domenica 12 febbraio 2012

l’Unità 12.2.12
Perché la sinistra ha smarrito la lezione della Costituzione
In Italia la subalternità all’egemonia liberale si è tradotta
in posizioni liberiste in economia e in una cultura istituzionale tutta incentrata su governabilità e legittimazione diretta
di Massimo Luciani


I lunghi anni Ottanta, racchiusi tra l’offensiva craxiana per la rottura dei consolidati equilibri partitici del Paese e lo choc del crollo del Muro di Berlino, hanno segnato un punto di svolta per le strategie politiche e per la cultura delle forze che, oggi, compongono il centrosinistra (aprendo una vicenda che ha esibito tratti peculiari, in parte diversi da quelli che hanno caratterizzato altre esperienze europee dei medesimi anni).
È comprensibile che la discussione si sia concentrata soprattutto sulla questione delle strategie, che aveva un’urgenza irresistibile e reclamava decisioni immediate e operative, ma gli effetti più profondi e di più lungo periodo si sono prodotti sul terreno della cultura – o, se si preferisce, della cultura politica – delle forze che furono sottoposte al duplice stress del protagonismo craxiano e della dissoluzione degli equilibri postbellici.
Già il solidarismo cattolico-sociale sembrava cominciare a conoscere, a partire da quegli anni, una fase di ripensamento e pareva subire la spinta ad accreditare più i punti di contatto che quelli di differenziazione rispetto al liberalismo e allo stesso liberismo. Ma era soprattutto nella cultura politica comunista, che pure poteva contare su un grande patrimonio, che giacevano elementi critici che rendevano difficoltoso raccogliere la sfida delle novità: almeno a un livello intermedio, la grande tradizione culturale liberale non sempre era conosciuta appieno e chi la conosceva non sempre vi si confrontava a viso aperto, senza pregiudiziali ideologiche e senza ricorrere all’argumentum ex auctoritate (che voleva che certe tesi fossero sbagliate solo perché non avevano trovato accoglienza in qualche vulgata di facile successo).
Era fatale che questi elementi di debolezza, uniti a un’ingiustificabile spinta all’abbandono del patrimonio posseduto, a torto stimato quasi interamente “vecchio” e inutile per la comprensione del “nuovo” avanzante, generassero una grave subalternità culturale, che per un verso si traduceva nell’acritica accettazione di tutto quanto si era ignorato o avversato, e per l’altro incideva sulle stesse strategie politiche, che, prive di un robusto basamento di convincimenti teorici, subivano oscillazioni, tanto più pericolose quanto più spregiudicata si faceva l’iniziativa politica di molte forze politiche avversarie.
I segni di questa subalternità culturale sono stati e in qualche caso sono ancora evidenti, e basta ricordarne alcuni. Sul piano della cultura istituzionale, ad esempio, si è a lungo dimenticata la complessità strutturale e funzionale delle democrazie rappresentative, concentrando l’attenzione sulla sola questione della governabilità e della legittimazione (pretesamente) diretta degli esecutivi, trascurando la lezione impartita dalla stessa Costituzione, nella quale era stato disegnato un complesso meccanismo di produzione della decisione pubblica, che doveva muovere dai cittadini (titolari di diritti qualificabili come frammenti di vera sovranità), passare attraverso i partiti (intesi come strumenti di partecipazione e di emancipazione democratica), delinearsi nelle assemblee rappresentative (come luogo del confronto, non solo dello scontro), definirsi compiutamente in sede di governo.
Il distorto bipolarismo italiano non è frutto soltanto del caso o delle scelte del centrodestra, ma anche di un’ideologia maggioritaria che della tradizione politica liberale sembra conoscere Schumpeter, ma non Locke o Tocqueville.
Né le cose vanno diversamente sul piano della cultura economica. Anche qui sembra che si sia abbracciato Hayek senza passare per Smith o Ricardo o, men che meno, Keynes. Anche qui la lezione della Costituzione appare dimenticata. Il suo articolo 41 garantisce, certo, la libertà dell’iniziativa economica privata, ma allo stesso tempo ne subordina l’esercizio al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Quali sono, nelle posizioni dell’attuale centrosinistra, i segni che si ritiene prioritario impegnarsi per definire cosa sia oggi, in questo momento storico, l’utilità sociale? Quali i segni che non ci si accontenta di farla coincidere con il risultato della competizione retta dai meccanismi della libera concorrenza? Eppure già i classici dell’economia politica sapevano che l’interesse generale non è la sommatoria di quelli individuali e nemmeno il risultato automatico del loro libero confronto. L’utilità sociale dovrebbe essere definita politicamente, ma chi ne è ancora consapevole?
Le parole hanno spesso una grande forza evocativa e quando si parla di concorrenza “libera” o di “liberalizzazioni” si ha l’impressione che un giogo sia stato rimosso, che l’arroganza del potere sia stata battuta. Ma non è sempre così.
Certe scelte economiche e normative implicano significative conseguenze sociali, che andrebbero considerate. Acquistare una maglietta a qualsiasi ora del giorno e della notte, certo, è una bella comodità. Ed è anche un bel vantaggio pagarla meno del solito, se si può comprarla in un grande esercizio commerciale che ha forti economie di scala. Ma tutto questo ha un costo. In termini di alterazione degli stili di vita, di deterioramento dei processi di socializzazione, di lacerazione della trama del tessuto produttivo, di riduzione delle reali opportunità di scelta, di incisione nelle garanzie effettive e concrete (quelle che contano davvero) dei lavoratori.
La retorica della sovranità dei consumatori è penetrata a fondo nella cultura del centrosinistra e ha fatto grandi guasti. Quella del consumatore è per definizione una figura apolitica o tutt’al più prepolitica. È al cittadino, al soggetto politico, che spetta la sovranità.
Anche questo è un insegnamento della Costituzione. E le forze politiche che, giustamente, continuano a difenderla hanno un dovere di coerenza, perché la Costituzione non è solo una bandiera da agitare per evitare il peggio o per evocare le ragioni unificanti della comunità politica, ma è anche e soprattutto un grande progetto di trasformazione sociale, di emancipazione della persona umana, di conciliazione delle ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza.
Credo che di questo si debba tornare a discutere.

l’Unità 12.2.12
Vent’anni dopo
Intervista a Gerardo D’Ambrosio
Mani Pulite? Il Paese perse la grande occasione per battere la corruzione
La realtà «Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: la cultura della legalità fatica a farsi strada, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola». Le campagne di delegittimazione della magistratura favoriscono il degrado etico e politico
di Rinaldo Gianola


Abbiamo perso una grandissima occasione». Vent’anni dopo Mani Pulite le amare parole di Gerardo D’Ambrosio, per una vita magistrato a Milano indagando da Piazza Fontana a Tangentopoli e oggi senatore Pd, raccontano la delusione per il fallimento di una stagione che avrebbe potuto cambiare profondamente il Paese.
Dottor D’Ambrosio, che cosa abbiamo perso?
«Abbiamo smarrito l’occasione di sconfiggere la corruzione, il cancro che avvelena la politica e l’ economia. Siamo ancora qui a invocare la cultura della legalità, altrimenti non c’è possibilità di risanamento, di rinascita, di sviluppo». Vent’anni fa, invece, la speranza di cambiare c’era davvero?
«Sì. Mani Pulite raccolse un consenso enorme nell’opinione pubblica perchè le nostre inchieste svelavano quanto fosse grave e profonda la questione morale. Spadolini e Berlinguer avevano già denunciato il degrado dei partiti, la gestione corrotta della cosa pubblica. Ma nel 1992 l’Italia comprese come la corruzione stava distruggendo l’economia. Avevamo un debito pubblico enorme, pari al 120% del Pil, eravamo in condizioni terribili, simili a quelle di oggi, con Giuliano Amato costretto ad adottare misure straordinarie».
Qual era la malattia della Prima Repubblica?
«La corsa al finanziamento illecito da parte dei partiti era massiccia, sfuggiva a qualsiasi valutazione. La corruzione si era infiltrata nella burocrazia, nell’amministrazione, i partiti decidevano chi doveva vincere gli appalti. I corrotti facevano carriera, gli onesti no».
Come reagirono i cittadini?
«All’inizio l’inchiesta ebbe un grande successo. L’opinione pubblica rimase indignata dallo sperpero di denaro pubblico. Il potere politico non reagì, anzi in molti approvarono la nostra azione e forse ci illudemmo che la classe politica avrebbe cercato di cambiare, di emarginare i corrotti, di avviare il rinnovamento. Ma non successe nulla». Perchè?
«Il clima cambiò presto, soprattutto tra i partiti. Ci fu un episodio che segnò questo passaggio. Per errore la Guardia di Finanza si presentò alla Camera per chiedere i bilanci che avrebbe potuto acquisire dalla Gazzetta Ufficiale. Fu un chiaro incidente, un equivoco, noi chiedemmo subito scusa, ma la frittata era stata fatta. Il fatto scatenò la prima forte reazione della politica contro la magistratura. Da quel momento partì una campagna di delegittimazione dei giudici che, per la verità, non si è più spenta. Iniziarono a piovere le accuse contro la Procura di Milano. Secondo alcuni facevamo troppi arresti, ma tutti i nostri provvedimenti erano accettati e firmati dal Gip. Noi perseguivamo i responsabili di gravi reati».
Le Istituzioni compresero la gravità degli episodi che emergevano da Mani Pulite?
«Il presidente Scalfaro intervenne per raccomandare che venissero allontanati dalla politica tutti coloro che erano implicati nelle inchieste. Poi ci fu il tentativo di mettere tutto a tacere, con il pacchetto Conso che venne ritirato per la nostra reazione, ma l’obiettivo era chiaro. Successe di peggio, dopo la vittoria elettorale di Forza Italia, con il decreto Biondi che voleva scarcerare gli imputati di corruzione e concussione e di fatto impedire che si perseguissero i corrotti». Voi giudici di Mani Pulite siete stati accusati di aver avuto un occhio di riguardo per la sinistra. Anche Carlo De Benedetti, recentemente, ha detto che l’inchiesta salvò i comunisti... «Pensi che nella mia carriera di magistrato sono stato accusato di essere fascista, comunista e persino di aver protetto l’ingegner De Benedetti... Non scherziamo, sono tutte balle. Le parole di De Benedetti sono gravi perchè puntano a delegittimare la magistratura. Esponenti di rilievo del Pci finirono in carcere, le inchieste andarono avanti senza riguardo per nessuno. Magistrati come Davigo e Di Pietro, poi, non potevano nemmeno essere sospettati di essere di sinistra».
Perchè Mani Pulite a un certo punto smarrì la sua forza propulsiva? «Questo, forse, è il capolavoro di Silvio Berlusconi. Se la ricorda Retequattro? Trasmetteva in diretta da palazzo di Giustizia, con Paolo Brosio che elencava gli arresti tra gli applausi dei passanti. Forza Italia vince le elezioni del 1994 sull'onda dell’antipolitica, contro i partiti che rubano. La mistificazione mediatica e politica fu enorme perchè il creatore, il leader di Forza Italia era indagato e imputato. E quando Berlusconi arriva al governo le sue misure sono coerenti con le sue responsabilità e mirano a frenare l’azione della magistratura. Ho ricordato il decreto Biondi. Quindi c’è il tentativo di cambiare il codice di procedura penale annullando le confessioni rese al pm o alla polizia, poi la ex Cirielli con il taglio dei termini della prescrizione. E siamo alla legge ad personam per eccellenza, quella per alleggerire il falso in bilancio. È una legge propedeutica alla corruzione, favorisce la creazione di fondi neri». E la sinistra? Ha commesso errori? «Dal mio punto di vista la sinistra poteva fare di più, nel Paese e in Parlamento, per la difesa della legalità. Penso che qualche volta abbia rinunciato a dare battaglia, si è adeguata per comodità, per evitare tensioni. Negli ultimi vent’anni le due brevi stagioni dei governi Prodi non hanno lasciato alla sinistra la possibilità di incidere su questi temi».
Qual è oggi la priorità del Paese?
«La legalità. Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: il Paese ha rifiutato la legalità. Anche oggi chi pratica la corruzione, chi evade le tasse non è considerato come un ladro che danneggia l’intera collettività. Eppure la corruzione vale 60 miliardi di euro e secondo la Banca d’Italia pregiudica la possibilità di investire, di creare sviluppo, occupazione. È una battaglia politica e culturale, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola, insegnare e difendere il valore della legalità».
La cronaca offre i casi di parlamentari che abusano ancora di denaro pubblico o che guadagnano milioni su mediazioni immobiliari. Che impressione ricava da questi fatti? «Un’impressione terribile. Il politico che ruba soldi pubblici va subito emarginato, denunciato. Senza esitazione, senza timidezze».
Com’è la sua esperienza di parlamentare?
«Non sono molto a mio agio. Conduco le mie battaglie, faccio proposte, ma c’è un grosso problema, inutile nasconderlo. Il sistema maggioritario, questa legge elettorale limitano la democrazia. Il deputato sa che sarà rieletto solo se si comporterà bene con i suoi dirigenti»

l’Unità 12.2.12
Psichiatri in Rete contro la legge che chiude i manicomi
Chi delinque in galera. Il delitto sia competenza del giudice La malattia del medico
L’appello corre on line. Ed è sostenuto soprattutto dagli ex colleghi di Basaglia. Motivo? Ce lo spiega Franco Rotelli, braccio destro del padre della 180: «Li vogliono sostituire con piccoli centri di detenzione. Non era questo lo spirito della riforma»
di Toni Jop


