martedì 14 febbraio 2012

l’Unità 14.2.12
Democratici non moderati
di Alfredo Reichlin


A me sembra che le cose stanno confermando la scelta fondamentale del Pd di sostenere il governo Monti. Essa non fu dettata da calcoli di convenienza o di parte (tanto più che se si andava alle elezioni noi le avremmo vinte). Ciò che ha guidato il Pd è l’idea che la sua leadership guidata da Bersani ha della crisi italiana. Ritengo necessario ricordarlo.
Si trattava di una cosa molto diversa dalla disputa sulla «foto di Vasto». La scelta era quella di affrontare problemi e interrogativi sulla tenuta dello Stato e del tessuto stesso della nazione. C’era in noi (o in una parte di noi?) la consapevolezza che finiva una lunga fase storico-politica non solo in Italia ma nel mondo e che, di conseguenza, se il grande blocco di destra berlusconiano non teneva più, ciò era per tante ragioni (anche la nostra lotta) ma essenzialmente perché era diventato anacronistico. Ma questo significava (è chiaro?) che anacronistico diventava anche tutto il vecchio sistema politico. Per tante ragioni, ma al fondo per il fatto che la politica interna e la politica estera diventavano la stessa cosa. Il destino dell’Italia non era più separabile da quello dell’Europa. Il solo modo per «salvare l’Italia» era spingerla a muoversi su un terreno più vasto, quello dove si prendono le grandi decisioni e dove le forze del progresso e della democrazia possono almeno sperare di misurarsi con l’enorme potere delle oligarchie dominanti.
Parlo dell’Europa. Una Europa che oggi, purtroppo, nella realtà non c’è ancora, ma che potrebbe esserci se l’insieme dei suoi movimenti progressisti, socialdemocratici compresi (o no?) rialzassero la testa e rimettessero in gioco non solo la potenza economica del vecchio Continente ma il suo potenziale di civiltà: che poi è la civiltà del lavoro, dei diritti e delle libertà umane. La sua enorme creatività intellettuale. C’era quindi bisogno non di rifare un vecchio partito di sinistra, ma una forza più ampia dove si potevano raccogliere le storie non solo del riformismo socialista ma anche cattoliche e liberali. E tutto questo per riaprire un dialogo con le forze profonde del Paese. L’idea in fondo era questa: superare la tormentata vicenda di una sinistra da sempre divisa, per mettere in campo finalmente una grande prospettiva politica: democratica e di civiltà.
Che cos’è il successo di Monti se non la prova che il Paese nella sua intelligenza istintiva chiede di muoversi in una direzione nuova e costruttiva? È il Paese che ricomincia a interrogarsi su se stesso e sul suo futuro. Esso chiede che, finalmente, chi «governa» (la politica) si occupi dei suoi problemi e dei suoi drammi che sono al limite di possibili rotture sociali. Il problema non è la nostra libertà di dire che non tutte le decisioni di Monti vanno bene. Diciamolo. È quello di non suicidarci continuando a dividerci come a Genova e a battibeccare su formule dietro le quali non c’è nulla. C’è solo lo dico con molta amarezza una grande distanza dai problemi veri. Del resto, da quanto tempo non aggiorniamo la nostra analisi della società italiana? Non sono sicuro che abbiamo coscienza per fare solo un esempio che nel Mezzogiorno siamo di fronte non più solo alla vecchia distanza dal Nord in termini di reddito ma a un inedito processo di degradazione. Ai poteri criminali si deve ormai aggiungere il crollo della natalità, il maggiore invecchiamento in Italia della popolazione, lo spopolamento di intere zone e soprattutto il ritorno alla grande dell’emigrazione, soprattutto giovanile. Centinaia di migliaia di persone all’anno.
Le prediche rivolte dai «professori» ai giovani sono non solo stupide ma disinformate e suscitano in me una certa indignazione. Ma di che parlano questi signori quando siamo al punto che ogni giovane meridionale che si laurea in una materia scientifica lo fa sapendo già che il lavoro lo troverà altrove? E perciò se ne va. È questo il più grande ostacolo allo sviluppo e all’occupazione, non l’articolo 18. Aggiungo però che è proprio a fronte di fenomeni come questo che io trovo non più sopportabile la rissa dei notabili e dei politicanti, il loro continuo combattersi sul chi comanda, con chi e contro chi faccio le alleanze, quale legge elettorale, ecc. Torniamo alla realtà. È la realtà delle cose che potrebbe restituire ai partiti e alla politica il loro ruolo insostituibile, che è quello di riformare la società italiana non solo dall’alto come i tecnocrati ma entrando nelle sue fibre e nelle coscienze delle persone. Il problema è questo, non è se diventeremo socialisti, non dimenticando però l’esempio di quelli che predicavano nelle osterie della Valle Padana.
Sommessamente, direi quindi che la risposta del Pd alla rottura dei vecchi equilibri politici e ai profondi mutamenti della realtà non mi sembra ancora adeguata. Vogliamo interrogarci sul «dopo Monti»? Benissimo. Io però comincerei col domandarmi fino a che punto il Pd è cosciente del suo ruolo oggi. Apriamo gli occhi. È cambiata una intera fase storico-politica. È un passaggio paragonabile agli anni ‘30 quando i vecchi assetti furono spazzati via, il che impose un cambiamento radicale dei sistemi politici. Da un lato si affermò, per impulso della socialdemocrazia e di Roosevelt, un nuovo riformismo basato su un compromesso tra le forze del capitale e quelle del lavoro. Dall’altra parte ci fu l’avvento dei regimi autoritari e anti-parlamentari, favorito in Italia dalle classi dirigenti (Croce ed Einaudi compresi) e dai grandi giornali come il Corriere della Sera, il cui nemico era Giolitti, il riformista. Anche l’odierna marea di fango contro i partiti, tutti i partiti, tutti uguali, non mi sembra così innocente.
Stiamo attenti a non scherzare troppo col Pd che è pieno di difetti ma è la sola struttura capace di tenere insieme le forze progressiste. Non sono un pericoloso estremista e capisco benissimo la prudenza con cui dobbiamo gestire i guai dell’Italia, che in buona parte sono colpa nostra. Ma stiamo attenti. Sono i problemi che sono radicali. Molto radicali. E non sono affatto quelli di cui si chiacchiera nei corridoi della Camera. C’è gente anche in Italia che sta ricominciando a patire la fame. E allora voglio essere molto chiaro. A chi mi attacca perché non mi dichiaro socialista, do la stessa risposta che offro a chi si preoccupa perché crede che qualcuno voglia che socialista lo diventi il Partito democratico. La mia risposta è questa. Se da anni mi batto, scrivo e mi impegno per la formazione di un partito più largo rispetto alla visione del mondo della sinistra storica, più inclusivo, più aperto ai movimenti, più centrato, anche col nome, su quella che è la questione più grossa e più densa di pericoli del nostro tempo, cioè la crisi della democrazia moderna; se cerco lo strumento più adatto per un nuovo patto democratico e sociale senza il quale le società si disgregano e si imbarbariscono e le stesse economie di mercato alla lunga non reggono; se dunque ho fatto questa scelta è perché i problemi reali non sono più leggibili dentro il vecchio universo concettuale del marxismo e del classismo. È chiaro?
Ma questo non significa fare un partito moderato il cui orizzonte sta tutto nella politica corrente. Dove va l’Italia se non c’è una forza capace di tornare a rappresentare un popolo, una umanità, se non c’è un partito capace di lottare con esso e per esso? Chi pensa che per fare politica e difendere la democrazia basti una nuova legge elettorale, non è nemmeno un moderato, è un cretino. È vero che in un partito pluralista c’è posto anche per i cretini. Ma spero ci sia posto anche per uno come me. Il quale si pone la stessa domanda che ho letto in un recente articolo di Repubblica: «Che tipo di società sarà una società nella quale l’accumulazione del capitale è libera da ogni vincolo politico, da ogni problema di redistribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, e quindi, da ogni responsabilità verso l’ambiente e la salute di chi lavora? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?».
È con problemi come questi che dovrebbe saperlo bene Scalfari si misurarono grandi liberali come Keynes, come lord Beveridge e perfino un aristocratico americano della élite bostoniana come Roosevelt. Ricordiamolo anche a Monti.

