mercoledì 8 febbraio 2012

l’Unità 8.2.12
Con Monti, oltre Monti. La nuova frontiera dei progressisti europei
di Massimo D’Alema


Non ha senso una diffidenza verso l’esecutivo, che non è nato da un sussulto della società civile, ma da una lunga operazione politica. Va contrastata
una lettura elitaria della crisi. L’editoriale di Massimo D’Alema su Italianieuropei
Anticipiamo l’editoriale di Massimo D’Alema sul prossimo numero della rivista Italianieuropei, in edicola e in libreria a partire dal 14 febbraio. Nello stesso numero, analisi e contributi del presidente dell’advisory board della Fondazione, Giuliano Amato, della vice presidente del Senato, Emma Bonino, della segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso.

Una pagina nuova si è aperta nella vita politica italiana. Il mutamento è stato rapido e radicale non solo nella realtà delle istituzioni e nei rapporti fra i soggetti politici, ma anche nel senso comune e nello spirito pubblico dei cittadini. Al punto quasi da far dimenticare l’estremo degrado cui si era giunti nel periodo conclusivo del decennio berlusconiano: uno dei momenti più oscuri della vicenda italiana, uno dei punti più bassi di discredito del paese nel contesto europeo e in quello internazionale.
Con Monti l’Italia è tornata ad avere credibilità. (...) E il nostro paese torna ad avere voce in capitolo nel confronto sulle scelte fondamentali che l’Unione deve compiere se vuole essere all’altezza della sfida. È interesse dell’Italia che il governo possa operare fino alla conclusione naturale della legislatura; affrontare l’emergenza con misure eque; cercare di rimettere in moto l’economia; esercitare il suo ruolo a Bruxelles e nelle relazioni con le principali cancellerie europee, come ha cominciato a fare. Il Partito democratico sosterrà il governo e opererà per realizzare le necessarie riforme, a cominciare da quella della legge elettorale, e per ridefinire il ruolo di istituzioni più efficaci e più sobrie. Nello stesso tempo si tratta di costruire una nuova prospettiva politica e una proposta di governo per l’Italia a partire dalla primavera del 2013.
Non avrebbe senso né ragione, è necessario ribadirlo, una qualche diffidenza nel nostro campo verso il governo presieduto da Mario Monti. D’altro canto questo governo non nasce da un sussulto della società civile contro la politica: non è il frutto del “fallimento dei partiti”, semmai l’approdo del fallimento del berlusconismo e di una destra che è stata incapace di governare il paese e lo ha condotto ad affrontare nel modo peggiore una drammatica crisi internazionale. Il “governo tecnico” è il frutto di una lunga e coerente azione politica che ha costruito con pazienza le condizioni per superare il governo Berlusconi. Non sarebbe stata possibile la svolta che oggi suscita nuove speranze nel paese se l’opposizione non avesse lavorato a un governo di responsabilità nazionale. Ed è stato merito del Pd aver operato per una collaborazione con il Terzo polo offrendo a una maggioranza parlamentare fragile ma arroccata la possibilità e la garanzia di una continuazione della legislatura in un quadro di comune assunzione di responsabilità, oltre il governo Berlusconi. (...) È importante ristabilire questa verità nel momento in cui intorno al governo Monti si definisce un nuovo scenario. Tutto il quadro politico del paese si è rimesso in movimento oltre gli schemi della contrapposizione che ha animato sin qui il bipolarismo italiano. (...)
L’esaltazione delle competenze tecniche, delle élite, degli “ottimati” contrapposti all’ignoranza, alla corruzione, alla incapacità e alla rissosità della politica e dei partiti raggiunge forme caricaturali di qualunquismo. Sui maggiori quotidiani italiani si possono leggere editoriali nei quali si propone dottamente di abolire le elezioni per sostituirle con l’estrazione a sorte dei parlamentari oppure dove si auspica che il governo tecnico si presenti alle elezioni in quanto tale “spazzando via” i politicanti. I temi e gli argomenti ricordano la crisi dei primi anni Novanta e curiosamente evocano la retorica del primo Berlusconi: il grande imprenditore, l’“uomo del fare” che appunto doveva spazzare via il teatrino della politica politicante.
È evidente che questa campagna muove dalle debolezze reali del sistema democratico, prende forza dalla fragilità delle culture politiche e dei soggetti protagonisti della cosiddetta Seconda Repubblica. Sono proprio questa fragilità e l’assenza di partiti fortemente organizzati e radicati e quindi capaci di selezionare e formare classe dirigente che hanno favorito l’avvento di un ceto “politico” spesso improvvisato, frequentemente privo di una cultura politica, che ha occupato le istituzioni, molte volte solo come forma di promozione sociale o, peggio, per interessi personali. Ma, pur muovendo da una critica non infondata dello stato presente del sistema politico, gli ideologi dell’antipolitica procedono nella direzione esattamente opposta a ciò che sarebbe necessario. Si punta cioè ad accentuare fenomeni di destrutturazione, di improvvisazione e di precarietà, di personalizzazione estrema e distruzione di tutti gli aspetti organizzati e collettivi dell’agire politico nel nome di una esaltazione acritica della società civile.
Ciò che torna non è solo la diffidenza antica e radicata di una parte dei ceti economicamente egemoni verso la politica e il fastidio da essi nutrito verso i partiti popolari e il ruolo che essi svolgono. Questi aspetti vi sono certamente e rinviano a una cultura caratterizzata da forme di elitarismo che vengono da lontano e hanno lasciato un segno profondamente negativo nella storia italiana. Ma c’è anche l’espressione del più recente prevalere, non solo in Italia, di un liberismo estremista che ha alimentato la convinzione che il capitalismo possa autogovernarsi riducendo lo spazio della dimensione pubblica e della statualità. Se c’è una verità invece che la crisi ha portato alla luce è proprio che all’origine della grave crisi che viviamo vi è esattamente il dominio di questa ideologia. E non a caso appaiono oggi più forti i paesi in cui resistono sistemi politici solidi e partiti in grado di garantire coesione sociale e coerenza di indirizzi.(...)
Sarebbe un errore gravissimo venire meno al compito di sostenere e incoraggiare l’attuale governo. Un sostegno leale che si accompagna naturalmente all’impegno necessario per avanzare le nostre idee e proposte per rendere più incisive e coerenti le scelte e le azioni da compiere. Il cammino intrapreso è quello giusto. Chi scalpita a sinistra deve capire che nessuna credibile prospettiva politica per il dopo-Monti può essere costruita contro l’attuale governo e cioè contro gli interessi del paese in un passaggio così delicato per l’Italia e per l’Europa. E il centrosinistra, ciascuna forza politica del centrosinistra, deve sapere che nelle scelte che fa mette in gioco oggi la sua credibilità per il governo dell’Italia di domani.(...)
Come porre rimedio ai guasti
di questi anni senza regole in grado di contrastare la speculazione finanziaria, senza una più forte solidarietà e misure capaci di ridurre le diseguaglianze sociali? Di fronte agli europei c’è la necessità, nello stesso tempo, di un salto di qualità nella integrazione politica e di un mutamento profondo nei contenuti dell’azione dell’Unione e dei governi nazionali. È necessario voltare pagina: ridimensionare il potere della finanza;
restituire dignità e centralità al lavoro e alla cultura, promuovere uno sviluppo compatibile con l’ambiente e la qualità della vita delle persone. L’esperienza ha dimostrato che il mercato lasciato a se stesso ha prodotto squilibri e diseguaglianze che hanno inceppato lo stesso meccanismo della crescita.
Nessuno pensa che si debba tornare a una concezione statalista o a un compromesso socialdemocratico di stampo keynesiano. È evidente che le nostre società penso in particolare all’Italia hanno anche bisogno di riforme liberali volte a rimuovere rendite corporative e aprire opportunità soprattutto alle nuove generazioni. Tuttavia, nello stesso tempo, occorre rilanciare e qualificare l’azione pubblica non solo per promuovere coesione sociale, ma anche per sostenere lo sviluppo attraverso investimenti innovativi nella ricerca e nelle infrastrutture. E perché questa azione sia efficace non può essere affidata soltanto alla volontà dei singoli governi nazionali, ma deve essere sostenuta dall’Europa nel suo insieme e finanziata attraverso strumenti innovativi come la tassa sulle transazioni finanziarie o gli eurobond. Occorre, insomma, una svolta politica sostenuta da una coalizione progressista ed europeista, in grado di imprimere un nuovo corso in Europa e in Italia non contro l’attuale governo del nostro Paese, ma rispetto a una lunga stagione politica dominata dalle destre conservatrici o populiste.
Un progetto per l’Italia che tenga insieme crescita e giustizia sociale, opportunità per le nuove generazioni, innovazione e competitività non può che essere concepito in una visione europea. Il centrosinistra italiano, dentro una nuova coalizione progressista ed europeista, può candidarsi a interpretare e guidare questa fase. È molto importante riavvicinare la politica e i cittadini anche attraverso riforme (a cominciare dalla legge elettorale) in grado di ridurre il distacco e la sfiducia. È ineludibile rinnovare la classe dirigente, puntando sulla qualità e sul talento che non mancano nelle nuove generazioni, e ritengo che occorra investire molte energie nella loro formazione per riuscire a far emergere sempre di più chi lo merita. Ma la fondamentale “rilegittimazione” della politica sta nella capacità di proporre un progetto, una visione del futuro che rispondano alla incertezza e alla decadenza sociale, che riaccendano la speranza, che sappiano dare risposte al bisogno di “riappropriarsi” della propria vita come ha scritto Alfredo Reichlin di tanti cittadini italiani ed europei.
Non ci interessa la politica intesa come un ceto che rivendica di tornare alla gestione del potere dopo la parentesi del governo tecnico: in questa veste sarebbe irrimediabilmente perdente o subalterna. Ci interessa un’altra politica: la capacità di anticipare, interpretare e dare senso ai processi sociali; la politica come necessaria e appassionante dimensione dell’agire umano collettivo. Per questo stiamo lavorando per ricostruire un partito e, nello stesso tempo, per elaborare un progetto e una proposta di governo che vada oltre la transizione che stiamo vivendo.
Trovare le soluzioni non è e non sarà facile. Riavvicinare i cittadini alla politica vuol dire essere capaci di individuare gli errori commessi dalla politica in questi anni; vuol dire saper leggere il mondo che abbiamo di fronte e le sfide del prossimo futuro; vuol dire generosità nell’accompagnare quel ricambio generazionale che è ormai condizione necessaria per rendere competitiva l’Italia e dare ai nostri figli la possibilità di esprimere la propria personalità. Una nuova frontiera quindi, per definire le risposte che dovremo saper dare alle sfide che avremo di fronte.

Corriere della Sera 8.2.12
La tela di Bersani con Camusso per curare i «mal di pancia» del Pd
di Maria Teresa Meli


ROMA — C'è una sola cosa che il Pd non può fare: affossare il governo Monti. Il che significa che, in un modo o nell'altro, il Partito democratico darà il via libera a una modifica dell'articolo 18. Modifica minima, che sia quanto meno accettata da Cisl e Uil. Ma in ogni caso se ne dovrà parlare alla fine, «in coda», come ha detto ieri Pier Luigi Bersani in tv a Otto e mezzo, perché prima bisogna discutere di «come creiamo un po' di lavoro». E la Cgil? Bersani, che parla con Susanna Camusso un giorno sì e l'altro pure, spera di riuscire a strappare qualcosa anche da lei. «Gli spazi sono stretti, ma ci sono», ha spiegato ai suoi il segretario, che ieri ha visto il leader della Fiom Landini. Perciò Bersani ha incaricato il responsabile economico Stefano Fassina di lavorare a stretto contatto con i vertici della Cgil, alla ricerca di una soluzione condivisa.
«E' difficile - ammetteva ieri Sergio D'Antoni - ma non impossibile, tanto più che questa volta Bonanni e Angeletti non vogliono rompere l'unità sindacale, e la stessa Camusso non ha questa intenzione». Che la Cgil possa dire di sì alla modifica dell'articolo 18 appare però al momento altamente improbabile. E il Pd lo ha messo nel conto. Ma c'è modo e modo di dire di no. Se il sindacato di Camusso non farà le barricate, il Partito democratico riuscirà a reggere la botta. «E' già accaduto altre volte che ci distinguessimo dalla Cgil», osservava il lettiano Francesco Boccia, impegnato nel pomeriggio in un botta e risposta con alcuni compagni di partito. Secondo il responsabile Welfare Beppe Fioroni «una buona base di trattativa potrebbe essere quella proposta da Bonanni, ma l'importante è che certi ministri non continuino a fare più uno ogni volta, sennò si spacca tutto». L'orientamento prevalente nel Pd è quello espresso l'altro ieri dal vicesegretario Enrico Letta in una tavola rotonda organizzata dall'Arel: «Con Monti si possono fare riforme importanti». Però le sacche di resistenza ci sono, ai vertici del partito come nei gruppi parlamentari.
Bersani si prepara dunque ad accettare «perfezionamenti» dell'articolo 18, ma in questa fase di trattativa non scopre tutte le sue carte. Perciò, tatticamente, il leader del Pd continua a pungolare Monti: «Noi non possiamo sempre sostenere quello che fa il governo ad ogni costo, anche voi dovete darvi una regolata». Anche perché è proprio nella sua stessa maggioranza che il segretario trova le maggiori ostilità rispetto alla riforma dell'articolo 18. Come dimostra il plauso che è arrivato da più parti alle dichiarazioni di ieri di Carlo De Benedetti. Il presidente del Gruppo Espresso è stato molto netto: «Sull'articolo 18 non sono d'accordo: viene spacciata per mobilità quella che è ideologia. Mi auguro che il ministro Fornero e il governo Monti cambino idea su questo argomento, perché su questo io non cambio certo la mia». Parole che hanno suscitato l'entusiasmo del responsabile Lavoro del Pd Cesare Damiano: «Da imprenditore ha detto con chiarezza che attaccare ancora una volta l'articolo 18 è un falso problema».
Sarà anche come dice Damiano, ma il Pd comunque sarà costretto ad affrontare il problema dell'articolo 18 perché il governo è intenzionato ad andare avanti. E, come spiega un autorevole esponente del partito, «se Monti va fino in fondo noi gli votiamo tutto, anche la pena di morte». Una battuta, naturalmente, che però la dice lunga sull'atteggiamento che il Pd terrà quando si arriverà al dunque.

l’Unità 8.2.12
Dopo la Consulta
Gli stupri come la mafia: sì al carcere preventivo
di Mila Spicola