Va bene, si chiudono – ma chissà se e quando – dei luoghi ignobili gestiti in modo infame, gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma se ne apriranno tanti altri, “piccoli e carini” e sarà un passo indietro che non vogliamo, così come non lo abbiamo voluto alla chiusura dei manicomi. Una tragedia».
Chi non si unisce alle trombe, peraltro in parte umanamente comprensibili, suonate con l'approvazione del decreto che prevede la chiusura dei manicomi criminali è Franco Rotelli, psichiatra, a lungo direttore dei servizi psichiatrici triestini. Soprattutto «compagno di banco» di Franco Basaglia, braccio destro, cioè, dello scienziato che diede nome e sostanza alla legge 180, quella che decretò la fine dell'istituzione manicomiale nel nostro paese. Con Rotelli sono scesi in campo tanti altri psichiatri che con Basaglia hanno condiviso quella lunga marcia di liberazione. Medici, specialisti, infermieri, psicologi, intellettuali stanno in queste ore sottoscrivendo on line la petizione che toglie il decreto dall'altare sul quale è stato collocato anche da una popolarissima condivisione di un intento nobile: cancellare un orrore intollerabile durato troppo a lungo, dichiarato dalle istituzioni europee «luogo di tortura», una macchia nera sull'immagine dell'Italia.
«Il fatto è che sull'onda dell'emozione viene spacciata una realtà diversa da quella che si verrà facilmente a creare se le disposizioni del decreto verranno attuate – lamenta Rotelli – in netto contrasto con lo spirito e la cultura che hanno pilotato la 180». Basaglia, Rotelli, Dell'Acqua non si batterono per chiudere il manicomio smaltendo il disagio mentale in tanti altri piccoli lager più puliti e più «umani»; mai più manicomi, si disse, né grandi né piccoli, ma assistenza sul territorio, abolendo il pregiudizio della pericolosità sociale della sofferenza mentale. «E invece – prosegue Rotelli – questo decreto si incarica di cementare quel pregiudizio: tuttavia, non si è pericolosi socialmente perché si è “disturbati” ma perché si delinque. In Italia ci sono circa 600mila persone che soffrono di disturbi mentali gravi, ma solo uno su mille commette reati. Dove sta la pericolosità sociale?».
Il decreto prevede che ogni regione si attrezzi in vista della chiusura dei vecchi manicomi criminali; strutture con una quarantina di posti letto (moltiplicate per venti-trenta?), affidate alla cura del personale medico e infermieristico mentre le forze di polizia dovrebbero realizzare, ma all'esterno, una cintura di sicurezza. «Ed ecco – annota lo psichiatra – che di nuovo al medico viene imposto il ruolo di carceriere. Basta pensare che moltissimi centri di diagnosi e cura sono già luoghi di con tenzione: chiavistelli chiusi, elettrochoc. Non è abbastanza per pensarci su come l'argomento merita»?
Tutti fuori, allora? Compresi i pluriomicidi, compresi quelli che hanno ammazzato moglie e figli? Tutti nelle strutture territoriali di assistenza? «Un momento, non è ciò che vogliamo – spiega Rotelli -. Chi ha commesso un reato punibile col carcere deve scontare la sua pena, matto o non matto. La legge punisce il reato non la persona. Chi ha ucciso stia in carcere per il tempo deciso dal tribunale e qui sia seguito, curato, aiutato a capire, a cambiare. Ma se il crimine non meritava la detenzione, allora che il cittadino sia semplicemente affidato alla rete di assistenza territoriale». Quindi, il delitto torni nella piena competenza della magistratura e delle istituzioni carcerarie, il disagio mentale, invece, stia a pieno titolo nelle mani della psichiatria e dell'assistenza.
Ma questo percorso ha un costo, ovviamente. «Ottima osservazione: tuttavia, questo decreto prevede che siano spesi 120 milioni di euro per allestire i nuovi piccoli manicomi, mentre altri cinquanta milioni vadano impiegati per la parte corrente, per la gestione delle strutture. Calcolando – riflette Rotelli che sono 1400 circa i detenuti degli attuali manicomi criminali, si può osservare che vengono spesi circa 50mila euro per ciascuno di loro. E qual è la struttura sanitaria che non si farebbe carico di seguire un paziente per quella cifra?». Ma se il giudice ha rilevato che le condizioni mentali di un cittadino sono incompatibili col carcere? «Bene, allora che si armino situazioni alternative anche per i cardiopatici, i diabetici gravi etc etc. Come vedi, nemmeno la destra deve preoccuparsi della nostra posizione: sosteniamo che il delitto deve pagare dove decide il giudice, spesso in carcere, quindi, non in un manicomio piccolo e carino come prevede il decreto».

il Fatto 12.2.12
La magrezza sulle punte
di Silvia Truzzi


Mariafrancesca Garritano, étoile del corpo di ballo della Scala, in ‘La verità vi prego sulla danza’, ha denunciato una situazione generale: una ballerina su cinque soffre di disturbi alimentari. Ha scritto un libro e rilasciato un’intervista all’Observer (non a Novella 2000), rimbalzata poi sui media italiani. Le “Iene” hanno ripreso la notizia, intervistando la ballerina stessa, altre sue aspiranti colleghe e mamme delle allieve della scuola della Scala. Dal servizio non esce un’accusa alla Scala: ma discorsi, preoccupati e preoccupanti, sullo stato di salute delle ragazze. Laura si è mostrata in tv senza filtri né camuffata. Oggi ha 22 anni, non frequenta più la scuola di ballo meneghina, ma è ugualmente molto magra. Delle allieve del suo corso, ha detto, sei su otto avevano problemi alimentari. Così gravi da non avere più il ciclo mestruale per mesi, a volte per anni. Non ha incolpato nessuno, non ha fatto discorsi enfatici o teatrali. Ha semplicemente raccontato la sua storia: guardando la sua magrezza, ancora oggi, non c’è da dubitare delle sue parole. E l’osservazione vale anche per le sue colleghe. Anche la mamma di una ballerina della Scuola ha voluto portare la sua testimonianza: questa volta dando le spalle alle telecamere per non danneggiare la figlia. Ha confermato quanto sostenuto dalla Garritano. Anche lei senza urlare allo scandalo: sua figlia non ha le mestruazioni da tantissimo tempo. Però la Garritano è stata licenziata senza tanti complimenti: lede l’immagine del Teatro e della Scuola. Tutte le volte che una notizia dà fastidio, la stampa viene accusata di strumentalizzare o cercare facili sensazionalismi. Per carità: la categoria non è esente da limiti, pecche e difetti. Per di più a volte anche in malafede. E’ successo anche nella vicenda della Scala. Ecco il comunicato del Corpo di ballo: “Il sospetto che ci si trovasse di fronte a un mero sfruttamento del caso costruito ad hoc per fini personali o a uno pseudo-scoop che servisse da traino promozionale al libro della Garritano ha avvelenato ulteriormente la situazione. A leggere certi giornali (e anche alcuni comunicati sindacali interni) sembra ci sia una coraggiosa eroina che lotta solitaria contro un luogo infernale dove molte ragazze soffrono nel silenzio della omertosa complicità di tutti gli altri. Le cose non stanno così, non ci sono paladini né inferni, tutta la vicenda è stata gonfiata da alcuni giornalisti in cerca di facili scoop e dalla superficialità di chi legge”. Non si tratta di prendere le parti di una o degli altri. Semplicemente si tratta di capire se, come si sostiene, c’è un problema che riguarda la salute. È una cosa che succede anche nel mondo del calcio, dove è accaduto (e forse accade ancora) che la condizione fisica fosse sacrificata a una prestazione atletica perfetta. Il difensivismo è una pessima attitudine. Se il problema non c’è, alla Scala come altrove, basterebbe fare chiarezza. Il punto non è se Mariafrancesca Garritano cerca pubblicità, né se i giornali le fanno da cassa di risonanza. Nemmeno la reputazione di questo o quel teatro. Il punto è: le ballerine soffrono di questi problemi? Se sì - visto che si tratta di vite - chi può perché deve, se ne occupi. Mettendo da parte gli opportunismi e il problema dell’immagine. Non tutto è commercio, né commerciabile. E sarebbe bello che la parola “responsabilità” - in Italia sostituita troppo spesso dal “vabbuò” – fosse un faro e non un fastidio. Giusto per ristabilire un principio: le persone valgono di più.

La Stampa 12.2.12
Dramma carceri nella paralisi “tecnica” e politica
di Vladimiro Zagrebelsky


L’ attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch'essi sono spia del clima carcerario troppo degradato e teso per essere sopportato. Ma l'occasionale attenzione dell'opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno per giorno, ormai da troppi anni.
Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Il sovraffollamento è la principale ragione delle condizioni inaccettabili in cui la detenzione ha luogo, sia per coloro che sono in espiazione di una pena definitiva, sia per le persone che sono detenute per ragioni cautelari nel corso del procedimento. Condizioni inaccettabili in linea generale, anche se qua e là, per le migliori condizioni delle strutture e le iniziative dei direttori degli istituti, la situazione è migliore e non drammatica. Ma si tratta di eccezioni, cosicché è ormai evidente che il problema è sistemico e gravissimo. Lo ha ripetutamente detto il presidente della Repubblica. Lo ha detto in Parlamento, ed anche uscendo da visite nelle carceri, il ministro della Giustizia.
Le ricerche effettuate sulle dimensioni e ragioni del fenomeno dei suicidi in carcere sembrano indicare che il sovraffollamento è solo uno dei fattori incentivanti, mentre a esso si aggiungono altri elementi che concorrono ad aumentare la tensione interna all'istituto penitenziario, nei rapporti tra detenuti e tra i detenuti e il personale penitenziario. Ma il sovraffollamento impone al personale un sovraccarico di lavoro e lo rende più penoso; le strutture sono messe a dura prova e la loro utilizzabilità è ridotta; l'assistenza medica risulta più difficile e meno tempestiva, quella psicologica in particolare. Il sovraffollamento non è solo gravoso in sé, ma è causa di altri motivi di sofferenza aggiuntiva.
Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c'è un'evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia nulla di veramente risolutivo si muove. Il decreto cosiddetto «svuota carceri» (che il Senato dovrebbe approvare definitivamente tra qualche giorno) porta da dodici a diciotto mesi il periodo finale della detenzione espiabile in detenzione domiciliare. Poco più di 3000 detenuti potrebbero essere ammessi al beneficio. Il precedente termine di dodici mesi era stato previsto da una legge del 2010 che fu chiamata «sfolla carceri». Né uno slogan, né l'altro si rivela utile a sostituire la realtà alle speranze o ai messaggi ottimistici. I risultati infatti sono modesti, se raffrontati alle dimensioni del problema: nelle carceri si affollano 23.000 detenuti di troppo. Di troppo rispetto alla capienza e alle possibilità di una vita decente da parte di chi, privato della libertà, non lo è degli altri diritti e soprattutto non del diritto al rispetto della dignità. Non invece di troppo in assoluto, poiché il rapporto detenuti/popolazione in Italia non è significativamente diverso da quello di Paesi europei comparabili ed anzi è spesso inferiore. Si tratta di un fattore che indica che la prospettiva spesso avanzata di risolvere il problema mediante l'eliminazione dalle leggi di molte ipotesi di reato è illusoria. Si può certo depenalizzare un certo numero di reati, ma non sono questi quelli per cui si scontano effettivamente pene detentive. Le sanzioni alternative al carcere stentano ad assumere una vera incidenza nel sistema. E i programmi di aumento dei posti in carcere non sono realizzabili in tempi brevi, mentre ora urge metter fine a un’emergenza che è tale ed è insopportabile.
Negli Stati Uniti il sovraccarico delle carceri - con tutto ciò che esso comporta - è già stato riconosciuto come causa di trattamento «crudele e inusuale» e quindi contrario alla Costituzione. La Suprema Corte federale ha quindi disposto l’anno scorso che la California riduca di 40.000 il numero dei detenuti. Una sentenza e una iniziativa certamente eccezionale, ma resa obbligata dalla eccezionale gravità della situazione creata dal sovraffollamento.
In Italia è disponibile una sola misura: l’indulto. L’indulto è uno sconto di pena rispetto a quella stabilita dal giudice e si applica a tutti i condannati per i reati che il provvedimento di indulto considera (escludendo la applicazione per certi reati o per i condannati recidivi). Si può immaginare che un indulto di un anno porterebbe alla scarcerazione immediata di circa diecimila detenuti. Certo uno sconto di pena congegnato come l’indulto è per certi versi irragionevole rispetto ai criteri stabiliti dalla legge per la punizione di ciascun reato. Ma, come in passato, la logica che dovrebbe spingere ad una simile iniziativa legislativa risponde solo alla necessità di interrompere il protrarsi di una situazione oggettivamente intollerabile. E per analoga ragione all’indulto dovrebbe essere unita anche un’amnistia per un certo numero di reati selezionati tra quelli minori e di minor allarme sociale. L’amnistia, che estingue il reato, ridurrebbe la massa di 3,4 milioni di procedimenti pendenti e largamente destinati comunque alla prescrizione. Anch’essa peraltro contribuirebbe a ridurre il numero dei detenuti, che spesso scontano pene per reati minori unitamente a quelle per i reati più gravi.
In mancanza di alternative rapidamente praticabili ed efficaci, rifiutare la soluzione dell’indulto significa che si è pronti a tollerarla. Purtroppo è ciò che avviene. Il governo, alle prese con problemi di natura economica urgenti e costretto ogni giorno ad osservare il sismografo dei malumori e degli interessi dei partiti che lo sostengono in Parlamento, rinvia ad una iniziativa parlamentare. Dal Parlamento, ove sarebbe necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non arrivano proposte, perché il partito che dimostrasse di essere disponibile a sconti di pena sarebbe subito aggredito dai partiti all'opposizione, che griderebbero al tradimento del diritto dei cittadini alla sicurezza. E, in prossimità di elezioni, il rischio di pagare un prezzo elettorale è reale.
Fermo quindi il «governo tecnico» e ferma la «politica», che si ritrae da un terreno in cui i soli radicali sembrano impegnati a mantenere vivo il dibattito sui temi dei diritti e delle libertà; temi che, essendo controversi, sono scomparsi dall’orizzonte delle iniziative altrui. Perché l’emergenza economica e finanziaria in cui l’Italia si trova, tra i tanti pesi che impone, provoca anche il grave silenzio sulle questioni di cittadinanza che, sebbene (sanamente) divisive, restano inevitabili per rendere viva e civile la nostra società.

