martedì 7 febbraio 2012

l’Unità 7.2.11
Intervista a Susanna Camusso
«La flessibilità è troppa. Pronti a discutere ma non sull’articolo 18»
Il segretario Cgil: «Disponibili a parlare dei tempi delle cause di lavoro Ma ministri e sindacalisti la smettano di parlare sempre di licenziamenti»
di Massimo Franchi


Segretario Camusso, vari ministri ironizzano sul posto fisso. Il clima sulla riforma del mercato del lavoro si fa pesante in questi giorni...
«In una stagione già molto difficile sul piano dell’occupazione, in cui i giovani in particolare si trovano in una situazione di precarietà il tema non è dire che il mondo è cambiato, cosa che i giovani hanno perfettamente presente, quanto invece insistere sul fatto che bisogna da un lato rendere l’accesso al mercato del lavoro non precario e dall’altro ribadire che il vero tema è come creare lavoro. Si rischia di costruire un corto circuito, cambiare le norme del mercato del lavoro non migliora l’occupazione. Se non si investe, la disoccupazione aumenta, il problema non è se il posto è fisso o non fisso: il posto ora non c’è. L’emergenza è questa e non si deve colpevolizzare la ricerca del lavoro sotto casa. Quando in una grande parte del Paese la disoccupazione è uno a due, non si vede una prospettiva. I giovani italiani si muovevano eccome fino al 2008. Solo che le migliaia che erano andati al nord sono tornati a casa dopo il mancato rinnovo dei contratti a tempo, perché sono rimasti disoccupati, ritornati al Sud per una forma di soppravivenza e non per la loro indisponibilità a spostarsi».
Angeletti propone una legge che, fatte salve le discriminazioni, specifichi quando i licenziamenti sono consentiti per motivi economici. Cosa ne pensa? «Le norme sui licenziamenti rispetto a motivazioni per organizzazione e crisi esistono già. La discussione vera è un’altra: tutte le normative sono sottoposte al fatto che anche se stai discutendo della crisi e quindi dell’oggettività dei problemi, non ci debbano essere discriminazioni. Questa norma non deve cambiare. La flessibilità in uscita c’è: si esce con una frequenza e una rapidità straordinaria. L’unico problema reale è l’incertezza sui tempi del reintegro e su quello si dovrà lavorare».
Sarebbe disposta a ragionare non di articolo 18, ma di modifica delle due leggi sui licenziamenti?
«Le due leggi regolano una i licenziamenti individuali (la 604), l’altra quelli collettivi (la 223). Già la loro esistenza dimostra che le possibilità di licenziare ci sono. Il tema su cui possiamo ragionare è che le cause di lavoro non possono durare un tempo infinito. Ciò che non è possibile che sparisca, che oggi regola anche queste leggi, è l’onere della prova delle aziende. Tocca a loro dimostrare che si sono rispettati i criteri e i giusti motivi del licenziamento».
I vostri paletti al tavolo della trattativa quali sono?
«La vera priorità è la riduzione della precarietà da un lato e l’estensione degli ammortizzatori dall’altro. Continuiamo a trovare poco credibile con questi dati sulle vertenze una discussione sugli ammortizzatori senza neanche un euro. Anche perché questa situazione durerà a lungo, non qualche mese».
Riuscirete a mantenere una posizione comune con gli altri sindacati?
«Continuiamo a lavorare sulle priorità, sulle cose messe nella piattaforma comune con Cisl e Uil. Nulla toglie che ciascuno cerchi soluzioni ai problemi. Ma nessuna soluzione deve essere un indebolimento dell’art. 18». Mercoledì l’incontro con Confindustria è confermato?
«Sì, allo stato sì».
Come ci arriverete? Non pensa che il quadro sia mutato? Che ci siano irrigidimenti?
«Nell’ultimo incontro abbiamo affrontato il tema della precarietà da ridurre, della cassa integrazione, delle politiche attive. Siamo per continuare questa discussione. Ci è assolutamente evidente il rischio di avere focalizzato, sia per le dichiarazioni del governo sia anche per qualche dichiarazione di troppo da parte sindacale, l’attenzione sui licenziamenti. Ciò ha prodotto una convinzione nelle nostre controparti che l’argomento porterà a chissà quale risultato: non è così. Avremo una discussione anche su quelle che sono posizioni diverse, ma non sarà un problema».
C’è lo spazio per fare un accordo con le parti sociali da portare al governo? «No, guardi, l’obiettivo non è fare un accordo con le parti sociali. Questa situazione per molte ragioni è diversa da tante altre: non si può utilizzare uno schema in cui ognuno fa il suo pezzettino e poi il governo li piglia e li traduce. Il nostro obiettivo è un accordo con il governo. Ben venga tutto quello che porta a fattor comune, che unisce. Ma non è che ci sono sette trattative, ce n’è una ed è quella con il governo. Ben venga che si ragioni e che si faccia una discussione, credo che il governo ne debba tener conto, ma non è che gli possiamo rappresentare una situazione per cui su quel tema o su quell’altro c’è il via libera. Il tema è l’accordo con il governo, senza nessun via libera».
In segreteria è stato affrontato il tema della possibile spaccatura?
«Noi quando ragioniamo di una trattativa in una condizione così difficile ci poniamo l’obiettivo di fare l’accordo, non ragioniamo dell’opposto. Noi pensiamo che bisogna assumere le priorità giuste: i temi dei giovani e degli over 55. Sul tema dell’apprendistato, sulla discussione per la crescita un accordo non è lontano. Ci siamo focalizzati su questi aspetti, non sulle ipotesi che l’accordo non si raggiunga. Una delle ragioni per cui non bisogna mettere al centro della discussione l’articolo 18 è proprio perché bisogna fare un negoziato vero, un accordo sul mercato del lavoro. E non ci pare che la risposta sia l’articolo 18». E se articolo 18 ci sarà, voi tornerete in piazza?
«L’abbiamo già detto con chiarezza. Ma per una volta vorrei prendere in positivo le dichiarazioni del presidente Monti. Un presidente del Consiglio che dice che non è detto che nell’intesa ci sia quel tema, io dico bene: è detto che non ci deve essere»
Ha già accennato a dichiarazione improvvide. Ha notato un cambio di posizione di Emma Marcegaglia, magari dovuta alla campagna elettorale per la sua successione...
«Guardi, quando ci confrontiamo con singole imprese non troviamo imprenditori che ci dicono il problema è l’articolo 18. Ci dicono che il problema è che la riforma delle pensioni irrigidisce tutto, che il problema è la disoccupazione. Bisogna tener conto che questa è la realtà, non parlare d’altro». Con Fornero c’è un altro tema delicato, quello della rappresentanza sindacale.
«C’è un tema che viene ancora prima della rappresentanza sindacale. È quello dello stabilimento di Pomigliano dove non entra neanche un lavoratore iscritto alla Fiom. Questa affermazione non ha trovato nessuna smentita dalla Fiat. Questo è il vero tema e credo anche che dimostri come l’articolo 18 continua ad essere assolutamente fondamentale. La Fiat discrimina i lavoratori che hanno scelto un sindacato. La libertà sindacale è tale se il lavoratore può scegliere, non se c’è azienda che decide quali sono i sindacati giusti. Qui c’è il tema della correzione articolo 19, chiederemo un incontro alla Fornero».

Corriere della Sera 7.2.12
Confindustria lavora con Cisl-Uil sull'articolo 18
La Cgil punta sul Pd per toglierlo dal tavolo

di Antonella Baccaro, Enrico Marro

ROMA — Tra Confindustria, Cisl e Uil è ormai partita la trattativa sull'articolo 18, cioè sulle nuove regole per i licenziamenti per motivi economici. Dopo che il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha proposto una «robusta manutenzione» dello stesso articolo e il segretario della Uil, in un'intervista pubblicata ieri dalla Stampa, ne ha suggerito una riscrittura, si sono intensificati i contatti tra le parti sociali. E anche la Cgil, che resta la meno disponibile a toccare lo Statuto dei lavoratori, non è esclusa dal lavorio in corso dietro le quinte. Domani sera Confindustria e sindacati si rivedranno mentre un nuovo incontro col governo è probabile si tenga i primi giorni della prossima settimana, considerando che, tra l'altro, il presidente del Consiglio Mario Monti partirà domani per la visita di tre giorni negli Stati Uniti.
«Abbiamo molto apprezzato le affermazioni di Bonanni sull'articolo 18. Bisogna tutelare la persona nel mercato del lavoro e non sul posto di lavoro» ha detto ieri pomeriggio il direttore generale della Confindustria, Gianpaolo Galli, in una tavola rotonda a porte chiuse organizzata dall'Arel di Enrico Letta e dalla Fondazione De Gasperi di Franco Frattini per far incontrare il segretario generale dell'Ocse, Miguel Angel Gurría, e alcuni esponenti di spicco dell'economia e delle istituzioni. Oltre a Galli c'erano, tra gli altri, il direttore generale della Banca d'Italia, Fabrizio Saccomanni, il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, il segretario generale della Confcommercio, Luigi Taranto, il direttore dell'Abi Giovanni Sabatini.
Un'occasione per rendere chiaro che anche l'Ocse attribuisce massima importanza alla riforma del mercato del lavoro. Certo non solo a questa, perché, per esempio, Gurría ha insistito sulla lotta all'evasione fiscale, spiegando che «se all'estero leggono che in Italia vengono evasi ogni anno 120 miliardi di euro di imposte e contributi, è difficile chiedere solidarietà, poiché la solidarietà deve cominciare dall'interno del Paese». Sul mercato del lavoro, ha però aggiunto, bisogna intervenire per tutte le ragioni note (il dualismo tra garantiti e non, i giovani precari, ecc.) ma soprattutto perché è importante, la «percezione» che i mercati hanno delle decisioni che il governo prende. E l'Italia, ha concluso Gurría con una battuta, «deve praticare la legge dell'Avis, la compagnia di autonoleggio che, sapendo di essere seconda alla Hertz, diceva a tutti i suoi dipendenti: "Siamo secondi e per questo dobbiamo fare di più"». Altrimenti la percezione giusta non si ottiene.
Soltanto che a sentire queste considerazioni mancava la Cgil, cioè l'organizzazione meno propensa a recepire questo discorso, convinta com'è che le cose da fare siano altre: cancellare i contratti che alimentano il precariato e estendere gli ammortizzatori sociali. Ieri il sindacato guidato da Susanna Camusso ha riunito la segreteria allargata ai leader delle categorie e dei territori per fare il punto della situazione. Ne è emersa una netta contrarietà a sottoscrivere accordi che prevedano modifiche all'articolo 18.
La Cgil sa che il governo è determinato a intervenire: l'idea che sta prendendo corpo è quella di restringere il diritto al reintegro nel posto di lavoro ai soli licenziamenti discriminatori mentre per quelli motivati da ragioni economiche, che andrebbero definite in maniera stringente, dovrebbe scattare un sussidio, come succede per i licenziamenti collettivi (legge 223, che prevede due anni di mobilità) accompagnato da efficaci azioni di ricollocamento.
Camusso, ora che non c'è più il governo Berlusconi, non vuole che la Cgil finisca nuovamente isolata. Ma deve anche tener conto della sinistra interna e della Fiom (metalmeccanici), assolutamente contrarie a ogni cedimento sull'articolo 18. Questo non vuol dire che la Cgil voglia rimanere fuori da eventuali intese, anzi. Al sindacato di Camusso potrebbe interessare arrivare a un accordo minimo con Confindustria, Cisl e Uil su tutti i punti sui quali c'è convergenza, dall'apprendistato allo sfoltimento dei contratti alla riforma degli ammortizzatori sociali. Un accordo che potrebbe poi essere recepito dal governo, il quale poi lo integrerebbe sui punti controversi.
La soluzione consentirebbe alla Cgil di non apparire isolata e lascerebbe al governo più possibilità di manovrare. Ma Camusso non farà nessun passo al buio: quello che l'esecutivo potrebbe fare unilateralmente dovrà essere chiaro da subito, senza trabocchetti. Se questa soluzione non fosse praticabile e tutte le parti, tranne la Cgil, concordassero su una posizione, il problema si sposterebbe sul piano politico, mettendo in difficoltà il Pd che dovrebbe scegliere se sostenere la posizione della Cgil o quella del governo. Ma una eventuale spaccatura quanto gioverebbe al governo Monti che finora ha trovato nel Pd un alleato senza «se» e senza «ma»?
Ieri Letta, in un'intervista all'Unità, ha precisato che non è ipotizzabile una riforma del mercato del lavoro senza il voto del Pd. Ma poi nell'incontro con Gurría ha sottolineato che il governo Monti ha «l'occasione straordinaria per fare riforme importanti per la competitività dell'Italia» e ha aggiunto, riecheggiando parole di Monti e Fornero e dello stesso Galli, che bisogna passare «dalla difesa del posto alla difesa del lavoratore». «Dall'employment all'employability» ha chiosato Gurría. Il responsabile Lavoro del partito, Stefano Fassina, però, ha più volte chiarito che la riforma deve essere condivisa da tutti i sindacati. E l'ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, ha aggiunto che, in caso contrario, «ci sarebbe un grosso problema per il Pd a votare la riforma in Parlamento». Ecco perché anche la Cgil auspica che sia il Pd a togliere le castagne dal fuoco, convincendo Monti che sull'articolo 18 è meglio soprassedere.

Repubblica 7.2.12
"Dal 2013 basta governissimi sceglieremo un nuovo premier e nascerà una coalizione diversa"
Bersani: sull´articolo 18 serve un´intesa, troppe battute dai ministri

di Goffredo De Marchis

Sulla vicenda in sé il Pd non sa nulla e non c´entra nulla. Il Pd nasce senza patrimoni e senza debiti altrui. Con bilanci certificati
Ci interessa una legge che pacifichi il Paese e venga riconosciuta da molti non da pochi. Due soggetti non possono lasciare fuori gli altri. Il Pd non è disponibile
Staccare la spina? Semmai attaccarla meglio. Non vorrei che lasciando passare uno strappo dopo l´altro ci trovassimo in una situazione complicata, da cortocircuito
Gravi le ultime nomine Rai. Ed è pienamente legittimo un intervento del governo per cambiare la governance di un´azienda di proprietà totalmente pubblica

