lunedì 6 febbraio 2012

L’Unità 6.2.12
Il governo degli assenti
Italia al gelo, dove sono finiti i ministri?
di Pietro Greco


Roma è stata sommersa negli ultimi giorni da una discreta quantità di neve, è stata attraversata da un’enorme quantità di polemiche istituzionali ed è stata assistita da una piccola quantità di mezzi di soccorso.
In questa cattiva ripartizione di quantità consumata nella sua capitale, c’è la metafora di un Paese che sa sempre meno prevenire e sempre meno gestire le emergenze ambientali. Pagando un costo altissimo. Peraltro, dov’è il governo in questo momento? Qualcuno ha visto un ministro intervenire, dichiarare, organizzare? Se di emergenza si tratta, non si può scaricare tutto sul responsabile della Protezione civile o su un sindaco o sui gestori delle infrastrutture del Paese. È nelle difficoltà che un governo deve mostrare il proprio volto e le proprie capacità: questa è una regola che vale per tutti.
Detto questo, la “lezione di Roma” potrebbe aiutarci a non perdere altro tempo. E fare della prevenzione e gestione del territorio, non solo un’arma per aumentare la sicurezza (e non sarebbe poco), ma addirittura una leva di sviluppo economico? Ribaltare la condizione è possibile. Proprio ridistribuendo il rapporto tra quelle tre quantità di cui si diceva all’inizio. In primo luogo dobbiamo prendere atto che la “quantità di rischio ambientale” nei prossimi anni è destinata ad aumentare. Per due motivi. Uno legato ai cambiamenti del clima e al conseguente intensificarsi di eventi meteorologici estremi. Avremo nel nostro Paese più piogge torrenziali e più periodi di siccità, più erosione delle coste e più inondazioni, più frane, più onde di calore e, probabilmente, nevicate più rari ma più intense. L’altro motivo è legato alla mancata prevenzione del passato: che consiste di tante buone opere non fatte (per esempio la pulizia dei fiumi), di tante cattive opere fatte (cementificazione legale e illegale) e collasso della cultura del territorio. E così questo nostro territorio così ricco di beni paesaggistici, ambientali e culturali risulta nel complesso più fragile proprio mentre viene sottoposto a sollecitazioni più frequenti ed estreme.
In secondo luogo dobbiamo regolare la “quantità dei mezzi di soccorso” da mettere in campo. Non solo più spazzaneve o una miglior organizzazione per far giungere gli spazzaneve e gli altri strumenti tecnici dove servono quando servono. Comprese una rete elettrica e una rete ferroviaria e una rete stradale che non collassano quando nevica. Non solo restituire alla Protezione Civile la capacità di assolvere alle sue funzioni di coordinamento e di azione diretta, minata sia dall’interpretazione estensiva che ne ha dato per una luna stagione Guido Bertolaso sia da una legge (la n. 10 del 2011) che ne ha fortemente ridotto le possibilità di intervento. Occorre costruire una cultura della prevenzione concettualmente solida e tecnologicamente avanzata. Le nostre università sono in grado di fornire, come dire, le risorse umane per realizzare questa impresa. Le diverse e crescenti sollecitazioni cui sono sottoposti il nostro territorio e i nostri beni culturali ci offrono la possibilità di sperimentare sul campo organizzazione e tecnologie. Come sostengono autorevolmente Salvatore Settis e Luciano Gallino potremmo creare un’industria della prevenzione e della gestione del territorio e dei beni culturali capace di creare posti di lavoro qualificati e di esportare know how e prodotti all’estero.
Cosa resta da fare per trasformare questa proposta in un progetto? Beh, ridurre la terza quantità che si è manifestata in maniera inquietante durante le giornate innevate di Roma: l’incapacità istituzionale di affrontare in modo serio e solidale la prevenzione del rischio e la gestione dell’emergenza. Ma la polemica unilaterale del sindaco di Roma e del segretario del partito che ha la maggioranza relativa in Parlamento contro la Protezione Civile (mentre l’emergenza è in corso) farà il paio, sui media internazionali, con l’abbandono della Concordia del comandante Schettino, gettando ulteriore discredito sul Paese.

L’Unità 6.2.12
Caso Lusi, oggi si riuniscono i garanti: verso l’espulsione dal Pd dell’ex tesoriere della Margherita
Legge elettorale domani incontro tra Democratici e Pdl. Poi tocca alle altre forze politiche
Bersani a Pdl e governo: «Noi leali, niente prese in giro»
Il messaggio di Bersani a esecutivo e forze che appoggiano Monti: «Noi siamo leali, sosteniamo il governo, ma non ci lasciamo prendere in giro». Oggi riunione dei garanti Pd: verso l’espulsione di Lusi
di Simone Collini


Un messaggio al governo e alle altre forze politiche che lo appoggiano in Parlamento e un messaggio rivolto a militanti, elettori, simpattizzanti e più in generale all’opinione pubblica. Il primo Pier Luigi Bersani lo lancia dicendo: «Noi siamo leali, sosteniamo il governo, ma non ci lasciamo prendere in giro». Il secondo è nella decisioni che oggi prenderà la Commissione di garanzia del Pd: l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi sarà espulso dal partito.
Lasciando uno dei seggi per le primarie allestiti a Piacenza per scegliere il candidato sindaco, Bersani torna sulla norma riguardante la responsabilità civile dei giudici approvata la scorsa settimana alla Camera «con meccanismi di vecchia maggioranza e anche contro le indicazioni del governo stesso». Dice il leader del Pd: «Questo è un problema. Noi siamo leali, sosteniamo il governo, ma non ci lasciamo prendere in giro». Un appello al senso di responsabilità del Pdl, che su giustizia e Rai sta dimostrando di voler avere le mani libere e di far rivivere l’alleanza con la Lega. Ma un appello anche a Monti affinché affronti la situazione, perché non è possibile come Bersani si è sfogato nei giorni scorsi sia nell’incontro a Palazzo Chigi che in un colloquio con Napolitano al Quirinale che il Pd voti in parlamento anche le misure che non lo convincono al cento per cento mentre il Pdl solo a parole dimostra la stessa realtà. Per il segretario dei Democratici, che risponde a una domanda sull’editoriale di ieri dell’Unità, è «esagerato» dire che il governo abbia cambiato natura dopo le ultime uscite di Monti sull’articolo 18. Il punto è un altro: «Io ho segnalato alcuni fatti, che sono un colpo di mano sulle nomine Rai, una norma anti-magistrati e degli emendamenti al Senato sulle liberalizzazioni. Sono tutte cose approvate con meccanismo di vecchia maggioranza anche contro le indicazioni del governo stesso. Questo è un problema. Noi siamo leali, trasparenti, sosteniamo il Governo ma non ci lasciamo prendere in giro. Questo è il messaggio che voglio dare, e quindi adesso ci si dia una regolata».
Dopodiché Bersani è convinto che l’esecutivo Monti arrivi a fine legislatura, «almeno per quel che riguarda il Pd», ma devono finire (e sullo spontaneamente è piuttosto scettico) le «provocazioni» che arrivano dal fronte Pdl. «Qualche problema c’è, è inutile negarlo. E questo non è salutare per il governo, che deve fare cose di segno nuovo e le sta facendo».
Tra le cose nuove che devono fare invece le forze politiche c’è la riforma della legge elettorale. La proposta di un patto da parte Berlusconi non convince i Democratici. Bersani ragionando sulla questione con i suoi ha spiegato che il Pd deve discutere con tutti, chiarendo che la sede del confronto è il Parlamento e non tavoli particolari e che il dialogo deve coinvolgere tutte le forze politiche, pur partendo da quelle che sostengono Monti.
Dal Pdl è arrivata una richiesta di incontro e domani Gianclaudio Bressa, Luigi Zanda e Luciano Violante incontreranno Ignazio La Russa e Gaetano Quagliarello. Ma il Pd avvierà nei prossimi giorni una serie di incontri anche con Terzo polo, Idv e Sel, facendo partire la discussione dalla proposta depositata in parlamento (un sistema misto maggioritario-proporzionale con doppio turno).
LUSI VERSO L’ESPULSIONE
Già questo pomeriggio si chiuderà invece (almeno per quanto riguarda il Pd) la vicenda Lusi. Il senatore espulso l’altra settimana dal gruppo dei Democratici, che l’altro giorno si è autosospeso dal Pd, oggi sarà cancellato dall’anagrafe degli iscritti al partito. Questo è almeno l’orientamento prevalente tra i nove membri della Commissione di garanzia presieduta da Luigi Berlinguer alla vigilia dell’appuntamento. Di fatto si tratterebbe di un’espulsione (termine che non compare nello Statuto o nel codice etico) dell’ex tesoriere della Margherita.

L’Unità 6.2.12
Intervista a Luciano Neri
«Non credo alla storia che Lusi abbia agito da solo»
L’atto d’accusa del componente dell’assemblea della ex Margherita. «Fui il solo a votare contro il bilancio. Chiedo le dimissioni di Bianco e Rutelli»
di Claudia Fusani


Basta ipocrisie e falsità. Voglio subito l’assemblea della Margherita, immediatamente, abbiamo già aspettato anche troppo, Bianco e Rutelli devono convocarla, presentarsi dimissionari e mettere a nostra disposizione i bilanci. Siamo in grado di leggerli da soli una volta che ce li danno».
Luciano Neri è un dirigente nazionale della Margherita, uno dei 398 componenti dell’assemblea e responsabile della Consulta per gli italiani nel mondo del Pd. Quando ha letto che risultava tra coloro che avevano approvato il bilancio della Margherita nella ormai famosa assemblea del 20 giugno 2011, ha abbandonato ogni residuo di pazienza. «È un falso dice Domani (stamani, ndr) mi presento al Senato nello studio di Enzo Bianco e Rutelli e non me ne vado finché non vedo una convocazione scritta dell’assemblea e non mi hanno consegnato il bilancio. Non sono un magistrato ma come dirigente nazionale della Margherita considero entrambi responsabili di aver creato oggettivamente le condizioni di opacità che ci hanno portato alla situazione di oggi».
Lei punta il dito contro Bianco e Rutelli. Perché?
«Perché scopro leggendo i giornali che il verbale dell’assemblea del 20 giugno 2011 risulta approvato all’unanimità. Io invece quel giorno ero uno dei dodici presenti su 398 aventi diritto e ho votato contro. Parisi si astenne. Due posizioni diverse di cui non esiste evidenza. Quindi quel verbale è falsificato».
Perché era contrario?
«Quel giorno s’arrivò quasi alle mani. Ebbi a ridire su tutto, a cominciare dal modo in cui eravamo stati convocati. Possibile che fossimo solo in 12 su 398? Chiesi conto di come erano state fatte le convocazioni. Non mi risposero. Chiesi di leggere il bilancio e di averne copia. Ci fu detto che non era possibile. Mi ribellai e Lusi, intorno al tavolo con Bianco e Rutelli, ebbe uno scatto, si offese dicendo che veniva messa in dubbio la sua serietà. Poi ricordo che loro tre confabularono a lungo».
La grande lite quel giorno fu anche su altro.
«Ci dissero che erano disponibili circa venti milioni residui del finanziamento elettorale. Io e Parisi proponemmo di restituire alla società civile quelle risorse. Scoppiò l’inferno e con una levata di scudi passò la linea della redistribuzione dei soldi».
A chi?
«Alle varie componenti organizzate della Margherita. Non deve essere stato casuale se a quella convocazione hanno risposto solo responsabili e referenti delle componenti. Ricordo ancora Gentiloni che avvertì: “Stiamo dando l’idea che ci vogliamo spartire il malloppo”».
Scusi Neri, ma perché non avete denunciato subito e per tempo queste opacità?
(Prende tempo e cerca di calibrare bene le parole) «Probabilmente tutti pensavano che il tesoretto sarebbe stato redistribuito in parti congrue. Ecco perché non ci sono state denunce».
Ha idea quanti soldi abbia ricevuto la Margherita dal 2006 a oggi come finanziamento pubblico?
«No, nessuna. E come me la maggior parte dei 398 membri dell’assemblea».
Eppure da allora avete approvato cinque bilanci. Le sembra normale? «Tutto è inverosimile in questa vicenda. La maggior parte di noi apprende le cose dai giornali. Non sapevamo e non sappiamo nulla. È gravissimo ad esempio che Rutelli sia stato interrogato il 17 gennaio, abbia fatto dimettere Lusi dall’incarico di tesoriere solo una settimana dopo (il 25 gennaio, ndr). E se non fossero usciti i giornali il 31 gennaio, non avremmo saputo nulla neppure dopo». Rutelli dice di essere stato fregato dall’amico di una vita. Possibile che Lusi abbia fatto tutto da solo? «Alla ricostruzione di Lusi ladro in solitaria non crede nessuno. Meno che mai io. Rutelli sapeva dell’esistenza della TTT srl. Una cosa è certa: colpevolmente non ci sono state le informazioni obbligatorie per legge. Per questo chiedo le dimissioni di tutti. Immediate. Ed è già troppo tardi». Andrà in Procura?
«Chiederò di essere sentito».

L’Unità 6.2.12
Pd, con Epifani nasce il laboratorio laburista «Partire dai più deboli»
«Portare il Pd più a sinistra». A Roma nasce il laboratorio di Ghezzi, Folena e Gentili. Sponsor Epifani e Fassina. L’ex leader Cgil critica le manovre di Monti e dice: «Per diventare un partito il Pd deve scegliere il lavoro»
di Andrea Carugati


Una svolta a sinistra del Pd nel nome del socialismo europeo. È l’obiettivo, assai ambizioso, di un gruppo di esponenti democratici che si è riunito ieri a Roma, al centro congressi Cgil di via dei Frentani.
All’appello dei promotori, Sergio Gentili, l’ex coordinatore Ds Pietro Folena e il presidente della Fondazione Di Vittorio Carlo Ghezzi, hanno risposto, tra gli altri, l’ex leader della Cgil Guglielmo Epifani, il responsabile Economico Stefano Fassina, la segretaria generale dello Spi Carla Cantone e il governatore della Toscana Enrico Rossi (fermato dalla neve). Anche Pierre Carniti non è potuto intervenire, ma ha inviato un intervento scritto.
In sala si mormora della nascita della nascita di una nuova area Pd a forte trazione laburista, che farebbe capo proprio ad Epifani. Ma i promotori smentiscono: «Non siamo qui per fare la 19esima corrente», chiarisce subito Folena. «Vogliamo costruire un laboratorio, unire nel Pd chi ha l’ansia di trasformare la società, di tramutare l’indignazione in politica». Folena parla dei «gravi errori» prodotti a sinistra dall’«illusione liberale» e chiede più coraggio: «Se Hollande dice che il vero avversario è la finanza può dirlo anche il Pd». «Altro che lettera della Bce», insiste l’ex coordinatore Ds. «Il nostro obiettivo è un patto politico tra i socialisti per cambiare l’Europa». L’altro tema chiave è la natura del Pd, e il suo rapporto con il governo Monti. Epifani non lesina critiche: a partire dall’articolo 18 («È falso dire che frena gli investimenti stranieri e la crescita») e dalle pensioni: «Il contributivo puro è un errore, sbagliato anche alzare le accise sulla benzina».
Carlo Ghezzi spiega che il nascituro gruppo «ha l’obiettivo di ri-orientare il Pd, di farlo diventare una forza che si oppone al neo-liberismo». «Dopo aver invitato Hollande, Bersani deve andare avanti senza timidezze, e senza subire ricatti». Altri parlano della necessità di «scuotere il partito dal suo torpore», di «ricordargli la sua funzione sociale». L’ex leader Cgil la mette così: «Il governo tecnico è un’anomalia che rischia di far male alla democrazia e di travolgere i partiti. Noi vogliamo fare qualcosa per far uscire il Pd da questa situazione, e preparare il “dopo Monti”». La ricetta di Epifani parte dal lavoro: «Oggi il Pd sembra più uno spazio pubblico che un partito. Per diventare un partito deve discutere e poi scegliere una linea. All’ultimo Forum sul Lavoro qualcuno si è lamentato per l’assenza degli imprenditori. Che senso ha? Il Pd deve partire sempre dai più deboli».
LA CONTROFFENSIVA DI FASSINA
Anche Fassina benedice il nuovo “laboratorio”: «Dobbiamo lanciare una controffensiva culturale forte contro le idee liberiste che ci hanno portato al disastro e che anche oggi vengono portate in trionfo dagli editoriali di Alesina e Giavazzi sul Corriere, gli stessi da 20 anni...». «Anche tra noidicec’è chi pensa che la modernità dei “sacerdoti di Francoforte” e la tecnocrazia siano l’unica strada possibile e che il compito della sinistra sia far accettare alla gente le scelte impopolari». «Io invece dico che il compito dei progressisti è orientare il cambiamento, ribaltare questa lettura, altrimenti abbiamo già perso in partenza...». Fassina non risparmia critiche a Monti. «C’è un rapporto di sufficienza con le parti sociali, il dialogo viene ritenuto sostanzialmente inutile, un atto di buona educazione per limitare i conflitti. Anche il Parlamento, in fondo, viene ritenuto inutile, e i partiti corporativi...». «Questo è un governo di emergenza che bilancia interessi contrapposti tra le forze che lo sostengono. Dobbiamo starci, ma con la schiena dritta. E se sul lavoro il governo sposa la linea della destra per noi diventa insostenibile». Carla Cantone parla di «supponenza» di Monti verso le parti sociali. E avverte: «Se il Pd non interviene pagherà un prezzo altissimo».