La Stampa 12.2.12
Preti pedofili
Alla Santa Sede primo round delle cause negli Usa


È stato il caso più emblematico e doloroso, finito sulla prima pagina del New York Times nel marzo 2010, l’annus horribilis dello scandalo della pedofilia: il caso di padre Lawrence Murphy – un prete che dal 1950 al 1974 aveva lavorato in una scuola per bambini sordomuti di Milwaukee abusando di centinaia di ragazzi – si è concluso nell’indifferenza generale venerdì 10 febbraio davanti alla Corte distrettuale del Wisconsin. I denuncianti del caso «John Doe 16 v. Holy See» si sono ritirati e non hanno voluto che si arrivasse alla sentenza di assoluzione per il Papa e per i cardinali Bertone e Sodano, coinvolti nella causa di risarcimento civile.
Vittoria importante per la Santa Sede, rappresentata dall’avvocato Lena, e una sconfitta per Jeff Anderson, il titolare dello studio legale che aveva tentato, in questo e in altri casi, di fare in modo che a risarcire le vittime degli abusi fosse il Vaticano. Anderson aveva cercato di ottenere giurisdizione sulla Santa Sede e sulle sue gerarchie con una teoria secondo la quale la responsabilità delle azioni di un dipendente può ricadere non solo sul suo datore di lavoro (in questo caso, la diocesi di Milwaukee), ma anche sulla Santa Sede perché il Papa può nominare - e dunque, secondo la teoria, controllare - i vescovi in tutto il mondo. Secondo questa tesi, chi controlla il «datore di lavoro» deve rispondere anche delle azioni del lavoratore.
Nel caso Murphy si sarebbe arrivati a una sentenza assolutoria per il Vaticano, che avrebbe fatto giurisprudenza. Ritirando la denuncia, anche se questo caso è definitivamente chiuso, Anderson spera di poter continuare a presentare la sua tesi presso altre corti, come quella dell’Oregon, dove rimane aperto un altro procedimento. La conclusione della vicenda non deve far dimenticare l’orrore per quanto accaduto, anche se – spiega a La Stampa l’avvocato Lena – sta a indicare che «la Santa Sede non può avere la responsabilità di controllare direttamente le azioni di più di 400.000 preti in giro per il mondo».
Quando la storia venne alla ribalta, nel marzo di due anni fa, fu scritto l’allora cardinale Ratzinger, il suo vice alla Congregazione per la dottrina della fede, Bertone, e l’allora Segretario di Stato Sodano non avevano ridotto allo stato laicale «un prete che molestò duecento ragazzi sordi». Padre Murphy, cappellano alla «Saint John’s School», era stato rimosso nel 1974 ed era stato trasferito nella diocesi di Superior, dov’era rimasto sostanzialmente ritirato senza essere più accusato di altri abusi. «È evidente che la responsabilità di fare in modo che non potesse più nuocere ricadeva sui vescovi», commenta l’avvocato Lena.
Solo nel 1996, l’arcivescovo di Milwaukee aveva investito del caso il cardinale Ratzinger, il cui dicastero all’epoca non era competente per tutti i casi di abusi (lo diventerà dopo il 2001), ma solo per quelli commessi durante il sacramento della confessione. Otto mesi dopo, Bertone, vice di Ratzinger, aveva chiesto ai vescovi del Wisconsin di istruire un processo canonico. Murphy, nel frattempo, aveva scritto a Roma, dichiarandosi pentito e chiedendo di evitare il processo a motivo delle sue condizioni di salute. La linea decisa dalle autorità vaticane al termine di un summit tenutosi il 30 maggio 1998 era stata di restringere le facoltà al sacerdote e di ammonirlo, minacciando, se non si fosse pentito, di dimetterlo dallo stato clericale. Murphy sarebbe morto il 21 agosto di quell’anno.

La Stampa 12.2.12
Incontro a porte chiuse
Benedetto XVI riunisce i cardinali dopo il caso del “corvo” Oltretevere
di Giacomo Galeazzi


«Corvi e veleni come alla procura di Palermo ai tempi di Falcone». Uno strettissimo collaboratore di Benedetto XVI sintetizza così la «guerra di carta» in corso in Vaticano. Venerdì il Papa riunirà a porte chiuse il proprio «senato» (cioè tutti i cardinali) per affrontare i problemi più urgenti della Chiesa, mentre le tensioni interne sono a livelli di guardia. Il «Fatto quotidiano» torna all’attacco, dopo aver pubblicato una lettera riservata dell’ex segretario generale del Governatorato, Carlo Maria Viganò, un appunto confidenziale sullo Ior e un memorandum su un presunto attentato ai danni del Papa. Il giornale annuncia rivelazioni sul «sacro» riciclaggio. Intanto infuria a colpi di dossier passati ai mass media lo scontro tra la vecchia gestione della Segreteria di Stato vicina al decano Sodano e l’attuale dirigenza legata a Bertone. Significativamente il Pontefice ha affidato ad un porporato fuori dalle cordate di Curia (l’arcivescovo di New York, Dolan) l’introduzione alla riunione pre-concistoro. Dietro agli ultimi scandali ci sarebbe una strategia per mettere pressione al Papa affinché cambi il 77enne segretario di Stato, Bertone. «Non parlo. Chi ha domande da fare, le ponga a chi ha consegnato il documento», si limita a dire il cardinale Dario Castrillon Hoyos, ministro del Clero durante il pontificato di Wojtyla, che, nel corso di un’udienza privata a metà gennaio, avrebbe dato a Benedetto XVI l’appunto in lingua tedesca in cui si racconta di un viaggio compiuto in Cina a novembre dall’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che ieri ha ribadito «assoluta fedeltà al Santo Padre». A Pechino avrebbe profetizzato la morte di Joseph Ratzinger entro i prossimi 12 mesi in seguito a un «complotto delittuoso». Uno scenario «fantasy» alla Dan Brown.
Nei Sacri Palazzi smentiscono le ipotesi circolate sulla finalità del blitz nel celeste impero del sodaniano Romeo (mediare per un viaggio papale in Cina). L’unica cosa certa è la visita «privata» del porporato: è durata in tutto cinque giorni, compresi i due per il viaggio, ha incontrato uomini d’affari e «interlocutori» cinesi. Nessuna missione segreta, insomma. Tra Romeo e gli attuali vertici diplomatici è gelo totale da cinque anni.

Repubblica 12.2.12
Vaticano, alta tensione dopo i veleni ma la vera partita è sulle finanze
A rischio l’ingresso nella white list anti-riciclaggio della Ue
L´ammissione della Santa Sede tra gli Stati virtuosi sarà il prossimo banco di prova per Bertone
Dietro i documenti e gli anonimi il sospetto di trame contro il braccio destro del Papa
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO - C´è uno spettro che si aggira in Vaticano, dietro i veleni insinuatisi in Curia e le lettere al vetriolo divulgate dai media. Un fantasma pronto a manifestarsi molto presto, tra pochi mesi, sotto le sembianze della Commissione Europea. A giugno, infatti, l´organismo comunitario deciderà se la Santa Sede avrà corrisposto a tutti gli adeguamenti richiesti a livello internazionale per contrastare il riciclaggio di denaro sporco, la criminalità organizzata e il traffico di droga. E valuterà se iscriverla nella cosiddetta "white list", la lista dei Paesi virtuosi in materia di transazioni finanziarie.
Una questione molto cara al Papa, che di recente, addirittura con un Motu proprio, ha dotato la Santa Sede di un nuovo ente di controllo economico interno. Un´azione portata avanti dal suo braccio destro, il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Ma in Vaticano cominciano ad affiorare forti dubbi su quella che sarà la decisione finale degli esperti europei. E chi vuole colpire non tanto il Pontificato, ma soprattutto la gestione dell´attuale segretario di Stato, potrebbe agire facendo pubblicare missive segrete, che se da un lato puntano a vendicarsi di promozioni mancate e di posti assegnati ad altri, dall´altro sono destinate a ripercuotersi con effetti molto negativi sull´immagine internazionale del Vaticano. Con il rischio di vanificare gli sforzi per iscriversi all´elenco degli Stati puliti, la "white list" appunto.
Ieri il Fatto quotidiano ha preannunciato «nei prossimi giorni» la pubblicazione di un nuovo documento sulle questioni riguardanti l´anti-riciclaggio. E il cardinale Paolo Romeo, l´arcivescovo di Palermo che nei giorni scorsi un documento pubblicato dallo stesso giornale considerava autore di una confidenza fatta in un suo recente viaggio in Cina, su un ipotetico prossimo attentato a Benedetto XVI, ha riaffermato al Papa la sua «indiscussa fedeltà e gratitudine».
Durante la messa celebrata nel quinto anniversario del suo ministero a Palermo ha ringraziato i fedeli per «la vicinanza nei momenti di fragilità», ricordando anche il viaggio del Pontefice nel capoluogo siciliano il 3 ottobre 2010. E poi ha concluso con un sibillino: «In un momento così travagliato della storia anche della Chiesa, la gente guarda alla comunità ecclesiastica».
Martedì si terrà in Vaticano un appuntamento importante. Un Consiglio dei cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede. Una riunione prevista, guidata dal cardinale Bertone e convocata per fare il punto sulla salute finanziaria dello Stato, e alla quale prenderanno parte fra gli altri i cardinali Scola, Vallini, Bertello, Calcagno, Versaldi. Potrebbe trasformarsi in un giorno di San Valentino poco idilliaco, a fronte di possibili voci dissenzienti che chiedano ragione dell´uscita di carte riservate sul caso di Carlo Maria Viganò, il monsignore spedito come nunzio a Washington, ma fino a pochi mesi fa segretario generale del Governatorato concentratosi nel combattere la corruzione interna.
L´operazione trasparenza, voluta con forza da Joseph Ratzinger, è stata portata avanti dal nuovo presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi. Di recente un gruppo di esperti legali e finanziari di più Paesi (Federazione Russa, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Liechtenstein) si sono incontrati con rappresentanti di Segreteria di Stato, Governatorato, Uffici Giudiziari, Gendarmeria, Ior, e anche dell´Autorità di Informazione Finanziaria, l´organismo di nuovo conio voluto dal Papa alla fine del 2010 e guidato dal cardinale Attilio Nicora. Il 24 gennaio scorso la Santa Sede ha poi sottoscritto tre convenzioni internazionali per rendere più incisiva la prevenzione contro forme di riciclaggio, traffico di droga e criminalità organizzata. Con documenti di ratifica e adesione firmati da Bertone.
Una nota vaticana ha reso noto che «l´esito di questa procedura sfocerà nel rapporto finale di valutazione che sarà sottoposto alla discussione», presumibilmente a metà del 2012. Sarà in gioco, con l´eventuale ingresso nell´elenco dei Paesi puliti, la credibilità finanziaria e internazionale del Vaticano.
«Il passo compiuto - ha spiegato difatti monsignor Dominique Mamberti, il ministro degli Esteri vaticano - vuole essere un ulteriore riconoscimento da parte della Santa Sede del fattivo impegno con cui la comunità degli Stati previene e combatte gravissime attività criminali transnazionali, di tragica attualità, attraverso appropriati strumenti di cooperazione internazionale». Un passo teso, nell´intenzione del Vaticano, ad adeguare l´ordinamento interno ai più rigorosi parametri normativi concordati a livello internazionale. E, in particolare, alle raccomandazioni in materia di finanziamento del terrorismo e di antiriciclaggio che arrivano dal Gafi, cioè dall´organismo intergovernativo che elabora e sviluppa le strategie di lotta al riciclaggio del denaro sporco.
Una sfida difficile per la Santa Sede, combattuta al suo stesso interno da chi, per ragioni diverse, tenta di minarne la credibilità. Ieri il cardinale Camillo Ruini, chiudendo il simposio "Gesù nostro contemporaneo", promosso dalla Cei nell´ambito del Progetto culturale, ha usato parole che possono essere lette in modi diversi. Ricordando la necessità che la missione della Chiesa «ritorni ad essere quello che è stata all´inizio: una scelta di vita che coinvolge l´intera comunità cristiana e ciascuno dei suoi membri, ciascuno naturalmente secondo le condizioni concrete della sua esistenza». Ma come ha invitato il cardinale Angelo Bagnasco, attuale presidente della Cei, a Genova, dov´è arcivescovo metropolita: «Bisogna pregare. Altro che fare».

il Fatto 12.2.12
Un giorno in America
di Furio Colombo


Quel giorno, 11 febbraio 2012, resterà certamente come il segno di un prima e di un dopo. Sappiamo qual'è il prima e sappiamo il senso di sollievo, addirittura ostentato, del presidente americano Obama.
Arriva l'Italia e non è Berlusconi. È Monti. Vuol dire che ci si incontra fra persone preparate, vuol dire che le persone sono psichicamente normali e professionalmente competenti, nei due sensi del mestiere che fanno e dell' incarico politico che rivestono. Vuol dire che si possono ascoltare con attenzione cose vere, progetti realistici e dati che sono certi e verificati.
Non c'è ipocrisia nella ritualità americana. Dunque la copertina di Time non è nè un favore nè un tentativo di provocare simpatia. Come dimostrano in modo chiaro, esplicito, ripetuto, le parole di Obama, gli Stati Uniti e il loro leader vogliono dire senza giri d parole: si sentono liberati dall'incubo, durato così a lungo, di una visita ufficiale italiana, dal tempo perduto, dal circo che occupa tutto lo spazio, dalle ridicole conferenze stampa in cui si parla esclusivamente dei nemici italiani, di oscure vicende giudiziarie italiane e di incomprensbili rivendicazioni di successi internazionali.
È VERO, Berlusconi, ai tempi del peggior presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha parlato al Congresso di Washington. Coloro che erano in quel Parlamento allora non hanno ancora dimenticato nè l'evento nè l'imbarazzo. Tutto ciò spiega il vero scatto d' entusiasmo che, a tanti livelli, l'America ha voluto tributare alla visita dell'uomo che non è Berlusconi. Come può una persuasione che che era chiaramente scritta e detta nella stampa americana nella opinione pubblica e nella vita politica (a cominciare da ambasciatori che non si sono fatti vedere e sentire finchè Berlusconi ha rappresentato l'Italia) come può una simile persuasione essere andata perduta da tanti colleghi giornalisti italiani, da tanti direttori di giornali, da tanti conduttori di " trasmissioni di approfondimento", da tanti leader di partiti di opposizione che restavano gentilmente pieghevoli di fronte alla "emergenza governo" che ha sconvolto l'Italia per tutti gli anni di Berlusconi primo ministro?
Naturalmente Monti ha portato a Wahington molto di più del non essere Berlusconi. Ma persino le qualità personali e professionali sono apparse nel grande quadro di un miracolo che forse era ormai dato per impossibile: "Fa che non sia Berlusconi". Direte: ma Obama lo sapeva, e sapeva bene chi è Monti. Certo. Ma toccare con mano e scoprire che davvero l'Italia non ha più rapporti con la finzione imbrogliona e bugiarda di un governo che non c'è, è qualcosa che è impossibile non celebrare persino con un di più di enfasi, rispetto a importanti ma normali eventi professionali di questo tipo.
L'incontro Monti-Obama avrebbe dovuto durare mezz'ora, secondo il protocollo, ed è durato un'ora. Probabilmente la prima mezz'ora è stata dedicata, come mi è sembrato inevitabile dire, alla constatazione e alla celebrazione. Ma nella seconda parte l'incontro ha preso un’impennata imprevista, che era stata anticipata quasi profeticamente dalla copertina di Time: "Può quest'uomo salvare l'Europa?" Tutto lascia credere che Obama si sia posto la stessa domanda. Anzi, l'abbia raccolta e trasformata in affermazione senza punto interrogativo. E qui emerge un aspetto inedito della storia contemporanea americana. Il presidente degli Stati Uniti chiede aiuto. Non collaborazione. Non coalizione di volonterosi, non " ciascuno faccia la sua parte".
No, una volta sicuro di avere a che fare con una persona di cui ci si può fidare, e che, per giunta, è un "professional" del misterioso regno dell'economia, dove nessuno sa dire dove e come comincia una "crisi", dove e come finisce, Barack Obama, quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti, ha chiesto aiuto per salvare l'Europa. Ovvero per mettere al sicuro l'America dal disastro che frantumerebbe il suo Paese come in un fanta-film, se l'Europa cominciasse a cadere anche solo in un punto.
Qui emergono alcune verità interessanti. La prima è che Obama non soffre della materna ottusità di Angela Merkel che crede che basti, come via di salvezza, tenere al caldo i suoi figli. La seconda è che la solitudine di Obama è grande. Ha visto giusto se pensa che di Monti ci si può fidare, ma certo non si sente al centro e a capo di un gruppo di pronto intervento politico ed economico d cui ti immagini che gli Usa siano dotati, come di quelle truppe speciali da usare in caso di terrorismo.
Obama, accanto a Monti, ha dato l'impressione di non sentirsi protetto dai suoi esperti e di non avere grande fiducia negli altri leader europei. È vero, a noi appaiono giganti, quei leader europei, perchè sono normali, educati, laboriosi, onesti nelle relazioni con i loro cittadini e non sono Berlusconi. Obama prende atto con sollievo.
Ma ha riflettuto: non si salva il mondo con personaggini litigiosi e semi-esperti che per giunta sono tormentati dalle loro elezioni. Anche Obama è inseguito dal fantasma elettorale. Ma qui emerge una delle differenze che consegneranno alla Storia Obama come leader diverso. Invece di ritirarsi a pensare a se stesso, calibrando tutto sul " ma a me giova? ", tipo Merkel e Sarkozy, Obama si sta domandando in pubblico chi potrebbe aiutarlo a fare un lavoro che va fatto adesso e subito, o la va o la spacca.
Dunque qualcosa di eccezionale, è avvenuto in questo incontro di Mario Monti con Barack Obama. Qualcosa che non era mai accaduto, e che cambierà molte cose. A cominciare dal rapporto ( è giusto dire "legame") Europa-America.

