lunedì 13 febbraio 2012

l’Unità 13.2.12
Rapporti più stretti con il Pse, tensione tra i Democratici
Tre quarantenni del Pd, Fassina, Orfini e Orlando, lanciano l’idea di spostare il Pd più decisamente sul fronte della sinistra europea, puntando sull’alleanza con gli altri partiti progressisti. E la discussione infiamma il partito.
di A.C.


ROMA. L’identità del Pd torna ad infiammare la discussione tra i Democratici. Dopo una lunghissima battaglia, nel 2009 la questione della collocazione europea era stata risolta con la creazione al Parlamento europeo dell’«Alleanza dei socialisti e dei democratici». Ma, complice la crisi globale, il tema è tornato a galla. E tre quarantenni della segreteria, Fassina, Orfini e Andrea Orlando, sono finiti sul “banco degli imputati”. Per quale motivo? Per l’intenzione di spostare il Pd più decisamente sul fronte della
sinistra europea, accentuando il valore dell’alleanza con i partiti socialisti e con i loro leader, che fanno della critica al liberismo uno dei tratti distintivi della loro piattaforma. Orfini e Orlando hanno confidato alcune opinioni al Foglio di Ferrara, con il primo che ha invitato a «dimenticare ciò che è stato il Lingotto» di Veltroni e il secondo a spingere «per diventare il perno di una moderna sinistra europea». Il giornale di Ferrara ha identificato in un seminario organizzato, tra gli altri, anche dai tre quarantenni bersaniani, il d-day per il lancio di un «documento politico». E ieri Scalfari su Repubblica si è indignato, chiedendo conto a Bersani della presunta svolta socialdemocratica e annunciando il suo dissenso: «Non credo che avrei votato per un partito del genere».
Sulla Rete, in particolare Facebook e Twitter, è partita una battaglia. Con numerosi ex popolari pronti a far sentire la propria contrarietà. «Chi vuole ridurre il Pd al rango di Pse italiano fa prima a dire che vuole chiuderlo», dice Follini. «Qualcuno vuol far morire il Pd», si allarma Enzo Bianco. Lucio D’Ubaldo, vicino a Fioroni, è ironico: «Fare la sezione italiana del Pse, come si congettura nel “cerchio magico” del Nazareno, travalica le competenze dell’attuale gruppo dirigente e persino di un futuro congresso». Orfini replica a Scalfari: «È sempre più confuso, ci fa la caricatura». E Il vicesegretario Enrico Letta: «A proposito di dna del Pd, con la scelta di sostenere Monti per la prima volta dal 2008 saliamo in tutti i sondaggi».
Fassina smentisce: «Il primo marzo c’è un seminario sulla crisi economica con molti esponenti dell’associazionismo cattolico. Nessun documento, nessuna proposta per una svolta socialdemocratica». Andrea Orlando spiega: «Nessuno è così sprovveduto da pensare che il Pd possa diventare un partito socialdemocratico tout court». E tuttavia molti di noi ritengono che «il rapporto con la cultura socialista, e con il Pse sia vitale e da rafforzare. Nessuno si dovrebbe stupire né alterare di ciò». «Il nostro impegno conclude Orlando è per fare in modo che centrale in questa piattaforma sia il contributo del riformismo cattolico».

l’Unità 13.2.12
In Europa il Pd con i progressisti
Dov’è il problema?
di Matteo Orfini


A dar retta ad alcuni illustri commentatori e a importanti esponenti del mio partito, c’è il rischio di farsi girare la testa. Da un lato si richiama giustamente il vincolo europeo, spiegando quanto la soluzione dei nostri problemi passi dal rafforzamento dell’Europa politica, unico strumento possibile di riequilibrio del rapporto tra sovranità democratica e potere economico. Dall’altro lato, appena da questa premessa si traggono le inevitabili conseguenze, scattano enormi resistenze da parte di chi, avendo paura di misurarsi davvero col futuro, preferisce crogiolarsi in un passato che non c’è più piuttosto che abbandonare la rassicurante ambiguità del presente.
Di fronte alla crisi drammatica che sta colpendo la zona euro, è evidente a tutti l’inadeguatezza della risposta dei gruppi dirigenti europei. Gruppi dirigenti che sono espressione, ricordiamolo, della destra. Per questo noi tutti speriamo che a vincere siano Hollande in Francia, Miliband in Inghilterra, Gabriel in Germania: o la politica europea cambia radicalmente o sarà la catastrofe, come dimostra la gestione suicida della crisi greca, che sta avendo l’unico effetto di mettere in ginocchio quel paese.
Siamo tutti d’accordo, fin qui? O c’è tra noi qualcuno che approva il no agli Eurobond e il no a un diverso ruolo della Bce? O c’è davvero tra noi nel Pd come in qualsiasi partito, giornale, corrente, spiffero progressista di questo paese qualcuno che se la senta di approvare quello che da due anni le autorità europee stanno facendo alla Grecia?
Perché le cose sono due: o non siamo d’accordo nemmeno su questo, e allora abbiamo un problema molto più serio del nostro rapporto con l’Europa, oppure, almeno su questo, la pensiamo tutti allo stesso modo. E allora dovremo pur domandarci chi, tra le attuali forze politiche europee, la pensi come noi. Ma in tal caso la risposta è semplice, e senza possibilità di equivoci: il Pse. In questo senso, dunque, la prospettiva del Pd non può che essere quella di un rafforzamento del rapporto col Pse. Certo, quel partito deve cambiare, aprendosi ad altre forze e culture, come in parte sta già facendo. Ma in Europa altro non c’è, e quell’evoluzione, comunque, dipende anche da noi, che del campo di forze progressiste non siamo certo piccola parte. Per quale motivo non se ne dovrebbe nemmeno discutere? Si obietta che questo ragionamento snaturerebbe il Pd, escludendo il mondo cattolico. E perché mai? Per quale ragione battersi per ridurre le diseguaglianze e trovare la via di uno sviluppo più equilibrato e più giusto escluderebbe i cattolici? Perché di questo si discute in Europa e per questo i socialisti propongono misure come la tassazione sulle transazioni finanziare, l’istituzione degli eurobond, l’inserimento di nuove regole che imbriglino gli eccessi della finanza. Gli altri stanno con Merkel e Sarkozy. E con Berlusconi.
Mentre sono proprio le massime autorità della Chiesa a esprimersi con parole ben più dure sull’ormai inaccettabile squilibrio tra capitale e lavoro. A volte sembra che le polemiche nascano più dalla preoccupazione di un ceto politico che reclama il monopolio nell’interlocuzione col mondo cattolico che da questioni di merito. Ma, almeno per quel che mi riguarda, anche in questo caso credo che la liberalizzazione sia più efficace del monopolio.
Quanto all’obiezione secondo cui si tratterebbe di uno spostamento a sinistra del Pd, non stupisce che a muoverla sia chi predica come soluzione innovativa alla malattia europea proprio quelle ricette che la malattia hanno prodotto. Dimenticando, tra l’altro, che gli anni 90 sono finiti. Non possiamo spacciare per nuovo quello che era nuovo, a essere generosi, oltre venti anni fa. Di terza via non parla più nessuno nemmeno in Gran Bretagna, dove è anzi il Financial Times a interrogarsi, semmai, sul “capitalismo in crisi”. Certo, molti sono ancora affezionati a quell’impianto teorico, e infatti è di questo che discutiamo, anche nel Pd. Ma la divisione, allora, non è tra laico-socialisti e cattolico-liberali. Per due anni alcuni di noi hanno detto crescita quando altri dicevano tagli di bilancio, lavoro invece che riduzione dei diritti, politiche industriali piuttosto che arretramento dello stato. Tanto nelle questioni economico-sociali quanto in quelle istituzionali, per riprendere le parole di Massimo Luciani sull’Unità, questa è per noi la lezione della Costituzione. Ed è qui, nella carta del ’48, che sta la più profonda, indistruttibile radice politico-culturale del patto su cui si fonda il Partito democratico.

Repubblica 13.2.12
Le reazioni all’articolo di Scalfari
"Democratici più vicini al Pse". L´ala liberal insorge: un suicidio
Gentiloni: un partito vicino al socialismo non sarebbe il Pd. Il prodiano Gozi: non guardiamo indietro


ROMA - È bastato un post scriptum di Eugenio Scalfari a portare in chiaro un litigio che nel Pd si stava consumando sotto traccia. Una frattura, quella di sempre tra le due anime del partito, che rimane lì, pronta a far male a ogni passo. «Alcuni esponenti della segreteria del Pd - ha scritto ieri il fondatore di Repubblica - sembrano decisi a presentare la proposta di trasformarlo in un partito socialdemocratico sullo schema del partito socialista europeo». Scalfari considera l´ipotesi contraria alla natura del Pd e chiede di sapere cosa ne pensi Bersani. Gli risponde uno degli interessati, Andrea Orlando, responsabile giustizia del partito, che con Stefano Fassina e Matteo Orfini avrebbe appunto in mente di riscriverne il dna: «Non esiste alcun documento e nessuno è così sprovveduto da pensare che il Pd possa diventare un partito socialdemocratico tout court. Resta il fatto che il rapporto con la cultura socialista e con il Pse sia vitale e da rafforzare. Nessuno si dovrebbe stupire né alterare di ciò». E invece, qualcuno si altera. I veltroniani ad esempio: «Dice bene Scalfari, un Pd socialista non sarebbe il Pd», scrive su Twitter Paolo Gentiloni. «Sarebbe opportuno conoscere l´opinione di Bersani», gli fa eco Andrea Martella. E mentre Matteo Orfini accusa Scalfari di aver fatto «una caricatura» della vicenda, crescono le proteste: «Chi vuole ridurre il Pd al rango di Pse italiano fa prima a dire che vuole chiuderlo», scrive Marco Follini. «Qualcuno vuol far morire il Pd», si allarma il liberal Enzo Bianco. «Un manifesto che riducesse il Pd a sezione italiana del Pse sarebbe un manifesto funebre - conferma il prodiano Sandro Gozi - ma rassicurare, come fa Andrea Orlando, sull´apertura al fecondo contributo del riformismo cattolico, significa fare proposte guardando lo specchietto retrovisore. E proporre una riedizione del compromesso storico in formato bonsai».
(a. cuz.)

Repubblica 12.1.12
Il paradosso di Atene e le due sedie dell’Europa
di Eugenio Scalfari


Ci sono due temi di stringente attualità ai quali voglio oggi dedicare queste mie riflessioni: il probabile fallimento greco e le sue ripercussioni sull´Europa; i partiti e la democrazia italiana dopo Monti (e dopo Napolitano). Al centro di questa tenaglia c´è il paese Italia con i suoi vizi (molti) le sue virtù (poche) le sue contraddizioni (infinite).
Comincio dal primo: il fallimento greco e la sua uscita dall´euro è ritenuto pressoché inevitabile entro il prossimo marzo o al più tardi nel prossimo autunno. La società di quel paese ha dichiarato guerra al governo che ha tentato di attuare il piano di austerità impostogli dall´"Europa tedesca". Inutilmente. L´aumento del debito in rapporto al Pil è alle stelle (180 per cento) e altrettanto alle stelle i rendimenti del debito sovrano che il sistema bancario internazionale giudica ormai carta straccia tanto da accettarne (malvolentieri) una liquidazione solo con uno sconto del 70 per cento.
La situazione si è dunque avvitata e non si avvistano alternative valide, se ne può soltanto prolungare l´agonia.
La cancelliera Merkel ha detto due giorni fa che il fallimento della Grecia avrà rischi incalcolabili sull´Unione. Voce dal sen fuggita, si potrebbe dire, poiché proviene dalla stessa persona che si è finora tenacemente opposta ad adottare la sola misura che poteva mettere al sicuro la Grecia dal trauma e con essa il Portogallo che la segue a ruota e l´Irlanda, per non parlare della Romania e della Bulgaria: la creazione degli Eurobond e la sostituzione dell´Eurozona nella titolarità dei debiti sovrani dei 17 paesi che ne fanno parte.
Una soluzione di questo genere significava la nascita dello Stato federale europeo, almeno per quanto riguarda i paesi che hanno adottato la moneta comune. Ma né la Germania né la Francia sono ancora disposti a questo passo. Il loro obiettivo resta quello d´una Confederazione rafforzata da alcune parziali cessioni di sovranità dagli Stati nazionali: una via di mezzo che significa di fatto sedersi tra due sedie, cioè col sedere per terra.
* * *
Francamente non so valutare se l´economia greca, una volta che sia uscita dall´euro e tornata alla dracma, riuscirà a sopravvivere e perfino a riprendersi. Probabilmente sì, una svalutazione "selvaggia" della dracma, un sostanzioso slancio del turismo, la vendita di alcuni formidabili asset culturali migliorerebbero la situazione patrimoniale. Potrà bastare? Oppure precipiterà il paese in una vera e propria guerra civile e nella sua frantumazione politica e geografica? Le previsioni sono quanto mai azzardate su temi di questa natura.
Meno azzardate sono le previsioni su quanto potrebbe accadere agli altri membri dell´Eurozona, rimasti in 16 o magari in 14 se anche Portogallo e Irlanda arrivassero al "default". Abbiamo già ricordato che la Merkel parla di danni incalcolabili per il resto dell´Eurozona e anzi di tutta l´Unione. Certo non sarebbe una passeggiata amena gestire una crisi di quella natura, non tanto per le dimensioni dei debiti sovrani in questione quanto per il fatto che alcune grandi banche, soprattutto tedesche e francesi, ne possiedono una notevole quantità nei loro portafogli. A loro volta le obbligazioni di quelle banche tedesche e francesi sono in ampia quantità possedute da banche importanti in tutto il mondo.
Insomma, il fallimento di due o tre paesi dell´Eurozona avrebbe ripercussioni molto serie sul sistema bancario internazionale obbligando gli Stati nazionali a nazionalizzare totalmente o parzialmente una parte notevole dei rispettivi sistemi bancari.
Con quali strumenti? Stampando moneta attraverso le rispettive Banche centrali: Federal Reserve, Bce, Banca d´Inghilterra, Banca nazionale svizzera e probabilmente anche le Banche centrali della Cina, India, Giappone, Russia.
Gli effetti generali d´un salvataggio bancario di queste dimensioni in tempi di recessione già in corso, ne prolungherebbe la durata producendo al tempo stesso inflazione. Si chiama "stagflation" che è quanto di peggio possa capitare specialmente in Europa e in Usa. Forse la Merkel è questo che aveva in mente.
Per farvi fronte l´Europa ha due strade (che sono state indicate nell´articolo del direttore del "Times" che il nostro giornale ha pubblicato venerdì scorso): marciare dritti verso la costituzione d´un vero e proprio Stato federale europeo oppure ritrarsi in una Confederazione europea di libero scambio senza più moneta unica. Due scenari densi d´incognite.
Personalmente continuo ad essere moderatamente ottimista. Credo cioè che l´eventuale crisi bancaria non sarebbe di dimensioni ingestibili; credo che - Grecia a parte - non ci sarebbero altri "default" e credo anche che il fallimento della Grecia produrrebbe un´accelerazione verso un´Europa federale. Credo infine che dal male possa venire un bene e che l´Italia, se Monti potrà proseguire nel suo programma di modernizzazione dello Stato e della società, possa contribuire al bene dell´Europa e al proprio.
Probabilmente questi risultati avranno bisogno d´un tempo più ampio che vada oltre la scadenza elettorale del 2013 e questo mi porta ad esaminare il secondo tema di queste riflessioni: la democrazia italiana del dopo-Monti.
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Pensare come alcuni politici italiani ancora pensano, che dopo le elezioni del 2013 tutto torni al "heri dicebamus" è pura follia. La seconda Repubblica è ormai smantellata, la prima è stata sepolta vent´anni fa e non potrà essere resuscitata perché dal 1992 ad oggi l´intera struttura del paese è cambiata e ripristinare la sovrastruttura politica e culturale di allora è manifestamente impossibile.
Ci vogliono mutamenti costituzionali e istituzionali, ci vuole una nuova legge elettorale consona, ci vuole soprattutto la rinascita dei partiti che attualmente vivono in uno stato larvale.
I partiti come li prevede la Costituzione debbono essere strumenti di elaborazione politica e culturale, portatori d´una visione del bene comune e capaci di raccogliere il consenso degli elettori, cioè la rappresentanza parlamentare, che tuttavia dev´essere anche aperta all´accesso di movimenti e singole persone espressione diretta della società civile.
La legge elettorale costituisce lo strumento che consente la rappresentanza e assicura al tempo stesso la governabilità. Si debbono dunque riformare i partiti anche attraverso l´istituzione delle primarie; si debbono adottare come base elettorale i collegi uninominali, si deve abolire il premio e sostituirlo con un´adeguata soglia di sbarramento per evitare soverchie frantumazioni e improprie alleanze pre-elettorali. Infine si deve impedire che i partiti restino quel che sono e cioè conventicole e consorterie di varia e non sempre esaltante natura.
Le Camere esprimeranno maggioranze e opposizioni. Le maggioranze esprimeranno al Capo dello Stato i valori e gli indirizzi ricevuti dal corpo elettorale ed eserciteranno il doveroso controllo sull´operato del governo. Le opposizioni a loro volta prospetteranno una visione alternativa del bene comune partecipando a pieno titolo al controllo sull´operato del governo e della pubblica amministrazione.
Il finanziamento dei partiti e dei gruppi parlamentari dovrà essere fin d´ora disciplinato in forma idonea; l´argomento fu posto al numero uno del decalogo con il quale il Partito democratico si presentò alle elezioni del 2008 sotto la guida di Veltroni, ma non fu mai concretamente affrontato così come non è stata mai adottata la norma costituzionale che impone una struttura democratica all´interno dei partiti e dei sindacati affidandone la verifica ad autorità terze. Varrebbe la pena che argomenti come questi fossero posti all´ordine del giorno delle forze politiche e sindacali.
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Il presidente della Repubblica ha i poteri che la Costituzione gli affida e questi poteri culminano nella nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei ministri. Evidentemente il Quirinale si deve porre il problema che il suo candidato ottenga la fiducia del Parlamento, ma è al Quirinale che spetta la scelta per compier la quale non è prevista alcuna procedura di preventiva consultazione. La nomina di Monti insegni.
Fu dettata dall´emergenza? Non soltanto. Pur tenendone conto, il presidente Napolitano avrebbe avuto largo campo di scelta perché c´erano almeno altri tre nomi che potevano soddisfare quell´esigenza. Napolitano scelse direttamene e in perfetta aderenza al dettato costituzionale. Questa è dunque la corretta e la più che opportuna procedura e penso che debba essere uno dei pilastri portanti della terza Repubblica.
I contatti tra le forze politiche su questo complesso di questioni è già in corso. Fare previsioni sugli esiti è un´ardua impresa, ma è auspicabile che esse tengano ben presenti le esigenze che qui abbiamo indicato e che emanano dal mutamento dei tempi e delle strutture politiche, sociali, economiche e culturali. Altrimenti saranno costruiti castelli di sabbia, preda dei venti e privi di futuro.