l’Unità 14.2.12
Superare il Lingotto e virare a sinistra? Così si snatura il Pd
di Andrea Martella

deputato Pd, vicino a Massimo Cacciari, nato a Venezia nel 1968

Spiegando ai lettori dell’Unità il senso di un dibattito sulla “natura” del Pd che si è aperto per iniziativa di tre dirigenti del partito, Matteo Orfini sembra derubricare la questione ad una semplice avvicinamento in Europa del Pd ai progressisti e contemporaneamente accusare chiunque non sia d’accordo con questa ovvietà di avere una posizione di pura salvaguardia, quasi una rendita di posizione, degli attuali assetti del partito. Peccato – i lettori dell’Unità non l’hanno letto sul loro giornale – che nei giorni precedenti esprimendosi con maggiore libertà sul Foglio, sia Orfini che Stefano Fassina e Andrea Orlando avessero detto cose un po’ più forti. Tipo “cambiare il Dna” del Partito democratico, “superare il Lingotto”, o costruire un “cazzuto partito di sinistra” . Non si tratta quindi dei rapporti che il Pd già intrattiene con gli altri partiti progressisti, compiuta già da tempo con la costituzione di una gruppo parlamentare unitario che non è il vecchio gruppo dei socialisti ma qualcosa che – grazie proprio all’iniziativa politica del Pd – punta ad allargare i propri confini ideali e politici.
E allora torniamo un momento al Dna del Pd. Il Partito democratico, almeno come l’ho inteso io ma come l’hanno bene capito milioni di italiani che hanno partecipato alle primarie del 2007 e quelli ancora più numerosi che lo hanno votato alle elezioni del 2008, non era la fusione a freddo dei partiti preesistenti (al di là del loro valore e delle tradizioni che essi portavano con se), era la nascita di un soggetto nuovo capace di raccogliere valori e culture ma di trasformarle in qualcosa di nuovo, capace di parlare a tutti i cittadini e di interpretare la voglia di cambiamento e di modernizzazione. Un partito di centrosinistra (senza trattino), in cui il problema non era quello dell’interlocuzione coi cattolici per il banale motivo che i cattolici ne erano parte integrante e fondativa. Tornare oggi a formule come questa riporta all’indietro il Pd di una ventina d’anni.
Ma andiamo avanti: il Lingotto, che qualcuno si vuole lasciare alle spalle, non è una tappa della candidatura di Walter Veltroni alla guida del nuovo partito nel 2007, ma la carta d’identità di un moderno partito riformista, anzi del partito che vuole essere la casa comune dei riformisti italiani, capace di abbandonare posizioni di conservazione e “difensive” per affrontare i problemi reali del Paese. Questo il segno chiarissimo senza il quale è proprio l’idea del Partito democratico che viene messa in discussione.
Orfini sembra voler dividere il Pd tra i nostalgici del neoliberismo e gli innovatori, mettendosi ovviamente dalla parte degli innovatori. E quindi giù con le divisioni manichee tra chi parla di sviluppo (buoni) e chi di tagli alla spesa (cattivi), chi di lavoro e chi di tagli ai diritti (ancora più facile capire dove stanno i buoni). La verità è che la drammaticità della crisi non si affronta raccontando un quadro che non esiste. Contrapporre lo sviluppo ad un intervento che riqualifichi la spesa e tagli dove c’è da tagliare, o la creazione di nuovo lavoro alla necessità di modernizzare un mercato del lavoro che ha prodotto l’apartheid dei milioni di precari è sbagliato e fuorviante. La situazione della Grecia evocata nell’articolo di Orfini è troppo drammatica per essere usata a fini di polemica interna. La questione è che il nuovo Dna del Pd che ci viene proposto sembra in realtà molto vecchio e – al di là delle formule molto poco di sinistra o, come direi io, di centrosinistra. E per di più trovo singolare l’apertura di un simile fronte polemico proprio mentre il Pd, tutto il Pd, ha costruito l’opportunità di un governo – quello presieduto da Mario Monti che facesse uscire il paese dal berlusconismo e iniziasse, con l’impegno dei democratici, ad affrontare una crisi drammatica avviando quel percorso riformatore e di modernizzazione troppo a lungo bloccato. E questa scelta sta premiando il Pd anche nei sondaggi.
Un ultimo appunto riguarda la polemica con Eugenio Scalfari che su Repubblica diceva di aver votato per un altro Pd. A personalità come quella di Scalfari, ma anche ai tantissimi semplici elettori che hanno votato per il Pd nel 2008 in una misura che appare ancora lontanissima anche nei sondaggi più positivi, non si può rispondere con spocchia e fastidio. Questi sì sono vecchi vizi di un “cazzuto partito di sinistra” che credevamo proprio fossero nel passato.