La Stampa 6.2.12
La maledizione dei giovani, precario il 47%
L’Istat: fra i nuovi assunti la quota di impieghi a scadenza sale al 70 per cento
di Luigi Grassia


+7,6% nel 2011. La crescita dei precari che l’Istat ha rilevato nel terzo trimestre dell’anno scorso
8% gli over-35. Alzando l’asticella dell’età, la quota dei precari scende a questo numero
25% part-time. Un quarto dei lavoratori precari è pure impiegato a tempo parziale
2,74 milioni. È la somma dei precari ma senza considerare i molti irregolari e le finte partite Iva

In Italia essere giovane vuol dire in quasi metà dei casi essere anche precario: risulta dai numeri dell’Istat che nella classe d’età fra i 15 e i 24 anni, e considerando solo chi ha un lavoro, i dipendenti a tempo determinato (cioè con la data di scadenza) sono pari al 46,7% degli occupati.
La quota dei precari resta elevata anche se si alza l’asticella dell’età allo scaglione successivo: fra i 25 e i 34 anni, il 18 per cento dei dipendenti risulta assunto con un contratto a tempo determinato. Per veder scendere l’incidenza della precarietà a valori molto più bassi bisogna guardare al mondo del lavoro da 35 anni in su: in questa fascia pienamente adulta di persone solo l’8% è precario, con un’ulteriore distinzione: il valore è dell’8,3% fra i 35 e i 54 anni e scende al 6,3% fra gli over-55.
Le cifre riportare sopra si riferiscono alla media del 2010 e bisogna tener presente che valgono per chi ha la fortuna di avere un lavoro, mentre per gli altri anche la precarietà può essere un sogno impossibile. Infatti dati sulla disoccupazione parlano di un giovane su tre a casa per forza, non riuscendo a trovare un impiego di nessun tipo.
E le cose dal punto di vista della precarietà sono in via di peggioramento: per colpa della crisi che morde, più del 70% dei nuovi ingressi dei ragazzi e delle ragazze è a tempo.
Invece dai dati dell’Istat relativi al terzo trimestre 2011 risulta che Italia fra luglio e settembre c’erano 2,364 milioni di dipendenti a tempo determinato e 385 mila collaboratori. In tutto 2,749 milioni di persone a cui manca il posto fisso, ovvero lavoratori «atipici». Purtroppo questi numeri sulla precarietà non sono esaustivi, rappresentano solo una base di partenza, uno «zoccolo duro»: il totale risulterebbe molto più alto se ai precari formalmente censiti come tali si aggiungesse tutto il vasto sottobosco di rapporti di lavoro ancora più deboli, cioè gli irregolari, e le innumerevoli forme di abuso, a cominciare dalle cosiddette «false partite Iva», presunti liberi professionisti che in realtà sono lavoratori dipendenti senza le tutele di legge e sfruttati.
Per di più il fenomeno non è affatto in regresso, anzi il numero dei precari risulta in forte aumento; secondo l’Istat i dipendenti a termine nel terzo trimestre del 2011 sono cresciuti, su base annua, del 7,6% (+166 mila persone) e l’incidenza del lavoro «a tempo» sul totale degli occupati ha toccato il 10,3%. Inoltre, fra gli assunti con la data di scadenza una forte quota (il 25 per cento) vede la condizione di lavoro ulteriormente peggiorata dall’avere un contratto part-time. E a causa della crisi l’unica forma di part-time in crescita è quella involontaria, ovvero imposta dal datore di lavoro e non chiesta dal lavoratore o dalla lavoratrice per ragioni loro.
Tutto questo sarebbe più sopportabile se la precarietà fosse temporanea e servisse ad agevolare un ingresso nel mercato del lavoro, come semplice prima tappa di un dignitoso posto a tempo indeterminato, da raggiungere dopo un po’; ma finché l’economia non riparte il meccanismo è bloccato, resta solo la pura lotta per la sopravvivenza, senza prospettive.

Corriere della Sera 6.2.12
Immigrazione e disoccupazione, perché abbiamo entrambe
risponde Sergio Romano


Sono ormai noti a tutti noi i dati preoccupanti sulla disoccupazione in Italia, per non parlare di quella giovanile che addirittura raggiunge il 30 per cento. Sarà pure una semplice coincidenza, ma nel nostro Paese la percentuale dei disoccupati risulta essere la stessa degli immigrati presenti e regolarmente impiegati nelle fabbriche. Non sarebbe ora di «studiare» se esiste una correlazione tra questi due dati e che, forse, da noi il problema non è tanto la «mancanza del lavoro» quanto l'assenza della «cultura al lavoro»?
Mario Taliani

Caro Taliani,
I dati a cui lei si riferisce valgono per quasi tutti i Paesi dell'Europa occidentale. L'immigrazione dall'Africa e dall'Asia cominciò a crescere negli anni Settanta e fu il risultato di fattori comuni. Il fenomeno rifletteva in primo luogo i progressi realizzati nei decenni precedenti. La ricostruzione del dopoguerra, l'edilizia popolare, la riforma agraria e lo Stato sociale avevano elevato il livello di vita di quello che si chiamava allora il proletariato. Le campagne si svuotavano e le università si riempivano. I figli avevano maggiori aspettative dei padri, non volevano ricadere all'indietro accettando lavori umili e pesanti.
In secondo luogo l'immigrazione rispondeva a quel bisogno di flessibilità che il mercato del lavoro aveva progressivamente perduto. Gli immigrati avevano meno esigenze, si accontentavano di salari più modesti, erano disponibili per i lavori stagionali e più facilmente licenziabili. È nato così un nuovo ceto sociale che ha meno diritti del cittadino. Non è bello, ma i sacrifici degli immigrati sono serviti a pagare la promozione sociale degli indigeni. Così è accaduto, e continua ad accadere negli Stati Uniti.
Nel quadro di questo fenomeno europeo, le Università e lo Stato italiano hanno alcune responsabilità. Quando nuovi ceti sociali cominciarono a chiedere maggiore istruzione, sarebbe stato utile introdurre l'esame d'ingresso nelle università e rafforzare contemporaneamente le scuole di formazione professionale. Temo che sia stato fatto esattamente il contrario. L'istruzione tecnica è stata lungamente trascurata, le università hanno spalancato le loro porte a chiunque avesse terminato la scuola media superiore, gli Atenei sono stati liberi di offrire corsi di studio che non avevano sbocchi professionali. Oggi abbiamo dottori in psicologia, sociologia, scienze della comunicazione che fanno fatica a trovare un lavoro. Ma abbiamo un numero d'ingegneri insufficiente e, a giudicare dalle nostre difficoltà di ogni giorno, manchiamo di elettricisti, idraulici, falegnami, periti tecnici e industriali, operai specializzati. All'origine della nostra disoccupazione non vi è soltanto la crisi del 2008. Vi è anche la negligenza con cui i governi e le università, con qualche lodevole eccezione, hanno trattato i problemi dell'istruzione tecnica e professionale.

Repubblica 6.2.12
Il rischio globale che minaccia il capitalismo
di Ulrich Beck


Così, a causa dell´emergenza, soggetti che prima erano lontani vengono messi in connessione e l´orizzonte si apre al sogno di scelte alternative alla "sovranità del mercato"
Al di là dei messaggi negativi, il crollo economico mondiale costringe ad accantonare le pretese di autosufficienza di culture e sistemi di governo, rovesciando le priorità
Per Keynes le teorie dominanti erano mistificatorie e avrebbero portato alla catastrofe
Non si può vedere nel tracollo solo un deplorevole frutto del caso o un guasto
Il giudizio sulle istituzioni è drasticamente mutato: sono ormai entità sospette 