La recente sentenza della Corte Costituzionale che abolisce il carcere preventivo nel caso degli stupri di gruppo ha provocato indignazioni, polemiche e mille riflessioni. Leggendo con raziocinio tutte le posizioni messe in campo, i mille articoli, i blog, mi sono venute in mente altre riflessioni, mano a mano che raccoglievo maggiori dati. Tra le considerazioni a favore della sentenza di quella Corte sta la costituzionalità della presunzione d’innocenza.
Diritto sacrosanto, si legge e si ripete e si condivide. Poi però, leggendo ancora, scopriamo che c’è un caso in cui è permesso il carcere preventivo e senza nemmeno tante indignazioni: nel caso dei reati per mafia. Tutto il Paese sano e onesto si stringe giustamente a raccolta e, in quel caso, la regola sacrosanta al diritto di essere giudicato colpevole dopo la sentenza vacilla in nome di ferite e di morti che non possono essere dimenticate. E allora continuo a leggere e a cercare e scopro che le donne ammazzate in un anno, il 2008, sono state in numero maggiore, (109 femminicidi in Italia), ai morti ammazzati dalla mafia due anni prima, (nel 2006 108 vittime della criminalità organizzata). Se qualcuno ha voglia di approfondire potrà mettere in relazione numeri e dati su più anni e scoprirà con sconcerto i numeri della strage delle donne in Italia. Li scoprirà. È il verbo giusto. Perché non è che interessino granché, se non alle donne e solo quelle tacciate di «vittimismo femminista». Ecco: di fronte a certi numeri, davvero numeri da guerra come si fa a mantenere in vita resistenze e rimozioni simili? Come si fa ancora a dover «alimentare il dibattito delle difese e delle opportunità»? 109 donne morte a fronte di migliaia di stupri, di violenze fisiche, di violenze psicologiche. Pensiamo poi a una donna vittima di violenza e di intimidazione psicologica che va in questura e mettiamola accanto a una vittima di estorsione. Chi riceverà maggiori attenzioni, cure, nessun sospetto, nessun pericolo e nessuna domanda del tipo «sì, ma lei cosa ha fatto per meritarsi tutto questo?».
Non mi pare, anche a costo di voler entrare nel sacrario della madre di tutte le battaglie e cioè quella contro la mafia, ma, voglio dire, da palermitana, potrò pur dirne qualcosa no? E da donna vorrei pur dire altro, e dunque non mi pare, a fronte di due problemi di eguale, ripeto, eguale gravità, che ci sia da parte della coscienza collettiva, politica, culturale e sociale italiana né lo stesso allarme né lo stesso interesse nella lotta o prevenzione. Entrambi sono dei mali innanzitutto culturali e di mentalità. Entrambi provocano vittime innocenti e devastano. Sarebbe il caso di affrontarli con lo stesso vigore di mezzi e di volontà. Entrambi meritano il carcere preventivo senza bisogno che dobbiamo nuovamente raccontare e spiegare il perché.

l’Unità 8.2.12
Donne e lavoro
Dimissioni in bianco, da cancellare subito
di Roberta Agostini


Contro la pratica barbara delle dimissioni in bianco si è da tempo sviluppato un movimento di donne appartenenti a realtà civili, sociali e politiche diverse tra loro, che ha posto con grande forza il problema anche all’attenzione del nuovo governo, in particolare alla ministra Fornero, che si è più volte dichiarata disponibile ad affrontare il tema, da ultimo nell’incontro che abbiamo tenuto ieri.
È molto grave che nel nostro Paese, a fronte di leggi avanzate e di principi costituzionalmente sanciti, siano sempre di più i lavoratori e le lavoratrici costretti al ricatto di un foglio bianco già firmato, custodito in un cassetto, che può essere usato in qualsiasi momento apponendo solo la data del licenziamento. Nello stesso tempo, questa pratica danneggia quei datori di lavoro che, applicando correttamente leggi e contratti, subiscono la concorrenza di chi abbatte i costi evadendo responsabilità sociali.
Questo abuso lede profondamente la dignità del lavoro ed è tragico che le più colpite siano le donne alla nascita di un figlio, soprattutto alla luce del fatto che l’Italia detiene il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa insieme al più basso tasso di natalità. Secondo l’Istat negli anni più pesanti della crisi il 30% delle madri (contro il 4% dei padri) ha dichiarato di aver interrotto il lavoro per motivi familiari e 800.000 sono le donne che hanno dichiarato di essersi dovute dimettere a causa della gravidanza e per aver firmato una lettera in bianco.
Non è vero che maggiori tutele ingessano il mercato del lavoro e pregiudicano la crescita. È vero il contrario: senza regole, oltre che in assenza di servizi e politiche adeguate, è sprecata la risorsa del lavoro femminile che, se raggiungesse gli obiettivi di Lisbona, secondo Bankitalia produrrebbe un incremento del Pil del 7%. Senza il rispetto delle regole accadono tragedie come quella avvenuta a Barletta.
Il Pd si sta battendo da tempo per ripristinare le norme contro questa barbarie, che erano contenute nella legge 188, cancellata dal precedente governo. In particolare, in commissione Lavoro alla Camera, inizierà a febbraio la discussione della proposta di legge a prima firma Gatti, attorno alla quale provare a costruire la condivisione di un arco di forze più ampio. Le donne hanno sostenuto, per ammissione della stessa ministra Fornero, gran parte del sacrificio richiesto in questi mesi, in particolare sul piano pensionistico. Ora è necessario che il confronto che si è aperto sul mercato del lavoro e, in generale, sugli strumenti necessari alla crescita del Paese mettano al centro il recupero dell’esasperato svantaggio femminile.
Il riconoscimento del valore della maternità è una delle chiavi attraverso le quali affrontare la situazione di disuguaglianza tra i generi e provare a ripensare l’idea e la qualità dello sviluppo. Come democratiche, abbiamo lanciato da tempo la proposta del congedo di paternità obbligatorio di 15 giorni, così come prevede l’Europa, che ponga, anche in termini culturali, la grande questione della condivisione del lavoro di cura. Abbiamo chiesto una tutela della maternità estesa e rafforzata anche in presenza di forme e tipologie contrattuali diffuse soprattutto tra i giovani. Vogliamo puntare su un modello di sviluppo che abbia al centro una robusta quota di beni comuni e la valorizzazione del lavoro di cura e dei servizi alle persone. Visto con gli occhi delle donne, ciò che può apparire solo come spesa, è in realtà un grande investimento sociale.

l’Unità 8.2.12
Duecento dipendenti del Lingotto scrivono alla ministra Fornero per chiedere un incontro
Il premio di produzione 2012 esclude i congedi per maternità e i permessi parentali
«Il contratto separato Fiat discrimina le lavoratrici»
di Luigina Venturelli


Duecento lavoratrici Fiat scrivono alla ministra Fornero: «Il contratto di gruppo discrimina le donne nell’erogazione del premio di produzione 2012». Sabato 18 la manifestazione di protesta della Fiom

Ad aggravare ulteriormente la penalizzazione in ambito lavorativo delle donne in Italia che già scontano divari occupazionali e salariali ben al di sotto degli standard europei ci si mette pure il nuovo contratto di gruppo in vigore nelle aziende Fiat. L’intesa voluta da Sergio Marchionne e sottoscritta da Fim e Uilm, infatti, contiene «norme gravemente discriminatorie nei confronti di madri e padri» in merito al premio di produzione riconosciuto per quest’anno ai dipendenti del Lingotto.
I CRITERI DISCRIMINATORI
È la denuncia della Fiom e di oltre duecento lavoratrici del Lingotto, che ieri hanno indirizzato una lettera aperta al ministro del Lavoro con delega alle Pari Opportunità, Elsa Fornero, per sottoporle il problema. L’erogazione del premio straordinario 2012 del valore di 600 euro lordi, previsto dal contratto siglato lo scorso dicembre dall’azienda torinese, è legata al computo di ore di effettiva prestazione lavorativa, dalle quali sono state escluse «le assenze la cui copertura è per legge o contratto parificata alla prestazione lavorativa». Ovvero, spiegano le tute blu della Cgil, «in Fiat qualsiasi assenza dovuta a maternità, le due ore di riposo per allattamento, i congedi parentali, le assenze per malattia dei figli e i permessi per figli con handicap faranno perdere il diritto a percepire il premio».
Il che, inutile dirlo, penalizzerà soprattutto le donne, su cui grava in gran parte il peso dei carichi familiari. Tanto più che queste somme, secondo quanto stabilito dall’ex ministro Sacconi, saranno detassate e contribuiranno così ad «allargare ulteriormente il differenziale salariale tra uomini e donne nelle aziende del gruppo».
Il contratto separato della Fiat, inoltre, potrebbe svelare anche altre criticità per la manodopera femminile, visto che «il nuovo sistema degli orari, la metrica e la turnistica che viene adottata determina un notevole peggioramento dei carichi di lavoro e dell’affaticamento sulle linee di produzione», le cui conseguenze non sono state ancora valutate. Per questo le firmatarie della lettera chiedono alla Fornero di farsi promotrice di «una commissione d’inchiesta indipendente che approfondisca sul piano scientifico i possibili rischi per la salute riproduttiva delle lavoratrici».
LA PROTESTA
Per la Fiom si tratta di «una ragione in più» per cancellare un contratto separato che già rappresenta «un attacco alla Costituzione e alla democrazia del nostro Paese», secondo le parole usate ancora ieri dal segretario generale Maurizio Landini nel presentare la manifestazione «Democrazia al lavoro», inizialmente prevista per l’11 febbraio e rinviata per il maltempo a sabato 18, quando le tute blu della Cgil scenderanno in piazza a Roma con un corteo che partirà da piazza della Repubblica per dirigersi in piazza San Giovanni per protestare contro l’accordo separato del gruppo Fiat ed anche per difendere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nuovamente messo in discussione. «È una bugia pura che non si fanno gli investimenti in Italia per l’articolo 18. Il punto vero è che noi dobbiamo ridurre la precarietà ed estendere gli strumenti di diritti e di tutela per i lavoratori» ha sottolineato Landini.

l’Unità 8.2.12
l racconto di Marie Collins, che a tredici anni fu abusata sessualmente da un sacerdote
Confronti I vescovi riuniti alla Gregoriana in ascolto. «Ma allora nessuno volle sentirmi...»
Pedofilia, la vittima e la Chiesa «Chiedere scusa non basta»
È con la drammatica testimonianza di una vittima di abusi che si è aperta ieri alla Gregoriana la seconda giornata del summit su Chiesa e pedofilia. La ferita delle gerarchie che hanno coperto i colpevoli.
di Roberto Monteforte


La ferita più profonda è stata quella infertale dai vertici della Chiesa che non l’hanno voluta ascoltare, che per decenni hanno coperto il prete colpevole che aveva abusato di lei adolescente, che non solo ha violato il suo corpo, ma ancora di più le ha strappato la vita, la dignità di persona, il gusto degli affetti e di una vita normale. Marie Collins ora è una signora irlandese di 62 anni. All’età di tredici anni è stata ripetutamente abusata sessualmente da un sacerdote, il cappellano dell’ospedale dove era ricoverata. È stata la prima ad intervenire al simposio organizzato dalla Pontificia università Gregoriana sugli abusi compiuti da religiosi contro i minori. Davanti ai vescovi delegati di 110 conferenze episcopali e ai superiori degli ordini religiosi giunti a Roma da tutto il mondo, ha raccontato il suo lungo calvario di vittima per l’abuso subito e per le gerarchie ecclesiastiche che per decenni si sono rifiutate di ascoltarla e di accogliere la sua denuncia, di fermare il colpevole impedendogli di fare ancora del male. Ha raccontato con coraggio la sua vita, fatta di sofferenze psicologiche devastanti, di ricoveri in ospedale e di terapie per uscire dall’incubo del senso di colpa. Perché avevano fatta sentire lei colpevole.
È tesa mentre racconta la sua storia. Al suo fianco ha la psichiatra e psicoterapeuta Shella Hollins, specialista con una lunga esperienza clinica sui casi di vittime di abusi. Nel 2011 è stata «assistente» del cardinale Cormac Murphy-O’Connor, inviato da Benedetto XVI nella sua visita apostolica alla Chiesa d’Irlanda sfregiata dagli scandali sessuali. La loro è una testimonianza intrecciata. Con la psichiatra che sostiene la vittima mentre racconta la sua storia e aiuta l’uditorio ad inquadrare il problema. Quella di Marie è la drammatica storia di tante vittime. I vescovi ascoltano in silenzio, poi, a porte chiuse, porranno domande. Lo chiarisce Marie: «Non è sufficiente chiedere scusa per le azioni dei preti autori di abusi». Occorre fare molto di più. Avere il coraggio di riconoscere le proprie colpe. Lei che ha perdonato il suo violentatore e che è uscita dal suo incubo quando quest’ultimo ha confessato le sue colpe, denuncia le responsabilità di chi si è rifiutato di ascoltarla e ha preferito coprire il prete pedofilo malgrado le indicazioni della Santa Sede. Per anni hanno fatta sentire lei responsabile e colpevole, nemica della Chiesa. Quando a 47 anni ha trovato la forza di denunciare la violenza subita, si è sentita dire dall’arcivescovo di Dublino, il cardinale Connell: che quell’abuso era «storico», cosa passata, che non andava colpita l’onorabilità del prete colpevole, che così ha potuto continuare a commettere altri abusi. Solo dopo altri dieci anni ha avuto giustizia.
DIFFICILE PERDONARE
«Come posso riprendere ad avere rispetto per i vertici della mia Chiesa? Chiedere scusa per le azioni dei preti autori di abusi non è sufficiente. Ci deve essere il riconoscimento e l’ammissione di responsabilità per il male e la distruzione che è stata fatta nella vita delle vittime e le loro famiglie a causa della copertura spesso deliberata e per la cattiva gestione dei casi da parte dei loro superiori. E prima che io o altre vittime possiamo trovare una vera pace e guarigione». «Il tentativo di salvare l’istituzione dallo scandalo conclude Marie ha prodotto il maggiore di tutti gli scandali, ha perpetuato il male degli abusi e distrutto la fede di molte vittime». Ringrazia Papa Benedetto XVI, perché è stato il primo ad ascoltare le vittime.
Se l’obiettivo dell’assise in corso alla Gregoriana è concorrere alla definizione delle «linee guida» della Chiesa cattolica per affrontare i casi di abusi sessuali del clero le parole coraggiose della signora Collins e le relazioni di esperti che sono seguite, possono aver chiarito ai vescovi cosa voglia dire veramente «guarire e rinnovare».

l’Unità 8.2.12
I magistrati romani indagano sull’ingente giro di denaro a loro disposizione
L’Autorità della Santa Sede non ha ancora risposto alle richieste di Bankitalia
Riciclaggio, quattro preti indagati I silenzi del Vaticano sui controlli
di Angela Camuso


Quattro preti indagati per il reato di riciclaggio. La procura di Roma sta valutando le operazioni effettuate presso alcune banche italiane a partire dall’autunno del 2010. Stasera il caso al programma «Gli Intoccabili» su La7