Post scriptum. Alcuni deputati che fanno parte della segreteria del Partito democratico sembrano decisi a presentare ai loro organi dirigenti la proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del partito socialista europeo.
Ciascuno pensa e fa quel che "il core mi ditta dentro e va significando" ma il senso di questa proposta mi sfugge.
Sono tra gli elettori del Pd ed ho partecipato alle primarie fin dai tempi dell´Ulivo di Prodi e poi del Pd come certificano le liste stilate nei gazebo dove il voto delle primarie veniva raccolto insieme ai dati anagrafici dei votanti. Credo sia il solo partito italiano che adotta le primarie e me ne rallegro, ma non credo che avrei votato per un partito socialdemocratico che oggi a me sembra del tutto anomalo nel panorama italiano. Se la proposta passasse penso che sarebbe un favore per il partito dell´Udc, un genere di favore che non può essere ricambiato.
Il Pd è nato appena quattro anni fa come partito riformista e innovativo ed ha avuto il voto anche di molti liberali di sinistra ed ex azionisti come anch´io sono. Quando si presentò alle elezioni ebbe il 34 per cento dei voti: mai i riformisti italiani, durante la monarchia e poi durante la repubblica, erano arrivati ad un terzo del corpo elettorale. Era lo stesso livello raggiunto dal Pci di Berlinguer, di cui però il Pd non era la continuazione.
Sarei molto lieto di conoscere in proposito l´opinione del segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Tanto per sapere, come elettore del partito da lui guidato.

l’Unità 13.2.12
Editoria, l’inerzia del governo può uccidere il pluralismo
Liberazione chiusa, il Manifesto in liquidazione coatta, un centinaio di testate a rischio: i gravi ritardi e le incertezze dell’esecutivo vanificano lo stesso appello di Napolitano
di Roberto Monteforte


Quando le nuove regole per accedere al fondo per l’editoria? Quale sarà lo stanziamento per sostenere la stampa non profit, di idee, politica e cooperativa? Sarà adeguato? Se lo domandano gli amministratori che devono gestire aziende editoriali oramai vicine al collasso e, soprattutto, chi vi lavora, giornalisti e poligrafici, impegnati a difendere oltre che posti di lavoro e professionalità, testate che arricchiscono il pluralismo del nostro paese. Siamo oramai oltre il tempo massimo.
L’incertezza rischia di uccidere le aziende, esattamente come la decisione di tagliare loro in modo indiscriminato il finanziamento diretto. Quello che resta certo e incontrovertibile sono i tagli retroattivi applicati agli stanziamenti relativi al 2010 su importi già messi a bilancio e spesi dalle aziende. Resta l’incertezza sui finanziamenti relativi al 2011, praticamente già anticipati dalle banche e spesi. E su quelli relativi all’anno in corso.
Una situazione ingestibile per qualsiasi azienda. Tanto più per un settore da tempo in crisi. Lo attesta la sequela drammatica delle testate che annunciano la loro chiusura: la liquidazione coatta de il manifesto e prima ancora sospensione delle pubblicazioni di Liberazione e di Terra e di tante altre testate cooperative e locali. Per non parlare delle emittenti locali. Lo stesso destino de l’Unità è appeso ad un filo. Per non parlare del Riformista, del Secolo d’Italia, di Europa, della Padania, di Avvenire. È il pluralismo dell’informazione ad essere minacciato.
Non erano allarmistici gli appelli lanciati nei mesi scorsi dal Comitato per la libertà d’informazione e la difesa del pluralismo, l’organismo unitario che raccoglie voci e sensibilità politiche e culturali diverse (dalla Fnsi a Mediacoop e Federcoop, dalla Cgil alla Federazione dei settimanali cattolici, dalla Cisl all’Associazione art.21 per la libertà d’informazione) sulle oltre 100 testate a rischio chiusura e sui quattromila lavoratori che rischiavano di perdere il posto di lavoro. Una situazione drammatica denunciata con chiarezza già lo scorso anno dai direttori di cento testate al presidente del consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Fini e Schifani e ai segretari dei partiti rappresentati in Parlamento. E ancora prima nella lettera inviata al capo dello Stato, Giorgio Napolitano che ha fatto propria questa preoccupazione, raccomandando al governo attenzione alla tutela del pluralismo nel rigore.
Una linea condivisa da tutti. Anche dal premier Monti e ribadita dal sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico che si era impegnato a definire ai primi di gennaio di quest’anno i nuovi criteri, più rigorosi, legati alla vendita in edicola e al numero dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Bonifica, rigore e risorse: questo era l’impegno. Compresa una disponibiltà ad integrare i tagli al Fondo editoria voluti dal ministro Tremonti. Il settore non chiedeva una cifra straordinaria: 180 milioni di euro. Sarebbe costato di più far fronte ai prezzi della crisi del settore.
Ma dalla Finanziaria di Monti non vi è stato alcuna integrazione ai finanziamenti «diretti». Solo l’apertura di una finestra: l’utilizzo del «Fondo Letta», quello a disposizione della presidenza del Consiglio per fronteggiare le emergenze e le calamità naturali, per integrare il Fondo per l’editoria e far fronte alle situazioni di crisi del settore. È rimasta una «finestra» vuota. Non per Radio radicale che si è vista rinnovare la sua convenzione milionaria. Si è atteso il Milleproroghe, ma malgrado gli emendamenti presentati in Parlamento, la risposta non è arrivata. Sino ad oggi non vi è alcuna integrazione ai 53 milioni del Fondo editoria e nessuna indicazione sui nuovi criteri per accedervi.
Vi sarà un decreto ad hoc della presidenza del Consiglio? I tempi sono strettissimi, servono indicazioni precise. Le proposte sono da tempo sul tavolo. Le ha presentate la Federazione della Stampa, con il segretario Franco Siddi, Mediacoop e gli altri soggetti. Il confronto avviato con il sottosegretario Malinconico, è stato ripreso con il successore Paolo Peluffo. Cosa si aspetta? Siamo a metà febbraio. La situazione per il settore si fa sempre più drammatico. Il premier Monti, suo malgrado, rischia di portare a termine quello che non è riuscito a Berlusconi: la chiusura delle voci critiche e autonome, che non rispondono ai grandi potentati economico-finanziari. Se l’obiettivo di questo governo «tecnico» è quello di coniugare equità e sviluppo, può perseguirlo rinunciando a tutelare il pluralismo e quelle voci che alla domanda di equità danno voce.

l’Unità 13.2.12
Il problema è la finanza che diventa un fine
Ma il passato non torna
Già Marx criticava il capitalismo puro, privo di regole e controlli
Serve una gestione controllata delle economie. La sinistra non può stare in difesa C’è bisogno di innovazione, le formule keynesiane oggi non funzionerebbero
di Vincenzo Visco


È in corso da qualche tempo un dibattito sulla crisi del capitalismo cosa che non può certo sorprendere dopo tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni. Il 1 ̊ novembre scorso, proprio su questo giornale scrivevo: «... si affaccia un problema...
di legittimità dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti l’accettabilità di un sistema economico-sociale richiede la sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità e di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità». Che una crisi dei nostri sistemi economici esiste è evidente, e da questo non pochi a sinistra stanno traendo motivi di compiacimento e soddisfazione: «noi lo sapevamo», «noi lo avevamo detto», «noi avevamo ragione». Un approccio di questo genere rischia tuttavia di produrre una regressione politico-culturale pericolosa.
Vediamo. Il fatto che il sistema capitalistico soprattutto quello nella sua forma pura, privo di regole, controlli, limiti e contrappesi sia pericolosamente instabile è ben noto almeno dai tempi in cui Marx descriveva i meccanismi dei collassi economici dell’800 (tragicamente identici a quelli che abbiamo sperimentato nel 2008). Lo stesso problema fu al centro della riflessione e dell’analisi di Keynes, e non è un caso che nel periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni 80 del secolo scorso, quando fu in vigore il “compromesso keynesiano”, il sistema risultò molto più stabile, pur in presenza di fluttuazioni cicliche. In sostanza il capitalismo liberista è cosa ben diversa dal capitalismo regolato di matrice keynesiana (o socialdemocratica). Così come il capitalismo americano individualista e flessibile, è sempre stato diverso (in ambedue le versioni, liberista e keynesiana) da quello europeo molto più solidale, assistenziale, corporativo, oligopolista, ma anche esso oggi in difficoltà per ragioni demografiche e di sostenibilità del welfare. Il capitalismo fascista e nazista era a sua volta diverso da quello americano dirigista e programmato il primo, liberale il secondo.
Analogamente il nuovo capitalismo russo (che non a caso piaceva molto a Berlusconi) appare simile alla versione predatoria e monopolista dei robber barons americani nell’800 che non a caso fu transitoria, mentre il durissimo capitalismo cinese che coniuga il mercato nella sua forma più spinta con un dirigismo autoritario di ultima istanza che garantisce il sistema, la sua tenuta e la sua coesione, è esperienza diversa da tutte le altre, e a sua volta diversa da quella del Giappone, o di altri Paesi orientali. In sostanza è oggi in crisi quella forma di capitalismo in cui i mercati finanziari (banche, borse, intermediari vari) prendono il sopravvento e diventano autoreferenziali, un fine e non un mezzo, vale a dire quella variante del capitalismo che fu responsabile della crisi degli anni 30, e che si è riaffermata negli ultimi decenni fino al collasso attuale ma che è stata anche alla base di enormi fasi di crescita compresa l’ultima globalizzazione.
Sia lo sviluppo accelerato che i crolli improvvisi provocano traumi e sofferenze, ma la regressione economica collegata al collasso di una precedente fase di sviluppo può facilmente diventare socialmente insopportabile e rischia di precipitare in una crisi politica anche perché, di fronte ai problemi inediti che la crisi pone, le classi dirigenti appaiono inadeguate, impotenti, incapaci. È necessaria quindi una grande capacità di innovazione che negli anni 30 fu rappresentata da Roosvelt in America, ma ahimé da Hitler in Europa. Anche oggi il rischio di una svolta verso una forma di capitalismo autoritario (di tipo cinese) non è da escludere.
È anche bene ricordare che dopo la seconda guerra mondiale la classe dirigente dei Paesi occidentali erano ossessionate dalla minaccia sovietica il cui modello alternativo di società appariva credibile, e quindi erano ben disposte a venire a patti con i sindacati e i partiti socialisti e a introdurre limiti e vincoli agli «spiriti animali» del sistema. Oggi non vi sono minacce esterne (se non fosse quella, puramente distruttiva dell’integralismo islamico), e non vi sono modelli alternativi di società, mentre la riproposizione di formule keynesiane a livello nazionale si scontra da un lato con le dimensioni dei disavanzi e i debiti pubblici degli Stati, e dall’altra con il fatto che per essere veramente efficaci esse oggi andrebbero introdotte a livello sovranazionale, se non globale (non esiste la possibilità di un keynesismo in un solo Paese).
E ben vediamo la difficoltà dell’impresa: a livello europeo la signora Merkel sta riesumando un vecchio, pericolosissimo, approccio nazionalistico se non pangermanico, creando fratture, sofferenze e risentimenti negli altri Paesi europei. A livello G-20 dopo la felice collaborazione del 2009 prevalgono oggi le divisioni su tutti i problemi: dal coordinamento (e dal mix) delle politiche economiche da adottare, a quelle dei tassi di cambio, dagli squilibri macroeconomici globali, al sistema monetario internazionale, dal commercio internazionale, alla regolamentazione del sistema bancario e finanziario, dal riscaldamento globale alla sicurezza nella fornitura di energia e cibo a livello mondiale, ecc.
La crisi del sistema economico si trasforma in crisi politica: il sistema potrebbe essere “aggiustato” ma gli interessi contrapposti e la visione corta creano la paralisi politica. Del resto ciò è inevitabile in un mondo privo di luoghi di riflessione ed elaborazione collettiva, e dominato da un sistema informatico ipertrofico e criminale nel senso che impedisce una riflessione sul passato e sul futuro e lascia la gente in balia di contraddittorie impressioni strettamente limitate al presente.
Inoltre non va dimenticato che il riaffermarsi negli anni 80 del ’900 del modello di capitalismo liberista dipese non solo dal crollo dell’Unione Sovietica, ma anche dal fatto che il precedente sistema regolato era entrato in crisi anche a causa dei propri abusi ed eccessi, e delle sistematica pretesa di utilizzare e depredare risorse future (ambiente, risparmi) per consumarle nel presente. Questo fenomeno spiega anche perché in Italia (ma non solo) all’interno della stessa sinistra vi siano gruppi minoritari, ma consistenti, favorevoli sia di fatto che per scelta culturale a un approccio liberista all’economia: essi infatti temono il ritorno a teorizzazioni e a pratiche intrise di ideologismo, forzature e talvolta prevaricazioni che in passato hanno prodotto l’accumulo del debito, l’inflazione, e un diffuso rancore nei confronti della sinistra da parte di consistenti strati della popolazione.
La crisi del modello di capitalismo che ha dominato degli ultimi 30 anni esiste, e va sottolineata, riaffermando la validità di una gestione controllata (programmata) delle economie. Ma è necessario trovare modalità e strumenti diversi dal passato e soprattutto convergenze e soluzioni da porre in essere a livello sovranazionale. Occorre ridare ruolo alla politica ma evitare gli abusi passati. Si tratta insomma di innovare, cambiare, riformare ribadendo le ragioni della sinistra, ma evitando il rischio di difesa e rivendicazione di un passato che non tornerà.

