre avere alcuna paura per l'immigrazione, ma non si possono trasformare le periferie in luoghi di parcheggio che ricordano la colonizzazione, quando i nativi erano posti in "campi" e gli europei vivevano per proprio conto. Io seguito a utilizzare il termine acculturazione per esprimere l'accoglienza simpatetica di altri popoli. Uso poi il vocabolo inculturazione per esprimere come l'annuncio del Vangelo debba tener conto di rivolgersi a culture diverse».
Riscoprire la Chiesa. È possibile ancora?
«Per riscoprire la Chiesa è necessario trasmettere un entusiasmo per Cristo, che la nostra generazione ha quasi perso. Ma ai giovani è possibile. Si tratta di ritrovarlo nel Vangelo: ci vogliono profeti per la nostra epoca. Ce ne sono stati di recente, come don Giussani, Chiara Lubich e altri».
Lei è considerato il più grande antropologo religioso del nostro tempo. Un giudizio sull'antropologia «non» religiosa...
«L'antropologia "non" religiosa è una scienza orizzontale, guarda l'uomo nelle sue dimensioni sociali e, a volte, con occhi che fanno fatica a vedere, come quella strutturale di Lévi-Strauss. In noi c'è un'altra dimensione. Sant'Ireneo diceva che l'uomo che sta ritto in piedi è la gloria di Dio. Occorre vedere assieme alla dimensione orizzontale quella verticale: l'uomo è piantato verso il cielo. Dunque all'antropologia non deve mancare la trascendenza e l'antropologia religiosa è marcata dalla trascendenza. Da qui l'importanza dell'homo religiosus».
Teilhard de Chardin. Questo gesuita turba ancora la Chiesa?
«Sta tornando! Le ricerche attuali sull'evoluzione mostrano la visione chiara e lungimirante che aveva Teilhard. È stato De Lubac a indicare per primo il vero volto di Teilhard. Oggi la Chiesa riconosce che commise un errore nel metterlo da parte».
Il mondo sta cambiando. È solo crisi economica?
«La crisi economica profonda ha le sue radici nel neoliberismo. Si è puntato su ricchezza e beni materiali e non si è capito che sono campi da regolare. Siamo in un contesto di materialismo liberale. Accanto ad esso, c'è una crisi dello spirito per la perdita di veri punti di riferimento culturali. La mondializzazione è un monogambismo, ma per camminare occorrono due gambe. Occorre rileggersi le encicliche che denunciavano le società con una sola gamba».
I fondamentalismi religiosi?
«Hanno toccato molte fedi, e ne hanno fatto delle ideologie. Nell'Islamismo si mischia politica e religione, ma è il progetto politico che prevale e si vuole fare di esso la costituzione del mondo. Il fondamentalismo indù sta ripetendo un errore simile al nazismo, considerando necessaria, indispensabile ed unica per l'India appunto l'identità indù. Perderebbe in tal modo la grande visione dell'uomo e del mondo. Nel cristianesimo osserviamo lo stesso fenomeno con l'integrismo che seleziona i testi e trasforma la religione in ideologia. Lo abbiamo visto nella guerra del Golfo. L'ideologia fondamentalista sovverte l'uomo religioso, diviene intolleranza ideologica e rende il dialogo impossibile».
Molti suoi lavori si rifanno alla Preistoria. Perché?
«Ho trovato in essa le nostre radici. Con la Preistoria noi vediamo che in partenza l'uomo è marcato dal simbolismo ed è homo religiosus; e questo lo caratterizza. Da oltre due milioni di anni osserviamo la crescita di ciò che chiamiamo ominizzazione e seguiamo il percorso dell'umanità sino al Paleolitico superiore alle grandi grotte dipinte: segno, con la già precedente sepoltura dei morti, di un grande senso della trascendenza. C'è una crescita della coscienza nella storia dell'umanità che porta alla nascita delle grandi culture e religioni, ma noi notiamo che dal suo apparire l'uomo è simbolico e religioso. Questa consapevolezza è importante per il nostro tempo, per tale motivo mi sono interessato di Preistoria. Oggi abbiamo bisogno delle costanti del sacro: simboli, miti, riti. Oggi sappiamo che la Preistoria, un tempo considerata separata dalla storia per la mancanza della scrittura, è già storia. Non c'è alcuna rottura da quando appare l'uomo».


il Fatto 4.2.12
Dietro il sipario
La Scala della fame
Dopo la denuncia della danzatrice Garritano sull’anoressia il teatro milanese la licenzia
di Chiara Paolin


Andavo avanti con una mela e uno yogurt (magro) al giorno, affidandomi all'adrenalina per arrivare alla fine delle prove. Alcune ballerine venivano portate in ospedale per essere alimentate con i tubi, molte non avevano le mestruazioni per anni a causa delle diete troppo severe. A un certo punto ho detto basta”.
Mariafrancesca Garritano ha dovuto prendere in mano la sua vita nel 2010, quando ormai era evidente che tutto le stava sfuggendo al suo controllo. Non un gran peso da sollevare, qualche decina di chilogrammi forgiati da anni di disciplina, arte, sacrificio. E dolore.
PERCHÉ LEI, nata a Cosenza nel 1978, ha sognato per tutta la vita un solo sogno, la danza. Ma da ieri il suo corpo di ballo, quello della Scala di Milano con cui doveva aprire la stagione 2012 mettendo in scena Il Don Giovanni di Mozart, le ha detto che deve andarsene: ha scritto un libro sui retroscena più difficili della sua carriera, ha raccontato le pressioni cui lei e le sue compagne sono state sottoposte, spesso fino a perdere serenità e salute. I responsabili del balletto milanese non hanno gradito, decidendo di licenziarla in tronco. “Ha gettato discredito sulla nostra istituzione – fanno sapere dalla direzione dell’ente –, non era possibile continuare il rapporto”. In realtà il libro incriminato (La verità, vi prego, sulla danza), era uscito nel 2010 con il suo nome d’arte, Marygarret. Un’intervista rilasciata lo scorso dicembre al periodico inglese Observer ha rimesso in discussione il tema, logorando una relazione ormai sfilacciata: da una parte la danzatrice, che accusa l’ambiente professionale di spingere le artiste a vivere condizioni fisiche e psicologiche impossibili pur di rispettare un modello inarrivabile di levità e stile; dall’altra il corpo di ballo della Scala, istituzione internazionale che vuole preservare un’immagine di professionalità e correttezza.
Eppure le critiche della Garritano riguardano anche le politiche di gestione dei rapporti di lavoro sul palco milanese: “Nel resto del mondo dopo due o tre ruoli importanti in automatico sei nella categoria superiore – spiega –. In Italia, invece, siamo in tanti ad aspettare da anni promozioni che non arrivano. La mancanza di meritocrazia, che fa parte di molti ambienti lavorativi, è anche colpa di chi sottostà al sistema per paura di perdere il posto di lavoro o, nel caso della danza, il ruolo. Una ballerina, infatti, vive sulla scena. Si nutre di visibilità”. E la frustrazione è una condanna insostenibile per chi nella sua esistenza ha un solo, totalizzante, obiettivo. Ricordava la Garritano nel suo libro: “Quando avevo 11 anni è morta mia madre e mi sono ritrovata a vivere con papà. E con la sua nuova famiglia. Quando ho capito che per lui ero di troppo ho deciso di inseguire il mio sogno e a 16 anni sono partita per Milano dove sono entrata subito nella scuola del Teatro alla Scala e poi nel corpo di ballo”.
NON UNA storia strappalacrime, piuttosto una realtà di autonomia e indipendenza assai comune tra chi si avvicina alla disciplina delle punte. L’esperienza raccontata dal film Black Swan, pellicola in cui Natalie Portman interpretava il ruolo di una ballerina iperferfezionista, ha scatenato critiche e polemiche, ma non tra chi ha frequentato dietro le quinte il palcoscenico.
Mariafrancesca però ha il dono dell’ironia, e una certa tenacia sudista. Il giorno in cui presentò a Milano il suo libro, volle appendere sulle pareti tante paia delle sue scarpette distrutte dall’allenamento, ma anche rosse corone di peperoncini. “Amo la mia terra, la Calabria - disse in quell’occasione -. E per questo quando devo organizzare un buffet metto acqua, gallette light, e pure qualche fetta di salamino piccante. La vita può essere davvero leggera, allora.

Repubblica 4.2.12
"Anoressia alla Scala" licenziata la ballerina
di Michela Marzano


Quando si parla di danza classica, si pensa quasi sempre ad un mondo pieno di cigni e di principesse, di castelli e di amore. Per molti, la danza resta un sinonimo di femminilità e di purezza. Tranne forse per chi, in quel mondo, ci cresce e ci lavora. Perché quando cala il sipario, non si tratta più tanto di magia e di bellezza.
Quanto di sacrifici e di rinunce. E allora le quinte si aprono su una realtà ben differente, fatta soprattutto di determinazione e di forza di volontà per restare sempre agili e snelli. Per non parlare poi della competizione terribile cui si è costantemente sottoposti. E dello stress che si accumula per essere sempre all´altezza della situazione, per controllare il proprio corpo, per non lasciarsi andare né alla stanchezza né alla fame. Allora perché meravigliarsi se poi tante ballerine soffrono di anoressia o di bulimia? Perché negare la realtà? Un po´ come nel mondo della moda. Dove a forza di voler essere sempre più magre, tante ragazze si riducono pelle e ossa. E ormai non è un mistero più per nessuno.
Certo, non si tratta di trovare un capro espiatorio o di diabolizzare alcune professioni o alcuni ambienti lavorativi. Per certi aspetti, non è colpa di nessuno. È questo il vero dramma dell´anoressia. Nessuno costringe una ragazza a non mangiare. Nessuno la spinge nel baratro, talvolta senza fondo, della disperazione. Sono loro, le "anoressiche", che si ammalano da sole. Come disse un giorno durante un´intervista un celebre fotografo, il mondo della moda è fatto di sogni e di illusioni e nessuno vuole vedere donne rotonde; se poi alcune modelle si ammalano, è perché sono particolarmente fragili; stilisti e passerelle non c´entrano niente… Peccato che quando sbarcano nell´universo della moda o della danza, tante ragazze siano ancora delle bambine. Peccato che, per molte di loro, la "voglia di riuscire" non vada poi di pari passo con la capacità di proteggersi. Tante modelle e ballerine desiderano solo "farcela". E allora entrano in competizione non solo con le altre, ma anche con loro stesse. Cercano di far di tutto per essere stimate e apprezzate. Per diventare le migliori. E talvolta ci riescono anche. Ma a che prezzo? Ne vale veramente la pena?
Il problema, oggi, non è trovare un responsabile. È cercare una soluzione. Interrogandosi magari sul tipo di ideologia che attraversa la nostra società e che spinge al controllo e alla perfezione. Come se, per vivere, si dovesse "meritarlo". Come se, per avere del valore, si dovesse costantemente essere capaci di andare al di là dei propri limiti. Quello che cercano tante ragazze che soffrono di disturbi alimentari, è uno sguardo capace di rassicurarle sul proprio valore e sulla propria importanza. Non è solo, e banalmente, una questione di "peso", di "bellezza" e di "magrezza". È una questione di riconoscimento e di senso della vita. Ma per capirlo veramente, forse bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni profonde di questo malessere diffuso. Sulla competizione che non porta più solo su quello che si fa, ma anche e soprattutto su quello che si è. Sulla tendenza a ridurre l´essere sull´apparire. Perché è un problema che va ben oltre il mondo della moda o della danza.