il Fatto 12.2.12
Atene. Oggi il voto sul nuovo piano di sacrifici
Le sofferenze dei greci in nome delle banche
di Marco Onado


La Grecia è in ginocchio: dopo tre anni di terapia intensiva per curare l’eccesso di debito pubblico, il reddito nazionale è crollato del 12 per cento, la disoccupazione ha superato il 20, la protesta dilaga e il governo di coalizione è in pezzi. Eppure, l’Europa non è soddisfatta e chiede ulteriore rigore. I tempi stringono: i 130 miliardi della rata di prestito concesso dal Fondo monetario e dalle istituzioni europee sono indispensabili per le necessità correnti e soprattutto per pagare gli interessi in scadenza la settimana prossima (15 miliardi). Il Parlamento greco dovrebbe votare questa sera le nuove misure imposte dai creditori. E’ probabile che alla fine Papademos ottenga i voti necessari, ma non per questo la situazione sarà risolta. Il fatto è che il problema fondamentale, quello dell’insolvenza dello Stato greco, continua ad essere affrontato in modo improprio e questo soprattutto per proteggere gli interessi delle banche internazionali e delle stesse banche centrali, Bce in testa. Il debito greco, che ha superato il 170 per cento del Pil (era il 106 cinque anni fa), non può essere ragionevolmente rimborsato e dunque i creditori devono accettare un taglio. Ma per compiere questo apparentemente ragionevole passo si sono costruiti non uno, ma tre pasticci. Primo: la misura del taglio quindi delle perdite sopportate dai creditori. Per non far troppo male alle banche, si sono concordate riduzioni nettamente inferiori a quanto la realtà avrebbe dovuto imporre: un micragnoso 21 per cento a luglio, 50 per cento a novembre e ovviamente nessuna di quelle proposte è andata in porto. Oggi si discute se arrivare al 70 per cento, ma l’accordo non arriva. Secondo pasticcio: per non creare problemi alla Bce e agli altri organismi pubblici che detengono titoli greci, l’accordo deve riguardare solo il settore privato, cioè le banche. Terzo pasticcio: sempre per evitare ulteriori problemi alle banche, il taglio viene spacciato come un accordo volontario, che non fa scattare l’assicurazione sul rischio di credito sottoscritto attraverso derivati chiamati credit default swap. Un capolavoro di ipocrisia, dietro cui si celano tutti i problemi della finanza di oggi e che è motivato dal fatto che il mercato dei Cds è cresciuto, sotto l’occhio sonnacchioso dei regolatori, al di fuori di ogni controllo, tanto che nessuno è in grado di sapere chi dovrebbe pagare quanto a chi nel caso la Grecia cadesse in un default conclamato. Nel dubbio, si preferisce non far scattare la protezione assicurativa e così le banche che hanno venduto l’assicurazione, cioè hanno incassato il premio, si tengono i soldi mentre quelle che l’hanno comprata possono utilizzare il contratto per l’uso che tutti immaginano. Chi ha avuto, ha avuto e amici come prima. Meglio così del resto che mettere in moto una reazione a catena forse inarrestabile, tanto più che le banche hanno svalutato in bilancio i loro crediti verso la Grecia e dunque l’operazione etichettata come “volontaria” non comporta ulteriori salassi per il bilancio. Nel frattempo, le banche centrali e la Bce in particolare stanno inondando di liquidità il mercato e dunque consentono alle banche facili profitti: chi osa mettere in discussione gli interessi della gallina dalle uova d’oro?
Ma chi ha comprato Cds se solo avesse interesse a porsi al di fuori del sistema, avrebbe tutte le ragioni per considerarsi come quello che ha perso nell’incendio due terzi della casa e si sentisse dire che l’assicurazione non copre i danni perché la definizione che dà delle macerie fumanti non è esattamente quella dell’incendio. Nessuno si sogna di dire che quanto sta succedendo è la dimostrazione lampante del fatto che il mercato dei Cds, come molti altri settori dei derivati, non solo è inefficiente, opaco e al di fuori di ogni controllo, ma soprattutto che è la dimostrazione di come le soluzioni della crisi dipendano sempre più non da considerazioni reali sull’economia dei Paesi e sulla loro capacità effettiva di sopportare i costi dell’aggiustamento, ma dalle esigenze del mondo della finanza.
Tutte queste considerazioni non fanno parte della real politik che guida le scelte del Fondo monetario e delle istituzioni europee nei confronti della Grecia. Spetta a Papademos che – guarda caso - fino ad ieri sedeva nel consiglio direttivo della Bce, assicurare il consenso interno. Ma come dimostrano le cronache di questi giorni, non è detto che questa nuova tornata di sacrifici, ammesso che ottenga i voti in Parlamento, venga accettata da una popolazione sempre più esasperata. Se così fosse, si apriranno due scenari molto inquietanti, che sono stati finora accuratamente nascosti sotto il tappeto. O un default conclamato che coinvolga tutti i creditori e non solo quelli privati, oppure una soluzione ancora più traumatica che associ il default all’uscita della Grecia dall’euro e forse anche dall’Unione europea. Scenari apocalittici, ma che diventeranno di drammatica attualità nei prossimi giorni.

Corriere della Sera 12.2.12
Cassandro nel 322 a. C. impose alla polis di limitare i suoi diritti
Quando i Macedoni misero Atene sotto tutela
di Luciano Canfora


Nonostante l'Europa sia debitrice di quasi tutto ai Greci e alla loro straordinaria civiltà, pochi grandi popoli hanno dovuto subire, nella loro storia, la pratica asfissiante della tutela da parte di altre potenze.
Centottanta anni fa, nel febbraio 1833, la Grecia finalmente «indipendente» si vedeva regalare dal concerto delle grandi potenze europee un sovrano tedesco, per l'esattezza bavarese: Ottone di Wittelsbach, scortato, poiché ancora in minore età, da un consiglio di reggenza tutto formato da bavaresi. Non sappiamo se Angela Merkel conosca la tremenda storia della Grecia moderna: ma certo il precedente la ingolosirebbe non poco. Nonostante l'Europa, a cominciare dagli antichi romani, sia debitrice di quasi tutto ai Greci e alla loro straordinaria civiltà filosofica, scientifica, letteraria ecc. (ma questi debiti per la Bce non contano), pochi grandi popoli hanno dovuto subire, come i Greci, nella loro storia, la pratica asfissiante della tutela da parte di altre potenze. Si potrebbe risalire molto indietro nel tempo, quando, dopo l'ultima insurrezione contro l'egemonia macedone sulla penisola (322 a.C.), agli Ateniesi, promotori dell'insurrezione, fu imposto, dal vincitore Cassandro, di cambiare il loro ordinamento politico e di limitare il diritto di cittadinanza a sole 9000 persone. Alla città che aveva dato vita al "modello democratico" fu imposto allora, dalla grande potenza dominatrice, un ordinamento timocratico, che limitava i diritti politici ai soli benestanti.
La tesi dottorale di Fustel de Coulanges si intitolava: «Polibio, ovvero la Grecia conquistata dai Romani» (1858). Il grande storico francese ricostruiva con efficacia e in modo essenziale quel lungo processo storico onde la Grecia divenne politicamente un satellite di Roma, anche se culturalmente fu Roma a ellenizzarsi. (Perciò fu detto che il vinto aveva acculturato il «feroce vincitore»). La dinamica non fu dissimile da quanto era accaduto centocinquant'anni prima con i Macedoni. Il conflitto sociale era aspro, e i ricchi, per spuntarla, invocarono la protezione della potente macchina militare della repubblica oligarchica per eccellenza: la repubblica romana. Così, la Grecia fu ancora un volta sotto tutela.
E' quello che, scavalcando i millenni, si tenta di fare oggi. Chi oggi, infatti, in Grecia più patirà delle imposizioni della «trimurti» (Ue, Bce, Fmi), sarà la povera gente, non certo i miliardari cosmopoliti. Un dato solo può rendere l'idea: l'assistenza medica è stata di fatto eliminata, ora che ad ogni cittadino greco è garantita fornitura gratuita di medicinali fino ad un massimo di 23 euro l'anno (meno di una medicina a testa per anno).
Il fine è quello di tenere in vita l'euro. Ma ai Greci — come del resto agli Italiani — non fu chiesto per referendum se desiderassero o meno «entrare» nella moneta unica che ormai viene difesa con la forza pubblica e col ricatto. Giunti a questo punto infatti ogni alternativa diventa, a dir poco, traumatica. Ma non dovrebbe sfuggire, che, se è la Germania che fa la voce grossa affinché nessuno dei popoli «discoli», che non ce la fanno più, esca dall'euro, ciò significa che è la sua economia a trarre il maggior vantaggio da questa «fortezza Europa» (come la chiamava il Führer) visto che gran parte delle sue esportazioni è in direzione dell'eurozona. (E un ritorno alle «svalutate» e abrogate monete nazionali ridarebbe alle merci dei Paesi liberati dall'euro non lieve forza concorrenziale). Non sarà facile per nessuno uscire dalla «gabbia d'acciaio», a meno che non sia la Germania stessa a calcolare che non le conviene più tenere serrati i chiavistelli.
Ma torniamo alla Grecia, vittima precipua di questa situazione il cui rimedio viene «spalmato» (come oggi si usa dire) sui prossimi vent'anni. La cattiva coscienza delle potenze europee verso la Grecia si è manifestata in un ampio arco di tempo. L'episodio emblematico dell'insediamento di Ottone era il punto d'arrivo di un ciclo apertosi per lo meno con l'attacco di Bonaparte all'Egitto (1798): colpo non da poco all'impero turco, salutato, allora, come prima tappa per la liberazione della Grecia, stroncato immediatamente dall'Inghilterra con la vittoria di Nelson ad Abukir, salvifica per la «Sublime Porta» ottomana. E quando, vent'anni dopo, esplose l'«Epanastasi», la grande rivolta nazionale dei Greci, se è vero che schiere di europei filogreci accorsero a sostegno, l'elemento decisivo fu alla fine il gioco cinico delle cancellerie europee. Nel secolo seguente, la Grecia sperimentò per prima, e sulla propria pelle, gli effetti devastanti della guerra fredda: i partigiani greci, che avevano dato filo da torcere ai nazisti, si trovarono, a guerra mondiale ormai conclusa, a combattere contro gli inglesi, ritenendo la Gran Bretagna la Grecia di sua spettanza nella spartizione dell'Europa. E la guerra, per i Greci, proseguì fin quasi all'anno «santo» 1950. Da allora il paese fu in stato di semi-occupazione e sotto stretta tutela. Quando, dopo quindici anni il vecchio Papandreu, il patriarca della dinastia, giunse al potere scalzando finalmente i governi-sgabello del dopoguerra, la libertà riconquistata durò assai poco. E nell'aprile '67 alla Grecia vennero imposti i colonnelli.
Sappiamo bene quanto limitata fosse per tutti la sovranità in quegli anni, ma solo alla Grecia fu inflitto, per tenerla sotto, un nuovo fascismo. Un grande filologo francese, oggi novantenne, Bertrand Hemmerdinger, espresse molti anni addietro, regnanti ancora i colonnelli, la propria passione per la Grecia definendosi «internazionalista e patriota greco». Non poteva prevedere che ai colonnelli sarebbero subentrati i banchieri.

l’Unità 12.2.12
Intervista a Camila Vallejo
«I liberisti hanno fallito adesso tocca a noi»
La giovane leader che ha guidato il movimento cileno è in questi giorni in Italia «Con la scusa della crisi nel mondo stanno facendo a pezzi i nostri diritti»
di Mariagrazia Gerina