Corriere della Sera 13.2.12
Camusso, timori di isolamento dal governo e dal Pd
di Antonella Baccaro


ROMA — La sindrome dell'accerchiamento in Cgil è tornata a farsi sentire fortissima. Sembrano lontani i tempi in cui il leader Susanna Camusso metteva a segno la firma nell'accordo del 28 giugno, forte di un inedito asse con Emma Marcegaglia, presidente degli industriali. Una mossa che l'aveva rafforzata all'interno del sindacato, riducendo all'angolo la minoranza più oltranzista.
Susanna Camusso persegue due obiettivi chiari in questa trattativa: il primo è stare al tavolo il più possibile, nel tentativo di condizionare il negoziato su temi che considera alla portata di un accordo per il suo sindacato. Il secondo è non tornare nell'isolamento e mantenere il ritrovato dialogo con Cisl e Uil, che fin qui ha prodotto un bilanciamento del tavolo sulla riforma del mercato del lavoro.
È per questo che le indiscrezioni circolate ieri su un presunto incontro con Mario Monti, e forse più ancora l'ipotesi di un accordo già sottoscritto con il governo, comprensivo di modifiche sostanziali dell'articolo 18, hanno colpito molto il segretario, che sicuramente ne discuterà con la sua segreteria nel consueto appuntamento di oggi pomeriggio. Camusso sembra tenere moltissimo a difendere la propria strategia: discutere di tutto, lasciando per ultimo l'articolo 18.
Se un accordo c'era tra governo e Cgil (ma anche con il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani) era proprio su questo metodo e finora aveva funzionato. Ai più stretti collaboratori che ieri hanno sentito Camusso, il segretario ha assicurato che finora il patto era stato rispettato e perciò che nessuna fuga in avanti era possibile sul tema: figuriamoci un accordo. Non sulla stabilizzazione dei precari, in cambio di una flessibilità nei primi tre anni di assunzione e nemmeno sull'articolo 18 e i licenziamenti discriminatori.
Qualsiasi concessione per Camusso passa attraverso una compensazione, uno scambio, e «finora — avrebbe detto ai suoi — non ho visto lo scambio». Sulla questione dei precari da stabilizzare attraverso il meccanismo delineato dai giuslavoristi Tito Boeri e Pietro Garibaldi, e riversato in più progetti di legge, la Cgil potrebbe alla fine trovare un accordo. Ma prima Camusso vuole essere sicura che vengano eliminati tutti quei contratti che creano precarietà, come l'abuso delle finte partite Iva.
Sull'ipotesi, sempre delineata da Pietro Garibaldi, di consentire alle imprese in start up e a quelle straniere che si insedino in Italia, una sospensione dell'articolo 18, il leader della Cgil non sentirebbe ragioni: la norma creerebbe un inaccettabile doppio binario.
E poi c'è il punto dirimente: l'articolo 18. A Camusso la proposta di Raffaele Bonanni, leader della Cisl, di circoscrivere la tutela dell'articolo 18 ai licenziamenti discriminatori e disciplinari, liberando quelli economici, non piace. E comunque, è il pensiero del segretario, non è quello che il governo ha in mente, visto che il ministro Fornero vuole riformare l'intero sistema degli ammortizzatori sociali.
Insomma concedere spazi sull'articolo 18, che non sia l'accelerazione dei procedimenti giudiziari, per Camusso è inutile se poi il governo intende procedere sulla propria strada. È per questo che per la Cgil la controversia sull'articolo 18 andrebbe stralciata dall'accordo tra le parti sociali, accordo assolutamente necessario per condizionare la trattativa, e rimessa alle decisioni del governo e al negoziato con i partiti.
Ma sul punto ci sono due scogli. Uno è il granitico segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, convinto che un accordo tra parti sociali, compresa Confindustria, non possa prescindere da qualche concessione in più sull'articolo 18 rispetto a quelle offerte dalla Cgil. E altrettanto persuaso che un fronte compatto delle parti sociali sia l'unico modo per modificare il testo che il governo sta preparando. Le distanze tra Cgil e Cisl restano ampie, se è vero che Bonanni, nel caso il governo usasse la linea dura, non ha nessuna intenzione di diventare un «sindacato greco», cioè di scendere in piazza con uno sciopero in un momento come questo. Mentre la Cgil sembrerebbe intenzionata a non escludere il ricorso alla protesta di piazza nel caso in cui il negoziato fallisse.
E poi c'è il Pd, che finora attraverso Bersani ha spalleggiato Camusso. L'asse però tra Cgil e Pd è destinato a incrinarsi nel caso in cui la Cgil respinga l'accordo. In un'ipotesi simile il Pd sarebbe chiamato a scegliere tra l'appoggio al governo e quello alla Cgil. Una decisione che potrebbe spaccare il partito, se è vero che già adesso il responsabile economico Stefano Fassina ha sposato la linea della Cisl sull'articolo 18, mentre l'ex ministro Cesare Damiano, vicino alla Cgil, manda a dire: «Mi lascia perplesso una soluzione che veda il sindacato coinvolto nelle decisioni sui licenziamenti individuali».
Al momento non è possibile prevedere l'esito della vicenda. A metà settimana l'incontro con il governo potrebbe chiarire alcuni passaggi. Soprattutto si potrà verificare se il governo ha intenzione di disporsi a una trattativa vera o si limiterà a un vigile ascolto.

Corriere della Sera 13.2.12
Se le élite diventano cricche
In Occidente si allarga il divario tra eletti ed elettori
di Luciano Canfora


Dopo La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Laterza), ecco Il disagio della libertà (sottotitolo: Perché agli italiani piace avere un padrone) di Corrado Augias (Rizzoli). Entrambi questi libri sono nati quando «il Cavaliere» sembrava imbattibile e gratificato di vasta popolarità, nonostante la pioggia di scandali di vario genere che lo avevano investito soprattutto nell'ultimo anno del suo governo. L'indignazione, di cui fu segnale importante la grande manifestazione svoltasi all'insegna dello slogan «Se non ora, quando?», scaturiva da un problema non piccolo: che fare quando la «maggioranza» compie scelte che paiono sbagliate? O mettere in discussione il principio di maggioranza (le cui basi logiche, come ben sappiamo dall'insegnamento del liberale Ruffini, sono fragili), oppure indignarsi.
Sia ben chiaro: l'«indignazione» non è affatto sterile: è uno dei modi per incidere sulle scelte sbagliate della «maggioranza». Ovviamente non sortisce sempre i suoi effetti: dipende anche (ma non unicamente) dagli argomenti addotti a sostegno dell'indignazione. Il presupposto, lodevolmente ottimistico, di tale scelta è quello «pedagogico»: che cioè «democrazia» ed «educazione» sono coessenziali, come avrebbero un dì detto i teologi.
La scuola in primis, e ogni altra istituzione avente come fine l'acculturazione di massa, è il presupposto essenziale, vitale, del funzionamento della «democrazia». «Democrazia» indica uno stato di cose, o meglio un rapporto di forze; «educazione» vuol dire alimento che renda coscienti delle loro scelte i soggetti coinvolti in quel rapporto di forze. Ecco perché la scuola (che è, comunque, sempre molto difficile da addomesticare) è nel mirino ad ogni cambio di «regime» o di prevalenza politica. Ecco perché i più rozzi tra i politici danno ciclicamente l'assalto ai manuali di storia in uso nelle scuole (già il tirannico imperatore della Cina che fece la grande muraglia ordinò anche la distruzione dei libri di storia in quanto «pericolosi per il governo»). Ecco perché lo strumento che con più forza costruisce la coscienza di massa, cioè la tv, è al centro di una battaglia permanente tra le forze politiche. Ecco perché «il Cavaliere» ha costruito la sua efficace presa su vaste masse italiane attraverso il suo impero mediatico.
Per la verità, giova anche chiedersi perché i suoi di norma fiacchi avversari non hanno saputo intaccare tale fruttifero impero né l'una né l'altra volta che sono saliti al governo del Paese. La domanda ci porterebbe a studiare il fenomeno, importantissimo nelle cosiddette «democrazie occidentali», della molto maggiore vicinanza, contiguità, se non talora intrinsechezza, dei vertici rispetto alla radicale divaricazione delle rispettive basi (alle quali i vertici trasmettono slogan agitatori, in cui forse non credono, ma finalizzati a galvanizzarle). Ma questo tema meriterebbe una disamina a parte, che potrebbe prendere le mosse addirittura dallo studio delle dinamiche politico-familiari e di clan della repubblica romana dai Gracchi a Giulio Cesare. E perciò lo accantoniamo.
Torniamo invece alla legittima «indignazione» e alla sua concreta efficacia. Un aspetto particolare dell'indignazione è la ricerca delle cause storiche remote e recenti che stanno alla base dei comportamenti che suscitano indignazione. È il caso del libro di Augias, che da questo punto di vista si colloca nella scia della gobettiana diagnosi del fascismo come «autobiografia» del nostro Paese. Diagnosi severa (Augias si richiama più volte a Gobetti), e certo non «ottimistica», che ha molte radici interessanti: tra le quali indicherei La lotta politica in Italia di Alfredo Oriani, ma anche gli studi di Vilfredo Pareto, nonché la riflessione critica sulla vicenda risorgimentale, che accomuna — con diversi accenti — Gobetti, Gramsci e, in anticipo sui tempi, lo stesso D'Azeglio.
Di una peculiarità italiana si è spesso, e a ragione, parlato, per avere il nostro Paese vissuto la plasmatica vicenda della Controriforma senza aver però subito il salutare scossone della Riforma, e per aver subìto i pesanti contraccolpi della «controrivoluzione» (nel 1849 non meno che nel 1919-22) senza che la «rivoluzione» avesse messo radici profonde nella massa popolare. Questo è certamente vero, specie se, come si suole, raffrontiamo la nostra storia a quella della Francia, che pure per tanti versi ha influenzato la nostra. (Augias preferisce richiamarsi al modello inglese, del quale è un «patito»: a pp. 125-135. Ma forse idealizza troppo quel modello).
È certo che in Francia la reattività del cittadino rispetto al potere è, nel costume quotidiano, più marcata che da noi (da noi prevale talvolta l'urlo qualunquistico che però è uno sterile fuoco di paglia). E si potrebbero ricercare alcune cause di tale differenza. Per esempio questa: che da noi la «rivoluzione alla francese» (coi suoi principi e i suoi dogmi) fu importata e propiziata da minoranze che furono malviste perché considerate al servizio dei «liberatori» fattisi presto padroni. (È quel che accadde nell'Est Europa dopo il 1945-48). In tal modo i princìpi importati non hanno mai messo, da noi, durevoli radici.
Ma si possono concettualizzare siffatte generalizzazioni? Non è pur sempre degna di riflessione quella drastica definizione dell'ethos medio dei tedeschi contenuta nel testamento di Teodoro Mommsen («incapaci di trascendere il servizio nei ranghi»)? Nonché la diagnosi di un acuto storico francese passato, nel tempo, dal Pcf al gollismo — ci riferiamo a Emmanuel Le Roy Ladurie —, secondo cui, nonostante il 1789 e il «regicidio», i francesi hanno serbato pur sempre in sé una grande «voglia di monarchia», che di tanto in tanto riaffiora? E non è pur sempre vero che il modello statunitense di un presidente-quasi-monarca eletto per lo più da una minoranza del corpo elettorale (modello cui guardano con gli occhi lucidi i «presidenzialisti» nostrani) costituisce un indizio che va nella stessa direzione? Dunque forse la questione vera sta nel comprendere — in riferimento ad un orizzonte più vasto — per quali ragioni si approfondisce sempre più nel tempo, e per fattori tecnici, economici, culturali, l'abisso tra governanti e governati.

l’Unità 13.2.12
Genova, a sorpresa vince Doria il candidato di Sel
Risultati 25mila votanti. Il vincitore ottiene più del 40% e distacca le candidate favorite
Decisiva è stata la spaccatura del Pd tra Vincenzi e Pinotti
di Maria Zegarelli


A spoglio quasi ultimato il candidato Sel in vantaggio con il 42 per cento
Sconfitta Vincenzi sindaco uscente e la parlamentare Pinotti
Si è votato fino alle 21 ieri a Genova dove il centrosinistra sceglie il suo candidato sindaco per le elezioni amministrative di maggio. I primi dati danno in vantaggio a sorpresa Doria su Vincenzi e Pinotti.