Sono quattro i sacerdoti indagati per il reato di riciclaggio nell’ambito dell’inchiesta condotta dalla procura di Roma sullo Ior. L’Istituto Opere di Religione, di fatto la banca del Vaticano, è al centro dell’attenzione del pm Rocco Fava e del procuratore aggiunto Nello Rossi per delle operazioni sospette effettuate presso alcune banche italiane dall’autunno del 2010.
I preti iscritti nel registro degli indagati sono il 62enne monsignor Emilio Messina, dell’Arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche ma residente a Roma, dove svolge il servizio di cappellano presso tre case di cura, don Salvatore Palumbo detto Mariano, nato a Ischia 49 anni fa ma anche lui in servizio nella capitale, dove regge l’’importante e popolosa parrocchia, molto attiva nel sociale, di San Gaetano, il catanese Orazio Bonaccorsi, 37 anni, già processato e assolto in primo grado in Sicilia per fatti analoghi ma che secondo piazzale Clodio autore di altre operazioni di riciclaggio attraverso conti Ior transitati su istituti di credito della capitale e infi-
ne, don Evaldo Biasini, 85 anni, ciociaro di origini e residente ad Albano Laziale. Biasini è conosciuto come don Bancomat. Secondo i magistrati di Perugia che hanno condotto l’inchiesta sui Grandi Eventi, l’impreditore della «cricca» Diego Anemone, avrebbe consegnato a don Biasini ingenti somme di denaro che il prete avrebbe depositato presso i suoi conti aperti allo Ior, trattenendo per sé una percentuale.
Di questi e altri fatti correlati a quest’inchiesta tratterà stasera il programma di La7 «Gli Intoccabili» condotto da Gianluca Nuzzi, il quale ha voluto investigare, in particolare, sull’atteggiamento del Vaticano rispetto alle recenti richieste di accertamenti sui conti dell’Istituto Opere di Religione fatte dalle autorità italiane. Com’è noto, infatti, proprio a seguito dello scandalo provocato dall’inchiesta dei magistrati romani che portò all’incriminazione per violazione delle norme antiriciclaggio del suo direttore generale Cipriani e del suo presidente Gotti Tedeschi la Santa Sede ha istituto dal 30 dicembre del 2010 una propria Autorità di Informazione Finanziaria (Aif), col compito di vigilare sulle operazioni sospette riferibili a cittadini vaticani nonché di dialogare, pur godendo di una piena autonomia e indipendenza, con le omologhe autorità dei Paesi esteri e dunque nella fattispecie italiana con la Uif, organismo della Banca d’Italia e preziosa fonte di informazioni per le Fiamme Gialle. Ebbene, nelle indagini a carico dei quattro preti, si è scoperto che ad eccezione delle operazioni svolte di don Palumbo, sulle quali il Vaticano ha fornito esaustive informazioni, per tutte le altre richieste avanzate dal pm Fava la Aif del Vaticano non avrebbe fornito a Banca d’Italia nessuna risposta, nonostante tali richieste siano state formalizzate ormai oltre 6 mesi fa.
La questione è cruciale, soprattutto nel caso di Monsignor Messina, che nel 2009 avrebbe garantito su transazioni di denaro per almeno 300mila euro effettuate da una donna con un nome falso, «Maria Rossi», che si era presentata agli sportelli come madre di un avvocato-faccendiere a cui Messina aveva dato delega di operare sul suo conto e che poi si è scoperto essere l’autore di una truffa ai danni dell’Inps. E tutto questo con il beneplacito del direttore generale dello Ior Paolo Cipriani il quale saranno le indagini a stabilire se in buona o in cattiva fede risulta agli atti aver garantito in forma scritta alla banca sull’identità della falsa Maria Rossi.

l’Unità 8.2.12
I danni di Alemanno. Maxi conto per Roma
Per il responsabile della Protezione civile capitolina 250 mezzi privati in azione Solo di manodopera più di 100mila euro. Valeriani (Pd): commissione d’inchiesta
di Mariagrazia Gerina


La maggior parte dei romani intrappolati dai contesi centimetri di neve non ha avuto il piacere di vederli in azione per le strade della capitale. Ma loro la neve sostengono di averla spazzata. E si preparano anche a chiedere il conto all’amministrazione Alemanno, che, ribaltando i capisaldi dei piani neve predisposti dalle precedenti amministrazioni, invece di affidarsi all’azienda capitolina Ama, come in passato, ha deciso per la prima volta di mettere l’«affare neve» nelle mani dei privati. E si è trovata sepolta sotto un cumulo di neve e polemiche. A cui si aggiungeranno, a breve, anche le fatture da saldare.
A presentarle saranno le ditte vincitrici del mega-appalto per la manutenzione stradale, 75 milioni di euro in tre anni, a cui da ultimo il Campidoglio ha deciso di affidare anche il compito di spazzare in emergenza le strade dalla neve e e di spargere il sale. Ma la neve è un extra. Da pagare, a parte. Ammesso che il lavoro sia stato svolto.
I romani qualche dubbio ce l’hanno. Ma il responsabile della Protezione civile capitolina parla di 250 mezzi in azione da venerdì, di cui 87 spalaneve. E anche fonti interne al Dipartimento dei Lavori Pubblici, consultate da l’Unità, confermano che le ditte avrebbero svolto il lavoro richiesto. O almeno così sostengono. I conti ufficiosi e provvisori parlano di 40 squadre da due o tre persone entrate in azione a partire da venerdì pomeriggio. Solo di manodopera si può stimare che la spesa non sarà inferiore ai 100mial euro. Più i costi per i mezzi messi a disposizione.
Oltre il danno, la beffa. Visto che, nonostante le smentite ufficiali, il Comune gli spalaneve per spazzare le vie della capitale ce li aveva e come. «Non esistono spazzaneve inutilizzati, dimenticati o abbandonati, come scritto questa mattina dal Corriere della Sera», si precipita a smentire l’ufficio stampa dell’Ama, l’azienda capitolina a cui, oltre alla raccolta dei rifiuti e alla pulizia delle strade, finora il Campidoglio aveva affidato anche gli interventi straordinari necessari per spazzare le strade in caso di neve. L’ufficio stampa assicura che gli spazzaneve inutilizzati altro non sono che 14 lame che giacciono lì dal 1995, inutilizzabili perché le macchine su cui possono essere montati sono state dismesse da tempo. Ma fonti sindacali interne all’Ama consultate dall’Unità attraverso la Fp Cgil dicono tutt’altro. Le lame ci sono: 70 lame sgombraneve, costate 2mila euro l’una, acquistate per una spesa totale di 140mila euro non più di tre o quattro anni fa. Per usarle sarebbe bastato montarle sui compattatori normalmente usati per svuotare i cassonetti. Ci sono poi altri 30 mezzi spargisale, costati 240mila euro. E quelli davvero non si possono utilizzare senza le spazzatrici Sicas nel frattempo rottamate.
La ricognizione dei mezzi Roma capitale non si è neppure preoccupata di farla. L’ordinanza firmata da Alemanno il 14 dicembre 2011, «Disposizione per l’emergenza di caduta neve», parla chiaro. In caso di neve, verrà allertato «il personale delle Ditte appaltatrici della manutenzione stradale per lo spargimento del sale e la rimozione di neve e/o ghiaccio». Mentre l’Ama «parteciperà a supporto» e solo «compatibilmente con i propri compiti istituzionali» mettendo a disposizione 3 pale meccaniche, 1 lama spargisale e 2 spandisale. Nessun riferimento ad altri mezzi e soprattutto ai molti uomini che l’Ama, come previsto da tutte le ordinanze firmate dalla amministrazione Veltroni, avrebbe potuto mettere a disposizione. Meglio servirsi delle associazioni di volontariato amiche, descritte in larga schiera nell’ordinanza.
Ma perché anche di Alemanno ha deciso di rivolgersi a privati e volontari quando in casa aveva un esercito di spazzini e operatori ecologici pronto a entrare in azione? È quello che domanda il consigliere del Pd Athos De Luca, che ieri sulla vicenda dell’estromissione dell’Ama ha depositato un esposto alla Corte dei Conti. «La commissione d’inchiesta Alemanno dovrebbe chiederla su se stesso», osserva, d’altro canto, il presidente della Commissione Trasparenza Massimiliano Valeriani, che più volte in questi anni si è occupato dall’appaltone per la manutenzione della grande viabilità. E ora chiede di fare luce anche su questo ulteriore capitolo di spesa che si è aperto con l’emergenza neve.
Eppure l’esercito di spazzini e operatori organizzato capillarmente in tutta la città non è mai stato così numeroso come sotto l’egida di Alemanno e di Franco Panzironi, ex ad Ama, fedelissimo del sindaco, dimessosi dopo lo scandalo Parentopoli. Ottomila dipendenti, 2mila in più rispetto alla precedente amministrazione. Ma soprattutto 57 dirigenti appena gratificati da un premio produzione di 8mila euro. Più premi per i dirigenti, meno lavoro per spazzini e dipendenti che si sono visti ridurre del 40% il monte ore di straordinario. Tanti il lavoro lo fanno i privati, appunto.

il Fatto 8.2.12
Alemanno nella bufera (di neve)
Croppi, l’ex-amico: “Il sindaco in preda a disagio psicologico”
di Malcom Pagani


Amico per trent’anni e suo ex assessore, ora finiano, Umberto Croppi spiega la figuraccia di Alemanno

Un parco studio nel centro di Roma. Due quadri, una scrivania, qualche libro. La barba di Umberto Croppi, un bianco sporco, come la neve che ha sepolto forse definitivamente l’esperienza politica del sindaco Gianni Alemanno. Croppi lo conosce da 30 anni: “E ancora gli voglio bene, ma la dissennata corsa di queste ore a farsi fotografare gli costerà cara. Gianni certamente non sarà rieletto e soprattutto, ogni istantanea di questa vicenda rimarrà nella storia. Perché ogni frammento, in un effetto domino, corrisponde a un’ulteriore gaffe”.
Esempi?
Alemanno con la pala in mano che sposta una pigna. Alemanno immortalato vicino ai sacchetti di sale da cucina. Alemanno mentre toglie neve da un marciapiede e la ributta in mezzo alla strada. Devastante. Inutile. Controproducente.
Quante responsabilità reali ha avuto nella disfatta?
Non molte. Roma non è attrezzata e molti altri, prima di lui, si erano trovati a mal partito con un fenomeno alieno alla città. Ha sbagliato altrove. Invece di reagire alle mancanze altrui nelle sedi competenti, è stato assalito da una furia iconoclasta. All’assalto, quando nessuno, almeno all’inizio, l’aveva accusato di nulla.
Perché?
È difficile dirlo. L’Alemanno attuale è il manifesto di un disagio psicologico. Quando sabato mattina l’ho visto sventolare quei fogli bianchi con le previsioni mi è venuto un brivido. Ho capito subito che si trattava di un’interpretazione sbagliata. Di dati equivocati.
Un fatto grave?
Da un laureato in Ingegneria ambientale, responsabile dell’unica metropoli d’Italia, ci si aspetterebbe una cognizione maggiore. Incorrere nell’errore ed esporlo all’Italia e al mondo è uno scivolone incomprensibile.
Ci sono altri responsabili?
Certo. Tre o quattro assessorati, forse la Protezione civile e i vigili del fuoco. Ma il problema è altrove. Perché Alemanno non ha chiesto spiegazioni ai suoi? Dove è finita la giunta di questa città?
Poteva essere fatto di più?
Sicuramente sì, tutti sapevamo da 15 giorni che avrebbe nevicato. Se da un lato offro a Gianni la mia solidarietà, dall’altro non posso non vedere che in questa situazione appare, a essere bene-voli, del tutto smarrito.
Perché?
Perché è preoccupato soltanto della gestione della propria immagine. Uno slalom tra twitter e le tv, come se la nevicata lo ponesse di fronte a un referendum sulla sua capacità di governo.
Da cosa nasce l'urgenza?
Dai sondaggi del recente passato. Quando esondò il Tevere e Gianni si presentò in stivali sul greto, ebbe il picco massimo di popolarità. Ha deciso di riproporre l’esperi-mento, cadendo nel ridicolo. Nella drammatica caricatura. Nella saga di se stesso. È vero che all’epoca delle piene si percepì la sua presenza, ma è altrettanto innegabile che il Comune istituì un’unità di crisi attiva 24 ore su 24.
Questa volta?
Nessuna traccia. Un’anarchia desolante. Una città in balia di se stessa. Dopo una buona intuizione, la chiusura delle scuole, Gianni è sprofondato nelle contraddizioni. Aveva un vantaggio, non c’era neanche bisogno che lo sventolasse. Lo ha depauperato giocando d’attacco e innescando un meccanismo in cui una volta compreso di aver sbagliato, ha deciso di rilanciare senza sosta.
Come è stato possibile?
È stato mal consigliato. La sovraesposizione di Gianni è grottesca. Nell’ultimo anno lo si è visto con il casco sui cantieri, in bicicletta a inaugurare le piste, troppo. Dovrebbe rendersi conto che l’attenzione eccessiva lo danneggia.
Nella ricostruzione del sindaco, le responsabilità sono sempre degli altri.
Come nei tennisti italiani descritti da Nanni Moretti, per i quali la colpa della sconfitta risiede sempre altrove o nella metafora del cacciatore, per cui l’obiettivo mancato è addebitabile al cattivo funzionamento della cartuccia.
Dal suo blog ha lanciato messaggi allarmistici.
Il blog è un boomerang. Si presenta come il simulacro della modernità 2.0 e poi, in un amen, ti fa riprecipitare nella preistoria delle pale. Se sabato mattina, invece di dare addosso alla Protezione civile, Gianni fosse apparso per dire: “Ce la stiamo mettendo tutta, dateci una mano”, la percezione collettiva sarebbe stata diversa.
Invece?
È parso dicesse: “Arrangiatevi”.
Lei lo conosce da sempre. È cambiato?
Non molto. Ha dedizione e ambizione, pregi e limiti. Il più grande? Chiude tutto all’interno di schemi rigidi. È molto ideologico.
La cacciò dalla giunta.
Non covo alcuna revanche, ma in quell’istante, si è chiusa la sua esperienza politica. Invece di puntare alla qualità, ha pensato di cedere alle pressioni. Parentopoli e le assunzioni senza freni sono solo un riflesso di quel cedimento.
Ma lei gliel’ha detto?
Decine di volte. Cercava giustificazioni che erano soprattutto scuse da presentare a se stesso.
Litigaste anche sulla vicenda Colosseo-Della Valle?
Da assessore non sono mai stato contrario, ma estraneo alla vicenda. Mi sono mosso su binari paralleli. La camera di commercio mise a disposizione una cifra analoga a quella di Della Valle e io andai ad Abu Dhabi, riscontrando interesse per il restauro a cifre ben superiori a quelle poi erogate. Della Valle, onore al merito, si è preoccupato di reperire i fondi. Le modalità dai profili curiosi atte a trovare il denaro non mi riguardano. Comunque, anche in quell’occasione, Gianni sbagliò. Sul piano politico poteva fregiarsi dell’operazione, ma su quello delle procedura non c’entrava niente e avrebbe potuto, anzi avrebbe fatto meglio a stare zitto.

il Fatto 8.2.12
Mi manda Papà
Il nepotismo e la raccomandazione familiare nell’Italia di ieri e in quella di oggi
di Daniele Martini