Di lei, una funzionaria del ministro della Cultura cilena ha detto: «Se mata la perra y se acaba la leva», «si ammazza la cagna e ci si sbarazza dei cuccioli». Forse anche per questo, Camila Vallejo, la giovane e bellissima leader che ha portato il movimento studentesco cileno alla ribalta mondiale, ci tiene molto a non «personalizzare». «È una pratica non nuova in Cile: il governo attuale che affonda le sue radici nella dittatura attacca i dirigenti del movimento perché non ha altri argomenti. Ci sono arrivate persi-
no delle minacce di morte», racconta, facendo capire che il passato è tutt’altro che alle spalle. L’ultima novità è un provvedimento che propone il carcere fino a tre anni, per chi manifestando blocca il traffico e i mezzi pubblici. «Vuol dire che noi saremmo tutti in prigione», spiega Camila, a Roma, insieme a Karol Cariola, della gioventù comunista cilena e a Jorge Mu-
rua, rappresentante sindacale dei lavoratori, per un rendez vous con la sinistra italiana. A sera l’incontro con Nichi Vendola, Maria Pia Pizzolante e i giovani della rete Tilt. Nel pomeriggio, quello con Ferrero e Diliberto. Missione del tour che la porterà in 12 città europee: far saltare alcuni stereotipi. Su ciò che accade in Cile. Ma anche sul liberismo. «La tecnocrazia? A volte è solo un modo per mascherare decisioni ideologiche».
Che significa scendere in piazza nel Cile di oggi? Pesa ancora il passato? «La nostra Costituzione è firmata da Pinochet e non si è mai modificata. Ma la vera causa della repressione è il modello economico e politico a cui il movimento si oppone. Quello che è nato in Cile non è solo un movimento studentesco, spontaneo, ma un movimento sociale, a cui hanno partecipato lavoratori, donne, bambini. Sono questi stereotipi che vorremmo rompere con il nostro tour europeo. Soprattutto quelli che riguardano il modello di sviluppo che c’è in Cile. Ci hanno ritratti come i giaguari dell’America Latina per il nostro Pil. Ma non è così».
Quale è l’altra faccia del Cile?
«Il modello economico neoliberista che vige da noi ha privatizzato i diritti, diviso il Paese, prodotto disuguaglianza sociale».
Non vale solo per il Cile.
«No, infatti, i miti che vogliamo far saltare riguardano anche il “primo mondo”. In un paese ricco come la Germania, la disuguaglianza è comunque molto forte. È il modello capitalista il problema».
Non sono più solo i movimenti a dirlo.
«Sì, solo che, con la crisi generale del capitalismo, si stanno giustificando i tagli ai sistemi sociali e la privatizzazione di beni fondamentali come l’istruzione».
Che legame c’è tra i movimenti che si sono formati in Cile, negli Stati Uniti, in Grecia, Spagna, Italia.
«Noi crediamo che il modello capitalista nelle sue varie espressioni neoliberiste ha fallito a livello globale e le ripercusioni si avvertono contemporaneamente in tanti Paesi: disuguaglianza, privatizzazioni, concentrazione del potere nelle mani di pochi. Questo evidentemente ha creato malessere e la gente si ribella».
Che futuro ha questo movimento?
«In Cile, stiamo attraversando una fase di analisi politica. Ciò che abbiamo capito è che non basta quel movimento ampio, trasversale a costruire una proposta di riforma del sistema educativo, se quel movimento non si accompagna a un profondo cambiamento del sistema politico ed economico nel nostro Paese».
Chiedevate una università pubblica per tutti. Concretamente che risultati avete ottenuto?
«Nessuno, in termini legislativi. Però abbiamo prodotto un cambiamento culturale. E di questo dobbiamo approfittare per rinsaldare il movimento nelle sue varie articolazioni sociali ed elaborare una proposta di carattere generale che possa rappresentare un contrappeso al modello liberale». I movimenti, soprattutto di fronte a governi tecnici, tendono a presentarsi come l’unica forma di opposizione. Pensi che il problema della rappresentanza riguardi anche loro?
«Il nostro movimento ha una vocazione maggioritaria, ne fanno parte le lotte sindacali e i partiti di sinistra che si oppongono al neoliberismo, io stessa sono una militante comunista. In Cile, i cambiamenti sociali diretti dai movimenti sono sempre stati partecipati dai partiti politici. Il governo di unità popolare è un esempio. Quanto ai governi tecnici, penso che la tecnocrazia spesso mascheri il carattere ideologico di certe decisioni».

l’Unità 12.2.12
Storia e antistoria
Il Manifesto superato da Marx
di Bruno Bongiovanni


Torniamo alle classi. Nel Manifesto di Marx ed Engels (1848) sembra che siano due : borghesi e proletari. Nel marxiano 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852) le classi, oggetto di una analisi storico-sociale, paiono però essere sette o otto. Bourgeoisie, nel ‘500, è comunque già termine che differenzia dai nobili. Sta del resto indebolendosi, ben prima delle rivoluzioni politiche, la società rigida. Sta altresì emergendo la società mobile. La borghesia ha così a che fare con ciò che i tedeschi definiscono bürgerliche Gesellschaft, un’espressione che per Marx, sino al 1845-46, significa società civile (o luogo dove si dispiegano gli interessi privati, affiancato dal politischer Staat) e che dopo significa società borghese.
La borghesia, peraltro, stretta tra l’ ozio e il lavoro, viene anche considerata da Guizot una classe media, ossia un’oligarchia industriosa. Marx ammette d’altra parte di avere accolto la lotta di classe dai liberali, in particolare da Thierry, per cui la storia di Francia è stata percorsa da un millenario conflitto etnico tra gli aristocratici conquistatori (i Franchi) e il Terzo Stato (i Galli). Negli anni ’30 e ’40 dell’800 il termine proletariato si diffonde poi a sua volta. E il rapporto con il lavoro si perfeziona, tanto che Sismondi, nelle Études sur l'économie politique (1837), distingue il proletariato antico, che non lavorava e viveva a spese della società, dal proletariato moderno, che lavora e consente alla società di vivere a spese sue. Il socialista Karl Grün, nel 1844, definisce quarto stato il proletariato. Con il che si conferma che la classe non è dualistica, ma plurale, geomorfa, cronocangiante, etnosociale. Oggi più che mai. Ed è stato Marx il primo che con spirito critico ha scavalcato il Manifesto. È il marxismo, bellezza!

La Stampa 12.2.12
Diritti. Le donne alle urne
Quando le suffragette erano trattate da terroriste
Londra, cent’anni fa la manifestazione per il voto: 124 arresti
di Andrea Malaguti


Londra. Primo marzo 1912. Un secolo e pochi giorni fa. Davanti a un ufficio del governo nel West End londinese si radunano centinaia di signore della media borghesia inglese vestite elegantemente. Cappelli a tesa larga, corpetti, giacche grigie, borse, un filo di trucco e cartelli che ribadiscono gli slogan gridati a voce alta: «Voto alle donne», «Il governo ci sta uccidendo», «Fermate le torture contro di noi». Sono suffragette, militanti dell’Unione Sociale e Politica delle Donne nata nove anni prima. In quel momento la primavera della loro protesta esplode platealmente, trasformando episodi di lotta quasi sempre isolati in un’onda talmente alta da travolgere le secolari abitudini britanniche. Rivendicano un diritto apparentemente banale: fare parte della vita democratica di un Paese in cui le «architette» - loro si definiscono così - sono sei, le veterinarie tre, le commercialiste due. E in cui le Università di Oxford e di Cambridge si rifiutano di laurearle.
L’ufficio del governo guarda direttamente sulla strada. A un segno convenuto le suffragette aprono le borse, estraggono pietre e martelli e devastano la vetrata alta tre metri con i simboli dell’esecutivo. Eroine o una gang fuori controllo? Gli uomini di Scotland Yard intervengono. Le donne li attaccano. Non hanno nessuna intenzione di ritirarsi. La mischia è furiosa, 124 di loro finiranno dietro le sbarre. I giornali, più spaventati che scandalizzati, parlano di «atto terroristico». E il ministro dell’Interno, Reginald McKenna, commenta in Parlamento: «Queste donne sono pazze e pericolose». Combatte, senza rendersene conto, una surreale battaglia di retroguardia, in difesa di norme ormai sgangherate e fuori dal tempo, confermando una volta di più che chi comanda è quasi sempre più indietro della storia. Sei anni dopo la Gran Bretagna concederà il diritto di voto alle donne sopra i 30 anni e nel 1928 lo estenderà a quelle sopra i 21.
Victoria Lidiard, una delle suffragette che partecipò alla rivolta del West End, poco prima di morire ha raccontato: «Ci picchiarono selvaggiamente. In quel momento di certo non eravamo donne. Solo dei bersagli. Non arretrammo di un centimetro. Non sono mai stata tanto fiera di me». Secondo la professoressa Krista Cowman, dell’Università di Lincoln, «chiamare le suffragette terroriste era un non senso. I terroristi vogliono distruggere un sistema, loro chiedevano solo di farne parte».
Le prime azioni di ribellione si registrarono nel 1905. In un appartamento del centro di Manchester, Christabel Pankhurst, studentessa di legge figlia della storica militante Emmeline, e la sua splendida amica Annie Kenney - classe operaia, carnagione pallida e meravigliosi occhi azzurri - organizzarono il loro clamoroso gesto di protesta. Venute a conoscenza di un incontro che si sarebbe tenuto di lì a poche ore alla Free Trade Hall decisero di mischiarsi al pubblico. Poco prima che il parlamentare Winston Churchill prendesse la parola cominciarono a urlare: «Voto alle donne». Un poliziotto cercò di fermarle. Loro gli sputarono addosso. Furono trascinate fuori a forza e arrestate da uomini armati e divertiti che si lasciarono alle spalle una scia bisbigliata di foia da caserma. L’episodio ebbe un’eco clamorosa. Una nuova era cominciava.
Nel 1913 l’episodio più noto di questo scontro epocale. Il 4 giugno 1913 la suffragetta Emily Davison si confonde tra la folla del Derby di Epsom e si butta in mezzo alla pista avvolta nella bandiera dell’Unione Sociale e Politica delle Donne mentre sta arrivando il cavallo di re Giorgio V lanciato a tutta velocità. Viene travolta. Rimane a terra con il cranio fracassato. Il giorno del suo funerale l’intero Paese si ferma. La Gran Bretagna è con lei. E con le suffragette. Il Professor June Purvis, autore di una biografia su Emmeline Pankhurst, sostiene che la Davison scelse il martirio consapevole dell’enorme effetto che avrebbe fatto il suo funerale. «Le suffragette rappresentavano quello che oggi sono le donne per la primavera araba. Oppure gli studenti dei movimenti Occupy. Qualcuno poteva anche chiamarle terroriste, ma erano loro a incarnare il senso del tempo». Secondo la baronessa Brenda Dean sarebbe necessario che ora, cent’anni dopo, il governo di Sua Maestà chiedesse scusa a quelle donne. «Io lo voglio fare. E lo faccio. Ora». E lo considera un gesto definitivo, come se avesse archiviato in una scatola preziosa una vecchia lettera d’amore. "OBIETTIVI Non volevano distruggere il sistema ma fare parte anche loro della vita democratica"

La Stampa 12.2.12
Primavera araba o “Se non ora quando”, le cattive ragazze fanno ancxora la storia
di Mariella Gramaglia


E se «The protester», il famoso dimostrante, l’uomo dell’anno 2011 della copertina del «Time», fosse una donna? Non suoni come una battuta: infatti l’articolo «il» e la parola «uomo» li aggiungiamo noi italiani. La lingua inglese è molto meno connotata dalla variabile di genere, almeno nelle sue declinazioni fondamentali.
Per giunta il bel volto del disegno è volutamente androgino. La bocca coperta e i capelli nascosti richiamano il travestimento del ribelle, ma, nello stesso tempo, quella mescolanza di determinazione e pudicizia cui ci hanno abituate le donne della primavera araba. E poi gli occhi allungati e la sella sottile del naso, fra le sopracciglia aggrottate, sono molto femminili.
Del resto la ribellione e la passione per la libertà hanno parlato per tutto lo scorso anno attraverso voci, storie e desideri di donne. In Italia l’urlo più potente di rivolta contro lo stato di cose esistenti è stato quello di «Se non ora quando», che ha segnato l’inizio della fine del premier Silvio Berlusconi. Domani 13 febbraio ricorre il primo compleanno di quel movimento e si fa fatica a credere a quanto l’Italia sia cambiata in così poco tempo.
Nelle rivoluzioni arabe i corpi, spesso (ma non sempre) velati, delle donne sono stati presenze potenti, coraggiose, volitive. Non di schiave segregate dalla polis, ma di protagoniste. Il corpo e la dignità del suo diritto all’autonomia: non a caso si dice «habeas corpus». Del diritto a non essere venduto, comprato, mutilato, segregato, consegnato all’immaginario dell’uomo come oggetto di seduzione o fantasma di peccato. Questo sembra accomunare le donne dell’una e l'altra sponda del Mediterraneo. Che le amiche arabe ci spieghino che per loro il velo è fonte di fierezza può stupirci, talvolta fino allo spaesamento, ma dobbiamo sapere che non sempre c’è un’imperiosa mano maschile dietro ogni hijab. Ci può essere una declinazione per noi enigmatica della libertà.
La pietà michelangiolesca e yemenita del fotografo spagnolo Samuel Aranda, World Press Photo dell’anno, parla invece un linguaggio senza tempo. Parla della femminilità come luogo della pietà e della misericordia, della cura dell’umano dolore, da sempre e per sempre. Molta parte della vita delle donne sta in questo luogo lontano dalla politica e dalle vicende pubbliche, ma non è detto che il «cuore», che oggi non gode di buona stampa in Italia, non abbia diritto a stare nella storia e nel trasformarsi dei tempi. Anzi, forse proprio dalla tensione reciproca fra ribellione e pietà, possono nascere le idee sociali più creative.
Intanto a Tunisi quarantadue donne del partito islamico siedono all’Assemblea costituente per merito di una battaglia di pari opportunità condotta dalle femministe laiche e filo-occidentali sonoramente sconfitte, che dispongono di sette miseri seggi. Seguiranno l’ispirazione di chi si è battuta per farle eleggere?
Diceva un vecchio proverbio femminista: «Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive ragazze vanno dappertutto». Erano tempi in cui la Cina era vicina e l’Islam lontanissimo. Ma il detto è attuale come non mai. Non resta che osservarle e sostenerle, le nostre orgogliose amiche del mondo arabo, incrociare le dita per la loro libertà e sperare che nel loro andare non si facciano troppo male.