Doveva essere un testa a testa fra loro due, le donne del Pd che si sfidavano per la poltrona di Palazzo Tursi e invece è stata la corsa dell’outsider. Ha vinto lui, il professore di Storia dell’Economia, Marco Doria, 55 anni, cresciuto nella Fgci, poi nel Pci , oggi candidato indipendente alle primarie sostenuto da Sel e da Don Gallo, il prete della Genova disperata che non si arrende. Un terremoto per il partito democratico genovese e non solo. Dopo Cagliari, Milano, Napoli anche Genova. Il segretario cittadino, Victor Rasetto pensa già a domani: «Da questo momento Marco Doria è il candidato di tutto il centrosinistra e del Pd e quindi a lui i complimenti di cuore. Adesso dobbiamo far vincere le elezioni alla coalizione di centrosinistra». Ma non nasconde il dato politico, «È evidente che i cittadini hanno mandato un segnale chiaro di cambiamento, ma o si capisce che le primarie hanno regole e conseguenze, e quindi si accetta il fatto che possano esserci anche sorprese, o se si continuano a pensarle come una partita già decisa allora sì che è un terremoto». Aggiunge che è pronto ad assumersi le sue responsabilità, come dirigente, che ne parlerà direttamente con Pier Luigi Bersani, ma ci tiene a dire che a Genova «ci sono state autocandidature», due, e quindi alla fine sono stati i cittadini a dire che forse qualcosa va cambiato. 25mila votanti contro i 35.433 della scorsa volta, Marco Doria al primo posto con il 41,8%% dei consensi, seguito da Marta Vincenzi con il 28,8; Roberta Pinotti con il 26,8; Angela Burlando ferma all’1.7 e Andrea Sassano allo 0,9%.
Calo dell’affluenza, vuoi per il freddo due seggi all’aperto sono stati spostati al chiuso vuoi perché nel capoluogo ligure già alle elezioni regionali un certo calo di tono si era già registrato. Ma se scende il numero dei votanti e il Pd si presenta spaccato, con due nomi, allora le possibilità che un candidato come il professore, faccia il pieno di voti si fanno davvero concrete. «Basta con le vecchie politiche. Costruire il futuro, condividere una storia», lo slogan scelto dal discendente dell’Ammiraglio, per una campagna elettorale sui tratti dall’arancione, formazione nella Fgci, poi nel Pci.
A urne chiuse, alle nove di sera, su una Genova, stretta dal freddo, è sceso il gelo nei quartier generali delle due candidate e nella sede del Pd mentre la temperatura cresceva di minuto in minuto nella sede del Comitato elettorale di Marco Doria, in salita Santa Caterina. «È stata la scelta giusta, comunque vadano le cose», dicevano dal suo quartier generale, scaramenticamente, quando gli exit poll raccontavano la sorpresa delle urne ma ancora si aspettavano i dati ufficiali. La giornata intensa delle competitor democratiche, convinte che la gara fosse sostanzialmente tra loro, è finita davanti a quei dati che via via arrivano e che non hanno lasciato neanche la speranza di un testa a testa. Uno stacco deciso, chiaro.
IN SERATA
Già verso sera, prima ancora che i seggi chiudessero, Marco Doria ha avuto la sensazione che davvero si potesse doppiare il risultato clamoroso di Cagliari dove Massimo Zedda si è prima aggiudicato le primarie e poi la poltrona di primo cittadino. E pensare che proprio l’altro giorno aveva espresso preoccupazione per lo svolgimento delle primarie perché aveva ricevuto segnalazioni di un tentativo di “infiltrarsi” da parte degli elettori di centrodestra. Ma alla fine il voto filato via tranquillo nei 73 seggi allestiti sotto la regia del «Prefetto Rosso», Michele Bartolozzi, guida infallibile dai tempi del Pci ad oggi della macchina elettorale della sinistra genovese.
E se a Genova c’è stato un calo di votanti ad Alghero, in Sardegna, è stato un boom di partecipazione con file ai seggi: oltre 5550 persone, tantissime se paragonate alle 5.300 di Cagliari alle ultime primarie. Il dato parziale delle 22 dava al primo posto Stefano Lubrano; seguito da Enrico Daga(entrambi del pd), Rosa Accardo (sostenuta da Sel).
A Oristano, invece, sono slittate al 4 marzo perché fino all’ultimo si è tentato (inutilmente) l’accordo con l’Udc, che notoriamente non le vuole, mentre a Selargius le operazioni di voto si sono chiuse alle otto di sera. 1650 i votanti e dopo un testa a testa ha vinto Rita Corda con un vantaggio di 37 voti su Francesco Lilliu, entrambi del Pd.

Corriere della Sera 13.2.12
Primarie a Genova: suicidio Pd. Vince Doria, spinto da Vendola
Battute Vincenzi e Pinotti. Il sindaco: non so se voterò questo candidato
di Erika Dellacasa e Marco Imarisio


C'è il rischio che le primarie del centrosinistra a Genova si risolvano in una disfatta di proporzioni imbarazzanti per il Pd, così grande da far sentire la sua onda anche a Roma. Il professor Marco Doria, indipendente benedetto dal prete di strada don Andrea Gallo e da Nichi Vendola, sarà il prossimo candidato sindaco del centrosinistra nel capoluogo ligure. Bruciante sconfitta per il sindaco uscente Marta Vincenzi e per la senatrice del Pd Roberta Pinotti.

GENOVA — Era tutto scritto. Nero su bianco, carta intestata del Pd. L'autore era uno dei massimi dirigenti cittadini. Lo ricopiamo fedelmente. «Livello basso (20-22 mila). Doria, con 8 mila, vince». L'appunto, lasciato una settimana fa su un tavolo della segreteria di piazza Vittoria, proseguiva con le previsioni sul sindaco Marta Vincenzi «vince con livello medio, 23-30 mila» e la candidata «ufficiale» del Pd, Roberta Pinotti, che aveva bisogno di affluenza alta («30-35 mila?») e un «partito mobilitato, diffuso».
Le primarie di Genova non hanno avuto nessuna delle ultime due opzioni. E la guerra interna tra le due Erinni, copyright della candidata minore Angela Burlando, rischia di risolversi in una disfatta imbarazzante per il Pd, così grande da far sentire la sua onda anche a Roma. Alle 23, dopo due ore di spoglio, è chiaro che il professor Marco Doria, indipendente benedetto dal prete di strada don Andrea Gallo e da Nichi Vendola, una volta sentito il profumo del colpaccio, è il prossimo candidato sindaco del centrosinistra a Genova. Il sindaco in carica commenta così: «È un terremoto politico, che non rappresenta un voto ideologico né un voto che unisce la città. È un voto contro la continuità di un partito che ha rappresentato il perno della maggioranza a Genova». E su Bersani avverte: «Non sarà felice». L'appoggio a Doria, per ora, resta un'ipotesi: «Vedremo... Non ho ancora letto un programma, solo tanti no».
Doria era il terzo incomodo, se mai ce n'è stato uno. L'ultimo a iscriversi a questa corsa infinita, partita 12 mesi fa, quando i mugugni del Pd locale contro la vocazione autoritaria dell'ex super Marta avevano superato il livello di guardia creando le premesse per la discesa in campo di Roberta Pinotti. La disfida interna aveva consegnato una città bisognosa di cure e attenzioni come poche altre a una campagna elettorale estenuante, dove tutto veniva letto alla luce della competizione carsica nel partito di maggioranza. Doria ha deciso di provarci solo tre mesi fa, azzeccando i tempi e i modi, girando al largo dalle due candidate e dalle rispettive fazioni troppo impegnate a scannarsi per accorgersi che Genova cercava alternative.
La domenica delle primarie è stata una corsa verso un risultato che era nell'aria. La tramontana nera ha risparmiato i 73 circoli cittadini dove si votava, faceva freddo ma neppure tanto. Eppure i sostenitori del centrosinistra sono rimasti a casa. La vicenda del seggio di Carignano, dove per un black out gli elettori hanno votato alla luce dei fanali di auto schierate all'occorrenza, è stata presa alla stregua di un presagio. Alla fine si sono presentati ai seggi solo 21.000 cittadini, confermando la profezia dell'appunto anonimo. Nel 2007, alle primarie che designarono Marta Vincenzi, votarono in 37.453. Il segnale del disamore è inequivocabile, neppure i dati dell'affluenza leniscono i dolori di un Pd consapevole di essersi sparato in un piede. Basta leggere le parole di Marco Tullo, deputato e segretario regionale, l'unico a metterci la faccia in una notte da dimenticare. «Abbiamo perso ed è un risultato che deve aprire una riflessione seria, anche nazionale. Uno tsunami politico. Purtroppo non esagero». I vertici locali democratici valutano l'ipotesi di lasciare.
I calcoli sui seggi del centro e del Levante, che vedevano una tendenza-Doria, contrapposti ai quartieri popolari del Ponente, roccaforte pd divisa tra Pinotti e Vincenzi, erano esercizi di stile. La vittoria di Doria (con il 46% dei voti) è netta, ovunque. Il suo programma improntato al pragmatismo, nessuna promessa di ridurre le tasse ma impegno a mantenere inalterati i servizi essenziali, ha fatto breccia. Angela Burlando, ex vicequestore e candidata minore (quota socialista), è convinta che sia stata una vittoria di genere. «Il Pd ha schierato due candidate di peso equivalente che si sono annullate, come temuto anche dai dirigenti democratici, incapaci di opporsi a un suicidio annunciato».
Doria si è inserito tra due debolezze. Tra un sindaco ferito dal dramma dell'alluvione e un'avversaria costruita in casa che non si è mai scrollata di dosso la patina di candidato d'apparato. Magari senza evocare tsunami, ma anche nella roccaforte di Genova la frittata del Pd è servita.

Corriere della Sera 13.2.12
E nel partito: paghiamo i sì al premier
di A. Gar.


ROMA — I dirigenti del Pd temevano che sarebbe finita con Doria vincente. Ma ieri sera, quando hanno avuto il risultato davanti, hanno ondeggiato, incerti. Vogliono attendere i risultati ufficiali e definitivi, che è un modo per prendere tempo, riflettere. Il compito di fronteggiare l'evento è stato affidato a Davide Zoggia, responsabile enti locali. La linea prevede che il Pd «sosterrà senza tentennamenti il primo arrivato alle primarie, perché questa è la logica delle primarie». Zoggia aggiunge che «le due candidature Pd hanno aperto la strada all'affermazione di un terzo candidato». La verità che ognuno conosce è che non c'è stata la capacità di «ridurre a uno» i due candidati del Pd. «Ma la Vincenzi è sindaco uscente, la Pinotti è una parlamentare genovese, come potevamo scegliere?», dicono ora i collaboratori del segretario Bersani (nella foto). Nessuna delle due ha voluto fare un passo indietro. «Se Marta dovesse vincere le primarie, io sarei la sua prima elettrice», ha detto la Pinotti. Solo che Marta non ha vinto.
Altro elemento importante: la campagna elettorale di Marco Doria, molto critica sull'operato del governo Monti. Sarebbe questo il primo segnale del prezzo che il Pd paga nell'appoggio all'esecutivo «tecnico» e ai sacrifici. Un dato che peserà nelle valutazioni del giorno dopo è quello dell'affluenza, dai 33 mila votanti delle primarie che premiarono Vincenzi ai 21 mila di ieri. Un po' di maltempo e un po' di disaffezione verso lo strumento-primarie da parte degli elettori. Adesso il timore prende un'altra forma, quella di perdere un baluardo del centrosinistra come Genova. Doria è un candidato che piace a sinistra, ma può irritare e allontanare gli elettori più vicini al centro, può spingere l'Udc-Terzo polo (che non ha qui una delle sue roccaforti) alla presentazione di un suo candidato o all'accordo col centrodestra.

Corriere della Sera 13.2.12
L'erede del marchese rosso sulle orme di Pisapia «Rivoluzioni? No, serietà»
«È il Paese che cambia, il centrosinistra lo capisca»
di M. Ima.


GENOVA — Quando si iscrisse al liceo classico che porta il nome di un suo antenato, ammiraglio e principe dell'età dell'oro, divenne subito il quarto alunno, su mille che erano, a prendere la tessera della federazione giovanile del Pci. Non era un passo scontato e neppure facile, nell'istituto che in quei giorni metteva all'indice un professore accusato di essere troppo a sinistra in quanto liberale moderato.
Ci sono scelte che si trasmettono per via ereditaria, nel nome del padre. Giorgio Doria, papà di Marco, era il marchese rosso, ultimo discendente di una famiglia che annoverava tra i suoi avi il vincitore della battaglia di Lepanto. Nel primo dopoguerra decise di iscriversi al Pci. Fu diseredato come un novello San Francesco, ma divenne una delle figure epiche della sinistra genovese. Vicesindaco nella prima stagione del Pci al governo negli enti locali, appena insediato firmò la revoca del diritto all'auto blu per tutti gli assessori.
A differenza del padre, Marco Doria ha sempre anteposto la passione per l'economia alla politica. Ricercatore all'Archivio storico Ansaldo, poi alla Fondazione Einaudi di Torino, infine docente universitario nella sua città. Sempre con la tessera del Pci in tasca, fino alla fatale Bolognina, quando non accetta la svolta di Achille Occhetto e insieme al padre, scomparso nel 1998, si iscrive a Rifondazione comunista. Da allora, se ne erano perse le tracce. Adesso dovrà correre per governare la città che fu la Repubblica governata dai suoi antenati.
Ma quando appare alla sede del suo comitato, piena di ragazzi in festa, età media bassa, entusiasmo a livelli di guardia, conferma la sua natura di strano outsider, dal tratto per nulla popolare. In piazza delle Fontane Marose ci sono centinaia di persone che lo acclamano. Lui accetta il bagno di folla ma mostra anche di subirlo, fedele al suo tratto abbastanza austero, poco incline alle feste e ai sorrisi, caratteristica abbastanza temuta dai suoi sostenitori durante i tre mesi di campagna per le primarie. «Non è successo nulla, l'impegno deve continuare. Mi aspettavo una buona risposta, non così estesa. Credo che la serietà della mia proposta abbia pagato. A fare la differenza è stato un modo diverso di porgersi nei confronti dei cittadini, che hanno bisogno di una politica diversa da quella che hanno visto negli ultimi anni. Non è un'onda lunga che arriva da Milano, è qualcosa che c'è nel Paese, e il centrosinistra ha il dovere di percepirla».
La erre vagamente blesa freme alla domanda su eventuali posti in giunta. «Questo è un modo vecchio di ragionare, esattamente il modo di fare politica che mi riprometto di evitare». Curiosa la sua reazione a una vittoria clamorosa e netta, perché lontana da qualunque trionfalismo, da definire sobria, se non si trattasse di un aggettivo molto abusato di questi tempi. «Genova non cambierà dopo questa notte. Non ho mai promesso rivoluzioni, mi limito a promettere serietà, credo che il mio punto di forza sia proprio questo. A questo punto l'entusiasmo potrebbe essere cattivo consigliere».
Un gruppo di ragazzi avvolti in bandiere vendoliane si offre di sollevarlo per portarlo in trionfo. Lui declina l'invito con garbo, accetta solo il paragone con Giuliano Pisapia. «La mia vittoria esprime la stessa volontà di cambiamento che spinse la sua. Ma quando ho deciso di provarci, le assicuro che mi sono limitato a ragionare da cittadino ed elettore. Non mi trovavo nella proposta politica offerta alla città, tutto qui. Cercherò di non scegliere le mie posizioni su un calcolo di consenso immediato. Credo nei progetti, nel pragmatismo». La sua vittoria equivale all'umiliazione di un Pd destinato a diventare, forse, il suo principale alleato. «È riduttivo parlare di una sconfitta del Pd. Nei circoli democratici ci sono andato, ho ascoltato i militanti. Loro non sono stati sconfitti. A perdere, forse, sono le logiche di partito e delle tessere, che sono un'altra faccenda. Apro un problema politico nel Pd? Non credo di essere stato io. C'era già, a livello di gruppo dirigente».
Le sue parole e la sua notte finiscono qui. La sosta al comitato elettorale dura appena mezz'ora, il tempo di un brindisi a spumante. «Domattina vado a lavorare, come sempre, saluti a tutti». Marco Doria non esulta perché in cuor suo sa bene di aver vinto delle primarie a formato ridotto, appena 21 mila votanti. «Di nicchia», le definisce Sergio Cofferati, certo non un suo sostenitore. Ma c'è comunque qualcosa di antico in un distacco esibito e sincero. Per uno che nell'album di famiglia può vantare un principe ammiraglio del Cinquecento, un cardinale del 1700 e tre senatori del Regno d'Italia, cosa vuoi che sia una vittoria di tappa.