Nel gennaio 2009, all´inaugurazione di un nuovo, sontuoso edificio della London School of Economics, la regina Elisabetta II si è rivolta all´intellighenzia del mondo economico, riunita per l´occasione, con una domanda tanto innocente quanto insidiosa – la stessa che il mondo intero si pone senza ricevere risposta: come mai nessuno di voi ci ha avvisati del rischio di tracollo dei mercati finanziari?
Di fatto, se è vero che le grandi banche e i loro manager non sono stati all´altezza, hanno fallito anche i teorici del rischio in campo economico. Nella tragicommedia rappresentata dal vivo su tutte le scene mondiali, in una successione di scompigli e trasformazioni che sembra non aver fine, i liberisti duri e puri hanno compiuto un percorso di conversione, dalla fede nel mercato alla fede nello Stato – e ritorno! Stanno chiedendo, anzi elemosinando la grazia di interventi statali: una prassi che pure hanno sempre condannato, finché è durata l´effervescenza dei profitti. Quando negli anni 1930, al tempo della prima crisi economica mondiale, Keynes tentò di decifrare i segreti dell´economia, il suo pensiero si soffermò sulla distinzione tra rischio e non conoscenza.
«Parlando di "conoscenza incerta" non mi limito a distinguere tra le cose che sappiamo con sicurezza e quelle solo probabili. Ad esempio, il gioco della roulette non è soggetto all´incertezza intesa in tal senso (...). Il significato che attribuisco a quest´espressione è lo stesso di quando diciamo di essere incerti su quali saranno, tra vent´anni, i rischi di una guerra europea, il prezzo del rame o il tasso di sconto (…). Per questioni del genere non esiste una base scientifica sulla quale fondare un qualsivoglia calcolo delle probabilità. Semplicemente, non ne sappiamo nulla». A conclusione di quanto sopra, Keynes riteneva mistificatorie le teorie economiche dominanti, che a suo parere avrebbero rischiato di provocare una catastrofe se applicate concretamente alla realtà mondiale.
Esattamente quello che è successo. L´inadeguatezza di ampi settori della scienza economica sta essenzialmente nel loro modo di rapportarsi a ciò che non sanno. La scienza economica del laissez-faire vive, pensa e conduce le proprie ricerche in una sfera ideale di rischi calcolabili, e semplicemente non vuol prendere atto che la sua marcia trionfale ha generato un mondo di incognite imprevedibili, con un potenziale di eventi catastrofici impossibili da arginare.
Quando il rischio è percepito come onnipresente, le reazioni possibili sono tre: l´ignoranza, l´apatia o la trasformazione. La prima è caratteristica della moderna economia del laissez-faire; la seconda si estrinseca nel nichilismo post-moderno; la terza costituisce il tema della mia teoria sulla «società mondiale del rischio» (Weltrisikogesellschaft). In relazione al rapporto con la conoscenza e la non conoscenza nel mondo moderno, ho individuato due fasi: quella semplice (la prima), e una seconda fase riflessa. Nella prima fase si presuppone un futuro simile al presente, per cui si ritiene di poter gestire l´incertezza autogenerata grazie al perfezionamento dei modelli matematici di rischio, migliorando così sempre più i livelli di sicurezza dell´economia e della società.
La seconda fase, che paradossalmente è un effetto collaterale dei precedenti successi, deve confrontarsi con una serie di incognite incalcolabili, le quali annullano le basi stesse di un approccio razionale al rischio – attraverso il calcolo delle probabilità, gli insegnamenti desunti dall´esperienza di passati incidenti, l´applicazione dei modelli del presente a scenari futuri, i principi assicurativi). Da qui nasce il «capitalismo mondiale del rischio», che è votato al fallimento. Lo dimostra, tra l´altro, un semplice parametro economico: esso opera al di là di ogni possibile copertura assicurativa (privata). In questo senso le grandi banche presentano un´analogia con le centrali nucleari: i loro profitti sono privati, mentre i costi delle catastrofi potenziali o reali – di portata inimmaginabile - si scaricano sulle spalle dei contribuenti.
L´insipienza autoprodotta (manufactured non-knowing) dalla marcia trionfale globale della prima modernizzazione presenta quattro caratteristiche:
1) In un mondo globalmente interconnesso i suoi effetti, non solo economici ma anche sociali e politici, non sono ormai più arginabili. Perciò non si può più vedere nell´incombente tracollo dei mercati finanziari e dell´economia mondiale solo un deplorevole frutto del caso, o magari un guasto che in futuro si possa evitare, o almeno aggiustare con opportune riparazioni tecniche o perfezionamenti matematici - e non invece un fenomeno immanente al sistema del capitalismo mondiale del rischio.
2) In linea di principio, le conseguenze sono incalcolabili. Si cerca di migliorare il grado di razionalità delle decisioni in campo economico, rifiutando però di vedere che il diavolo non si nasconde nelle decisioni in quanto tali, bensì nelle loro conseguenze, potenzialmente catastrofiche.
3)Queste conseguenze non sono indennizzabili. Il sogno di sicurezza della prima modernizzazione non escludeva i danni (anche di vasta portata); ma proprio il verificarsi di incidenti rendeva possibile un processo di apprendimento su come affrontare le manufactured uncertainties – le incognite autoprodotte. Mentre oggi viviamo in un capitalismo mondiale del rischio sul quale incombono catastrofi tali da far apparire assurda qualunque ipotesi di risarcimento (assicurativo); e che dunque vanno prevenute con ogni mezzo, poiché metterebbero a repentaglio la sopravvivenza (economica) di tutti. Quando ci ritroveremo con un cambiamento climatico irreversibile, una catastrofe economica o la disintegrazione dell´euro, sarà ormai troppo tardi. A fronte di questo nuovo livello qualitativo di una minaccia che ci riguarda tutti, senza più limiti in senso sia economico che sociale e politico, la razionalità degli insegnamenti tratti dell´esperienza perde la sua validità; e a sostituirla subentra il principio di precauzione e prevenzione.
4) A dominare è oggi la non conoscenza, che si presenta in diverse sfumature: dall´«ancora non si sa» (quindi una condizione superabile grazie a un impegno scientifico più massiccio e qualitativamente migliore) all´ignoranza volutamente coltivata, passando per l´insipienza consapevole, fino all´«impossibilità di sapere». Al confronto anche l´ironia socratica – «so di non sapere nulla» - appare inoffensiva. Siamo costretti a muoverci e ad affermarci in un mondo ove non abbiamo idea di tutto ciò che ignoriamo; ed è proprio da qui che nascono pericoli dei quali non sappiamo neppure con certezza se esistano o meno! A questo punto svanisce anche il confine tra pubblico isterismo e responsabilità politica.
Prima della crisi finanziaria, gli esperti economici e politici asserivano di avere su tutto conoscenze precise e di tenere in mano la situazione. Ma all´improvviso, una volta esplosa la crisi finanziaria, non sapevano più nulla (senza però confessarlo in pubblico, e neppure a se stessi). E´ stata proprio la crisi dei mercati finanziari globali a porre drammaticamente davanti agli occhi dell´opinione pubblica la dinamica sociale e politica dell´insipienza.
L´interazione tra non conoscenza, fiducia e rischio ha un ruolo centrale nella dinamica politica: l´incapacità di sapere, pubblicamente esperita e riflessa, mette a repentaglio la «sicurezza ontologica», o in altri termini, la fiducia nelle istituzioni di base della società moderna, così come nella scienza, nell´economia e nella politica, che dovrebbero essere garanti di razionalità e sicurezza. Di conseguenza, il giudizio su queste istituzioni è drasticamente mutato: non più fiduciarie, ma entità sospette. Se prima erano viste come responsabili della gestione del rischio, oramai sono sospettate di esserne la fonte.
Chi vedesse in questo un pessimismo millenarista neospengleriano non avrebbe compreso il punto che per me è cruciale: la distinzione tra la nozione di rischio e la catastrofe dev´essere ben chiara. Rischio non vuol dire catastrofe, ma proiezione del suo scenario nel presente, con l´obiettivo di evitarla. Il futuro di là da venire rimane fuori dalla nostra portata. Oggi non è più possibile costruire uno scenario del futuro desumendolo dal presente.
Dobbiamo «metterlo in scena», renderlo visibile prima che si materializzi. Il dramma della minaccia di un tracollo dell´economia mondiale si svolge quotidianamente davanti ai teleschermi nei tinelli di tutto il pianeta. Ma questa drammaturgia mediatica dei rischi catastrofici ha scatenato una mobilitazione, storicamente senza precedenti, dell´opinione pubblica mondiale, di movimenti sociali e di attori politici nazionali e internazionali.
Tutti si guardano intorno alla ricerca di un contropotere. Ma neppure affiggendo annunci del tipo «Chi l´ha visto?» avremo qualche probabilità di trovare il soggetto rivoluzionario. Ovviamente ci si sente meglio quando si ricorre a tutti i mezzi disponibili per fare appello alla ragione. Si potrebbe anche fondare da qualche parte un ennesimo centro di discussione («commissione etica») per la soluzione dei problemi mondiali. O tornare a ravvivare la speranza nel discernimento dei partiti politici.
Ma se alla fine tutto questo si rivelasse insufficiente per incitare a un´azione politica di contrasto, ci rimane una risorsa: la coscienza delle ripercussioni politiche della società mondiale del rischio. Ma oramai è la stessa incalcolabile portata dei rischi globali ad assumersi in proprio il ruolo finora svolto dai loro critici. La questione della crisi del capitalismo è onnipresente. Perciò si pone in maniera più pressante, e magari con qualche chance in più, il problema di indicare nuove vie, all´interno e persino in alternativa al capitalismo.
Non si avverte forse la necessità di una riforma ecologica e sociale della (o nella) seconda modernizzazione, ponendo al centro i valori e i problemi della giustizia e della sostenibilità? Oggi questo pubblico brainstorming è impersonato dal movimento Occupy Wall Street. Il diktat degli onnipresenti rischi finanziari ha impartito ai comuni cittadini qualcosa come un corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo globale; e l´impossibilità di sapere di esperti e politici è ormai condivisa dal pubblico, con crescente impazienza, davanti alla necessità di un deciso cambio di rotta, a livello sia nazionale che internazionale, nell´interazione tra economia, società e politica.
L´onnipresenza di incognite incontrollabili richiama una prevenzione di stato. E´ vero che il ritorno a un´economia statale di piano non è proponibile. Ma neppure si può ignorare che oggi, davanti al rischio di una nuova crisi economica mondiale di vasta portata, la «sovranità del mercato» rappresenta una minaccia esistenziale senza precedenti. In altri termini, quest´esperienza storica insegna che il progetto neoliberista – di riduzione dello Stato ai minimi termini – è fallito; e in controtendenza ad esso si fa sempre più forte il richiamo alla responsabilità statale, a fronte di un´economia mondiale che produce vortici di incertezza incontrollabili, mettendo a rischio la vita di tutti.
Da tutto questo, al di là dei messaggi negativi, emerge una buona notizia. L´egoismo, l´autonomia, l´autopoiesi, l´isolamento del sé rappresentano i concetti chiave attraverso i quali la società moderna descrive se stessa. Ora, la logica del rischio globale va intesa secondo il principio esattamente opposto, quello dell´apprendimento involontario. In un mondo di contrasti inconciliabili, in cui ciascuno gira intorno a se stesso, il rischio mondiale pone in primo piano l´imperativo, non voluto né intenzionale, della comunicazione.
Il rischio finanziario pubblicamente recepito costringe alla comunicazione soggetti che altrimenti non vorrebbero avere nulla a che fare gli uni con gli altri; e impone costi ed impegni a chi fa di tutto per evitarli – e non di rado ha dalla propria parte le leggi in vigore. In altri termini: la fusione globalizzata della non conoscenza e del rischio di sopravvivenza impone di accantonare la pretesa di autosufficienza di culture, lingue, esperti, religioni e sistemi politici, e cambia l´agenda nazionale e internazionale; ne rovescia le priorità, aprendo l´orizzonte al sogno di scelte alternative – come ad esempio la tassa sulle transazioni finanziarie, che ancora poco tempo fa passava per inapplicabile e ridicola.
Ma a questo punto, la hegeliana astuzia della ragione non è la sola ad avere una chance. Potrebbe averla anche uno scenario alla Carl Schmitt – l´emergenza assurta a normalità - favorendo la ripresa del nazionalismo e la xenofobia, chiaramente osservabili, e non solo nell´Eurozona. La possibilità che queste due dinamiche contrastanti – Hegel e Schmitt – possano unirsi tra loro trova conferma nel modo in cui Angela Merkel collega europeismo e nazionalismo, in base al modello di un euronazionalismo tedesco, da lei eretto a parametro del risanamento dell´Europa dalla «malattia greca».
Ma a parlare questo stesso linguaggio è anche la duplicità dei rapporti tra due potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina. Gli Usa si sono lasciati ipotecare dalla Cina, che in quanto Paese finanziatore è profondamente coinvolta, con i suoi vitali interessi nazionali, nel superamento della crisi del debito di Washington. Così questi due Paesi sono al tempo stesso incatenati l´uno all´altro per la propria sopravvivenza economica, e rivali in lotta tra loro per la conquista del potere mondiale.
(Traduzione di Elisabetta Horvat) © Ulrich Beck, 2012

L’Unità 6.2.12
Le manovre del Cavaliere che vuole rientrare in gioco
In Italia si stanno ponendo le basi per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica di Berlusconi. Per questo su Monti ha improvvisamente cambiato linea
Un sentiero stretto. Il Pd deve impedire che il costo della crisi si scarichi sugli strati più deboli con l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui così si salva il futuro delle «nuove generazioni»
di Michele Ciliberto


In questi giorni sono accadute cose inquietanti: le nomine alla Rai imposte da Pdl e Lega, il voto della Camera a favore di una norma contro i magistrati, gli emendamenti in Senato per frenare le liberalizzazioni. A loro volta i giornali di destra, approfittando della situazione per spingere il Pdl fuori dall’angolo, si sono messi a dare giudizi assai positivi sul governo Monti, cercando di annetterlo al loro schieramento e contrapponendolo direttamente al Pd.
Sono manovre comprensibili, come è comprensibile che Berlusconi cerchi di rientrare nel gioco politico, nei modi e nelle forme possibili. Dispone ancora di una significativa forza elettorale, né ha rinunciato a svolgere un ruolo nel nostro Paese. Non credo però che abbia reali spazi di manovra: in Italia, tutto il sistema politico è entrato in una fase di crisi e di trasformazione, e si stanno ponendo le basi anche per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica berlusconiana. Questo è il punto centrale su cui riflettere.
Una volta Andreotti disse che la Democrazia cristiana era come la cozza che pulisce e filtra l’acqua nera, alludendo alla funzione che il suo partito svolgeva impedendo che si affermasse in Italia, quale forza di governo, un partito di destra come è poi avvenuto con la fine della Dc e con l’avvento di Berlusconi. Oggi si sono riaperte le condizioni per costruire nel nostro Paese una destra di tipo moderno, europeo. Ma una prospettiva di questo tipo è legata a due elementi strettamente connessi: alla funzione che il governo Monti riesce a svolgere e, in questo quadro, al rapporto che si stabilisce fra il governo Monti e il Partito democratico.
È naturale che ci possano essere contrasti e differenze, anche profonde, di valutazione. Sarebbe singolare il contrario, così come sarebbe ingenuo sorprendersi per le prese di posizione di Monti in questi giorni sulla «monotonia» del posto fisso, sull’articolo 18, sulla necessità di procedere a un’organica, e drastica, riforma del mercato del lavoro coerente con gli orientamenti della Bce... Monti non ha mai nascosto queste sue posizioni: i governi «tecnici» non esistono; sono sempre, direttamente e indirettamente, espressioni di forze sociali ed economiche, di interessi, e su questi basano la loro forza e anche il loro consenso.
Né è immaginabile che il Pd non fosse consapevole di questo e della direzione che Monti avrebbe dato al suo governo. Per senso di responsabilità ha deciso di rinunciare alle elezioni e di sostenere la nascita di un nuovo governo, con il mandato e questa è stata la ragione fondamentale della sua scelta di portare il Paese fuori dalla crisi in cui era precipitato, sia per la situazione internazionale che per responsabilità specifiche del governo Berlusconi.
Monti e il Pd vengono entrambi da molto lontano (come si sarebbe detto una volta), né è facile o scontata la loro collaborazione. Ma essa è fondamentale, in questo momento, sia per dare una prospettiva all’Italia sia per mettere su nuove basi l’intero sistema politico. E tanto più essa sarà feconda quanto più il Pd farà sentire la sua forza cercando, senza venir meno alla propria responsabilità nazionale, di far in modo che il costo della crisi e del suo superamento non si scarichi sugli strati più deboli e sulle classi lavoratrici sfruttando l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui in questo modo si salva il futuro delle «nuove generazioni».
Il Pd deve dire, giorno dopo giorno, che la posta in gioco è altissima; deve convogliare intorno a sé tutte le forze che vogliono riformare in senso progressista questo Paese; deve rendere chiaro che siamo in una situazione eccezionale, che richiede sforzi eccezionali; deve spiegare i motivi per i quali sostiene questo governo, impedendo che esso faccia scelte conservatrici.
Non è una strada facile né lineare, ma è l’unica che oggi si possa seguire se si vuol dare una prospettiva all’Italia, ponendo su nuove basi il nostro sistema democratico e costruendo un bipolarismo che non si risolva, come è avvenuto con Berlusconi, nella rinascita del nostro vecchio, e tradizionale, trasformismo.
Come dicevano gli antichi, il futuro è sulle ginocchia di Giove. Ma due cose appaiono certe: nonostante le avances dei suoi «trombetti», Berlusconi non ha niente a che fare con tutto questo. Una nuova storia potrà nascere solo se Monti e il Pd riusciranno a trovare un «punto dell’unione», riconoscendo reciprocamente le loro ragioni.

Corriere della Sera 6.2.12
Una maturità da ritrovare
di Ernesto Galli Della Loggia


Per giudizio di tutti gli osservatori e secondo tutti i sondaggi la credibilità dei partiti politici italiani è oggi vicina allo zero. Eppure, forse illudendosi che a un tratto ogni cosa possa tornare miracolosamente come prima, nessuno di essi si chiede veramente perché mai tutto ciò è accaduto. Perché mai, quando il Paese si è trovato con l'acqua alla gola, quando è stata necessaria un'azione politica urgente e incisiva, si è dovuto ricorrere non a loro ma ad altri. E i partiti sono stati messi da parte.
È proprio tale mancanza di analisi autocritica, a me pare, la causa prima dell'incertezza, dei continui tentennamenti, con cui i partiti suddetti stanno affrontando quell'unico tema, ma davvero cruciale, ormai rimasto nel loro dominio: e cioè la riforma della legge elettorale e della parte della Costituzione concernente l'organizzazione dei poteri pubblici. I partiti fanno fatica a capire la necessità di procedere a una tale riforma, e come farlo, perché sembrano non avere ancora chiaro che cos'è che li ha portati al punto in cui sono, che cos'è che non è andato per il verso giusto nell'esperienza politica che li ha visti protagonisti. Cioè nell'esperienza della democrazia italiana. Eppure è solo facendo chiarezza su questo passato che essi possono sperare di avere un futuro.
Ora, se è vero che nel nostro Paese proprio la presenza di una democrazia dei partiti ha avuto l'effetto di promuovere un alto grado di pluralismo, è anche vero che la medesima assoluta centralità dei partiti è stata all'origine di un'intermediazione politica pervasiva e generalizzata. La quale si è tramutata, durante la Prima Repubblica, in una formidabile spinta alla corporativizzazione della società italiana, nonché alla creazione di crescenti deficit di bilancio trasformatisi con il tempo in un crescente debito pubblico. Una molteplicità di gruppi professionali, di sindacati, di gruppi d'interesse (e talora di vero e proprio malaffare), innanzi tutto condizionando in mille modi la scelta dei candidati e la loro elezione, e poi stabilendo rapporti privilegiati con l'alta burocrazia e i gabinetti ministeriali, si sono impadroniti di fatto di una parte significativa del processo legislativo piegandolo ai propri voleri. La sostanziale impotenza dell'esecutivo espressamente voluta dalla Costituzione, unitamente alla frequente scarsa capacità dei ministri di controllare l'operato dell'amministrazione, hanno fatto il resto. È accaduto così che in Italia l'esperienza democratica con al centro i partiti si sia trasformata in vera e propria partitocrazia, al tempo stesso sempre più alimentando un processo patologico di frantumazione lobbistico-corporativa.
Che cosa hanno fatto i partiti per porre rimedio a tutto questo? Praticamente nulla. Si può anzi dire che per moltissimo tempo (in sostanza fino ad oggi), tranne la pugnace quanto inascoltata pattuglia dei Radicali, essi abbiano addirittura negato i fatti e voltato la testa dall'altra parte. Ora però non è più possibile. Ora, se desiderano riacquistare un ruolo effettivo nella vita italiana, stanno davanti a loro due compiti ineludibili: quello di recuperare la dimensione nazional-statale (di cui ho già detto in un mio precedente articolo: Corriere, 31 gennaio scorso) e quello di ripensare a fondo, spregiudicatamente, la propria intera esperienza nella democrazia italiana. Soprattutto di ripensare in che modo sistemi elettorali inadeguati e una Costituzione inattuale hanno influito su quell'esperienza contribuendo ad avviarla al fallimento odierno.