Repubblica 14.2.12
Non siamo più un partito in cerca di un Dna
di Pier Luigi Bersani

con una postilla di Eugenio Scalfari

Caro direttore, rispondo volentieri alla sollecitazione di Eugenio Scalfari affinché mi pronunci sulla possibilità che il Pd sia ricondotto ad un Partito Socialdemocratico. Con tutta franchezza (e non facendo certo difetto ai democratici la pluralità di opinioni!) non conosco né documenti né intenzioni di dirigenti di Partito che pongano quel problema.
Nessuno discute di questo. Piuttosto si discute, da noi e in Europa, su come configurare i rapporti fra Partito Democratico e famiglia dei Socialisti Europei ai cui appuntamenti siamo invitati ed attivamente presenti senza esserne membri. Parliamo dunque di questo e parliamone avendo negli occhi le immagini del dramma greco, ben evitabile con una diversa politica europea, così da andare alla sostanza evitando quegli stucchevoli giochi di posizionamento che ogni tanto (sempre meno, per fortuna!) riemergono nel Pd.
Innanzitutto una premessa, che devo ad un elettore come Eugenio Scalfari. Dopo quattro anni siamo usciti dal problema identitario. Non abbiamo certo finito il nostro lavoro di costruzione né abbiamo corretto tutti i nostri difetti, ma non siamo più una ipotesi o un esperimento o un partito in cerca di Dna.
Siamo il primo Partito Italiano. Con l´aiuto di tutti, davvero di tutti, abbiamo fatto i conti con riflessi nostalgici e continuisti e con nuovismi vacui. Ci siamo appassionati alla sintesi di culture riformiste antiche e nuove, e vogliamo che vivano contaminandosi e non da separate in casa. Abbiamo ribadito il ruolo della politica riconoscendone tuttavia i limiti; vogliamo regole nuove nella politica e sperimentiamo con convinzione l´apertura alle espressioni civiche e al protagonismo dei cittadini. Siamo un Partito progressista, un Partito del lavoro, della Costituzione, dell´Unità della nazione. Un Partito profondamente europeista. Ormai esistiamo. Non possiamo più permetterci sedute psicanalitiche. Il nostro profilo sarà semplicemente il prodotto di quello di ciò che diremo e che faremo per l´Italia e per l´Europa, sostenendo i valori e gli interessi che vogliamo rappresentare.
In Europa siamo ad un tornante storico. Nei giorni scorsi il direttore del Times ha raffigurato plasticamente su Repubblica i dilemmi che abbiamo di fronte. In conseguenza della sbornia liberista si è radicata (non solo in Germania) una ideologia difensiva e di ripiegamento che è stata corteggiata dalla Destra ed estremizzata dai populismi. Questa ideologia ci sta portando tutti al disastro. Che la risposta a tutto questo possa venire solo da periodici vertici di Bruxelles, è una drammatica illusione. Serve una battaglia politica ed ideale, serve una voce sola dei progressisti che si faccia sentire in Europa, serve una piattaforma comune.
Ci stiamo lavorando con intensità, in particolare con la Spd di Gabriel e con Francois Hollande.
Emergono ormai proposte concrete per una diversa politica europea. Le sosterremo assieme nella prossime campagne elettorali, a cominciare da quella francese. Ecco allora la domanda di prospettiva: quale soggetto puoi interpretare stabilmente una politica comune dei progressisti, a fronte di forze conservatrici europee che hanno mostrato di sapere ampliare le loro relazioni politiche?
Nel Parlamento Europeo c´è stata una evoluzione positiva: si è formato il gruppo dei Socialisti e dei Democratici Europei, che sta lavorando bene. Ci si deve impegnare per un esito simile sul piano politico: la costruzione cioè di un soggetto politico europeo aperto ai riformisti di diversa ispirazione. Non è forse geneticamente connaturata al Pd una simile proposta? Non è forse coerente con quello che diciamo a proposito di una organizzazione internazionale dei progressisti che oltrepassi le antiche famiglie e che raccolga i soggetti socialisti, democratici e liberali, di tradizione ambientalista o di ispirazione religiosa, che in tutto il mondo combattono il liberismo della destra conservatrice? Noi dunque opereremo in questa chiave.
Con due avvertenze. La prima: non cadremo nella pretesa ridicola di dare lezioni e terremo conto del peso reale delle forze progressiste in campo in Europa. La seconda: non avremo timore di contaminazioni per eccesso di vicinato. Ci affideremo con fiducia alla forza della nostra esperienza e delle nostre convinzioni. Chi volesse osservare la discussione nella Spd e nei verdi tedeschi o le recenti pratiche politiche dei Socialisti francesi potrebbe forse riconoscere qualche traccia delle nostre buone ragioni.