La Stampa 13.3.12
Genova, schiaffo al Pd sconfitta la Vincenzi
Doria, candidato di Vendola, batte anche la riformista Pinotti
di Teodoro Chiarelli


Uno tsunami politico. Alle pri- marie per stabilire il candidato sindaco del centro sinistra a Ge- nova vince l’outsider «indipen- dente»: Marco Doria, 54 anni, professore universitario, figlio del vicesindaco del dopoguerra, Giorgio, il «marchese rosso», di- seredato dalla famiglia perché comunista. Un personaggio pa- cato, un po’ sognatore, sostenu- to da Nichi Vendola e don An- drea Gallo. Lo ha appoggiato un cotè trasversale fatto di intellet- tuali, società civile, sinistra fuo- ri dagli apparati e molti giovani diffidenti nei confronti della poli- tica politicante. Grandi sconfit- te le primedonne del Partito de- mocratico, l’un contro l’altra ar- mate, che hanno finito per eli- dersi: Marta Vincenzi, 64 anni, sindaco uscente e in rapporti conflittuali con l’apparato del Pd, e Roberta Pinotti, 50 anni, senatrice, cattolica, appoggiata dai burlandiani e dall’ex sinda- co Giuseppe Pericu. I dati parlano di un risultato clamoroso anche nelle dimen- sioni: i 73 seggi danno a Doria il 46% dei consensi, davanti a Vin- cenzi (27,5%) e a Pinotti (23,6%). Staccati gli altri due candidati, Angela Burlando del nuovo Psi (1,9%) e Andrea Sassano della si- nistra (1%). Non eccezionale l'af- fluenza alle urne e non solo per il freddo pungente, acuito dalla per- fida tramontana che ieri ha spaz- zato Genova. Alla fine i votanti so- no stati 25.090, nettamente infe- riore rispetto a quello di cinque anni fa (Vincenzi trionfante su Stefano Zara, parlamentare ed ex presidente degli industriali, e il poeta, recentemente scomparso, Edoardo Sanguineti) quando i vo- tanti furono oltre 35 mila. Si conferma quindi una ten- denza nazionale che segnala una voglia di cambiamento nel solco della candidatura, prima, e della vittoria, poi, di Giuliano Pisapia a Milano. Anche a Genova, inespu- gnata roccaforte rossa nel ven- tennio berlusconiano, si fa largo un movimento dal basso, fatto di tanta società civile e di scontenti e delusi nei confronti della sini- stra di governo. Il Pd paga le divi- sioni interne, il fatto di aver pre- sentato due candidati, due donne che cordialmente si detestano e di aver sottovalutato la presa sul- l’elettorato di personaggi come don Gallo, il prete di strada, una delle ultime icone della città, e il fascino di Vendola. In piazza della Vittoria, quar- tier generale del Pd, musi lunghi, volti tirati e dirigenti sotto choc. Il rimo e unico a metterci la faccia il deputato Mario Tullo che ha in- vitato il partito a riflettere. «Dob- biamo accettare l’esito delle pri- marie - ha detto - e impegnarci da domani a sostenere lealmente Do- ria perché ci sono tutte le condi- zioni affinché il centrosinistra ri- conquisti la poltrona di sindaco». Tutt’altro clima, ovviamente, nella sede del punto d’incontro di Doria in salita Santa Caterina, ospitato dalla libreria della Comu- nità di San Benedetto guidata da don Gallo. Urla di gioia e abbracci a ogni telefonata che comunica l’esito delle votazioni dalle sezio- ni. Su un grande cartellone si cer- chiano le sezioni "espugnate", in un tripudio di "evviva" e impreca- zioni di festa. Una gioiosa confu- sione, in uno sventolare di sciarpe arancione, il colore scelto qui co- me a Milano per segnare il movi- mento. Saltano fuori le prime bot- tiglie di spumante, qualche sobrio vino rosso, e poi salami, formaggi, torte fatte in casa. Alle 23 Doria cede alle insi- stenze e si presenta in piazza Fon- tane Marose dopo lo accolgono fra gli applausi e i canti di gioia al- meno 500 supporter. «Abbiamo promosso una campagna fatta di ideali e di passione - racconta il vincitore - Ed è giusto che questi valori vengano fuori in un mo- mento così complicato non solo per Genova, ma per tutto il Pae- se». Doria difende a spada tratta il metodo delle primarie. «Si sono rivelate - spiega - un grande ele- mento di democrazia. Se non ci fossero state il candidato sindaco, ma anche il vicesindaco e gli as- sessori, sarebbero stati decisi da otto, dieci persone. E non è pro- priamente quello che oggi si aspettano i cittadini. Ora andre- mo a festeggiare, in maniera so- bria e poco rumorosa come piace a noi. Da domani pensiamo a co- me vincere le elezioni». Analisi e mea culpa sono già partite. Un fatto appare certo: a Genova si volta pagina.

 l’Unità 13.2.12
Intervista a Ignazio Marino
«Nessun internato sarà più torturato. Chiudere gli Opg è sacrosanto»
Il senatore Pd risponde alle critiche dei basagliani alla legge che abolisce gli ospedali psichiatrici: «È un primo passo. Il prossimo è il codice Rocco»
di Toni Jop


Interrogativo «Che devo fare con i pluriomicidi affetti da gravi sofferenze
psichiche? Non posso destinarli a una cella»

Quel che so per certo è questo: grazie al decreto, cancelleremo la tortura degli ospedali psichiatrici giudiziari, nessun internato sarà più legato al letto e costretto a defecare attraverso un buco nella rete, intanto...». Ecco Ignazio Marino, senatore Pd e chirurgo, rispondere alle critiche lanciate da Franco Rotelli e dai «basagliani» alla legge che abolisce i cosiddetti Opg e propone l’apertura di un certo numero di strutture alternative regionali. Marino è anche il presidente della commissione parlamentare che ha mostrato al Paese la disumanità dei vecchi lager istituiti dal codice Rocco, nonché primo firmatario della legge di riforma. Su questo giornale, Rotelli aveva ieri denunciato quello che secondo gli obiettori è un «fatto»: e cioè che con la nuova legislazione in materia si creeranno nuovi manicomi, piccoli e carini ma in aperta contraddizione con lo spirito e la cultura su cui si fondava la legge 180 che ha abolito gli ospedali psichiatrici. Non solo: gli psichiatri «triestini» lamentano che da qui in poi ai medici verrà imposto un ruolo di custodia, quello stesso che sempre la legge 180 aveva fatto correttamente saltare.
Allora, dottor Marino: si è trovato di fronte a delle osservazioni che vanno respinte al mittente, oppure c'è da discutere?
«Io dico che abbiamo fatto un passo avanti e che nessuno può metterlo in dubbio. Quando sono entrato per la prima volta in un Opg, ho trovato un uomo legato da cinque giorni al suo lettino. Pensare che non sarà più sottoposto a una simile tortura per me è motivo di moderata soddisfazione, non un motore di insoddisfazione. Avere la certezza che finirà prestissimo il calvario di un altro internato che un quarto di secolo fa aveva rubato seimila lire fingendo, con altri complici, di essere armato e non era mai più uscito da quelle mura atroci è, ancora, motivo di moderata soddisfazione. In questo non sono d'accordo con Rotelli, Dell'Acqua e gli altri che parlano di un passo indietro. Proprio non ci riesco a vederla così. Per il resto, sempre e comunque confronto e discussione, soprattutto con loro che sono gli autori della demolizione del manicomio, che sanno quel che dicono e soprattutto quel che fanno...» Quindi, per lei non si affida alle regioni il compito di costruire dei piccoli manicomi, puliti e garbati ma dove la contenzione è comunque legge?
«Vede, io e la commissione che per mesi e con grande coralità ha lavorato a questo tema, siamo entrati in una cucina e abbiamo cercato di confezionare un piatto decoroso con i mezzi che avevamo a disposizione. Capisco il punto messo a fuoco da Rotelli, sta tutto dentro la definizione di «pericolosità sociale», dentro il codice di procedura penale che consente al tribunale di dirottare un reo dalla cella all’Opg in virtù di una sentenza che accerta l’incapacità di intendere e di volere del giudicato. Rotelli dice: che il colpevole sconti la sua pena in cella, si giudica il reato non la persona, quindi conta relativamente il suo disagio mentale nel comminare la pena. Il matto che ha commesso un delitto, stia, conclude, in cella e lì sia curato...»
È così, se non si vuole, di nuovo, blindare la psichiatria nel ruolo di secondino...
«E posso comprendere. Ma io ho a che fare con gente che è già stata giudicata. Che devo fare con i pluriomicidi affetti da gravi sofferenze psichiche? Non posso destinarli ad una cella a dispetto delle disposizioni di un tribunale. Quindi, qualcuno mi aiuta ad uscire da questo vicolo cieco? Sicuro: sono abbastanza d’accordo con Rotelli, bisognerebbe riformare il Codice Rocco, ma lei crede che sia iniziativa da poco e di poco tempo? Quello schifo doveva cessare, intanto. E mi pare che ce l'abbiamo fatta in un lasso di tempo sorprendentemente breve, inseguiti da un giudizio del Consiglio d’Europa che ci accusava di esercitare la tortura. Comunque, massima apertura...
Ma se è vero che niente, in Italia, è più tenace del provvisorio, non crede che comunque si istituiscano, grazie a questa legge, dei luoghi non diversi dai manicomi? In altre parole: se un matto non commette reato non va in manicomio, ma se invece viene condannato allora in manicomio ci può andare. Ma non avevamo detto basta ai manicomi?
«Non saranno manicomi: all’interno della struttura alternativa ci sarà solo personale sanitario. Per nessun motivo gli agenti di sicurezza entreranno in contatto con gli internati».
Perché staranno fuori, a far cordone. Ma nemmeno nei manicomi la «legge» interna era garantita dagli agenti, ci pensavano i medici e gli infermieri. Ammetterà che esiste un «vallo» almeno nebbioso in questa logica dei due tempi. Prima chiudere i vecchi Opg e poi pensiamo al codice Rocco?
«Senta, concorda con me e sulla base di considerazioni lucidissime anche Cesare Bondioli, responsabile per Psichiatria Democratica degli Opg. Trovo conforto nella legislazione di alcuni paesi del Nord Europa e ancora sono convinto che siamo solo all'inizio di un percorso che senza dubbio dovrà essere progettato con la massima partecipazione dei tecnici della materia, quindi a partire da chi ha lavorato con Basaglia all'abolizione dei manicomi. Ma di lasciare al loro destino quelle persone trattate peggio delle bestie non se ne parla nemmeno».
Proprio perché sanno il fatto loro, magari hanno ragioni da accampare quando criticano la nuova legge...
«Certo, ma quando Rotelli dice: i matti colpevoli di delitti vadano in cella, non in strutture alternative, e lì si facciano curare, altrimenti ricreiamo i vecchi manicomi, resto, mi creda, perplesso. Ha idea di che cosa voglia dire oggi in Italia pretendere una qualsivoglia cura in un carcere? Rotelli e Dell'Acqua dovrebbero con umiltà visitare qualche penitenziario per rendersi conto di questa inattualità: in cella non si cura nemmeno un raffreddore, altro che sofferenze psichiche gravi».

l’Unità 13.2.12
Il superamento degli Opg e le carceri
risponde Luigi Cancrini


Sono uno psichiatra che da anni lavora nel carcere di Regina Coeli a Roma. Il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari previsto dalla legge svuota carceri apre una prospettiva di cura per persone mantenute finora in una condizione di vergognoso abbandono. Di più ci si dovrà occupare in futuro, però, anche dei detenuti comuni.
Francesco De Tibertis

RISPOSTA La Commissione d’Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale presieduta da Marino aveva verificato la gravità delle condizioni igieniche e sanitarie degli Opg e l’assenza di ogni possibilità di cura per i detenuti. Il governo Monti ha recepito queste indicazioni. Come dovrebbe accadere sempre (e non accade spesso) all’interno di una dialettica fra assemblee elettive e governo, decisivo è stato il merito della questione, il diritto alle cure delle persone malate. Che i servizi che si occupano di psichiatria e di dipendenze abbiano da domani più spazio e più risorse per corrispondere alle esigenze dei detenuti nelle carceri “normali” è il passaggio successivo di una riforma ormai non più rinviabile. Quello che con forza va sottolineato oggi, però, è il valore della battaglia di civiltà portata avanti con l’appoggio di tutte le forze politiche rappresentate nella Commissione di Marino: un tecnico prestato alla politica e una persona, per questo motivo, attenta più alle ragioni dei fatti che a quelle degli schieramenti. Sulla strada che è l’unica possibile per dare di nuovo senso all’attività di chi fa politica.

l’Unità 13.2.12
Università. Come vincere i nepotismi
Dopo le polemiche scatenate dai «figli di» del governo Monti ecco quali norme potrebbero mettere fine ai privilegi in favore del merito
di Pietro Greco


Il nepotismo nelle università italiane. Il tema è tornato all’attenzione dei media negli ultimi giorni, per almeno tre casi. Si è iniziato con quello di Michel Martone, il più giovane sottosegretario del governo Monti, che ha dato dello «sfigato» a chi a 28 anni non ha ancora una laurea. Si è poi saputo che Michel, figlio di un noto e influente magistrato, è diventato professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università di Siena a 29 anni, con un solo lavoro scientifico pubblicato all’attivo e a seguito di un concorso per due posizioni dove stranamente 6 candidati su 8, con molti titoli in più, si sono ritirati prima dell’esame di selezione.
Si è continuato con Silvia Deaglio, figlia del Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e di Mario Deaglio: «colpevole», secondo le implacabili voci delle rete, di essere diventata professore associato nella stessa università, a Torino, dove la madre è professore ordinario di economia e il padre è professore di economia internazionale. Ma Silvia ha (giustamente) sottolineato che lei insegna a medicina, in un dipartimento diverso da quello degli illustri genitori, e che in ogni caso il suo curriculum scientifico – ricco di ben 93 pubblicazioni scientifiche internazionali con peer review – è di assoluto rispetto.
Si è chiuso (per ora) con Luigi Frati, docente di Patologia generale, a lungo Preside di Medicina e ora Rettore dell’Università di Roma «La Sapienza». Gian Antonio Stella ha ricordato sul Corriere della Sera che non solo Luigi Frati si vanta di aver «messo in cattedra» 200 professori, ma che nella sua università – anzi nella «sua» Medicina – hanno trovato lavoro la moglie Luciana Rita Angeletti (laureata in Lettere, insegna storia della Medicina); la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza, lavora a Medicina Legale) e il figlio Giacomo (medico e da poco ordinario di Medicina e Chirurgia). Gian Antonio Stella insinua che ci sia una qualche relazione tra il sistema di reclutamento dei docenti e lo scarso riconoscimento che «La Sapienza» ha tra le grandi università del mondo.
CASI DIVERSI FRA LORO
I tre casi sono molto diversi gli uni dagli altri. Tuttavia è innegabile che l’università italiana è attraversata dal fenomeno del nepotismo, che tende a premiare non i migliori ma i «figli di mamma e papà». Ma l’analisi non può fermarsi a questa denuncia generalizzata. Occorrono almeno tre specificazioni. Primo: il fenomeno è diffuso, con un diverso gradiente, in tutto il paese. Secondo: il fenomeno del nepotismo è più accentuato in alcune aree disciplinari (giurisprudenza, medicina, ingegneria) e molto meno in altre. In particolare è diffuso nelle aree disciplinari in cui la docenza favorisce l’attività professionale. In ambito scientifico sono pressoché immuni da fenomeni di nepotismo matematica, fisica, chimica, biologia. Terzo: nelle aree disciplinari in cui il docente universitario è completamente assorbito dalla docenza e dalla ricerca l’università italiana forma giovani eccellenti. Una capacità che spiega perché i giovani matematici, fisici, chimici, biologi italiani brillano quando vanno all’estero. Sulla base di queste specificazioni, occorre chiedersi se le norme introdotte nel 2009 e nel 2010 da Mariestella Gelmini (commissione nominata per sorteggio; candidati vagliati prima a livello nazionale; sedi diverse per parenti) siano sufficienti a sconfiggere il fenomeno del nepotismo. Si tratta di norme che vanno, certo, nella direzione giusta. Tuttavia occorre prendere in esame l’ incompatibilità tra professione e docenza universitaria. Chi sale in cattedra deve solo insegnare e fare ricerca. Non deve svolgere alcun’altra professione. In questo modo l’interesse alle cordate familiari verrebbe decisamente eroso.