Una volta si faceva, ma non si diceva. “Il mi manda papà” di oggi, invece, è diverso: c’è un che di supponente e castale nel nepotismo del Terzo millennio. Da Bettino Craxi a Ciriaco De Mita ad Arnaldo Forlani, ai loro tempi capi di governo, ministri, politici, imprenditori, baroni delle università favorivano in tutti i modi i parenti. Ma si ingegnavano di tenerlo nascosto, camuffandolo con un’ipocrisia che, a ben vedere, faceva scorgere sullo sfondo anche qualcosa di buono. “Se lo meritano – dicevano – volete discriminarli solo perché figli e parenti di noi potenti? ”. Nascondeva quel camuffa-mento la consapevolezza che non si sarebbe dovuto fare, che mettere il sangue e la parentela davanti a tutto e a scapito della competenza e del merito era uno schiaffo alla democrazia.
ANCHE oggi come allora il “mi manda papà” imperversa ovunque. Il nepotismo e la raccomandazione familiare rimangono pratiche costanti della nostra vita quotidiana e il “familismo amorale” un sistema che continua a differenziarci dal resto d’Europa, essendo riuscito a trasmigrare dalla Prima alla Seconda Repubblica e ora al governo dei tecnici. Basta guardarsi intorno o grattare un po’ la superficie e si trovano in tutti i campi casi clamorosi di dinastie e carriere con il turbo familiare. I ministri tecnici non fanno eccezione, a cominciare dalla loquace e decisionista Elsa Fornero per arrivare allo sbadato Michel Martone.
Con un di più e peggio come contorno: fino a venti, trenta anni fa, anche grazie a condizioni economiche meno cupe di quelle odierne, un certo ricambio sociale era garantito e il figlio di un operaio o di un impiegato poteva, impegnandosi, sperare di entrare a far parte della classe dirigente, con un futuro migliore di quello di papà. Oggi, come ripetono i sociologi, si è bloccato l’ascensore sociale e i figli dei farmacisti faranno i farmacisti, idem i notai, i professori universitari, gli ingegneri, gli architetti per non parlare degli imprenditori. E i figli della gente comune resteranno figli della gente comune.
LA DIVERSITÀ rispetto a un tempo sta nel fatto che chi partecipa da posti di comando alla nuova edizione della fiera familiare sembra guardare al fenomeno con una specie di strabismo. Quando è praticato dall’alto viene quasi dato per scontato, un dato di fatto, una faccenda di cui né inorgoglirsi né vergognarsi. Quando, invece, la volontà di conservare e se possibile trasmettere a figli e nipoti una qualche sicurezza economica e sociale, anche modesta, riguarda la gente comune, allora è rimproverata come un vizio, un pericolo per una società che deve adattarsi alla flessibilità e al dinamismo.
NON SI SPIEGANO altrimenti le spensierate sortite alla Michel Martone che neanche si accorge di offendere i giovani dicendo che chi non è laureato a 28 anni è uno sfigato, tralasciando di aver beneficiato lui di una carriera dorata, da figlio di papà. O le rampogne con il ditino alzato della Fornero contro il posto fisso, dimentica della singolare circostanza che sua figlia è in carriera nell’ateneo dove insegna lei stessa e pure il marito. O gli ammonimenti contro la monotonia sempre del posto fisso del capo del governo, tecnico preparatissimo, nipote di quel Raffaele Mattioli che fu il banchiere dei banchieri, e padre di Giovanni che ne ricalca le orme di esperto in finanza. O lo sberleffo della responsabile dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, verso i ragazzi bamboccioni che pretenderebbero il lavoro non lontano dalle gonne di mammà.
C’è una sorta di arroganza professorale in queste sortite, di chi è abituato a guardare la società attraverso le tabelle dei libri senza spesso riuscire a vedere dietro i numeri la gente in carne ed ossa. E c’è anche una specie di superficialità classista e di ignoranza della realtà medesima in quelle rampogne. Ormai arrivato il welfare italiano al lumicino causa crisi economica e un debito pubblico da incubo, è il privatissimo welfare familiare di padri, mamme e nonni a impedire ai giovani senza lavoro di morire di fame. Il familismo amorale che un tempo era davvero uno dei caratteri non migliori del nostro paese, oggi spesso si è trasformato in qualcosa di diverso, quasi uno stato di necessità, purtroppo. Invece il “mi manda papà” di chi sta nella parte alta della piramide sociale continua a essere un lusso e uno schiaffo alla democrazia. Negazione proprio di quel merito di cui il governo dei professori si è proclamato paladino.

il Fatto 8.2.12
Figlio di ministro è un po’ meglio
“Monotoni” e “mammoni” quelli degli altri, i loro hanno carriere ben avviate


Ma che “monotonia” il posto fisso. Lo diceva Mario Monti davanti alle telecamere di Matrix una settimana fa. “Monotono per chi ce l’ha”, diventò immediatamente il commento più gettonato sui social network. Ad avere posti non solo fissi, ma di tutto rispetto, sono i figli dei super tecnici di super Mario, quando non vanno ancora a scuola o all’università. Giovanni Monti, per quanto ora ufficialmente disoccupato, a 43 anni è un manager di lungo corso. Piergiorgio Peluso, il figlio di Annamaria Cancellieri, è direttore generale alla Fondiaria Sai. Lui è uno che ha girato grandi gruppi (a lungo in Unicredit) e città, forse per questo sua madre si è sentita di dare dei “mammoni” ai giovani italiani: “Gli italiani sono fermi al posto fisso nella stessa città, magari accanto a mamma e papà, ma occorre fare un salto culturale”. Proprio quel salto che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero continua a predicare in ogni sede. La sua di figlia, Silvia, però, il posto fisso ce l’ha: insegna a Torino nella stessa università della madre e del padre, l’economista Mario Deaglio. Il viceministro del Lavoro, Michel Martone è diventato Professore associato a 27 anni, potendo contare su un padre importante, Antonio, magistrat. É chiaro che gli sembrino “sfigati” quelli che a 28 anni vanno ancora all’università. Nessuna pietà da parte dei professori di Monti nel bistrattare, per ora solo a parole, i giovani italiani e nel fornire lezioni di vita, puntando il dito contro le loro inadeguatezze non solo professionali, ma pure psicologiche. Che l’Italia sia un paese di “bamboccioni” l’aveva detto già Tommaso Padoa-Schioppa. Ma un fondo di verità in tutte queste impietose definizioni c’è: la famiglia è la rete sociale che più funziona, l’unica che protegge. Lo confermano anche le storie dei figli del governo dei Professori: Maddalena Gnudi, lavora da commercialista nello studio del padre, Costanza Profumo fa l’architetto in un prestigioso studio di New York, Carlo Clini lavora a Bruxelles per la Regione Veneto, Luigi Passera ha fatto la Bocconi e ora è entrato alla Procter & Gamble, Eleonora Di Benedetto, è avvocato nello studio della mamma Paola Severino dalla quale ha ereditato i clienti prestigiosi.
Questione di opportunità. E – al di là del merito – di occasioni. Quale super tecnico le negherebbe ai propri figli?

il Fatto 8.2.12
Quelli che il posto fisso ce l’hanno in Parlamento


C’è chi il posto fisso ce l’ha in Parlamento: sono in 12 i deputati che sono parlamentari da oltre 20 anni, ben 82 quelli che ci hanno passato dai 15 ai 20 anni, 107 tra i 10 e i 15. Stessa situazione per i senatori: in 13 sono in Parlamento da più di 20 anni, in 45 dai 15 ai 20 anni, in 67 da 10 a 15 anni. Per stare a Montecitorio, Giorgio La Malfa siede in Parlamento da oltre 37 anni, Mario Tassone da oltre 33, Francesco Colucci da oltre 32, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini hanno superato i 28, Riccardo De Corato, Livia Turco e Teresio Delfino da più di 24, Giuseppe Calderisi e Calogero Mannino da più di 23, Massimo D’Alema da più di 22 e Umberto Bossi da più di 20. A Palazzo Madama, Beppe Pisanu, con oltre 37 anni, contende il record a La Malfa. Altero Matteoli, Filippo Berselli e Carlo Vizzini hanno superato i 28. Luigi Grillo, Francesco Pontone, Domenico Nania, Anna Finocchiaro hanno superato i 24, mentre Giulio Camber ha superato i 22. Più di 21 anni in Parlamento per Adriana Poli Bortone e più di 20 Emma Bonino, Maurizio Sacconi e Alfredo Mantica.

Corriere della Sera 8.2.12
L'Italia unita divisa dalla scuola
Al Nord la spesa media per alunno è pari a 1.461 euro, al Sud è di 716
di Gian Antonio Stella


«A i figli regalategli un lager», fu il titolo del Foglio a un articolo scritto da Amy Chua su The Wall Street Journal per spiegare perché lei e le altre mamme cinesi sono certe che «si deve essere durissimi con i pargoli: "Per imparare bisogna soffrire"». Spiegava la signora che «quando i genitori occidentali pensano di essere rigorosi, di solito non si avvicinano nemmeno alle mamme cinesi. Ad esempio, i miei amici occidentali che si considerano severi fanno esercitare i figli sui loro strumenti musicali 30 minuti al giorno. Un'ora al massimo. Per una madre cinese, la prima ora è la parte facile. Sono la seconda e la terza ora quelle difficili».
C'è chi dirà che è una follia: tirato su a bacchettate quel figlio sarà poi sereno, equilibrato, creativo? La discussione è aperta. Ma un punto appare sicuro: i genitori orientali sembrano più decisi di noi a incidere sull'educazione dei figli nel quotidiano affiancamento alla scuola.
Lo confermano un paio di dati presi da L'Italia che va a scuola (Laterza), un libro in cui Salvo Intravaia, professore in un liceo palermitano e collaboratore di Repubblica, fotografa un mondo che tocca un italiano su quattro che «ogni mattina si alza per recarsi a scuola: gli alunni per studiare, i genitori per accompagnare i figli, e il personale — docente e non docente — per lavorare».
Scrive dunque l'autore che di anno in anno, a partire dal ‘90, le elezioni per i consigli di classe vedono l'affluenza calare, calare, calare. Fino a scendere in certi casi, come per le «superiori» in Sardegna, sotto il 4 per cento. Certo, il distacco non può avere come unica unità di misura la sfiducia in un organismo che evidentemente ha deluso. Ma anche questa è una conferma di una cosa che maestri e professori assaggiano tutti i giorni: i genitori italiani, pronti a scatenare l'iradiddio se i figlioli portano a casa un brutto voto, sono generalmente distratti.
Se non lo fossero potrebbero mai accettare certe storture denunciate da Intravaia? Manderebbero sereni i figli a scuola sapendo che il 92 per cento (dato Cittadinanzattiva) o il 93 (dato Legambiente) delle scuole costruite prima del 1990, tre su quattro, necessiterebbero d'urgenti interventi? Accetterebbero i tagli sapendo che l'Italia spende per l'istruzione il 6,7 per cento del Pil contro il 7,9 della Finlandia, l'8,7 del Regno Unito, l'8,9% della Danimarca, il 10,3 dell'Irlanda?
Vale soprattutto per i genitori del Sud, che alla faccia dello stereotipo sui mammoni, sono i più assenti: come possono accettare certi squilibri? Complessivamente «tra le diverse Regioni italiane si presentano grosse differenze. Al Nord la spesa media per alunno nel 2009 è stata pari a 1.461 euro. Una cifra leggermente più bassa, 1.387 euro ad alunno, si spende nelle quattro Regioni centrali. Ma quando si passa a quelle meridionali (…) l'investimento precipita a 716 euro per alunno». È accettabile, 150 anni dopo l'Unità?

Repubblica 8.2.12
Se le banche lanciano i bond della morte
di Stefano Rodotà


NELLA frenetica ricerca di nuovi "prodotti finanziari", con i quali continuare ad intossicare il mercato, la riverita Deutsche Bank ha superato ogni limite, facendo diventare la vita stessa delle persone oggetto di speculazione. Il caso si può così riassumere. Si individua negli Stati Uniti un gruppo di cinquecento persone tra i 72 e gli 85 anni, si raccolgono con il loro consenso le informazioni sulle condizioni di salute, e si propone di investire sulla durata delle loro vite. Più rapidi sono i decessi, maggiore è il guadagno dell´investitore, mentre il profitto della banca cresce con la sopravvivenza delle persone appartenenti al campione. Sono così nati quelli che qualcuno ha definito i "bond morte".
Molte sono state le reazioni: la stessa Associazione delle banche tedesche ha detto che «il modello finanziario di questo fondo è contrario alla nostra morale e alla dignità umana». Ma il fatto rimane, segno inquietante di che cosa stiano diventando i nostri tempi. La vita entra senza riserve a far parte del mercato, è puro oggetto di calcolo probabilistico, è consegnata a uno dei tanti algoritmi che ormai regolano la nostra esistenza. E tutto diventa ancor più inquietante se si guarda alla composizione del campione. Si scommette sugli anziani, un gruppo che già conosce forme crescenti di discriminazione, con l´esclusione della gratuità di taluni farmaci e con il divieto di accesso ad una serie di trattamenti sanitari.
Non più produttiva, la vita degli anziani diventa "vita di scarto", la loro dotazione di diritti si impoverisce, appare incompatibile con la logica dell´economia. Si scivola verso un "grado zero" dell´esistenza, con il trascorrere degli anni si entra in un´area nella quale si è sempre meno "persone", disponibili come di uno dei tanti oggetti con i quali si costruiscono i prodotti finanziari. Tra il mondo delle persone e quello delle cose non vi sono più confini, si stabilisce un perverso continuum.
Non voglio evocare con colpevole superficialità tragedie del passato. Ma la decisa reazione dell´Associazione delle banche tedesche non si comprende se si ignora che proprio lì, negli anni del nazismo, la formalizzazione giuridica delle "non persone", gli ebrei in primo luogo, portò a considerare vita e corpi come oggetti disponibili per il potere politico e medico. Oggi il potere sommo della finanza pensa di avere titolo per impadronirsene, in un modo immediatamente meno distruttivo, ma che porta con sé l´insidia della vita come merce.
Non a caso i banchieri tedeschi evocano la dignità, la barriera che si volle levare contro la perversione giuridica del nazismo, scrivendo in apertura della costituzione tedesca che "la dignità umana è inviolabile". È ragionevole ritenere, allora, che i giudici tedeschi sapranno intervenire in maniera adeguata se quel prodotto finanziario continuerà a circolare. La questione è della massima rilevanza, perché tocca il tema attualissimo del rapporto tra libertà economica e diritti fondamentali. Nel 2004, la Corte di giustizia europea pronunciò una importante sentenza, indicando proprio nel rispetto della dignità umana un limite insuperabile nell´esercizio dell´iniziativa economia privata. Sentenza giustamente citata, ma che non può far dimenticare che la Costituzione italiana quel limite lo ha già esplicitamente segnato.
Nell´articolo 41, infatti, si afferma che l´iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi "in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Questa non è la rivendicazione di una primogenitura, dell´abituale lungimiranza dei nostri colti costituenti. È la sottolineatura di un rischio che stiamo correndo, visto che decreti di ieri e di oggi si aprono proprio con forzature interpretative che vogliono imporre letture dell´articolo 41 tutte centrate sulla preminenza della libertà economica. Queste letture riduzioniste e "revisioniste" sono costituzionalmente inammissibili, e sarebbe bene che ne avessero memoria tutti coloro i quali invocano un ritorno della politica, che non è possibile se vengono recise le radici dell´ordinamento repubblicano.
La dignità umana non è violata solo in casi limite come quello dei "bond morte". È violata quando si capovolge il rapporto tra principio di dignità e iniziativa economica, attribuendo a quest´ultima un valore prevalente, come si cerca di fare oggi in Italia. L´esistenza "libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, viene negata quando una considerazione tutta efficientistica del lavoro affida la vita delle persone al potere dell´economia, consegnandola alla logica della merce. Indigniamoci per le cose tedesche, ma diamo uno sguardo anche in casa nostra.

Repubblica 8.2.12
Ospedali psichiatrici
Chiuse per sempre le galere dove si rinchiudono i "matti"


È un passaggio rivoluzionario, salutato come una svolta nel mondo della carcerazione, che porrà fine ad abusi, violenze, clamorosi errori. È già fissata una data, primo febbraio 2013, giorno in cui chiuderanno per sempre le porte dei sei ospedali psichiatrici giudiziari, quelli dove - per usare un orribile espressione - finiscono i "matti". Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino. Ben 1.387 detenuti uomini e 98 donne, in una capienza per 1.337 persone. Non è certo il sovraffollamento il dramma più grave di queste strutture, bensì il loro degrado e i meccanismi con cui ci si può finire dentro e restarci. Chi avversa la chiusura, come il Pdl, dice che non ci sono alternative. Chi è a favore replica che, una volta chiusi, le alternative si troveranno.