ROMA - Pier Luigi Bersani non vuole staccare la spina al governo Monti. «Semmai attaccarla meglio. Non vorrei che lasciando passare uno strappo dopo l´altro ci trovassimo in una situazione complicata e ci fosse un cortocircuito». Lo preoccupa la nascita di un «nuovo sport. Quello per cui dietro la copertura di un formale sostegno all´esecutivo ci sia la convergenza tra chi insulta Monti come la Lega o Scilipoti e il Pdl. Questa è una presa in giro».
E se le prese in giro continuano?
«Ribadiamo a tutti gli interlocutori la nostra scelta di appoggiare un governo che abbiamo voluto in nome dell´Italia prima di tutto. Anzi, anticipo il nostro nuovo slogan: Italia bene comune. Non pretendiamo che assuma il 100 per cento delle nostre proposte. Ma il punto è non aprire un fossato tra l´esecutivo e l´opinione pubblica. Se passa l´idea che si può allungare l´età pensionabile di un infermiere di 4 anni ma non si possono toccare notai, banche e titolari di farmacie si crea un problema serio. Lo dico per dare forza al governo non per indebolirlo. Stia attento alle trappole».
Rai, responsabilità civile dei giudici e liberalizzazioni. Sono questi i temi?
«La vicenda della Rai è grave non solo per le ultime nomine ma anche per certe frasi che sento pronunciare ad autorevoli esponenti del Pdl. Del tipo "un intervento del governo sull´azienda sarebbe illegittimo". Ma scherziamo? È surreale. Una società interamente pubblica può e deve essere sottoposta a un intervento legittimo del governo. Per cambiare la governance di un´azienda oggi ingestibile».
Giustizia.
«Si parte con una posizione formale del governo e una del Pdl che dice di essere d´accordo. Poi vedo applausi a scena aperta per un emendamento della Lega su un tema delicatissimo come quello della responsabilità civile. A quel voto va posto rimedio. E aggiungo: siccome abbiamo le orecchie lunghe sento che attorno al decreto liberalizzazioni si muovono meccanismi della vecchia maggioranza Pdl-Lega per indebolirlo. Invece noi vogliamo rafforzarlo perché l´effetto sulla vita dei cittadini risulti visibile».
Troppe carezze di Monti al Pdl visto che sono la maggioranza uscente?
«Non credo. Se fosse così è chiaro che sarebbe un errore. Il Pdl ha molte più responsabilità delle nostre per come si è arrivati all´emergenza conclamata in cui ci troviamo. Loro, a maggior ragione, non possono ottenere il 100 per cento».
I ministri e il premier non riescono a sottrarsi dalle battute sull´articolo 18. L´ultima è del ministro Cancellieri. Le dà fastidio?
«Qualcosa si potrebbe rimproverare ai membri del governo ma so bene che alle domande si risponde. Il punto è un altro: come mai la nostra discussione pubblica è inchiodata da anni su questo punto e non si sposta il riflettore su come creare lavoro?».
Lo ha detto a Monti?
«Conosco il pensiero del presidente del Consiglio e so che per lui la questione è molto più complessa della frase sulla monotonia. Ma è vero che alcune dichiarazioni sembrano protrarre il dibattito ideologico degli ultimi anni, cioè del governo Berlusconi. E questo è un male. Guai se nei prossimi mesi ci fosse una spaccatura sulle regole che sono solo una parte del problema».
Ma all´articolo 18 ci arriverete.
«I partiti non possono permettersi di accendere fuochi. Noi stiamo zitti e non interferiamo su questo tema. C´è un tavolo del governo con le parti sociali. Accetteremo qualunque accordo nato in quella sede. Abbiamo le nostre proposte innovative che non toccano l´articolo 18. Ma non escludiamo perfezionamenti nella sua gestione a cominciare dai percorsi giurisdizionali. Ma vorremmo rivoltare l´agenda partendo dalla domanda: come si crea un po´ di lavoro?».
Siete tentati da un patto Pdl-Pd sulla legge elettorale?
«La premessa è che bisogna parlare con tutti. Le forze che sono in Parlamento e quelle fuori. Ci interessa una legge che pacifichi il Paese e venga riconosciuta da molti non da pochi. Non mi interessa invece un uso strumentale della riforma dove due soggetti lasciano fuori gli altri. Il Pd non è disponibile».
E così si possono fare legge elettorale e riforme costituzionali?
«La priorità è cancellare il Porcellum, toglierlo di mezzo. Anche qui il Pd ha la sua proposta ma è assolutamente flessibile a discutere fatti salvi alcuni paletti. Sento che Bossi dice "non si tocca nulla". In questo modo torniamo al nuovo sport di cui parlavo prima. Se scattano istinti di vecchia maggioranza ci teniamo il Porcellum. Ma questo è un punto dirimente».
Che può mettere in discussione il governo?
«Un punto che porterebbe a un confronto politico molto acceso».
Il caso Lusi riapre la questione morale nel Pd?
«Sulla vicenda in sé il Pd non sa nulla e non c´entra nulla».
Ma Lusi è un senatore del Pd.
«Il Pd nasce senza patrimoni e senza debiti altrui. Con bilanci certificati. Di una persona iscritta al partito coinvolta in casi giudiziari si occupa la commissione di garanzia».
Troppi soldi ai partiti dal finanziamento pubblico?
«Andiamo a vedere come viene finanziata la politica negli altri Paesi europei e adeguiamoci ai migliori parametri».
Scopriremo che gira più denaro o meno?
«A occhio direi la stessa quantità. Con delle voci singole da modificare come si è fatto per i parlamentari colpendo vitalizi e rimborsi delle spese. È necessario che i bilanci siano certificati dalla Corte dei conti. Annullare i meccanismi che consentono di sopravvivere anche ai partiti estinti ed evitare che nascano gruppi parlamentari che non si sono presentati alle elezioni. Ma dai tempi di Pericle si riconosce il fatto che l´attività politica va sostenuta se si intende avere una democrazia».
Il caso Lusi viene affiancato al cosiddetto sistema Penati, al finanziamento occulto dei Ds.
«Penso solo al Pd. Le calunnie non le leggo nemmeno. Passo tutto agli avvocati per le querele».
Quando farete le primarie per il candidato premier?
«Intanto faccio notare che senza polemiche e sotto la neve stiamo organizzando le primarie per le amministrative dappertutto. Faremo anche quelle nazionali. Il percorso è il solito: il patto di coalizione e qualche mese prima dell´appuntamento elettorale, né troppo presto né troppo tardi, le primarie».
E se le riforme del governo Monti avessero bisogno di una grande coalizione per andare avanti?
«Non si può andare in campagna elettorale proponendo governissimi. Anzi. Lo stesso percorso di certe leggi che stiamo approvando adesso, ci dice che una vera opera di riforme e di ricostruzione devi farla chiedendo un impegno al corpo elettorale».

La Stampa 7.2.12
L’asse Pdl-Lega e i dubbi di Bersani sulle riforme
di Marcello Sorgi


Dopo l'iniziativa di Berlusconi sulla legge elettorale, la serie di incontri che oggi il Pdl avvia proprio sul tema della riforma servirà, se non altro, a capire se esiste la possibilità di avviare una trattativa concreta su una materia così delicata, o se invece, come altre volte, il negoziato è destinato ad arenarsi di fronte a pregiudiziali politiche.
Che nel Pdl Berlusconi, e non solo lui, pensi che all' ombra della maggioranza tripartita che sostiene il governo Monti i rapporti con il Pd, improntati per molti anni a una contrapposizione frontale, possano segnare un'evoluzione in positivo, è ormai chiaro. Ed effettivamente, nella consuetudine ormai accettata dei vertici a tre di Alfano, Bersani e Casini, il clima è improntato a un sano pragmatismo, che ha consentito finora al governo di superare anche ostacoli molto difficili.
Che invece sulla base di questo il Pd sia disposto a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti di Berlusconi non è affatto sicuro. Per varie ragioni: innanzitutto è forte ancora all'interno del principale partito di centrosinistra l'antiberlusconismo, che è servito in tutti questi anni ai Democratici a cementare, pur senza risolverle, molte rilevanti divisioni interne. Il superamento di Berlusconi e del berlusconismo da parte del Pdl è insomma la condizione per avviare rapporti politici " normali" con il centrodestra: e sotto questo profilo a Bersani non dà alcuna rassicurazione l'atteggiamento del Cavaliere, che un giorno annuncia al Financial Times che ha deciso di ritirarsi dalla prima linea, e il giorno dopo torna in campo da leader per proporre un accordo a tutto campo.
Inoltre e lo si vedrà dopo l'incontro con la delegazione della Lega il leader del Pd non crede fino in fondo alla crisi di rapporti tra Pdl e Carroccio; nè vede, all' interno della Lega, segnali convincenti di disponibilità, per esempio da parte dei maroniani, a voler battere la strada di alleanze differenti fuori da quella decennale con il centrodestra. Berlusconi e Bossi, in altre parole, a giudizio dei Democratici, possono anche arrivare alle soglie di una rottura. Salvo poi decidere di far saltare il governo e tornare alle urne con la vecchia alleanza. Un'analisi del genere tiene ovviamente conto di interessi di parte, in nome dell'antiberlusconismo rifiuta di riconoscere a Berlusconi il ruolo di interlocutore politico, e di conseguenza non lascia molte speranze al prosieguo della trattativa sulla legge elettorale. Tuttavia, a sentire molte voci che si levano anche dall' interno del Pdl, non è affatto lontana dalla realtà.

Repubblica 7.2.12
La politica dopo Monti
di Mario Pirani


Rossana Rossanda sussulta (di orrore e/o di sorpresa?) di fronte all´analisi nel complesso positiva che Asor Rosa, da sempre noto per la radicalità del suo pensiero, rilascia sul governo Monti.
Lo scritto (Il Manifesto, 19 gennaio) è stato al centro la settimana scorsa di un aspro dibattito nel corso de L´infedele, il talk show di Gad Lerner su "La7", e anche in quella sede si sono riprodotte le controversie, soprattutto tra esponenti di sinistra, riformisti ed estremisti, delle vecchie ma anche giovani generazioni. Le illusorie affabulazioni seguitano, evidentemente, a riprodursi e diffondersi come patologie ereditarie. Seguirò per comodità espositiva i "sette pilastri della saggezza" attorno ai quali Asor Rosa ha declinato la dialettica dell´odierna, inedita esperienza di governo, biasimata per contro da Rossanda che asserisce: «Nulla di quanto è avvenuto in Italia mi piace. Non la lunga berlusconata, assai consensuale… Non la linea di un governo la cui "tecnica" sta nel seguire fedelmente le direttive europee. Non l´improvviso decisionismo del presidente della Repubblica… Non la decisione del suddetto Presidente di non chiedere una destituzione del precedente premier, anziché lasciarlo con la sua maggioranza alle Camere». Un rimbrotto al mancato ricorso alle urne che unisce l´elegante corsivista con gli urlatori di piazza, tutti affetti dalla idiosincrasia per la realtà. Non li sfiora il sospetto che se ci fossimo regalati la pausa elettorale sull´orlo del baratro finanziario, l´Italia avrebbe rischiato, con altissima probabilità di avvitarsi in una crisi verticale di sistema.
Il capolavoro di Napolitano è frutto di una percezione della realtà, drammatica quanto esatta. Di fronte alla insipienza litigiosa e alla perdita totale di prestigio internazionale della destra e alla palese incapacità della sinistra di presentare una alternativa percorribile, il presidente della Repubblica è riuscito ad inventare, proporre ed imporre un inedito meccanismo del potere che anche le parti in causa hanno subìto come unica via d´uscita. Uno strumento la cui tecnicità non sta solo nelle professionalità che ne caratterizzano i componenti ma nel fatto che il governo è di per sé sottratto alle perenni fluttuazioni, contraddizioni, blocchi interni ed esterni, derivanti dalla "politicità" pervasiva delle precedenti coalizioni. Di qui anche una popolarità di massa, raccolta tra le moltitudini insofferenti all´eccesso di partitocrazia. Detto questo non va taciuto che, tanto più la soluzione sperimentata appare l´unica, nella sua urgenza e nelle sue forme, in grado di affrontare (e forse risolvere) una crisi finanziaria ed economica altrimenti devastante, tanto più la dialettica democratica tradizionale rischia di rivelarsi inutile, sempre tardiva, a volte dannosa, sovente inconcludente. È curiosa la duplicità di reazioni della sinistra tradizionale, riformista, sindacalista, ecologista od altro: tutte secernono querule lamentele, ma anche motivate proteste in rapporto a singole rivendicazioni popolari, tutte peraltro sembrano inficiate dalla pretesa, che a loro par naturale, di trovarsi alle prese con un governo di sinistra che non segue "la linea del partito". Una volta ancora non si vuol leggere la realtà oggettiva della situazione e capire che questo non è un governo di sinistra come non lo è di destra, checché ne pensino cantautori di vario colore. I suoi membri sono, come tutti, soggetti ad errori ma quando vi incorrono questi non sono frutto delle imposizioni di partito né del tramutarsi dei ministri in cinghie di trasmissione delle varie segreterie. A questo autotravisamento ne corrisponde un altro ancor più allucinatorio di chi dà per definitivamente spacciato Berlusconi e giura che non potrebbe più tornare. Chi, come me, è ben convinto che la sconfitta del Cavaliere vada ben oltre la contingenza delle sue dimissioni e che un suo ritorno a palazzo Chigi suoni altamente improbabile, non è detto consideri del tutto fuori luogo immaginare un malaugurato ritorno in scena del personaggio, dettato magari da un momento di disperazione, un calcolo sbagliato, un sondaggio dissennato (corre voce che ne abbia ordinato uno sul plauso che potrebbe arridere ad una riedizione dell´accordo con Bossi in chiave antieuropea e di uscita dall´euro). È forse prova di eccessivo pessimismo prestare solo una fiducia pro tempore all´impegno di Berlusconi di voler anteporre a tutto gli interessi del Paese?
Piuttosto vi è un altro fattore da tener ben presente. Il risultato forse più importante dell´avvento di Mario Monti è il recupero, non certo totale ma significativo, del ruolo italiano in Europa. È qualcosa che conta sul piano politico ma anche economico. Lo spread del prestigio a nostro favore ha guadagnato parecchi punti. Ma quel che va valutato è il carattere bilaterale del moto di recupero nel senso che è risultato molto chiaro, da un certo punto in poi, quanto cominciasse a contare nelle cancellerie europee (ed anche a Washington) l´esigenza di un partner italiano affidabile. Si è trattato di un sentimento sempre più avvertibile e imperniato sugli irrituali quanto calorosi rapporti personali con Giorgio Napolitano, rapidamente percepito come l´unico leader italiano di livello europeo. Non è del tutto un paradosso immaginare che ancora una volta il recupero delle "magnifiche sorti e progressive" del nostro Paese stia passando attraverso l´alleanza tra una minoranza illuminata e patriottica e potenze straniere in funzione liberatrice. Così fu unita l´Italia con le tre Guerre d´Indipendenza, con il patrocinio di Napoleone III e del governo inglese; così Trento e Trieste furono redente, grazie alla Triplice Intesa; così la Liberazione del ‘45 non ci sarebbe stata senza gli Alleati. Può sembrare un paradosso esagerato ma dopo quasi vent´anni di berlusconismo che sembrava intramontabile, una fuoruscita al ritmo aggraziato di un minuetto, sarebbe stata possibile senza l´evidente benedizione dei nostri alleati storici (e nell´ultima dirittura anche della Santa Sede)?
Resta, come accennato più sopra, un ultimo quesito. Se la splendida invenzione del laticlavio a Monti e del varo di un governo tecnico libero dal giogo partitico quotidiano rappresenta in questa fase un passaggio ottimale, come si riguadagnerà un ruolo alla rappresentatività democratica? O dobbiamo riconoscere che al giorno d´oggi la soluzione delle situazioni complesse implica una macchina del potere tecnica e per ciò stesso super partes? È un pericolo reale e con una sua forza cogente. Una risposta valida implica il ripudio delle formule scontate, non bastano l´appello alla bontà della libera alternanza, il richiamo formale alla Costituzione. Dobbiamo invece affrontare la sostanza delle cose, prender di petto la crisi della democrazia, asserirne la verità per quanto spiacevole. Ogni giorno si moltiplicano le malversazioni, i furti, le denunce di nuove combriccole del malaffare tra pubblico e privato. Solo pochi giorni fa è venuta fuori l´ultima cifra di due miliardi e 750 milioni di contributi distribuiti a partiti grandi e piccoli, molti ormai inesistenti. La politica si rivela principalmente una macchina per far soldi. Urge, in primo luogo da parte dalla sinistra, una svolta radicale: la proposta di un taglio della metà dei seggi parlamentari da portare avanti fino alla approvazione attraverso una grande battaglia di massa, tipo raccolta delle firme contro la bomba atomica o a favore del divorzio. A questo far seguire il dimezzamento retributivo di tutte le cariche politiche nazionali e locali. Ripulire il rapporto tra politica e affarismo dovrebbe diventare l´asse centrale di un recupero indispensabile per ristabilire un rapporto tra democrazia e politica. Le forme istituzionali seguiranno. Questo non sarebbe certo un impegno per tecnici.

l’Unità 7.2.11
Intervista a Enrico Rossi
«Ma Passera e Monti dov’erano mentre c’era l’emergenza?»
Il presidente della Toscana «Il ministro delle Infrastrutture è stato assente
La Protezione Civile prima era troppo grassa, adesso è troppo smunta»
di Vladimiro Frulletti