La Stampa 6.2.12
Mutilazioni genitali settemila bimbe a rischio
In uno studio i dati choc sull’infibulazione in Italia
Oggi è la giornata mondiale contro questa pratica
di Maria Corbi


I dati sono contenuti nel dossier «Il diritto di essere bambine»
IL FENOMENO L’usanza si è diffusa con l’incremento dell’immigrazione
LA TESTIMONIANZA «Spesso sono le stesse mamme a imporre quel supplizio alle figlie»

Ci sono cose che crediamo lontane dal nostro piccolo mondo sicuro. O forse siamo solo miopi rispetto a quello che ci circonda. Altrimenti non c’è spiegazione per lo stupore che colpisce come una lama quando si leggono le cifre raccolte dall’Albero della Vita in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni femminili, oggi: «In Italia a rischio 93.000 donne, fra cui più di 7.700 bambine».
Una cifra enorme, minuscola se rapportata al mondo dove ogni anno 140 milioni di donne sono sottoposte a queste pratiche barbare che ledono corpo, cuore, anima.
Il dossier «Il diritto di essere bambine» realizzato da L’Albero della Vita con l’Associazione Interculturale Nosotras, è una ferita anche per la società occidentale evoluta che deve fare i conti con il fenomeno dell’immigrazione. Per questo è partito nelle scuole (per adesso solo in Toscana) il progetto «pilota» di formazione e prevenzione. Per questo le parole di Gloria, una donna nigeriana sfregiata nella sua dignità quando era una bambina, sono oggi così importanti, la frattura di un muro di omertà. Gloria ha 35 anni, vive in Toscana e non si è mai sposata. Il pudore le impedisce di spiegare che anche la violenza che ha subito, quel coltello che le ha tolto un pezzo del suo essere donna, ha indirizzato la sua vita. «Voglio spiegare quello che mi è capitato perché non deve succedere più».
Gloria viveva in un paesino della Nigeria con sua nonna, una delle «ostetriche» locali che avevano il compito di incidere con la lama i genitali delle bambine per preservare la loro purezza. «Il coltello di nonna - racconta - doveva passare a me quando avessi avuto l’età per diventare io stessa l’aguzzina delle mie simili». Non c’è rancore nelle parole di questa donna che oggi ha deciso di aiutareil prossimo in Italia facendo l’infermiera. Lei ama sua nonna, una donna che aveva il limite di essere nata in un posto in cui le donne erano considerate ai suoi tempi solo forza da lavoro e da letto. Oggi che anche lì le cose sono cambiate, che ci sono donne in politica e negli affari, quello che non cambia è la consuetudine di imporre le mutilazioni alle bambine. Ne esistono di tre tipi, di ferocia diversa, dall’incisione al clitoride, all’asportazione delle piccole labbra, alla vera e propria infibulazione faraonica (cucitura delle grandi labbra per la restrizione dell’apertura vaginale).
In Egitto ancora oggi tra l’85 per cento e il 95 per cento delle donne ha subito l’infibulazione. In Somalia si sale al 98 per cento. Una donna non infibulata viene considerata impura, non riesce a trovare marito e rischia l’allontanamento dalla società.
Gloria ricorda il momento in cui decise che si sarebbe battuta contro questo orrore. «Avevo solo 11 anni quando ho assistito a una cerimonia in cui veniva mutilata una mia amichetta. Lei da neonata era stata male, era debole, per cui non le avevano praticato l’incisione. A nove anni invece la hanno considerata pronta e mia nonna mi ha detto che io dovevo fare parte del gruppo di donne che dovevano assistere al rito. Per spiegarmi per farmi accettare la cosa mi diceva che dopo una ragazza diventava più bella e pura. È stato terribile, un incubo che mi porto ancora dietro. In quel momento ho deciso che avrei combattuto per evitare ad altre donne questa ferita impossibile da rimarginare, soprattutto nella propria anima».
Gloria spiega che nonostante le leggi severe messe in campo dall’Italia per contrastare le mutilazioni genitali femminili, la battaglia è solo all’inizio. Un problema culturale, non religioso ed è una guerra tutta femminile. «Spesso gli uomini non sanno nemmeno di cosa si parla, a volte non sono neanche d’accordo. Mentre spesso sono le donne della famiglia che insistono perché le nuove leve abbiano questo marchio di purezza. Conosco a Firenze una signora del mio paese il cui marito è contrario a sottoporre la figlioletta alla mutilazione genitale. Ma lei mi ha detto chiaramente che quando tornerà al paese per le vacanze porterà con se la bambina perché venga “purificata”. Non vuole subire il disonore quando la piccola sarà adulta».

Corriere della Sera 6.2.12
La Nobel Karman: «Noi arabi, furiosi con Mosca e Pechino complici di Assad»
di Cecilia Zecchinelli


ROMA — Se l'ambasciatrice Usa all'Onu si è detta «disgustata» dal veto russo-cinese della risoluzione anti Assad e Hillary Clinton ha definito quel voto una «farsa», Tawakkul Karman, è «semplicemente furiosa». «Come tutti gli arabi del resto» aggiunge la yemenita premio Nobel per la Pace 2011 che imputa a Mosca e Pechino «la responsabilità morale e umana dei crimini orrendi del regime siriano. Cosa chiedo? Cosa tutto il mondo deve chiedere? Non certo un intervento armato come in Libia, ma il massimo delle sanzioni possibili, il congelamento dei beni degli Assad, il deferimento alla Corte internazionale del dittatore di Damasco e di tutti i dittatori che ancora resistono. Compreso quello del mio Paese, Ali Saleh, scappato in Usa con la promessa dell'immunità da parte degli Stati del Golfo che nessuno riconosce. Anche Saleh va processato. E ai governi ora chiedo di ritirare i loro ambasciatori dalla Siria e sbattere fuori quelli di Damasco dai loro Paesi».
L'attivista e giornalista 32enne soprannominata «signora di ferro», anche se con Margaret Thatcher condivide poco oltre l'enorme determinazione, è da ieri in Italia per la prima volta. Dopo una conferenza stampa oggi al Partito radicale che l'ha invitata, vedrà il premier Mario Monti, il presidente Giorgio Napolitano, il ministro degli Esteri Giulio Terzi. Una tappa del tour che da mesi compie nel mondo incontrando i leader dei maggiori Paesi, dalla Clinton a Juppé.
Qual è il suo messaggio?
«Ascoltate la voce del popolo yemenita, di quelli arabi. Non dimenticate i nostri giovani, le donne. Riconoscete i nostri successi e aiutateci perché siamo il futuro. Abbiamo già vinto la prima battaglia in molti Paesi».
Non pensa che la primavera araba sia finita, che la controrivoluzione stia vincendo?
«Certo che no. Il primo passo è stato compiuto sconfiggendo molti dittatori e soprattutto trovando la fiducia in noi stessi, la società civile, che prima non c'era. Abbiamo distrutto ora dobbiamo creare. Il secondo passo sarà costruire il nuovo ordine, ma ci vorrà tempo. Nemmeno in America e in Europa le rivoluzioni hanno portato subito alla democrazia. I leader occidentali che ho incontrato lo sanno, la loro risposta è stata di apertura e sostegno».
Anche se lei è velata e appoggia i Fratelli Musulmani? Le risposte dei leader e il Nobel sono un riconoscimento che Islam e democrazia possono convivere?
«Il Premio per la pace, il presidente dei Nobel l'ha detto chiaramente, significa che il mondo ha capito che il terrorismo non nasce dalla nostra religione ma dalle dittature. L'Islam sa essere pacifico, umano. I muri delle divisioni sono costruiti dai despoti per paura di perdere potere».
Eppure l'Occidente ma anche molti arabi, molte donne, temono l'avanzata dei partiti religiosi, dalla Tunisia all'Egitto.
«Paura infondata. Nemmeno i salafiti, che personalmente non approvo, vanno marginalizzati. Non dobbiamo fare gli errori dei vecchi regimi, tutti in democrazia possono partecipare alla politica, restarne fuori è ben più pericoloso. Poi, se non saranno all'altezza, verranno sconfitti al prossimo voto. Anche voi dovete credere nelle nostre rivoluzioni: giudicarle subito, dopo appena un'elezione non ha senso».

Corriere della Sera 6.2.12
«Tibet libero» Altri tre monaci si danno fuoco
La rivolta contro l'occupazione cinese
di Paolo Salom


PECHINO — La guerra del fuoco non si ferma. Venerdì — ma la notizia è filtrata solo ieri attraverso le fitte maglie del controllo cinese — tre tibetani si sono autoimmolati nel Sichuan occidentale, la zona al confine con il Tetto del mondo virtualmente isolata dal resto del Paese. È stata Radio Free Asia a dare la notizia, ripresa poi dalle maggiori agenzie. I tre si sarebbero cosparsi di un liquido infiammabile, poi avrebbero gridato slogan indipendentisti e in favore del rientro dall'esilio del Dalai Lama, capo spirituale del buddhismo tibetano, fuggito dalla Repubblica Popolare nel 1959. Tre scintille e l'odore acre della combustione di vestiti e carne si è diffuso in un villaggio nella contea di Seda, Serthar in lingua locale, al centro dei recenti, sanguinosi disordini. La polizia è intervenuta in pochi attimi. Due dimostranti sono stati salvati, anche se non si sa in che condizioni si trovino: Tsaptsai Tsering, 60 anni, e il suo compagno di lotta Kyarel, 30, sono stati ricoverati. Ma per uno dei tre, rimasto senza nome, non c'era già più nulla da fare: è morto sul posto. Con questo ennesimo, drammatico episodio, la conta dei tibetani — in gran parte monaci e monache — che si sono dati fuoco negli ultimi undici mesi sale a 19. Di questi, almeno 13 hanno perso la vita.
Dall'inizio di gennaio, in migliaia sono scesi nelle strade per protestare contro «l'occupazione» del Tibet da parte della Cina e per invocare il ritorno del Dalai Lama da Dharamsala, in India. Le forze speciali inviate da Pechino hanno risposto con durezza e si sono contate diverse vittime: tre per le autorità, decine per le organizzazioni tibetane all'estero. Le contee al centro della rivolta, soprattutto Seda (Serthar) e Luhuo (Draggo), sono state isolate: posti di blocco lungo le strade di accesso, telefoni e Internet tagliati. Tuttora è impossibile comunicare e le notizie escono a singhiozzo: impossibile verificarle. Certo è che il governo centrale teme una riedizione della «grande sollevazione» che nel 2008 (il 14 marzo cadrà l'anniversario) provocò 22 morti ufficiali tra Lhasa e le contee che oggi fanno parte della provincia del Sichuan ma sono a maggioranza tibetana. Ieri, una fonte anonima del governo di Pechino ha negato con forza «che sia accaduto alcunché nella regione». D'altro canto, la posizione ufficiale è nota: i monaci che si danno fuoco sono «terroristi». Recentemente, il Quotidiano del Popolo scriveva che «la stagione delle cosiddette auto immolazioni è un complotto che nasconde finalità politiche eversive. Dimostrato se non altro dal fatto che questi sedicenti monaci violano tutte le regole religiose buddhiste che non consentono in alcun modo di spegnere una vita, neppure la propria». Mentre il Global Times, giornale su posizioni nazionaliste, spiegava come «questi che si danno fuoco non fanno altro che imitare gli appartenenti ai fuorilegge della Falun Gong (una scuola buddhista entrata in clandestinità, ndr). Ora, la cricca del Dalai Lama rischia di uscire dalla religione ufficiale».
Il 22 febbraio cade il Capodanno tibetano, una stagione tradizionalmente «difficile» per la Regione autonoma riconquistata dalle truppe di Mao nel 1950. Per Pechino, l'antico regno governato dal Dalai Lama «ha sempre fatto parte della Cina». I tibetani — di fatto indipendenti dal crollo dell'ultima dinastia imperiale dei Qing (1644-1911) fino a poco dopo la nascita della Repubblica Popolare — chiedono maggiore autonomia e la fine della «colonizzazione cinese». Due verità che continueranno a scontrarsi a lungo.

L’Unità 6.2.12
La guerra di Nabokov per la sua Lolita
Nella missiva dello scrittore a un amico c’è tutta la paura di non trovare un editore per la sua ultima opera. Il romanziere capiva troppo bene che nell’America benpensante la sua «ninfetta» avrebbe fatto scandalo
di Maria Serena Palieri


Nel 1956 Vladimir Nabokov, nato 57 anni prima nella città che all’epoca si chiamava San Pietroburgo, per via delle sue aristocratiche origini dal 1917 costretto a una vita in esilio, ma in virtù delle stesse armato di altri due idiomi, oltre il russo, parlati da madrelingua, l’inglese e il francese, viveva negli Stati Uniti ormai da sedici anni. Insegnava alla Cornell University, ma era uno scrittore derubato della propria opera: il russo era la lingua in cui aveva scritto romanzi dal 1924 ma «i migliori di tali libri non sono tradotti in inglese e sono tutti proibiti per motivi politici in Russia» osservava, nella dolente e ironica postfazione con cui da quell’anno avrebbe fatto circolare l’opera che l’avrebbe imposto alla più vasta platea.
Il romanzo era Lolita, un titolo che, anche grazie alla versione cinematografica del libro data da Stanley Kubrick, sarebbe diventato nome per antonomasia delle adolescenti precocemente vocate all’eros. Non solo: in quel romanzo gogoliano il cui primo nucleo era stato scritto in russo una trentina di anni prima, ma steso alla fine in inglese, Nabokov recuperava una parola di origine seicentesca, che giaceva abbastanza sepolta nel lessico anglosassone : «nymphet», la ninfetta. Cioè la crisalide. Ovvero – non per niente lo scrittore, appassionato entomologo, passava le estati con la moglie ad acchiappare farfalle la ragazzina tra età prepubere e pubertà.
UN AUTORE SRADICATO
Eppure, nonostante questo lavoro filologico sulla lingua di adozione, e nonostante il ben più faticoso lavoro di immersione nello Zeitgeist dell’America del dopoguerra da cui il romanzo-capolavoro era uscito, Lolita, in quell’anno, era un’opera che lo doveva far sentire ancora più sradicato. Perché negli Stati Uniti Nabokov aveva ricevuto una corposa serie di rifiuti da parte degli editori, alcuni motivati con ragioni perfino comiche nel loro imbarazzato arrampicarsi sugli specchi. «Esistono almeno tre temi assolutamente tabù per quanto concerne la maggior parte degli editori americani» scrive in quella postfazione. Uno è appunto la pedofilia, ma Nabokov, senza citarla, glissa direttamente: «Gli altri due sono: un matrimonio tra negro e bianca o negra e bianco che sia completamente e luminosamente fortunato e dia luogo a un gran numero di figli e di nipoti; e l’ateo completo che conduce un’esistenza serena ed utile, e muore nel sonno all’età di centosei anni».
Quindi Lolita aveva visto la luce nel 1955 in inglese però in Francia, per l’Olympia Press, casa editrice specializzata in letteratura erotica. Ma nella stessa Francia sarebbe stato bandito dal ministero degli Interni per due anni dalla fine del 1956. Per poi trovare casa negli Usa nel 1958 da G.P.Putnam’s and Sons (e da noi tutto sommato presto, nel 1959 da Mondadori. Mentre lo stesso Nabokov l’avrebbe tradotto in russo per la newyorchese Phaedra).
Ecco il contesto in cui si colloca la lettera che qui pubblichiamo, scritta il 6 marzo 1956 da Nabokov all’amico Morris Bishop e ora recuperata in Italia da Satisfiction. Dove lo scrittore dice di sperare nella pubblicazione in Francia per Gallimard, editore «rispettabile» (e invece arriverà anche oltremare la censura e Gallimard pubblicherà il testo solo nel 1959, con la traduzione di Eric Kahane). Parla, Nabokov, nella lettera da amico ad amico («sai già tutto questo, così come lo so io»): aveva trovato Bishop alla Cornell University dove lo studioso, di sei anni più anziano, specialista in letteratura romantica e letteratura francese, gli era apparso come un «padre spirituale» (così notava il New York Times nel coccodrillo con cui nel 1973 dava l’addio a Bishop). E scrivendogli con pochi, cartesiani passaggi, sistemava la questione pornografia: può Lolita ricadere in questa categoria? No, perché è un romanzo tragico e il tragico e l’osceno non si accoppiano.
PROIEZIONE DEL SOGNO MASCHILE
Si può aggiungere qualcosa a questa osservazione di suo stesso pugno? Forse sì. In Letteratura e merci, saggio del 1999, Francesco Dragosei concludeva la sua carrellata nella narrativa novecentesca proprio all’ombra («grande») di Humbert Humbert, la voce narrante di Lolita. Scriveva: «Dire Humbert Humbert equivale a dire Lolita stessa, giacché ella non è altro che un proiezione, fatta bambola di carne, del sogno maschile di Humbert, niente più che un suo atto di ventriloquio». Cosa può essere più distante dalla materialità realistica dell’hardcore di un fantasma con cui qualcuno – il pazzo Humbert intrattiene un monologo? Mentre è stato George Steiner a notare che la lingua nordamericana ha impoverito il vocabolario dell’eros alla plastica dei telefilm. E che è la genialità di Nabokov ad aver elaborato nuovi codici sessuali, facendo «la sua grande entrata sovrana in una lingua diversa dalla propria».
Lolita ci regala 469 pagine di delirio erotico – quel tipo di delirio in cui in parallelo vedi la realtà in forma allucinata e costruisci altre realtà – senza che mai una volta venga pronunciata una parola di quelle familiari nel parlar del sesso. Leggere (o rileggere) per credere.