Corriere della Sera 4.2.12
Berlino non deve risarcire le vittime italiane dei nazisti
La Corte dell'Aia: la Germania ha l'immunità sulle stragi
di Paolo Lepri


BERLINO — Niente più processi, niente più risarcimenti. L'Italia ha «violato il diritto internazionale» consentendo procedimenti legali contro la Germania per i massacri compiuti dai nazisti. È una sentenza chiara, quella pronunciata ieri dalla Corte internazionale dell'Aia, anche se i giudici hanno invitato le due parti al dialogo e hanno deplorato il fatto che i deportati italiani nella Seconda guerra mondiale siano stati esclusi dal piano dei risarcimenti tedeschi.
«Non è stata riconosciuta — ha detto il presidente della Corte, il giapponese Hisashi Owada — l'immunità giurisdizionale che spetta a un altro Stato sovrano». Come voleva Berlino, l'Italia dovrà prendere «tutte le misure necessarie», anche modificando la sua legislazione, perché siano prive d'effetto le decisioni della giustizia contrarie al rispetto dei principi indicati nella sentenza. Già nel luglio 2010 un ricorso presentato da Roma era stata dichiarato irricevibile. Le speranze di «vincere» erano poche.
Anche se l'edificio di mattoni rossi, in stile neorinascimentale, dove si riuniscono all'Aia i giudici dell'Onu si chiama «Palazzo della Pace», la sentenza non sembra destinata a pacificare del tutto. Anzi, può forse suscitare qualche dubbio, in un'epoca in cui si è andata sempre più affermando la dimensione «transnazionale» della giustizia. Non la pensa così il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, che dopo aver premesso che il suo governo «ha sempre riconosciuto la sofferenza» delle vittime del nazismo, ha salutato con grande favore le decisioni della Corte. «È stata confermata — ha detto — la nostra concezione del diritto sotto il profilo della immunità degli Stati. Un chiarimento non era solo nell'interesse tedesco ma piuttosto nell'interesse della comunità internazionale». Sarà così, ma la Germania (e non solo lei) temeva che il caso italiano diventasse un temibile precedente.
Il ministro degli Esteri del governo Monti, Giulio Terzi, ha espresso il suo «rispetto» per la sentenza, anche se, ha aggiunto, «non coincide con le posizioni sostenute dall'Italia». Che le decisioni dei giudici dell'Onu, comunque, non siano destinate a scatenare una guerra diplomatica tra Roma e Berlino lo si capisce non solo da queste parole pacate, ma soprattutto dal riferimento che entrambi i ministri hanno fatto al proseguimento del negoziato, peraltro raccomandato dalla Corte. Westerwelle parla però con i toni del vincitore («Applicheremo tutte le questioni inerenti a questo giudizio in collaborazione con i nostri amici italiani, in uno spirito di piena fiducia»), mentre Terzi con quelli dello sconfitto, non potendo fare altro che notare «l'utile contributo di chiarimento» venuto dal tribunale dell'Onu. Duro, invece, il giudizio del suo predecessore alla Farnesina, Franco Frattini, oggi responsabile Affari Internazionali del Pdl, secondo cui «il verdetto è una pesante frusta per tutti coloro che sono stati colpiti da quei massacri».
Il ricorso della Germania alla Corte dell'Aia era stato presentato nel dicembre 2008 due mesi dopo la sentenza della Corte di Cassazione che aveva riconosciuto il diritto di ricevere indennizzi individuali da parte del governo tedesco ai familiari delle vittime di uno dei tanti massacri compiuti dal 1943 al 1945 dai tedeschi: la strage del 29 giugno 1944 a Civitella, Cornia e San Pancrazio, in cui furono assassinate oltre duecento persone, alcune delle quali riunite nella chiesa dove si era appena celebrata la Messa. I procedimenti legali in Italia si erano avviati con il «caso Ferrini», dal nome di un deportato in Germania nel 1944 costretto ai lavori forzati. A parte il problema dei deportati italiani, che sarà oggetto del negoziato, sono molte le questioni che questa sentenza certamente non cancella. Come saranno risolte, non lo potrà mai sapere Tina Randellini, l'ultima vedova delle vittime della strage nazista del Mulinaccio, morta proprio ieri all'età di 97 anni. Il marito fu ucciso nel 1944, con altri quattordici. Non si sa ancora perché.

Corriere della Sera 4.2.12
I giuristi: «Decisione inevitabile, non si può processare uno Stato»
di Dino Messina


MILANO — È difficile parlare di formalismi giuridici quando si tratta di massacri dei civili: in questo caso di una delle meno conosciute ma più atroci rappresaglie, compiuta da un reparto della Wehrmacht in ritirata, il 29 giugno 1944, tre mesi dopo le Fosse Ardeatine, tre prima di Marzabotto. Le vittime in Val di Chiana (a Civitella, San Pancrazio, Cornia), nell'Aretino, furono 203, molte delle quali bambini, anziani, donne, adolescenti, con una proporzione di cinquanta italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani della banda «Renzino». Un criterio più duro del famigerato dieci a uno seguito all'attentato di via Rasella.
«Non c'è indennizzo sufficiente a risarcire ciascuna di quelle vittime», dice lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore del fondamentale saggio L'occupazione tedesca in Italia (Bollati Boringhieri). Eppure la Corte dell'Aia ha accolto il ricorso della Germania contro la sentenza della Cassazione che per la prima volta condannava lo Stato tedesco a risarcire le vittime delle stragi naziste in Italia.
La sentenza dell'Aia ha una spiegazione giuridica e una storica. Un tribunale interno, dice Umberto Leanza, professore emerito di Diritto internazionale all'università Roma 2, non può in alcun modo considerare responsabile uno Stato. È quel che ha fatto la nostra Corte di Cassazione ritenendo crimini internazionali le rappresaglie compiute dalle truppe tedesche in Italia dopo l'8 settembre 1943. Il crimine internazionale è una figura giuridica nata a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokyo. «Si tratta di crimini — chiarisce Leanza — che costituiscono tuttavia una eccezione all'immunità dalla giurisdizione non degli Stati ma degli organi statali che li hanno compiuti». Un criterio già seguito dai tribunali di Norimberga e Tokyo. La Corte di Cassazione italiana ha ritenuto di estendere la responsabilità allo Stato tedesco sulla base della più recente giurisdizione internazionale che equipara la violenza sui civili ai crimini contro l'umanità.
La sentenza dell'Aia è l'ultimo atto della riapertura a metà degli anni Novanta dei processi archiviati nel cosiddetto «armadio della vergogna». Con i processi si è riaperto anche un contenzioso con la Germania che si riteneva chiuso dal 2 giugno 1961, quando con due accordi bilaterali tra Roma e Bonn, la Germania riconosceva un indennizzo complessivo di quaranta milioni di marchi per le vittime italiane dei campi di concentramento. «In totale — spiega lo storico Filippo Focardi — i beneficiari furono circa dodicimila, in maggioranza deportati politici, ebrei e loro familiari. Solo mille i risarcimenti riguardanti gli internati militari, su un totale di seicentomila. Come contropartita ai risarcimenti, l'Italia garantiva la cessazione di tutte le cause contro lo Stato tedesco». Del resto la Germania riconobbe quegli indennizzi come un atto di buona volontà unilaterale, non come il riconoscimento di un diritto. L'Italia nel 1947, con il controverso comma 4 dell'articolo 77 del Trattato di Pace, aveva rinunciato a chiedere gli indennizzi per i danni dell'occupazione nazista. Faceva eccezione il diritto a chiedere la restituzione dei beni trafugati.
La sentenza dell'Aia ha dunque ribadito che l'immunità degli Stati, non solo di quello tedesco, non si tocca. «Me l'aspettavo — dice Focardi —. E da un certo punto di vista è un bene anche per l'Italia, se si considera che lo stesso tribunale internazionale ha respinto un ricorso presentato contro il nostro Stato dai parenti delle vittime della strage di Domenikon, nella Grecia centrale, dove i fanti della Divisione Pinerolo, il 16 febbraio 1943, uccisero per rappresaglia 150 civili».
Resta un dubbio: se le responsabilità dei crimini sono personali perché sedici ufficiali tedeschi condannati all'ergastolo per le stragi in Italia vivono ancora liberi in Germania?

La Stampa 4.2.12
La paura dei governi: dover pagare per i reati dei militari
Una sentenza favorevole all’Italia poteva scatenare milioni di cause
di Paolo Mastrolilli


Dietro le quinte dell’austera Corte dell’Aja si è giocata una partita dura, in cui erano in ballo gli interessi di molti Stati. Il vero punto, purtroppo, non erano le recriminazioni indiscutibili delle vittime della violenza nazista, ma l’interesse di parecchi Paesi a evitare di finire nei tribunali stranieri per i reati commessi dai loro soldati all’estero.
Chi ha seguito da vicino il dibattimento, ha avuto subito l’impressione che la sentenza non fosse proprio segnata, ma quasi. L’elemento in discussione non erano le colpe della Germania, storicamente riconosciute dallo stesso governo tedesco, che ritiene di avere già adempiuto ai suoi obblighi di risarcimento. Il problema giuridico era il tema dell’immunità. In generale, la giurisprudenza esistente in materia afferma che uno Stato è responsabile per i torti commessi all’estero e può essere portato in tribunale. Lo dice ad esempio la United Nations Convention on Jurisdictional Immunities of States and Their Property, all’articolo 12: «A meno di accordi diversi tra gli Stati coinvolti, uno Stato non può invocare l’immunità dalla giurisdizione davanti alla corte di un altro Stato, che è altrimenti competente in un procedimento relativo alla compensazione pecuniaria per la morte o il ferimento della persona, o il danno e la perdita tangibile di proprietà, causata da un atto o una omissione attribuibili allo Stato, se sono avvenuti interamente o in parte nel territorio dell’altro Stato».
Basti pensare a quello che è avvenuto nei confronti della Libia per Lockerbie. La Corte, però, ha deciso che questo principio non si applica ai reati commessi dai militari, e quindi ha concesso alla Germania l’immunità. La scelta, fra l’altro, è stata motivata dal fatto che gli autori della Convention on Jurisdictional Immunities avrebbero inteso escludere i comportamenti dei soldati fin dal principio, perché altrimenti si sarebbe aperta la porta a milioni di potenziali cause che avrebbero ingolfato le corti di mezzo mondo. Dietro a questo ragionamento, però, c’era soprattutto l’interesse di molti paesi potenti ad evitare il rischio di essere citati nei tribunali stranieri per i reati commessi dai loro militari all’estero. Per certi versi, è la stessa ragione per cui gli Usa non sono mai entrati nella Corte Penale Internazionale.
Anche volendo accettare questa giustificazione pratica, il caso in discussione era molto particolare. Non si trattava solo di reati, ma di crimini contro l’umanità commessi dai nazisti e riconosciuti universalmente. Quindi si poteva trovare il coraggio per una soluzione più creativa. La ragione politica però ha prevalso, fin dalle prime ore del dibattimento.
Ora resta aperto uno spiraglio legato al paragrafo 104 della sentenza, che in maniera volutamente vaga lascia aperta la possibilità di future trattative. Germania e Italia potrebbero ancora sedersi al tavolo per riconoscere qualche risarcimento alle vittime. Sul piano legale non si metterebbe in discussione l’interesse degli Stati ad evitare i processi all’estero per i reati militari, ma almeno sul piano storico si farebbe giustizia.

Corriere della Sera 4.2.12
«Bruciarono la casa poi uccisero papà. Sarebbe bastato un euro a famiglia»
di Andrea Pasqualetto