Sull’emergenza neve il governo è stato «distante». Non è passata inosservata al presidente della Toscana Enrico Rossi la quasi totale assenza di Monti e dei ministri in questi giorni con l’Italia sottosopra. A cominciare dal responsabile di trasporti e infrastrutture Corrado Passera che doveva intervenire visto che ha la golden share sia di Fs che di Enel dice Rossi chiedendo al governo di aprire con Regioni e enti locali «un tavolo politico». Anche sul ruolo della Protezione civile perché se è chiaro che «Alemanno ha sottovalutato la situazione» tuttavia è anche vero che se prima la Protezione civile «era troppo “grassa”, ora è eccessivamente smunta».
Presidente Rossi, come è possibile che un Paese che dovrebbe dirsi civile resti prigioniero per giorni di neve e ghiaccio?
«La parola chiave è manutenzione. Viviamo in una società che sembra avere smarrito il gusto di avere una prospettiva di governo di se stessa che vada oltre l’immediato».
In crisi sono finiti quelli che dovrebbero essere i servizi essenziali: treni, elettricità, strade.
«Il problema è che questi grandi servizi pubblici, privatizzati e dominati da una logica degli utili stabiliscono livelli di manutenzione standard e che poi non riescono a far fronte ai picchi che si possono determinare. Prendiamo le ferrovie. Qui da noi rispetto al disastro del dicembre 2010 c’è stato un miglioramento. Nella Toscana centrale dove si sono messi degli scambi nuovi, che hanno serpentine che non li fanno gelare s’è viaggiato. Sulla costa dove, nonostante le nostre richieste, non si è intervenuto i treni sono rimasti fermi. Non c’è quindi da fare molto ma costruire un piano che consenta di cambiare i vecchi scambi con quelli nuovi che costano dai 30 ai 50mila euro l’uno. E poi quando i treni stanno fermi i cittadini devono essere informati».
E l’atteggiamento del Governo Monti come lo giudica?
«Mi pare che sia stato un po’ distante. Il ministero alle Infrastrutture dovrebbe intervenire. Passera fa tante dichiarazioni sui giornali, però questa emergenza neve lo riguarda anche lui perché ha la golden share, se non sbaglio, sia delle Ferrovie che dell’Enel. I tecnici fanno un po’ i furbi insomma. Bisogna esporsi su questi temi. Lo impone l’essere proprietari dei due punti su cui il sistema è venuto meno. Bisognerà pur domandarsi se le autorità di garanzia hanno funzionato e cosa fa il proprietario numero uno per garantire questi servizi. Altrimenti si rischia di avere un Paese
un po’ abbandonato e che la settima potenza industriale del Mondo vada in tilt per pochi centimetri di neve».
E resti, come è successo a migliaia di famiglie, al buio per giorni.
«Noi abbiamo avuto persone senza elettricità per 4-5 giorni. All’Enel chiediamo con garbo, ma con decisione, cosa intende fare per non veder ripetere queste situazioni. E su questo ci attendiamo risposte dallo stesso ministero delle infrastrutture. Le autorità di controllo e garanzia dicano se veramente è stato fatto tutto o se c’è qualcosa da rivedere».
Ma lei cosa si aspetta dal governo?
«Una riflessione seria, da farsi però non nel chiuso delle proprie stanze ma con gli enti locali che sanno cosa è avvenuto davvero ai propri cittadini. Invito Passera a discutere con noi su Enel, Ferrovie, sulle grandi arterie stradali e autostradali. Che ci sia un confronto vero anche sul governo del territorio. Tema su cui il decennio berlusconiano ha provocato la più grande gelata che abbiamo conosciuto. Vale lo stesso discorso delle alluvioni. Bene le risorse per i grandi investimenti, ma servono anche nuove politiche del territorio. Noi abbiamo bloccato tutte le edificazioni nelle aree a rischio idrogeologico: oltre 1 milione di metri quadri. Questa scelta può avere un valore anche nazionale o no?». Della polemica fra Alemanno e Gabrielli che ne pensa?
«È evidente che ci sono delle responsabilità dei sindaci. Il sindaco di Firenze chiese scusa. C’è una bella differenza col comportamento di Alemanno che ha fallito e prova ad addossare a altri le responsabilità. Però non si può dare nemmeno una risposta burocratica. Ci sono alluvioni dimenticate su cui il Governo non interviene, non mettono in discussione le cose fatte da Tremonti che hanno lasciato le regioni sole, non ci sono i fondi per la Protezione civile. Non si possono avere reazione solo alla prefetto, si discuta anche di politica. Non ci sono scuse per la débâcle del Comune di Roma, però è anche vero che se prima la Protezione civile forse era troppo grassa, adesso mi sembra eccessivamente magra. Il Paese insomma deve discutere in termini politici di ciò che è avvenuto».

l’Unità 7.2.11
Alemanno polemizza anche col ministro dell’Interno e con la governatrice del Lazio
I Democratici chiedono all’esecutivo di riferire al Parlamento. Polemica esercito-Comuni
Il Pd: troppe cose non hanno funzionato Roma, sindaco-farsa
Il sindaco di Roma dopo la Protezione civile se la prende col ministro dell’Interno Cancellieri. Poi polemizza con Renata Polverini. Nelle Marche l’esercito chiede il conto ai sindaci
di Andrea Carugati


Ormai la neve in ampie zone di Roma si è quasi del tutto sciolta, ma il sindaco polemista Gianni Alemanno resta sempre protagonista della sua fiction contro tutti. Ieri, tra una spalata e l’altra in quel di Cesano, una delle zone ancora in emergenza, a uso e consumo di telecamere e fotografi, il primo cittadino ha alzato il tiro, e se l’è presa con il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Rea di aver difeso l’operato della Protezione civile, di aver definito il suo l’estenuante botta e risposta con Franco Gabrielli «una querelle politica», e di aver ricordato che «per legge il sindaco è sempre il primo responsabile degli interventi di protezione civile».
ALEMANNO SFIDA CANCELLIERI
La replica di Alemanno è stata immediata: «Il ministro ha fatto degli appelli alla popolazione sabato, credo che anche lei fosse stata male informata della situazione...». «Non sono stata male informata, la situazione è stata seguita momento per momento», ha controreplicato il ministro.
«Le istituzioni devono fare la loro parte, le polemiche personalizzate vanno evitate. Bisogna lavorare in silenzio», rincara Cancellieri. «Dopo, nelle sedi giuste, le istituzioni si difenderanno dalle accuse. Non do giudizi su nessuno perché non ho i titoli per farlo». Segue telefonata pacificatrice tra il ministro e il sindaco, che si giustifica: «Cancellieri non mi ha scaricato, presto arriverà una nota del Viminale». Nota che puntualmente arriva, e Cancellieri conferma: «Nessuna polemica personale con il sindaco di Roma Alemanno o altri rappresentanti delle istituzioni».
Nel frattempo il sindaco decide di chiudere le scuole a Roma anche oggi (niente lezioni da venerdì) e riesce a litigare anche con la Regione Lazio, a colpi di lettere. Il Comune chiede con forza una previsione «puntuale e particolareggiata per le prossime 48 ore entro le 12 di oggi». La Regione risponde parlando di una richiesta «perentoria e irrituale». Perplessa la governatrice Polverini: «Noi regolarmente comunichiamo a tutti i Comuni e a tutte le Province le previsioni meteo che ci arrivano dalla Protezione civile nazionale. Non capisco questo ribadirlo con richiesta scritta...». Intanto il presidente della provincia di Roma Zingaretti chiama in causa «le massime autorità dello Stato»: «È una vergogna che ci siano ancora Comuni vicino Roma senza luce, riscaldamento e telefonia». Alemanno si fa prendere dall’euforia: «Dopo le critiche tutti mi stanno dando ragione». Le opposizioni di Roma non la pensano così: «Per nascondere le proprie inefficienze, Alemanno sta terremotando l’intero panorama istituzionale italiano», attacca il segretario del Pd romano Marco Miccoli. «Faccia il sindaco se ci riesce». A parziale difesa di Alemanno interviene il numero uno Anci Roberto Reggi: «È vero che i sindaci sono i primi responsabili, ma servono risorse e informazioni adeguate, cosa che non è avvenuta». Cancellieri, dal canto suo, resta vaga sull’ipotesi di trasferire la Protezione civile sotto il Viminale: «Con Monti ne abbiamo parlato ma ci siamo riservati un’ulteriore riflessione». E sull’efficacia degli interventi chiede lumi anche il Pd, invitando al governo di riferire «immediatamente» al Parlamento: «Troppe cose non hanno funzionato, il governo spieghi», attacca il vice capogruppo alla Camera Michele Ventura.
E L’ESERCITO CHIEDE IL CONTO
Nelle Marche scoppia una dura polemica tra i sindaci e l’Esercito, con i militari che chiedono di essere pagati per spalare la neve. A Urbino dieci spalatori costano 700 euro al giorno. Ad Ancona l’Esercito chiede 800-900 euro al giorno per una ruspa, poco meno di 100 euro a testa per i soldati, cui aggiungere vitto e alloggio. Alcuni piccoli Comuni, visti i preventivi, hanno dovuto rinunciare ai soldati. «Non è giusto che lo Stato faccia pagare i Comuni in un frangente simile», protesta il presidente della provincia di Pesaro Matteo Ricci, del Pd. In serata il ministro della Difesa Di Paola spiega che «gli interventi dell’esercito non sono a carico dei Comuni». Che significa? Che i sindaci dovrebbero essere risarciti dal ministero dell’Interno. Ma solo quando venisse dichiarato lo stato di emergenza. Cosa che non è avvenuta. Perché? «Non lo abbiamo fatto perché, in base al decreto Milleproroghe, a pagare sarebbero i cittadini con un aumento delle accise sulla benzina», spiega il governatore Gian Mario Spacca.

l’Unità 7.2.11
Da Crespi a Profeta. Gli Alemanno boys nella bufera
A ispirare la polemica contro la Protezione civile, l’ex «mago della comunicazione» già condannato per bancarotta
Ecco la lista dei collaboratori del sindaco, zeppa di «errori»
di Mariagrazia Gerina


Bene, bravo Gianni: siamo riusciti a polarizzare l’opinione pubblica!». Al termine di un’altra giornata da dimenticare Luigi Crespi è l’unico che riesce a trovare una ragione per gioire. Quel che per gli altri è un disastro, per l’ex sondaggista di Silvio, passato a sussurrare consigli nell’orecchio di Gianni, è potenza degli elementi che si sprigionano. Perciò via, all’attacco. La politica è scontro.
Da quando è arrivato in Campidoglio, è stato quello il primo consiglio che ha dato al sindaco di Roma. Attacca sempre. La sinistra, la stampa, Tremonti. Infine, è toccato anche alla Protezione civile di Gabrielli assaggiare il metodo Crespi.
Alemanno ha appena finito di vomitare gli ultimi insulti sulla Protezione civile, che su di lui cala l’abbraccio, capace di lasciar intravedere impossibili rimonte laddove tutti sentono già aria di disfatta. Nel bene (ancora invisibile agli altri) e nel male (che è sotto gli occhi di tutti), spariti gli uomini d’azione, è stato lui l’uomo-chiave di queste giornate di “tormenta”. Più di uno spin doctor. Più di un consigliere. Da vero regista, non ha abbandonato neppure per un attimo l’inconsapevole protagonista del suo disastro mediatico. Peggiore anche di quello che, complice l’imperizia, si è abbattuto sulla capitale con l’arrivo della neve. Quando gli uomini che avrebbero dovuto agire si dileguavano uno a uno, lui era lì. Al fianco del sindaco. Mentre imbraccia la pala contro la neve, mentre urla davanti all’ennesima telecamera e seppellisce se stesso sotto una montagna di polemiche ben più alta dei famosi centimetri caduti sulla capitale.
Che s’inventerà ora l’ideatore del “meno tasse per tutti”, nel frattempo condannato a sette anni per la bancarotta della sua società di comunicazione? Più neve per tutti? A sua discolpa si può dire solo che è stato chiamato a fare miracoli, quando Alemanno era già sprofondato in una serie interminabili di fallimenti e scandali. E ci ha messo del suo.
D’altra parte, dire che il sindaco di Roma sia poco accorto nella scelta dei suoi collaboratori è un eufemismo. La lista degli “errori” comincia con Don Ruggero Conti, garante del suo programma per la famiglia e le periferie, poi condannato per violenza sessuale, e finisce con Mirko Giannotta, figlio del custode della sezione Acca Larenzia, arrestato per aver sparato a un altro protetto del sindaco, l’ex Nar Francesco Bianco. A lui il sindaco di Roma ha affidato l’ufficio del Decoro urbano. A Francesco Maria Orsi, consigliere-broker indagato per riciclaggio, l’expo di Shangai, a Giorgio Magliocca, indagato per «concorso esterno in associazione mafiosa», la gestione dei beni confiscati alla mafia, a Mario Vattani, il diplomatico fascio-rock, le relazioni internazionali.
Dell’uomo a cui il sindaco Alemanno ha affidato in un colpo il dipartimento Ambiente, la direzione della Protezione civile comunale e l’incarico di vicecapo di gabinetto, si sa per certo che era un ex poliziotto. Ecco appunto fa notare qualcuno che competenze aveva per andare a dirigere la Protezione civile di Roma?
Veltroni aveva elevato quella struttura a rango di ufficio extradipartimentale, direttamente alle sue dipendenze. Capace di gestire in modo impeccabile un evento mondiale come i funerali di Giovanni Paolo II. Alemanno ha smantellato tutto per consegnare quel che restava nelle mani del X dipartimento, responsabile della manutenzione della città, della azienda municipale dei rifiuti (altra indiziata del disastro-neve) e, da ultimo, anche della Protezione civile.
Al quinto tentativo la direzione di quel tormentato dipartimento è andata a Profeta. E anche quella si può dubitare, alla luce di quello che è accaduto nei giorni scorsi, che sia stata la scelta più appropriata. «La macchina del Campidoglio è pronta», aveva assicurato Profeta, elencando i compiti distribuiti ad Ama, Atac, Acea, le 8 società private responsabili della manutenzione stradale. Schierati con i potenti mezzi. Peccato che nel momento del bisogno tutti si siano dileguati. Lasciando soli il sindaco e il suo “Bertolaso” capitolino. Soli, nelle mani del grande “grande comunicatore”.

Corriere della Sera 7.2.12
Su Roma da sabato non nevica più eppure le scuole rimangono chiuse

di Aldo Cazzullo

Finora la si è buttata sul ridere. L'ultima, di ieri: facciamo sì le Olimpiadi a Roma, ma invernali. Invece occorre dirlo con chiarezza: una metropoli europea, capitale di due Stati, che non riapre le scuole fino al mercoledì dopo che ha smesso di nevicare il sabato mattina, rappresenta un autentico scandalo.
Sono tre giorni che a Roma splende il sole. E sono tre giorni che i servizi pubblici funzionano a rilento, chiamare un taxi è complicato (sabato scorso, impossibile), le scuole sono appunto chiuse. Ma l'aspetto forse ancora più grave è che tutto questo — tranne in chi è stato toccato di persona dal disservizio, come gli automobilisti bloccati sul raccordo — non desta sconcerto ma ilarità, non indignazione ma rassegnazione più o meno divertita.
Intendiamoci: la proverbiale tolleranza romana, quando non oltrepassa il labile confine del menefreghismo, è un tratto invidiabile. Che Roma non sia preparata alla neve come le città del Nord, è normale. Che il sindaco le abbia sbagliate quasi tutte, è pacifico. Ma attribuirgli ogni colpa non basta. Alemanno ha fatto bene a chiudere le scuole il venerdì, giorno dell'emergenza vera. Dopo però si è intestardito nella polemica con la Protezione civile, passando il tempo a rimbalzare da Twitter e Sky, anziché concentrarsi sui soccorsi. Il risultato è che nella capitale non si sono prese neppure le misure più ovvie ed elementari.
Ma il problema non è esaurito dalle lacune dell'amministrazione comunale. E non è nemmeno limitato a Roma, che pure si è comportata in modo da confermare i peggiori pregiudizi nordisti per i prossimi decenni. La passività, l'attesa disincantata degli eventi, la rassegnazione a servizi e amministratori pessimi è la metafora di un Paese che si è finalmente accorto di essere in crisi, ma non sempre e non dappertutto ha reagito come gli impone il suo enorme potenziale. E anche le foto di Roma bella addormentata sotto la neve ci ricordano che abitiamo città straordinarie per arte e cultura, ma non sempre ne siamo all'altezza.

l’Unità 7.2.11
Liberazione, i lavoratori: parte dei nostri stipendi per tornare in edicola
di Natalia Lombardo