Ringrazio l´onorevole Bersani per la lettera che ci ha indirizzato. Non avevo dubbi sul suo pensiero che riguarda l´identità del Partito Democratico, sulle sue capacità evolutive e sulla pluralità di culture politiche che non vivono come separate in casa ma vicendevolmente si contaminano. L´approdo ad un soggetto politico europeo rientra anch´esso in questo disegno nel quale, come elettore democratico, mi ritrovo perfettamente. Naturalmente questa è soltanto una parte importante del lavoro che il Pd deve svolgere. Ne ho fatto cenno nel mio articolo e confido che venga portato avanti con buona lena perché il distacco tra la pubblica opinione e i partiti in genere - nessuno escluso - si sta pericolosamente trasformando in un incolmabile fossato. Auguri, caro Bersani, di buon lavoro a voi tutti. e.s.

il Riformista 14.2.12
Il Pd di Scalfari e la socialdemocrazia
di Emanuele Macaluso


Nel suo tradizionale editoriale domenicale, il fondatore di Repubblica, sulla Grecia e l’Europa ha scritto cose condivisibili. Nello stesso articolo, come sempre ha affrontato altri temi, ma è il post-scriptum che mi stimola un confronto pacato e anche amichevole con Eugenio Scalfari. Il quale scrive: «Alcuni deputati che fanno parte della segreteria del Pd sembrano decisi a presentare ai loro organi dirigenti la proposta di trasformare il partito democratico in un partito socialdemocratico sullo schema del partito socialista europeo».
Scalfari è contro questa proposta e racconta di essere elettore del Pd, di avere partecipato alle primarie fin dai tempi dell’Ulivo di Prodi e poi del Pd. E afferma: «Non credo che avrei votato per un partito socialdemocratico, che oggi mi sembra del tutto anomalo nel panorama italiano». Quell’«oggi» ha un senso perché nel 1968 Scalfari è stato deputato del Psi di Pietro Nenni. Sull’oggi scrive: «Il Pd è nato appena quattro anni fa come partito riformista e innovativo e ha avuto il voto anche di molti liberali ed ex azionisti come anch’io sono». Vero. Ma ha avuto i voti di socialisti come Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo, e ne sono dirigenti ex comunisti come Reichlin, D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, ed ex Dc, come Bindi, Franceschini, Castagnetti, Marini, Fioroni ecc.. Sulla proposta dei promotori dell’iniziativa degli esponenti Pd, Scalfari, giustamente vuole sapere l’opinione di Bersani. La mia è del tutto ininfluente, anche perché non ho aderito al Pd, ma forse serve a chiarire il tema.
Diversamente da Scalfari e dal mio compagno e amico Reichlin, penso che il Pd richiami una storia dimezzata (Togliatti cancellato, Nenni dimenticato, Berlinguer ricordato solo per la questione morale, Craxi disprezzato, i laici accantonati, i soli da ricordare sono De Gasperi e Moro). Penso anche che il Pd non abbia una base politico-culturale comune: tutte le componenti stanno insieme perché ritengono che solo così possono costituire una forza politica in grado di competere con la destra. Ed è per questo che anch’io penso che lavorare e operare per disgregare il Pd, quando a sinistra c’è solo Sel (Di Pietro è di destra e Rifondazione Comunista giustamente è niente), è una follia.
Tuttavia, caro Scalfari, nel tuo ragionamento c’è una contraddizione grande come una casa. A proposito della crisi greca, e più in generale di quella che attraversava il nostro Continente, tu scrivi: quel che occorre subito è «un’accelerazione verso un’Europa Federale».
Ma, questa prospettiva non richiede partiti con una dimensione europea? Piaccia o non piaccia, in Europa la sinistra democratica è espressa dai partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Il Pd, non solo non aderisce al Partito socialista europeo, ma non vuole nemmeno, pur restando Pd, una Federazione di partiti socialisti e democratici. Il gruppo parlamentare europeo si chiama proprio così: “socialisti e democratici” e, con il mal di pancia, hanno aderito anche gli ex democristiani. I quali, però, ripetono continuamente di non volere stare in un partito europeo con i socialisti. Insomma, il Pd ancora una volta deve segnalare l’anomalia, l’eccezione, europea? Io non so quali siano le proposte di alcuni dirigenti del Pd che allarmano il fondatore di Repubblica, ma discuterne è uno scandalo? Sbaglierò, caro Scalfari, ma non penso che la storia della sinistra italiana (socialista e comunista) possa essere cancellata senza cancellare le radici stesse della Repubblica e della Costituzione italiana.
Ho aderito, insieme all’area riformista, con convinzione e determinazione, alla svolta della Bolognina, convinto che l’approdo di tutta la sinistra poteva essere il socialismo democratico. Non è stato così, siamo stati sconfitti. Ma chi ha vinto, se tu stesso, che il Pd hai voluto, temi un suo dissolvimento solo se si apre una discussione sul domani di questo partito?

l’Unità 14.2.12
«Una sentenza storica, l’Italia dà l’esempio. Ma la battaglia continua»
Per il ministro della Salute «l’amianto è una emergenza nazionale complicata dalla precarietà del lavoro. Verdetto con risonanza mondiale»
di Salvatore Maria Righi