Corriere della Sera 12.2.12
Una mostra a Lisbona
Corpi di dolore
La rappresentazione del patetico che accomuna le crisi di ogni epoca
di Andrea Nicadstro


L'estate scorsa, papa Ratzinger è stato in Spagna a celebrare la Giornata Mondiale della Gioventù. Come negli Usa, in Germania o in Australia ha dedicato un giorno alla via Crucis, ma solo a Madrid ciascuna stazione si è potuta trasformare in opera d'arte. Il Paseo de Recoletos sembrava un museo a cielo aperto. C'erano Vergini piangenti, Cristi trafitti, martiri e santi sofferenti. Spesso le statue erano inserite in quinte barocche altrettanto elaborate, dipinte, coperte di sete e broccati. Le lacrime e il sangue di quei capolavori arrivati da ogni angolo del Paese stridevano con i calzoncini corti e le bandierine colorate dei Papa boys.
Quelle statue cariche d'oro e di dolore sono l'impronta tangibile lasciata della Controriforma sulla Spagna. Bando ai nudi, alla mitologia e a quell'umanesimo rinascimentale che tanto aveva destabilizzato clero e corona. Di questa realtà artistica, riflesso dei giochi di potere dell'epoca e di una spiritualità che ha partorito Santa Teresa d'Avila e Sant'Ignazio di Loyola, parla la mostra aperta al Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona: «Cuerpos de dolor», la immagine del sacro nella scultura spagnola (1500-1750).
Franco Anisio è il curatore scientifico del museo. Il suo italiano è quello del cultore dell'arte innamorato del nostro Paese: «Il Concilio di Trento — spiega al Corriere — aveva stabilito che ogni cosa potesse avvicinare il popolo incolto alla fede sarebbe stato ben accetto. Così, soprattutto, in Castiglia ma anche negli altri territori della Corona spagnola, gli artisti vengono messi al servizio della Controriforma. Si diffonde quell'uso delle processioni di immagini sacre che ancora oggi esiste in tutti i possedimenti ex borbonici, incluso il Sud Italia. Vengono commissionate imponenti macchine sceniche, gruppi scultorei impressionanti che mantengono il carattere sofferente e mistico di tutta l'arte spagnola».
Le statue esposte provengono dal Museo Nazionale di Scultura di Valladolid in Spagna, il «Prado della scultura». Ci sono le opere dei maestri dei secoli d'oro spagnoli: Berruguete, Juan de Juni, il milanese Pompeo Leoni, Gregorio Fernández, Alonso Cano, Pedro de Mena, Pedro de Sierra, Salzillo. I temi evangelici ossessivamente ripetuti, il dolore dei martiri e degli asceti elevato a modello sono proposti con un'iconografia marcata, facile da capire in presepi, pale d'altare, baldacchini. Il materiale è soprattutto il legno, più leggero ed economico della pietra. Ottimo anche da dipingere per una resa dell'incarnato che accentua l'impatto scenico e la sensualità, componente indissolubile del «dolore» spagnolo.
«Queste figure cupe sono una peculiarità ispanica — spiega ancora Anisio —. Danno l'impressione di un mondo isolato che si bea della propria opulenza e dei propri canoni. Invece la mostra permette di apprezzare come la tipica Madonna spagnola adorna di broccati possa cambiare nei secoli rimanendo comunque carica di sete e pronta alla processione di Pasqua».
Nel '500 l'influenza dominante è quella fiamminga, nel '600 invece la Corte acquista opere che salpano da Genova, i maestri spagnoli visitano gli studi italiani dov'è loro possibile vedere e toccare le statue della classicità. Quando tornano in patria le opere si «italianizzano». È Vasari a raccontare di uno «spagnolo» che lavorò per Bramante e, «venuto a vedere le cose di Michelangelo» copiò i cartoni della Sala del Consiglio di Firenze. Era Berruguete.
Nel '700, al cambio della dinastia regnante, con i Borboni arrivano anche artisti francesi e tutta la produzione ne è influenzata. Però ogni regione, proprio come accade in Italia, mantiene caratteristiche proprie. C'è un'enorme differenza tra la produzione andalusa, più calda e sensuale, rispetto a quella castigliana rigorosa e gerarchica.
«Miguel de Unamuno diceva a fine '800 che la religiosità in Spagna è più sofferta rispetto, ad esempio, al Portogallo dove la fede si vive come festa piuttosto che come penitenza. Quando abbiamo programmato la mostra — racconta Anisio — abbiamo subito collegato queste statue "dolorose" alla crisi economica della Lisbona di oggi. Ci abbiamo riso sopra. Ma al momento di stabilire il prezzo d'ingresso non abbiamo potuto mettere più di 5 euro. Per il meglio di tre secoli di storia spagnola c'è da flagellarsi e invocare la Provvidenza».

Corriere della Sera 12.2.12
Dal rigore ascetico ai supplizi della carne Il senso della Spagna per il misticismo
di Francesca Bonazzoli


Il 15 settembre 1556, lasciando attonita l'Europa, Carlo V abbandonava Madrid per il monastero di San Jeronimo di Yuste, fra le montagne dell'Estremadura, dove morì venti mesi dopo. A cinquantasette anni era già un uomo stanco. Al termine di continue guerre per difendere la cristianità, gli era toccato di sottoscrivere la pace di Augusta che accettava il principio cuius regio eius religio: di fatto il riconoscimento della dottrina luterana. E nonostante concentrasse su di sé un enorme potere militare e territoriale, si era reso conto che la vecchia idea dell'Impero stava tramontando per far posto all'Europa dei nuovi Principi. La Spagna, uscita con lui quasi all'improvviso da un lungo Medio Evo, si ritrovava già all'angolo, sommersa dall'oro che arrivava dalle colonie, ma pur sempre in un angolo cieco.
Mentre con quell'oro gli spagnoli costruivano chiese, palazzi, monasteri ed estendevano i latifondi lasciando l'ottanta per cento della popolazione contadina e analfabeta senza benefici, gli olandesi e gli inglesi protestanti attraversavano gli oceani per vendere le loro merci e importarne di nuove, dall'Antartide al Caribe. Legata alla proprietà immobile della terra, la Spagna risprofondava inesorabile nell'ascetismo del suo antico spirito mudejar, quella mistica-sensuale di origine arabo musulmana che nella penisola iberica si era fusa con la cultura latino-romanza e ebraica. Un corto circuito fra spirito e carne; fatalismo e libero arbitrio; spiritualità e fisicità; estasi ed erotismo; dolore e piacere. È in questo contesto di «mudejarizzazione» o, detto con un concetto occidentale, di desengaño, che all'età del Rinascimento di Carlo V subentra quella della Controriforma di suo figlio Filippo II il quale visse a sua volta gli oltre quarant'anni di regno chiuso nel monastero-fortezza-sepolcro di famiglia dell'Escorial, poco fuori Madrid. A Toledo, intanto, i corpi immateriali di El Greco e a Siviglia i santi austeri di Zurbaran, simili a idoli intoccabili e incorruttibili, esprimevano il rigore cavalleresco e ascetico di questa spiritualità eroica.
Poi qualcosa si spezza, i nervi non reggono più. Quell'estremo senso dell'onore e quella religiosità ascetica si sciolgono in pianto. La peste, la povertà estrema, le malattie di un popolo stremato (a Siviglia la popolazione di dimezza dopo la peste del 1649 e la contrazione economica) chiedono il soccorso di divinità più vicine, umane, carnali, che soffrano come gli uomini e in cui gli uomini possano riconoscere il proprio dolore. Il popolo chiede che i propri idoli siano straziati, sanguinanti, esibiscano le stesse piaghe e piangano come loro. C'è bisogno di ridurre la distanza fra umano e divino e qui entra in gioco la spiritualità dolce, rassicurante, domestica e carezzevole di Murillo e del Barocco che in Spagna trova il suo ideale terreno di coltura. Dal racconto del dolore psichico (la paura, l'angoscia, lo stupore verso una scena di martirio) si passa alla descrizione del dolore fisico indugiando sulle piaghe della carne, le urla, le lacrime. E soprattutto in quell'ambiguo scambio fra la sofferenza del dolore inflitto e patito che diventa esperienza sensuale. Basta guardare il crocifisso di Goya, con il suo corpo morbido e sovrappeso, la bocca aperta e gli occhi ribaltati all'insù in un moto di sofferenza estatica, un bel ragazzo languido da abbracciare e desiderare. Un abisso lo separa dalla castità pittorica con cui Zurbaran aveva dipinto il suo Crocifisso dal corpo asciutto, il cui dolore vero (non messo in scena) incute timore e rispetto. Qui silenzio, davanti al figlio di Dio; là struggimento per la morte di un bel giovane. Ormai il misticismo estremo e austero dello spirito della Invincibile Armada baluardo della Cristianità si è stemperato nel doloroso piacere della carne. Qualcosa che ha il sapore di una vendetta dei moriscos, che cacciati nel 1609 da Filippo III per inseguire l'estremo inganno cavalleresco della limpieza de sangre, lasciarono dietro di sé il loro spirito mudejar.

Corriere della Sera 12.2.12
L'enigma di quell'ambigua saggezza che fa coincidere istinto e ragione
Fin da piccoli le emozioni gestuali plasmano la nostra identità
di Carlo Sini


«È il corpo a mostrare, è il corpo a parlare»: così Merleau-Ponty. Il linguaggio del corpo viene letteralmente prima del linguaggio: come mai parleremmo se, prima ancora che le nostre intenzioni e i nostri sentimenti ci divenissero familiari e consapevoli, il corpo non avesse parlato, non «ci» avesse parlato, invocando ed evocando in un solo gesto l'altro e noi stessi? Così sono cominciate, come diceva Nietzsche, le ragioni del corpo, «la cui saggezza sfugge alla stessa ragione». Saggezza ambigua come ambiguo è infatti il corpo: soglia risuonante e piega del mondo; interiorità che più intima e privata non si può e pura oggettività anonima ed esposta; supporto di una storia infinita che il corpo reca impressa in sé e insieme luogo di devastazioni e di supplizi operati proprio dalla storia sui corpi del dolore e della sventura. Emblema supremo è qui il corpo del Cristo martoriato sulla croce e poi esibito, imitato, raffigurato, compianto ed esaltato nei secoli dei secoli, in meditazioni solitarie e negli spettacoli della pietà collettiva.
Tutto, si potrebbe dire, comincia con la relazione della madre col bambino: una madre che è idealmente sempre accanto a quella croce che ognuno porta con sé. Il corpo duole, il corpo spasima, il corpo grida. Per riflesso e risonanza il bambino ne è atterrito: non sa che proprio l'esibizione espressa del dolore è una possibile via di salvezza, un sos lanciato nel mondo, un richiamo, a quanto pare, irresistibile; nessun adulto potrà ignorarlo. E così, attraverso il corpo, ognuno entra nel dialogo delle emozioni gestuali: sono esse che ci affidano a un noi e che ci donano un io. Il bambino, per esempio, è ruzzolato per terra: guarda la mamma, non sa bene se deve piangere (ne accenna gli inizi); è la reazione materna a suggerirgli che sì, oppure che no: non è niente, puoi rialzarti. Educare il corpo con il corpo. Pascal lo sapeva bene: non aspettare che la fede nasca da sola nel tuo cuore; non tormentare la tua anima con continue domande: credo? non credo? dubito? son certo? Mettiti invece in ginocchio, congiungi le mani, abbassa il capo, muovi la bocca a pregare; fallo scrupolosamente ogni mattina, ogni sera, e vedrai: la fede arriverà in sovrappiù, con la grazia del cielo. E anche William James lo sapeva: è l'azione amorevole del corpo che suscita la reazione amorosa dell'altro. Non combattere la paura con vane ragioni: atteggia il tuo corpo alla risolutezza e il coraggio verrà di conseguenza. È di James il famoso esempio, che tanto fece discutere: non si corre perché si ha paura, si ha paura perché si corre. Fermati e anche la paura si calmerà.
Naturalmente le cose non sono poi così semplici. C'è nel dolore del corpo una domanda che da sempre tormenta il pensiero degli umani, in ogni epoca, cultura e civiltà. Unde malum? chiedeva Agostino. Certo, anche il dolore corporale ha una sua necessità e utilità in natura: come sapresti che il fuoco brucia e che la lama lacera? Il dolore e il piacere del corpo sono la tua guida costante; troppo spesso lo dimentichi e non ascolti, anche là dove le decisioni non riguardano azioni banali, ma scelte decisive per il tuo destino. È allora che le ritrosie del corpo, i suoi ostinati silenzi, le sue assenze, le sue testarde opposizioni esigerebbero uno sguardo e un'attenzione che sa riconoscere i segni di una saggezza più profonda delle tue ragioni consapevoli, diceva Nietzsche. Ma poi c'è lo sterminato capitolo dei mali incomprensibili che dentro il corpo e tramite il corpo devastano la vita, sino a tendere l'estremo trabocchetto. Siamo nati per soffrire, dice il proverbio: constatazione amara, che denuncia nel contempo la sua insufficienza e il suo enigma.
È proprio questo estremo smarrimento di fronte al dolore che mostra infine una più nascosta verità: che là dove è il corpo dell'uomo che soffre, a soffrire è anche l'anima, che di quel corpo è un riflesso e un risultato. Proprio perché il corpo è nell'uomo linguaggio e tramite primo di ogni successivo sapere, al dolore del corpo si aggiunge negli umani quel dolore che non soffre solo dei patimenti del presente, ma anche del passato e del futuro, del ricordo e dell'attesa. I dolori dell'anima, diceva Epicuro, sono ben più tremendi, perché abitati dal sapere della morte e dalla domanda del perché. Perciò esibiva Giobbe il suo corpo martoriato e il dolore inconsolabile dell'ingiustizia patita e della tremenda solitudine. Nessuna voce che dice: non è niente.

Corriere della Sera 12.2.12
Giamblico, il filosofo politeista
di Armando Torno


Giamblico di Calcide, filosofo della tarda grecità di origine siriana, visse tra il 245 e il 325 della nostra era. Oltre a porre un «circa» accanto alle date, occorre tener presente che altri punti di domanda vanno aggiunti al suo pensiero, giacché egli tentò di fornire una base teoretica al politeismo morente. O, utilizzando un'espressione immediata, di ridare vita alla teologia pagana. Molte sue opere sono andate perdute. Per questo la pubblicazione dei Frammenti dalle epistole di Giamblico (Bibliopolis, pp. 688, 60), impeccabilmente curata con introduzioni, testo, traduzione e commento da Daniela Patrizia Taormina e Rosa Maria Piccione, è degna di tutte le attenzioni. Si tratta di passi provenienti da lettere in cui si parla di provvidenza, del catalogo delle virtù, di educazione, nonché di sapienza e del buon governo. La fonte di questo lascito pagano è l'opera di Stobeo, vissuto nel V secolo, del quale l'ultima edizione apparve a Berlino tra il 1884 e il 1923 (un paio di volte ristampata). Un lavoro immenso per ricordare che «nell'anima consiste l'uomo».