L’editore di Liberazione, ovvero Rifondazione comunista, ha chiuso il quotidiano lamentando la totale mancanza di fondi? Allora i lavoratori lanciano un’inedita proposta: «doniamo» parte dei nostri stipendi, purché l’editore si impegni a far ripartire il giornale on line e con 8 pagine in pdf, stampabili. Praticamente 35 persone al lavoro al costo di 6. Giornalisti e poligrafici «donano» all’editrice Mrc il 50% dello stipendio lordo per due mesi, sono pronti al contratto di solidarietà al 60% (molto alto) e con una «cassa comune di solidarietà» tutti avrebbero un pari compenso di 1400 euro. Più di così non si può, per «rimanere vivi» come giornale, «non suicidarci prima che ci ammazzi Monti», spiega Carla Cotti del comitato di redazione: «L’editore ci ha fatto sapere di voler un pdf di 2 pagine e di avere soldi sufficienti solo per direttore, vicedirettrice e al massimo due giornalisti e due poligrafici. Noi invece vogliamo un giornale vero, non finto».
Una proposta elaborata il 1 febbraio al tavolo con la Federazione della Stampa e la Slc Cgil, e presentata ieri in una conferenza stampa. La Fieg (alla quale è iscritta la Mrc) ha respinto l’idea. I lavoratori si aspettano che il segretario del Prc, Paolo Ferrero, batta un colpo e «risponda sì». I due mesi sono rinnovabili per «traghettare» il giornale alla riforma sui fondi per l’editoria. Ieri Walter De Cesaris, del comitato politico del Prc, ha definito la proposta «responsabile, forte e intelligente» ma ha aggiunto: «Mi sembra difficile continuare a descrivervi come quelli che difendono i propri interessi particolari (come se il lavoro lo fosse) rispetto a chi vuole salvare la baracca». Ma la risposta deve arrivare subito: alle 17 c’è un incontro alla Regione Lazio, l’alternativa è la cassa integrazione a zero ore per 33 persone.
E una voce della sinistra spenta.

l’Unità 7.2.11
Liturgia straordinaria oggi a Roma. Il pontefice chiede «profondo rinnovamento nella Chiesa»
Ratzinger: collaborazione con la magistratura. «La guarigione delle vittime è la nostra priorità»
Al buio, davanti all’altare la Chiesa chiede perdono per le vittime di pedofilia
Si è aperto ieri alla Gregoriana il simposio internazionale dei vescovi sulla pedofilia nella Chiesa. Presenti anche le vittime. Il messaggio del Papa. Il cardinale Levada apre i lavori. Oggi «messa» per il perdono.
di Roberto Monteforte


Quindici minuti di silenzio e di buio. Sarà così che si sottolineerà questa sera nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma la richiesta di perdono della Chiesa cattolica per gli abusi compiuti da religiosi sui minori.
Alla solenne «liturgia penitenziale» presieduta dal prefetto della Congregazione dei vescovi cardinale Marc Oullet, parteciperanno alcune vittime e sette religiosi responsabili degli abusi che chiederanno perdono. Questa liturgia sarà uno dei momenti forti del simposio internazionale contro gli abusi del clero che si è aperto ieri alla pontificia università Gregoriana con la partecipazione dei delegati di 110 conferenze episcopali del mondo, di esperti dai cinque continenti che si concluderà il 9 febbraio con l’obiettivo di confrontare le diverse esperienze di «contrasto» della pedofilia nella Chiesa e per definire entro il 2012 quelle linee comuni richieste dalla Congregazione per la Dottrina della fede.
«La guarigione delle vittime degli abusi deve essere la preoccupazione prioritaria per la comunità cristiana». Lo ha affermato Benedetto XVI nel suo messaggio di saluto al Simposio. Il pontefice chiede «una cultura forte di tutela efficace e sostegno delle vittime» e «profondo rinnovamento nella Chiesa». Nel suo breve saluto papa Ratzinger ribadisce la sua linea con un’iniziativa molto concreta: l’immediata istituzione di un Centro per la protezione dei bambini, con sede a Monaco, dotato anche di un programma di apprendimento a distanza finanziato anche dai fondi della Papal Foundation.
LEVADA APRE I LAVORI
Sarà il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale William Levada a svilupparla. Parte da una constatazione: il «drammatico aumento dei casi di abusi su minori denunciati» all’ex Sant’Uffizio, oltre 4.000, nell’ultimo decennio. Un effetto sottolinea anche della «copertura mediatica che questi scandali hanno avuto in tutto il mon-
do». Levada osserva «l’inadeguatezza di una risposta esclusivamente canonica (o diritto canonico) a questa tragedia e, dall’altro, la necessità di una risposta più complessa». Sul nodo della collaborazione delle gerarchie ecclesiastiche con le autorità civili rilancia la linea di Ratzinger: «Collaborare con le autorità civili e secondo le leggi dei diversi Stati». «La collaborazione della Chiesa con le autorità civili in questi casi spiega riconosce la verità fondamentale che l’abuso sessuale di minori non è solo un crimine in diritto canonico, ma è anche un crimine che viola le leggi penali nella maggior parte delle giurisdizioni civili». Non si deve perdere di vista la gravità di questi crimini e la Chiesa deve elaborare una «risposta dai molteplici aspetti». Il cardinale Levada conferma il massimo impegno del Papa, della Santa Sede e delle Conferenze episcopali per «trovare i modi migliori per aiutare le vittime, proteggere i minori e formare i sacerdoti di oggi e di domani affinché siano consapevoli di questa piaga e venga eliminata dal sacerdozio».
Il «prefetto» della Congregazione per la Dottrina della fede, sottolinea l’impegno decisivo di Benedetto XVI per denunciare gli attacchi subiti da parte dei media in questi ultimi anni in varie parti del mondo, quando invece avrebbe dovuto ricevere la gratitudine di tutti noi, nella Chiesa e fuori». Levada ha poi fornito un quadro degli interventi necessari per poi concludere che «Coloro che hanno abusato sono una piccola minoranza dei fedeli e laici impegnati. Tuttavia, questa piccola minoranza ha provocato un gran danno alle vittime, e alla missione della Chiesa».

il Fatto 7.2.12
Al convegno sulla pedofilia il cardinale non risponde
Il prefetto Levada si eclissa: niente domande per la stampa
di Marco Politi


Comincia con un’assenza il grande convegno vaticano sugli abusi sessuali. Il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, l’organo supremo che gestisce in Vaticano i dossier dei preti criminali, non si presenta alla stampa. Nei momenti cruciali Levada non risponde mai ai media. Non c’era nel marzo 2010, quando Benedetto XVI affrontò con rigore il tema nella sua Lettera agli Irlandesi denunciando che la Chiesa non aveva dato ascolto al grido delle vittime. Il porporato lasciò solo il portavoce vaticano Lombardi a fronteggiare i giornalisti ansiosi di avere risposte sul perchè di tanti casi insabbiati nel corso di decenni. Levada non è venuto neanche ieri.
Eppure toccava al cardinale la relazione di apertura al convegno e il programma ufficiale parlava chiaro: “Al termine della propria presentazione gli oratori saranno a disposizione per le domande in sala stampa per un massimo di 30 minuti”. Invece, minuti zero. Forse Levada temeva che qualche reporter americano ponesse domande scomode. Afferma la maggiore organizzazione di vittime degli Stati Uniti, l’associazione SNAP, che da arcivescovo a San Francisco e a Portland (nell’Oregon) Levada avrebbe “insabbiato denunce su violenze su minori e molestie sessuali”. Resta il fatto che da cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, Joseph Ratzinger non si sottraeva alle domande spinose della stampa.
L’episodio rivela l’ambivalenza dell’evento inaugurato lunedì all’università Gregoriana. Il simposio internazionale rappresenta indubbiamente un momento importante, una svolta rispetto al passato. Il tentativo –come afferma padre Lombardi – di affrontare la questione in modo globale, con una “presa di coscienza collettiva” per non dare risposte soltanto sull’onda delle emergenze bensì mobilitare la Chiesa per una “risposta attiva”.
Dunque bisogna attrezzarsi per il futuro. Solo che non è ancora chiaro cosa succede con le migliaia di vittime del passato. Chi ha avuto, ha avuto…? Si lascia che singolarmente emergano dalla notte del loro dolore? O la Chiesa prenderà il coraggio a due mani e deciderà di “setacciare parrocchia per parrocchia, diocesi per diocesi per scoprire cosa è successo” come ha chiesto sul Fatto Quotidiano Bernie McDaid, una delle vittime americane che incontrò Benedetto XVI a Washington nel 2008?
Papa Ratzinger, nel messaggio augurale al convegno, ha auspicato che tutta la Chiesa si mobiliti per la guarigione, la salvaguardia e il “sostegno alle vittime”. Il pontefice ha anche sottolineato la necessità di un “profondo rinnovamento della Chiesa ad ogni livello”. Ma il nodo non è stato sciolto.
Il cardinale Levada nella sua relazione ha evitato l’argomento. Ha parlato di un drammatico aumento degli abusi del clero ai danni di minori negli ultimi anni, ha citato la cifra di 4000 dossier arrivati alla Congregazione per la Dottrina della fede, però si è limitato ad affermare che la quantità di casi ha “rivelato da una lato l’inadeguatezza di una risposta esclusivamente di diritto canonico a questa tragedia e, dall’altra, la necessità di una risposta più complessa”. Nell’ombra è rimasta anche la questione della denunci dei criminali alle procure. Dice il cardinale che la “collaborazione della Chiesa con le autorità civili” è la dimostrazione del riconoscimento che l’abuso sessuale di minori “non è solo un crimine in diritto canonico, ma è anche un crimine che viola le leggi penali”.
PERÒ COLLABORARE è un conto, andare dalla polizia è un altro. Sarebbe tollerabile – ripetono da anni le organizzazioni di vittime – che un preside non denunci automaticamente un professore che abusa?
Ha rimarcato tempo fa sul Giornale il procuratore aggiunto della Repubblica a Milano Pietro Forno, capo del pool specializzato per gli abusi, che mai la gerarchia ecclesiastica ha ostacolato il suo lavoro, “ma in tanti anni non mi è mai, sottolineo mai, arrivata una sola denuncia da un vescovo o da un singolo prete”. E questo, ha soggiunto, “è un po’ strano”.

La Stampa 7.2.12
L’allarme del cardinale Levada
“In aumento gli abusi dei chierici sui minori”


«Nel corso dell’ultimo decennio sono arrivati all’attenzione della Congregazione per la Dottrina della Fede oltre 4.000 casi di abusi sessuali compiuti da ecclesiastici su minori». Lo ha rivelato ieri il cardinale Joseph William Levada, prefetto della Congregazione, aprendo il simposio internazionale sull’abuso sessuale riservato a vescovi e superiori religiosi. La Congregazione per la Dottrina della Fede, ha aggiunto, si è confrontata con «un drammatico aumento» del numero di casi di reato di abusi sessuali su minori da parte di chierici. In apertura dei lavori è arrivato anche il messaggio di Benedetto XVI, che ha voluto delineare le linee guida dell’atteggiamento della chiesa di Roma nei confronti della piaga e in difesa dei più piccoli. Cura delle vittime come «preoccupazione prioritaria», prevenzione, una nuova «cultura» anche per i leader della Chiesa, creazione di un ambiente «spirituale e umano» che tuteli «i bambini e gli adulti più vulnerabili»: queste le parole del Papa.

Corriere della Sera 7.2.12
Evitare che i Malati Diventino Assassini
di VIittorino Andreoli


La società chiede che i malati siano curati e non che divengano assassini, semplicemente perché malati. E soprattutto la società chiede che non si mettano in libertà persone pericolose che, uscite dal sistema penitenziario subito reiterino il reato e creino vittime. È un caso che ci interroga quello di Milano, ed è un dolore enorme vedere che la psichiatria, non curando adeguatamente, "produce" danno sociale. Ho passato molto del mio tempo nelle carceri e nei manicomi criminali e ora sogno finalmente di entrare, senza dovermi vergognare, in Istituti qualificati per fare della psichiatria scientifica, per applicare il sapere della indagine criminologica che significa sempre anche chiudere gli sproloqui vani dei cosiddetti psichiatri o criminologi da tribunale.
La legge che oggi si discute alla Camera dei deputati e che chiude i manicomi giudiziari si colloca in questo ambito. Sapere che dal 31marzo 2013 non risulteranno più dentro la storia della psichiatria italiana — sempre che i deputati la approvino come ha fatto già il Senato e senza modifiche — è una buona notizia per me psichiatra e per i 1.400 ospiti che vi sono rinchiusi. Perché questa è una legge che impedirà di riempire la cronaca di fallimenti psichiatrici.
Non vedo questo giorno come il prolungamento di quello del maggio del 1978 quando il Parlamento chiuse i manicomi " civili". Sapevo allora che la psichiatria può vivere senza manicomi , ma non senza predisporre delle misure alternative, più umane innanzitutto, ma soprattutto più efficienti e più rispondenti ai bisogni dei pazienti e alla sicurezza della società, e queste non vennero promulgate. Erano allora prevalse esigenze ideologiche, non la scienza.
La legge sulla chiusura dei Manicomi giudiziari non si limita a chiudere, ma ad aprire delle piccole strutture in ogni Regione con carattere non più custodialistico, ma curativo. Che si tratti di luogo di detenzione lo dimostra l'uso non solo della chiusura dei pazienti dentro un ambiente «carcerario», ma il fatto che molti ricoverati vengono «legati». Il passaggio dalla contenzione alla terapia è stato per molti anni il sogno di noi psichiatri e continuerà a esserlo finché questa «violenza terapeutica» non sarà totalmente cancellata.
Questa legge prevede dei luoghi regionali che stando al numero di degenti occuperanno mediamente 50-70 persone. Permettendo di sostituire le cinque strutture attuali per uomini e l'unica per le donne. Le strutture saranno curative e per esserlo devono giungere a una diagnosi e dunque utilizzare tutto il sapere medico e psichiatrico per farlo. Un risultato importante, se solo si pensa che adesso questi malati vengono «valutati» in tribunale, dove la psichiatria è addirittura vergognosa, poiché sovente mostra di adattarsi alle parti e non di attenersi ai criteri scientifici. Gli ospiti delle strutture che stanno per essere chiuse sono soggetti che hanno compiuto un reato punibile penalmente, ma per il quale nasce, nel corso del procedimento giudiziario, il dubbio che si tratti di malati di mente che, nella formula giuridica, significa «totalmente o parzialmente incapaci di intendere e/o di volere». Casi che se curati avrebbero evitato quel comportamento, e se curati adeguatamente potrebbero almeno non ripeterlo. E qui si pone la questione della pericolosità. Noi sappiamo che la malattia di mente non incorpora necessariamente la pericolosità sociale: questo principio è stato sancito dalla legge 180/1978 ed è un grande risultato, ma sarebbe un errore affermare che il disturbo mentale non è mai pericoloso. In certe malattie (poche) la pericolosità è un sintomo che dunque si lega al disturbo mentale, e sarebbe gravissimo dimenticarsene o volerlo negare ideologicamente. Pertanto la procedura penale deve considerare la pericolosità e deve poter inviare la persona sotto giudizio in un luogo in cui far valutare attentamente e scientificamente questa ipotesi. Come accade già nel mondo più avanzato, negli Stati Uniti per fare un esempio.

Corriere della Sera 7.2.12
La scuola inglese che insegna la sconfitta alle sue studentesse
di Silvia Vegetti Finzi


In un istituto femminile di alto livello di Wimbledon è stata presa una iniziativa paradossale: la «Settimana del fallimento». Il modello di riferimento mi sembra quello dell'allenamento sportivo che prevede di procedere per prove ed errori nella convinzione che anche il fallimento, se accettato ed elaborato, sia parte integrante del percorso verso il miglior risultato possibile, mai definitivamente raggiunto.
Spesso invece la difesa strenua della sicurezza, la paura di sbagliare, l'incapacità di accettare e valorizzare i propri errori bloccano l'esposizione al rischio rendendo i ragazzi conformisti e passivi. Per rompere questa inibizione, il seminario si concentra sull'acquisizione della fermezza, del coraggio e della resilienza, cioè sulla capacità di superare i traumi recuperando l'integrità precedente. Alla discussione parteciperanno i genitori e saranno proiettati video ove personaggi di successo racconteranno quanto hanno appreso dai loro errori.
Il «buon uso del fallimento» può essere un progetto valevole anche per noi? Penso di sì perché in una scuola sempre più competitiva (basta pensare alle selezioni per l'accesso ai migliori licei, oltre che all'università) i ragazzi sono sollecitati dalle famiglie e dagli insegnanti a rendere sempre al massimo, senza ammettere alcuna possibilità d'insufficienza e di errore.
Di solito questi sforzi danno ottimi risultati ma il loro raggiungimento può comportare un costo invisibile: l'accondiscendenza. Se lo studente si applica per compiacere gli educatori, se fa tutto quello che deve e non tutto quello che può, rinuncia a realizzare se stesso e ad esprimere interamente le sue potenzialità. Solo tentando di superare il livello raggiunto, affrontando l'azzardo e il pericolo di non farcela, i ragazzi possono conoscere le proprie capacità fisiche e psichiche e valutarle attraverso il confronto con se stessi e con gli altri. Le frustrazioni, se commisurate alla maturità dei ragazzi, aiutano ad approntare anticorpi contro la disperazione.
Pensare che il percorso evolutivo possa svolgersi per intero sotto il segno della felicità è una illusione pericolosa perché non esistono assicurazioni in proposito. Prima o poi viene il momento di fare delle scelte che comportano dei rischi ed evitarle può servire a sopravvivere, ma non a vivere.
Invece i nostri bambini crescono al tempo stesso iperprotetti dalle frustrazioni e ipersollecitati al successo: gli si chiede di eccellere nelle materie scolastiche, nelle attività sportive, nelle espressioni artistiche, nelle relazioni sociali confermando il figlio ideale a scapito di quello reale.
Ammettere che possa sbagliare richiede, con beneficio di tutti, che l'educatore rinunci alla perfezione, riconosca i propri limiti e, superando il desiderio di onnipotenza, affidi progressivamente ai giovani la responsabilità della loro vita.