L’Unità 6.2.12
La lettera
«È il mio miglior libro e non è pornografia»
di Vladimir Nabokov


Cambridge, 6 Marzo 1956
Caro Mr Morris,
è stato un vero piacere ricevere la tua lettera e quella triste cartolina di Nizza nel 1906. Grazie anche per aver versato l'assegno. Speriamo di vedervi presto entrambi da queste parti. Fra pochi minuti ci prepariamo a partire per New York, dove domani farò una registrazione del primo Canto di «Onegin» per il terzo canale della Bbc. Abbiamo in programma di rientrare martedì sera.
Ho appena saputo che Gallimard intende pubblicare Lolita. Questo dovrebbe conferirgli un immagine di rispettabilità. Il libro sta riscuotendo diversi successi a Londra e a Parigi. Ti prego, amico mio, a questo punto leggilo anche tu!
Francamente non sono molto preoccupato dall'«irato Paterfamilias» Quello stupido ignorante resterebbe altrettanto sconvolto se sapesse che al Cornell ho analizzato l'Ulisse davanti a una classe di 250 studenti di entrambi i sessi. So che Lolita è il miglior libro che abbia scritto finora, e resto tranquillamente convinto che sia un serio prodotto artistico, e che nessun tribunale potrebbe provare che sia «osceno e libertino». Tutte le classificazioni, naturalmente, sfumano l'una nell'altra: una commedia in costume scritta da un buon poeta può avere anch'essa il suo lato «libertino»; ma Lolita è una tragedia.
«Pornografia» non è un'immagine estrapolata da un contesto specifico: la pornografia è un atteggiamento e un'intenzione. Il tragico e l'osceno si escludono reciprocamente.
Sai già tutto questo, così come lo so io: sto solo appuntando queste osservazioni così come mi vengono in mente, visto che è capitato che tu abbia paventato la possibilità di un attacco.
Siamo entrambi molto interessati alla mostra di Alison. Dovrai raccontarci tutto al riguardo.
Un abbraccio affettuoso a tutti e tre.

L’Unità 6.2.12
I malintesi tra Pasolini e la politica
di Roberto Carnero


Nel poemetto eponimo della raccolta Le ceneri di Gramsci, Pasolini, a colloquio con l’autore dei Quaderni del carcere, esprimeva l’ambiguità della propria appartenenza politica: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere». Davanti a Gramsci, assurto a simbolo dell’ortodossia marxista, Pasolini dichiara che il suo amore per il mondo popolare è viscerale, estraneo a ogni ideologia. La conquista della coscienza di classe, che il comunismo indicava come l’obiettivo prioritario, avrebbe significato per il proletariato una maggiore consapevolezza. Ma questo avrebbe finito con il compromettere quella spontaneità che Pasolini vedeva come la caratteristica del proletariato. Da qui la sua sofferta posizione: da una parte desidera l’evoluzione culturale e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori; ma dall’altra teme che quel processo potrebbe determinare la corruzione dell’ingenua essenza popolare.
IL CONVEGNO
Del tema «Pasolini e la politica. Una lunga incomprensione» si è discusso nel fine settimana a Casarsa della Delizia (Pordenone) in un convegno organizzato dal Comune, dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa e dal Gruppo studi storici e sociali di Pordenone «Historia». Tra i relatori, Piera Rizzolati, Adalberto Baldoni, Davide Rondoni, Luigi Gaudino, Guglielmo Cevolin e Gianni Borgna. Quest’ultimo – autore, insieme con Baldoni, del volume Una lunga incomprensione. Pasolini fra destra e sinistra (Vallecchi) – ha messo in guardia sulle letture di un Pasolini «di destra»: «Capisco che qualcuno abbia voluto leggere Pasolini in maniera strumentale, ma questa lettura non regge. Pasolini è sempre stato un progressista. La complessità di Pasolini consente di leggerlo da diverse angolazioni, in base a differenti sensibilità. Ma questo non può autorizzare distorsioni della sua figura e del suo pensiero». Giusta puntualizzazione per evitare pericolose confusioni. E per restituire a Pasolini ciò che gli spetta.

Repubblica 67.2.12
Padre Spataro: “Così la fede ci aiuta a capire Internet”


"La rivista che dirigo resterà su carta, però siamo su Facebook e pensiamo all´iPad"
"La Rete sembra moderna, ma esprime domande antiche, anche quella su Dio"
Il direttore di "Civiltà Cattolica" che ha dedicato un blog alla CyberTeologia racconta il rapporto tra Chiesa e web

ROMA "La comunicazione aiuta la Chiesa a capire sé stessa. E la Chiesa aiuta ad avere uno sguardo spirituale sulla Rete". Sarebbe sbagliato pensare all´universo della fede cattolica con l´immagine stereotipata di un mondo granitico che sa d´incenso e di parole arcane pronunciate in una lingua morta. La Chiesa, in realtà, si sta riformando da dentro. Uno degli esponenti di questo cambiamento è un gesuita di 45 anni, da poco nominato direttore della prestigiosa rivista La Civiltà Cattolica, patito di CyberTeologia (a cui ha dedicato un blog) e duttile sperimentatore di sistemi informatici diversi. Ma Antonio Spadaro, messinese, è anche uomo capace di unire la tecnica all´intelletto. Al punto che, di recente, il Papa lo ha nominato consultore di due Pontifici consigli: Cultura e Comunicazioni sociali. Aveva già fondato "BombaCarta", uno dei primi laboratori di scrittura creativa in Rete, e insegna al Centro interdisciplinare di Comunicazione sociale alla Gregoriana. Il suo ultimo libro si intitola Web 2.0 (Paoline). Lo incontriamo nell´ambiente ovattato di Villa Malta, a Roma, sede di Civiltà Cattolica, nel suo ufficio dove tutto è bianco: le pareti, gli scaffali interi dedicati a Kerouac, Tondelli e Flannery O´Connor, il grande tavolo di lavoro sul quale domina un iMac.
«Una delle domande che mi pongo - dice subito - è non solo come Internet può aiutare la Chiesa. Ma come la fede può aiutare a comprendere meglio il significato profondo della Rete, il suo ruolo nella storia dell´umanità».
Padre Spadaro, quello che gli osservatori notano, quasi con sorpresa, è quanto la Chiesa stia investendo nel web. Come è avvenuta questa svolta?
«Non c´è stata una svolta, ma un cammino ininterrotto. Il fatto è che la Rete sembra una cosa recente e moderna. No, Internet è una realtà antica per le domande che in forma tecnologica esprime, che sono poi quelle che ognuno di noi fa a sé stesso: chi sono io, cos´è il mondo, chi sono gli altri, la domanda su Dio... La Chiesa ha sempre guardato ai bisogni dell´uomo, e dietro alla tecnologia c´è pur sempre l´uomo. E ha sempre percepito questa linea, anticipando le idee dei social network».
Come?
«Prendo a esempio quanto ha detto di recente Benedetto XVI: "La comunicazione non è propaganda, ma luogo di relazione". E la Chiesa stessa si fonda su due messaggi: sulla comunicazione del messaggio e sulle relazioni di comunione. La Rete e la Chiesa sono due realtà da sempre destinate a incontrarsi. Sempre di più la Rete sta diventando un luogo di vita ordinaria, e la Chiesa c´è dentro: con intelligenza, e al tempo stesso, senza alienarsi quell´ambiente, mettendone in luce anche i rischi».
E lei, così aperto alle frontiere della tecnologia più moderna, dirige da pochi mesi La Civiltà Cattolica, la più antica rivista italiana, attiva da oltre 160 anni. Non c´è contraddizione?
«No. In realtà la nostra rivista nasce proprio da intuizioni innovative: è stata immaginata come una pubblicazione scritta da soli gesuiti, ma non è una rivista accademica: è scritta in lingua italiana e non in latino, come lo erano le riviste ecclesiastiche dell´epoca. Quindi ha fatto l´opzione per una forma di comunicazione non ingessata e militante».
Resta il fatto che c´è un cyberteologo alla guida di una rivista pubblicata con l´imprimatur della Segreteria di Stato vaticana.
«La mia domanda è che cosa significhi fare cultura e comunicazione oggi, al tempo della Rete. E´ il concetto stesso di rivista che sta cambiando. E´ chiaro che La Civiltà Cattolica è e resterà di carta. Ma bisogna comprendere che la rivista è innanzitutto il suo messaggio, non il suo supporto, che sia di carta o digitale. Dunque sì, immagino una rivista cartacea ma anche con una versione per iPad, ad esempio. E´ già attivo da molti anni un sito, ma da adesso anche un account twitter e una pagina Facebook: tutti canali di diffusione e condivisione di un messaggio. Anche su questi strumenti si fonda oggi la credibilità del giornalismo».
Lei è attivo sui blog?
«Sì, ne curo alcuni. Attualmente tengo aggiornato soprattutto cyberteologia.it. Lì faccio convergere le idee, spesso ancora grezze, che vengono ora dalla mia collaborazione come consultore del Pontificio Consiglio della Cultura e di quello delle Comunicazioni. Curo anche un vero e proprio quotidiano collegato col blog».
Un quotidiano?
«Sì, nel senso che ho attivato uno strumento che permette di pubblicare contenuti e suggerimenti degli studiosi che si interessano di come la fede vive anche nell´ambiente digitale e con i quali sono in relazione via Twitter. Alla fine viene impaginato quotidianamente un quotidiano on line. E´ un modo pratico per rimanere aggiornati».
Nel suo libro Web 2.0, si chiede se "c´è Dio nella blogosfera?". C´è oppure no?
«Sono gesuita e la spiritualità del mio Ordine mi fa dire che Dio è attivo nel mondo. Anzi "lavora", come dice il nostro fondatore, sant´Ignazio di Loyola. Noi gesuiti cerchiamo Dio in tutte le cose, sviluppando il fiuto della sua presenza persino laddove sembra non essere presente. Si tratta di vedere le tracce che lascia».
In questo la Chiesa è al passo con i tempi?
«Trovo nella Chiesa un crogiolo di elaborazione culturale e un livello di maturità sempre in crescita. C´è però bisogno di stare desti. Ha ragione il cardinale Ravasi: "Si può parlare di tutto"».
Confessi: lei studia da "piccolo Ravasi".
«Lei dimentica che noi gesuiti facciamo un voto di non cercare alcuna prelatura o dignità ecclesiastica».
Intendo da teologo aperto al mondo della comunicazione.
«Certamente. L´identità della rivista che dirigo si fonda sugli argomenti più diversi e, oltre alla storia, alla politica e all´economia, c´è da sempre grande attenzione per l´arte, la musica, la letteratura, il cinema, lo sport, i linguaggi degli uomini, incluso quello digitale. Io sono cresciuto a questa scuola. Sono dunque naturalmente molto interessato a quel che si muove nel contemporaneo e a contaminare gli interessi. In fondo, l´uomo è uno, e non può vivere in recinti separati e chiusi. E questa è appunto una chiave per capire l´uomo, il mondo e la realtà».