MILANO — La televisione che va, la notizia sulle stragi e lei, la signora Maria Luisa, che non può evitarla: «Mi sono sentita male, ancora una volta». Quella mattina, Maria Luisa Paini aveva due anni. Era il 20 marzo del 1944, il giorno dell'eccidio di Cervarolo: 24 uomini fucilati nell'aia del paese. Lei in braccio alla mamma, a un passo dall'orrore: «Stavamo andando lì, dove volevano uccidere il nonno e il papà. Il tedesco mi ha preso, mi ha messo a testa in giù per ammazzarmi. Allora la mamma disse: prima me e poi lei. Un altro nazista si è fatto largo e ha ordinato di lasciar stare altrimenti avrebbe ucciso il commilitone». Lei si salvò ma di lì a poco spararono molti colpi e sotto quel piombo caddero anche il papà quarantunenne e il nonno di settantadue, quasi l'età di Maria Luisa. Non riesce a dire altro, a distanza di quasi settant'anni. Non ce l'ha con giudici della Corte internazionale dell'Aia. No, è il ricordo: «Mi succede tutte le volte che sento parlare di stragi, qualsiasi strage. Tutte le volte che vedo del fumo fuori... mi prende il panico. Forse perché quella volta bruciarono anche la casa. Mi scusi ma preferisco mettere giù». Così l'allora bimba di Villa Minozzi, oggi casalinga, un figlio e una vita segnata dalla fucilazione dell'aia.
Per la strage di Cervarolo e per quelle dell'Appennino tosco-emiliano, diciotto massacri per 350 vittime civili, sono stati condannati all'ergastolo sei nazisti della Panzer-division «Hermann Goering», il reparto speciale tedesco che nel marzo del 1944, battendo in ritirata dopo la rottura dell'alleanza fra Italia e Germania, mise a ferro e fuoco borghi e paesi. Con la signora Maria Luisa c'è Loretta Righi, che aveva nove anni e abitava proprio di fronte al comando provvisorio nazista. Perse il nonno: «Remigio Fontana, io sono la figlia della Santina che la scampò», tiene a ricordare. È indignata: «Entrarono in casa con le bombe a mano, spararono alle galline, razziarono e mangiarono e io e mia nonna eravamo chiuse in un angolo, terrorizzate. Mentre il nonno non è più tornato. Dalla Germania non volevo i soldi ma che fosse riconosciuto il grande danno per tutti noi e invece la Germania l'ha vinta ancora una volta».
L'avvocato Roberto Alboni, invece, non vide cosa successe sulle colline appenniniche di Civitella, Cornia e San Pancrazio, in provincia di Arezzo, il 29 giugno di quell'anno, quando i tedeschi trucidarono 203 conterranei. Ma siccome lì ha perso il nonno «mentre stava andando in bicicletta al molino a prendere il grano» e siccome «quella scomparsa ha rovinato la vita della mia famiglia, che prima stava bene e poi è rimasta senza nulla», allora ha deciso di rappresentare i parenti delle vittime e soprattutto i suoi: «Un milione ho ottenuto per i congiunti di mio nonno. Nel senso che i giudici hanno sentenziato questa provvisionale: 200 mila euro per ogni figlio». E ora che l'Italia ha perso? «Io non dispero, anzi. Mi sono già letto le motivazioni e mi sembra che i giudici invitino i due Paesi a risolvere la questione per via extragiudiziale, in forma pattizia. Andrò avanti».
Ma, di certo, rimane il principio. Come riconosce il procuratore capo militare di Roma, Marco De Paolis, il magistrato che da La Spezia ha dato un forte impulso ai processi per le stragi naziste commesse dal settembre del 1943 al maggio 1945, riaprendo molti fascicoli rimasti a ingiallire nel cosiddetto «armadio della vergogna» del capitolino palazzo Celsi: «I processi vanno avanti ma sicuramente non potremo più condannare la Germania come responsabile civile. Con il riconoscimento della responsabilità dei nazisti, la Cassazione aveva stabilito un principio innovativo ma è chiaro che in una materia tanto delicata come il diritto internazionale, dove hanno grande peso gli usi e le consuetudini, serve più tempo». Il suo collega padovano, Sergio Dini, anche lui impegnato in passato a scavare negli eccidi nazisti in Veneto, sospira: «Qual è il limite di questo diritto? L'Italia si deve far carico forse delle colpe degli antichi romani?». De Paolis: userebbe il buon senso: «Direi di guardare ai parenti in linea diretta, sopravvissuti. Finché sono in vita possono chiedere i danni».
Rimane la profonda amarezza del sindaco di Marzabotto (oltre 800 morti) Romano Franchi, che ne fa una questione morale e umana: «Già, ma la ragion di Stato ha prevalso ancora una volta». Idealmente gli stringe la mano da Cervarolo il dottor Italo Rovali che perse un bisnonno e un nonno e che riconosce di aver vissuto in funzione di quel sangue: «Per questo motivo ho voluto una laurea in giurisprudenza, per questo ho guidato il comitato dei familiari, per questo ho studiato diritto internazionale. E ora dico: sentenza politica». Gli sarebbe bastato un inchino della Germania, dice: «Bastava che qualcuno dell'ambasciata venisse qui a dare, chessò, un euro a ogni famiglia delle vittime. Era sufficiente: altro che chiedere l'immunità».
Alla signora Loretta forse non sarebbe bastato: «Ho una scossa tutte le volte che mi viene qualcuno da dietro, come quel nazista a casa mia».

il Fatto 4.2.12
Quei “matti” al gelo nei container
Genova, nella struttura psichiatrica di Cogoleto vivono ancora venti persone
di Ferruccio Sansa


Genova Noi matti non facciamo blocchi stradali, non andiamo in tv, non contiamo alle elezioni. Così da tre anni viviamo nei container. E adesso con il gelo si bloccherà come sempre il riscaldamento e c’è un freddo della Madonna”. Luigi, lo chiameremo così, cammina tra i fiocchi di neve. È eccitato per questo evento che rompe la monotonia disperante della sua vita. Siamo sottozero, il freddo lo senti in ogni muscolo. Cogoleto fino al 1978 era uno dei più grandi manicomi d’Italia. Qui vivevano 3mila persone, con cinema, chiesa, fattoria e officine. Una città isolata dal mondo, un concentrato di sofferenza. Oggi i padiglioni sono vuoti: 20 degli ultimi 48 ospiti vivono nei container. Doveva essere una sistemazione provvisoria, al massimo un anno e mezzo. Invece ecco il freddo siberiano e gli ospiti di Cogoleto sono ancora nei container dove d’estate batte un sole implacabile e d’inverno, questo è il quarto, fa un freddo cane (“Ho misurato 12 gradi”, assicura Luigi). “Ieri si è bloccato di nuovo il riscaldamento. Hanno portato i caloriferi elettrici”, racconta un dipendente. Per non dire dell’acqua che gela e lascia gli ospiti a secco. E ancora: “Quando piove si allaga tutto. Un anno fa hanno dovuto evacuarci di notte”, ricordano gli ospiti.
IL MANICOMIO di Cogoleto fu costruito su un altopiano, la vista va dalla Spezia a Ventimiglia. Difficile, però, dire se questo spettacolo sia fonte di gioia o di dolore per chi vive separato dal mondo. Erano disumani i manicomi del passato, ma l’imponenza delle strutture di inizio ’900 rivela quante risorse fossero destinate ai malati. Oggi lo Stato taglia e i pazienti psichiatrici finiscono nei container. Davanti al prefabbricato di Cogoleto sventola il tricolore. E non sai se quella bandiera testimoni la resistenza degli ospiti e del personale o se sia il simbolo della resa della nostra sanità. Nelle stanze l’arredamento degli ospedali si mischia con mobili che i malati si sono portati da casa. La Riviera con le sue luci è a due passi, ma quassù sembra di essere in una fortezza Bastiani che resiste a un nemico invisibile. Si vive nei prefabbricati, con il personale che c’è. Qualcuno ricorda: “I Nas hanno detto che devono esserci sempre degli infermieri, ma ci sono 6 infermieri per 3 turni e 7 giorni la settimana”. Ma come è potuto succedere? Mancano i soldi. Nel bilancio ligure, come in tante Regioni, si aprono voragini. Così il patrimonio delle Asl è stato “cartolarizzato”.
NEL 2006 sono andati all’asta 390 cespiti, un tesoro che comprendeva i due storici ospedali psichiatrici: Cogoleto e Quarto, con gli enormi padiglioni che sul mercato del mattone valgono oro. “La Regione ha incassato 203 milioni”, raccontò l’assessore alla Sanità, Claudio Montaldo (Pd). Comprò Valcomp, società del gruppo pubblico Fintecna: “Centoventi andranno per ripianare il debito, gli altri saranno destinati a nuovi macchinari e agli ospedali”, promise il governatore Claudio Burlando. Un’operazione che a qualcuno parve una partita di giro per cancellare i debiti dal bilancio. E ad altri invece sembrò l’ennesima resa al mattone, in una regione dove tutto viene trasformato in case: ospedali, manicomi, colonie e oratori. È il destino di Quarto (a pochi passi dal centro), con i suoi padiglioni dall’architettura splendida anche se custodiscono una memoria terribile.
La collina del manicomio era uno dei polmoni verdi di Genova. Siamo accanto al Gaslini. Nel 2004 l’allora governatore Sandro Biasotti (Pdl) annunciò che qui sarebbe sorto l’Istituto italiano di tecnologia (Iit). Arrivò il ministro Letizia Moratti. Poi l’Iit andò da un’altra parte. Quarto è stata venduta per fare posto alle immancabili case. E i 200 ospiti? Dovranno andarsene. Per adesso vivono tra padiglioni e strade, chiusi, cintati da reti. A Cogoleto gli ospiti andranno in due padiglioni in corso di ristrutturazione, il resto saranno case e imprese.
SPERANDO che il nuovo piano regolatore non riversi su questa collina altro cemento, come avverrà in paese dove la fabbrica Tubi Ghisa sarà trasformata in 800 appartamenti: uno dei soci che hanno lanciato il progetto oggi è latitante. Corra-do Bedogni è il nuovo direttore generale della Asl 3 genovese che gestisce le strutture: “Capita spesso in Italia, una gara, un ribasso del 40% e il seguito di eccezioni e ricorsi. Così i lavori si sono fermati. Ma entro ottobre i padiglioni saranno pronti”. Con un paradosso: la Regione spenderà 4 milioni per rimettere a posto i due padiglioni destinati ai pazienti, ma ne avrà la concessione solo per vent’anni. Poi chissà. Intanto ieri eravamo sottozero. Davvero quel tricolore strattonato dalla tramontana gelida è il simbolo dell’Italia. Anche nel male.

La Stampa 4.2.12
Nella Tunisia dei salafiti “Velo, lavoro e preghiera”
Sejnane sembra un emirato: imam fanatici e ronde anti-peccatori
di Domenico Quirico


SEJNANE. È il modo in cui lo dicono che preoccupa, che mette in guardia. «Gli islamisti? tutto va bene, sono moderati, ragionevoli. Fanno le loro prove al potere». Però la voce si abbassa, e si guardano attorno, il segno di una segreta geografia spirituale che sta germogliando. Poi un amico, un tunisino gauchiste, di quelli che si sono sempre destreggiati con spirito e dignità per la laicità, visto che la democrazia era loro vietata proprio dal dittatore amico della Francia, mi ha suggerito «vai a dare una occhiata a Sejnane, il primo emirato salafita, vedrai cosa diventerà il Nord Africa tra un po’, li hanno già il veleno dell’islamismo nel sangue. A Sejnane ormai comandano loro». Sabato lui è andato in piazza a Tunisi per gridare «non rubateci la rivoluzione».
Non davano, i manifestanti, una impressione di energia; semmai c’era nella loro dedizione qualcosa dell’atteggiamento di coloro che preparano nei particolari il proprio funerale, dirigono la costruzione della propria tomba. La morte di un sogno non è meno triste della vera morte e lo sconforto di coloro che lo hanno perduto è profondo come un lutto. Quando ho visto l’imam di Sejnane ho pensato a quei preti giovani appena usciti dal seminario che popolano i romanzi di Bernanos, perduti tra le miserie del mondo a cercare di dipanare l’intricato gomitolo del peccato e della grazia. Ajemmen ha occhi obliqui da gatto malandrino, e dimostra ancor meno dei suoi 22 anni. In città raccontano che lo hanno imposto i salafiti, con le brusche, dopo aver cacciato il predecessore « c o m p r o m e s s o con la dittatura». L’imam indossa sul barracano la mimetica e si muove nell’ombra di un manipolo di piissimi con muscoli e grinte da lottatori. La sua moschea vigila un paesaggio di colline eteree dalla luce incontaminata del sole e dalla dolcezza soprannaturale del verde che sboccia in dicembre. Ma la città, 50 mila abitanti, è zeppa di disoccupati e di bambini, e un’aria di rovina e di vecchiaia che sembra consumarli.
Una volta c’erano due miniere, ferro e piombo, adesso sono chiuse, le cicogne, a centinaia, fanno i nidi sulle impalcature arrugginite. Qui anche il miracolo dell’acqua è un miracolo pieno di sé. «Serve per dissetare le grandi città, e a noi resta troppo poca per irrigare queste terra magra che subito fa grumo e spacca le radici». La disoccupazione giovanile è all’80 per cento, ci sono settecento laureati senza lavoro. Abderrauf si è diplomato tre anni fa in informatica, lavora tre mesi l’anno quando va bene per la raccolta della frutta; poi c’è il caffè dove i giorni scivolano via come la spuma di una cascata. Alle elezioni la gente ha votato in massa per Ennahda, l’islamismo conservatore che è sembrato ai poveri il meno compromesso con i furti del regime di Ben Ali, l’unico che offrisse una vera alternativa. Dopo la rivoluzione la città è stata, per mesi, abbandonata a se stessa, la polizia e la guardia nazionale non facevano più paura, il sottoprefetto si è rifugiato a Biserta e il suo ufficio è occupato dai disoccupati che invocano posti nella amministrazione pubblica. Sono aumentati, nella miseria, furti, violenze, scontri tra clan. E allora i vigilantes salafiti hanno iniziato a pattugliare le strade, a ammonire le teste calde e gli ubriachi, hanno «arrestato» alcuni ragazzi che avevano rubato dei video giochi. E sottovoce c’è chi racconta di interrogatori e punizioni brutali per i «peccatori» nelle cantine di un municipio di quartiere, semi-bruciato durante la rivoluzione e diventato il quartier generale delle squadre di fanatici. Ma i salafiti usano anche altre armi, distribuiscono vestiti e cibo alle famiglie povere, e bombole del gas che i gestori del mercato nero vendono a prezzi elevatissimi approfittando degli scioperi che bloccano le raffinerie. Racconta la «coiffeuse» che ha il negozio in pericolosa prossimità della moschea. Qui i giovani barbuti, con l’aria annoiata da attori disoccupati, controllano che i passanti si fermino devotamente a leggere i grandi poster colorati nuovi di zecca affissi al muro di cinta: che invitano a portare il niqab, il velo integrale, («ti protegge dallo sguardo degli uomini e ti porta in paradiso»), a non violare l’obbligo della preghiera e soprattutto a evitare le lusinghe della magia nera. Con efficaci foto e vignette sono esemplificate tutte le astuzie, filtri, formule, oggetti, di fattucchiere maghi e marabutti. Non sono a Sejnane che poche decine, ma rastrellano i giovani sfiduciati, li portano alla preghiera. Scavano nel disastro economico, perché ai borghesi di Tunisi la rivoluzione ha dato il diritto di parola e forse può bastare. Ma ai poveri che chiedevano pane e lavoro niente. È un caso se a Kasserine, nel Sud, dove la rivoluzione è nata, il presidente Marzouki non abbia potuto pronunciare un discorso a causa delle contestazioni?
Un vecchio che esce dalla preghiera guarda beffardo i devoti con l’aria guappa: «I sermoni dell’imam e i suoi di Corano sono quelli di un ignorante nella dottrina. Peccato tu sia venuto solo ora. Un mese fa questi devoti li avresti trovati al bar, ubriachi».
Anche nel grigio sporco della periferia Nord di Tunisi c’è un’oasi verde, il campus della università di Manouba, facoltà di Lettere, è un simbolo della resistenza al vecchio regime. Anche qui i salafiti sono al lavoro. Il campus è stato chiuso dal sei dicembre per 37 giorni a causa delle incursioni degli integralisti che esigono per le ragazze che portano il niqab, sempre più numerose, il diritto di potere presentarsi agli esami. Le studentesse coperte dal barracano sfarfallano tra loro, in piccoli gruppi, si vedono solo occhi a scimitarra e ciglia lunghe come spade. Non parlano con uomini. Parlano, per loro, i compagni maschi, e molto. Abdelkader Hechmi è il capo, studente di magistero, un ragazzo, ma c’è in lui qualcosa di inesprimibilmente vecchio, di pietrificato: «Qui viene violata la legge, ci sono degli estremisti di sinistra, laicisti fanatici alla francese che vietano alle nostre compagne di studiare. Scontri? Violenze? Tutte bugie e propaganda dei giornali. Anche a Cambridge le studentesse possono passare gli esami velate. Quante sono? Decine, sempre di più, perché prima se indossavi il velo finivi in galera». Nelle scuole medie studenti pii hanno iniziato a contestare i corsi di disegno e trattano gli insegnanti da eretici.
Forse sono casi singoli come ripetono le autorità, ma guardare in luce e in controluce, prima che sia tardi. Ma duemila salafiti hanno accolto una delegazione di Hamas al grido di «morte ai giudei». In Tunisia ne restano ancora un migliaio, i superstiti di un’epoca di rara tolleranza. E poi c’è Cheick Sadok Chrourou, eletto alla Assembla costituente nelle file di Ennadha. Ha passato gli ultimi venti anni in prigione per la sua fede, non l’hanno piegato le torture, è uscito solido come una roccia, temprato nell’acciaio. Ha chiesto in Parlamento che contro gli scioperi che bloccano la produzione ora che governa il partito di dio venga applicata la punizione enunciata nel verso 33 della sura quinta del santo corano che raccomanda di «uccidere crocifiggere e tagliar le mani e le gambe ai miscredenti che dichiarano guerra a Dio e al suo profeta».
E che dire di Souad Abdessalum, l’unica donna capolista di Ennadha, svelata, l’islamista in Dior che incantava i giornalisti occidentali con il suo sorriso appena accennato, leonardesco? Ha inveito contro le madri celibi, definendole «una infamia».