l’Unità 13.2.12
Chi ha scritto la tragedia greca
di Paolo Soldini


Sembra il finale di un film dell’orrore. Di quelli in cui gli incubi sembrano superati grazie al coraggio e all’intelligenza dei “nostri” ma nell’ultimissima scena un particolare, un mostro che si risveglia, un’astronave aliena che punta sulla terra, fa capire allo spettatore che no, non era così. L’umanità è ancora in pericolo.
Ieri sera, mentre nella più grande confusione il parlamento ad Atene votava il pacchetto di tagli selvaggi dettati, per interposta troika, dal Fmi, dalla Bce e (ahinoi) dalla Commissione europea, il finale del film dell’orrore greco era ancora tutto da scrivere. Se le istituzioni europee, e soprattutto i governi, e massimamente il governo tedesco, decideranno che i tagli vanno bene e bastano, Atene riceverà la sua tranche di aiuti, altrimenti a metà marzo, fra poco più di un mese, lo Stato non sarà più in grado di pagare stipendi e spese correnti e sarà il fallimento. Pleite in tedesco. Default nell’anglo-francese che va di moda. Apotuchia, nel greco in cui fu tradotta l’Apocalisse. Eppure questo film lo abbiamo già visto. È dal 2009 che la Grecia incombe come un incubo sull’Europa perché l’Europa incombe come un incubo sulla Grecia. Sono almeno due anni e mezzo che ad Atene si chiedono tagli, riforme e aggiustamenti che nessun Paese, nessuna classe dirigente sarebbe in grado di gestire senza mettere nel conto il proprio disastro. Si è messo in ginocchio uno Stato e contemporaneamente gli si è chiesto di rialzarsi da solo, gli si è tolta ogni minima chance di ripresa economica e nello stesso tempo si pretende che paghi i debiti e risani le finanze. E come? L’elenco degli errori compiuti dall’Europa (istituzioni e governi) nella gestione della crisi greca figurerà forse, un giorno, nei manuali di economia come esempio di tutto quello che non si deve fare. A cominciare dal coinvolgimento nella ristrutturazione del debito delle grandi banche private, delle assicurazioni e dei fondi che fu deciso a Deauville da Merkel e Sarkozy.
Oggi ogni strategia di soluzione della crisi viaggia su un doppio binario: la trattativa con la troika e quella con l’Institute of International Finance, la lobby delle grandi banche guidata da due negoziatori feroci, il presidente americano Charles Dallara e il capo della Deutsche Bank Josef Ackermann. E non è affatto detto che i binari corrano davvero paralleli. A fasi alterne, poi, si è ritenuto possibile una ristrutturazione del debito che di fatto corrispondeva a un default e si è esclusa formalmente questa possibilità perché le conseguenze sarebbero incontrollabili. E intanto ci si è guardati bene dal tirare fuori i fondi che sarebbero stati necessari per escludere davvero la bancarotta, cosicché si è di fatto ammiccato ai mercati che facevano volare i tassi perché la ritenevano possibile, e anzi probabile.
Quando finirà questo bruttissimo film? Uno dei motivi che stanno dietro all’incapacità europea a gestire la crisi del debito di un piccolo Paese è la tendenza evidente a considerare la questione in termini di politica interna in Francia e soprattutto in Germania. Il «non pagheranno i nostri cittadini i vizi altrui» è stato l’argomento d’una specie di demagogia di stato che ancora ieri dava possenti prove di sé nelle dichiarazioni del ministro delle Finanze di Berlino Wolfgang Schäuble, in quelle dei ministri liberali Philipp Rösler e Guido Westerwelle, nonché nell’incredibile richiesta del Ministerpräsident della Baviera di convocare un referendum tra i tedeschi per far decidere a loro se la Grecia va aiutata o no. Ma proprio questo viziaccio, diffuso a Berlino e Parigi, non sconosciuto a Bruxelles, potrebbe offrire, paradossalmente, un ombrello di protezione ai dirigenti greci. Diamo un’occhiata al calendario: il 22 aprile si terrà il primo turno delle elezioni presidenziali francesi. È dubbio che Nicolas Sarkozy, già in difficoltà nei sondaggi, voglia arrivarci sull’onda delle grandissime incertezze e tensioni che un default di Atene scatenerebbe sui mercati e sulle istituzioni europee. Ed è probabile che la cancelliera Merkel sostenga anche su questo il suo referente a Parigi, considerata la paura che prova davanti a una possibile vittoria di François Hollande con la sua dichiarata ostilità al trattato intergovernativo sul fiscal compact. C’è da pensare che tanto a Parigi quanto a Berlino ci si stia orientando comunque a concedere altro tempo ad Atene. Ma il problema resta tutto, e si ripresenterà tale e quale dopo aprile. Senza contare che, come la storia ci ha mostrato più volte, certe dinamiche di crisi tendono a sfuggire clamorosamente a chi dovrebbe governarle, soprattutto se non si hanno in mano tutti gli strumenti (per esempio le lobby bancarie e i meccanismi di mercato). Le guerre, spesso, sono cominciate così.

Corriere della Sera 13.2.12
La crisi della Grecia è la crisi dello Stato greco
risponde Sergio Romano


Non crede anche lei che le ingenti spese sostenute dalla Grecia per l'organizzazione delle Olimpiadi del 2004 abbiano inciso notevolmente sul suo disavanzo economico?
Italo Tacelli

Caro Tacelli,
I l costo delle Olimpiadi ha dato un duro colpo al bilancio greco. In altre circostanze, tuttavia, il Paese si sarebbe risvegliato dopo i Giochi con molti debiti, ma anche con un patrimonio non trascurabile di nuove infrastrutture e un gettito fiscale aumentato dai buoni affari dell'industria turistica. Se questo non è accaduto, la colpa non è delle Olimpiadi, ma di un sistema che aveva già infettato i conti dello Stato.
I veri mali della Grecia sono politici, non economici. Gli organici della funzione pubblica sono stati gonfiati per ragioni elettorali e clientelari. Le industrie pubbliche hanno avuto, più o meno, la stessa funzione. La corruzione e l'evasione fiscale hanno privato il bilancio dello Stato di una larga parte delle risorse di cui aveva bisogno per la gestione della cosa pubblica. Quando la Grecia chiese di entrare nell'eurozona, la sua classe politica nascose la reale situazione del Paese dietro una maschera di bugie perché era collegialmente responsabile. È illusorio, quindi, pensare che la Grecia possa uscire dalla crisi con provvedimenti esclusivamente finanziari. Ne uscirà soltanto quando sarà consapevole della necessità di trasformare lo Stato clientelare in uno Stato di diritto, fondato sull'osservanza della legge e sull'eliminazione delle numerose sacche d'irregolarità diffuse nell'intero Paese.
Qualcuno potrebbe sostenere, caro Tacelli, che questo è anche il ritratto dell'Italia. Non è vero. Negli ultimi tre anni, l'aumento del debito pubblico e del disavanzo nel nostro Paese è stato, se confrontato a quello degli altri membri dell'Ue, contenuto. Sono state fatte manovre importanti senza l'aiuto del Fondo monetario internazionale. È stato avviato un programma di riforme. Il governo Monti ha un'autorità e un prestigio considerevolmente superiori a quelli di Lucas Papademos, rispettato ex banchiere centrale ed europeo, ma oggi presidente di un Consiglio dei ministri in cui siedono i rappresentanti dei maggiori partiti nazionali, vale a dire i responsabili della crisi.
Questo spiega il crescente nervosismo con cui l'eurozona e la Troika — Commissione di Bruxelles, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale — giudicano la situazione greca. Il documento di cinquanta pagine consegnato dalla Troika al governo di Atene negli scorsi giorni è una sorta di prontuario in cui sono minuziosamente elencate le cose da fare, i risparmi da realizzare e le relative scadenze. Vi è persino una clausola che impone l'eliminazione dei vicesindaci con un risparmio di 50 milioni di euro. Il documento contiene condizioni simili a quelle dei trattati che le potenze vincitrici impongono a un Paese sconfitto.

La Stampa 13.2.12
Cosa ci dice la rabbia dei greci
di Stefano Lepri


Peggio ancora, l’incapacità di toccare i privilegi blocca ogni tentativo di rivitalizzare l’economia. Ai deputati risulta più facile aumentare le tasse a tutti che pestare i piedi a gruppi di interesse compatti. Dopodiché una amministrazione corrotta riesce a riscuotere le maggiori tasse solo dai soliti noti, mentre i furbi se la cavano (portare l’aliquota Iva dal 19 al 23% non ne ha accresciuto il gettito).
Il sindacato dei poliziotti ellenici vorrebbe mettere in galera gli inviati della «troika» (Commissione europea, Bce, Fondo monetario). Eppure a tormentare la «troika» è assai più la mancanza di riforme strutturali. Ad esempio, poco o nulla si è fatto in materia di privatizzazioni, perché i politici non volevano rinunciare a strumenti di potere. E perché mai un Paese in queste condizioni è pronto a tagliare le spese militari solo se «non pregiudicano le capacità difensive»?
Dall’altro lato dello Ionio arrivano a punte estreme fenomeni che ben conosciamo. Ce ne rendiamo conto, tanto da ripetere «non siamo come la Grecia» un po’ troppo spesso. Più efficace è invece dire che i sacrifici non li facciamo perché ce li chiede l’Europa ma per il nostro futuro. Questa è la chiarezza che è finora mancata in Grecia, grazie anche a procedure di decisione europee che rendono agevole lo scarico di responsabilità.
Forse la gente che protesta in piazza ad Atene è ormai troppo esasperata per spiegargli che un Paese non può campare producendo 100 e consumando 110, come era avvenuto grazie ai crediti di quella finanza internazionale che poi ha avuto paura delle proprie dissennatezze. È comprensibile l’indignazione contro una macchina politico-burocratica che preme sul Paese come un tumore; ma alle prossime elezioni pare non ci sarà molta scelta tra rivotare chi ha falsificato i bilanci pubblici o gonfiare partiti estremisti privi di ricette.
Il voto di ieri sera nel Parlamento non risolve nulla, allunga i tempi di qualche mese. La vera scadenza diventa ora un’altra: nel corso del 2012 il bilancio dello Stato greco arriverà all’«attivo primario» ossia eliminerà tutto il deficit non causato da pagamento di interessi su debiti. A quel punto, l’insolvenza totale diventerà una tentazione; non è facile capire se più per i greci, o per chi in Europa vuole abbandonarli a sé stessi.
Le ripercussioni di un eventuale default sembrano ora meno difficili da assorbire. Ma quali speranze potrà infondere, dopo, una politica europea che ha permesso ai greci di dipingere i tedeschi come sadici aguzzini, e ai tedeschi di disprezzare i greci come dei fannulloni bugiardi?

l’Unità 13.2.12
«Sono giovani e donne a fare le rivoluzioni in nome del futuro»
Il premio Nobel della pace 2011 racconta della rivolta nello Yemen e della Primavera araba: «Alla comunità internazionale chiediamo coraggio»
di Umberto De Giovannangeli