Corriere della Sera 8.2.12
Mobilitazione per l'«usuraia» condannata a morte in Cina
di Marco Del Corona


PECHINO — I trent'anni di Wu Ying sono pochi ma pesanti, fino a schiacciarla. Era giovanissima quando cominciò a lavorare da apprendista nel salone di bellezza di una zia, ancora giovanissima quando mise in piedi il suo primo business ed è giovane adesso che la Corte suprema dello Zhejiang ha confermato la condanna a morte per frode. Soldi raccolti attraverso il sistema creditizio illegale e non restituiti dopo il fallimento di temerarie operazioni imprenditoriali: 770 milioni di renminbi, quasi 100 milioni di euro. Arresto nel 2007, prima condanna nel 2009. Soltanto nel 2006 l'autorevole classifica dei super ricchi Hurun aveva stimato la fortuna di Wu Ying e del suo gruppo Bense in 3,8 miliardi di renminbi.
Fin qui sarebbe una tragica, quasi normale storia cinese, sullo sfondo di una provincia — lo Zhejiang, da dove proviene gran parte dei cinesi «italiani» — nella quale la bolla delle banche fuorilegge, dell'industria dei prestiti usurari che integrano o surrogano il credito regolare, ha fatto intervenire persino i vertici di Pechino. Ma il caso di Wu Ying ha sollecitato una mobilitazione che accomuna accademici, intellettuali e frequentatori dei forum online, tutti concordi nel contestare l'esagerata durezza del verdetto. Ora si aspetta la ratifica o il no della Suprema Corte del Popolo, l'organismo cui dal 2007 tocca l'ultima parola in materia di pena capitale.
Qualcosa di simile accadde nel 2008, quando personalità dell'arte e della cultura fecero circolare (invano) una petizione per salvare la vita a Yang Jia, ventottenne vittima di abusi da parte della polizia vendicatosi massacrando a coltellate sei agenti. Stavolta però il dibattito è meno emotivo e più articolato. Mentre lo scrittore e blogger Han Han è «dispiaciuto» di non essersi dedicato alla causa di Wu Ying come doveva, molta voce in capitolo hanno i giuristi. Il direttore dell'istituto di Legge dell'Università dello Zhejiang, Gao Yandong, parla di «irragionevolezza degli amministratori e degli investitori» e un docente della scuola provinciale del Partito comunista, Wu Jinliang, biasima «la mentalità di correre dietro i propri interessi e di arricchirsi in fretta» che costituisce «l'humus sociale» del dramma di Wu Ying. Un altro professore, Li Youxing, denuncia: «Quando i prestiti cosiddetti privati funzionano bene, le autorità tacciono e acconsentono. Quando ci sono problemi, colpiscono. Bisogna riflettere...». I non specialisti sottolineano che colpevoli sono anche coloro che hanno versato i renminbi accettando di partecipare alla «raccolta di fondi pubblici» poi condannata dai giudici.
Chi ha preso a cuore la vicenda spera che l'autorevolezza dei rilievi sia colta dalla Suprema Corte, tanto più che l'anno scorso sono stati ridotti da 68 a 55 i reati che prevedono la pena di morte, prova di un clima meno forcaiolo. Gli scettici invece notano che Wu Ying in carcere ha fatto i nomi di una decina di funzionari cui pagava tangenti e che un paio di dirigenti si sono premurati di insistere perché la donna venga giustiziata. Né sfugge che, se per i politici corrotti la condanna a morte è quasi sempre accompagnata da una sospensione, a Wu Ying non è stato concesso nulla. Padre e avvocato si battono per lei: la giustizia chissà.

Repubblica 8.2.12
Viaggio negli Usa del leader che presto prenderà il posto di Hu Jintao A Washington incontro Obama: vertice tra i due "padroni del mondo"
L’ascesa di Xi Jinping la Cina trova un nuovo Mao
Ex governatore e ex capo del partito a Shanghai, ha una figlia che studia ad Harvard
Chimico ed ingegnere fu considerato un "bambino prodigio"
di Giampaolo Visetti


San Valentino sta per benedire l´incontro tra due aspiranti partner molto speciali. Il 14 febbraio il vicepresidente cinese, Xi Jinping, ha appuntamento alla Casa Bianca con il presidente americano Barack Obama. Il primo è uno semisconosciuto tecnocrate di Pechino, fino ad oggi noto in patria solo in qualità di marito dell´affascinante cantante pop Peng Liyuan. Il secondo è il leader uscente degli Usa, consegnato alla storia come il primo presidente di colore. La coppia presenta una singolare qualità: considerate le difficoltà dei repubblicani statunitensi, alla fine del 2012 i due si trasformeranno giocoforza nel tandem destinato a guidare il pianeta nel prossimo quinquennio. La rielezione di Obama, crisi permettendo, appare assai probabile. L´ascesa di Xi Jinping al trono del partito comunista cinese, per dieci anni, è invece certa. La differenza tra le prime due potenze del mondo è semplice: gli americani sono chiamati alle urne, i cinesi no. Grazie a questo dettaglio, di Obama si sa quasi tutto e di Xi Jinping quasi niente. Il fatto che la seconda economia del pianeta si appresti a farsi governare da un mistero vivente è la ragione che spiega l´eccezione al protocollo promossa dalla Casa Bianca e accolta con entusiasmo nella Città Proibita: Obama vuole conoscere personalmente e in anticipo l´uomo con cui dovrà misurarsi nel corso del suo secondo mandato. La trasferta, tra il 13 e il 22, porterà Xi anche in Irlanda e Turchia. Conclude un lungo giro di visite di cortesia, iniziato da un paio d´anni e che già ha informalmente accreditato il successore di Hu Jintao anche in Europa.
È però il primo viaggio in cui Xi Jinping viene ufficialmente presentato da analisti e media internazionali, cinesi compresi, come il «nuovo leader» di Pechino. Obama, per capire chi è, non ha scelto a caso il giorno di San Valentino. Le primarie repubblicane scoppiano di retorica anti-cinese, argomento estremo per recuperare i voti dell´America atterrita dal suo tramonto. Lo stesso presidente, nel discorso sullo stato dell´Unione, è stato costretto ad agitare lo spettro dell´invasione-gialla. Il momento era dunque perfetto per dimostrare al Paese il coraggio di afferrare il toro per le corna, tendendo allo stesso tempo la mano al proprio, preoccupato e stizzito, banchiere dell´Oriente. La posta in palio porta a concludere che alla Casa Bianca, tra i due innamorati-obbligati, la festa si risolverà felicemente ma in bianco. Il presidente Usa, fermo e conciliante, ufficialmente non può assumere impegni successivi all´autunno. Il vice-presidente cinese, deciso e trionfante, non può invece prendere decisioni prima.
A Washington e a Pechino tutta l´attenzione si concentra così sull´uomo dell´Oriente, cresciuto come «figlio di» e maturato come «marito di». Fino al 18° congresso del partito comunista cinese, in ottobre, essere la spalla di qualcuno è il destino del «delfino di» Hu Jintao. Per Xi Jinping la liturgia del potere, che per la terza volta annuncia un passaggio di consegne autoritario ma naturale, prevede la leadership del partito in autunno, la presidenza della nazione nel marzo 2013 e il controllo dell´esercito nel 2014. Il suo profilo supera però l´apparente continuità del regime e incarna già oggi la consumazione di un mutamento storico della Cina. Hu Jintao, 68 anni e discepolo di Deng Xiaoping, chiude l´epoca dell´ideologia ossessionata dalla repressione politica interna e dall´apertura al capitalismo. Xi Jinping, 58 anni e allievo del riformista Hu Yaobang, defenestrato alla vigilia della rivolta di piazza Tiananmen, inaugura l´era della quinta generazione dopo Mao Zedong, investita da una sola missione: rendere la Cina stabilmente ricca e proiettare il suo potere all´esterno. Il profeta del nuovo imperialismo capitalcomunista ha le carte in regola. Figlio di Xi Zhongxun, compagno di rivoluzione di Mao e da questi epurato per due volte, come tutti i cinesi è stato educato dalla sofferenza. Sottratto alla scuola per purgare il padre, durante la Rivoluzione Culturale ha trascorso sette anni in campagna ad allevare maiali. Viveva in una grotta quando gli fu concesso di tornare nella capitale e di laurearsi in chimica ed ingegneria. Bambino prodigio della scuola del partito, leader dei «principini rossi» di sangue reale, conservatori e contrapposti ai «tuanpai» riformisti di estrazione popolare, si è affermato alla fine degli anni Novanta come governatore di Fujian e Zhejiang e infine capo del partito di Shanghai. Oltre a basso profilo, incorruttibilità, prudenza e impressionante capacità di lavoro, è accreditato di una dote: sa creare e tutelare capitali altrui, pubblici e privati. È questa capacità di creare ricchezza che sta per regalare alla Cina la prima first lady glamour della sua storia. Xi Jinping, partendo dallo Iowa prima di incontrare la figlia che studia ad Harvard, riscopre l´ultimo mistero del suo passato americano. Era il 1985, prima visita negli Usa come esperto di trasformazione del letame in energia. Da una porcilaia alla guida del mondo in 27 grigissimi anni. Per questo Obama vuole capire chi è il suo partner di San Valentino: e teme il regalo cinese che l´ex «figlio di» gli porterà.

Repubblica 8.2.12
"Quattrocento bimbi uccisi in Siria"
La denuncia dell’Unicef. Lavrov incontra Assad, la Farnesina ritira l´ambasciatore
Dopo il veto all’Onu Mosca fa da paciere Lavrov incontra Assad: "Cessare le violenze"
di Alix Van Buren


Il russo Sergei Lavrov arriva a Damasco in un tripudio di folla. Latore di un messaggio confidenziale del Cremlino - probabilmente un ultimatum perché cessino le violenze e s´affrettino le riforme, o si spalancherà la via a un intervento militare esterno - Lavrov si candida alla parte del paciere «in extremis». Questo, dopo lo sgambetto di Russia e Cina al Consiglio di sicurezza dell´Onu col veto alla risoluzione in sostegno di un cambiamento di regime in Siria. Il ministro degli Esteri di Mosca, accompagnato dal capo dell´Intelligence Mikhail Fradkov, è salutato da schiere di manifestanti filo-regime al grido di "Russia! Russia!" in un revival di aria da Guerra fredda. Su uno sfondo del tutto contrastante, a 162 chilometri di distanza, a Homs continua l´offensiva che da quattro giorni insanguina la città ribelle, e dall´estero una nuova sfilza di Paesi ritira i propri ambasciatori.
Dopo Washington e Londra, anche Italia, Francia, Belgio, Olanda, Spagna e le nazioni del Golfo richiamano i propri inviati. Non è il passo definitivo - la rottura dei rapporti diplomatici - ma la misura approfondisce l´isolamento della Siria, o meglio la spaccatura fra due fronti internazionali: America, parte dell´Europa, Turchia e sovrani arabi da un lato; Russia, Cina e parte dei Paesi emergenti dall´altro.
La visita di Lavrov coincide con nuovi scontri a Homs: stando agli attivisti, si contano oltre 90 vittime da lunedì, mentre il governo calcola 30 morti fra le forze dell´ordine. Il ministro dell´Interno dice che «le operazioni contro i gruppi terroristi continueranno finché la legge e l´ordine saranno ristabiliti». L´Unicef denuncia «un bagno di sangue che ha coinvolto oltre 400 bambini» con notizie di minorenni «arrestati arbitrariamente, torturati, abusati sessualmente». «Tutto questo deve finire. Anche un solo bambino morto in una violenza è una morte in più che non possiamo permettere», dice il direttore generale Anthony Lake. L´Onu ferma il computo a 5400 vittime «nell´impossibilità di confermarne il numero»; il regime ne conta oltre 2000 dei suoi. In queste cifre c´è necessariamente un elemento di congettura. Come in ogni guerra, la manipolazione dei dati è evidente.
Bersaglio delle ire occidentali, Lavrov si mostra accomodante. La missione a Damasco, dice, «è stata molto produttiva». Sostiene il piano arabo del novembre 2011, fondato sui tre pilastri della fine delle violenze, il dialogo con tutte le parti, il "no" fermo a un intervento militare esterno. Assad ha assicurato - dice ancora il russo - che verrà indetto un referendum sulla nuova Carta costituzionale «finita di stilare ieri». Abolito il monopolio del Ba´ath - ripete - seguiranno elezioni generali. Una notizia non confermata riferisce l´apertura del Consiglio nazionale siriano a un eventuale dialogo con il regime. La "fabbrica dei rumori" di Damasco fa il nome di uno dei più coraggiosi e aspri dissidenti, Haytham Manna, disposto a tracciare una transizione pacifica verso la democrazia.
Il senso più profondo della visita di Lavrov, però, è forse nelle parole consegnate ad Assad: il monito che «ciascun leader di ogni Paese deve assumersi le propria responsabilità», e Assad «sa quali sono le sue». «È nostro interesse che le nazioni arabe vivano in pace». I russi sanno, e la storia lo insegna, che senza la Siria non si controlla il Medio Oriente. Dal 1973, dalla sconfitta dell´Egitto e l´abbraccio di Sadat all´America, Damasco è il perno della Russia nella regione. Se l´Occidente promuove la democrazia, il Cremlino vede una questione di geopolitica, il sospetto di un progetto americano nello sfilare all´Iran l´unico alleato arabo. In breve: se la Russia perde la Siria, perde il Medio Oriente.