La Stampa 4.2.12
“Il governo difenderà la democrazia Estremisti da punire”
Il premier Jebali. “L’Ue ci aiuti a far ripartire l’economia”
di Marco Zatterin


«Non siamo la Somalia», assicura Hamadi Jebali, premier tunisino da metà dicembre, un uomo alto col pizzetto bianco, la corporatura robusta e la stretta di mano sincera. «È vero - ammette - sono in corso tentativi di destabilizzazione operati da minoranze islamiste. Siamo sempre intervenuti rapidamente: non tollereremo alcuni tipo di aggressione e prevaricazione in nome di qualunque fede religiosa». Il nuovo Stato sbocciato dalla Primavera araba, assicura, «ha una impronta musulmana che non ne incide la natura profondamente laica. Non può accettare alcuna sovranità che non sia quella espressa dalla sua Costituzione democratica».
Jebali è giunto a Bruxelles per un primo contatto con l’Unione europea, dalla quale si attende sostegno politico e finanziario. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, gli ha garantito un rapido accesso ai 400 milioni stanziati alla voce «cooperazione» per il periodo 2011-13. Catherine Ashton, alto rappresentate per la Politica estera, promette di dargli una mano per raccogliere consensi e investimenti. Il tunisino, 63 anni di cui 15 passati in prigione per motivi politici, ne ha un bisogno disperato. «Non c’è democrazia senza crescita», ha spiegato incontrando un gruppo ristretto di giornali europei, fra cui La Stampa.
Presidente, il nostro inviato a Sejnane è testimone di tentativi di instaurare la legge islamica. I salafiti vi sfidano. Controllate il Paese?
«Completamente. Siamo un governo legittimamente eletto e rappresentiamo il popolo. Per questo dobbiamo opporci ai tentativi di destabilizzazione operati dai movimenti islamici e bolscevichi. Sappiamo dove prendono le armi, dobbiamo difendere i cittadini. Noi siamo orgogliosi della nostra appartenenza islamica. La difenderemo così come proteggeremo i diritti garantiti dalla democrazia».
Esiste la possibilità di una ripresa dei colloqui per un’Unione maghrebina?
«C’è chi ha paura di vedere la Tunisia perdere interesse verso il Maghreb a vantaggio del Mashrek. Non succederà. La nostra strategia è ispirata da legame mediterraneo e quello con l’Europa. Desideriamo un’alleanza stabile con l’Ue per porre fine alle minacce di ciò che chiamano «lo scontro fra le civiltà». Lady Ashton mi ha annunciato l’arrivo imminente di una missione europea a Tunisi. Vogliamo discutere di sviluppo e nuovi orizzonti. Di scambi e libera circolazione. Fra noi e con l’Europa».
Parliamo di minacce. La situazione in Siria può far saltare il mondo arabo?
«Non si tratta coi dittatori, un Paese democratico non può accettare un regime. Ciò non toglie che la diplomazia deve essere pragmatica, il confronto non si interrompe, è stato lo stesso con Gheddafi. La pressione deve essere costante. Il regime siriano va nella direzione sbagliata. Noi sosterremo il processo di autodeterminazione nella regione. Detto questo, bisogna considerare che un intervento diretto potrebbe essere una trappola».
L’Unhcr stima che nel 2011 sono affogate nel Mediterraneo 1500 persone che sognavano l’Europa. Li fermiamo?
«La lotta ai flussi illegali è una priorità. Vogliamo esportare risorse, non uomini disperati. Ci sono parecchie soluzioni a cui stiamo lavorando, non solo la sicurezza. Lo sviluppo economico è fondamentale. La crescita richiede stabilità e la stabilità esige un equilibrio sociale che si ottiene col sostegno all’economia. Dobbiamo puntare sul lavoro, sul sostegno alle piccole imprese e sul microcredito, sulle riforme strutturali. Sette anni e un miliardo. Non è un prezzo alto per la Tunisia e la democrazia».

La Stampa 4.2.12
Il Washington Post svela il giudizio del capo del Pentagono Panetta. Lui No comment
“Israele attaccherà l’Iran in primavera”
Khamenei risponde: se saremo aggrediti, sarà peggio per gli Usa
di Maurizio Molinari


Il capo del Pentagono Leon Panetta prevede che Israele attaccherà l’Iran fra aprile, maggio e giugno, innescando da Teheran la replica di Ali Khamenei: «Se verremo aggrediti vi saranno conseguenze negative per gli Stati Uniti».
A rivelare il pensiero di Panetta è David Ignatius. L’editorialista del Washington Post è a Bruxelles a seguito del ministro della Difesa Usa e in un suo articolo scrive: «Panetta ritiene che sia molto probabile un attacco di Israele contro l’Iran in aprile, maggio o giugno, prima che l’Iran entri in quella che gli israeliani definiscono una " zona di immunità" dove poter cominciare a costruire la bomba nucleare». Tale «zona di immunità», spiega Ignatius citando Panetta, è legata al fatto che per Israele «gli iraniani avranno presto immagazzinato sufficiente uranio arricchito a grande profondità sotterranea per poter costruire la bomba ed a quel punto solo gli Stati Uniti potranno fermarli militarmente».
Israele teme dunque di perdere la propria deterrenza militare nei confronti dell’Iran e poiché la sua strategia di sicurezza nazionale si basa, dalla fondazione nel 1948, sull’autosufficienza, l’attacco sta per avvenire. Bersagliato di domande dai reporter sull’articolo del Washington Post, Panetta ha evitato di smentirlo limitandosi a dire «non faccio commenti». Aggiungendo però che «Ignatius può scrivere ciò che vuole ma quello che penso e credo rientra in un’area che appartiene solo a me stesso». Non si può escludere che le frasi di Panetta riportate da Ignatius siano frutto della recente visita a Washington di Tamir Pardo, il capo del Mossad. A svelare i colloqui segreti avuti da Pardo è stata Dianne Feinstein, presidente della commissione Intelligence del Senato, affermando durante un’audizione sull’Iran di averlo incontrato così come ha fatto David Petraeus, capo della Cia.
Nel corso di questa audizione, avvenuta mercoledì, il direttore nazionale dell’intelligence James Clapper ha avvalorato l’avvicinamento dell’Iran all’atomica: «I progressi tecnici, soprattutto nell’arricchimento dell’uranio rafforzano la nostra valutazione che l’Iran ha le capacità scientifiche, tecniche e industriali per produrre armi nucleari, dunque la questione centrale è la sua volontà politica di farlo». Proprio tali progressi tecnici sono stati al centro della visita in Israele di Martin Dempsey, capo degli stati maggiori congiunti, per colloqui con Ehud Barak, ministro della Difesa, sugli scenari militari relativi ad un eventuale attacco contro il programma nucleare iraniano. La maggiore preoccupazione di Washington riguarda la possibilità che Teheran reagisca lanciando attacchi, terroristici e missilistici, contro le truppe Usa dispiegate nel Golfo Persico oppure chiudendo la navigazione attraverso gli Stretti di Hormuz.
Ad avvalorare tali timori ci ha pensato ieri Alì Khamenei, il Leader Supremo della Repubblica islamica dell’Iran, affermando: «Attaccare l’Iran nuocerà all’America, in risposta alle minacce di embargo petrolifero e guerra noi abbiamo le nostre minacce per imporci al momento giusto». La terminologia, adoperata nel contesto del discorso del venerdì ai fedeli sciiti, mira a ribadire che l’Iran si sente in grado di lanciare una risposta militare se verrà attaccato. «Non ho paura di affermare che sosterremo e aiuteremo ogni nazione o gruppo che si vuole battere contro il nemico sionista», ha aggiunto Khamenei con un riferimento agli Hezbollah libanesi, il cui leader Hassan Nasrallah ha più volte affermato di disporre di un arsenale missilistico capace di colpire tutte le città israeliane, inclusa la metropoli di Tel Aviv.
Sui venti di guerra che spazzano il Medio Oriente è tornato a parlare Panetta in serata dalla base di Ramstein in Germania: «In questo momento la cosa più importante è mantenere l’unità della comunità internazionale per convincere l’Iran a non realizzare l’atomica, ma se loro faranno altrimenti noi abbiamo tutte le opzioni sul tavolo e saremo pronti a rispondere se dovremo farlo».