Una bella pagina della democrazia in Italia» sospira il ministro, quando il giudice di Torino ha appena finito la lettura della sentenza sull’amianto. Certo, quell’interminabile elenco di parti civili lascia un po’ l’amaro l’amaro in gola.
Un boccone difficile da mandare giù, a maggior ragione per un giurista come Renato Balduzzi, lui che è anche residente ad Alessandria: «Ho perso amici e conosco persone che hanno avuto delle vittime per questa vicenda». Anche i fatti epocali hanno risvolti intimi. Per questo l’uomo, prima del ministro della Salute, aggiunge: «Quella lista letta dal giudice fa pensare a tutte le lotte e le sofferenze portate avanti da quelle persone e che almeno in parte potevano essere evitate». Lui ci ha provato anche a dicembre, quando ha convinto il sindaco di Casale Monferrato a rinunciare ai soldi offerti dal miliardario Stephan Schmidheiny.
Il prezzo umano era e resta altissimo, ma almeno è stato messo un punto fermo. È d’accordo?
«Una sentenza storica, esemplare, sia per gli aspetti sociali che tecnico-giuridici. Ma la battaglia continua nell’attività amministrativa e nell’impegno delle istituzioni e dei cittadini, soprattutto nella consapevolezza da parte di ognuno che non si tratta di una battaglia locale, ma nazionale, anzi mondiale».
Si può dire che il giudice di Torino abbia dato un esempio al mondo?
«È la notizia più battuta dagli organi di informazione, oltre Atlantico anche più della crisi greca. Perché l’amianto non è solo un’emergenza nazionale, in realtà appartiene a tutto il pianeta. Noi abbiamo da 20 anni una legge che ne ha messo al bando la lavorazione industriale, ma altrove nel pianeta non è così e rispetto agli anni ‘70, è stata al massimo dimezzata. Questo significa pesanti conseguenze per le persone che continuano ad essere esposte per motivi di lavoro. E in prospettiva, vuol dire anche che abbiamo davanti decenni di lotta e di impegno, visto che purtroppo il picco per queste patologie che hanno una latenza tremenda, è previsto intorno al 2020». È anche il primo verdetto penale sull’argomento.
«L’imputazione di disastro doloso ha una valenza simbolica ed è naturalmente destinata a fare giurisprudenza, ma devo dire che dal punto di vista delle politiche sociali in Italia le istituzioni non hanno mai perduto di vista il problema amianto, nonostante l’alternanza tra momenti in cui è stata posta più attenzione ed altri in cui c’è stata meno continuità nelle azioni. Noi vorremmo porla fermamente come emergenza nazionale, penso per esempio alla seconda conferenza governativa, la prima risale al 1999, in programma per il prossimo ottobre, nella quale un ruolo importante sarà rivestito dai centri di ricerca, dalle associazioni di familiari e dalle forze sociali, come il comitato amianto o le rappresentanze sindacali, che in questa vicenda hanno avuto grande importanza».
A cosa si riferisce in particolare?
«L’unità sindacale di Cgil, Cisl e Uil in questa vicenda è stato un ingrediente fondamentale, per esempio, nel supporto alle istituzioni. Penso per esempio all’ordinanza quasi profetica che nel 1987 fu emessa dall’allora sindaco di Casale, Riccardo Coppo, con la quale si mise al bando la produzione di amianto. E sulla quale furono tutti d’accordo, comprese le rappresentanze sindacali. Letta oggi, si rivela senz’altro una scelta politica con una forte sensibilità e attenzione nel porre solide basi alla radici della convivenza. Cinque anni più tardi poi quel provvedimento trovò uno sbocco legislativo nella norma prodotta dal parlamento».
Dopo la sentenza Thyssen e prima di quella che può arrivare per l’Ilva, la vicenda Eternit vuol dire che sta cambiando il vento in materia di responsabilità delle imprese?
«Talvolta la giurisprudenza può arrivare a sancire cambiamenti culturali o ad anticiparli, per esempio in casi come questi sulla nozione di danno e sulle sue diverse applicazioni. Di certo si tratta di un lungo lavoro, anche se al momento va fatto un sincero ringraziamento alla magistratura inquirente che si è occupata della vicenda».
Le prime due o tre cose sulla sua agenda della sicurezza sul lavoro? «Parlando di amianto, dico prima di tutto tenere il più possibile alta la soglia di attenzione e non mollare la presa, visto che si tratta di patologie subdole che hanno un lungo periodo di latenza. Avremo persone che sono state esposte per motivi professionali, e altre che lo sono tuttora nell’attività di bonifica, certo con la consapevolezza e con tutte le cautele del caso. D’altro canto le normative adeguate non mancano, non ci sono carenze legislative in materia, ma occorre una maggiore cultura sia da parte dei datori di lavoro che dei singoli lavoratori. Ma c’è un altro elemento importante».
Quale?
«La precarietà, la quale purtroppo rende meno attento anche il lavoratore alla sicurezza sul lavoro, così come avviene per quella stradale. Da questo punto di vista non bisogna fare sconti a nessuno ed essere inflessibili, se vogliamo che il fenomeno endemico delle morti bianche sia realmente abbattuto».
Cosa chiede agli imprenditori?
«Sono stati fatti passi avanti importanti se si pensa che la responsabilità sociale dell’impresa è ormai una locuzione che scaturisce dal processo stesso di attività di impresa, non solo da ciò che l’impresa fa dopo il lavoro, e quindi si riferisce alle condizioni di sicurezza dello stesso processo produttivo. Resta molto da fare, ovviamente, con un impegno concertato tra istituzioni, associazionismo e forze sociali».