Corriere della Sera 8.2.12
Per la sinistra del futuro
Vittorio Foa, l'antifascista che non si stancò mai di immaginare e progettare un mondo più giusto
di Andrea Ricciardi


«M i dicono che sono molto cambiato, per certuni anche troppo. Naturalmente si pensa al socialismo e alle lotte operaie su cui mi ero impegnato. Mi domando: in che cosa sono veramente cambiato e in che cosa invece sono coerente? Il mondo è così cambiato e così in fretta che sarei uno strano tipo se non fossi cambiato anch'io». Queste parole (1992) rappresentano bene l'approccio di Foa alla storia del Novecento e, parallelamente, alla propria vicenda personale. Nel 1991 pubblicò da Einaudi Il Cavallo e la Torre, autobiografia di rara bellezza anche per la forma della scrittura. Quel libro non fu solo il punto di arrivo di un percorso di profonde riflessioni, iniziato alla fine degli anni Settanta, quando Foa avviò una revisione culturale in linea con i rivolgimenti epocali che avrebbero coinvolto la sinistra dopo l'89. Da allora le riflessioni sul passato continuarono e Foa, nonostante vivesse a pieno il presente e fosse incuriosito dal futuro (da qui la voglia di progettare e di approfondire), continuò a interrogarsi sul Novecento e sull'evoluzione della propria identità.
Il libro Passaggi, domani in edicola con il «Corriere», è quasi un'integrazione, una prosecuzione dell'autobiografia. Coerentemente con il proprio carattere, Foa tentò di capire che cosa accadeva dentro e intorno a sé. I pensieri, annotati quasi come in un diario, coinvolgono aspetti intimi della sua vita e temi più generali, fasi centrali della vita politico-sindacale e questioni «pubbliche» che attengono all'economia, al diritto, alla religione, al costume. Da ogni pagina traspare la sua capacità di proporre originali chiavi di lettura, con una precisazione: Foa mai smise di dubitare, innanzitutto di se stesso. Il cerchio, per lui, antidogmatico pure nei periodi di maggior radicalismo politico-sindacale, non si poteva chiudere. Ma proprio l'impossibilità di fornire soluzioni definitive ai problemi, con gli scenari politico-culturali e socio-economici in sempre più rapida evoluzione, rende la sua ricerca, intrisa di autoironia e non priva di stoccate al vetriolo, tanto affascinante.
Scrive sulla propria formazione, su fascismo e antifascismo, carcere e Resistenza, Gl e P. d'A. Ritorna su socialismo e comunismo, sulla Cgil e il suo lavoro sindacale, sul rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Riflette sul suo essere ebreo e sulla Shoah, sulla centralità della storia, sui giovani e le donne, su snodi importanti degli anni Settanta e Ottanta, su Berlusconi e la destra italiana, sul centrosinistra, sul pacifismo e le guerre, sul Risorgimento e l'Italia liberale. Parla dei suoi familiari e degli amici, incontrati in decenni di lotte e di riflessioni sui «massimi sistemi» e su questioni apparentemente più marginali. Si interroga sul lavoro che cambia e sull'evoluzione del capitalismo, su Stato e mercato, sull'Europa e il federalismo da Ventotene all'euro.
Sul tribunale speciale, che nel 1935 lo condannò a 15 anni, nel 1991 ricorda: «Ero in carcere quando seppi che una legge aveva prorogato per altri cinque anni la vita di quel tribunale che era scaduto. Scrissi a casa rallegrandomi: se avevano ancora bisogno di specialisti per condannarci voleva dire che c'erano ancora dei giudici in Italia di cui i fascisti non potevano fidarsi. Naturalmente la mia lettera fu soppressa dalla censura». Nel 1993, forse non immaginando quanto le sue parole oggi siano attuali, scrive: «Nel decennio Ottanta i liberisti hanno creduto di celebrare il loro trionfo sbaragliando le ideologie. Ma il liberismo è una ideologia, la più sfacciata delle ideologie: l'appello al mercato non è espressione di volontà individuale ma richiamo alla disciplina verso un determinato sistema economico e sociale». Nel 1994, anno del successo dell'«unto dal signore», annota: «Inverosimile è l'accanimento anticomunista adesso che il comunismo è caduto. L'Italia di Maramaldo dà spettacolo. Forse è l'affanno di chi senza i comunisti non si sente più esistere, tanto era dipendente da loro. Altrettanto inverosimile è però il silenzio dei comunisti sul loro passato, il loro rifiuto di pensarlo».
Un contributo alla riflessione sul tema sarebbe venuto dalla pubblicazione, nel 2002, di un intenso scambio di lettere con Miriam Mafai e Alfredo Reichlin. Penetranti le considerazioni su alcuni influenti e discussi intellettuali e dirigenti politici (Berlinguer, Panzieri, Craxi, Bertinotti); su ex compagni di lotta e figure centrali degli anni giovanili (Rosselli, Gobetti, Mila, Natalia Ginzburg, il cugino Primo Levi, Bobbio, Pajetta, Diena, Carlo Levi); sui presidenti della Repubblica prima di Ciampi. A questo proposito, nel 1999, scrive: «Ne salvo solo due. Tutti gli altri, eccetto Pertini e Scalfaro, offrono un quadro di incertezza, di oscurità, tutto sommato di instabilità». Intenso il ritratto di Giulio Einaudi (1999), la cui conclusione appare particolarmente significativa anche per l'elaborazione di Passaggi: «L'ho conosciuto ragazzo saggio e consapevole di sé e l'ho frequentato da vecchio ricco di fanciullesca curiosità verso il mondo. Il giorno che uscirono le mie lettere carcerarie mi telefonò per farmi gli auguri e si invitò a cena. Appena arrivato mi disse subito che non era stato d'accordo con quella pubblicazione troppo carica di elementi famigliari e che insisteva invece perché scrivessi un libro sull'oggi e il domani, sui nodi da cui liberarmi. È quello che sto facendo».
Sempre nel 1999, ottimista e proiettato verso il futuro quasi fosse un ragazzo, scrive: «Il nuovo secolo potrebbe presentarsi poco attraente. Ma non posso cedere alla tentazione di guardare il soffitto e lasciarmi vivere finché dura. Quando si è vissuti così a lungo e così bene non si può abbandonare. Devo darmi un progetto». E a un'intervistatrice che, nell'ultimo giorno del secolo, gli chiede di dire qualcosa ai giovani sulla sinistra, Foa risponde: «Se tentiamo di descriverla non ci credono, forse è possibile proporgli di cercarla insieme». Nel 1997, sintetizzando il suo approccio alla vita, aveva scritto: «Nonostante le sue nequizie ho sempre amato il mondo ed esso mi ha ricambiato». Un rapporto d'amore che sarebbe continuato per altri undici anni, lasciando in molte persone tracce indelebili di umanità e voglia di futuro.

Corriere della Sera 8.2.12
Il carcere, gli ideali socialisti, le lotte del lavoro


Nel libro Passaggi, che il «Corriere» manda in edicola domani con prefazione di Corrado Stajano, Vittorio Foa (1910-2008) aveva raccolto nel 2000 alcune sue riflessioni di eretico della sinistra sul passato e sul futuro alla vigilia del nuovo secolo. Si tratta della quindicesima e ultima uscita della collana «Laicicattolici. I maestri del pensiero democratico», in vendita al giovedì con il «Corriere» al prezzo di 1,50 più il costo del quotidiano. Di origine ebraica, laureato in giurisprudenza, Foa aderì nel 1933 a Giustizia e Libertà e nel 1935 venne arrestato a causa di una delazione. Nel 1936 venne condannato a 15 anni di carcere dal tribunale speciale fascista. Liberato nell'agosto 1943, aderì al Partito d'Azione e fu un protagonista della Resistenza, quindi fu eletto deputato all'Assemblea costituente. Dopo lo scioglimento del P. d'A., s'iscrisse al Psi, di cui fu deputato tra il 1953 e il 1964. In quell'anno si oppose al centrosinistra «organico» e aderì alla scissione del Psiup. A partire dal 1948 militò nella Fiom e nella Cgil, di cui fu dirigente nazionale fino al 1970. Dopo la collaborazione con il suo maestro Di Vittorio, lavorò a stretto contatto con Trentin, Santi, Garavini, Pino Ferraris e altri. Dimessosi da ogni incarico sindacale, nel 1972 fu tra i fondatori del Pdup e, lasciato il Parlamento nel 1976, sospese l'attività politica dedicandosi agli studi storici e insegnando in varie università. Eletto senatore nel 1987 con la Sinistra indipendente, approvò la svolta di Occhetto e la trasformazione del Pci in Pds, a cui aderì nel 1991. Sostenitore dei Ds e dell'Ulivo, caldeggiò la nascita del Pd.

l’Unità 8.2.12
Eichmann, l’aguzzino che cercò di passare da innocente pedina
Una mostra a Firenze ricostruisce la vicenda del criminale nazista che fu processato e giustiziato a Gerusalemme
di Sonia Renzini


Imperturbabile, nella gabbia di vetro stretto tra due guardie, con gli occhiali e le cuffie, rasato e ben vestito. No, a vederlo così Eichmann non sembra quel criminale efferato che le cronache e la storia hanno rivelato, ma ora è un uomo senza potere, sconfitto dalla storia e dalla civiltà, che cerca di difendersi di fronte a quell’umanità che ha calpestato senza né scrupoli né pudore. Per conoscerlo davvero bisogna vederlo prima, quando giovanissimo simpatizza per l’estrema destra e si iscrive al partito nazista, diventa spedizioniere della morte e nel ’42, all’apice della sua carriera, mette a punto a Wannsee la soluzione finale. Istantanee sparse, ma tasselli fondamentali per ricostruire il mosaico di una figura complessa e sondare le ragioni di quella follia.
È il momento del processo, quello in cui il mondo si interroga, portato ancora una volta, oggi come nel ’61 all’attenzione dell’opinione pubblica. Attraverso le immagini che corrono sui monitor, le foto d’archivio, articoli di giornale dell’epoca, documenti e ricostruzioni storiche, testimonianze. Una traccia indelebile della nostra memoria ripercorsa nella mostra già approdata a Berlino e a Vienna e ora, per volontà della Regione Toscana e della fondazione Museo e centro di documentazione della deportazione e Resistenza di Prato diretta da Camilla Brunelli, a Firenze, alle Murate, neanche a farlo apposta tra le mura delle ex prigioni della città (fino al 18 febbraio). Di nuovo a catalizzare l’attenzione è il tentativo di difesa del gerarca nazista di uomo qualunque che eseguiva gli ordini, e ora insinua il dubbio, fastidioso e penetrante, che tutto quello orrore fosse solo un’emanazione della normalità, semplice banalità del male, come scrisse Hannah Arendt, inviata del New Yorker. Fu veramente così?
«PICCOLO INGRANAGGIO»
Eichmann si definì un piccolo ingranaggio di una macchina, la Arendt trovò inquietante che in effetti fosse uno come tanti, ma quante volte abbiamo saputo di mostri fin troppo «perbene». Eichmann è padre di 4 figli e marito di Vera Liebl e, soprattutto, è un grande servitore dello Stato, troppo. Una mappa geografica dell’Europa mostra i suoi spostamenti per lavoro, un’agenda fittissima di viaggi compiuti per essere certo di adempiere bene il suo dovere, nel suo caso si tratta di vigilare sull’effettivo sterminio degli ebrei. Come un manager moderno non esita a precipitarsi da Vienna, dove vive, a Berlino, a Praga. Non si accontenta di starsene dietro una scrivania, lui parte, arriva, si accerta. «Ero qui e dappertutto, nessuno poteva sapere quando sarei comparso», dirà Eichmann orgoglioso nel ’57 al giornalista ex Ss Willem Sassen. Una missione più che un compito. Sempre a Sassen confiderà: «Burocrate lo fui davvero, ma a questo attento burocrate si unì un combattente fanatico per la libertà del mio sangue, al quale appartengo».
Eccoli i risultati di tanta devozione, poco più in là una serie di foto mostra i volti in bianco e nero di vecchi e bambini, in mano una valigia, a volte niente, prima e dopo essere saliti sul treno diretto ad Auschwitz, in fila o ammucchiati. A Skopie in Macedonia nel ’43, a Ioannina in Grecia nel ’44, a Hanau in Assia nel ’42, a Westerbork nei Paesi Bassi e a Ž-linain Slovacchia, a Budapest in Ungheria, ad Auschwitz. È una lista lunghissima ed Eichmann la mette a punto fin nel minimo dettaglio, attento che tutto fili come deve, senza intoppi o rallentamenti, salvo darsi alla macchia quando non c’è più niente da fare. Allora cambia nome, lavora come operaio forestale, gestisce una fattoria avicola e fugge a Buenos Aires, nel ’50, dove condurrà una vita ritirata con il nome di Ricardo Klement e sarà catturato dal servizio segreto israeliano che lo confinerà in un’aula di tribunale di Gerusalemme da cui uscirà impiccato nel ’62.
È la parte più suggestiva della mostra, la Shoah diventa una realtà, ingombrante e irremovibile, il procuratore Hausner fa sfilare i sopravvissuti uno dietro l’altro, per ricordare che tutto quanto è stato vero, anche se non sembra possibile. Hanno la voce rotta, a tratti interrotta, qualcuno sviene. Inizia il compito della storia e della memoria, si tratta di capire come tutto ciò sia potuto accadere.

il Fatto 8.2.12
Un chiarimento sul Giorno della Memoria
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, anche quest’anno il Giorno della Memoria è stato per me un giorno di grande tristezza. Purtroppo, però, non riesco a liberarmi da un sottile senso di fastidio per il “monopolio” che la Shoah sembra avere rispetto a tanti Olocausti dimenticati, primo fra tutti quello della cattolicissima popolazione polacca durante l’occupazione nazista. Può aiutarmi?
Annalisa

SPERO DI SÌ. È ciò che ho tentato di fare quando ho scritto e firmato la legge sul Giorno della Memoria. Tutti hanno sofferto in modo spaventoso durante la Seconda guerra mondiale scatenata, lei ricorderà, da tedeschi e italiani, da nazisti e fascisti. Dentro quella guerra che, dal 1939 al 1945, ha provocato 20 milioni di morti e distrutto quasi tutti i Paesi europei, compresi i colpevoli (Germania e Italia) c’è stata una guerra anche più terribile e implacabile, detta “leggi razziali”, una perfetta organizzazione di morte diretta esclusivamente contro gli ebrei di ogni cittadinanza, storia, vita, Paese. Cosicché, per esempio, nella Varsavia occupata, i polacchi cattolici soffrivano molto, ma i polacchi ebrei venivano cercati casa per casa, cantina per cantina, rifugio per rifugio, ammassati nel ghetto, senza cibo o risorse di nessun genere, e poi le strade di accesso e le finestre verso la parte cristiana venivano murate in modo da impedire ogni contatto. Vi sono stati cristianissimi polacchi che hanno dato o rischiato la vita per nascondere alcuni di questi perseguitati. Ma un dettagliato documentario tedesco del 1942 mostra i soldati tedeschi trincerati intorno al muro del ghetto di Varsavia con le armi puntate e cittadini che, passando alle loro spalle, notavano movimenti di abitanti del ghetto (quasi sempre bambini) che cercavano di uscire da fenditure del muro in cerca di cibo, in modo che i soldati, avvertiti, potessero prendere la mira e uccidere. Parlo di documenti, non di cinema, fatti veri e documentati che può visionare anche oggi in una piccola sinagoga non più usata per il culto, nei pressi di ciò che allora era un altro ghetto murato, quello di Cracovia. Come forse ricorda, la fame, le malattie, l'estrema volontà di resistenza hanno portato alla insurrezione del ghetto di Varsavia e gli insorti sono tutti stati uccisi. Intanto era in funzione il sistema dei campi di sterminio e, come certo ricorda, l'Italia ha fatto la sua parte. Prima le leggi razziali (quelle italiane, volute da Mussolini, votate all’unanimità dal Parlamento italiano di allora e firmate dal re d’Italia, unico re d’Europa a mandare a morte i suoi cittadini ebrei, fra cui alcuni suoi generali e alcuni decorati al valor militare), poi gli arresti di massa dovunque in Italia (sempre intere famiglie, dai neonati agli anziani, dai sani ai malati, nel silenzio di tutti gli altri italiani), Infine il trasporto nei campi di sterminio, il solo servizio per cui le ferrovie d’Europa hanno sempre funzionato. “Monopolio”? Purtroppo, con sei milioni di cadaveri, fra cui un mare di bambini, si finisce per avere un triste e doloroso primato. Dovrebbe dare “fastidio”, come lei dice, per un’altra ragione: tanti, tantissimi, nella buonissima Italia hanno taciuto. Senza quei complici il delitto non poteva avvenire.