Sebag Il giovane stalin

Corriere della Sera Salute 12.2.12
Le cicatrici e il braccio rigido che Stalin voleva cancellare
Un uomo capace di scampare alla cagionevolezza,
alle infezioni e a due incidenti in carrozza, ma sospettoso e complessato
di Marco Rossari


Già avanti negli anni, Iosif Vissarionovic Džugašvili — alias Soso, alias Koba, alias Soselo (il suo pseudonimo come poeta, ebbene sì, di stampo romantico), ma passato alla storia con il nomignolo di Stalin, ossia «acciaio» (forse scelto per una vicenda galante con una fiamma che di cognome faceva Stal, oltre che per l'assonanza con Lenin) — autorizzò con riluttanza la pubblicazione di uno dei tanti libri di memorie che lo riguardavano. Era un'opera non certo eclatante, scritta dalla sorella della seconda moglie Nadja, ma risultava a suo modo audace perché in barba ai timori diffusi osava parlare del braccio rigido del dittatore, un difetto fisico che l'aveva accompagnato per tutta la vita e che, come tanti altri fatti, era ammantato di reticenze e ambiguità, ma che ebbe senz'altro un peso nella definizione della sua personalità insieme a una serie di altre imperfezioni fisiche. Questi e altri misteri sono stati raccontati da Simon Sebag Montefiore in una biografia sulla giovinezza di Stalin. Per svelarli, lo storico inglese ha potuto avvalersi di numerosi archivi inattingibili ai precedenti biografi.
Venuto al mondo in quel di Gori, in Georgia, il 6 dicembre del 1878 (secondo il calendario Giuliano), Stalin nacque con il piede palmato: il secondo e il terzo dito erano uniti. Niente di terribile, ma anche questa piccola malformazione rimase per lui una cosa di cui vergognarsi, tanto che quando si faceva visitare i piedi dai medici del Cremlino, uno degli uomini più potenti del mondo si sentiva in dovere di nascondere il viso sotto una coperta. Il neonato venne definito dalla madre Keke: «Debole, malaticcio, esile». Anzi: «Se c'era in giro una malattia infettiva, si poteva star certi che lui sarebbe stato il primo a prendersela». Avendo già perso due figli, i genitori — Keke e l'alcolista Beso, che tanta parte ebbe nell'instillare paura e violenza nel figlio — andarono in pellegrinaggio, ma trovarono i preti intenti a compiere un esorcismo su una bambina, sospesa sopra un burrone, in una scena da horror. Il neonato Soso cominciò a frignare e a rabbrividire ma, in uno dei tanti miracoli retrospettivamente funesti, scampò ai metodi sbrigativi di quegli esorcisti da strapazzo. Quando compì cinque anni la città venne investita da un'epidemia di vaiolo che fece vittime soprattutto tra i più piccoli. I vicini di casa persero tre figli ma, se Stalin sopravvisse, la malattia gli segnò per la vita intera le mani e il volto, tanto che uno dei suo soprannomi fu «il Butterato». Non dovette gradire, perché una volta arrivato al potere si fece incipriare le guance in modo massiccio e fece ritoccare le fotografie, non solo per fare sparire dal passato gli ex compagni ora invisi al regime, ma anche per addolcirsi l'aspetto.
A dieci anni venne investito da un calesse davanti alla scuola ecclesiastica di Gori, dove avrebbe studiato, e rischiò ancora la pelle. Forse fu una prova di coraggio oppure un caso, fatto sta che fu riportato a casa tramortito. Anche questa volta si riprese, ma l'incidente gli causò un danno permanente al braccio sinistro. Fu soprattutto questa menomazione, in aggiunta al piede e al viso (oltre alle voci sulla sua illegittimità), che contribuì a dargli un senso di diversità e d'inferiorità fisica: non avrebbe più potuto incarnare l'ideale del guerriero secondo il quale era cresciuto. «Questo braccio danneggiato — racconta Montefiore — è variamente imputato a un incidente di slitta, a un difetto congenito, a un'infezione infantile, a una rissa per una donna (…), a un incidente causato da una carrozza e a un pestaggio del padre: tutti (eccetto il difetto congenito) suggeriti dallo stesso Stalin». In realtà gli incidenti furono due. All'età di dodici anni un altro calesse (e resta davvero impressionante la capacità da parte del futuro dittatore di scampare a una morte che avrebbe cambiato il corso della storia) lo travolse e le ruote gli passarono sopra le gambe. Il giovane svenne e fu portato all'ospedale di Tiflis. Per mesi saltò la scuola ma le gambe rimasero danneggiate, tanto che anche dopo essere guarito camminava con passo incerto e venne soprannominato «il Claudicante». I nsomma, un miracolato. Un uomo capace di scampare alla cagionevolezza, al vaiolo, a due incidenti in carrozza, sospettoso e complessato, ma dotato di una volontà di ferro. Sarebbe assurdo, com'è ovvio, far risalire a queste infermità — a quel viso, a quel braccio, a quell'andatura e a quell'innocuo piede palmato — la gestione del potere che portò a milioni di morti. Iosif Vissarionovic Džugašvili non fu un Riccardo III. Ma è certo che questi disturbi ebbero un ruolo nell'affilare un carattere già diffidente, fragile e protervo allo stesso tempo.

il Riformista 12.2.12
Tina Modotti, lo sguardo nuovo che non muore
Impegno civile ed estetica si fondono nelle fotografie dell’artista prima, militante del partito comunista poi. Una vita tra le avanguardie più innovative della sua epoca e le lotte più significative. Da Hollywood al Soccorso rosso internazionale
di Laura Landolfi

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il Riformista 12.2.12
Le vere radici dello sterminio
di Francesco Fornaro

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Repubblica 12.2.12
Sevenson
Come nacque Mister Hyde
di Giuseppe Montesano


Due cugini, uno buono e uno cattivo, che si scambiano i ruoli. Sono i protagonisti di "Una vecchia canzone", il primo romanzo dell’autore de "L´isola del tesoro". Il libro, scoperto postumo, viene ora pubblicato anche in Italia. E rivela tutta l’ossessione per il lato più oscuro dell’animo umano

Il vero spettro che infestava i sogni di Robert Louis Stevenson non era il tesoro segreto e nascosto dei pirati, ma il segreto del Male nascosto nelle cantine dell´anima. Fin dalla più tenera età Stevenson era stato immerso in un mondo di protestantesimo presbiteriano ossessionato dalla guerra tra il Bene, che è sempre e solo dei giusti, e il Male, che è sempre e solo degli empi: una lotta che risaliva a Caino e Abele, la coppia di fratelli nemici mortali di cui narrava la Bibbia. Ma Stevenson, con un gesto degno dei supremi romanzieri, rifiutò la semplificazione morale della Bibbia coatta della sua infanzia, e rese il conflitto tra fratelli un conflitto che rivive nel cuore di ognuno. L´uomo è duplice, un empio e un giusto nella stessa persona: Jekyll e Hyde sono due facce della stessa medaglia, perché il conflitto tra bene e male è ambiguo, e Stevenson avrebbe potuto ripetere in piena epoca vittoriana le parole del profeta Geremia: «Il cuore dell´uomo è fraudolento sopra ogni altra cosa, e disperatamente insanabile. Chi lo conoscerà?».
Ma il desiderio di capire lo sdoppiamento fraudolento dell´Io, che nello Strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde giunge a perfezione e precorre Freud, ossessionò Stevenson fin dagli inizi come sappiamo ora da un racconto lungo intitolato Una vecchia canzone, tradotto in italiano da Fabrizio Bagatti per la casa editrice Barbès. Quarant´anni fa uno studioso di Stevenson scoprì una pagina manoscritta che gli fece attribuire senza dubbi all´autore de L´isola del tesoro un racconto anonimo intitolato An old song apparso nel 1877 sul London, un periodico sul quale erano usciti i primi racconti di Stevenson. Una vecchia canzone narra del dissidio tra due cugini cresciuti insieme, che dicono di sé «siamo più vicini che se fossimo fratelli»; il vecchio zio, credente fanatico e conservatore assoluto, ha deciso che l´eredità e la figlia di un ricco possidente andranno a John, e niente al cugino di sole tre settimane più giovane, Malcolm. Una storia che ricorda una vecchia canzone? Sì, perché ricorda Caino e Abele, ma ricorda anche il capolavoro di Stevenson, Il Signore di Ballantrae, il romanzo dove Stevenson portò al culmine la sua indagine del Male, e in cui mise in scena non più timidamente due cugini ma proprio due fratelli. Lo schema del racconto giovanile e del capolavoro della maturità è lo stesso: il cattivo John di Una vecchia canzone e il malvagio James del Signore di Ballantrae sono abitati dal Male, ma sono intelligenti; il buon cugino Malcolm e il buon fratello Henry sono buoni, ma un po´ sempliciotti; e colui che rende nemici i fratelli è sempre un vecchio fanatico religioso, un militare o un politico, e un represso incapace di amare.
L´epoca e la necessità di vendere, come confessò Stevenson stesso dicendo che Flaubert e Balzac avevano potuto essere molto più liberi di lui, frenarono le sue esplorazioni nella tenebra, e quando in Stevenson, spesso, affiorano accenni a nevrosi sessuali o religiose, scatta la censura, e riusciamo solo a intravedere gli abissi del crimine e della perversione: allo stesso tempo, paradossalmente, è probabile che il fascino del raccontare di Stevenson nasca in parte da questa censura-cesura, dalla sensazione costante di trovarci sull´orlo di un universo maligno che sentiamo esistere ma che non ci viene mai mostrato tutto.
Stevenson poteva trovare la personalità doppia che lo ossessionava nel William Wilson di Poe e negli Elisir del diavolo di Hoffmann, ma fu nell´ammirato Dostoevskij, che in una lettera chiamò «un bel tipo di demonio», che vide il suo inarrivabile modello. Stevenson, che è diventato famoso per le sue trame, aveva una concezione complessa del raccontare, una visione che si accostava a Dostoevskij anche nella ricerca delle situazioni abnormi, quelle in cui dallo stagno quieto e superficiale del quotidiano sbucano imprevisti i mostri del profondo: «Ciò che è ovvio non è per forza ciò che è normale; la moda governa e deforma; la maggioranza si adegua docilmente alle regole vigenti, e così raggiunge, agli occhi di chi osserva in profondità, solo un alto potere di nullità; il pericolo sta nel fatto che, a cercare di ritrarre il normale, si rischia di ritrarre il nulla, e si rischia di scrivere il romanzetto della società invece che il romanzo dell´uomo…». È probabile che non abbia giovato allo Stevenson scrittore complesso, astutamente inverosimile e nero l´entusiasmo eccessivo per L´isola del tesoro e gli altri libri d´avventura, opere sopravvalutate; né gli ha giovato il fatto che un grandissimo come Calvino, per motivi di poetica personale, tendesse a illuminarne poco il suo lato Dostoevskij: ma se Calvino faceva ciò che fanno gli artisti, i critici non hanno giustificazioni. E così i capolavori neri di Stevenson, con l´eccezione di Jekyll e Hyde, restano nell´ombra: Il signore di Ballantrae e I Weir di Hermiston, un po´ sotto anche il tenebroso The Merry Men, il torbido Markheim, il misterioso e oppiaceo Olalla che piaceva molto a Calvino, e persino opere minori come L´accaparratore di corpi, Janet la storta o le Favole, che di favole hanno solo il nome e raccontano bizzarrie e atrocità.
È quindi una fortuna che il giovanile e ancora esitante Una vecchia canzone venga a ricordarci lo Stevenson inquieto e perturbante, quello più vicino ai nostri tempi di delitti e perversioni. Le ultime parole che Stevenson dettò sul letto di morte furono quelle su cui si interrompe incompiuto I Weir di Hermiston: «… un´ostinata convulsione di materia bruta…». Le ostinate convulsioni di materia bruta in cui giace l´essenza del Male Stevenson non smise mai di indagarle, e i suoi racconti di viaggi e di avventure nei mari del Sud sono toccanti e lievi perché sanno di essere i sogni di un´innocenza perduta, sogni e illusioni della letteratura che inventa la vita, passi di danza sull´orlo dell´abisso dell´Io ammalato, canzoni di un tempo finito cantate per vincere la paura del tempo senza fine dell´ingiustizia e del male.

Repubblica 12.2.12
La tendenza non è nuova, ma sta nel dna dell’industria che lega le sue fortune non tanto alla qualità quanto alla possibilità di rendere accessibili i testi a una platea più larga
I rischi nascono dal fatto che il prezzo basso viene associato al concetto di "facile e non impegnativo". Un tipo di etichetta commerciale che genera l´effetto "grande distribuzione"
Demostene e Pericle ai tempi del default
di Antonio Gnoli


Per combattere la crisi le case editrici stanno promuovendo libri sotto i dieci euro. Che scalano le classifiche ma possono modificare il rapporto con i lettori

Fa un effetto mortificante veder montare la protesta, nelle piazze tumultuose e disperate di Atene, mentre l´Europa discute ancora se salvare o affondare quel mondo che pure qualcosa ha insegnato a tutti noi. Fa un certo effetto sentire pronunciare la parola default che Platone avrebbe aborrito, Aristotele guardato con insigne distacco e Socrate discusso con ironia in uno dei suoi memorabili dialoghi.
Atene ieri e oggi. E in mezzo la malinconica constatazione che le civiltà per quanto radicate nulla possono contro la decadenza. Eppure, quella stagione che trovò il suo apice intorno al quinto secolo, e si riconobbe nelle gesta di Pericle, ha continuato per secoli ad essere un modello di riferimento, una lezione inesauribile per l´Occidente. Proprio Luciano Canfora, uno dei nostri più acuti antichisti ha esplorato il mito di Atene (in un libro bellissimo pubblicato da Laterza) cercando le ragioni di un successo che non è semplice da spiegare e che, in ogni caso, non si può ridurre all´immagine che ne fornì Pericle. Abile retore, certo, ma anche capace di mistificare la realtà che governava. E allora, più che alla democrazia (sempre gestita da una élite), occorre guardare al conflitto. Il vero sentimento politico che animò il mondo greco. E che Tucidide interpretò con indiscutibile realismo. Lì, in quell´alveo di nascente Occidente, si giocò la partita, con in campo la filosofia, il teatro, la politica. In una manciata di decenni accadde tutto. E quando Demostene esordì con "Ateniesi, Voglio dirvi perché la situazione mi preoccupa tanto", l´impero greco era alla fine. Oggi Demostene guarderebbe sconsolato gli eventi che precipitano. Vedrebbe morire la Grecia una seconda volta. Senza neanche poter pronunciare un´orazione agli europei.