Repubblica 14.2.12
Non ci saranno più vittime fantasma
di Luciano Gallino


La sentenza di Torino riveste un´importanza fondamentale in tema di tutela della salute sui luoghi di lavoro. Essa stabilisce anzitutto una relazione stretta tra una sostanza alla quale gruppi di lavoratori sono stati esposti in azienda e una patologia che li colpisce anche molti anni dopo. Per oltre un secolo, infatti, le famiglie dei lavoratori deceduti a causa dell´amianto sono state sconfitte in tribunale, con l´eccezione di rari casi individuali.
Gli avvocati della difesa, infatti, riuscivano a insinuare nei giudici il dubbio che un cancro alla pleura o al polmone potesse davvero manifestarsi a decenni di distanza dal periodo di esposizione ad esso. In realtà sulla pericolosità delle polveri di amianto, dovuta alla loro conformazione vetrosa, aveva richiamato l´attenzione un´ispettrice di fabbrica inglese sin dal 1898. Nel corso del Novecento la sua denuncia fu seguita da quella di numerosi medici in Francia, Usa, Canada, Germania, Sud Africa, oltre che nel Regno Unito. Ma pur nei casi in cui si era arrivati a una causa, la parte civile ebbe sempre la peggio nel tentativo di dimostrare che era stato il lavoro su manufatti amiantiferi a decretare la morte di molti operai in un dato impianto, a distanza di venti o trent´anni.
Pertanto la sentenza di Torino avrà certamente un effetto sulla valutazione di altre tragedie. L´Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che le morti correlate alle condizioni delle fabbriche siano due-quattro volte maggiori di quelle dovute agli incidenti sul lavoro. Si tratta quindi di aggiungere agli oltre mille decessi che si registrano in Italia altre 2.000-4.000 vittime "fantasma" l´anno.
La responsabilità dei maggiori dirigenti è un altro aspetto innovativo della sentenza di Torino. Anche dinanzi a gravi compromissioni della salute dei dipendenti, il loro ad, il direttore generale o il presidente, siano italiani o stranieri, se la sono sovente cavata sostenendo che non potevano sapere che cosa succedeva. Il responsabile, se c´era, andava individuato nel direttore di stabilimento, nel capo reparto o altre figure intermedie. Dall´andamento del processo si può invece desumere che la sentenza in parola non si fondi semplicemente sull´ipotesi che il capo della Eternit Italia, o il maggior azionista svizzero, non potevano non sapere. Essa sembra invece statuire che i massimi dirigenti avevano il dovere di predisporre un sistema di informazioni atto a comunicare ciò che nella loro posizione avevano il dovere di sapere: che l´amianto uccide. L´omissione di tale intervento è ciò che ha concorso a renderli penalmente responsabili.
La sentenza di Torino vale anche a ricordare che l´amianto ha ucciso in Europa milioni di persone nel corso del Novecento, grazie all´importazione di 800.000 tonnellate l´anno, diminuite solo dopo il 1980. L´uso industriale dell´amianto è stato infatti vietato dalla Ue con grande ritardo, nel 1999. Inoltre, dato che il cancro indotto da esso ha tempi lunghi, continuerà a uccidere per decenni. Un rapporto 2001 dell´Agenzia Europea per l´Ambiente stimava che da lì al 2035 esso avrebbe provocato ancora tra 250.000 e 400.000 decessi. Dal che emerge un´altra colpa, largamente distribuita tra imprese, ministeri del lavoro e della sanità, dirigenti industriali, ricercatori. Per cent´anni, dopo che un´ispettrice del lavoro e un medico inglesi avevano denunciato la pericolosità di quella sostanza, non si è dato peso ai segnali precoci. Fino a quando non si sono trasformati in una terribile lezione, come dice il rapporto citato. Perciò la sentenza di Torino rappresenta pure un fermo invito a badare ai segnali precoci che di continuo si profilano in tanti settori industriali, dove si lavora con sostanze e processi forse non pericolosi come l´amianto, ma che rischiano comunque di infliggere col tempo dolorose lezioni.

l’Unità 14.2.12
La lezione delle primarie
di Claudio Sardo


Le primarie di Genova hanno segnato una sconfitta per il Pd e le sue candidate. Sconfitta pesante perché Genova è una città simbolo della sinistra, perché si allunga nelle metropoli la lista dei sindaci (e dei candidati) critici o irregolari o competitivi con il partito, perché le primarie, creazione del Pd, diventano notizia solo quando è il Pd a soccombere.
Ma sarebbe un errore se i democratici reagissero alla sconfitta in modo difensivo. Non si può dare tutta la colpa alla divisione interna, né alle regole difettose delle primarie, né al preoccupante calo degli elettori di domenica scorsa. Si tratta di ragioni valide, tuttavia nascondono l’area principale di tensione, di incomprensione tra il Pd e parte del suo elettorato. In quest’area c’è un senso di sfiducia verso i partiti, verso la stessa capacità della politica di incidere in positivo sulla vita delle persone, verso il rinnovamento della rappresentanza. È un senso comune che ha molto a che fare con la lunga egemonia liberista e individualista, ma anche con gli errori delle classi dirigenti e con il drammatico fallimento culturale e istituzionale della Seconda Repubblica.
Nelle primarie di Genova, come in altre, c’è però una domanda di politica assai più forte della reazione antipolitica. Se non altro per la preziosa voglia di partecipazione che viene espressa. E il Pd è nato per dare una risposta nuova alla domanda politica e per farsi ponte verso un diverso sistema. Deve però essere capace di rispondere come «partito»: questa è l’impresa. Si resterebbe nel gorgo della Seconda Repubblica giocando a convocare quel popolo, che invece attende la convocazione nei momenti delle scelte che contano, oppure deve essere capace di costruire un partito più grande e più capace di offrire agli elettori delle primarie una «casa» comune. È il tema di un maggiore radicamento, o se si vuole di una riconciliazione delle idee riformiste con quegli interessi sociali e quelle istanze più radicali che da sempre compongono la politica dei progressisti.
Ma è chiaro che a questo punto il discorso sulla struttura si intreccia con le opzioni strategiche. Come tenere insieme una spinta verso sinistra, che pure a Genova è testimoniata dalla campagna del vincitore Doria, con la politica di sostegno al governo Monti? Finché si parla di un risentimento anti-establishment si può anche fingere di sommare Pisapia con
Renzi, Emiliano con De Magistris. Ma, appena si passa dalla propaganda al merito, non si può più sventolare la bandiera delle primarie di coalizione e al tempo stesso inneggiare al governo dei tecnici come eldorado del Pd. Siccome il Pd è nato per essere un partito nel tempo in cui tutti denigrano i partiti, siccome il Pd è nato per portare l’Italia fuori dalla Seconda Repubblica, la strada da intraprendere ci pare obbligata. È quella di un rapporto più aperto e intenso con il popolo del centrosinistra. Il necessario orizzonte «democratico» non può essere contrapposto ad un radicamento nella sinistra: e le primarie devono diventare lo strumento per fare della coalizione (o gran parte di essa) un partito, non per demolire ciò che è rimasto delle strutture organizzate (su cui peraltro poggiano le primarie).

l’Unità 14.2.12
La sindaca contro il suo partito: «Nessuno l’ha digerito». Stoccate a don Gallo
Lasciano i segretari provinciale e regionale. «Ora Doria è il nostro candidato»
Genova, tormento Pd Vertici azzerati Vincenzi furiosa
Un «terremoto» per il Pd di Genova: in campo due candidate, ha vinto l’outsider sostenuto da Sel. Dimissionari i segretari provinciale e regionale: «La città vuole un cambiamento». Vincenzi impazza su Twitter.
di La Ma.