La Stampa Tuttolibri 4.2.12
Lombroso, il bernoccolo della giustizia
Scoperte in tema di libero arbitrio, e sfiducia nella pena di stampo illuministico inflitta al delinquente
L’autore di un crimine è meno responsabile di quanto si pensi ma deve essere punito per tutelare la società
di Oddone Camerana


Il classico Il «manuale» del criminologo che avviò la riforma penale dell’Ottocento
Cesare Lombroso  L'UOMO DELINQUENTE STUDIATO IN RAPPORTO ALL'ANTROPOLOGIA, ALLA MEDICINA LEGALE ED ALLE DISCIPLINE CARCERARIE a cura di Lucia Rodler pil Mulino, pp. 437, 33
Cesare Lombroso (1835–1909) è stato il padre della moderna criminologia

Come emerge subito dal titolo, L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina ed alle discipline carcerarie il libro più celebre di Cesare Lombroso non è un pamphlet, ma una ricerca. Un’indagine scritta per far luce sul protagonista centrale della giustizia: l’autore di un crimine. Ricerca messa a disposizione di coloro che sono incaricati di decidere della sua sorte. «Un manuale pronto all’uso», come lo definisce la curatrice della presente riedizione. Scopo del libro è stato, infatti, quello di avviare una riforma penale che tenesse conto sia delle scoperte compiute in tema di libero arbitrio sia della sfiducia nei riguardi della pena inflitta ai fini educativi di stampo illuministico, riconoscendone invece l’efficacia solo ai fini della difesa della società.
Quando parliamo di un delinquente con chi abbiamo a che fare? Di che tipo di soggetto si tratta? Quanto è responsabile dell’azione per cui è oggetto di giudizio? Domande semplici alle quali il nostro criminologo, siamo nel 1876, ha dato una risposta univoca. Quella contenuta nel termine di atavismo. Secondo la teoria racchiusa in questa formula, che rimanda a una supposta regressione allo stato primitivo, l’autore di un crimine sarebbe meno responsabile di quanto si pensi. Questo non vuol dire che non vada punito, ma che, se lo si punisce, è perché è la società nella sua totalità che va tutelata. La pena, pertanto, non è tanto giusta in nome di un concetto astratto di giustizia, quanto necessaria.
A giudicare dalla ripubblicazione della sua opera più celebre e di altre, tra cui nel 2009 La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, scritta con G. Ferrero nel 1892 e dalla recente riapertura torinese del Museo di Antropologia Criminale a lui dedicato, ci si chiede se ci troviamo di fronte a una riscoperta del grande criminologo veronese trapiantato a Torino. La risposta è positiva se la si intende come un’attenzione verso la società italiana del XIX secolo la cui identità Lombroso ha cercato di descrivere, mentre è negativa nel caso in cui si pensi che le teorie sull’atavismo siano nel frattempo cadute nell’oblio. E’ vero il contrario. C’è, infatti, un Lombroso che non è mai scomparso. Un Lombroso popolaresco, di superficie ed equivocato che, letto in modo giustizialista e vendicativo vorrebbe il ritorno di un concetto di pena come risorsa compensativa, concetto che Lombroso aveva invece osteggiato.
Il Lombroso rimasto è quello rappresentato dalle lettere che arrivano ai quotidiani, lettere i cui autori di fronte certi crimini chiedono di vedere le facce dei colpevoli. «Vogliamo i nomi dei criminali, le facce sui giornali; vogliamo guardarli secondo la fisiognomica, vedere se assomigliano ai maiali, agli sciacalli, agli avvoltoi». Ecco dunque riemergere l’insopprimibile bisogno di vedere la faccia del criminale, la voglia di incrociare il suo sguardo, sentito in modo speciale dalla vittima o dai suoi superstiti, la tentazione di poter penetrare nel mistero del male, di cogliere il segno esteriore del crimine nascosto nel corpo, sentimenti questi che stentano a scomparire e che fanno pensare a come si possa essere senza saperlo lombrosiani in senso deteriore. Del resto già nel Cinquecento lo scienziato e commediografo napoletano Giacomo della Porta e poi nel Settecento il teologo e frenologo svizzero J. K. Lavater pensavano in modo lombrosiano. L’idea che le facce fossero come un libro da leggere era una convinzione operante. Ma saranno Lombroso e gli studi compiuti nella sua epoca a cercare di dare dignità scientifica al pregiudizio in questione, di vedere identità e continuità tra l’aspetto esteriore e l’interiorità, tra i tratti del volto e le predisposizioni del carattere, tra gli indizi esterni e le condizioni mentali di un soggetto in esame. Spiegare biologicamente e anatomicamente il crimine, questa sì è stata la novità del secolo lombrosiano, il risultato delle osservazioni e delle classificazioni contenute in L’uomo delinquente, nelle oltre duemila pubblicazioni lombrosiane, nonché nell’«Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali» della rivista della nuova scuola. E lì che il prognatismo accentuato, l’angolo abnorme del profilo di un volto, le mandibole sviluppate, gli zigomi sporgenti, le orecchie deformate, i sopraccigli troppo contigui e altre particolarità escono dal descrittivo aneddotico e familiare per assumere la rilevanza di una possibile prova, il peso di un indizio. Incubi scomparsi, restati ciononostante nel linguaggio corrente come ad esempio quel «bernoccolo degli affari» che non si sa bene che cosa sia ma di cui non si esclude l’esistenza. Ma attenzione: molti di coloro che considerano archeologia grottesca le tesi lombrosiane sono poi quelli che si bevono gli annunci sulle cause genetiche dei comportamenti. Tra la scoperta della fossetta occipitale sulla fronte del criminale lombrosiano e la scoperta del gene dell’adulterio o quello della menzogna non c’è molta differenza. Come non c’è molta differenza tra il piede gonfio che contrassegnava la colpa di Re Edipo e il Dna che smaschera lo stupratore. Tra Sofocle e Craig Venter, il genetista scopritore del genoma, c’è continuità.

La Stampa Tuttolibri 4.2.12
Mi sorge un dubbio: ma so ancora dubitare?
Religioni Il saggio di Peter Berger sullo smascheramento dei fanatismi di ogni genere, dagli integralismi ai relativisti
Il punto di partenza è un’antica convinzione: non si sradica il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo
di Franco Garelli


Peter Berger, Anton Zijderveld ELOGIO DEL DUBBIO Il Mulino, pp.152, 14

In tutta la sua vita di grande studioso dei fenomeni religiosi, Peter Berger - oggi professore emerito della Boston University, autore di libri famosi come Il brusio degli angeli, L’imperativo eretico, Questioni di fede - ha fatto un costante esercizio di equilibrio, di conciliazione tra opposti, di una ricerca di senso che rifugge sia dalle semplificazioni sia dalle visioni ideologiche della realtà. Non tanto, ovviamente, per il gusto della moderazione o del compromesso, ma perché convinto che dietro le posizioni estreme in campo religioso si nasconda la non accettazione della condizione moderna.
Tra i punti qualificanti del suo lavoro vi è certamente lo smascheramento dei fanatismi di ogni genere, che nella modernità avanzata assumono volti diversi e contrastanti: dalle chiese e dai fedeli che predicano un’ortodossia acritica (più attenta ai dogmi che alla vita) a quanti in nome della ragione e della scienza negano valore alla ricerca di fede; dai musulmani che perseguitano i cristiani agli occidentali che impugnano la croce contro gli immigrati islamici; per non parlare delle scomuniche reciproche che gruppi di fedeli di orientamento diverso si lanciano sui temi della famiglia, dell’aborto, della bioetica. Orientamenti radicali o assoluti, dunque, il cui fondamentalismo è alla base dei conflitti che agitano oggi il mondo su molte questioni etiche e religiose.
Proprio a questi temi, Peter Berger ha dedicato il suo ultimo libro, scritto insieme a Anton Zijderveld, dal titolo emblematico Elogio del dubbio, ora tradotto in Italia da Il Mulino. Si tratta di una sintetica e accattivante «summa» del suo pensiero, rivisitata alla luce dei fenomeni emergenti in questo campo.
Il punto di partenza rispecchia un’antica convinzione di Berger. La modernità non sradica necessariamente il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo, pur modificando il suo modo di stare e di orientarsi nell’universo. Oggi non si vive più in un mondo di destino, ma di scelte, che si affermano anche nel campo religioso. Così, il credere non è più dato per scontato o un tratto ereditato, ma diventa sempre più un oggetto di preferenza; parallelamente, nella società aperta anche la verità religiosa tende a perdere il suo carattere esclusivo e assume validità in rapporto all’ambiente. La modernità dunque pluralizza e relativizza, ci rende consapevoli che il mondo è abitato da molte concezioni di verità e di salvezza, che ogni società e cultura ha i suoi percorsi di significato.
Molti tuttavia non accettano una pluralità che destabilizza l’esistenza e cercano più forti ancoraggi. Rientrano in questo quadro gli opposti estremismi: sia i credenti che si radicano in antiche certezze, che si chiudono nella fortezza per evitare la contaminazione cognitiva; sia quanti optano per un relativismo ad oltranza, il cui dubbio sistematico mette in discussione ogni forma di credenza religiosa. Da un lato, dunque, vi sono i credenti fanatici convinti di avere il monopolio assoluto della verità, per cui sopprimono ogni ombra di dubbio e ridicolizzano quanti credono in modo moderato o dubbioso; dall’altro i relativisti puri, i forzati del dubbio, al punto tale da diventare cinici e da etichettare come fanatismo ogni forma di credo. Il dubbio, in altri termini, ha bisogno di una solida razionalità che lo tenga sotto controllo.
Ecco quindi gli interrogativi fondanti su cui Berger e Zijderveld hanno costruito il loro lavoro: come essere oggi riflessivi e critici nei confronti della realtà senza cadere nel relativismo e nel cinismo? e al contempo, come maturare giuste convinzioni senza diventare dei fanatici? In altri termini, come accettare la modernità evitando scorciatoie di segno opposto intraprese al solo scopo di sfuggire al tormento della scelta? E ancora, come fanno i relativisti estremi a non relativizzare anche se stessi? Va da sé che l’elogio di cui si parla nel libro è quello di un dubbio sincero, coerente, costruttivo. Il vero dubbio non può dar vita ai molti«ismi» che circolano nelle nostre società (individuabili nel fanatismo, nel relativismo, nel cinismo), le cui «certezze» contrastano con i «pro e i contro», gli stati d’animo altalenanti, la continua ricerca di senso di cui è intrisa l’esperienza della modernità avanzata. Un dubbio ad un tempo tollerante e costruttivo, che a livello personale offre sempre nuovi stimoli per meglio definire le proprie posizioni, arricchendole anche del pensiero altrui; e a livello collettivo crea le condizioni della democrazia, in quanto dà spazio al dissenso, combatte gli assolutismi, ma nello stesso tempo spinge a trovare nuove sintesi.
Molti altri spunti emergono da questo fine lavoro, che nell’argomentazione attinge al pensiero di molti classici delle scienze umane e sociali e che ci regala definizioni che ci costringono ad andar oltre l’ovvietà e le posizioni convenzionali. Come quelle per cui «il vero dubbio è tipico di una posizione genuinamente agnostica»; o l’osservazione che «in ogni fondamentalista c’è un relativista che attende di essere liberato, mentre in ogni relativista un fondamentalista che aspetta di rinascere»; o ancora l’idea che «per una società stabile sono pericolose sia l’estrema sicurezza sia l’estrema insicurezza».

La Stampa Tuttolibri 4.2.12
Quel che ci resta dopo il lutto
Uno psichiatra che ha perso due figli scrive il «vademecum» per uscire dal dolore
Protesta, ricerca depressione: tutte le fasi che si attraversano per ritrovare il senso della vita
di Ferdinando Camon