Repubblica 12.2.12
Il dominio del discount book
di Gian Arturo Ferrari


l primo romanzo di Charlotte Brontë, che si chiamava Il professore, venne respinto dalla casa editrice Smith, Elder & Co perché era troppo corto. Sicché quando nel 1847 ebbe pronto il secondo, che si chiamava Jane Eyre, Charlotte nella lettera di accompagnamento precisò che si trattava di «un romanzo in tre volumi». Il romanzo in tre volumi, il cosiddetto three-decker – letteralmente "a tre ponti", con allusione alle navi da guerra di maggior stazza – era il format prediletto del mercato vittoriano. In cui dominavano le biblioteche circolanti a pagamento, che si facevano appunto pagare a singolo volume e non a opera. Jane Eyre venne infatti prontamente pubblicato e si avviò a diventare quell´amato capolavoro che ancor oggi rimane. Un secolo dopo J. R. R. Tolkien confessò che la ragione principale per cui aveva scritto Il signore degli anelli, una monumentale saga in tre parti e sei libri più numerose appendici – oltre duemila pagine di normale capienza –, era «il desiderio di cimentarsi in una storia veramente lunga». E per converso era disposto a passare sotto silenzio tutti i difetti della sua opera tranne «uno, che è stato notato anche da altri: il libro è troppo corto». Come si vede corto e lungo sono categorie alquanto soggettive, ma non inadatte ai libri che, come è noto, appartengono più al mondo del pressappoco che all´universo della precisione.
Preciso è viceversa il prezzo, che è espresso da un numero, e dunque il connubio corto/prezzo basso e lungo/prezzo alto, anche se intuitivo, avviene tra elementi di natura diversa. Oggi non è chiaro se il gusto del pubblico si orienti più verso la forma breve o più verso il librone: vi sono ottimi argomenti ed esempi per sostenere entrambe le tesi. Ma di sicuro preferisce i prezzi bassi. Questa tendenza peraltro non è un prodotto della volgare contemporaneità, ma fa parte dell´originario corredo genetico del libro a stampa, che fin dall´inizio legò le sue fortune non all´eccellenza o alla qualità dei contenuti, ma al fatto di rendere accessibile a una più larga platea quel che era stato fin lì un prodotto di lusso, e cioè il libro manoscritto. La storia del libro a stampa è in realtà tutta una storia di abbassamenti di prezzo e di tecnologie per renderlo meno costoso. Fino alla svolta decisiva di Allen Lane, giovane e assai mondano editore londinese, che nel 1934, di ritorno da un week-end con Agatha Christie nel Devon, non trovando niente di buono nell´edicola della stazione di Exeter, decise che voleva pubblicare il meglio della letteratura, ma che non doveva costare più di un pacchetto di sigarette. E nacquero così i Penguin.
Una storia, quella dei libri, capovolta rispetto a quella dei giornali che essendo viceversa nati dal basso, come prodotti popolari, hanno potuto tranquillamente procedere a successivi e continui aumenti di prezzo, fino agli ultimissimi, indotti dalla presente crisi economica. Ma di fronte alla medesima crisi gli editori di libri reagiscono in senso opposto, cercando di abbassare il prezzo medio. L´esempio più clamoroso viene proprio dall´Italia che, va detto, non si è mai distinta per essere particolarmente all´avanguardia. E invece proprio qui, da noi, l´editore Newton Compton ha ideato una collana di libi nuovi, pubblicati cioè per la prima volta, belli grossi – anche oltre 350 pagine –, con copertina rigida o semirigida, di formato grande, narrativa facilmente degustabile, e li ha messi a 9 euro e 90 invece del loro prezzo normale, da 15 a 22 euro. Insomma la metà, il che non è poco. Sul periglioso sentiero dei 10 euro si sono avventurati o si avventureranno a breve anche altri editori, i maggiori, ma senza la sfacciataggine di Newton Compton, con più compunzione, cercando di riproporre l´antico connubio forma breve/basso prezzo. Altri fattori, ancor più contingenti, contribuiscono a spingere i prezzi verso il basso: l´assenza, dopo una prodigiosa fioritura durata poco più di un quinquennio, di titoli strabilianti, da un milione di copie, in grado da soli di ossigenare la libreria e di trascinarvi il pubblico. E la conseguente idea di far leva sul prezzo più basso: non saranno straordinari, ma neanche cari. Infine la regolamentazione del prezzo del libro, la legge Levi, entrata in vigore lo scorso settembre, che togliendo all´acquirente il vantaggio del forte sconto, oltre il 15 per cento, lo spinge inevitabilmente a cercare il prezzo più basso.
Ma quale che sia la principale delle cause, resta il fatto che oggi esistono due diversi prezzi, l´uno la metà dell´altro, per lo stesso tipo di libro: nuovo, grosso, rilegato. Per lo stesso tipo, ma non per gli stessi libri. Se si esclude la forma breve, non si sono ancora viste opere di grandi narratori, non importa se letterari o di intrattenimento, a prezzo dimezzato. Se ne vedranno mai? C´è da dubitarne, considerato che molto difficilmente i suddetti narratori rinuncerebbero a cuor leggero a metà dei propri sudati e meritati guadagni. Per non parlare naturalmente degli editori, dei librai e di quanti hanno i propri proventi direttamente legati al prezzo di copertina. Dunque benissimo il 9 e 90 finché è un´eccezione, una stranezza, una curiosità. Ma tutt´altra storia se dovesse generalizzarsi o anche solo diventare un segmento essenziale del mercato. In questo modo, però, si viene affermando una logica nuova: il prezzo, in questo caso il prezzo dimezzato, è legato non a caratteristiche fisiche del libro – la lunghezza, il formato, le caratteristiche dell´edizione – ma a una sorta di giudizio a priori sulla qualità del libro. Se popolare, facile, non impegnativo prezzo basso. Se di alta (o maggiore) qualità, più complesso e arduo prezzo alto. Legare il prezzo alla qualità, come ha scritto su queste colonne Simonetta Fiori è la caratteristica essenziale del discount. Ma si potrebbe aggiungere anche di tanta editoria popolare, quando il termine popolare non aveva assunto ancora tutte le valenze positive che gli sono state attribuite nel dopoguerra. Era normale negli anni Venti e Trenta che una casa editrice affiancasse alla produzione maggiore una di qualità minore – letteraria, fisica – destinata ai ceti popolari, prevalentemente femminili (libri per le serve, si diceva). Con interessanti svarioni indotti dall´ambiguo concetto di qualità.
Nel 1936 ad esempio, la Mondadori ritenne che Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald fosse di natura servile e lo pubblicò non nella mitica Medusa, ma nei volgaroni Libri della palma con il roboante titolo Gatsby il magnifico, fatto apposta per palati non finissimi. Stiamo dunque ritornando alla prima metà del secolo scorso? Si aprirà un vero e proprio mercato del discount? Non sembra probabilissimo. L´evoluzione dell´editoria libraria nella seconda metà del Novecento ha tendenzialmente eliminato la distinzione del pubblico in classi sociali e la conseguente possibilità di restaurare un´editoria popolare. E il semplice principio del dimezzamento del prezzo non è economicamente sopportabile. Con il prezzo dimezzato occorre raddoppiare le vendite per avere gli stessi ricavi, ma su questi stessi ricavi graverebbe poi il doppio dei costi di produzione. Un incubo. L´economia del libro non è di per sé fragile, ma certo è delicata. Improponibile il ritorno all´editoria popolare e impraticabile il discount generalizzato, viene in luce il carattere proprio dell´operazione 9 e 90. Che è duplice: in primo luogo il superamento della soglia psicologica dei 10 euro per le novità di peso. In questo modo, tra l´altro, si accetta implicitamente la sfida dell´e-book, che si metterà a cavallo dei 10, sul suo stesso terreno, l´ultima raffica del libro di carta. Ma in secondo luogo, e soprattutto, una geniale operazione di marketing, orientata a porre sotto i riflettori il marchio editoriale, a scalare le classifiche in tempi di vacche magre, ad attribuirsi il ruolo di svecchiamento e di innovazione, a riportare un po´ di allegria tra quei musi lunghi di editori e librai. Chapeau, naturalmente. Ma certo la stazione di Exeter era un´altra cosa.

Repubblica 12.2.12
Un tempo era possibile il sogno di una biblioteca universale Oggi, invece, viene pubblicato un titolo ogni mezzo minuto
Breve storia dell’entropia editoriale
di Jesùs Marchamalo


Mi ha molto colpito leggere, tempo fa, che nei primi cento anni dopo l´invenzione della stampa furono pubblicati circa trentacinquemila titoli, praticamente un libro al giorno. Ci fu, dunque, un momento in cui non era pazzesca l´idea di impadronirsi di tutti i libri esistenti al mondo. E in effetti un collezionista, un certo Hernando de Colón, ci provò e, alla sua morte, lasciò agli eredi poco più di sedicimila esemplari: la metà dei libri stampati allora esistenti.
Per secoli, scrittori, lettori, autorità di tutte le discipline, hanno dovuto accontentarsi, potendo disporre di un numero veramente limitato, piccolo, di libri. Velázquez, per esempio, uno dei più grandi lettori del suo tempo, riuscì a metterne insieme, in tutta la sua vita, più di 150 esemplari, che conservava nel suo studio. Negli ultimi cinquant´anni, invece, l´umanità ha pubblicato quasi quaranta milioni di libri (un nuovo titolo ogni mezzo minuto, 120 all´ora, 2800 al giorno). Come se avessimo continuamente tante cose importanti da raccontare. In Spagna si pubblicano, ogni anno, circa settantamila titoli. Qualche riedizione, alcuni libri tecnici, ristampe, e il resto, novità.
Più di un amico libraio – soffocato da questo eccesso angosciante di libri – mi ha spiegato che il mercato costringe a un´incessante rotazione sul banco delle novità. Una battaglia non sempre incruenta, nella quale i libri devono difendere ogni centimetro quadrato di superficie come in una spietata battaglia. Ci sono libri che rimangono esposti solo qualche giorno prima di essere espulsi, con la spada fiammeggiante, per finire negli scaffali se non direttamente nelle scatole dei resi. Mai la promessa di un minuto di gloria fu così strettamente letterale.
Una produzione tanto elevata di titoli obbliga, necessariamente, a un calo delle tirature. Non è strano, né eccezionale, che un libro non venda più di qualche centinaio di esemplari. Venderne tre o quattromila è diventare, praticamente, un best-seller.
Quindi, la possibilità di incontrare casualmente un proprio lettore è tanto remota quanto quella di essere investiti da un meteorite. A me è successo solo una volta, quando su un autobus vidi una persona che leggeva un mio libro. E non seppi che fare, né che cosa dire. È un male che ci siano tanti libri? Non lo so. Una volta, ho sentito dire a Jorge Herralde, uno dei più importanti editori indipendenti spagnoli, che, in fin dei conti, sono loro che, pubblicando, rischiano i propri soldi e, quindi, solo loro deve essere la responsabilità di decidere con quanti titoli si vogliono rovinare.
Non so se a noi scrittori converrebbe un mercato editoriale più piccolo, più razionale e, probabilmente, più guidato da criteri commerciali. Sospetto che i grandi best-seller non sarebbero danneggiati da un mercato di questo tipo. Forse gli scrittori che non vendono tanto, sì. In ogni caso, fa venire le vertigini pensare che ogni volta che compriamo un libro, e che ce lo incartano, stiamo rinunciando a comprare i rimanenti sessantanovemila, sempre osservando il cielo, del resto, se mai dovesse anche caderci addosso il meteorite.
(traduzione di Luis E. Moriones)

il Fatto 12.2.12
Lista civica? Mai senza i democratici

Vendola a Di Pietro: “Voglio fare una coalizione per governare”
di Wanda Marra


“Ci dice di più della realtà di questo Paese il meteo, che il dibattito politico. Il maltempo sta mettendo in evidenza tutte le falle pre-esistenti”. Nichi Vendola, leader di Sel e Governatore della Puglia, batte e ribatte sullo stesso tasto: bisogna spostare la prospettiva e per farlo ci vuole più sinistra. Anche se in questo momento se ne vede un po’ poca. Anzi le trattative in corso per fare una nuova legge elettorale sembrano nascondere il progetto di far fuori “le ali”, i partiti alle estremità. Tanto che Antonio Di Pietro in un’intervista al Fatto ha lanciato l’idea di una lista civica con Sel, Rifondazione e i sindaci, nel caso di sbarramento al 10 per cento.
Presidente, come intende porsi rispetto all’idea di una nuova legge elettorale magari con una soglia di sbarramento alto?
Non c’è ancora un’ipotesi di lavoro chiara. Noi abbiamo in corso colloqui col Pd e con l’Idv: deve essere eliminato il Porcellum. All’incontro dell’Hotel Minerva a Roma con Pdl e Terzo Polo, abbiamo sottolineato che ci vuole una legge che salvaguardi la democrazia, rispetti il pluralismo e consenta all’elettore la possibilità di indicare la coalizione .
Già su quest’ultimo punto, il Terzo Polo si oppone. E una soglia di sbarramento alta è una delle ipotesi di lavoro.
Siamo al primissimo incontro. E Bersani ci ha assicurato che non esiste alcun progetto di cambiare la soglia di sbarramento.
Quindi lei non crede all’inciucio Pd-Pdl, con la partecipazione del Terzo Polo denunciato da Di Pietro?
Di Pietro allude a un rischio. Lui lavora per innalzare la temperatura del clima politico. Io credo alla parola di Bersani, ovvero che non stiamo assistendo a un gioco fatto con la strumentalità e malvagità politica dichiarata da Berlusconi: un abbraccio mortale con il Pd per fare una legge che lasci fuori tutti gli altri e tenga in vita solo i due partiti maggiori.
Ma sono parole.
Nella politica contano le parole.
Anche i fatti, però.
In politica, le parole sono fatti. E comunque se fossero parole truffaldine si rivolterebbero contro chi le ha dette. Credo alla lealtà di Bersani.
Di Pietro ha proposto di fare una lista civica nel caso nella nuova legge elettorale ci sia uno sbarramento del 10%. E ieri Ferrero l’ha rilanciata, anche senza sbarramento. Quindi lei non ci sta?
Il punto è sempre la qualità del progetto. Per esempio non bisogna assolutamente togliere la questione del lavoro dall’agenda politica, lasciandola ai sindacati.
Ma il progetto di una lista civica la convince o no?
Stiamo parlando di cose diverse. Nella prospettiva di Ferrero esiste solo e soltanto una coalizione di opposizione. Io a Ferrero non ho mai detto di sì. Nella mia, ma credo anche in quella di Di Pietro e dei sindaci che hanno fatto la scommessa di mettere al centro del dibattito i beni comuni, l’idea è quella di fare una coalizione che possa governare il Paese.
Quindi, semplificando, è favorevole o no alla proposta di Di Pietro?
Io penso che una lista civica debba necessariamente avere un rapporto col Pd, che è tradizionalmente il più forte nel popolo di centrosinistra. Non rinuncio all’idea di avere dalla nostra parte di quella forza.
Però, potrebbe essere il Pd a rinunciare a voi, visto che fa parte di una maggioranza sempre più compatta con Alfano e Casini
Il Pd guarda talvolta con occhio critico ai provvedimenti del governo Monti.
Però li vota
Noi non dobbiamo rinunciare a lottare per cambiare i rapporti di forza. Il Pd ha un popolo di elettori, iscritti e simpatizzanti che io non mollo a nessuno. Voglio vincere questa partita: il nostro Paese ha pagato un prezzo fin troppo alto al liberismo.