Repubblica 6.2.12
"Io, da fidanzato modello ad aguzzino così sono uscito dal tunnel dello stalking"
Minacce e aggressioni. "Ero un persecutore per paura, volevo vendicarmi di chi mi aveva abbandonato"
Come Fabio e Marco ce ne sono 8mila l´anno Spesso le vittime sono le loro ex
di Caterina Pasolini


ROMA - «Ho ancora paura di me, di tornare ad essere quello che picchia, minaccia solo perché lei vuole essere libera. Quello che quando lei se n´è andata è crollato, rimanendo con un solo chiodo fisso: fargliela pagare, farla star male come stavo io».
Fabio, 30 anni, romano, fa il commerciante. Bella faccia, vestito bene, modi gentili, voce pacata. Il borghese della porta accanto, a cui una diffida ha cambiato la vita. Ragazzo modello, poi insospettabile aguzzino. Un viaggio all´inferno. Con ritorno: oggi è in cura da uno psicoterapeuta per riprendersi una vita normale «e non rendere un incubo quella di chi amo». Come Marco, 50 anni. Teme ancora si risvegli quella «bestia» che sente nel cuore e che lo ha spinto a volere morta la sua donna quando lo ha lasciato. Mesi di inseguimenti, agguati sotto casa col coltello stretto nella mano, pronto a ferirla, «ma poi usavo la lama contro di me, mi tagliavo le braccia perché il dolore che mi toglieva il respiro fosse solo fisico».
Di Fabio e Marco ce ne sono ottomila l´anno. Stalker. Persone denunciate per molestie insistenti, 1.237 quelle arrestate. Aumentano: più 60% le segnalazioni da quando c´è la legge, più 5% nel 2011. Così i dati, non ancora consolidati, del ministero dell´Interno fotografano una realtà dove le donne molestatrici sono il 25 per cento e uno stalker su tre è recidivo. La pena (da 6 mesi a 4 anni), da sola però non basta, insistono in molti. La legge che tanto ha fatto per bloccare i molestatori non prevede un supporto psicologico per le vittime né una terapia per gli stalker che, lasciati senza aiuto, rischiano di essere tra coloro che uccidono 100 donne ogni anno. Una ogni tre giorni, massacrata da chi dice di amarla. E la percentuale aumenta. Per questo sono nate associazioni di volontari. Come l´Osservatorio sullo stalking e il Cpa che organizzano sedute terapeutiche gratuite per chi ha subìto e per gli aguzzini. Sui 140 casi il risultato positivo, dicono, è dell´80%. E quasi sempre «al cuore del problema c´è l´incapacità di accettare l´idea di essere rifiutati, abbandonati, una ferita infantile da scoprire e curare».
Come per Fabio e Marco. Vite diverse, stesso bisogno di essere indispensabili, stesso genere di vittima: la loro compagna, come è nel 55 % dei casi, mentre il 15 % agisce sul lavoro, il 25 con i vicini, il 5 in famiglia.
Fabio racconta, come se fosse la vita di un altro, quel clic che giorno dopo giorno gli ha fatto alzare il tiro, passando dai litigi alle minacce. «Senza mai pensare di essere io quello sbagliato, anzi, il fatto che la mia donna restasse nonostante tutto, mi faceva sentire nel giusto mentre rincorrevo i miei fantasmi e ipotizzavo tradimenti inesistenti. La colpa per me era sempre sua, non ero io il violento, era lei che mi aveva provocato». Nessuno sospetta. Lui, è un manipolatore, è il fidanzato ideale, quello col pensiero giusto, il regalo per la futura suocera. È la sua tattica di sopravvivenza e fino a questa storia ha sempre funzionato: rendersi indispensabile per non essere lasciato. Ma quando la fidanzata esasperata dalla mania di controllo se ne va, il suo mondo si trasforma in violenza. «L´obbiettivo era annullare chi mi aveva rifiutato». E sono agguati, minacce fino a quando arriva la segnalazione ai carabinieri e le ultime parole di Silvia: «Fatti curare o ti denuncio». Fabio per una volta le dà retta. «Ora dopo anni di terapia ho capito che avevo reagito all´indifferenza di mia madre ributtando tutto sulla mia compagna. Capire non è cambiare ma ci sto provando».
Più dura la storia di Marco, impiegato modello fino a 40 anni, quando lei «mi ha lasciato senza spiegazioni, sbattendomi all´inferno. Ora sono sereno e cerco di controllare quella brutta bestia che sento dentro: il terrore di essere abbandonato. È la molla che ha scatenato tutto. Che mi ha mandato il cervello in acqua tanto che mi sembrava di sentire una voce che diceva: morta lei tu starai meglio. Da piccolo i miei genitori mi hanno abbandonato dai nonni e io mi sono sentito tradito, perso. Quando lei mi ha mollato io sono tornato ad essere il bambino lasciato solo che si vendica, che ferisce e si ferisce per attirare l´attenzione. Ma tutto questo l´ho capito dopo tanto, troppo tempo. Perché da soli non se ne esce».

Repubblica 6.2.12
Per la promotrice di "Se non ora quando" è emergenza nazionale
Comencini: "È una mattanza un omicidio ogni due giorni"
Questo tipo di violenza non è cronaca nera, non è amore sbagliato, ma frutto di una cultura che ci vuole subalterne
di Anna Bandettini


ROMA - «Dall´inizio dell´anno in Italia, da nord a sud, ogni due giorni una donna è stata uccisa, e l´assassino nel 99 per cento dei casi è l´ex marito o l´ex compagno. Nel 2011 sono state 128 le donne uccise da un uomo. I casi di stalking non si contano nemmeno più, e lo stalking, la persecuzione dell´uomo sulla donna, è solo l´inizio dell´assassinio, l´antefatto della morte. È una mattanza, un´emergenza nazionale». Cristina Comencini parla con rabbia e amarezza dopo l´ennesima violenza maschile sulla donna: il caso di Roma, lei in ospedale, forse per tentato suicidio, dopo mesi di stalking da parte dell´ex compagno e lui che per vendetta uccide il loro figlio gettandolo nelle acque del Tevere. "Basta", dice Cristina Comencini e annuncia una campagna contro la violenza con "Se non ora quando" (Snoq), la rete nazionale di associazioni di donne che il 13 febbraio 2011 radunò sulla "dignità delle donne" un milione di persone nelle piazze e che solo una settimana fa ha organizzato una fiaccolata in ricordo di Stefania Noce, la ragazza siciliana uccisa dal fidanzato che aveva lasciato. «Stiamo avviando una campagna di conoscenza contro la violenza e chiediamo ai ministeri dell´Istruzione, delle Pari Opportunità e degli Interni di essere con noi: una campagna sui giovani e soprattutto sugli uomini, perché la violenza li chiama in causa direttamente».
Che può fare una campagna di conoscenza?
«Cambiare una cultura diffusa, tanto per cominciare. La violenza sulle donne non è un fatto di cronaca nera, ma il risultato di una cultura, secondo cui la donna deve essere subalterna, secondo cui in amore è una cosa dell´uomo e se lo lascia fa una cosa contro natura...Non si può più pensare che gli uomini non aprano una riflessione su questo, così come è inaccettabile sentir ancora parlare di "delitto passionale" o "amore sbagliato" nei casi di violenza. Amore?? Passione??".
Quali le cose più urgenti da fare secondo voi?
«Innanzitutto informare in modo corretto le forze dell´ordine che spesso sottovalutano la violenza nelle famiglie, la richiesta di aiuto delle donne. Noi chiediamo, poi, alle Pari Opportunità di sostenere i centri antiviolenza cui sono stati tolti i fondi da anni. E soprattutto chiediamo alla Pubblica Istruzione che cominci a lavorare con i movimenti delle donne nelle scuole e nelle università per aprire discussioni. Noi come Snoq giovedì saremo in un istituto di Centocelle a Roma con lo spettacolo "Libere", che affronta temi come l´immagine della donna nella società, la rappresentanza, temi non scissi da quello della violenza. E poi la due giorni a Bologna, l´11 e 12, per far sì che l´anniversario del 13 febbraio non sia la celebrazione di un successo ma una spinta per guardare avanti».

Corriere della Sera 6.2.12
Quell’incapacità di sopportare la perdita
di Federica Mormando


Sempre più spesso si sente di uomini che uccidono la donna che li lascia. Per questi signori la perdita è l'abbandono, non la morte. Infliggerla è il possesso supremo, il potere di vita e di morte. A lungo i maschi l'hanno avuto, regolato dalla legge, codificato nel delitto d'onore. Si ammazza per un furto, per il territorio, e per il furto più disonorevole: quello dell'oggetto che se ne va diventando persona e rifiutando l'identità di cosa posseduta. Ben di rado leggiamo di donne che ammazzino il marito. La legge è cambiata, si parla di diritti della persona, ma non è sfumata la vecchia logica: «Roba mia vientene con me», come diceva Mazzarò.
Le menti fragili, inevolute, si nutrono dei plurimi messaggi contro le donne che giungono da tutti i tipi di media. Nei film sono le femmine a subire ogni tipo di violenza, come nella cronaca, in report che fanno risaltare l'assassino come protagonista, anche se negativo. La formazione della persona è affidata al caso, le istituzioni collaborano assai poco. A scuola, fra tanti insegnamenti e laboratori verticali e trasversali manca del tutto quello alla parità dei sessi e al rispetto reciproco. La morale è roba da soffitta, chi ne parla più? La disciplina, giace con lei. L'immagine data dalla società è di impuniti delinquenti che se la godono a spese della brava gente. Le discussioni sul levare il Crocefisso dai muri ne stritolano il messaggio di stima della donna, oscurato in generale anche nelle lezioni di religione. Il consumismo senza etica, la disistima delle autorità, l'esaltazione della protesta e non della proposta, hanno creato una generazione di prepotenti fragili e poco razionali, dipendenti dall'avere, ignoranti dell'essere. Insomma, i freni all'impulso in favore del pensiero sono minimi, e le personalità più fragili non conoscono l'autocontrollo. Queste si reggono su piccoli poteri, fra cui, come in larghe parti del mondo, quello di maltrattare chi è debole o reso tale da taciti accordi sociali: donne e bambini. L'insulto supremo della loro ribellione non è sopportabile da questi fragili despoti: il passo al crimine è breve. Mancano i freni inibitori dell'educazione, quella che viene dalla famiglia e dal resto del mondo. Manca la paura della pena. Manca l'alternativa interiore di altri modi per affermarsi.
Ma ci sono anche uomini vittime degli abbandoni: sono quelli che, nel rispetto della legge e per la vendetta di mogli incattivite, si riducono in miseria e depressione dopo una separazione. Sono quelli della mensa dei poveri, quelli che muoiono in un garage, quelli privati della gioia di vedere i loro figli. Non mi riferisco a persone disturbate o malvagie, ma a quei ex-mariti-padri normali, che non ammazzano nessuno e che sottostanno a decisioni superficiali di giudici e servizi sociali abilitati a disporre della vita altrui. Non vedo soluzioni a breve termine, perché non c'è all'orizzonte alcun mutamento nell'ottica sociale, scolastica, mediatica. Auspico che si introduca la formazione degli insegnanti di ogni grado a educare ai diritti della persona. Dei giudici a comprendere i drammi familiari. E che ogni persona equilibrata si impegni a questo scopo, anche senza ruoli ufficiali. Che bambine, ragazze, donne siano più consce dei pericoli che corrono, e scelgano meglio. Che anche gli uomini imparino a scegliere. E che tutti e due sappiano che, anche se divorziare sembra facile, è il più delle volte una distruzione reciproca evitabile, esercitando la ragione, la pazienza, l'autocontrollo. E lo sforzo di amare, così poco popolare di questi tempi.

Repubblica 6.2.12
Vita frenetica, aumenta lo stress ecco le 10 regole per batterlo
Troppo multitasking: niente Prozac, meglio cantare in gruppo
L’anticamera della depressione colpisce sempre di più a causa della competitività
di Andrea Tarquini


BERLINO - Prima ce ne vergognavamo, ora non più, o sempre più raramente. Se ci sentiamo troppo esauriti o stanchi, se non teniamo più il passo col ritmo della vita quotidiana, se non ricordiamo più nulla. Per alcuni è quasi chic: i tedeschi lo chiamano "burn-out", termine inglese non usato nel mondo anglosassone. Indica lo stress. Colpisce sempre di più. Ma, rispettando alcune regole fondamentali, si può vincere. Basta non sottovalutare il problema, avere il coraggio di parlarne, rivolgersi subito a medici, psicologi e psichiatri, usare i farmaci ma con moderazione, e concedersi un po´ di tempo libero, magari praticando qualche sport, ascoltando musica o, perché no, cantando in un coro.
Perché spesso il confine tra persone "sane" e "malate" svanisce nella diffusa zona grigia della frenetica vita postindustriale. E spesso non sappiamo che il problema di fondo non è lo stress, bensì la depressione che scatena. Un tunnel da cui non esci, se non sei consapevole appieno di esservi entrato e se non hai l´aiuto giusto. Un problema di massa, il raffreddore o l´influenza dell´anima, quello cui Der Spiegel ha dedicato la sua ultima cover story.
Lo stress come male di tutti, raffreddore o influenza dell´anima. E dietro di lui, il vero motivo del malessere che spesso si nasconde dietro i primi o più diffusi sintomi. Siamo quasi al "Male oscuro" di Giuseppe Berto, pressoché mezzo secolo dopo. In molte delle società più prospere e organizzate i casi aumentano a ritmo spaventoso. In Baviera, lo Stato più ricco della Germania, i casi di persone costrette a chiedere giorni di congedo per mali o disturbi psicologici, classificati e riconosciuti dalle casse-malattia come talmente seri da non consentire di lavorare sono aumentati del 54 per cento dal 2000 a oggi. E i disturbi psichici, che dieci anni fa erano il 24,2 per cento delle cause di concessione di pensioni d´invalidità concesse per ridotta capacità lavorativa, sono ora il 39,3 del totale.
Il ritmo della vita moderna - il lavoro multitasking, cioè più ruoli insieme per uno stesso dipendente, la reperibilità costante con e-mail, cellulari, smartphone, quindi il venir meno di barriere divisorie tra lavoro e tempo libero - sono una delle cause più frequenti. E anche lo stress della competitività, l´obbligo di essere sempre più bravo e produttivo che sempre più persone provano, o infine ma non ultimo la paura di perdere il posto di lavoro. Fino a ieri ci vergognavamo di dirci depressi o stressati, oggi non più. Ma pochi pazienti sanno subito che lo stress è sintomo, la depressione può esserne motore, causa o peggio conseguenza.
I primi sintomi che conducono alla diagnosi: quando siamo di umore depressivo, quando ci stanchiamo più presto, o quando perdiamo interesse o gioia per tutto quanto fino a ieri ci piaceva, sul lavoro o sugli affetti. Oppure se perdiamo capacità di concentrazione e la nostra opinione su noi stessi peggiora, se sviluppiamo sensi di colpa o paura del futuro. Ma è una realtà in movimento, composta da diversi tipi di disturbi psichici. Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichici (Dsm) dell´Associazione degli psichiatri americani, dopo la seconda guerra mondiale classificava "appena" 26 tipi di disturbi, oggi ne elenca ben 395, e l´anno prossimo uscirà la sua prossima, aggiornata edizione.
Come uscirne? La depressione si cura, ma non da soli. E non affidandosi alle trappole di chi vuol far soldi col tuo stress e ti offre terapie miracolose o ferie lussuose di super-relax. Guai: non far nulla aumenta la depressione. La via d´uscita sta in un mix. Medicine antidepressive, ma lasciando scegliere e dosare al medico quelle giuste. Poi attività fisica, un po´ di sport, quello che preferiamo, bastano tre volte alla settimana. Infine ma non ultimo, la meditazione oppure terapie di gruppo basate magari sull´apprendimento della musica o del canto. È una strada lunga e difficile, ma non impossibile, quella che può portarci a uscire infine a riveder le stelle.

Repubblica 6.2.12
Il parere dello psichiatra e psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet
"La depressione? Aumentata con la crisi"
di Vera Schiavazzi


Stress, "burn out" da lavoro, assenteismo alle stelle? Può darsi, ma non date la colpa al blackberry, né alla mail sempre accesa: questi strumenti rassicurano gli adulti, e non per colpa loro se trasmettono notizie brutte o ansiogene. Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta, docente a Milano Bicocca, invita non confondere tecnologia e realtà.
Lo stress da lavoro dipende da un eccesso di connessione?
«Non credo. Il fatto di essere sempre reperibili consola le persone più di quanto non le affatichi. Allo stesso modo un´occhiatina su Facebook mentre si è in ufficio può essere benefica e costituire una pausa. Essere a disposizione, inoltre, evita spostamenti inutili e consente, per esempio alle donne, di sentirsi in pace con la coscienza anche da casa».
I dati sul "burn out" sono sopravvalutati?
«No, ma a creare disagio psicologico sono le cattive notizie - l´azienda che rischia di chiudere, la paura di essere licenziati, i conti in rosso - e non le tecnologie che ci permettono di venirle a sapere. Non dubito che moltissimi lavoratori possano sentirsi stressati, ma la colpa è della crisi economica».
E´ utile valutare il rischio da stress, come la legge obbliga a fare, anche in Italia, da poco più di un anno?
«Certamente sì. In quasi tutti i luoghi di lavoro ci sono grandi margini di miglioramento, ed è giusto guardare ai rischi psicologici così come si guarda, per esempio, a quelli di infortunio o di incendio. Piccoli cambiamenti, come consentire i contatti con la famiglia, nella direzione del comfort e della tolleranza in ufficio, possono dare grandi risultati. Ma il rischio-zero non esiste, e l´obiettivo non deve essere quello, non realistico, di abolire del tutto lo stress da fabbriche e uffici».