La Stampa TuttoScienze 8.2.12
Il talento raro che i pazienti inseguono
Senza immaginazione non sarai un buon medico
di Maurilio Orbecchi
, Psicoterapeuta

Se un uomo muore - ha scritto il grande poeta-medico americano William Carlos Williams - è perché la morte / prima si è impadronita della sua immaginazione». Siddharta Mukherjee, vincitore del premio Pulitzer con il bellissimo libro «L’imperatore del male», definito «una biografia del cancro», cita questi versi per indicare come uno dei momenti più importanti dell’agire medico sia tenere viva l’immaginazione. Si tratta di una capacità magistrale, fondamentale per la stessa terapia.
Alcuni, per esempio il famoso oncologo polmonare Thomas Lynch, descritto da Mukherjee, possiedono questa dote come un talento naturale. Ma si tratta di un talento raro, come testimoniano molti pazienti che raccontano di frettolosità, trascuratezza, freddezza, mancanza di ascolto da parte dei clinici. Quante persone escono, da una visita medica frustrati, con la sensazione di essere stati trattati in modo sbrigativo e privo di comprensione?
Il paziente, di fronte al proprio destino, aspetta le parole del medico come un assetato l’acqua. In quei momenti vi possono essere modi di fare urtanti, parole che tolgono la speranza o che, al contrario, sono talmente false da sollevare momentaneamente il morale, giusto il tempo per far ricadere rovinosamente nella disperazione.
La relazione con il paziente richiede le capacità di equilibrio di un funambolo: troppo facile, scrive Mukherjee, riscattare l’immaginazione con false promesse. Molto più difficile farlo con sfumature di verità.
La comunicazione con il paziente è una circostanza nella quale il medico deve compiere un esercizio continuo di partecipazione e di autocontrollo, in un contesto dove un eccesso di riscatto diventa illusione, mentre la sua assenza uccide l’immaginazione. Per evitare questi estremi occorre realizzare una medicina del dialogo che consenta al paziente e ai suoi familiari di sentirsi meno soli nel difficile percorso esistenziale della patologia.
Un uomo ansioso, con un tumore al polmone, ha bisogno di riscattare la sua immaginazione, prima di accettare una chemioterapia dolorosa, che potrebbe allungargli la vita. Una donna che desidera avere un bambino, di fronte alla difficoltà di rimanere incinta, ha sempre bisogno di riconciliare la sua immaginazione con la realtà frustrante che sta incontrando. In casi come questi le capacità di comunicazione del medico sono fondamentali.
Le nuove acquisizioni tecnicoscientifiche sono il motore di continue trasformazioni e grandi successi nella medicina, ma richiedono un parallelo miglioramento della qualità umana del medico, che deve essere sempre più attento alla relazione con pazienti e familiari, divenuti naturalmente più esigenti e attenti grazie all’evoluzione della cultura e della sensibilità umana.
Oggi sappiamo che la dote di Thomas Lynch, la qualità umana del medico e dell’operatore sanitario, può essere insegnata attraverso idonei percorsi di formazione. Per questo è necessario, per il personale sanitario, prepararsi con le ormai raffinate tecniche formative che prevedono lo sviluppo delle capacità d’immedesimazione, l’analisi di dialoghi, la ricostruzione di processi comunicativi, sperimentando concretamente l’impatto delle sfumature contenute nelle parole.
I medici dovrebbero venire formati e preparati alla dimensione umana della terapia fin dalle scuole di specialità. Tuttavia, senza attendere auspicabili riforme, un’occasione per sviluppare la capacità di empatia si trova oggi davanti a noi: la recente riforma varata dal governo Monti prevede sanzioni anche per i professionisti che non frequentano i corsi di formazione e aggiornamento: entro il 13 agosto 2012 i singoli ordini professionali, incluso quello che raggruppa i medici, dovranno fissare le sanzioni da applicare a chi non ottiene i 50 crediti necessari nell’ambito dell’Educazione Continua in Medicina (ECM). La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni ha stabilito che l’ECM non deve limitarsi alle parti tecniche e mediche in senso stretto, ma deve occuparsi anche degli aspetti relazionali e dell’umanizzazione delle cure. Si tratta di obiettivi che, perseguiti seriamente, permetteranno ai pazienti d’incontrare un medico in grado di aiutare a tenere viva l’immaginazione più spesso di quanto non accada oggi. Non più un’eccezione, ma un evento sempre più auspicabilmente normale."

"RUOLO: E’ SPECIALISTA IN PSICOLOGIA CLINICA IL LIBRO: MUKHERJEE SIDDHARTHA «L’IMPERATORE DEL MALE. UNA BIOGRAFIA DEL CANCRO» - NERI POZZA"

La Stampa TuttoScienze 8.2.12
“Vicini alla Particella di Dio Presto sapremo la verità”
Bertolucci del Cern: ecco le sue tracce dai nuovi esperimenti
di Barbara Gallavotti


Continua a nascondersi il bosone di Higgs, eppure ormai sembra quasi di toccarlo. L'ombra che aveva lasciato intravedere a metà dicembre, infatti, non si è dissolta, anzi è ancora lì, ostinata e forse leggermente più definita.
E’ ciò che emerge da due articoli simultaneamente sottoposti ieri alla rivista scientifica «Physics Letters B» dai ricercatori di Atlas e da quelli di Cms: i due esperimenti connessi all'acceleratore Lhc del Cern, dove sono stati ottenuti i dati accolti come la prima fotografia credibile dell'inafferrabile bosone. Il lavoro appena concluso contiene un’analisi approfondita di quei dati e la sua pubblicazione è un passo naturale. Eppure l'attesa per la «Particella di Dio», qui ai Laboratori di Ginevra, è talmente tesa che basta quasi solo nominarla per scaldare gli animi, anche nella morsa di questo rigidissimo inverno.
Il nome «Particella di Dio», detestato dai fisici e adorato da chi racconta la scienza, viene dal titolo di un libro scritto dal Premio Nobel Leon Lederman. Sembra, però, che il celebre fisico volesse riferirsi alla particella in altro modo, chiamandola «Goddamn Particle», particella dannata, epiteto meritato per la sua elusività. La scelta, tuttavia, non piacque all' editore. Così il bosone di Higgs, anziché essere la particella maledetta divenne «The God Particle», la Particella di Dio, appunto. Ma non per questo ha cessato di fare dannare i fisici. E anche in questi giorni non si è smentita.
L'analisi dei dati appena presentata, infatti, ribadisce sostanzialmente quanto era già stato annunciato a dicembre: sia l'esperimento Atlas che Cms hanno visto possibili tracce di una particella sconosciuta e, se la sua esistenza fosse confermata, non potrebbe che essere il bosone di Higgs. Questa particella avrebbe una massa compresa fra 116 e 131 Gigaelettronvolt (GeV), stando ai risultati dell'esperimento Atlas, e fra 115 e 127 GeV, stando ai risultati di Cms. Entrambi gli esperimenti poi hanno raccolto indizi molto interessanti, che restringerebbero ancora il campo, indicando per il bosone una massa compresa fra 124 e 126 GeV.
Se il bosone fosse una balena, insomma, i ricercatori avrebbero visto dei movimenti molto sospetti nell'acqua e anche stimato il peso del cetaceo. Ma ancora non si può escludere che non si tratti solo di un ribollire di onde. Ed è proprio qui che la particella rivela la sua natura dannata, perché anche per gli scienziati può essere difficile contenere l'entusiasmo (e le speranze). Così, mentre l'articolo veniva inviato a «Physics Letters B», per qualche ora è serpeggiata la voce che ormai fosse fatta e che il bosone fosse stato catturato. Un’eventualità subito ufficialmente smentita in primo luogo dai ricercatori impegnati negli esperimenti.
«L'analisi dei dati è molto chiara, e indica che ancora non possiamo dire di aver scoperto il bosone di Higgs - spiega Sergio Bertolucci, direttore della ricerca del Cern -. Ma, di certo, entro il 2012 sapremo se esiste, e che caratteristiche ha». Capire se una balena esiste può essere facile: basta localizzare lo spruzzo. Ma, se non si vede, come si può essere certi che non sia nascosta negli abissi? «Semplice, basta svuotare il mare, ed è proprio quello che faremo quest'anno», aggiunge Bertolucci.
Svuotare il mare significa esplorare tutti i possibili intervalli di energia dove l'Higgs potrebbe nascondersi ed eventualmente escluderli. Oggi gli intervalli ancora da valutare sono proprio quelli indicati dagli esperimenti Atlas e Cms e, dunque, la particella non ha scampo: se è là, verrà trovata.
Proprio in questa settimana, a Chamonix, si sta svolgendo l'annuale riunione dei fisici che lavorano all' acceleratore Lhc e dunque alla macchina nella quale vengono accelerate le particelle che, scontrandosi, danno vita ai cosiddetti «eventi», captati dagli esperimenti. Lhc, insomma, è il secchio con cui i fisici stanno svuotando il mare.
«Abbiamo appena deciso di fare diventare il nostro secchio più grande, cioè di fare avvenire gli scontri a energie maggiori, tecnicamente diciamo non più a 7 GeV ma a 8 Gev», scherza Bertolucci. Gli scontri a 8 GeV renderanno più facile esplorare la presenza dell'Higgs e, se c'è, catturarlo. Ma soprattutto, apriranno nuovi orizzonti. Ad esempio permetteranno di studiare meglio la possibile esistenza di particelle supersimmetriche, identiche a quelle che conosciamo, ma con masse molto maggiori. E, forse, consentiranno anche di individuare altre particelle dannate, come Z1, una particella utile per comprendere meglio l’ancora misteriosa essenza della forza di gravità.
Perché oggi il bosone di Higgs è la particella maledetta. Ma quando sarà stata scoperta, e quindi addomesticata, i fisici avranno bisogno di nuove sfide che sappiano farli dannare.

Corriere della Sera 8.2.12

Un nuovo libro di Edoardo Boncinelli
La vita si evolve per errore
L'adattamento all'ambiente deriva dalle «copiature difettose» del Dna

di Sandro Modeo

N el 1944 il grande fisico viennese Erwin Schrödinger pubblica un libro — Che cos'è la vita? — destinato a trasformarsi presto in un classico visionario. Solo nove anni dopo, infatti, Francis Crick e James Watson identificano il doppio filamento «a elica» del Dna, confinando l'ipotesi di Schrödinger — che vede il nostro patrimonio genetico concentrato in un «cristallo aperiodico» — nel repertorio della fantabiologia.
Con la sua competenza duplice di fisico e genetista, Edoardo Boncinelli riprende oggi proprio la domanda di Schrödinger, in un libro che smonta a ogni passaggio il pregiudizio sull'aridità-opacità delle spiegazioni scientifiche, esaltandone — a rovescio — il senso di meraviglia e di vertigine; un senso tanto più acuto quanto più quelle spiegazioni diventano dettagliate e «riduzionistiche». Omaggio a Lucrezio o meglio a Leopardi (di cui non a caso certi estratti — specie dalle Operette morali — vengono messi a sigillo finale di ogni capitolo), il libro non ha però nulla di antireligioso o anticlericale, come vorrebbe il titolo-spot (La scienza non ha bisogno di Dio, Rizzoli); semplicemente, dimostra come la visuale della scienza (l'aprirsi di nuovi paesaggi cognitivi o di un nuovo modo di guardare quelli abituali) deleghi la trascendenza ad altre discipline, dalla filosofia alla teologia.
Procedendo nella lettura, il macro e il micro (galassie e cellule, stelle e molecole) sono sempre collegati per nessi e richiami. Eppure, a libro finito, sembra di aver seguito una macchina da presa in avvicinamento-restringimento; un passaggio graduale da un telescopio a un microscopio, dalla freddezza degli spazi interstellari (appena 3° sopra lo zero assoluto, che è a -273° rispetto al «nostro» zero) alle migrazioni cellulari nel corpo umano, orchestrate nella «luce del genoma» (del patrimonio genetico). In questa messa a fuoco, Boncinelli non trascura nessuna sequenza. E se dalla scrematura cosmica della Terra (4,5 miliardi di anni fa) fino all'apparizione della prima informazione biologica, forse di Rna (700 milioni di anni dopo) tutto dipende dall'interazione tra il materiale biochimico e le condizioni dell'ambiente (la temperatura stessa, l'atmosfera, le fortissime radiazioni solari), da lì in poi la vita degli organismi viene plasmata dall'evoluzione e dalla selezione naturale. Due, soprattutto, le sequenze decisive: il passaggio degli organismi alla riproduzione sessuata (circa 2 miliardi di anni fa) e — in prospettiva antropocentrica — l'azione delle piante e dei miliardi di microrganismi fotosintetici, senza i quali non sarebbe esistito (e non esisterebbe) l'ossigeno che respiriamo.
Risultato di vincoli fisico-matematici, proprietà biochimiche e pressioni selettive, ogni essere vivente è così, nella definizione sintetica di Boncinelli, «una determinata quantità di materia organizzata, limitata nel tempo e nello spazio, capace di metabolizzare, riprodursi ed evolvere»; il tutto, però, autonomamente, come ben dimostra la differenza tra i batteri (i veri «vincitori» della lotta evolutiva) e i virus, genomi vacanti che devono parassitarsi ad altri organismi. E più in generale, per tornare alla domanda di Schrödinger, la vita può darsi solo in presenza simultanea di tre parametri: materia, energia e informazione, armonizzati in una condizione di «equilibrio dinamico» (di ordine temporaneo) all'interno di un universo tendente al disordine e alla «morte termica».
Questo equilibrio dinamico, nei viventi, è possibile solo grazie all'attività costante del Dna (o meglio del genoma). Ed è proprio qui, nella descrizione dettagliata di tale attività nell'uomo (specie nella fase dello sviluppo) che il libro trova il suo nucleo più profondo e avvincente, perché Boncinelli padroneggia come pochi tutte le fasi della complessa cadenza spaziotemporale tra i geni (accesi o silenti) e le proteine (da prodursi nel posto giusto al momento giusto); cadenza che innesca il differenziarsi e moltiplicarsi delle cellule, portandole ad aggregarsi in tessuti, organi, apparati, fino all'organismo compiuto. A una così fitta, armonica orchestrazione, contribuiscono anche, va da sé, sia certi incanalamenti molecolari casuali (quelli che determinano, per esempio, un condotto auricolare sinistro più stretto di quello destro), sia, soprattutto dopo lo sviluppo, l'ambiente e l'esperienza individuale.
L'aspetto più paradossale (in apparenza) è come questa catena di eventi e processi biologici necessiti — perché l'evoluzione non si arresti — di errori di «copiatura» nella trascrizione dell'informazione dal Dna all'Rna messaggero, cioè nella fase intermedia verso l'attivazione delle proteine e del differenziamento cellulare. La copia-Rna è infatti una strategia, «appresa» in milioni di anni, per prevenire danneggiamenti del genoma; ma l'errore (raro come quello di una dattilografa ogni 500 mila cartelle) è alla base di quelle «mutazioni» necessarie nell'adattamento degli organismi all'ambiente. Certo, le mutazioni sono anche responsabili (dal nostro punto di vista) di derive patologiche: in termini brutali, presiedono alla varietà cromatica di una farfalla e al cancro. Ma ci ricordano come la vita (in quanto evoluzione dei genomi più e prima che dei relativi organismi) sia una tessitura di continuità e variabilità, di conservazione e incessante riorganizzazione della materia.
L'implicito finale aperto del libro connette, di nuovo, il macro al micro, accomunati dalla quantità (e qualità) delle regioni sconosciute, dato che si definisce «oscura» la materia cosmica non ancora decifrata (il 90 per cento circa) e «oscuro» il 70 per cento di Dna non strettamente genico. In realtà, in tutti e due i casi si intravede più di un bagliore: nel primo caso, gli studi sulla natura dell'antimateria e delle sue particelle elusive; nel secondo, quelli sui micro-Rna, decisivi nella stessa regolazione dei geni.
Nell'esplorazione della vita, macro e micro non sono mai davvero separabili: l'uomo non può conoscere il cosmo senza conoscere se stesso, e viceversa.