Ogni sua parola racconta l’orgoglio di chi sa di aver contribuito a scrivere una pagina di Storia. E di averlo fatto come «yemenita, giovane donna, madre e musulmana». La storia di un popolo che ha avuto il coraggio, pagando un indicibile tributo di sangue e sofferenza, di ribellarsi al padre-padrone dello Yemen, Ali Abdullah Saleh. Orgoglio e determinazione. Dolore e desiderio di portare a compimento la «Primavera yemenita». A parlare è Tawakkul Karman, Premio Nobel per la Pace 2011, protagonista della Primavera araba yemenita, attivista per i diritti umani, giornalista. In Italia nei giorni scorsi su invito del Partito Radicale e dell’Associazione «Non c’è pace senza giustizia», la Nobel per la Pace yemenita, ha incontrato le massime autorità dello Stato, a cominciare dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. A conclusione del suo tour italiano, Karman ha accettato di fare il punto con l’Unità degli eventi che hanno segnato e continuano a segnare l’intero Medio Oriente e il Nord Africa, a partire dalla martoriata Siria, insistendo su un dato che riguarda il suo Paese ma che può valere anche per Tunisia ed Egitto: «A fare la rivoluzione in Yemen dice sono stati i giovani e le donne. E questo è un messaggio di speranza, perché il loro è uno sguardo proiettato nel futuro». Le notizie che giungono dalla Siria sconvolgono e indignano Tawakkul Karman. A l’Unità ribadisce quanto chiesto al premier Mario Monti e al titolare della Farnesina, Giulio Terzi: l’Italia, così come gli altri Paesi della comunità internazionale, proceda all’espulsione dell’ambasciatore siriano, al richiamo del proprio rappresentante diplomatico a Damasco e al congelamento dei beni di Bashar alAssad, e di quelli dello yemenita Ali Abdullah Saleh. Karman ha parole durissime contro Mosca e Pechino per il veto esercitato al Consiglio di Sicurezza: «Grazie a loro – denuncia un tiranno ha garantita l'immunità laddove occorrerebbe unirsi e creare una rete globale di popoli». Quanto al suo Paese, la giovane Nobel per la Pace non ha dubbi. E rilancia la sua sfida di libertà: «Vogliamo giustizia e democrazia, e la otterremo attraverso una rivoluzione pacifica».
Negli incontri pubblici e in quelli politici avuti nei giorni scorsi in Italia, lei ha molto insistito sulla «lezione» che i giovani protagonisti delle Primavere arabe hanno fatto propria e su questa base hanno condotto la loro battaglia di libertà. Qual è questa lezione che lei proietta anche nei rapporti tra Oriente e Occidente?
«Noi giovani della Primavera araba abbiamo capito che quello che impedisce di realizzare la fratellanza fra Oriente e Occidente sono i governanti dispotici, corrotti e fallimentari. Questi governanti sono causa di una guerra interna ai nostri popoli e rappresentano un minaccia per la stabilità internazionale».
Lei ha più volte fatto riferimento ad una «fase due» della rivoluzione yemenita. Di cosa si tratta?
«La nostra rivoluzione comincia con la caduta del dittatore. Ora siamo entrati nella seconda fase, una fase di transizione. Occorre cambiare i vertici delle forze di sicurezza ed eliminare la corruzione. Non sarà facile, ma non ci interessa liberarci solo di un despota. Vogliamo giustizia e democrazia e la otterremo attraverso una rivoluzione pacifica. Ci sarà un solo candidato alle elezioni secondo l’Accordo di Riad. Ma noi non lo permetteremo, se il candidato garantirà immunità per gli assassini».
Di questa rivoluzione le donne hanno avuto un ruolo da protagoniste.
«È vero e ne sono profondamente orgogliosa. In questa rivoluzione la donna ha assunto ruoli di guida. Donne sono state uccise per la strada, assassinate perché erano guide. Saleh diceva che dovevamo restare a casa. Ma la nostra risposta è stata: prepara la tua valigia, perché le donne faranno cadere il tuo trono. Inizialmente eravamo solo tre donne giovani. Siamo state derise e arrestate. Temute. Gli uomini erano stupiti della nostra presenza e noi stesse della nostra forza. Le donne sono coraggiose e generose: non combattono mai solo per sé, lo fanno per tutta la comunità. Per quanto mi riguarda, non ho mai guardato a me stessa come donna ma come essere umano, io devo essere rispettata perché sono un essere umano, non perché sono donna. Non crediamo alla tradizione che subordini la donna all’uomo. La donna ha gli stessi diritti dell’uomo e deve partecipare alla vita sociale e politica allo stesso modo dell’uomo. La nostra è stata una lotta per i diritti di tutti e il dittatore è rimasto stupito, spiazzato soprattutto dal ruolo delle donne».
Quale ruolo gioca nelle vicende yemenite la religione?
«Nel mio Paese tradizioni mettono in pericolo la libertà delle donne. Molti religiosi danno interpretazioni personali e sbagliate dell’Islam. I governi non fanno niente perché questo serve loro a mantenere lo status quo”. A New York, lei ha incontrato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Cosa chiede alla Comunità internazionale?
«Di non continuare a fare il gioco del satrapo che da decenni tiene in ostaggio un intero popolo. Se da novembre ad oggi nulla è cambiato nel mio Paese, e un regime continua a comportarsi da criminale è anche perché c’è chi, penso soprattutto agli Usa e ai paesi del Golfo, hanno concesso a Saleh di fare il proprio comodo, prima continuando a reprimere nel sangue la rivoluzione pacifica ed ora permettendogli di partire per gli States, senza problemi. Invece di curarlo, dovrebbero arrestarlo e processarlo per crimini contro l’umanità. Non smetterò mai di denunciarlo: Saleh è un criminale e va punito. La gente muore ogni giorno, non ha gas nè acqua, e tutto questo solo perchè lotta per la libertà. Se davvero vuole comportarsi da “mondo” libero, civile, democratico, l’Occidente ha una sola cosa da fare: congelare gli asset finanziari di Saleh e conferirli al popolo yemenita ed al governo di transizione».
Lei ha avuto parole durissime contro Russia e Cina per il loro veto al Consiglio di Sicurezza alla risoluzione che condannava la repressione messa in atto dal regime di Bashar al-Assad... «Cina e Russia hanno la responsabilità umana, politica, morale dei massacri in Siria. Grazie a loro un tiranno ha garantita l'immunità. È una vergogna perché al-Assad è peggio di Gheddafi. L’immunitá é contro i principi su cui sono state fondate le Nazioni Unite. Occorre fare il vuoto attorno al regime di Damasco e in questo senso è importante quanto deciso oggi (ieri, ndr)dalla Lega Araba. Il mondo non può essere complice di chi ha dichiarato guerra al suo popolo».
I Fratelli Musulmani hanno vinto le prime elezioni del dopo-Mubarak in Egitto; Ennahda ha fatto altrettanto in Tunisia. La Primavera araba è sfiorita in un «Inverno islamista»? «Solo chi non conosce al storia di questi Paesi può meravigliarsi di quei risultati elettorali. L’Islam politico ha un radicamento sociale che non può essere cancellato dall’oggi al domani. Per anni ha rappresentato agli occhi della gente, soprattutto degli strati più deboli, un punto di riferimento alternativo. Ma non hanno ricevuto una delega in bianco. In Egitto come in Tunisia, in Yemen e un domani in Siria, i partiti islamisti dovranno tener conto di quelle istanze di libertà che sono state alla base delle Primavere arabe. Indietro non si torna. Non abbiamo combattuto regimi corrotti e sanguinari per vedere nascere altre dittature, comunque mascherate. Quanto all’Occidente, ai suoi leader come alle opinioni pubbliche, dico: non abbiate paura, non demonizzate l’Islam politico. La democrazia non si costruisce in un giorno. Ascoltate la voce del popolo yemenita e di quelli arabi. Non dimenticate i nostri giovani, le donne. Riconoscete i nostri successi e aiutateci perché siamo il futuro. Abbiamo già vinto la prima battaglia in molti Paesi. Abbiamo distrutto un vecchio ordine, ma ora dobbiamo costruire il nuovo ordine, ma ci vorrà tempo. Di certo noi non ci tireremo indietro».

La Stampa 13.2.12
Vado in piazza contro Putin ma non so cosa mettermi
Nella ricca Mosca la società civile riscopre l’impegno politico. Che diventa trendy
di Lucia Sgueglia


MOSCA I  nuovi Romeo e Giulietta russi si innamorano marciando contro Putin. Look da rivoluzionari, cantano a memoria le nuove hit dissidenti. E’ anche questo, il ri- sultato di oltre due mesi di inattesa «primavera politica» a Mosca. Dopo il conformismo degli anni putiniani, tor- na di moda l’idealismo. La creatività è esplosa in piazza, tra slogan ironici, manifesti irriverenti e performance di strada. Ora, dopo 20 anni in cui «impe- gno» equivaleva a una parolaccia, lo spirito della piazza comincia a river- sarsi nell’arte.
Dal cinema alla musica, dalle mo- stre alla moda, il tormentone è ovun- que. Le performance isolate, come quelle del gruppo Voina (Guerra), arti- sti-attivisti sociali al limite del teppi- smo, o le «monstratzie» di Artem Lo- skutov a Novosibirsk regolarmente sanzionate dalla polizia, diventano cor- tei e flash-mob, e in attesa del voto del 4 marzo se ne stanno preparando deci- ne, la protesta entra nel mainstream culturale. Il cinema fiuta una nuova au- dience e arriva una docu-fiction (pro- dotta nientemeno che da Timur Bek- mambetov, regista di blockbuster pre- stato a Hollywood), che vedrà protago- nisti una giovane pasionaria dell’oppo- sizione e un «Omon», membro della po-
IL LOOK DELLA PROTESTA
Dai tradizionali stivali di feltro al thermos griffato, ma è out soprattutto «stare col potere»
lizia antisommossa russa che fino al 4 dicembre scorso, giorno del voto alla Duma che ha dato la stura alle prote- ste antibrogli, era nota per picchiare duro i dimostranti. Simbolo di «due parti della società russa che oggi si contrappongono e rischiano lo scon- tro, una cronaca del nostro tempo», spiega il direttore Nikita Trynkin pre- cisando: «Una storia d’amore tesa e tragica, non un film politico». Finora la politica era tabù nel cinema russo, spe- cie quello destinato alla tv.
Ma anche la moda si fa influenzare dalla «rivoluzione hipster»: una parola di cui qualche sera fa, intervistato da Xenia Sobchak sulla tv trendy Dozhd, il leader comunista Ziuganov, candida- to alle presidenziali, ha confessato di non conoscere il significato. A fissare la svolta, dopo il kitsch degli Anni 90 e il «glamour» del 2000, è il blog «Moda sulle barricate» (www. fashionprotest. ru), un’idea dello stilista Aleksandr Arutiunov: «Non ci sono più dubbi, sa- lire sulle barricate è una nuova tenden- za. Questo blog parla di persone che la rendono elegante e dignitosa. Perso- naggi, regole di stile, e tutto ciò che può esservi in comune fra rivoluzione e moda - o il contrario, decidete voi». Tanti post e foto: il look del perfetto ri- voluzionario (a vincere la competizio- ne per i maschi è il blogger Alexei Na- valny); gallerie di ragazze e ragazzi in iazza, flashback di stile dalle rivoluzio- ni “colorate” al golpe a Mosca nel 1991, al 1968 a Parigi. Out: il tacco 12. In: i va- lenki, mitici stivali di feltro dell’Armata Rossa rispolverati per contrastare il ge- lo. Magari in versione fucsia. E il ther- mos griffato. Out: «lavorare per il pote- re e per far soldi». In: usare la politica «come fonte di ispirazione», per esem- pio per la t-shirt col volto del miliardario Prohorov. La sezione «sistema multipar- titico» suggerisce il look per diversi par- titi, rigorosamente griffato.
Nelle gallerie d’arte si inaugurano mostre in tema: da Paperworks «Per elezioni libere» unisce nomi stranoti co- me Dmitri Gutov a nuove leve. Alla «Ri- voluzione Bianca all’Ottobre rosso», la street art più povera e spontanea nata intorno alle proteste e sul web (svetta P183, il «Bansky russo»), primo bersa- glio Putin. Al Centro di Arte Contempo- ranea un ciclo di seminari su «Arte e Politica - lo specchio infranto del Pote- re». La prospettiva è storica, ma l’idea- tore Serghey Hachaturov commenta: «Da noi arte e politica hanno sempre confinato, è un leitmotiv dai Soviet alla Soz-Art a oggi, coi web-attivisti. Ri- guarda il rapporto col potere, ora pie- namente screditato». E i fotografi Liud- mila Zinchenko e Artem Zhitenev im- mortalano i dissidenti rifacendosi alla pittura classica e all’estetica delle mas- se pre-rivoluzionarie.
Si protesta anche a teatro, nella sce- na off di Teatr.doc che dal 14 ha in cartel- lone il Berlusputin, un Dario Fo rivisita- to alla russa. Le Pussy Riot, punk-band femminista, portano fin sulla Piazza Ros- sa le loro performance-blitz illegali e provocatorie: «Rivolta in Russia - il cari- sma della protesta/Rivolta in Russia - Putin ha paura!», prima di venire ferma- te dalla polizia. La «agit-art» ha una lun- ga tradizione, e l’arte di strada rende dif- ficile la repressione. Come dice Vor, fon- datore del gruppo Voina, un altro che in cella è di casa: «In Russia protestare è un lavoro creativo. Lavorare per la rivo- luzione e prenderla in mano è un dovere degli artisti, dall’Ottobre in poi».

La Stampa 13.2.12
Un antico regno sepolto

Nuovi scavi archeologici sono in corso in Anatolia, per riportare alla luce un regno ricco ma dimenticato, quello di Tuwana, cui verrà anche dedicato un museo a cielo aperto. La scoperta è avvenuta nel sito di Kinik Hoyuk, nella Cappadocia meridionale, risalente all’inizio del primo millennio a. C. Lo ha spiegato in una conferenza stampa a Istanbul l’archeologo Lorenzo d’Alfonso che guida la missione congiunta delle Università di Pavia e di New York.

Repubblica 13.2.12
Com’è triste una società che definisce "autistico" ogni bambino introverso
Lo scrittore racconta la sua storia: "Dissero che avevo la sindrome di Asperger ma non era vero"
"La diagnosi mi è stata fatta al liceo Se fosse arrivata prima non avrei mai fatto un libro"
di Benjamin Nugent


Alla fine degli anni Novanta, per un breve, inebriante periodo nella storia della diagnosi dei disturbi dello spettro autistico, ho sofferto di Sindrome di Asperger. C´è un video educativo girato in quegli anni, intitolato "Capire l´Asperger", in cui mi si vede: sono il ventenne aspirante modaiolo che indossa la maglia con il colletto e racconta della sua passione per la letteratura e di quanto nessuno lo capisse quando era in quinta elementare. Il filmato era un progetto di ricerca diretto da mia madre, una professoressa di psicologia specializzata in Asperger, e da una sua collega dello stesso dipartimento. Mi ritrae come un giovane che conduce un´esistenza ricca e piena, malgrado l´anomalia mentale di cui soffre.
"Capire l´Asperger" non era una truffa: tanto mia madre che la sua collega erano convinte che io soddisfacessi i criteri descritti nella quarta edizione del Manuale diagnostico delle malattie mentali, pubblicato dall´American Psychiatric Association. Il testo, che rimane ad oggi l´opera più autorevole a disposizione di terapisti, ospedali e compagnie assicurative americane, elenca i sintomi di coloro che soffrono di Sindrome di Asperger. E all´età di diciassette anni, anch´io fui considerato uno di loro.
Dimostravo una "compromissione qualitativa nell´interazione sociale", e in particolare l´"incapacità a sviluppare con i coetanei delle relazioni adeguate al livello di sviluppo" (avevo pochi amici) e la "mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone" (trascorrevo molto del mio tempo da solo, in camera, a leggere romanzi e ascoltare musica. Spesso, quando mi trovavo in compagni di altri ragazzi, mi sforzavo di parlare come il narratore di un romanzo di E. M. Forster per irritarli).
Manifestavo inoltre una fervida "dedizione per uno o più tipi di interessi stereotipati e ristretti, che risultano anomali o per intensità o per focalizzazione" (mandavo a memoria poesie e trascorrevo molto tempo suonando la chitarra e scrivendo poesie e romanzi terrificanti).
Una diagnosi psicologica solitamente si applica quando un individuo esibisce delle tendenze che inibiscono la sua capacità di condurre una vita felice e normale. E nel mio caso pare che stesse accadendo proprio questo. La mia media al liceo infatti sarebbe stata sicuramente più alta se fossi stato meno distratto dai libri e dalla musica. E se i miei interessi fossero stati più vari e mi avessero permesso di riuscire a raggiungere un minimo livello di competenza in qualche sport non avrei provocato la frustrazione e il disprezzo degli altri ragazzi durante l´ora di ginnastica e a ricreazione.
Finita l´università mi trasferii a New York City, dove divenni scrittore; incontrai persone che condividevano le mie stesse ossessioni e smisi di voler parlare come un narratore di Forster. Non apparivo più tanto goffo e non ero più isolato. Stando al manuale diagnostico, la Sindrome di Asperger è "un disturbo continuo, che dura tutta la vita". I miei sintomi invece erano spariti.
L´anno scorso ho pubblicato un romanzo di "realismo psicologico" cosa che mi ha richiesto di intuire i significati extra-verbali delle interazioni sociali e creare alcuni incontri tra persone fittizi dagli interessanti risvolti impliciti. Solitamente chi soffre di Sindrome di Asperger e di altri disordini dello spettro autistico fa fatica a cogliere riferimenti non verbali, e spesso predilige il tipo di pensiero associato agli scacchi e alla matematica: attività per le quali ho la stessa propensione che per il calcio. Tuttavia, il punto più debole dei criteri diagnostici che mi furono applicati è quello incentrato sull´assoluta inettitudine sociale di un bambino o un adolescente, tanto più se questi non è bravo negli sport, è un tipo nervoso o ha un aspetto strano. E anche nel caso sia estremamente percettivo rispetto all´interazione sociale.
Con il passare degli anni e il maturare della mia personalità adulta, mia madre capì che non soffrivo di Sindrome di Asperger, e si scusò profusamente per avermi fatto apparire nel suo video. Per molto tempo gliene ho voluto, e in alcuni casi, mi vergogno ad ammetterlo, le ho anche urlato. In seguito, dopo circa sette anni, l´ho perdonata perché le sue intenzioni erano nobili: desiderava educare i genitori e gli assistenti sociali su quel disturbo, e sconfiggere i pregiudizi che lo accompagnano. Mi domando cosa sarebbe accaduto se fossi nato cinque anni più tardi e avessi ricevuto la stessa diagnosi all´impressionabile età di dodici anni. Forse non avrei mai cercato di scrivere di interazioni sociali, perché mi sarebbe stato detto che ero costituzionalmente destinato a considerarle sconcertanti.
Gli autori della prossima edizione del manuale diagnostico, il D.S.M.-5, stanno pensando di limitare la definizione dello spettro autistico; tale scelta potrebbe ribaltare il drastico aumento delle diagnosi di Asperger a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci o quindici anni. La notizia è stata accolta con sgomento da molti autorevoli psicologi, i quali temono che, mancando di soddisfare i nuovi e più stringenti criteri, i bambini e gli adolescenti che soffrono di leggeri casi di autismo possano vedersi negato l´aiuto di cui hanno bisogno.
Eppure, la mia esperienza non può essere un caso isolato: stando alla diagnostica vigente, qualsiasi ragazzo introverso, emarginato e amante della lettura potrebbe soffrire di Asperger. La definizione del disturbo dovrebbe essere resa più specifica. Certo, non voglio che chi soffre di un lieve caso di autismo debba rinunciare ai trattamenti necessari, ma nemmeno che uno psicologo scolastico possa farsi un´idea sbagliata su un adolescente impacciato e introverso.
(Traduzione di Marzia Porta) © New Yor Times - La Repubblica

l’Unità 13.2.12
I gay? Non esistono
Un libro smentisce le pretese scientifiche delle teorie «riparative» mettendone in luce la volontà distruttiva nei confronti dell’omosessualità