Un’opera dell’artista tedesco Dirk Skreber

AA. VV. LUTTO TRAUMATICO: L’AIUTO AI SOPRAVVISSUTI Alpes, pp. XVIII-202, 23

Non c’è angoscia maggiore di chi perde un figlio. Specialmente se lo perde d’improvviso, per una malattia fulminante o un incidente stradale. I genitori passano di colpo dalla felicità alla disperazione, e dalla disperazione non escono più com’erano prima. Se escono. Perché non tutti ce la fanno: la perdita di un figlio apre una voragine nella famiglia, e in quella voragine può essere inghiottito più d’uno. Il sopravvivere non è continuare a vivere, perché niente continua come prima. Il non-sopravvivere, il farla finita, è anche un tornaconto, un interesse: condensa in un attimo la sofferenza che altrimenti sarebbe diluita per anni o decenni. E poi, ateo o credente che sia il genitore che la fa finita, c’è sempre in lui l’illusione, la speranza, di andare dov’è il figlio: la fine come un ricongiungimento, un nuovo inizio. Perciò la perdita di un figlio è un grande tema letterario e artistico.
Malick ne fa lo spunto di partenza per il suo film The tree of life, Palma d’oro 2011: il film comincia dolce ed elegiaco, vita di campagna, paesaggi stupendi, improvvisamente una lettera informa che un figlio è morto, e subito una voce chiede ai cielo: «Cosa siamo noi per te? » e dall’alto scende una risposta raggelante: «Dov’eri tu, quand’io creavo le galassie e gli abissi? ». Come dire: sei un niente, non hai diritto di fare domande. È il tema del film La stanza del figlio di Nanni Moretti, Palma d’Oro del 2001 (ma dunque Cannes ama il lutto?). È il tema del libro luttuoso per eccellenza, Tutti i bambini tranne uno, di Philippe Forest, scritto per la morte della figlia, per la quale il padre pensò e pensa ancora ogni tanto al suicidio.
A questo dolore che non ha rimedio ora un gruppo di psichiatri offre un vademecum per cercare di uscirne, una guida per ridare senso alla vita. L’idea di mettere insieme questo gruppetto di studiosi è di uno psichiatra italiano che ha patito in prima persona la perdita non di un figlio ma di due: nello stesso incidente. Precipitando così da una vita stracolma e un’esistenza deserta. I figli di Diego De Leo avevano 19 e 17 anni, erano due maschi. Se c’è un’età in cui si amano i figli di un amore privo di ambivalenza, è quella. Da genitori, si con-vive la loro vita presente e si pre-vive la loro vita futura. E questo riempie il presente e il futuro. Persi i figli, lo psichiatra Diego De Leo ha avuto una reazione umanamente sublime: fare di quella sventura una forza per l’umanità, registrare le tappe di una via d’uscita e metterle a disposizione di tutti coloro che ne hanno bisogno. Anzitutto ha sentito, insieme con la moglie Cristina, che il lutto non cancella, ma rafforza la genitorialità. E che i figli perduti continuano a vivere con te, se tu vivi per loro. Tu puoi salvare gli altri genitori che hanno perso figli come te.
I coniugi De Leo hanno cercato e trovato nel mondo psichiatri che lavorano sul lutto, si sono messi insieme per sommare le esperienze, e ora stampano insieme Lutto traumatico, l’aiuto ai sopravvissuti. È una miniera di insegnamenti. Il primo insegnamento è che si può lavorare per i figli anche se non ci sono più, risolvere all’umanità il problema che la loro morte ha lasciato. L’umanità è un cerchio, che si stringe a te con gli amici: gli amici diventano la tua nuova famiglia. È una famiglia che «sa», e tutto quello che dice dipende da questo sapere: non ti può ingannare o mentire, perché nel grande dolore funzionano solo le parole autentiche. Il dolore è un crivello, che separa le parole vere da quelle false. Uscire dal lutto si può esprimendolo: l’espressione è liberatoria se rivela, se nasconde è repressiva. Il lutto porta a scartare le persone infide, a cercare quelle amiche. A volte, non di rado, porta al divorzio, perché se c’era un solco tra marito e moglie, diventa un abisso.
Il lutto comprende la protesta, la ricerca, la disperazione, la depressione, si riduce quando comincia la riorganizzazione, e la riorganizzazione va insieme col senso (difficile a dirsi, pare una bestemmia) di un guadagno: una più completa verità.

La Stampa Tuttolibri 4.2.12
Intervista a Serge Latouche
“È Tolstoj il profeta della decrescita”
di Simone Bobbio

Dall’Università di Parigi a un villaggio dei Pirenei, testimoniando tra vita e pensiero che la sobrietà garantisce un benessere vero

Serge Latouche può suscitare quantomeno stupore quando afferma che rilegge sempre con piacere La ricchezza delle nazioni, l’opera di Adam Smith considerata fondatrice di quel capitalismo a cui oppone le sue idee sulla decrescita. Non si tratta di incoerenza e nemmeno di una delle sue innumerevoli e proverbiali provocazioni; è piuttosto segno di curiosità, di un interesse ad ampio raggio privo di preconcetti e posizioni aprioristiche. La ricetta della decrescita nasce da teorie economiche classiche, mescolate con studi antropologici effettuati presso culture «altre», e condite con i risultati scientifici sull’insostenibilità ambientale dello sviluppo industriale. Come esito, il rovesciamento del paradosso: la crescita illimitata in un pianeta finito, così come auspicata e inseguita dalle economie dei Paesi occidentali, è una contraddizione assurda mentre la a-crescita, l’alpha privativo restituisce più precisione al termine, è un’utopia concreta in grado di garantire una migliore qualità di vita agli esseri umani.
Il dialogo con Serge Latouche ebbe inizio anni fa nella sua casa di montagna nei Pirenei orientali. Tra i grigi muri in pietra grezza, ravvivati da statuette e tappeti africani, ebbi modo di conoscere il professore bretone, docente di economia all’Università di Parigi. Formatosi a una scuola di stampo rigidamente marxista, i suoi studi proseguirono in Africa e in Laos dove poté osservare forme di economia precapitalista. Al ritorno dai viaggi esotici, acquistò una baita abbandonata in un’area marginale: un Mondo dei vinti che, dalle valli Cuneesi di Nuto Revelli ai Pirenei di Latouche, diventò un simbolo di esclusione e miseria nel cuore di un’Europa alle prese con il boom economico e la crescita vorticosa.
Nei Pirenei dunque, tra una passeggiata in quota e un bagno nel torrente, si sviluppano molte delle idee sulla decrescita che trovano spazio nei suoi libri. Al contrario di ciò che sostengono i critici, che interpretando in chiave apocalittica il pensiero di Latouche, il suo carattere solare, un modo di comunicare acuto e gioviale e il suo stile di vita conviviale dimostrano come un’esistenza all’insegna della decrescita può aumentare il benessere, arricchire i rapporti sociali e condurre a una vita in armonia con se stessi e con l’ambiente circostante.
Professor Latouche, durante le sue conferenze ripete spesso che la decrescita è un progetto culturale: quali sono le idee alla base di questo programma?
«La decrescita è uno slogan per rompere con la religione della crescita che impone un mondo unidimensionale, per usare i termini di Marcuse. La globalizzazione ha realizzato il mondo unico e il pensiero unico, in economia e in tutti i campi della cultura. Dobbiamo uscire da questo modello seguendo l’insegnamento del grande antropologo LéviStrauss, secondo cui la cultura esiste solamente in relazione con le altre. Decrescita significa tornare a una rilocalizzazione e a una riterritorializzazione che, provocando una frammentazione proficua, ci restituiranno quella fecondità intellettuale che stiamo perdendo. Ciò non significa chiusura, bensì possibilità di dialogo tra diversità».
Il gran numero di novità editoriali che ogni giorno vengono lanciate sul mercato librario non è una forma di fecondità intellettuale?
«È una forma di consumismo semmai! Viviamo una crisi del libro e del sistema di diffusione dei libri. Ogni giorno chiudono piccoli e storici librai a causa di un processo di mercificazione che concentra il potere economico in mano a pochi grandi editori, distributori e supermarket della cultura, interessati esclusivamente alla vendita di bestseller. Il libro tramutatosi in merce viene consumato in maniera superficiale e la diffusione dell’ebook non farà che peggiorare la situazione. È vero che si può utilizzare il Kindle e i lettori digitali come vere e proprie biblioteche, ma bisogna evitare di considerare la lettura un divertimento passivo; la cultura è impegno intellettuale, elaborazione attiva».
Attraverso quali opere alimenta il progetto della decrescita?
«Fin dalla gioventù ho divorato un’infinità di libri e ancora oggi ne leggo contemporaneamente una decina, tra cui almeno un paio di romanzi. Ho sempre preferito nutrire il mio pensiero con la letteratura perché i narratori ci fanno conoscere la società meglio di sociologi o antropologi. Mi riferisco, per esempio, a Balzac e a Zola, che attraverso il romanzo analizzavano la società e ne tratteggiavano il funzionamento fisiologico. In questo senso individuo un precursore della decrescita in Tolstoj, un autore geniale e un sottile osservatore della società che, verso la fine della sua vita, prenderà posizioni quasi profetiche ed entrerà in contatto con Gandhi».
Raramente lei fa riferimento alla letteratura scientifica e alla saggistica.
«Ritengo che un effetto negativo della globalizzazione sia stato l’impulso all’iper specializzazione delle discipline. Fino al ’700 per esempio un libro di economia non era un trattato di matematica, totalmente decontestualizzato dalla realtà. Per questo mi piace rileggere La ricchezza delle nazioni di Adam Smith come un romanzo che fa riferimento al contesto culturale e storico della sua epoca. La stessa cosa vale per la sociologia e per l’antropologia; tornando a LéviStrauss, i suoi libri più interessanti come Tristi tropici eIl pensiero selvaggio sono estremamente piacevoli alla lettura. I saggi di oggi, invece sono accessibili soltanto ai professionisti».
Dunque che la cultura va intesa in un’accezione ampia e onnicomprensiva?
«Sempre Lévi-Strauss, ne Il crudo e il cotto, diceva che si crede di mangiare cibo, invece ci si nutre di cultura. Anche certi libri di cucina, di ricette, possono essere delle vere e proprie opere letterarie. In Francia abbiamo BrillatSavarin, il primo intellettuale gastronomo, che sapeva mescolare nozioni scientifiche, medicina, riflessioni filosofiche, storia e aneddoti, in un’opera di letteratura culinaria. In Italia avete La scienza in cucina di Pellegrino Artusi, un manuale di cucina che si snoda in una vera e propria narrazione, con racconti e storielle divertenti, riferiti a un ampio patrimonio culturale profondamente legato al territorio».
Come ha influito il perdurare della crisi economica nella scrittura del suo ultimo libro?
«Ormai ritengo di aver scritto tutto ciò che avevo da dire anche se la cronaca dei fatti economici continua a fornirmi ispirazione e stimolo. I miei lavori recenti sono come gli scoli dei manoscritti medievali, sorte di annotazioni a margine dei codici e delle opere letterarie latine e greche. Quest’ultimo libro è nato da una serie di appunti che ho raccolto durante conferenze, interviste e dibattiti a proposito delle obiezioni alla decrescita. I quesiti tendono spesso a ripetersi e ho costruito un argomentario di risposte alle domande più classiche: «La decrescita ci porterà all’età della pietra? », «Vale anche per i Paesi dell’emisfero Sud oppure solo per quelli sviluppati del Nord? ». Distinguo tra i controsensi, obiezioni in buona fede avanzate da chi vuole conoscere meglio l’argomento e le controversie, obiezioni degli avversari che vogliono osteggiare a tutti i costi la decrescita. L’obiettivo è dimostrare che si può e si deve decrescere, ma con l’ebbrezza gioiosa di chi ha scelto la sobrietà mirando a raggiungere un benessere vero, ben diverso da quello propagandato da questa economia capitalista scellerata che ci conduce invece alla recessione».
Nel titolo del suo libro utilizza un’espressione curiosa: l’abbondanza frugale.
«Può sembrare un ossimoro, ma non lo è se consideriamo che la società della crescita senza crescita, in questo periodo di crisi, ci prospetta solo orizzonti di austerità, come la chiamano loro, o meglio di penuria. Il libro precedente parlava di Come si esce dalla società dei consumi indicando un percorso da seguire: la meta è la società dell’abbondanza frugale. Il riferimento imprescindibile del libro è l’antropologo americano Marshall Sahlins che definisce l’età della pietra come un’età dell’abbondanza perché le società erano in grado di autolimitarsi godendo di ciò che serviva per vivere ed eliminando gli sprechi. Ho poi ritrovato molti riferimenti dell’abbondanza frugale nel libro dell’inglese Tim Jackson Prosperità senza crescita. Un’idea nuova e apparentemente contraddittoria che può avere nuovi sviluppi ed è sicuramente condivisa da altri studiosi». "«Il libro tramutatosi in merce è consumato in maniera superficiale l'e-book peggiorerà solo la situazione» «I narratori, da Balzac a Zola, ci fanno conoscere la società meglio di sociologi o antropologi» «Lévi-Strauss, ne Il crudo e il cotto, diceva che si crede di mangiare cibo, invece ci si nutre di cultura» «La meta è la società dell'abbondanza frugale, il riferimento è l'antropologo americano Marshall Sahlins»"

l’Unità 4.2.12
Il popolo dei lavoratori usa e getta
Occupy Wall Street Quando tante persone scendono in piazza
per esprimere la loro indignazione cosa chiedono? Ce ne parla la filosofa americana in un intervento che anticipiamo da «Lettera internazionale»
di Judith Butler


In libreria nei prossimi giorni
Il numero 110 della rivista «Lettera internazionale» ospiterà l’intevento di Judigh Butler che pubblichiamo in questa pagina. Gli altri interventi: «Keynes è morto. Viva Keynes!»; Paolo Leon; «L’economia irreale», Roger Scruton; «I confini d’Europa. Il mediterraneo e i resti degli imperi», Gian Paolo Calchi Novati; «Sciopero generale», Gayatri Chakravorty Spivak; «Attualità dell’indignazione, Movimenti e potere destituente», Raffaele Laudani; «La libertà politica è un bene fragile», Maurizio Viroli; «Un’idea dell’Italia. Cultura e politica dello stroicismo», Francesco Biscione; «1861-2011: l’Italia e l’economia internazionale», Gianni Toniolo; «Virgilio presso gli Sciti», Miloš Crnjanski. E poi «Domare il diavolo in noi» di Steven Pinker e altro ancora.