Repubblica 8.2.12
Un saggio denuncia gli psico-integralisti che pretendono di curare i gay
“Quelle folli terapie per gli amori diversi”
"Usano metodi anti-scientifici che si sono rivelati del tutto inefficaci se non dannosi"
di Luciana Sica


"Analizzando le teorie riparative, il nostro libro denuncia il tentativo di trasformare la psicoterapia in una teopsicologia... Tutte le strategie che presumono di poter cambiare l´orientamento omosessuale in eterosessuale sono un elemento cruciale dei movimenti fondamentalisti religiosi: per quel loro viscerale rifiuto delle forme plurali che declinano il desiderio in modi infiniti di essere e di amare".
Dice così Paolo Rigliano, psichiatra poco più che cinquantenne, autore di Amori senza scandalo, uscito tempo fa da Feltrinelli, poi tra i curatori di vari saggi pubblicati da Cortina. Per questo stesso editore ha scritto un libro con due psicoterapeuti - Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari, si chiamano - che propone una nuova visione dell´affettività omosessuale ed esce oggi con un punto interrogativo nel titolo, Curare i gay? (pagg. 266, euro 24).
L´idea che indistintamente gli omosessuali hanno bisogno di "cure" contiene senz´altro anche una buona dose di humour, seppure involontario. Ma non sarà una risata a seppellire i fondamentalisti.
Chi sono i fautori delle terapie riparative?
«Ci sono due gruppi. Il primo è un fenomeno nuovo di matrice religiosa ed è composto non da semplici conservatori né da credenti genericamente di destra, ma da accesi sostenitori di un Ordine naturale sacro, fissato per l´eternità da Dio, che impone un´unica forma assoluta di Identità maschile e femminile. Nemici di ogni cambiamento come di ogni verifica scientifica, negano il messaggio evangelico dell´accoglienza e della valorizzazione dei diversi e non a caso avversano le teorie evoluzioniste e la stessa emancipazione femminile. L´altro gruppo, "laico", fa riferimento a vecchie teorie psicoanalitiche omofobiche, con un approccio determinista, rigido e normativo dello sviluppo umano. Teorie che si sono dimostrate del tutto infondate e ormai rigettate dalla stragrande maggioranza dei professionisti, ma puntualmente riprese anche dai terapeuti riparativi di matrice religiosa».
Almeno in Occidente, non sembrerebbe che gli omosessuali - uomini e donne - vivano così male la loro condizione... Chi sono quelli che si accaniscono in improbabili terapie per scimmiottare l´altro sesso, per diventare "diversi" da sé?
«Sono più di quanto s´immagini, per il sentimento profondo di autoinvalidazione che si radica nei gay e nelle lesbiche. Sono credenti che hanno interiorizzato come un dato naturale e giusto il disprezzo dell´omosessualità, senza criticarne i pregiudizi. Sono persone isolate, confuse e terrorizzate dalle reazioni degli altri. Sono adolescenti, spinti con sottile violenza dalla famiglia o da confessori, che hanno magari subito il rifiuto dei coetanei, se non proprio attacchi di bullismo. E anche gente sposata, che ha cercato di reprimere la propria interiorità autentica finché questo non è stato più possibile, e insegue l´illusione di ritornare all´ordine eterosessuale con cui è stata sempre costretta a identificarsi».
Nel vostro libro si legge dei "trattamenti" della Narth, la National Association for Research and Therapy of Homosexuality, fondata negli Stati Uniti ormai vent´anni fa... Ma in che consistono?
«In una miscela varia e indefinita di ammonimenti ed evitamenti, pressioni e controlli ambientali, automortificazioni e preghiere, persuasioni e autoinganni, simulazioni della "vera virilità" e autodenigrazioni colpevolizzanti per ogni sentimento omosessuale. Un vero e proprio lavaggio del cervello, che deve portare il soggetto a mistificare ciò che sente, chiamandolo con un altro nome. Per esempio, l´attrazione affettiva ed erotica omosessuale diventa "ammirazione e rispecchiamento nei veri maschi come me"».
E con quali risultati?
«L´efficacia non è mai stata dimostrata, le ricerche più serie indicano invece che non si verifica nessun cambiamento, se non sul piano dei caratteri puramente esteriori. E anche leader di primissimo piano del movimento riparativo, come l´americano John Smid, hanno ammesso che nessuno dei pazienti che si dichiarava "guarito" è mai realmente diventato un eterosessuale».
Qual è oggi la posizione delle istituzioni (psicologiche, psichiatriche, psicoanalitiche) sulle terapie riparative?
«Tutte le istituzioni hanno redatto, dopo analisi di straordinario rigore scientifico, delle chiare dichiarazioni di condanna delle pratiche riparative perché non hanno mai dimostrato alcuna efficacia, a fronte di danni assai probabili».
L´aspetto più antiscientifico non è quello di ostinarsi a declinare l´omosessualità al singolare? Com´è pensabile che i diversi siano tra loro tutti uguali e quindi possa esserci una ricetta valida per tutti? L´ideologia riparativa, voi l´avete presa molto sul serio... Riderci sopra sarà politicamente scorretto?
«Il tentativo di rendere i diversi tutti mostruosamente uguali mira ad abolire la complessità e le differenziazioni spesso insondabili della vita, soprattutto di quella erotica. Quanto a noi, ci siamo ben guardati dal cedere alla tentazione assai facile di trattarla come materia da burla. Abbiamo scelto la strada di un´analisi scientifica, culturale ed etica. Non è solo in gioco il dolore e il diritto all´umanità piena delle persone omosessuali, perché la democrazia degli affetti riguarda tutti».

l’Unità 8.2.12
Il colloquio con Daniele Vicari
«Il mio G8? Un film sul dissenso
Il regista presente nella sezione Panorama della rassegna berlinese spiega come e cosa raccontare a un pubblico straniero sulla «notte della dittatura» alla scuola Diaz. «La repressione è un tema universale»
di Alberto Crespi


È uno dei film più attesi dell’anno. Non solo in Italia. «Stanno arrivando richieste di diversi uomini politici tedeschi che vogliono assistere alla proiezione, a Berlino. C’è curiosità». A parlare è Daniele Vicari, regista di Diaz, il film sul G8 di Genova che rappresenterà l’Italia al Filmfest nel prestigioso «Panorama». Biglietti già esauriti: è, come la «Quinzaine» di Cannes, una sezione dove giornalisti e invitati si mescolano al pubblico pagante. Visioni sempre «calde», sentite, coinvolgenti. Sarà affascinante vedere Diaz in un simile contesto. Anche perché la storia, rovente e controversa in Italia, risulterà tutt’altro che neutra anche in Germania: «Quella notte, nella scuola Diaz di Genova messa a ferro e fuoco dalla polizia, su 90 persone presenti c’erano 65 stranieri. E fra questi, una quarantina erano tedeschi».
È questo il tema che ci interessa oggi, alla vigilia del festival. L’irruzione dei poliziotti alla Diaz, con le violenze che seguirono su ragazzi inermi altro che i Black Bloc -, è un pezzo cruciale della storia d’Italia: una sospensione della democrazia, una notte «da dittatura» che persino ad un rappresentante delle forze dell’ordine strappò la famosa definizione di «macelleria messicana» (citata in un altro film attualmente sugli schermi, Acab di Stefano Sollima). Ma cosa ha voluto e vorrà dire raccontare quella notte a chi italiano non è? È un problema che Daniele Vicari affronterà a Berlino, a cospetto della stampa internazionale; ma che ha già affrontato prima e durante le riprese, con i co-produttori francesi e romeni, con i molti attori non italiani, con gli stunt-men romeni coordinati da un maestro italiano del mestiere, Angelo Ragusa. Ed è ciò che gli chiediamo, alla vigilia di Berlino, di raccontarci. La Diaz raccontata agli stranieri. È stato difficile, Daniele?
«Fin dai primissimi giorni della preparazione eravamo preda di un dubbio atroce: ci crederanno? Non solo gli spettatori, ma anche coloro che il film dovevano farlo, assieme a noi italiani. Mi sono premunito in due modi. Il primo è di metodo: nel film non c’è una battuta, una frase, un gesto che non vengano dalle oltre 10.000 pagine di documenti processuali che mi sono letto in due anni di scrittura del copione. Il secondo è stato strategico: ho preparato un video di 15 minuti ad uso “interno”, con tutti i dati necessari (numero dei feriti, numero dei poliziotti coinvolti...) e una selezione delle tante immagini girate a Genova in quei giorni, tutte reperibili in internet. Soprattutto quelle filmate da un ragazzo che si era nascosto sul tetto di un palazzo davanti alla Diaz, e che aveva girato l’arrivo e l’irruzione della polizia. Una docu-fiction esplicativa, un promo del film per far capire che ci accingevamo a raccontare una cosa vera, non forzata né tanto meno immaginaria. Alcuni stranieri sapevano, ma non immaginavano a quali vertici di brutalità si fosse arrivati. Altri, soprattutto in Romania, ignoravano tutto: avevano altri problemi, nel 2001. Al termine di questo lavoro è però risultato chiaro che la Diaz, e il G8 di Genova in generale, non è una vicenda solo italiana. Per l’Italia è uno snodo storico, perché quella notte si rompe un patto consolidato fra i cittadini e le istituzioni. Comincia la strada che ci ha portato ad una crisi che non è soltanto economica, ma anche istituzionale. Ma poniamoci una domanda: nei giorni successivi, per molte ore, alcuni cittadini di paesi della Comunità europea scompaiono letteralmente nel nulla, senza che le loro famiglie vengano avvertite, senza che ci siano accuse precise nei loro confronti. In altri momenti questo avrebbe comportato problemi diplomatici enormi. Perché non succede? Perché la vicenda è più grande dell’Italia stessa. Perché tutto il mondo sta prendendo una piega che diventerà evidente due mesi dopo, l’11 settembre 2001. Pochi sanno o ricordano che in quei giorni, nel porto di Genova, c’erano i missili Patriot puntati verso il cielo. Era un’atmosfera pre-bellica, che dopo l’attentato alle Torri diventerà bellica. L’azione alla Diaz è stata una repressione del dissenso. Un tema universale, tanto più grave nel momento in cui avviene in un Paese cosiddetto democratico».
I BRAVI STUNT-MEN ROMENI
A cose ricordate, o imparate, il coinvolgimento emotivo di attori e tecnici è stato totale? «Sì. Aggiungerò che un simile film non si poteva fare senza la partecipazione anche ideale di tutti. È stato un criterio del casting, assieme al talento e alla giustezza delle facce. Vorrei spendere una parola per gli stunt-men romeni. Si sono documentati, hanno studiato i movimenti della polizia, le armi e il modo in cui venivano usate, si sono visti tutti i video che mostravano gli agenti in azione. Da lì sono partiti per ricostruire le violenze avvenute dentro la scuola. La violenza, nel film, è un personaggio. E senza la passione degli stunt-men non saremmo arrivati a un simile risultato».

l’Unità 8.2.12
Berlinale, al via il Festival più attento a politica e attualità
Sugli schermi della capitale tedesca passeranno da domani pellicole sulle primavere arabe e la guerra nei Balcani
di Gherardo Ugolini


Dalla Rivoluzione francese alle attualissime rivolte della «primavera araba» passando per le violenze del G8 di Genova e le proteste degli indignados. Fedele alla sua impostazione, la Berlinale nella sua 62esima edizione, si conferma tra i grandi festival cinematografici quello più votato alla politica e all’attualità. Il direttore artistico Dieter Kosslick, da ormai 10 anni alla testa della kermesse, ha confezionato un programma ben assortito tra nomi affermati e giovani esordienti, tra impegno sociale e glamour festaiolo. In tutto saranno ben 400 tra Concorso e sezioni minori le pellicole che dal 9 al 19 febbraio invaderanno i cinema della capitale tedesca, con relativo contorno di grandi star. Sulle passerelle rosse sfileranno tra gli altri Meryl Streep (premiata con un Orso d’oro alla carriera in attesa dell’Oscar per The Iron Lady), Angelina Jolie, il superdivo di Bollywood Shah Rukh Khan, Uma Thurman, Keanu Reeves, Isabelle Huppert, Charlotte Rampling, Salma Hayek, Antonio Banderas e Michael Fassbender.
DEBUTTO CON MARIA ANTONIETTA
Si comincia domani con Les adieux a la reine di Benoît Jacquot con Diane Kruger, Virginie Ledoyen e Noémie Lvovsky. È la cronaca delle ultime 48 ore di vita di Maria Antonietta, raccontata con la massima partecipazione emotiva e in una prospettiva che suggerisce l’identificazione con la regina condannata a morire. A contendersi l’Orso d’oro saranno in lizza 18 film tra cui Captive di Brillante Mendoza (con Isabelle Huppert nella parte di un’operatrice umanitaria che viene rapita da estremisti islamici) e In the land of blood and honey (sulla guerra in Bosnia), esordio alla regia di Angelina Jolie. All’ultimo momento è stato inserito anche White deer plain ovvero Pianura del cervo bianco del cinese Wang Quan’an, vecchia conoscenza del Festival dove trionfò nel 2007 con Il matrimonio di Tuja. Tra i titoli fuori concorso spicca l’opera sull’11 settembre di Stephen Daldry intitolata Extremely loud and incredibly close, con Tom Hanks e Sandra Bullok tra gli interpreti. Ci saranno poi Steven Soderbergh con il thriller Haywire (col duo Banderas e Fassbender) e Declan Donnellan autore di una trasposizione cinematografica del romanzo di Guy de Maupassant Bel ami.
LA PRESENZA ITALIANA
Unico film italiano in concorso è Cesare deve morire dei fratelli Taviani: in bianco e nero, interamente girato in carcere, con i detenuti nella sezione di massima sicurezza di Rebibbia che provano il Giulio Cesare di Shakespeare sovrapponendo al dramma da recitare le proprie esperienze vissute. Vedremo se Paolo e Vittorio riusciranno a conquistare il pubblico di Berlino e magari a portare a casa un premio importante dopo tanti anni di digiuno per il nostro cinema. L’Italia è ben rappresentata anche nella sezione «Panorama» con due pellicole sullo stesso argomento, il drammatico G8 di Genova del luglio 2001. La prima è Diaz – Non pulite questo sangue di Daniele Vicari con il Social Forum di 11 anni fa ricostruito negli scenari di Bucarest. L’altro film sul G8 è il documentario The Summit di Franco Fracassi e Massimo Lauria. I due registi-giornalisti erano presenti a Genova e hanno montato un intenso musaico di riprese dell’epoca, interviste e registrazioni. L’impatto risulta molto forte, al punto che il direttore Kosslick ha avuto qualche esitazione sull’opportunità di mostrare «scene talmente violente che viene da girare lo sguardo altrove».