La Stampa 7.2.12
Quei giudici europei che difendono i diritti dell’uomo
di Vladimiro Zagrebelsky


Questo testo è un estratto della Lecture che Vladimiro Zagrebelsky farà oggi, alle 17,30, nell’Aula Magna dell’Università di Torino (Via Verdi 8). L’appuntamento è organizzato dal CSF (www.csfederalismo.it), istituito nel 2000, con sede al Collegio Carlo Alberto che ha come fondatori la Compagnia di San Paolo e le Università di Torino, Pavia e Milano.

Rispetto alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e ai successivi Patti dei diritti civili e politici e dei diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, si caratterizza per il fatto che viene istituito un giudice di quei diritti e di quelle libertà.
E’ questa la grande novità, che per la prima volta si trova in uno strumento di diritto internazionale. I diritti dell’uomo avevano già trovato riconoscimento in Europa, ma solo a livello statale interno, con conseguente ruolo giocato dai giudici nazionali. Così era nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che essenzialmente rinviava alla legge la definizione dei diritti e le condizioni del loro esercizio. Ma mai si era ammesso che gli Stati rispondessero davanti ad un giudice esterno delle violazioni dei diritti fondamentali dei singoli. La natura di «controllo giurisdizionale esterno» è tuttora la caratteristica principale del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, che copre la vasta area dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa. Il sistema si fonda sull’istituzione di una Corte indipendente, capace di accertare le violazioni da parte degli Stati ed imporre loro di ripararle. Nel procedimento che si apre davanti alla Corte la persona ricorrente e lo Stato convenuto in giudizio sono parti processuali a pari titolo, con eguali diritti e doveri. La persona fa valere i diritti di cui è titolare e che non derivano dallo Stato, ma sono da questi «riconosciuti» (art. 1 Conv.).
Il fatto che la Corte europea assicuri un controllo «esterno» implica un certo numero di conseguenze profondamente innovative. Quel controllo innanzitutto rompe i confini degli Stati e la connessa pretesa della legge statale di fondare ed esaurire un proprio ordinamento giuridico particolare ed esclusivo. La singola persona diviene soggetto di diritto internazionale, che fa valere diritti propri nella controversia contro uno Stato. La Corte europea applica un diritto europeo, maneggiando e creando un diritto che non origina dall’opera di parlamenti e non trova in ciò la propria legittimazione. Si tratta di un diritto di origine largamente giurisprudenziale, la cui creazione (ri) dà spazio al ruolo del giudice giurista (in luogo di quello del giudice semplice esegeta della legge chiamato ad applicare). La giurisprudenza della Corte europea, legata com’è ai casi specifici che le vengono sottoposti (giurisprudenza casistica) mette sullo sfondo la regola generale e astratta (come pretende di essere la legge) rispetto all’esigenza di disciplina richiesta ed espressa dal caso concreto. La soluzione del caso non deriva tanto dall’applicazione di una regola generale ed astratta che lo precede, quanto, al contrario (per la persuasività della ratio decidendi e per la forza del precedente), contribuisce a creare la regola per fatti analoghi.
La definizione dei singoli diritti resta generale e vaga nella Convenzione. Non si tratta di un difetto redazionale. Si tratta invece di una scelta, che rimette al giudice la responsabilità di adattare la portata dei diritti e delle libertà fondamentali alle esigenze dei tempi e allo sviluppo delle correnti culturali e sociali espresse dalla società europea contemporanea. La Corte pratica un’interpretazione ed una applicazione della Convenzione, che essa stessa definisce dinamica e evolutiva secondo lo scopo della Convenzione che è quello di rendere concreta ed effettiva la protezione dei diritti e delle libertà dell’individuo.
Quando la Corte Costituzionale italiana, con due sentenze del 2007, ha affermato l’obbligo per il giudice, prima di eventualmente sollevare la questione di costituzionalità, di fare ogni sforzo possibile per interpretare le leggi nazionali in modo tale da renderle compatibili con la Convenzione europea «così come interpretata dalla Corte europea», ha necessariamente fatto rinvio sia al contenuto della giurisprudenza europea, sia al suo metodo casistico, teso alla protezione effettiva del diritto del singolo individuo. Esercizio certo non facile, ma necessario, non solo da parte del giudice (e della stessa Corte Costituzionale), ma anche da parte del legislatore chiamato a produrre leggi compatibili con la Convenzione nel loro contenuto e nella loro struttura.
I giudici che compongono la Corte sono indipendenti e partecipano ai lavori della Corte a titolo individuale, non di «rappresentanti» del Paese a titolo del quale sono stati eletti. Essi sono chiamati ad esprimersi liberamente. La loro origine ed esperienza nazionale contribuisce alla ricchezza, pluralismo e completezza del dibattito interno alla Corte, in vista di decisioni che riflettano o siano compatibili con la cultura europea e con i sistemi giuridici presenti in Europa. Ma non si può dire che i giudici portino nel dibattito interno alla Corte un «orientamento culturale prevalente» nel loro Paese di origine. In società pluralistiche come sono quella italiana e generalmente quelle europee, ciascuno si ritrova su posizioni (ed in compagnie) diverse, tema per tema, questione per questione. Cosicché piuttosto che ad una maggioranza o a una minoranza, questione per questione si appartiene contemporaneamente a diverse minoranze o maggioranze diversamente composte. Ciascun giudice della Corte esprime dunque la sua posizione, caso per caso, materia per materia, senza pretesa di parlare per un’intera società. E’ però l’apporto che i molti giudici danno alla discussione, che consente alla Corte, almeno nella sue intenzioni, di raggiungere conclusioni che riflettono le tendenze di fondo delle società europee.

La Stampa 7.2.12
Intesa tra Al Fatah e Hamas Palestinesi al voto a maggio
Abu Mazen guiderà un governo tecnico. Netanyahu: pace più lontana
di Aldo Baquis


TEL AVIV Nel tentativo di rimuovere un notevole ostacolo alla riconciliazione palestinese preannunciata al Cairo nel maggio 2011 Hamas ha ieri accettato la proposta del Qatar di affidare al presidente dell’Anp Abu Mazen (Al Fatah) anche la carica di premier. In questa nuova veste dovrà pilotare un governo di tecnocrati, sostenuto da tutte le forze politiche palestinesi, verso nuove elezioni presidenziali e politiche, da tenersi nei Territori a maggio.
L’annuncio della nuova intesa fra il leader di Hamas Khaled Meshal e Abu Mazen, siglato ieri a Doha (Qatar), è stato accolto molto positivamente in Cisgiordania e a Gaza. Il premier uscente dell’Anp Salam Fayad ha augurato ad Abu Mazen di riuscire presto a formare il nuovo governo. E anche il capo dell’esecutivo di Hamas a Gaza Ismail Haniyeh che si accinge a visitare Teheran ha assicurato che non metterà i bastoni fra le ruote.
Note negative sono giunte invece da Benyamin Netanyahu, secondo cui Abu Mazen non può al tempo stesso dirsi interessato a colloqui di pace con Israele e sottoscrivere una alleanza con Hamas: «Si tratta ha rilevato il premier di una organizzazione terroristica, votata alla distruzione di Israele». La pace con Israele e gli accordi con Hamas sono inconciliabili, ha stabilito Netanyahu; almeno fintanto che gli islamici non accettano le richieste del Quartetto fra cui il ripudio della violenza, il riconoscimento di Israele e il rispetto degli impegni assunti dall’Anp.
La costituzione di un nuovo gabinetto palestinese potrebbe tuttavia non essere ancora dietro l’angolo. Il governo di tecnocrati era già stato preannunciato nel maggio scorso, poi confermato a novembre: eppure è rimasto sulla carta, per una serie di contrasti interpalestinesi. Alla luce dei successi elettorali conseguiti dai Fratelli musulmani e da movimenti a loro vicini in diversi Paesi arabi, Hamas si sente sulla cresta dell’onda ed è meno incline che in passato a fare concessioni ad Abu Mazen.
Anche dopo l’incontro amichevole di Abu Mazen e Meshal in Qatar restano sul tavolo diverse questioni irrisolte. Fra queste: il tempo molto ristretto per la organizzazione di elezioni in zone geografiche (Cisgiordania e Gaza) che dal 2007 sono state gestite da entità politiche separate; e la spinosa riorganizzazione dell’Olp, richiesta da Hamas per farvi ingresso. Di non inferiore importanza il controllo dei rispettivi apparati di sicurezza. A Gaza Hamas ha messo a punto con l’aiuto di consiglieri militari stranieri una macchina da guerra ben addestrata e disciplinata capace di colpire con i suoi razzi la periferia di Tel Aviv. È dubbio che Abu Mazen possa ricevere da Hamas la supervisione di quelle forze.
Proprio ieri è tornato a Gaza, dopo un esilio di 22 anni, Imad el-Alami, un dirigente di Hamas che è stato a lungo delegato a Teheran e che adesso ha lasciato la ribollente Damasco per trasferirsi con la famiglia nella Striscia. Esponente dell’ala intransigente di Hamas e vicino al suo braccio armato, el-Alami ha subito ribadito la necessità di una lotta armata e senza quartiere contro Israele.

La Stampa 7.2.12
Francia, svolta di Hollande “L’eutanasia è un diritto”
Il candidato socialista all’Eliseo mette il fine vita nel programma
di Alberto Mattioli


Proporrò che ogni persona maggiorenne in fase avanzata o terminale di una malattia incurabile che provochi una sofferenza fisica o psicologica insopportabile e che non possa essere calmata, possa domandare, in condizioni precise e ristrette, di beneficiare di un’assistenza medica per terminare la sua vita con dignità». È una delle sessanta proposte del programma presidenziale di François Hollande, candidato socialista all’Eliseo e, stando ai sondaggi, grande favorito per diventarne l’inquilino. Ed è una nuova tappa verso la legalizzazione dell’eutanasia: «Per la prima volta dice a Le Monde il presidente dell’Associazione per il diritto a morire con dignità, Jean-Luc Romero -, la proposta è stata davvero ufficializzata da parte di un candidato alla Presidenza». Nel caso di vittoria di Hollande, e in quello che la proposta diventi legge, in materia di eutanasia la Francia passerebbe dall’attuale regime dell’«aiuto passivo» a quello dell’«aiuto attivo». La legge in vigore risale al 2005 e porta il nome di Jean Leonetti, cardiologo, sindaco di Antibes, deputato di destra ed esperto di questi temi per l’Ump, il partito di Nicolas Sarkozy, benché attualmente, per i soliti giri dell’oca politici, si occupi di tutt’altro come ministro per gli Affari europei. La legge Leonetti ha introdotto in Francia il principio del «lasciar morire»: si rifiuta l’accanimento terapeutico su un paziente senza speranza cui, dopo l’interruzione delle cure, ci si limita a somministrare dei sedativi. La proposta socialista introdurrebbe invece il principio dell’«aiuto attivo» sul malato, attraverso appunto un gesto del medico, come un’iniezione letale, che lo porti a spegnersi rapidamente e senza dolore. Pratica che è già stata legalizzata in Olanda, Belgio e Lussemburgo. Secondo i socialisti, la legge Leonetti è «ipocrita» e l’opinione pubblica «matura» per una svolta. In effetti, un recente sondaggio ha dato una risposta netta. Alla domanda se la legge debba autorizzare i medici a mettere fine senza sofferenze alla vita dei malati incurabili che l’abbiano chiesto, il 49% degli intervistati ha risposto «sì, assolutamente» e il 45 «sì, in certi casi». Totale: 94% di favorevoli, in crescita rispetto all’88 che, nel 2001, diede la stessa risposta alla stessa domanda. La proposta è interessante anche politicamente, perché porta nella campagna elettorale i temi etici, finora rimasti in ombra, anzi quasi ignorati, di fronte all’emergenza economica. Dieci anni fa, Lionel Jospin, ultimo premier socialista (in coabitazione con Jacques Chirac) e candidato battuto già al primo turno alle presidenziali, rifiutò di inserire l’eutanasia nel suo programma. Curiosamente, una delle vicende che hanno appassionato e diviso l’opinione pubblica è stata proprio quella di sua madre, Mireille, attivista dell’Associazione di monsieur Romero, e che finì per suicidarsi. Già nel 2009 i socialisti avevano proposto una legge all’Assemblée nationale, in seguito respinta. Il firmatario era Manuel Valls, poi candidato alle primarie contro Hollande e oggi suo portavoce. Però «si tratta di riconoscere un diritto, non d’imporre una pratica sfuma Marisol Touraine, responsabile delle questioni sociali nella squadra di Hollande -. Ciascuno, secondo le sue convinzioni, potrà avvalersene oppure no. Quelli che lo faranno saranno probabilmente estremamente minoritari». E bisognerà pure prevedere la possibilità dell’obiezione di coscienza per i medici, come succede per l’aborto. Anche per questo, la definizione concreta di modalità e limiti dell’eutanasia alla francese è rimandata a dopo le elezioni. Proporrò che ogni persona maggiorenne in fase avanzata o terminale di una malattia incurabile che provochi una sofferenza fisica o psicologica insopportabile e che non possa essere calmata, possa domandare, in condizioni precise e ristrette, di beneficiare di un’assistenza medica per terminare la sua vita con dignità».
È una delle sessanta proposte del programma presidenziale di François Hollande, candidato socialista all’Eliseo e, stando ai sondaggi, grande favorito per diventarne l’inquilino. Ed è una nuova tappa verso la legalizzazione dell’eutanasia: «Per la prima volta dice a Le Monde il presidente dell’Associazione per il diritto a morire con dignità, Jean-Luc Romero -, la proposta è stata davvero ufficializzata da parte di un candidato alla Presidenza».
Nel caso di vittoria di Hollande, e in quello che la proposta diventi legge, in materia di eutanasia la Francia passerebbe dall’attuale regime dell’«aiuto passivo» a quello dell’«aiuto attivo». La legge in vigore risale al 2005 e porta il nome di Jean Leonetti, cardiologo, sindaco di Antibes, deputato di destra ed esperto di questi temi per l’Ump, il partito di Nicolas Sarkozy, benché attualmente, per i soliti giri dell’oca politici, si occupi di tutt’altro come ministro per gli Affari europei. La legge Leonetti ha introdotto in Francia il principio del «lasciar morire»: si rifiuta l’accanimento terapeutico su un paziente senza speranza cui, dopo l’interruzione delle cure, ci si limita a somministrare dei sedativi. La proposta socialista introdurrebbe invece il principio dell’«aiuto attivo» sul malato, attraverso appunto un gesto del medico, come un’iniezione letale, che lo porti a spegnersi rapidamente e senza dolore. Pratica che è già stata legalizzata in Olanda, Belgio e Lussemburgo.
Secondo i socialisti, la legge Leonetti è «ipocrita» e l’opinione pubblica «matura» per una svolta. In effetti, un recente sondaggio ha dato una risposta netta. Alla domanda se la legge debba autorizzare i medici a mettere fine senza sofferenze alla vita dei malati incurabili che l’abbiano chiesto, il 49% degli intervistati ha risposto «sì, assolutamente» e il 45 «sì, in certi casi». Totale: 94% di favorevoli, in crescita rispetto all’88 che, nel 2001, diede la stessa risposta alla stessa domanda.
La proposta è interessante anche politicamente, perché porta nella campagna elettorale i temi etici, finora rimasti in ombra, anzi quasi ignorati, di fronte all’emergenza economica. Dieci anni fa, Lionel Jospin, ultimo premier socialista (in coabitazione con Jacques Chirac) e candidato battuto già al primo turno alle presidenziali, rifiutò di inserire l’eutanasia nel suo programma. Curiosamente, una delle vicende che hanno appassionato e diviso l’opinione pubblica è stata proprio quella di sua madre, Mireille, attivista dell’Associazione di monsieur Romero, e che finì per suicidarsi. Già nel 2009 i socialisti avevano proposto una legge all’Assemblée nationale, in seguito respinta. Il firmatario era Manuel Valls, poi candidato alle primarie contro Hollande e oggi suo portavoce.
Però «si tratta di riconoscere un diritto, non d’imporre una pratica sfuma Marisol Touraine, responsabile delle questioni sociali nella squadra di Hollande -. Ciascuno, secondo le sue convinzioni, potrà avvalersene oppure no. Quelli che lo faranno saranno probabilmente estremamente minoritari». E bisognerà pure prevedere la possibilità dell’obiezione di coscienza per i medici, come succede per l’aborto. Anche per questo, la definizione concreta di modalità e limiti dell’eutanasia alla francese è rimandata a dopo le elezioni.