Sempre di più, nel nostro tempo, l’economia neoliberista struttura le istituzioni, comprese le scuole e le università, come anche i servizi pubblici. In un periodo in cui le persone in numero sempre crescente perdono la casa, la pensione e la prospettiva di lavoro, passa l’idea che esistano popolazioni usa e getta. Il lavoro è a tempo determinato, o assume forme flessibili post-fordiste che si basano sulla sostituibilità e sull’inutilità dei lavoratori – e sembra che l’atteggiamento prevalente su temi come l’assicurazione sanitaria e la sicurezza sociale sia quel-
lo che è la logica del mercato a decidere quale salute e quale vita debbano essere tutelate, e quali no. Per alcuni di noi, tutto questo è stato perfettamente esemplificato da una certa riunione del Tea Party in cui un membro ha suggerito che coloro che hanno malattie gravi e che non possono pagarsi l’assicurazione sanitaria devono semplicemente morire. A questa dichiarazione, secondo i giornali, un grido di gioia aveva percorso la folla. Suppongo sia stato un grido di gioia dello stesso tipo di quelli che normalmente accompagnano l’entrata in guerra o una qualsivoglia forma di fervore nazionalistico. Ma se c’è qualcuno che l’ha vista come un’occasione gioiosa, ciò vuol dire che quel qualcuno ritiene che chi non guadagna abbastanza o chi non ha un lavoro sicuro non meriti di essere coperto da assistenza sanitaria, e che nessuno di noi è responsabile di quelle persone.
In quali condizioni economiche e politiche emergono queste forme gioiose di crudeltà? La nozione di responsabilità invocata dalla folla che partecipava al Tea Party deve essere contestata facendo appello all’idea di etica politica. Perché se ognuno di noi è responsabile solo per se stesso e non per gli altri, e se tale responsabilità è in primo luogo quella di diventare economicamente autosufficienti, in condizioni in cui l’autosufficienza è strutturalmente indebolita, vediamo che l’etica neoliberista esige l’autosufficienza come ideale morale operando, allo stesso tempo, per distruggere quella stessa possibilità a livello economico. Coloro che non possono permettersi di pagare l’assistenza sanitaria sono solo una delle possibili tipologie delle popolazioni usa e getta. Anche coloro che si sono arruolati nell’esercito con la promessa di una formazione professionale e di un lavoro, e che vengono inviati in zone di conflitto dove non c’è un mandato chiaro e dove la loro vita può essere distrutta, e di fatto a volte lo è, sono popolazioni usa e getta. Quelle vite vengono salutate come essenziali per la nazione, ma sono, al tempo stesso, considerate superflue. Tutti coloro che vedono crescere il divario tra ricchi e poveri, che vedono perdute molte forme di sicurezza e di speranza, si sentono di fatto abbandonati da un governo e da una politica economica che non fanno altro che aumentare la ricchezza di pochi a scapito della popolazione generale.
Tutto questo ci porta al secondo punto: quando le persone scendono in piazza, è chiaro ciò che intendono significare: che sono ancora qui e ancora lì, che persistono, si riuniscono, e così manifestano la consapevolezza che la loro situazione è condivisa; e anche quando non parlano o non presentano richieste negoziabili, l’istanza di giustizia è esplicita: quei corpi che si riuniscono dicono «noi non siamo usa e getta», e ciò avviene anche quando le voci non si levano. Ma sono la loro presenza, la loro esistenza, la loro persistenza a essere istanza di maggiore giustizia, di liberazione dalla precarietà, di possibilità di una vita vivibile.
ESSENZIALI MA INUTILI
Chiedere giustizia è, ovviamente, una cosa forte da fare, e pone a ciascun attivista un problema filosofico: che cos’è la giustizia, e quali sono i mezzi con cui l’istanza di giustizia può essere posta? Quando tanti corpi si riuniscono sotto l’insegna «Occupy Wall Street», la ragione ci dice che i singoli elenchi di richieste non esauriscono l’ideale di giustizia che viene reclamato. In altre parole, noi tutti possiamo studiare soluzioni per l’assistenza sanitaria, per l’istruzione pubblica, per gli alloggi, per la distribuzione e la disponibilità di cibo; cioè, tutti noi possiamo declinare le ingiustizie al plurale, e presentarle come un insieme di esigenze specifiche. L’istanza di giustizia è contenuta in ognuna di esse, ma anche, necessariamente, le trascende. Non c’è bisogno di sottoscrivere la teoria platonica della giustizia per vedere tutti i modi possibili in cui può operare questa istanza.
Infatti, quando tanti corpi si riuniscono per esprimere la loro indignazione e per dichiarare la loro esistenza plurale in uno spazio pubblico, le richieste che stanno facendo sono più ampie: essi chiedono di essere riconosciuti, valorizzati, stanno esercitando il diritto alla visibilità, a esercitare la libertà, e chiedono una vita vivibile. Questi valori sono contenuti in istanze particolari, ma richiedono anche una ristrutturazione più profonda del nostro ordine socio-economico e politico.
SOFFRIAMO E RESISTIAMO
Alcune teorie economiche e politiche parlano di popolazioni che sono sempre più soggette alla cosiddetta «precarizzazione» (precaritization). Questo è un processo, di solito indotto e riprodotto dalle istituzioni governative ed economiche, che abitua nel tempo le popolazioni all’insicurezza e alla mancanza di speranza (si veda Isabell Lorey); è un dispositivo insito nelle istituzioni del lavoro temporaneo, nel welfare sempre più scarno, nel logoramento generale della democrazia sociale a favore di modalità aziendali alimentate dalle feroci ideologie della responsabilità individuale e anche dall’obbligo di massimizzare il proprio valore di mercato come fine ultimo della vita. A mio parere, questo grosso processo di precarizzazione deve essere integrato con la nozione di precarity intesa, da un lato, come «struttura affettiva» (si veda Lauren Berlant) e, dall’altro, come quel senso di accresciuta sacrificabilità o inutilità che è variamente diffuso nella società.
Ma c’è un terzo termine, precariuosness, su cui bisogna soffermarsi e che caratterizza ogni essere umano incarnato e mortale, ma anche gli esseri non umani. Precariuosness non è solo una verità esistenziale – ognuno di noi può essere soggetto a privazione, lesioni, morte o debilitazione a causa di eventi o di processi al di fuori del suo controllo. Ma è anche, e soprattutto, una caratteristica di quello che potremmo chiamare il legame sociale, cioè le varie relazioni che definiscono la nostra interdipendenza. In altre parole, nessuna persona soffre per la mancanza di un tetto se esiste la capacità sociale di organizzare un riparo in modo che sia accessibile a ognuno. E nessuno soffre per la disoccupazione se esiste un sistema o una politica economica che riesce a tutelare contro questa possibilità. Ciò significa che alcune delle esperienze più tragiche della deprivazione sociale ed economica rivelano non solo la nostra precariuosness come persone singole – rivelano anche questo, certo – ma soprattutto i fallimenti e le disuguaglianze prodotti dalle istituzioni socio-economiche e politiche. Nella nostra vulnerabilità individuale rispetto alla precarity, scopriamo che siamo esseri sociali, implicati in una serie di reti che o ci sostengono o non riescono a farlo, o lo fanno solo in modo intermittente, il che produce uno spettro continuo di disperazione e di miseria.
Il nostro benessere individuale dipende dal fatto che siano poste in essere le strutture sociali ed economiche che sostengano la nostra dipendenza reciproca. Ciò accadrà solo rompendo con lo statu quo neoliberista, accogliendo le istanze del popolo i cui corpi si riuniscono in una lotta pubblica, ostinata, persistente, che cerca di rompere e di ricostruire il nostro mondo politico. Come corpi, soffriamo e resistiamo e, insieme, in vari luoghi, rappresentiamo quella forma di legame sociale che l’economia neoliberista ha quasi distrutto.
Traduzione Biancamaria Bruno

il Fatto 4.2.12
Le sorprese degli archivi di Washington
Hitler, la fuga e il sosia nel bunker
di Marco Dolcetta


Washington. È sempre interessante e istruttivo, se uno ha la possibilità di recarsi negli archivi dell’esercito americano, national archives and record administration (N. a.r. a.), nei sobborghi di Washington, dove si ha modo di visionare un enorme mole di documenti cinematografici, fotografici, cartacei che sono il patrimonio della memoria della nazione degli Stati Uniti.
Nella mia funzione di regista e ricercatore di materiali che riguardano la storia del XX secolo, in particolare della documentaristica e della fiction, come espressione dei totalitarismi di cui mi sono occupato con una tesi di dottorato a Parigi e che ha dato vita al fondo cinematografico sui totalitarismi con un patrimonio di circa 2000 ore di materiali per lo più inerenti, anni fa frequentando l’istituto Luce di Roma consultavo i filmati d’epoca. I materiali erano ancora a quei tempi in pellicola, delle copie, non dei negativi originali, e sulle code di testa c’era scritto chiaramente proprietà dell’Fbi/Stati Uniti d’America. Che sorpresa! Chiarii il mistero qualche anno dopo, appunto al N. a.r. a. tutto il materiale tedesco, giapponese, romeno e ungherese era bottino di guerra e in quanto tale gli Usa detenevano tutti i negativi, solo in parte resi alle cineteche di origine e a prezzo di costo per scopi educativi e di documentazione tutti i matematici a chi ne fa richiesta.
Oltre i film, l’interesse è anche per il cartaceo. Innumerevoli file su indagini e interrogazioni da parte della Cia, Fbi e non solo... Si parla tra l’altro di perché fu scelto Pinochet per il golpe in Cile: unico generale di religione mormone, come sua moglie; i mormoni erano i proprietari delle maggiori miniere di rame in Cile, come la “Anaconda” che Allende voleva nazionalizzare, e tanto altro...
Ma di speciale interesse storico quanto ha scovato lo studioso tedesco americano Gregory Douglas, gli atti dell’interrogatorio al capo della Gestapo, l’introvabile Heinrich Müller.
Le interviste sono state effettuate, secondo Douglas, in Svizzera nella casa di Müller; la Cia arriva lì grazie alla mediazione di Reinhardt Gehelon, già capo dell’intelligence della Wehrmacht sul fronte russo, prontamente passato agli americani, una sorta di Gladio alla tedesca. Fra le migliaia di pagine ho pensato di analizzare quelle che riguardano un gran mistero della Seconda guerra mondiale e del dopoguerra: “La fine di Hitler”.
I filmati Luce e i negativi originali
LA STORIOGRAFIA più avanzata oggi nei paesi anglosassoni è rappresentata dal volume di Simon Dunstan e Gerrard Williams: Grey Wolf, the escape of Adolf Hitler edito dall’autorevole Sterling di New York, best-seller, gli autori non erano a conoscenza di questo interrogatorio, anche i dettagli della fugacoincidono. Lastoriaèquesta: Hugh Trevor-Roper è lo storico inglese membro dei servizi segreti di Sua Maestà che ratificò la volontà di tutti gli Alleati di raccontare il succedersi degli ultimi avvenimenti che riguardano la vita terrena di Adolf Hitler. Prima che lui entrasse a Berlino, è il 1945, il generale Zukov, comandante delle forze sovietiche nella battaglia di Berlino, invia parecchi messaggi a Stalin, che vuole conoscere esattamente, nei minimi dettagli, cosa accadde nel bunker prima della resa finale dei tedeschi. Meticolosamente, Zukov riporta tante voci, anche discordanti. Con insistenza, come è raccolto negli archivi segreti del G. r.u. – i servizi segreti militari di Mosca – si citano fonti, attribuite a ex fedeli di Hitler nelle mani dei sovietici, che affermano che nel bunker esistevano due sosia di Hitler e due sosia di Eva Braun, dando per scontato che il corpo di Hitler morto, su cui si è tanto discusso, fosse quello di un sosia costretto al suicidio. Questi testimoni oculari affermano di aver visto per l’ultima volta Hitler ed Eva Braun, presumibilmente quelli veri, partire con Anna Reitsch e Robert Von Greim, il pomeriggio del 23 aprile, su un aereo militare Heinkel, usando come pista di fortuna la Under der Linden, una delle strade principali di Berlino. La Reitsch e il suo accompagnatore erano due assi dell’aviazione del Terzo Reich, ed erano arrivati coraggiosamente nel bunker con l’intento di portare in salvo Hitler e la Braun.
StandoaZukov, l’aereoatterròaKiel, dove c’era la più grande base degli U-Boot, i sottomarini tedeschi ideati e diretti dall’ammiraglio Donitz che, guarda caso, Hitler aveva designato, fra la sorpresa generale, come suo successore.
Un U-boot con i 4 passeggeri dell’aereo parte velocemente per la base di Bergen, in Norvegia. Da lì, il 1° maggio 1945, partono 5 U-Boot dell’ultima generazione, tutti con lo stesso numero di matricola: U-533. È la missione segreta “Oltremare Sud”.
Uno di loro, intercettato nell’immediata prossimitàdellabaiadiNewYorkmentre sta per bombardare la città, giugno 1945, viene sequestrato dagli americani con un massiccio carico di uranio.
Il secondo, il 15 luglio 1945, si arrende agli argentini e agli uruguaiani sul Mar del Plata, di fronte Buenos Aires, al suo comando Hans Wermouth: il sottomarino è semivuoto, reduce dalla battaglia contro americani e brasiliani all’isola di Fernando de Noronha. Ne mancano quindi tre. Sott’acqua, nella Patagonia argentina e cilena, sono stati trovati i relitti di due di loro, così come ha confermato l’esercito argentino e cileno. Le vicende dei viaggiatori, dei marinai e dei materiali trasportati sono testimonianze. È stato detto che il terzo sottomarino scomparso sia invece approdato in Antartide.
I 5 sottomarini verso l’America Latina
ANNA REITSCH ha vissuto in Argentina fino agli anni Sessanta, sempre fedele al suo mito, Hitler. Tranquilla e sorridente, non ha mai voluto parlare di come fosse arrivata in Argentina. I testimoni della morte di Hitler, così come quelli di Himmler, le loro guardie del corpo alcuni più sfortunati, come Misch, si sono fatti anni di prigionia in Siberia prima di poter tornare, “rieducati”, in Germania. Altri, invece, hanno trascorso un tranquillo dopoguerra avallando e ribadendo la versione ufficiale dei fatti.
Alcune curiosità, però, non sono state ancora soddisfatte. Solo nel 1946, dopo l’uscita del libro di Trevor-Roper, i sovietici smettono di cercare Hitler in Sudamerica. In pochi ricordano che Trevor-Roper è lo storico che autenticò, qualche anno dopo, i falsi diari di Hitler.
Ancor oggi, nessuno ha voluto comparare il dna dei frammenti organici del corpo suicida del bunker rimasti attaccati al divano. Parte del divano è custodita a Mosca, parte è a Washington, mentre in Germania sono conservati i capelli di quello che senza dubbio era Hitler. Quindi, con un dna accertato, nessuno ha mai pensato di dire, tramite esso, la parola definitiva sull’enigma.
Ne emergerebbe una realtà scomoda: Hitler ed Eva Braun sarebbero sopravvissuti, fino agli anni Sessanta. In questa storia sono coinvolti la Cia e in particolare gli inglesi, che hanno architettato la loro protezione e il loro silenzio lasciandoli in vita per evitare che verità scomode (accordi bilaterali tedeschi e inglesi antisovietici, ipotesi possibile sino all’entrata in guerra degli Stati Uniti), finissero in mano ai russi.
E cosa dice Müller in merito? La sua versione, estrapolata dall’interrogatorio, conferma quanto detto sopra con qualche ulteriore specifica: dice Müller: “Diffidavo di Bermann, parlavo con Hitler solo quando lui non era presente, ogni frase detta diventava una ragione di ricatto da partesua, ehosemprepensato, purtroppo senza mai poterlo provare, che lavorava per i sovietici, penso oggi utilizzasse i servigi delle attrici del Reich che in realtà erano agenti sovietiche: Olga Tschechowa, Marika Rokk e altre”.
Chiede il militare americano a Müller: “Secondo lei in che occasione Hitler lascia il bunker e chi è il sosia che vive nel bunker e che muore? ”
“Il sosia era un signore da me reclutato per la notevole somiglianza col Führer: lo incontrai per caso a Bratislava nel 1941, lo reclutai e diventammo amici, era austriaco anche lui, si chiamava Hans Sillip. Era molto simile ad Adolf Hitler. L’unica difficoltà nel fargli assumere completamente il ruolo del Führer era il fatto che era un fumatore accanito, ma con le buone, gli tolsi il vizio”.