«Nessuno ha digerito il Pd, bravi tutti». La delusione, la rabbia del futuro ex sindaco di Genova Marta Vincenzi si sfogano su Twitter. Contro il Pd, ma non solo: «Vuoi mettere com’è rassicurante e linguisticamente corretto avere un sindaco invece che una sindaca! A proposito, chissà dove sarebbe stato don Gallo al tempo di Ipazia?», la filosofa alessandrina del IV secolo trucidata dai cristiani. Due ore a briglia sciolta. C’è da capirla. Una sconfitta netta per lei, che alle primarie di cinque anni fa aveva raccolto il 60% dei consensi, per vincere poi al primo turno col 51 e qualcosa, e che adesso si ferma al 27,5%, tallonata dall’altra donna del Pd, Roberta Pinotti (23,6%), e travolta dall’outsider Marco Doria (46%).
Una sconfitta per il Pd, che il giorno dopo il terremoto ha già aperto la resa dei conti. Il segretario regionale Lorenzo Basso e quello provinciale Victor Rasetto hanno rimesso il mandato a disposizione delle rispettive assemblee, che tra domani e dopo dovranno valutare e decidere. «La responsabilità è nostra per ruolo, ma è anche collettiva dice Rasetto Le primarie, chieste dai circoli all’unanimità, hanno regole che vanno accettate: lo spirito è scegliere il miglior candidato per il centrosinistra, anche se non è del Pd. Altrimenti le abolissero». Di «terremoto» parla apertamente anche Rasetto, senza peraltro addebitarlo al fatto che il Pd sia arrivato diviso all’appuntamento: «Qualcuno non vuole vedere la trave nell’occhio, che è una richiesta fortissima di cambiamento, che non siamo stati in grado di interpretare». Una cosa è certa: «Da oggi Doria è il candidato di tutti».
Roberta Pinotti, l’altra ex candidata Pd, è decisamente più sobria di Vincenzi: «Un colpo, certo. Che andrà analizzato, capito. Quando mi sono proposta, ho valutato che Genova avesse bisogno di un cambiamento, ed evidentemente era una valutazione corretta. Mi spiace solo di non essere riuscita ad interpretarlo io». Sarà come dice Stefano Quaranta, coordinatore regionale di Sel: «Le primarie si vincono anche sull’onda dell’emozione, di una speranza, che le due candidate Pd non hanno suscitato». Quaranta sostiene anche: «Non è vero che il Pd ha perso, chi ha perso sono le sue candidate. Il fatto è che molti elettori democratici si sono riconosciuti in Doria».
E se «nel partito è iniziata una sorta di processo», «noi il Pd lo dobbiamo solo ringraziare, perché senza non avremmo mai potuto nemmeno farle, le primarie».
FILO ARANCIONE
Parola chiave, financo abusata fino a non decifrarne più il significato, cambiamento. L’ha interpretato lui, Marco Doria, un economista 53enne, figlio del vicesindaco Pci ribattezzato
«il marchese rosso», per questo diseredato dalla famiglia. Un filo arancione lega Milano, Napoli, Cagliari, ed ora anche Genova, la città dell’antipolitica di Grillo e, oggi, di una deindustrializzazione impressionante. La città di don Andrea Gallo, anche, il prete degli ultimi, uno dei primi sponsor di Doria insieme a Nichi Vendola. Che, all’apparire della sua candidatura, pare abbia detto ghe semmu, ci siamo, e che ha messo subito a disposizione uomini e risorse, a partire dalla libreria in salita Santa Caterina diventata il quartier generale dei «doriani». E altri uomini e altre risorse sono arrivati da tutta Genova, persone che tornavano a partecipare (e a votare) dopo anni di silenzio casalingo, come Piero Iozzia, psichiatra e coordinatore della campagna per Doria.
Anche loro, i «vincitori», adesso guardano al Pd e alle sue prossime mosse: «Dovrà sanare il dibattito interno, certo non mancheranno le tensioni dice Domenico Chionetti, portavoce della Comunità di don Gallo I fuochi incrociati saranno tanti. Già adesso, c’è qualcuno che tenta di far passare Doria come il candidato della sinistra radicale». Il pericoloso comunista, insomma, una vecchia storia che si ripete.
I vincitori e i vinti da ora dovranno costruire un percorso comune. Se vogliono arrivare alla vittoria finale.

Corriere della Sera 14.2.12
Il sindaco: «Io come Ipazia Mai digerita dai democratici»
di E. D.