l’Unità 7.2.11
Dickens, maestro di verità sociali, parola di Marx
Per l’autore del «Manifesto» ha fatto più denuncia politica dei politici di professione. A 200 anni dalla nascita il romanziere inglese influenza lo sguardo che abbiamo ancora oggi sul lavoro, la finanza, la povertà
di Enrico Palandri


Di Charles Dickens, di cui ricorrono oggi i duecento anni dalla nascita, Karl Marx scrive in un articolo apparso sul New York Tribune il primo agosto del 1854 che è un autore le cui... pagine eloquenti e icastiche hanno donato al mondo più verità politiche e sociali di quelle pronunciate da professionisti della politica, pubblicisti e moralisti messi insieme, descrivono ogni tratto della borghesia, dai detentori di capitale e beneficiari di rendite che guardano dall'alto ogni altro commercio come volgare, ai negozianti e gli avvocati.
La straordinaria influenza della società colta da Dickens ci ha costruiti e rimane lo sguardo che abbiamo ancora oggi sul lavoro, la finanza, la povertà. Di questo mondo ebbe esperienza diretta e lo racconta con uno schema pressoché costante in tutta la sua opera: rigida divisione in classi sociali e potenza del denaro, che istituisce e abolisce barriere in contrasto con l'umanità dei personaggi.
Denaro, ed è questa la grande innovazione, che è quindi del tutto indipendente dal merito e dal lavoro e al contrario è volatile, finanziario, appare e scompare improvvisamente attraverso eredità o eredità mancate, si moltiplica o crolla per accumuli e investimenti in borsa. Denaro che scorre insieme al sangue per le strade di Londra, la vera protagonista dei suoi romanzi, la cui natura completamente umana è data proprio dalla sua variegatissima popolazione.
Di queste fortune Dickens ebbe esperienza diretta: suo padre era stato rinchiuso nella famosa Marshalsea per debiti quando Charles Dickens aveva dodici anni, e altrettanto miracolosamente ne era uscito ereditando 450 sterline dalla nonna paterna (come Dickens racconterà nel personaggio William Dorrit).
FORTUNA AL CINEMA E IN TV
Dickens provò in quel periodo il destino del suo personaggio Oliver Twist, lavorando in una fabbrica piena di ratti per dieci ore al giorno, e in seguitò o per esperienza diretta o nelle sue inchieste giornalistiche, conobbe da vicino le diversissime condizioni sociali che ritrae nei suoi libri.
Quel mondo è ancora vivissimo nel nostro modo di pensare il mondo: dai suoi dodici romanzi principali e soprattutto da A Christmas Carol sono stati tratti 180 adattamenti cinematografici o televisivi, per non parlare della fortuna di Scrooge, che è l'archetipo di una miriade di personaggi fino allo Zio Paperone di Disney, che nell' originale inglese porta infatti il suo nome.
Negli ultimi anni la Bbc ha rinvigorito l'industria che ripropone queste storie al grande pubblico. Little Dorrit, Nicholas Nickleby o Bleak House sono tutte diventate fortunatissime serie televisive.
LA COMICITÀ
Recitate e messe in scena di solito molto bene, queste storie non catturano purtroppo i tratti letterari più preziosi e specifici di Dickens. Innanzitutto la comicità. Persino nelle vicende più tragiche o patetiche Dickens intrattiene con i suoi lettori una complicità fondata soprattutto sul sorriso. Con i nomi parlanti dei personaggi, ma soprattutto con l'osservazione parodica delle aspirazioni alla promozione sociale che costituiranno un modelo per tutti i romanzieri fino a Mme. Verdurin di Proust e oltre.
Ma è soprattutto la straordinaria prosa inglese di questo autore a rimanere impressa nei lettori: la capacità di impostare un tono che pur restando sempre concreto trascende la scena con una profonda simpatia umana degna della Ginestra di Leopardi, come nell'incipit di Our mutual friend, dove vengono descritti un padre e una figlia che vanno in barca lungo il Tamigi, di notte, per ripescare i cadaveri di assassinati gettati nel fiume per tentare di recuperare qualcosa: un orologio, qualche moneta.
Sono personaggi che non resteranno al centro del racconto, ma che danno la misura di come l'arte del romanzo, emancipandosi dalla poesia e dalla memorialistica, mescolandosi con i materiali corrivi del giornalismo o della cronaca giudiziaria, iniziasse allora a inventare un proprio ambito estetico, facendo di noi stessi il teatro in cui la parola letta silenziosamente ma nella social catena di una nuova readership avida di emancipazione, risuona più netta e limpida che nella recitazione di un grande attore.
Anche solo per questo, buon compleanno Charles Dickens!

La Stampa 7.2.12
Dickens in Italia sull’orlo del vulcano
Il grande scrittore inglese nasceva duecento anni fa Nei suoi reportage le contraddizioni del nostro Paese
di Richard Newbury


Festa a Portsmouth e omaggio su Radio3 La Gran Bretagna festeggia oggi il bicentenario della nascita di Charles Dickens, uno dei più grandi scrittori della letteratura inglese i cui romanzi sono diventati classici intramontabili. Sono previste celebrazioni in tutto il paese, da Londra a Portsmouth, dove Dickens nacque il 7 febbraio 1812 (morì a Gad’s Hill l’8 giugno 1870). Anche l’Italia rende omaggio allo scrittore: oggi su RadioTre Rai alcune pagine dei suoi libri, lette dall’attore Massimo Lello, accompagneranno tutti i programmi della giornata. E nel pomeriggio gli sarà dedicato uno speciale Fahrenheit condotto

Una strana, triste creatura, che era sempre in movimento ma non era mai certa se alla ricerca di qualcosa o in fuga da esso»; così Robert Douglas Fairhurst descrive l'autore nella sua nuova biografia Becoming Dickens (Diventare Dickens).
Dickens era un giornalista che diventò romanziere. Il circolo Pickwick descrive i luoghi che aveva visitato in qualità di giovane giornalista. Il mondo di Dickens era anche un luogo di cambiamenti, dalla diligenza al vagone ferroviario, dalla vela al vapore. Nel 1843 attraversò l'Atlantico su una nave a vapore diretto verso «La Repubblica della mia immaginazione libera da monarchia, aristocrazia e logore convenzioni, solo per essere deluso da questa Nazione volgare, grossolana e meschina», «guidata da un branco di mascalzoni».
Se c'era una cause célèbre per l'élite liberale inglese di ritorno nel Vecchio Mondo questa era l'Italia. Gli esuli italiani, non ultimo «il divino» Mazzini, erano molti e influenti. Dickens era profondamente coinvolto nelle scuole per gli inglesi poveri e appoggiò fortemente nel 1841 la scuola fondata all'Hatton Garden di Londra da Mazzini per i bambini italiani vittime della tratta, dove ambientò la casa di Fagin in Oliver Twist .
Nella decisione di recarsi in Italia per 2 anni nel 1844-5 c’è un misto dickensiano di giornalismo investigativo sullo «stato della nazione [italiana]», e aspirazioni sociali di un nuovo ricco ora in grado di vivere a Londra in un palazzo piuttosto che in una casa. È la sua prima vacanza dall’età di 12 anni, «prima non ho mai saputo cosa significasse essere pigri». Sarebbe stato così aspro con i suoi ospiti italiani come lo era stato con gli americani?
A luglio Genova appariva bella dalla nave, ma da vicino «dev'essere la regina tra tutte le città dimenticate da Dio, ammuffite, tristi, sonnolente, sporche, pigre, malmesse. Sembrava di essere arrivati alla fine di tutto». Tuttavia, proprio come gli esuli italiani nella nebbiosa Londra, ben presto si sistemò, soprattutto dopo aver scambiato il suo «carcere rosa» ad Albaro per Palazzo Peschiere, nel cuore di Genova, aver preso un palco all'opera ed essersi fatto degli amici.
Un breve viaggio a Londra con il suo nuovo libro Le campane inizia con un tour pickwickiano in diligenza di Piacenza, Parma, Modena, Bologna e Ferrara. «Che strano dormiveglia, mezzo triste e mezzo delizioso, è il passaggio attraverso questi luoghi addormentati che si crogiolano al sole! Ognuno, di volta in volta, appare il luogo del mondo più ammuffito, triste, dimenticato da Dio! » È colpito, però, mentre prosegue, dalle «piacevoli» Verona, Mantova e Milano, fino al Sempione.
Nel gennaio 1845 porta la moglie a Roma «degradata e decaduta, che giace addormentata sotto il sole tra un cumulo di rovine» via Pisa e Siena. «Non c'è niente di più bello al mondo della strada costiera tra Genova e La Spezia». Della Torre di Pisa: «Come la maggior parte delle cose collegate nelle loro prime associazioni con i libri di scuola, è troppo piccola. L’ho sentito profondamente».
È il Dickens giornalista e attivista contro la pena capitale a raccontare, senza commenti, nei minimi dettagli, di un assassino ghigliottinato: nella morte, ha notato, i bianchi bulbi oculari del condannato erano ancora rivolti verso l'alto per evitare di dover guardare nel cesto sporco. A Napoli nelle prime fasi di un'eruzione sul Vesuvio Dickens e la sua famiglia arrivano quasi al «vedi Napoli e poi muori» perché l’intrepido, se pur gotico, giornalista insiste a voler guardare oltre il bordo del cratere. Torna con gli abiti in fiamme, ma due delle sue guide scompaiono per sempre nella discesa sul ghiaccio. Dickens lasciò l’Italia attraverso il San Gottardo via Firenze. «Qui sopravvive la parte imperitura della mente umana... quando la tirannia dei molti, o dei pochi, o di entrambi, non è che un racconto, quando Orgoglio e Potere sono caduti insieme nella polvere».
«Lasciate che ci congediamo dall' Italia, con tutte le sue miserie e le ingiustizie, affettuosamente, con la nostra ammirazione per le bellezze, naturali e artificiali, di cui è piena fino a traboccare, e con la nostra tenerezza verso un popolo, naturalmente ben disposto, paziente e di temperamento mite. Anni di abbandono, oppressione e malgoverno hanno operato per cambiare la sua natura e fiaccare il suo spirito; gelosie miserabili... sono state il cancro alla radice della nazionalità... ma il bene che era in esso c'è ancora, e un popolo nobile può, un giorno, risorgere dalle ceneri. Coltiviamo la speranza», conclude Dickens in Impressioni d'Italia .

Corriere della Sera 7.2.12
Quei dubbi dei poeti che fanno chiarezza
Il gusto ( e la sorpresa) della parola semplice nell’epoca delle parole inutili
di Paolo Di Stefano


Diversamente da quel che si pensa oggi, c'è moltissimo da imparare dai poeti. Lo ha dimostrato domenica sera Roberto Saviano, a «Che tempo che fa», leggendo e commentando i versi di Wislawa Szymborska, la poetessa polacca morta pochi giorni fa, maestra di disarmante semplicità. È lecito muovere obiezioni critiche a Fabio Fazio e alla sua conduzione, ma se porta la migliore poesia in prima serata non si può che essergliene grati. Lo stesso sentimento di gratitudine si prova per l'editore Donzelli, che pubblica una raccolta di conversazioni con i grandi poeti italiani in un'epoca in cui conviene pubblicare altro (basta guardare le classifiche). Il libro si intitola La promessa della notte e le interviste sono di Renato Minore, giornalista culturale e critico letterario di lungo corso al Messaggero. Non so quante copie riuscirà a vendere di questo gioiello editoriale, ma ai pochi (o tanti) che lo leggeranno il piacere è assicurato.
Non solo: se ne ricava anche il gusto (la sorpresa) di una parola semplice, intensa e necessaria in un'epoca in cui le parole che si dicono e si scrivono sono per lo più ripetitive, inutili e autocelebrative. A proposito della profondità della parola, Giorgio Caproni afferma che il poeta è come un minatore che immergendosi in sé può «trovare una zona dell'io che è di tutti, che era in tutti, soltanto che negli altri dormiva». Non è l'io il fine ultimo dei poeti. Anzi, Amelia Rosselli dice di aspirare all'«eliminazione dell'io»: «Credo che solo così si raggiungano risposte poetiche e morali valide, valori utili anche alla società».
Il titolo del libro proviene da una frase di Andrea Zanzotto che contesta così il nichilismo di chi ritiene che la storia sia senza capo né coda: «C'è promessa nella notte. La vita tende a darsi una giustificazione, non a togliersela. Quando se la toglie, non è più vita…». La sorpresa è anche nel constatare la frequenza delle formule dubitative sulla bocca di persone che hanno molto riflettuto sulla vita, sulla morte, sul destino dell'umanità: «Può essere il vedere doppio degli ubriachi», dice di sé lo stesso Zanzotto. E Mario Luzi sembra ancora più cauto quando ammette di vedere molte mostruosità nel presente: «La storia non è mai un rapporto soddisfacente tra causa ed effetto. C'è qualcosa che a noi sfugge. Io invidio coloro che possono trovare giustificazioni nelle premesse degli eventi e, poi, ne vedono anche coerentemente le conseguenze. Non posso far rientrare tutto in un conto». E poi ci sono inquietudini molto umane: Attilio Bertolucci, per esempio, confessa la sua agitazione di padre e dice di non sopportare l'idea che i suoi figli, per quanto adulti, siano troppo lontani. Con i suoi figli bambini, ricorda, ha avuto lo stesso rapporto che ha avuto con i suoi scolari, e lo dice con illuminante semplicità: «Ho cercato di farli partecipare a tutte le cose che conoscevo». La semplicità, l'essenzialità, sostiene Giovanni Raboni, è forse «un bisogno dell'età, un avvicinarsi alla vecchiaia».