Curare i gay? Piuttosto «liberarli». Sono davvero «terapie» le cure per i gay? Per nulla: traducono in termini pseudo scientifici i pregiudizi popolari e nel vano tentativo di modificare l’orientamento sessuale alimentano il disprezzo del paziente verso se stesso e della società verso l’omosessualità, colpendo al cuore la democrazia degli affetti.
A smontare gli assunti dei terapisti «riparativi», mostrandone fragilità e inefficacia e indicando le nuove linee delle terapie affermative, è un testo fresco di stampa dal titolo Curare i gay? (Cortina) scritto da Paolo Rigliano, Jimmy Ciliberto, Federico Ferrari. Un testo scientifico non privo di fervore politico, secondo il quale la questione centrale oggi rispetto all’omosessualità è favorire la liberazione del paziente nell’ottica del diritto di ciascuno di vivere in maniera legittima la propria affettività e del diritto-dovere della società di essere equa e rispettosa.
CHI SONO ALLORA?
L’assunto da cui partono i riparativi è invece la negazione degli omosessuali, i quali semplicemente non esisterebbero. Chi sarebbero allora? «Eterosessuali con problemi di omosessualità». L’unione tra persone dello stesso sesso sarebbe solo un atto sessuale compulsivo, qualcosa di secondario, e quindi una deviazioe da correggere rispetto al vero progetto biologico che vede Natura e volontà divina coincidere. È questo il credo dei fondamentalisti impegnati a trasformare la psicoterapia in una teopsicologia e ad appoggiare il più retrivo conservatorismo.
«L’unione eterosessuale rimane il progetto di Dio per l’Umanità», dice uno degli assertori tesi a parlare soprattutto di omosessualità maschile. Opposto è l’atteggiamento degli autori del testo che, passando al setaccio le terapie riparative, ne mostrano i presupposti di oppressione. Fanno riferimento tra gli altri agli assunti dell’American Psychological Association: non solo dal 1973 a oggi l’omosessualità è considerata una variante normale e positiva dell’orientamento sessuale umano, ma essa non va vista come un elemento isolato, un gusto, qualcosa che si aggiunge, e che si può «togliere».
Invece coinvolge l’interezza della persona, a partire dal nucleo centrale fino all’atto sessuale più concreto. L’omosessualità ha pari dignità rispetto all’eterosessualità, ed è anche parimenti preferibile. Eppure, nata circa venti anni fa in America, l’associazione Narth è capofila di tentativi per modificare l’orientamento sessuale di pazienti afflitti da un sistema sociale e familiare svalutante, le cui sofferenze andrebbero alleviate e che si vedono sottoposti a mortificazioni per raggiungere al massimo l’esito repressivo di limitare qualcuno dei comportamenti. Dopo aver smontato la tentazione di alcuni terapeuti di promettere impossibili conversioni, il libro indica alla comunità scientifica nuove strade mettendo a nudo la passione civile che lo anima. «L’obiettivo primo del paziente deve essere la sua liberazione». La relazione terapeutica offre al paziente l’occasione per sperimentare la fiducia in sé e nel proprio sentimento d’amore e di erotismo. Questa stessa ottica spinge gli autori a valorizzare nella terapia con le persone omosessuali credenti l’esperienza di molte realtà cristiane di base e le letture alternative del messaggio cristiano che parla di amore, di comunione, e di realizzazione piena di sé nel consorzio umano.
L’obiettivo è quello di costruire con il paziente omosessuale un’apertura «su un orizzonte di valori» di giustizia e di eguaglianza. In ballo c’è per la comunità scientifica la sfida di liberare e sostenere il paziente dentro un orizzonte sociale e politico che tuteli la persona e legittimi la pluralità delle identità sessuali.

La Stampa 13.2.12
Avanguardie e icone in cerca di prospettive
A Vicenza Rodchenko, Malevic & C. a confronto con i tesori russi di arte sacra
di Marco Vallora


VICENZA Non è la prima volta, anche in Italia, che si tenta di allestire visivamente una mostra di dialogo e di confronto tra le avanguardie russe (che come è noto furono molte: Cubo-futurismo, Raggismo, Suprematismo, Transmentalismo o Alogismo, Costruttivismo, ecc.) e quella forma di arte primitiva e di preghiera, che è l’Icona. Ormai non solo più considerata come una figura liturgica in sé (che va decifrata pure semioticamente, simbolo sostitutivo trascendente che si fa pittura, s’incarna in materia, d’oro e di luce) ma pure una forma d’arte radicalmente alternativa, d’impianto piuttosto orientale e di valenza sacrale, del tutto estranea comunque al nostro modo di organizzare la sintassi narrativa dello spazio figurale.
Ma in quest’occasione, si rivelano ben più convincenti, i risultati, affidati alla cura di specialisti affidabili della materia, come Nicoletta Misler e John E. Bowlt, Silvia Burini e Marina Blumin, e grazie al contributo di Giuseppe Barbieri che, proprio a partire dalle innovazioni teoriche della differente fruizione dell’opera d’arte, introdotte dalla percezione d’avanguardia, hanno concertato insieme un nuovo modo mediatico di miscelare fra loro la poesia, il manifesto teorico-propagandistico, l’affiche ideologica ed il cinema. Arte del montaggio così influente, per questo periodo instabile e fecondo della storia della sovversione artistica. Ma soprattutto questo è il luogo predestinato, per permettere e nobilitare un tale confronto rischioso (che talvolta s’è volto in azzardo approssimativo) dal momento che questa sede della Fondazione Intesa Sanpaolo trattiene nel suo caveau spirituale, una collezione di antiche icone, che sono spettacolari in sé e di modernità-primitiva folgorante, e che dunque accolgono in modo duttilissimo e permeabile, quest’intrusione, che a qualcuno potrebbe risultare forzata, se non blasfema.
Potremmo quasi rovesciare i rapporti, tenendo conto che per il terzo tempo (moderato con brio) di questa mostra sinfonica, cioè al terzo piano del Palazzo, ove sono abitualmente esposte le icone, si assiste a questa irruzione un po’ rivoltosa e tiepidamente teppistica (pensiamo al topos moscovita di Majakovskij ribelle) di sgargianti «icone» novecentesche, che recano la firma autorevole di Kljun, Rodchenko, Malevic, e s’incaricano di portare, per Dna costituzionale, inoppugnabilmente, in queste stanze del Sacro, le loro possenti istanze di azzeramento del credo figurativo, le festose, esplosive staffilate dell’annichilimento del figurativo. E potremmo concludere dunque, che non è tanto l’antico archetipico-primordiale (la struttura nuda e basica dell’apparentemente rude e scorretta stilizzazione inespressiva-intemporale dell’icona) a influenzare la meteorologia variabile e tempestosa del Moderno. Ma semmai, al contrario (o viceversa, in senso transitivo, secondo la lezione florenskjana) ci viene suggerito che potrebbe essere proprio il burbero e riottoso Contemporaneo ad aiutarci, in un ribaltamento temporale davvero rivoluzionario, a capir meglio e leggere con maggior profondità storica quei meravigliosi carretti del Sole del profeta Elia, così sfrontatamente sgangherati, nella loro contro-sintassi prospettica, o quegli scollati listelli di legno della croce schiodata, che precipitano crollanti verso di noi, otticamente, e che conducono abissalmente il Cristo nel ventre squartato del nostro Limbo, violato ed invaso. Appunto: la «prospettiva rovesciata» dell’icona, che non ci conduce più verso un punto di fuga inarrestabile-ideale, ma corre scarrucolata, come il treno dei Lumière, verso il nostro fuoco ottico: portandoci precipitosamente e misticamente nel cuore dell’evento sacro, eternamente replicato.
In fondo non è impossibile considerare anche il Quadrato nero di Malevic, collocato in alto in un angolo strategico del Museo, una sorta di suprema icona-altra, di pura teologia utopico-artistica, senza divino. Una ribelle visione del mondo, che vuole «ricostruire» pure la vita e possiede qualcosa di misticamente ateo, di ispirato. «Probabilmente anche Dio era un artista» astrologa Rodcenko: «per questo è buona cosa che lo si sia spodestato». Mentre Malevic, quasi staffato Barone di Münchhausen, che si solleva da solo, via dalla palude della tradizione, sottolinea: «Mi sono ripescato dal vortice di rifiuti dell’Arte Accademica, e mi sono trasfigurato nello zero delle forme». Una modernità di azzeramento totale, che però si rifà al primitivismo ancestrale dei lubok (le stampe popolari, sommarie
Il dialogo ha una doppia direzione: e si direbbe che le opere di oggi giovino a quelle di ieri
di tratti e spesso sbavate di colori impressi) le insegne di bottega, i disegni infantili. Così tutto si compenetra, in una congerie vitalissima: la linea astratta di cézannismo esasperato con l’espressionismo molecolare d’impianto kandinskiano, le agit-stoffe propagandistiche delle Amazzoni progressiste (ma anche Rodckencko triccottava con l’uncinetto) con le aringhe volanti e senza gravità di Sterenberg, che era però il miglior collaboratore del teorico del «realismo socialista» Lunacarksij.

l’Unità 13.2.12
La guerra è iniziata al G8 di Genova
Il film di Daniele Vicari presentato a Berlino è un’opera corale che riesce ad essere razionale ed emozionante nello stesso tempo. La notte in cui viene spezzata la democrazia in Italia viene ricostruita solo sulla base dei verbali
di Alberto Crespi


La notte della Diaz esplode nella domenica berlinese: nella sezione Panorama, di fronte a un pubblico numeroso e attento, va in scena quella che Amnesty International ha definito «la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale». È Diaz – Don’t Clean Up the Blood, di Daniele Vicari: un film magnifico che rinnova la gloriosa tradizione del cinema civile italiano, declinandola con una forza emotiva e spettacolare degna del grande spettacolo internazionale.
La frase «don’t clean up the blood», non pulite il sangue, fu scritta su un foglio da una ragazza che entrò nella scuola di Genova la mattina dopo la mattanza, e trovò la palestra dove dormivano i suoi compagni imbrattata del sangue delle vittime. La polizia aveva fatto irruzione, bastonando qualunque cosa si muovesse. Il film di Daniele Vicari ricostruisce non solo la spedizione punitiva della notte, ma anche la sua pianificazione e le sue conseguenze. È un’opera corale, con 128 attori in ruoli «parlanti», scene di massa, un ritmo da action-movie americano e una struttura alla Godard che va avanti e indietro nel tempo.
«La struttura narrativa nasce dalle oltre 10.000 pagine di verbali processuali che abbiamo letto – racconta Vicari –. I Pm sono narratori straordinari, non è un caso che alcuni di loro diventino romanzieri. Per ricostruire durante i processi i movimenti delle persone, alcuni di loro hanno adottato una tecnica simile al montaggio alternato: accompagnavano un testimone fino all’ingresso della Diaz, poi dicevano, ora “restate lì” e vediamo cosa succedeva contemporaneamente in un altro punto della città... Noi abbiamo fatto lo stesso, facendo convergere i personaggi verso la Diaz e poi ripartendo daccapo con altre storie. È quello che faceva Kubrick in Rapina a mano armata, mostrando più volte la partenza della corsa per raccontare l’arrivo all’ippodromo dei vari personaggi».
Se ci siamo permessi di scomodare Godard, oltre a Kubrick, è perché la costruzione di Diaz ci è sembrata non solo spettacolarmente forte, ma funzionale all’analisi su quella notte in cui la democrazia italiana venne azzerata. È giusto che Vicari ci mostri prima le violenze commesse dalla polizia, con un realismo a tratti insostenibile, e dopo la loro preparazione, con prefetti e questori di mezza Italia che danno mandato alle forze dell’ordine di entrare nella scuola e di non fare prigionieri. Ufficialmente l’obiettivo sono i Black Bloc, in realtà il disegno repressivo è totale e feroce: si vuole anche far «sfogare» i poliziotti, e una delle frasi chiave del film è pronunciata da un loro ufficiale: «Guardate che i miei non li tengo più». Un’altra è, invece, l’improvviso sussulto di umanità di un altro ufficiale – interpretato da Claudio Santamaria – che, nel mezzo del pestaggio, ordina ai suoi uomini di fermarsi e poi si rivolge a una ragazza straniera massacrata dalle manganellate e le mormora «I am sorry», mi dispiace. La forza emotiva di Diaz sta nella capacità, di Vicari e dei suoi attori, di comunicare il disorientamento, la sensazione di trovarsi all’improvviso in una piega del tempo dove le regole di convivenza civile sono scomparse.
Non è facile fare cinema al tempo stesso razionale ed emozionante. Vicari ci è riuscito. «Dentro» il film non ci sono né pistolotti ideologici né giudizi aprioristici sull’operato dei personaggi. Tutto viene dai verbali, non c’è una sola battuta inventata, solo i nomi dei personaggi sono modificati. Fuori dal film c’è la riflessione su ciò che Genova ha significato nell’Italia del 2001 e del decennio successivo. Vicari, di nuovo: «Io credo che l’Italia stia vivendo una sorta di dopoguerra. Ebbene, la guerra è iniziata a Genova. Il G8 è stato il momento scatenante. Dentro la Diaz si è verificata una sospensione dei diritti civili, quindi della democrazia, tanto più grave perché avvenuta in un paese democratico. È stata una dichiarazione di guerra da parte dei governi occidentali nei confronti delle loro stesse popolazioni. Due mesi dopo, è arrivato l’11 settembre e la guerra è iniziata davvero, a livello mondiale».
Diaz è co-prodotto da Fandango (Italia), Mandragora (Romania: tutte le riprese in studio sono avvenute a Bucarest) e Le Pacte (Francia). Nessuna tv italiana è coinvolta: per Mediaset passi, per la Rai è una vergogna. «Ho fatto questo film con la filosofia del paracadutista – continua Vicari –: mi butto, speriamo che si apra. Domenico Procacci, della Fandango, ha ricevuto molti “no” e a me ha detto solo dei “sì”. Alla fine il Ministero ha dato un contributo di 400.000 euro del quale lo ringrazio: è un fatto simbolico, lo ringrazierei anche se ci avesse messo 50 centesimi. Mi aspetto di tutto in Italia, sul film. Anche il silenzio». Per quanto ci riguarda, il silenzio proprio no: uscirà il 13 aprile, ve ne riparleremo fino alla nausea, ogni volta che potremo.