Corriere della Sera 6.2.12
La «mentina dell'amore», anti-ansia per i giovani
di Mario Pappagallo


Una mentina, piccola, bianca, in un astuccio nero simile ad un pacchetto di gomme da masticare. Si scioglie (è orosolubile) in bocca e in un'ora agisce sulle defaillance maschili. Si trova in farmacia. È uno dei tre, ormai noti, farmaci anti-impotenza che ha mutato sembianze. Soprattutto in chiave commerciale, anche se resta l'obbligo della ricetta medica.
Una nuova formulazione del vardenafil (Levitra), una delle tre molecole anti-impotenza (l'incapacità di raggiungere e mantenere l'erezione) che hanno rappresentato una rivoluzione medica e culturale. Il sildenafil, la pillola blu nota con il nome di Viagra, ha debuttato 13 anni fa. Poi sono arrivati il giallo Cialis (tadalafil) e l'arancione Levitra, che ora è diventato bianco e al sapore di menta. Una nuova rivoluzione. La mentina del sesso o dell'amore, un anti-stress per chi teme di fare «brutta figura» con la partner. Problema che c'è oggi anche tra i giovani, con l'eiaculazione precoce e veri e propri blocchi da panico. L'Italia è il primo mercato in Europa insieme alla Spagna. E, purtroppo, l'obbligo della ricetta (garanzia di salute) è spesso disatteso grazie a un pericoloso commercio parallelo in Rete. Un mercato globale delle pillole del sesso. Si parla di sette miliardi di euro di vendite online, consegna a domicilio e anonima. Sicure? Assolutamente no. A volte sotto-dosate e inefficaci, a volte vere e proprie truffe. Un mercato parallelo che serve anche a confezionare mix con droghe varie che promettono ai giovani prestazioni sessuali super. Prestazioni che, in realtà, avrebbero comunque se sani e in buona salute. O se non imballati o sballati da droghe, alcol e affini. Esistono anche «Viagra» cinesi, indiani, brasiliani. A volte più costosi dei farmaci, senz'altro esotici, innegabilmente redditizi per chi li «spaccia».
E se c'è un mercato, c'è anche una domanda. Ma come mai i mitici latin lover hanno sempre più bisogno di un «aiutino»? «Single e giovani sembrano oggi i più in difficoltà per l'ansia da prestazione, la paura di fare cilecca», dice la sessuologa Chiara Simonelli (università La Sapienza di Roma). Che aggiunge: «Peraltro gli uomini, soprattutto i giovani, preferiscono non far sapere alla partner, soprattutto la prima volta, se ricorrono ad un aiuto farmacologico. E' in ballo l'orgoglio virile». I pregi della «mentina dell'amore»: efficace e discreta. Sembra una caramellina per l'alito. E, psicologicamente, basta usarla poche volte per sbloccare da ansie e paure. La causa psicologica, però, spesso non è considerata sufficiente dai medici. Anche se il sondaggio effettuato nel 2011 coinvolgendo 1.965 (1.231 uomini e 734 donne) italiani, ha messo in evidenza un nuovo quadro dei problemi della sessualità maschile. Soltanto il 22% dei single ha dichiarato che preferisce prendere l'iniziativa: colpa appunto dell'inibente «ansia da prestazione». Si sentono «messi alla prova». Fra gli uomini in coppia stabile, invece, la percentuale di «cacciatori» sale al 55%. E questo è l'effetto sicurezza.
Nei giovani però compaiono sempre più anche problemi fisici. «Nell'ultimo decennio stiamo assistendo ad una graduale presa di coscienza da parte dei maschi dell'importanza della loro salute sessuale e sono in aumento quelli che si rivolgono al medico per risolvere disturbi come la disfunzione erettile, un tempo ritenuti temi tabù. Da tenere nascosti — spiega Andrea Salonia, urologo del San Raffaele di Milano e presidente della Società europea di medicina sessuale —. Si abbassa anche l'età media: oggi su 100 persone che chiedono aiuto, 15 hanno meno di 40 anni».
Lo stress, in particolare, incide meno sulla sessualità femminile rispetto a quella maschile: l'85% degli uomini ritiene che condizioni pesantemente la qualità delle prestazioni sessuali, percentuale che scende al 68% tra le donne.

il Riformista 5.2.12
Il museo della Mente e lo stigma della schizofrenia
di Anita Tania Giuga

qui

Corriere della Sera 6.2.12
L’anniversario. Moriva cinque secoli fa l’esploratore fiorentino del Nuovo Mondo
L’epopea di Vespucci, inventore dell’America
Raccontò i suoi viaggi in caravella oltre l'oceano e identificò il Brasile con il «paradiso terrestre»
di Pietro Citati


Sebbene abbia dato il suo nome a due continenti, sappiamo pochissimo della giovinezza e della prima maturità di Amerigo Vespucci. Nacque a Firenze il 9 marzo 1454: il padre, Nastagio, era un modesto notaio, che cogli anni allargò le sue competenze, diventando notaio della Signoria. Ma di Amerigo Vespucci ci sfugge il volto: secondo Vasari, Ghirlandaio l'avrebbe rappresentato in un affresco della Chiesa di Ognissanti: ed è possibile che Leonardo gli abbia dedicato, non sappiamo quando, un disegno al carboncino.
Vespucci cominciò a vivere, ad avere un nome e una persona, quando entrò sotto l'influenza di Lorenzo de' Medici, e della sua «versatilità luminosa, della miracolosa facilità», che irradiava intorno a sé e su tutta Firenze. Se non a Lorenzo, Vespucci era legato a un suo cugino, Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, di qualche anno più giovane di lui, che Lorenzo aveva adottato ed educato come un padre scegliendo i suoi educatori e occupandosi di amministrare i suoi beni. Di Lorenzo di Pierfrancesco, sappiamo moltissimo. Era il misterioso Mercurio che appare nella parte sinistra della Primavera di Botticelli: possedeva una straordinaria precocità e maturità, una cultura rara persino in quei tempi coltissimi: era amico di Poliziano e di Marsilio Ficino; fu il destinatario della Primavera, di Pallade e il centauro e della Nascita di Venere del Botticelli; e sempre al Botticelli commissionò le illustrazioni della Divina Commedia. Negli anni novanta protesse il giovane Michelangelo, e aspirò a diventare signore di Firenze. Come Mercurio, si occupava di commerci e di banche, sia in Italia che in Spagna: Vespucci lavorava per lui e acquistava per lui merci preziose.
Qualche anno prima, era accaduto un evento, che assunse presto una irradiazione simbolica nella vita di Firenze e della cerchia medicea. Un cugino di Amerigo, Marco Vespucci, aveva sposato nel 1468 Simonetta Cattaneo, che discendeva da grandi famiglie liguri. Simonetta era nata nel 1453: aveva trascorso l'infanzia tra Portovenere, Lerici, Genova, una villa di famiglia a Piombino; ed era stata educata alle arti del Trivio e del Quadrivio. Nessuna, meglio di lei, poteva incarnare la figura della giovane dama del Rinascimento. Quando si trasferì a Firenze come moglie di Marco Vespucci, diventò l'amica, o l'immagine amorosa, o la «ninfa» di Giuliano de' Medici, fratello minore di Lorenzo. Il 29 gennaio 1475 Giuliano vinse una Giostra celebrata a Firenze. Aveva una armatura scintillante, vesti bianche ricamate di pietre preziose, un cavallo donatogli da Federico da Montefeltro; e portava un grande stendardo di taffetà, dipinto da Botticelli. Lo stendardo, che raffigurava Pallade, è andato perduto: ma ne conserviamo una precisissima descrizione. Pallade era vestita d'un abito d'oro fino: teneva i piedi su fiamme che ardevano rami d'ulivo; e guardava fissamente il sole alto nel cielo. Sotto, un foglio scritto a lettere d'oro diceva: La sans par, l'impareggiabile. La sans par era Simonetta Vespucci.
Quasi nello stesso tempo, Poliziano scrisse le Stanze, dedicate di nuovo a Giuliano de' Medici e a Simonetta Vespucci, le quali donarono colori e immagini alla Primavera di Botticelli. Ecco Simonetta, nel cuore della foresta:
«Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior' dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba;
rideli a torno tutta la finestra,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio la tempesta acqueta».
Giuliano, anzi Iulio, le rivolge la parola.
«Volta la ninfa al suon delle parole,
lampeggiò d'un sì dolce e vago riso,
che i monti avre' fatto ir, restare il sole
ché ben parve s'aprisse un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch'un masso per mezzo avre' diviso;
soave, saggia e di dolcezza piena,
da innamorar, non ch'altri, una Sirena ...».
Tutt'attorno una moltitudine di uccelli, di fiori e d'alberi meticolosamente enumerati: abeti senza nocchi, allori, pioppi, platani, cerri, faggi, corniole, olmi, frassini, ellera, bossi, mirti; che ritornano nella moltitudine d'alberi e fiori della Primavera.
Pochi anni dopo, il 26 aprile 1476, quando aveva ventidue o ventitré anni, Simonetta Vespucci morì di tisi. A nulla servirono le cure scrupolose del medico di Lorenzo de' Medici: la salma venne portata scoperta da casa al luogo della sepoltura; e coloro che parteciparono alla cerimonia piansero tutte le loro lacrime. «Morì nella città nostra — scrisse Lorenzo de' Medici in alcune bellissime pagine del Comento — una donna, la quale mosse a compassione generalmente tutto il popolo fiorentino; non è gran meraviglia, perché di bellezza e gentilezza umana era veramente ornata... E in fra l'altre sue eccellenti dote aveva così dolce ed attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevano qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati... La compassione della morte per la età molto verde e per la bellezza, che così morta, più forse che mai alcuna viva, mostrava, lasciò di lei un ardentissimo desiderio». «Si può giungere alla perfezione — concludeva Lorenzo — solo attraverso la morte, e il pensiero e la contemplazione della morte». La notte dopo la cerimonia, Lorenzo ed un amico passeggiavano parlando di questa sventura. In cielo, c'era una stella chiarissima, che superava di gran lunga lo splendore delle altre stelle. Rivolto all'amico, Lorenzo disse: «Non ce ne meravigliamo, perché l'anima di quella gentilissima o si è trasformata in questa nuova stella o si è congiunta in essa».
Così la figura di Simonetta Vespucci ricevette l'ultimo tocco: la bellezza, la giovinezza, i tratti squisiti, sereni e pensosi del viso, gli occhi scintillanti di luce interiore, i lunghi capelli biondi sciolti, l'ideale neoplatonico della ninfa, la morte prematura, il dolore e le lacrime dei fiorentini, la sepoltura, l'identificazione con la stella luminosissima — tutto quanto aleggiava, in quel momento, nel cielo di Firenze fu proiettato sulla persona di Simonetta. Botticelli la raffigurò in diversi quadri, tra i quali La nascita di Venere: nelle illustrazioni della Divina Commedia dedicate a Beatrice; e in un ritratto postumo di Giuliano de' Medici, morto esattamente due anni dopo, dove Simonetta appare nell'immagine di una tortora poggiata su un ramo secco, segni di morte e di afflizione. Simonetta era diventata un grande mito di bellezza e di morte; un simbolo sovrannaturale di perfezione, al quale tutta la Firenze tardo-medicea partecipava e dal quale si sentiva protetta. Altri artisti la raffigurarono: Piero di Cosimo nei tratti di una Cleopatra, che portava un aspide attorno al viso. L'ultimo ricordo venne ancora da Botticelli: secondo una tradizione che credo verosimile, lasciò scritto di voler venire sepolto nella Chiesa d'Ognissanti, ai piedi di Simonetta.
Sotto l'ombra protettiva di Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, Amerigo Vespucci partecipò e collaborò alle fitte discussioni geografiche e cosmografiche, che in quel periodo erano vivacissime a Firenze. Al cuore di queste discussioni, stava sempre Paolo dal Pozzo Toscanelli (al quale Eugenio Garin ha dedicato un bellissimo ritratto): figura straordinaria di geometra, matematico, filosofo, medico, astronomo, astrologo, che discorreva con Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Nicola Cusano. Qualche decennio prima, era stata tradotta in latino la Cosmographia di Tolomeo: mentre, nel poema Il Guerin meschino, che ebbe un grande successo di lettori, Andrea da Barberino divulgava le nuove conoscenze geografiche. Firenze derivava notizie ed echi dagli ambienti mercantili di Pisa e di Venezia, dagli Ordini Mendicanti, da banchieri e imprenditori, e dalle immaginazioni classiche e celtiche sulle Isole felici: le Canarie, Madera, le Azzorre. A partire da questo momento migliorarono e si moltiplicarono le carte nautiche, i portolani, i manuali mercantili e i planisferi.
L'interesse geografico aveva un fondamento pratico: come raggiungere la Cina e il Giappone? In Cina era caduta la dinastia mongola: i sovrani mongoli della Persia si erano convertiti all'Islam; così ora, dopo un secolo e mezzo di viaggi protetti dalla benevola tolleranza dei Khan, le strade di terra verso la Cina erano nuovamente chiuse. L'Asia meravigliosa e miracolosa di Marco Polo si poteva raggiungere varcando il capo di Buona Speranza, come Bartolomeo Diaz e Vasco de Gama fecero verso la fine del quindicesimo secolo. Ma la strada verso Occidente, quella che si percorre attraverso le Isole felici? Con l'aiuto del mappamondo prestatogli da Francesco Castellani, Paolo dal Pozzo Toscanelli cominciò i suoi calcoli. Nel giugno 1474, inviò a Fernam Martins, canonico di Lisbona, «amico e familiare» del re di Portogallo, una lettera famosissima che Cristoforo Colombo conobbe. «Rimetto a Sua Maestà una carta fatta con le mie mani, nella quale si trovano disegnati i vostri lidi, e le isole dalle quali il viaggio si dovrebbe cominciare, sempre verso Occidente, e i luoghi ai quali si dovrebbe giungere, e quanto si dovrebbe declinare dal polo, e dalla linea equatoriale, e quanto spazio, ossia quante miglia converrebbe percorrere per giungere ai luoghi fertilissimi d'ogni specie di aromi e di gemme».
Toscanelli sognava i grandi edifici reali nelle nuove terre, e i corsi d'acqua meravigliosi per ampiezza e lunghezza, le duecento città lungo le rive di un solo fiume, i grandissimi ponti di marmo orlati di colonne, i templi e i palazzi coperti d'oro solido, e i «filosofi ed astrologi, per le cui arti e invenzioni fioriscono quei saggi paesi».
Nel 1491, la vita di Amerigo Vespucci interruppe il suo corso. Lasciò Firenze: quell'aria intellettuale e febbrile, dove tutte le attività umane si trasformavano in arte, quella cultura piena di simboli neoplatonici, dove aleggiava il sogno di Simonetta Vespucci, la sua bellezza, la sua morte, la sua radiosa immortalità. Si trasferì a Siviglia, che presto sarebbe diventata la tumultuosa capitale comune dell'Europa e delle Americhe appena scoperte. Vi lavorò per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e per alcuni grandi mercanti fiorentini, come Giannozzo Berardi, trafficando nel commercio dell'oro e degli schiavi. Tutta la sua vita cambiò. Imparava il suo mestiere non più sulle carte e i mappamondi, ma nei fondaci e sulle banchine dei moli, dove raccoglieva avidamente le notizie giunte dalle Indie. Nel settembre 1494, si occupò della seconda spedizione di Colombo: una grande flotta di diciassette navi e milleduecento uomini, salpata da Cadice. Comprese che quello era il suo momento, atteso da tanti anni. Presto sarebbe partito anche lui per le terre appena scoperte: non come uomo di mare, ma come cosmografo-astronomo, esperto di computi matematici.
La prima spedizione di Vespucci lasciò l'Europa il 10 maggio 1497: quattro caravelle che battevano bandiera spagnola. Toccò le Canarie, e poi mosse verso Occidente, non lontano dai luoghi dove, qualche anno prima, era disceso Colombo. Nelle spedizioni successive — probabilmente due, in parte finanziate dal re del Portogallo — le mete furono più ambiziose. Vespucci arrivò in Venezuela: poi scese verso sud: il 1° gennaio 1502 scorse il luogo dove sarebbe sorta Rio de Janeiro: discese ancora più verso sud, lungo le coste del Brasile, incontrando la foce del Rio della Plata, e toccando il cinquantesimo grado di latitudine; e toccò le rive occidentali dell'Africa, raggiungendo di nuovo Lisbona nel settembre 1502.
Presto cominciò a raccontare le sue imprese, seppure in piccolo spazio: dapprima nel Mundus novus, indirizzato a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, e tradotto in latino dall'italiano: poi nella Lettera di Amerigo Vespucci delle isole nuovamente trovate in quattro suoi viaggi, rivolta a Piero Soderini, gonfaloniere di giustizia a Firenze, forse pubblicata nel 1505. «Ciò che noi abbiamo sopportato davvero in questa immensità del mare — scriveva drammaticamente nel Mundus novus —, i rischi di naufragio, le sofferenze fisiche innumerevoli, le angosce permanenti che afflissero le nostre anime, tutto ciò lo lascio alla comprensione di quanti hanno avuto esperienza di queste cose e che conoscono cosa significa la ricerca di ciò che è incerto e addirittura sconosciuto... Fummo preda di una così grande paura che avevamo perso quasi ogni speranza di sopravvivere. Nel mezzo di queste tempeste così terribili, del mare e del cielo, piacque all'Altissimo mostrarci il continente, nuova terra e un mondo incognito».
In generale, il tono era molto meno drammatico, perché Vespucci era convinto di essere giunto nel Paradiso Terrestre, o in luoghi che ricordavano il Paradiso Terrestre. L'aria — scriveva — era di rado adombrata da nuvole. Quasi sempre i giorni erano sereni. Talvolta cadeva, leggermente, la rugiada: non vi era quasi vapore, e la rugiada cadeva per tre o quattro ore, e poi si dileguava come nebbia. Gli alberi davano un odore soavissimo e dappertutto mandavano fuori gomme e liquori e sughi. In quel mondo d'aria pura e di profumi, qualcosa ricordava la Primavera e le Stanze. «Vedemmo infinitissima cosa d'uccelli di diverse forme e colori, e tanti pappagalli, e di tante diverse sorte che era meraviglia; alcuni colorati come grana, altri verde e limonati, e altri neri e incarnati; e el canto delli altri uccelli che istavono nelli alberi era cosa tanto soave, e di tanta melodia, che ci accadde molte volte istar parati per le dolcezze loro».
La notte, Vespucci osservava le stelle dell'emisfero australe: stelle che lui né nessun altro europeo aveva mai conosciuto, tranne i pochi portoghesi che avevano varcato il capo di Buona Speranza, inoltrandosi verso l'India. Ne tenne a memoria venti: chiare come erano chiari, nell'emisfero boreale, gli astri di Venere e Giove. Considerò il loro circuito e i diversi movimenti, e misurò le loro circonferenze e il loro diametro «assai facilmente, avendo io notizie della geometria». Erano — diceva — più grandi di quanto gli uomini pensassero. Vide tre Canopi: due molto chiari, il terzo fosco. Attorno al polo, non c'era Orsa maggiore né Orsa minore: lo circondavano quattro stelle, a forma di quadrangolo; e altre stelle splendevano accesamente, portando nel cielo una luce che noi, sottoposti ai pallidi segni del Nord, ignoriamo. Fra le stelle, vide «l'iride, cioè l'arco celeste, quasi bianco a mezzanotte, che prendeva i colori dei quattro elementi». Scorse la luna nuova congiungersi col sole; e, ogni notte, vapori e fiamme ardenti trascorrevano per il cielo. Tutte le cose che vedeva appartenevano alla gloria del Salvatore, «il quale con meraviglioso artificio fabbricò la macchina del mondo».
Intanto, tornato dal lungo viaggio brasiliano, Vespucci si convinse che le terre che Colombo aveva esplorato e quelle che egli aveva circumnavigato, non appartenevano alle estreme propaggini dell'Asia. Lì non era giunto nessun Marco Polo. Egli aveva conosciuto un Mundus novus: un mondo incognito, che fino allora nessun uomo, provenendo da Occidente o da Oriente, aveva mai visto. Non ebbe bisogno di proclamare la sua verità. I suoi brevi scritti ottennero un grande successo: numerosissime ristampe, e traduzioni. Nel 1507, nel monastero di Saint-Dié, in Lorena, un espertissimo e notissimo cartografo, Martin Waldseemüller, curava la redazione di una nuova Cosmographia di Tolomeo, che avrebbe compreso anche i territori scoperti dagli spagnoli e dai portoghesi. Quando lesse gli scritti di Vespucci, si entusiasmò e decise di tradurli in latino, scrivendo che la quarta parte del mondo si sarebbe dovuta chiamare, da Americus, America. Qualche mese dopo, egli stesso diede l'esempio. In un grande planisfero, incideva sul continente meridionale il nome America, che presto avrebbe contrassegnato anche le terre settentrionali.
Nel marzo 1508, il re di Castiglia nominò Amerigo Vespucci Piloto mayor: primo comandante delle flotte commerciali spagnole, attribuendogli un ricco bilancio per finanziare le sue imprese. Vespucci si trasferì in una nuova casa del Portigo del Carbon, a Siviglia. Il 22 febbraio 1512 morì. Non lasciava figli, ma un nipote fiorentino, che continuò il suo lavoro. Lasciò sopratutto qualcosa di aereo ed invisibile: un semplice nome, che l'aveva accompagnato come un talismano dai tempi di Lorenzo de' Medici, quando tutto era piccolo e prezioso, sino a questi nuovi tempi, nei quali si doveva vivere in un mondo immenso, sotto stelle ignote e brillantissime.