Corriere della Sera 4.2.12
L’eccidio di Porzûs e le colpe del Pci
di Giovanni Belardelli

nelle edicole (il testo dell’articolo non è disponibile on line)

Corriere della Sera 4.2.12
L'arancia al veleno di Burgess
La sceneggiatura dello scrittore, più violenta del film di Kubrick
di Pierluigi Panza


N ella primavera di cinquant'anni fa veniva pubblicato uno dei più moderni e spregiudicati romanzi europei: A Clockwork Orange (Un'arancia a orologeria poi noto come Arancia meccanica) dello scrittore inglese Anthony Burgess (1917-1994, per tanti anni collaboratore del «Corriere della Sera»). Burgess aveva iniziato la carriera letteraria solo due anni prima, dopo che gli era stato erroneamente diagnosticato un tumore cerebrale. Il libro — ispirato alla violenza subita dalla prima moglie mentre era incinta — fu accolto in maniera controversa: edito in America con un diverso finale fu da molti accusato d'induzione alla violenza.
Narra la storia di Alex, capo della banda dei Drughi, una sorta di «damerino» dedito alla violenza che la società cerca di redimere con altrettanta violenza, fisica e psicologica. Alla fine degli anni Sessanta, Stanley Kubrick decise di trarne un film, sulle note della Nona sinfonia di Beethoven. Burgess preparò per lui una sceneggiatura, che però non convinse il regista. Il quale non se ne servì.
Anche Burgess, del resto, non fu completamente convinto dell'opera di Kubrick. Nella sua autobiografia racconta, in maniera ironica, alcune esperienze con lo staff della Warner Bros e con il regista, di cui apprezzava Il dottor Stranamore (1964), ma non Lolita (1962). Burgess riteneva infatti che scopo del suo libro, come di quello di Nabokov, fosse «il linguaggio e non il sesso e la violenza». Tuttavia riconosceva a Kubrick la capacità di aver «creato un futuro nuovo e fantastico» (anche con un arredamento che avrebbe fatto tendenza) dall'opera che lui aveva ambientato «in un futuro vago».
Quella sceneggiatura inedita preparata da Burgess è custodita, con altro materiale, presso la International Anthony Burgess Foundation. Ed ora, in occasione dei 50 anni dall'uscita del libro, Andrew Biswell, direttore della Fondazione, conta di pubblicarla nell'ambito delle iniziative che si svolgeranno per l'anniversario. Ma in cosa si differenzia questa versione da quella del film del 1971 di Kubrick? «La sceneggiatura è stata scritta nel 1969 — spiega Biswell, che è lecturer alla Manchester Metropolitan University —, ed era stata commissionata dai produttori che avevano acquistato i diritti cinematografici. Noi ne abbiamo una copia e una seconda è custodita nell'archivio Kubrick. È evidente che Kubrick l'ha letta prima di scrivere la sua». Ma non l'ha utilizzata.
Quali sono le differenze tra le due? «Quella di Burgess è più personale e violenta — prosegue Biswell —. I combattimenti dei Drughi sono sanguinosi e c'è violenza contro le donne anziane. Si invita a un ampio uso di telecamere a mano, e questo può aver ispirato Kubrick a fare lo stesso. Ma la sceneggiatura di Burgess comprende un personaggio-scrittore chiamato proprio Anthony, che è l'autore di un libro intitolato A Clockwork Orange. E per l'aggressione alla moglie dello scrittore è possibile che Burgess abbia pensato a quanto accaduto alla sua prima moglie, violentata nel '44 da alcuni soldati americani. Era incinta e perdette il bambino. Divenne alcolizzata e morì nel 1968 a soli 47 anni. Burgess ha sempre creduto che la violenza subita dalla moglie fosse responsabile della sua morte precoce. Inoltre, nella versione di Burgess, Alex vive in Wilson Avenue. E il vero nome di Burgess era John Burgess Wilson. Questo suggerisce una autoidentificazione maggiore tra l'autore e il suo protagonista».
Nel testo di Burgess troviamo anche scene non accolte nella versione di Kubrick. «Ci sono scene domestiche in cui Alex guarda dentro al suo armadio e trova aghi ipodermici, il cranio di un bambino piccolo e vari farmaci allucinogeni. In un'altra scena si mostra un uomo che ha tagliato i testicoli con un coltello. Questa sequenza sarebbe stata comunque tagliata dalla censura che, allora, non permetteva scene di tortura. Ci sono poi aggiunte musicali: Burgess è stato un compositore, prima di diventare scrittore, e la sua sceneggiatura include una buona dose di musica meccanica e canzoni popolari».
Burgess diede risposte contraddittorie sul film di Kubrick. All'inizio del '72 scrisse una recensione favorevole per il «Los Angeles Times». Cambiò idea dopo che il film venne accusato di «armare» attacchi violenti da parte di bande giovanili. «Burgess era preoccupato che il messaggio morale del suo libro (un messaggio sull'importanza del libero arbitrio) fosse frainteso. Così scrisse The Clockwork Testament (1974), che racconta di uno scrittore la cui opera letteraria è volgarizzata e travestita dai cineasti di Hollywood. Nel 1986 firmò un altro adattamento del romanzo, una versione drammatica, con nuova musica e testi delle canzoni scritte dallo stesso Burgess». Lo spettacolo è stato prodotto dalla Royal Shakespeare Company di Londra nel 1990, con musiche di Bono, The Edge e degli U2. La musica Burgess non è mai stata eseguita.
Lo scrittore ricordò anche di essere stato di nascosto a una proiezione pubblica di A Clockwork Orange per verificare la risposta del pubblico. «Gli spettatori erano tutti giovani. La violenza dell'azione — scrisse — li aveva molto commossi, soprattutto i neri... Per i giovani americani la cosa sembrava un incentivo alla violenza. Non passò molto tempo prima che quattro ragazzi, vestiti in stile "droog" stuprassero una suora a Poughkeepsie». Si scoprì poi che quei ragazzi non avevano mai visto il film.

Corriere della Sera 4.2.12
Quel sale che non è stato sparso
di Gianna Fregonara


Per i romani che lo sparsero su Cartagine è una beffa. Per gli automobilisti fermi per ore al freddo e, alla fine, senza neppure la benzina sul Grande Raccordo Anulare un inferno. Roma ieri non è stata messa in ginocchio soltanto dalla neve, ma dal sale. Anzi, dalla mancanza di sale. Sono stati mostrati i sacchetti per giorni in giro per la città, ma ieri di sale ce n’era meno che di sassolini nelle tasche di Pollicino.
Un paio di Tir con il loro prezioso carico sono rimasti fermi in autostrada, vittime di quel caos automobilistico che avrebbero dovuto aiutare a scongiurare. Sono state fornite cifre, distribuiti bollettini, si sono divisi i quintali per chilometro quadrato, si sono fatte statistiche per dimostrare che il piano di emergenza ha funzionato. Certo, rimandando gli autobus in autorimessa alle cinque del pomeriggio, per evitare che si piantassero senza gomme adeguate su per le salite. Chiudendo (alle due del pomeriggio) le scuole, già semivuote. Diramando lo stato di allarme, quando a terra non c'erano che pochi centimetri di neve ma la città, soprattutto a nord, era già nel caos. E oggi si transita con le catene per il centro, perché per questa mattina è attesa altra neve e anche ghiaccio. L'allerta istituzionale c'è stata, con gli annunci del Campidoglio e il piano della Protezione civile. Ma lo strascico di polemiche e la rabbia per i disagi di chi ha passato ore prigioniero della propria città non sono pretestuosi. A Roma nessuno ha un personale decalogo delle precauzioni antineve, tanto che ieri sera ci sono stati persino due morti. Non i tassisti che quando il sindaco scioglie i turni nel tentativo di aumentare le auto, sciolgono le righe e restano a casa, lasciando i cittadini a piedi. Non gli automobilisti che si arrischiano per le salite dei sette colli con le loro leggerissime Smart. Neppure chi si butta in mezzo alla strada per attraversare, senza aspettare che le auto scalino le marce per frenare. Per non dire di chi tenta di tornare a casa in scooter quando ormai c'è l'emergenza catene. I marciapiedi poi, non li ha puliti quasi nessuno.
Il sindaco Gianni Alemanno aveva tentato l'altroieri di chiedere ai genitori di tenere a casa i figli da scuola: ma la comunicazione è stata timida al limite della confusione come se nessuno, in fondo neppure lui, credesse che in una città dal cielo plumbeo ma dalla temperatura ancora sopportabile la neve sarebbe arrivata davvero.