La Stampa 7.2.12
Italiani retrocessi in eros “Poco sesso, troppo stress”
Le cause: vita frenetica e calo del desiderio. Ma riscoprire la seduzione si può
di Roselina Salemi


LENTO DECLINO Dai fasti del 2007, siamo scesi al 3˚posto, superati da spagnoli e brasiliani
BOOM DI ADRENALINA Si dorme poco e si lavora molto. Non c’è più tempo per noi. E la libido crolla
3 relazioni. La vita sessuale degli italiani è fatta di poche relazioni importanti: l’80% non ne ha avute più di tre
71 per cento. È la percentuale di italiani che dichiara di fare l’amore per avere dei figli
L’amore al tempo della crisi"
8,8 al mese. I maschi francesi fanno l’amore più di noi (8,8 volte al mese contro 7,6) ma solo perché oltralpe si convive di più
LA MEDICINA GIUSTA Sarebbero i sentimenti: cancellano i pensieri e «accendono» il cervello
NUOVI STIMOLI Nell’insoddisfazione globale impazzano i sex toys e i siti per le mogli scontente

MILANO Gli italiani non sono più gli amanti migliori del mondo: declassati dal primo al terzo posto. Almeno secondo un sondaggio fatto tra le impiegate di Standard&Poor’s». La battuta è di Dario Vergassola, ma non c’è da stare allegri. Persa la tripla A nel campo finanziario, va maluccio anche in camera da letto. Secondo www.OnePoll.com che ha intervistato quindicimila donne di 20 nazionalità, al primo posto ci sono gli spagnoli, al secondo i brasiliani e gli italiani soltanto terzi, seguiti dai francesi. Ma anche altre ricerche, di case farmaceutiche e associazioni di andrologi, vanno in questa direzione. Potremmo contestare i risultati dei sondaggi come contestiamo le agenzie di rating, ma dai trionfi del 2007 c’è stata una lenta, inesorabile discesa che ha visto apparire nelle varie classifiche addirittura gli austriaci e gli ungheresi, mentre, per quanto privi di pezze d’appoggio, i maschi francesi si dichiarano sempre «i migliori». Ah, la grandeur!
L’amore al tempo della crisi è altalenante, un po’ neghiamo l’evidenza e un po’ corriamo ai ripari. Abbiamo qualcosa da imparare? Sembra di sì, visto l’interesse per reality come «Sex Education Show» e l’attesa ansiosa del nuovo film di Fausto Brizzi, «Quant’è bello far l’amore», che potrebbe contenere informazioni cruciali per vivacizzare la vita di coppia, ottenute da una caritatevole star del cinema porno.
Ma come siamo arrivati a questo punto? Tutto nasce, sostiene Alessandra Graziottin, ginecologa e sessuologa, dalla crisi del desiderio femminile, cominciata molto prima di quella dell’euro. «Le donne sono in una condizione di costante stress, dormono meno di quanto dovrebbero, sei ore e mezza anziché otto, producono cortisolo e adrenalina a tutto spiano, perciò sono più aggressive e irritabili. La mancanza di sonno sollecita la voglia di grassi e zuccheri, e questo abbassa la libido. Poi ci sono i bambini, il lavoro, le preoccupazioni. È una situazione di allerta senza interruzioni. Per il sesso di qualità ci vuole tempo, e il tempo non c’è mai. Fare l’amore è diventato come timbrare il cartellino, o come lavarsi i denti, qualche volta anche meno piacevole. All’impoverimento economico si è accompagnato un impoverimento sentimentale. Nessuno è il più grande amante in queste condizioni».
Eppure, l’eros potrebbe essere la soluzione alla crisi, dice, provocatorio, Raffaelle Morelli, fondatore dell’Istituto Riza di Medicina Psicosomatica, autore di un saggio, «Dimagrire senzadieta», da settimane in classifica. «L’amore spiega sarebbe la risposta giusta perché spezza gli schemi, ci porta nel luogo senza tempo del piacere cancellando le preoccupazioni e stimolando il cervello. Ma siccome siamo in crisi, ci attacchiamo al presente, al qui e ora, non riusciamo ad abbandonarci. La razionalità e importante, però il mondo del desiderio non deve essere governato. L’educazione sessuale a scuola toglie mistero e spontaneità. A sedici anni bisogna incontrare il demone dell’amore ed esserne sorpresi. Tutto questo regolare e controllare, forse ci rassicura, ma non ci rende migliori, né più bravi, né più desiderabili».
L’insoddisfazione è come la nebbia negli stereotipi sul Nord: si taglia con il coltello. Se ci sono così tante offerte di distrazioni (anche pericolose), sex toys a prima vista incomprensibili e siti dedicati alle mogli scontente (del quasi milione di iscritti al sito di incontri extraconiugali Gleeden.com, il 45 per cento sono donne) vuol dire che dare la sveglia al desiderio è diventato difficile. Bisognerebbe, come consiglia lo psichiatra Willy Pasini, riscoprire il valore della seduzione. Ricordare l’invito di Alessandra Di Pietro, nel suo libretto: «Godete! » (edizioni ADD). Quanto godiamo in un’intera vita? Sedici ore. Quanto tempo passiamo nel traffico? Almeno sei mesi. Di sicuro, vale la pena di invertire le proporzioni. E riconquistare il primato europeo, e al diavolo lo spread.

Corriere della Sera 7.2.12
A sinistra solo i radicali attaccavano il Cremlino
Abbagli e reticenze degli intellettuali progressisti
di Paolo Mieli