Corriere della Sera 6.2.12
Cafagna, una vita a sinistra
di Dario Fertilio


Con Luciano Cafagna, lo storico morto a Roma a 86 anni, scompare un intellettuale che ha fatto della sinistra, anzi di una certa idea di sinistra, la ragione di studio e impegno personale. Certo, ora lo si ricorda per i suoi titoli accademici — professore emerito di storia contemporanea a Pisa — e per le analisi penetranti presenti in vari suoi saggi — nel campo della programmazione economica italiana e dell'industrializzazione capitalistica europea. Si ricordano la sua partecipazione da studente alla Resistenza, l'ingresso nel Pci, l'uscita nel '56 dopo l'invasione dell'Ungheria al fianco di Antonio Giolitti (del quale rimase sempre stretto collaboratore). Ancora, il ruolo di commissario dell'Autorità garante per il mercato e la concorrenza, negli anni novanta, e il travagliato percorso politico tra Prima e Seconda Repubblica, attraverso la Rosa nel Pugno, i Ds e il neo Partito socialista.
Eppure il senso profondo della sua vita intellettuale è stato sempre legato all'ideale di una sinistra modernamente socialdemocratica, capace di rappresentare un'alternativa di governo stabile e credibile al polo liberal-conservatore. E proprio su questo è centrato il suo libro più famoso, Duello a sinistra, scritto con Giuliano Amato per il Mulino nel 1982. Negli anni dell'ascesa di Craxi, Cafagna riconosceva la novità socialista ma insisteva sul fatto che il Pci ancora impersonasse, pur fra mille contraddizioni, la «socialdemocrazia reale» in Italia. Inutile, dunque, aspettarsi — come faceva Craxi — che cadesse nel cesto socialista come un frutto maturo. La storia della fallita alternativa di sinistra, almeno fino alla nascita della Seconda Repubblica, gli ha dato ragione: ma di questa lungimiranza, di certo, Luciano Cafagna non ha mai avuto occasione di vantarsi.

«Palazzo Chigi scarica il sindaco "Era stato allertato, non ha chiesto aiuto"  "Piena fiducia nel capo della Protezione civile, non è stato lui a sbagliare"»
Repubblica 6.2.12
I disastri di Gianni dal Tibet a Fascistopoli
Gaffe, parentopoli e camerati l´epopea del sindaco alpinista sempre a caccia di colpe altrui
di Alberto Statera


Alemanno, dalle promesse all´emergenza continua
Dalla piena del Tevere alla neve, lo stesso atteggiamento: quello di un passante mai responsabile di nulla
Una vera e propria offensiva mediatica: più di trenta volte in tv in poche ore per negare l’evidenza 

SEDICENTE scalatore provetto, Alemanno dovette arrendersi nella scalata allo Shishapangma, il quattordicesimo monte tibetano più alto della terra e il più basso tra gli "Ottomila", per un raffreddore o, come dicono i tanti zelatori miracolati dal sindaco dal cuore nero, per una broncopolmonite.
Stavolta non ai ghiacciai si è arreso, ma alle falde dei pochi metri del Gianicolo e dell´Aventino, sotto 30 centimetri di neve. Ma senza rinunciare a una puerile e improvvida polemica con il capo della Protezione Civile che, come non capita di frequente, stavolta sembra avere tutte le carte in regola negli avvisi lanciati per l´emergenza in arrivo con i venti gelidi del nord.
Trentacinque millimetri? Se nevica, come tutti sanno, e non solo i campioni di arrampicate, fanno 35 centimetri di neve. Ma lo scalatore tibetano non lo sa, cade nell´equivoco, pensa di uscirne con la guerra dei millimetri e ci alluviona di interviste televisive. "Millimetri, come il suo cervello", ne conclude un blogger più che incazzato nella tundra gelida. Il senso di Alemanno per la neve diciamo che più che alla "K2" è un po´ alla "barisienne", dalla città portuale pugliese dove nacque, o alla "pariola", il quartiere capitolino dove il papà generale dell´esercito lo condusse giovanetto a esercitarsi, tra piazza Euclide e piazza Pitagora, nelle arti del picchiatore nero, nutrito tra le mura del Liceo scientifico Righi. Incedere affrettato, sguardo basso, tratto alquanto isterico, debolezza evidente e autorità alquanto scadente rispetto agli squaletti neri affamati che lo attorniano in nome dei vecchi tempi delle mazze e delle molotov, il sindaco di Roma capitale delle calamità è diventato lui stesso "la calamità" agli occhi di migliaia di romani che nella notte di venerdì lo ha maledetto sul raccordo in una scena che neanche Federico Fellini era riuscito a rendere così cupa e ansiogena. Nel felliniano "Roma" il raccordo allagato era l´inferno metropolitano, nella "Fascistopoli" capitolina il raccordo imbiancato è diventato la tomba della Roma della "destra sociale", sotto cui si radunarono, conquistato il potere municipale, le antiche pattuglie romane di Terza posizione, Forze nuove, Naziskin, Avanguardia nazionale e ultrà fascisti e profittatori di ogni specie.
Stavolta sono arrivati davvero quasi tutti al potere con Gianni lo scalatore. Da Mokbel, l´uomo della grande truffa a Finmeccanica, fino a Vattani, il figlio console dell´ambasciatore Umberto animatore di Casa Pound e a Fabrizio Mottironi, ex Nuclei armati rivoluzionari, messo a capo di Buonitalia Spa. E intorno decine e decine di vecchi camerati che spuntano dappertutto in ruoli istituzionali, comunali e economici, come per placare un appetito di potere che viene da lontano e che dopo interi lustri seguiti alla sdoganamento berlusconiano, non è ancora placato. E che l´ex piccolo camerata del Liceo Righi non riuscirà mai a placare. L´ufficio di collocamento di Roma capitale di "Fascistopoli" non dimentica nessuno degli antichi camerati, in un´orgia di inadeguatezza e incapacità, talvolta popolata di incredibili figuri muniti di doppiopetto e cravatta. Talvolta antropologicamente simili agli eredi della Banda della Magliana, che negli ultimi mesi con le sparatorie hanno messo a ferro e fuoco la capitale in un continuo romanzo criminale.
Questa è la Roma "legge e ordine" che Alemanno aveva promesso. Per i posti apicali, come si dice, il grande consulente del sindaco è il solito Luigi Bisignani, che ha appena patteggiato per gli imbrogli della P4. È dell´ex piduista, poi passato allo stato maggiore di Gianni Letta, che il sindaco si fida per le nomine più importanti, come quella di Cremonesi alla Camera di Commercio e di Basile all´Atac. Come ormai tutti sanno, Bisignani è un cultore della prevalenza del cretino nei ruoli di potere, perché così quelli che colloca li controlla meglio, come ha rivelato in una ormai famosa intercettazione telefonica. Con il sindaco di Roma va giù morbido, come nel burro: ogni parente suo o di qualcuno dei suoi che Alemanno colloca, l´inesauribile Bisi gli impone il suo cretino di turno. Ora la neve. Ma con l´acqua, come sul raccordo anulare di Fellini, il sindaco aveva già avuto a che fare un sacco di volte. Purtroppo sembra che, nella sua arroganza, anche l´esperienza riesca a insegnargli poco. Nel dicembre 2008 ci fu la piena del Tevere. Anche allora il sindaco se la prese con la Protezione civile. Ma nessuno in municipio aveva pensato a controllare la pulizia dalle foglie delle caditoie, i tombini romani per la cui manutenzione erano lautamente pagate le imprese napoletane di Alfredo Romeo. Fino al 20 ottobre scorso, quando Roma andò di nuovo sott´acqua e, come al solito, lui, sorpreso e stupito come fosse un passante, frignò contro qualche altro presunto colpevole. Ora ci racconta che il piano-neve - guarda un po´ - è stato ostacolato dalla neve. E va in tivù trenta volte in poche ore a chiedere una commissione d´inchiesta. È uno scherzo? O chiede che qualcuno lo metta finalmente sotto inchiesta per liberare da lui stesso Roma Capitale? Non vi illudete, per lui la colpa è sempre di qualcun altro. E con i suoi spin doctor ha deciso di spezzare le reni al ghiaccio. Mediaticamente. Ma sapete chi sono gli ultimi suoi spin doctor, dopo l´assunzione di circa 25 addetti al suo ufficio stampa? Tenetevi forte: il più ascoltato è Luigi Crespi, quel tipo che si definisce sondaggista, che visse per un po´ alle spalle di Berlusconi e che poi finì in bancarotta. Poi c´è Iole Cisnetto, la consorte di quel Cisnetto che organizza, finanziato soprattutto dalle imprese più care a Bisignani, "Cortinaincontra", una specie di passerella di amministratori delegati in cerca di una ripresa televisiva e di una marchetta giornalistica, in cambio di un modesto contributo pagato dai loro azionisti. Alemanno la frequenta insieme alla sorella Gabriella, direttrice dell´Agenzia del Territorio. Andate a spalare la neve, ha detto il sindaco ai romani quando ha visto che le cose si mettevano male. Ma a Roma non si può fare. Uno che a Trastevere lo ascoltava in televisione ha commentato: «Aho, questo è più paraculo de Schettino, se vo´ gode´ la scena di Roma che lui ha affondato dallo scojo! Ci vada e ci resti, così non si bagna».