M irella Serri è entrata in possesso dei rapporti di polizia su intellettuali di sinistra, Pci e Psi in questo dopoguerra. Ne ha tratto un libro, Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980), che la Longanesi si accinge a pubblicare, dal quale viene fuori un gustoso ritratto di due ingenuità, quella degli osservatori e quella degli osservati. Ingenuità che fanno quasi da contrappunto alla drammaticità di quei cupi anni di guerra fredda. Il libro — che va inquadrato nel contesto descritto da due importanti saggi editi di recente: La guerra fredda. Cinquant'anni di paura e di speranza di John Lewis Gaddis (Mondadori) e Gli intellettuali e la Cia. La strategia della guerra fredda culturale di Frances Stonor Saunders (Fazi) — si apre con la storia di una mostra, «L'arte contro la barbarie», organizzata dal poeta Mario Socrate e dal pittore Mario Penelope per protestare, nel gennaio del 1951 (ai tempi della guerra di Corea) contro la visita in Italia del generale — e futuro presidente Usa — Ike Eisenhower. Gli informatori descrivono i quadri di Renato Guttuso, Marino Mazzacurati, Domenico Purificato e altri come se si trattasse di ordigni esplosivi. La mostra, a cui si imputa «una perfida e criminosa finalità», viene chiusa e trasferita nella sede del Pci in via delle Botteghe Oscure. Il che, per gli osservatori, è la riprova del carattere eversivo di quell'esposizione di quadri.
Nel 1952 i fulmini della polizia si abbattono su un'altra mostra, organizzata in Umbria da Ernesto Treccani per rappresentare la durezza del lavoro nei campi. I carabinieri fanno irruzione in una casa colonica di Città della Pieve, dove colgono Treccani in flagrante reato, «con il pennello in mano». C'è poi un'operazione a Rimini per stroncare forme di «propaganda comunista a mezzo di caramelle» («dette caramelle sono avvolte in una carta riproducente la bandiera dell'Urss»). A Lucera viene sequestrato un pericoloso carico «contenente la lama del lavoratore» avvolta da carta con una bandiera rossa, falce e martello e la dicitura «che trionferà». Si segnalano con grande allarme l'attore Carlo Croccolo, e i cantanti («reduci da Sanremo») Nilla Pizzi, Oscar Carboni e Alberto Rabagliati a un festival dell'«Avanti!». E ci si interroga sui motivi di questa presenza. Pagine sono dedicate a Vittorio Gassman, «un giovane estremamente intelligente, ma dal temperamento sensibile e irrequieto», che, influenzato da Luchino Visconti, «si sta avvicinando ai comunisti». Stessa attenzione nei confronti di Vittorio De Sica: il suo film Stazione Termini, si sottolinea, è stato prodotto «contro il volere dell'onorevole Andreotti», il che lo getterebbe tra le braccia di Palmiro Togliatti. Del regista Alfredo Zennaro è agli atti che «si sarebbe recato in un paese del Cominform, vuolsi la Cecoslovacchia, per girarvi un film a sfondo comunista»; ma anche che è separato dalla moglie, «una mulatta nativa di Mogadiscio che a sua volta convive con un noto giornalista»; al momento — si legge nelle carte di polizia — Zennaro è legato «a un'attrice di varietà comunista la quale ha madre e sorella anch'esse di sentimenti comunisti».
Sotto particolare osservazione è l'associazione Italia-Urss (nata nel gennaio del 1945). Fino alla conclusione degli anni Cinquanta, Italia-Urss è considerata, non a torto, una burocratica emanazione «del regime comunista moscovita, di cui diffonde ogni genere di propaganda». Il 28 maggio 1953 i carabinieri fanno irruzione in una casa privata di Poggio Mirteto (di più: viene poi sottoposto «a rigoroso controllo tutto il centro abitato e la periferia» della cittadina) dove è stato portato un proiettore con delle «filmine», vale a dire «materiale propagandistico a corto metraggio». Di che si tratta? Film o fotogrammi tratti dalle seguenti pellicole: Mamme e bimbi in Unione Sovietica, Il deputato del Baltico, Si conobbero a Mosca (sull'amore ai tempi del comunismo), La grande svolta (sulla battaglia di Stalingrado), Il figlio del reggimento (sulla guerra contro l'invasione nazista), Il grande fiume russo Volga, Il palazzo dei pionieri di Tbilisi, Attraverso l'Unione Sovietica, Il terzo colpo (sulla liberazione di Sebastopoli). «È stato ripetutamente segnalato», sta scritto in un'informativa, «che a volte vengono presentate, nel corso di riunioni promosse dai circoli del cinema, pellicole sprovviste di nulla osta di revisione cinematografica». Di qui la disposizione: «Ove le proiezioni effettuate venissero a perdere, nel corso di una manifestazione, il carattere strettamente privato per concretarsi in vere e proprie pubbliche rappresentazioni, in tal caso deve essere rigorosamente applicata la condizione del preventivo nulla osta di proiezione in pubblico». Altrimenti… A Trieste due marinai vengono acciuffati mentre, appena sbarcati con quattro bobine di uno dei film di cui sopra, «si dirigono verso la sede di Italia-Urss». Proiezioni di «filmine» di propaganda provenienti dall'Urss si segnalano a Vittoria, Barletta, Padova, Reggio Emilia, Sassoferrato, Ancona e provincia (dove tali documentari vengono portati «all'interno di abitazioni di indigenti simpatizzanti del Pci») Siena, Cori, Gravina di Puglia, Bari, Torino e, ovviamente, Roma.
Ma oltre all'allarme per le «filmine» proibite, c'è quello per gli intellettuali che offrono pubbliche descrizioni dei successi dei regimi comunisti o resoconti mirabolanti di loro soggiorni in Unione Sovietica. La Serri nota come in questo esercizio si distinguano uomini e donne di cultura che precedentemente erano stati ammiratori di Mussolini, ad esempio Sibilla Aleramo e Leonida Repaci. Ma anche altri. Il 4 febbraio del 1951, al cinema Adriano di Roma, Emilio Lussu racconta di quando, tornando da Mosca, si è fermato in un negozio di giocattoli per acquistare «un fuciletto o un carro armato» da portare in dono al figlio. Il negoziante lo ha gelato così: «Ai bambini sovietici sono sconosciuti i giocattoli che riproducono ordigni di guerra». Lussu considera quelle parole del giocattolaio come una prova definitiva del pacifismo sovietico. Carlo Salinari riferisce di aver visto con i suoi occhi che «in Russia i lavoratori, a differenza di quelli italiani, operano in un ambiente di assoluta serenità e di grande conforto, il che li sprona a dare il massimo contributo per le realizzazioni industriali». E giura di aver altresì constatato che lì «si può persino criticare l'impostazione del lavoro, esprimere dubbi, perplessità». Antonio Banfi racconta che al termine di una conferenza due ragazzi sovietici gli hanno detto: «Noi siamo tanto felici e dite ai giovani italiani che auguriamo loro di essere felici come noi». «Questi giovani», prosegue Banfi, «leggono e commentano i nostri classici, quelli che la politica clericale vuol far sparire dalla nostra cultura». Se ne poteva concludere — sempre per Banfi — che la «patria naturale» di Giordano Bruno e di Giuseppe Verdi era Mosca. Lucio Luzzatto sostiene che in Urss la ricostruzione postbellica è stata «perfetta» («fino all'ultimo vetro rotto») e l'ex partigiana Ada Alessandrini afferma che nella patria del socialismo è stata «raggiunta la parità tra i sessi». Michele Giua si dice persuaso che «i principi fondamentali della scienza moderna prima che da Lavoisier sono stati anticipati da scienziati russi e persino il fondatore della fisica atomica è russo». Anche l'italianista Francesco Flora si dice ammirato «dalla ricchezza delle librerie e delle biblioteche dove ho visto leggere autori italiani, fra cui Dante, Petrarca, Leonardo, Giordano Bruno, Tasso» e definisce il proprio viaggio in Unione Sovietica «l'evento più importante della mia vita». Italo Calvino, reduce da Mosca, offre la prova del suo essersi trovato nel regno dell'uguaglianza: lì, a veder camminare la gente per strada, ha capito immediatamente la diversità da ciò che aveva percepito «nel centro di Milano, di Vienna o di Parigi»; «non siamo nella "via dei ricchi" né nella "via dei poveri", non si può fare i conti in tasca alla gente vedendola passare».
A sinistra il mito dell'Urss staliniana varca anche i confini del Pci. Ancora nel 1952 a Torino in un'assemblea operaia, registrano gli informatori, il socialista Oreste Lizzadri e il comunista Luciano Lama tessono le lodi dell'operaio Stakhanov, che in sei ore ha estratto 102 tonnellate di carbone, pari a 14 volte la quota prevista, e viene fatto salire sul palco l'emulo italiano dell'eroe del lavoro russo: è l'operaio Buzzacchione, che si è distinto in Urss e ha per questo ricevuto in dono un'automobile e un viaggio premio lungo le rive del Volga da Gorkij ad Astrakan. E se qualcuno osa insinuare dei dubbi … Alla fine degli anni Cinquanta, cinque scrittori sovietici, in un dibattito a Roma, ricevono domande che reputano sconvenienti. Il 1° febbraio 1959, nel corso di una riunione di Italia-Urss (a seguito della entusiastica relazione introduttiva di Ranuccio Bianchi Bandinelli) Aida Abbatesciani, dopo essersi dichiarata «accesa comunista», attacca il segretario uscente di Italia-Urss Salvatore Maccarone per non essersi opposto a che fossero formulate le domande «disgustose» di cui sopra, che avevano «umiliato» gli scrittori. Raffaello Ramat toglie la parola a un reduce della campagna di Russia che si era azzardato a chiedere chiarimenti sul destino dei dispersi. Ma c'è anche qualcuno che dà prova di un qualche coraggio (per l'epoca): come Carlo Muscetta, che si azzarda a proporre un'edizione russa del Dottor Zivago o Carla Voltolina, la moglie di Sandro Pertini, che gli dà man forte. Mara Muscetta (figlia di Carlo) afferma che il cinema sovietico «è ancora sottoposto a un rigoroso controllo poliziesco». Lucio Lombardo Radice — ma siamo in anni successivi — accusa i Paesi socialisti di non tollerare libertà di culto e di pensiero (affermazioni che vengono accolte da un «boato di disapprovazione»). Sono pochi però. Calcola Mirella Serri che i disobbedienti «si contino sulle dita di una mano». Infinitamente di più quelli che si adattano. Alberto Moravia, secondo le informative di polizia, in più di un dibattito «s'è completamente allineato, sulla questione del realismo socialista, al punto di vista dei comunisti».
In seguito, sotto la guida, dal 1961, dello storico Paolo Alatri, l'associazione cambierà. Ma non molto. Assieme a comunisti ultra ortodossi come Ambrogio Donini e Paolo Robotti, vengono coinvolti Riccardo Lombardi, Giulio Einaudi, Luigi Russo, Cesare Musatti, Vito Laterza, Walter Pedullà, Claudio Abbado, Franco Ferrarotti, padre Ernesto Balducci, Tristano Codignola, la teologa Adriana Zarri, esponenti dc come Fiorentino Sullo, Luigi Granelli e il futuro ministro di Berlusconi Giuseppe Pisanu. Perché è stato scelto Alatri? Qualche tempo prima, a ridosso della crisi che aveva colpito il Pci dopo l'approvazione togliattiana dell'intervento armato dei sovietici per reprimere la rivoluzione ungherese del 1956, Alatri aveva tenuto a Firenze una conferenza sullo squadrismo che, a detta degli informatori, aveva registrato un grande successo «nel settore della media borghesia, tra gli studenti, gli insegnanti e gli intellettuali, anche per l'abile mimetizzazione dell'iniziativa che tende, in realtà, a divulgare il pensiero e la dottrina marxista». Qui Mirella Serri mette in evidenza come l'estensore della nota aggiunga parole assai interessanti: «Tale attività è facilitata dall'assoluta mancanza di iniziative di natura culturale da parte dei partiti democratici». È così che era stato portato ai vertici, prima napoletani poi nazionali, dell'associazione Eduardo De Filippo, che fino a quel momento «nonostante i non pochi tentativi di accostamento, non aveva mai preso posizione, nemmeno in modo indiretto, a favore dell'ideologia marxista». Secondo un informatore, «la partecipazione del De Filippo deve essere frutto di un deplorevole opportunismo e, forse, di dispetto verso gli organi governativi e gli ambienti ufficiali dello spettacolo». Gli erano appena stati bocciati due progetti cinematografici; Italia-Urss lo risarcisce organizzando una trionfale tournée di Filumena Marturano a Mosca.
Negli anni Sessanta l'associazione promuove una grande campagna per l'insegnamento della lingua russa nelle scuole italiane. Il preside della facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Bari, Mario Sansone, si dice certo che tale insegnamento sia «particolarmente utile» alla sua città. Il direttore della Biblioteca nazionale di Palermo, Giovanni Simionato, sostiene l'iniziativa definendola «necessaria per sviluppare il nostro arretrato Mezzogiorno». Lo storico Luigi Bulferetti afferma che l'insegnamento del russo dovrebbe soppiantare quello dell'inglese, in quanto di «migliore applicazione pratica». Si dicono d'accordo con questa teoria Alberto Carocci, l'orientalista Giuseppe Tucci, l'editore Vallecchi e molti altri.
Talvolta gli informatori di polizia offrono resoconti di battibecchi e di scontri. È il caso di un grande convegno antifascista del 1961 — alcuni mesi dopo la rivolta contro il governo Tambroni — quando un esponente del Movimento federalista europeo, il fiorentino Carlo Nocentini, riferendosi agli scontri dell'anno precedente, obietta che in democrazia non si dovrebbe «rispondere alle violenze con le violenze e che bisogna combattere il neofascismo non con le manifestazioni di piazza ma con dibattiti aperti e con una critica convincente». Nocentini aggiunge di essere «contrario all'abuso degli scioperi politici che dovrebbero essere di pertinenza dei partiti mentre la Cgil dovrebbe occuparsi degli interessi dei lavoratori». Definito «reazionario e monarchico», l'oratore viene allontanato «tra grandi tumulti». È il caso anche delle assise dei Comitati di liberazione nazionale che si svolgono a Torino nell'ottobre 1965. Sul palco ci sono Giovanni Gronchi, Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Giuliano e Giancarlo Pajetta. Presenti anche il sottosegretario dc Carlo Donat Cattin e il sindaco di Torino, anch'egli dc, Giuseppe Grosso. Viene proiettato un documentario che spiega come Trieste sia stata liberata, invece che dagli Alleati, dai partigiani jugoslavi. Il sindaco democristiano di Trieste, Gianni Bartoli, denuncia la menzogna e accusa il collega torinese di non aver vigilato sul contenuto del filmato. Il pubblico accusa Bartoli di essere un «fascista». Grosso si scusa. Ma «l'Unità» definisce la sua una «precisazione fuori luogo» e biasima «l'ondata di dannunziano nazionalismo che si era scatenata nella sala dopo l'intervento di Bartoli». E siamo, sottolinea la Serri, non già nel 1945, bensì a venti anni dalla fine della guerra.
Del resto, nell'ottobre del 1967, quando Italia-Urss celebra i cinquant'anni della Rivoluzione russa, perfino uno dei dirigenti del Pci meno ortodossi, Umberto Terracini, definisce l'Unione Sovietica «lo Stato più avanzato del mondo per il progresso tecnico scientifico» ed esprime l'augurio che possa proseguire il suo cammino negli anni futuri. Simili propositi verranno espressi pressoché all'unanimità da parte dell'intellighenzia di sinistra nel 1970, in occasione del centenario dalla nascita di Lenin. I riti delle manifestazioni di amicizia tra Italia e Urss proseguiranno fino alla seconda metà degli anni Ottanta. È l'Urss che, a un certo punto, si sottrae. In una relazione da Reggio Calabria si legge che i comunisti locali denunciano «un fatto spiacevole»: esisteva un accordo per cui «le settimane della cultura sovietica dovevano essere tenute a turno un anno in una regione italiana e, quello successivo, in uno Stato dell'Urss»; la regione italiana ospitante, in altre parole, avrebbe dovuto essere poi ospitata «a spese dell'Urss»; da tempo però, lamentavano i comunisti reggini, queste «giornate di ritorno» non venivano più organizzate e «nulla autorizza a pensare che lo saranno mai più». E infatti…
Ma torniamo indietro. Negli Anni Sessanta, incontriamo lo storico della Resistenza Roberto Battaglia che, in campo didattico, invita «a procedere spediti sulla falsariga della sperimentazione bulgara». E indica nella Cina di Mao «la nuova frontiera della democrazia», magnificando la «meravigliosa ascesa del popolo cinese in campo culturale e scientifico». Paolo Sylos Labini, reduce da un viaggio a Pechino, si dice entusiasta del «perfetto funzionamento dell'economia cinese». Cesare Musatti ha analoghi accenti nei confronti del Vietnam. Il giornalista Saverio Tutino esalta il regime castrista e si entusiasma per la fusione di tutti i giornali cubani sotto un'unica testata «a grandissima tiratura». Soffia il vento dell'Est e cominciano ad esserne investiti dirigenti dello stesso Pci. È il caso di Antonello Trombadori che, racconta un informatore, a Firenze è contestato da Angiolo Gracci, segretario della locale sezione del Partito comunista d'Italia, un gruppo marxista-leninista, che lo esorta a essere «più energico». «Rosso in volto», prosegue il rapporto, Trombadori reagisce: «Siete degli utopisti, non capite niente di questo nostro periodo storico». Capo del partito di Gracci è, annotano gli agenti, un farmacista della piccola frazione di Pontasserchio dalle parti di San Giuliano Terme, Fosco Dinucci, il quale riceve — mimetizzati tra pasticche e sciroppi — venti chilogrammi di opuscoli e riviste dall'associazione Italia-Albania. Nel fascicolo di polizia sono riportate missive di Aldo Tortorella e di Achille Occhetto con le quali si diffidano gli edicolanti iscritti al Pci o semplici simpatizzanti dal diffondere «Nuova Unità», organo del partito di Gracci e Dinucci.
Durante il Sessantotto gli informatori sorvegliano con grande intensità l'editore Giangiacomo Feltrinelli e registrano lo scontro che, nel corso di un'assemblea all'Università di Roma, ha con gli studenti, i quali non vogliono ascoltare i suoi proclami e gli chiedono di limitarsi a finanziare il loro movimento con qualche milione di lire. Sotto osservazione anche il fondatore dell'Unione dei marxisti leninisti, Aldo Brandirali, e il direttore di «Quaderni Piacentini», Piergiorgio Bellocchio («appartiene a famiglia di agiate condizioni economiche», viene specificato nel rapporto). Relazioni vengono redatte anche sui registi Marco Bellocchio e Salvatore Samperi, sugli attori Lou Castel, Gian Maria Volonté, Vanessa Redgrave, sui giornalisti Giampiero Mughini, Toni Capuozzo («si è sempre fatto notare per faziosità e intolleranza»), Paolo Liguori, detto «Straccio» (fa parte di «un gruppo di giovani capelloni che, dopo aver acquistato nella zona di Marsala un carretto e un mulo raggiungeva Gibellina… per dialogare con la popolazione del luogo e propagandare un nuovo sistema di società») ed Enrico Regazzoni (segnalato alla guida di una Jaguar in compagnia di un'amica), su Mario Geymonat, Federico Stame, Sergio Spazzali, Renzo Del Carria ed Edoarda Masi, Massimo L. Salvadori.
L'Università è in piena rivolta. Lo storico Rosario Romeo non si presta alle procedure di esame imposte dagli studenti. Non vuole sospendere le prove. Un corteo raggiunge la sua aula. Al che, «assediato dal gruppo di giovani», Romeo «si è rifugiato nel bagno». Riesce a uscire e si rintana nella sala dei professori che gli studenti sbarrano con tavoli, poi «rimossi dagli uscieri». Romeo a questo punto «è oggetto per circa mezz'ora di insulti minacce e spinte, nonostante l'intervento in suo favore di alcuni studenti». Reagisce definendo «miserabili» i suoi assalitori che, a loro volta, gli danno del «buffone». Il preside della facoltà di Lettere, Franco Lombardi, commenta pubblicamente: «Non ho mai visto in tutta la mia lunga carriera di docente uno schifo del genere! A voi studenti mancano l'esperienza del ventennio fascista, i disagi della guerra e del periodo postbellico». Ma, aggiungono i poliziotti, questo genere di reazione non è unanime: «Il professor Gabriele Giannantoni e il professor Alberto Asor Rosa hanno annunciato che si rifiuteranno di sostenere esami finché le istanze degli studenti non saranno accolte e hanno disapprovato la presenza della polizia nell'università».
Nel settembre 1968 a Jesi il gruppo consiliare del Pci blocca la visita dell'addetto culturale dell'ambasciata statunitense in occasione della rappresentazione della Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, messa in musica dall'anconitano maestro Pio Boccosi. Motivazione: «Non è ammissibile che... il nostro Comune ospiti il rappresentante di un Paese imperialista che con la forza delle armi reprime ogni volontà di libertà e indipendenza dei popoli». Il parroco della piccola comunità di Vispa (Savona), don Angelo Billia, annuncia l'intenzione di mettere in scena Mistero buffo di Dario Fo e Franca Rame. Il vescovo esorta don Billia a soprassedere. Ma, scrivono gli agenti in borghese, «il parroco non teneva in alcun conto l'invito e lo spettacolo veniva ugualmente rappresentato». Poi aggiungono: «È degno di nota il fatto che nella rappresentazione vengono messi in ridicolo e vengono attaccati con acrimonia Papi e vescovi con espressioni anche volgari».
È accusato di aver offeso la Chiesa anche Ulisse Benedetti, fondatore e animatore del locale romano d'avanguardia «Beat 72». Benedetti «ha richiesto la licenza per poter tenere pubblici intrattenimenti danzanti». Ma — denunciano gli agenti in borghese — non si tratta di balli normali, bensì di una «parodia della santa messa». La sacra funzione viene, «come in un sabba demoniaco», oltraggiata «dall'attrice Trombetti Laura, ovvero Laura Betti», che «con capelli cotonati e occhi bistrati» si è esibita in «una messa rossa con spogliarello». Lo ha fatto «con una processione burletta, davanti a un altare in miniatura con candelabri e immagini sacre», davanti al quale si è tolta tutti i vestiti. Assai impetuosi nei confronti della Chiesa, gli intellettuali sono però molto più timidi quando si parla di Unione Sovietica. Sempre al «Beat 72» è di scena la scrittrice Elsa Morante per discutere di controcultura. I ragazzi scalpitano raccontando episodi di repressione dei beatnik nelle società dell'Est, ma la Morante minimizza e scantona. E all'assemblea in ricordo di Jan Palach, il giovane cecoslovacco che il 16 gennaio del 1969 si diede fuoco per protestare contro l'invasione dei carri armati russi, si presenta — è scritto nel rapporto di polizia — un solo uomo di spettacolo: Gianfranco Funari.
Qualche coraggioso, registrano gli informatori, avanza dei dubbi in pubblico. Aldo Tortorella all'attivo provinciale del Pci di Varese denuncia che l'Urss «non ha onorato le risoluzioni prese dal XX congresso del Pcus, e cioè la destalinizzazione, la coesistenza pacifica e il profondo rinnovamento dei partiti comunisti». Il ventiseienne segretario della Federazione giovanile comunista italiana, Claudio Petruccioli, rimprovera i dirigenti dell'Associazione nazionale dei partigiani d'Italia di aver «istituzionalizzato la pratica dell'antifascismo». Gianni Corbi, futuro direttore dell'«Espresso», contraddice Pietro Ingrao a seguito di un'imbarazzante esaltazione di Cuba. Gian Giacomo Migone osa dire in un'assemblea sul Vietnam al Teatro Lirico di Milano che per il fatto che solo il 32 per cento degli americani sono dalla parte del presidente Johnson, ciò non significa che il restante 68 per cento tifi per i vietcong. Ma, nota Mirella Serri, «nessun intellettuale leva la propria voce contro le settimane dell'amicizia organizzate da Italia-Urss». Solo «gli esponenti del Partito radicale le trovano inopportune». In anni passati «Marco Pannella ed Ernesto Rossi sono stati frequentemente monitorati dalla polizia politica mentre erano impegnati a stoppare le prese di posizione dei compagni comunisti». Per esempio, sono stati pronti a criticare Terracini (con il quale, pure, dialogheranno in molte occasioni) «appassionato sostenitore della tesi che sull'Urss sventola la bandiera della libertà e che gli intellettuali devono sentirsi in soggezione perché nel Paese del socialismo reale sono state raggiunte sostanziali conquiste». Pannella e Rossi «si oppongono assai fermamente a queste affermazioni» e, recita un rapporto su un meeting all'hotel Universo di Roma tenutosi il 23 marzo 1964, «ricordano al senatore comunista gli eccidi commessi da Stalin e, in seguito, dalle truppe sovietiche in Ungheria». I radicali, aggiunge Mirella Serri, «continuano negli anni a ribadire la loro opposizione alle settimane dell'amicizia Italia-Urss, trovandole inopportune soprattutto dopo l'invasione nel 1968 della Cecoslovacchia, mentre inalberano anche cartelli sulla repressione degli omosessuali in Urss». A differenza di quel che accade in tutti ma proprio tutti gli altri Paesi dell'Europa occidentale, sono gli unici, a sinistra.

il Fatto lettere 7.2.12
Riformismo rivoluzionario

Riforme di struttura o riforme strutturali: da qualche anno ricompare questa dizione a indicare l’urgenza di incidere su un sistema economico, sociale e culturale in profonda crisi. Senza riaprire la disputa sul ‘riformismo’, va puntualizzato che la dizione ‘riforme di struttura’ o ‘riforme strutturali’ e la loro base teorica, il ‘riformismo rivoluzionario’, appartengono ad un nobile, rigoroso ed onesto ‘uomo di cultura’ prestato alla Politica: Riccardo Lombardi.
Che sia, allora, tornata d’attualità la sua Utopia di una nuova società perché, diceva, “non si tratta di far vivere bene le persone, ma diversamente”? Che passi la sua proposta di riformare radicalmente, di rovesciare il capitalismo con le riforme di struttura perché divenuto “troppo costoso per l’umanità”?
Ecco a cosa dovevano servire le ‘riforme di struttura’, come spiegò nel lontano 1967: “Come concepiamo noi quella società più ricca perché diversamente ricca che preconizziamo come risultato di una pianificazione socialista? Donde andiamo a ricavare gli elementi per soddisfare meglio bisogni più elevati? Li andiamo a prelevare in primo luogo dall’eliminazione delle rendite, in secondo, dalla limitazione dei consumi voluttuari e affluenti: la nostra lotta è contro la società affluente e il benessere, non già perché non vogliamo il benessere, ma perché vogliamo un certo tipo di benessere, non quello che domanda tremila tipi di cosmetici o una dispersione immensa di risorse, ma quello che domanda più cultura, più soddisfazione ai bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso. Perché questa che preconizziamo è una società in cui l’uomo diventa diverso, capace di studiare, di apprezzare i beni essenziali della vita. Abbiamo fatto una scelta ed è una scelta essenziale: non è la scelta di una contestazione della società capitalistica dall’esterno; non siamo estranei a quello che avviene nel mondo capitalista, ma ci inseriamo in questo mondo per trasformarlo. Abbiamo posto per primi in Italia il problema della riforma di struttura”.
Carlo Patrignani

l’Unità lettere 7.2.12
I Centri di Identificazione e di Espulsione

Si fanno tantissimi bei discorsi sulla democrazia, sulla libertà, sull’umanità, sulla giustizia. Poi si leggono cose scandalose sui Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) dove vengono rinchiuse e trattate in modo indegno persone che, lo sappiamo bene tutti, non hanno commesso niente di male. Tutto questo mentre ogni santo giorno si leggono di ruberie, imbrogli, truffe, mazzette di quel pantano ignobile che è la vita politica e pubblica italiana. Spero che i nuovi ministri abbiano quel minimo di dignità e di rigore morale per correggere anche i danni alla dignità delle persone, non solo i conti economici dello Stato.
Fabio Della Pergola