GENOVA — Chiamarlo cinguettio è improprio. Il sindaco Marta Vincenzi ha tirato le somme, ha concluso che il Pd e una parte di Genova l'hanno trattata male e su Twitter ha postato tutto ciò che non ha voluto dire a caldo. Sarcasmo sul Pd, su don Gallo e sui sostenitori del vincitore delle primarie Marco Doria. Sarcasmo sulla «intellighenzia genovese» che ha trattato la sua ostinazione su grandi opere come pedanteria: «Basta con sta fissa delle infrastrutture, di Smart cities. Vuoi mettere com'è meglio parlare di beni comuni? Specie se benedice don Gallo». La sinistra snob (ma non usa questa parola) è il bersaglio e con essa il prete di strada che, dopo aver sostenuto Vincenzi, ha cambiato rotta quando è sorto l'astro Doria.
Vincenzi si identifica con Ipazia, filosofa invisa ai sacerdoti e da essi uccisa: «Comunque a Ipazia è andata peggio. Oggi le donne riescono a non farsi uccidere quando perdono. Ci mettono secoli però a far riconoscere il valore della propria intelligenza. Chissà dove sarebbe stato don Gallo ai tempi di Ipazia». E twitta: «La cultura, mi raccomando! I nostri intellettuali, i loro giovani studenti, le firme dei giornalisti, la buona borghesia!».
Eccoli qui, dice, i sostenitori di Doria. E l'ex SuperMarta nella campagna contro di lei vede del maschilismo: «Del resto una donna cosa ne capisce? Penserà mica di essere meglio degli amministrativisti che l'hanno preceduta?». Il riferimento è all'ex sindaco Beppe Pericu: «Non sono riuscita a essere discontinua fino in fondo. Speravo che il Pd mi digerisse elaborando il lutto del 2007. Non è successo. Ho provato a tenere insieme una maggioranza impossibile. Quando si tradisce la propria natura non si convince e la discontinuità non funziona. Il mio errore è stato quello. Ho persino cercato di nobilitare la guerra che mi hanno fatto dipingendo le primarie come utili».
«Dovevo dargli una mazzata subito — scrive sul Pd — invece di aspettare che si rassegnassero». «Il rischio di una città che muore e non vuole riconoscerlo è tutto lì, nel voto a Doria come voto anticasta. Nel tutti uguali. Nel non riconoscere l'onesta fatica del riformismo vero». E nel farti scontare l'essere donna: «Se una donna ti fa pagare il parcheggio in doppia fila è una megera!».
Poi un altro attacco: «Se un uomo va in bicicletta e non dice niente è così carino!». Il ciclista muto è Enrico Musso, ex pdl, che si presenterà con una lista civica. E a proposito della partecipazione di Vincenzi al corteo degli operai Fincantieri: «È sgradevole vedere una donna che scende in piazza. Le donne che scendono in piazza fanno piazzate». «Almeno è finito il tormentone linguistico: sindaca, sindachessa, la sindaco... Che orrore! Da maggio non ci sarà più un sindaco donna in nessuna grande città italiana». E Vincenzi ringrazia chi l'ha sostenuta: «A chi ha capito che ho rotto un sistema di potere conservatore è dedicata la fatica che ho fatto nell'ultimo mese e mezzo. Grazie. A chi pensa al valore della legalità. A chi vuol innovare non i volti ma i contenuti. A chi non vuol lasciare indietro nessuno. A chi non vuole tornare indietro. A chi ha capito l'importanza delle scelte avviate».

Corriere della Sera 14.2.12
La filosofa uccisa dai fondamentalisti cristiani


Nata ad Alessandria d'Egitto intorno al 370 dopo Cristo, figlia del matematico Teone, matematica, astronoma e filosofa, Ipazia fu una esponente di spicco del neoplatonismo pagano e una delle menti più illuminate della Scuola di Alessandria, dove insegnò. Malgrado l'amicizia con Sinesio, vescovo di Tolemaide, che seguiva le sue lezioni, Ipazia attirò il sospetto dei fondamentalisti cristiani, preoccupati dell'influenza pagana che le sue teorie e la sua libertà di pensiero potevano avere sulla comunità religiosa. Nel marzo del 415 fu barbaramente assassinata da un gruppo di cristiani, vittima di un fondamentalismo che vedeva in lei una nemica della religione anche a causa della sua amicizia con il prefetto romano Oreste, nemico politico di Cirillo, vescovo di Alessandria.

il Riformista 14.2.12
La Vincenzi si traveste da Ipazia «Dovevo dare una mazzata al Pd»
Dopo la sconfitta alle primarie, Marta scatena il terremoto. Si dimettono i segretari locali. Bersani si difende. E scrive a Repubblica per rispondere a Scalfari sul Pse
di Tommaso Labate


Marta Vincenzi commette l’errore filologico di paragonarsi a Ipazia, matematica egiziana uccisa dai cristiani nel quinto secolo dopo Cristo. Perché, nel suo sfogo post primarie, il sindaco di Genova sembrava più l’Ezechiele 25,17 di Quentin Tarantino. Un misto di «giustizia, grandissima vendetta e furiosissimo sdegno», insomma.
Pssando dalla celluloide al pugilato è come se George Foreman, dopo la sconfitta a sorpresa di Kinshasa contro Mohammed Alì, si fosse svegliato la mattina dopo scazzottando a destra e a manca gli organizzatori del match. Così il primo cittadino di Genova, Marta Vincenzi, dopo le primarie che hanno premiato il candidato di Sel Marco Doria, si presenta di fronte alla tastiera del computer, apre Twitter, indossa i guantoni e attacca il suo partito. Testualmente: «Il rischio di una città che muore e non vuole riconoscerlo è lì. Nel voto a Doria come voto anticasta. Nel tutti uguali. Nel non riconoscere l’onesta fatica del riformismo vero. Nell’agitarsi dei gruppi di potere dentro e a fianco del Pd». E ancora: «Dovevo dargli una mazzata subito invece che aspettare che si rassegnassero».
Lo sfogo prosegue. E «ho cercato di nobilitare la guerra che mi hanno fatto dipingendo le primarie come utili». E «speravo che il Pd mi digerisse elaborando il lutto del 2007». E «comunque a Ipazia è andata peggio», visto che sottotesto lei era morta. «Oggi le donne riescono a non farsi uccidere quando perdono», scrive Vincenzi. Che, tra una riflessione
sulle donne in politica che tradisce un po’ di sfiducia nei confronti della corsa palermitana di Rita Borsellino («Da maggio non ci sarà più un sindaco donna in nessuna grande città italiana») e un attacco ai partiti locali («Ma con qualche assessorato si risolverà tutto, vedrai»), ricorda implicitamente che gli assassini di Ipazia erano cristiani. E quindi chiama in causa don Gallo, prete no global e sponsor di Doria: «A proposito, chissà dove sarebbe stato don Gallo al tempo di Ipazia». Il tutto mentre Roberta Pinotti, l’altra candidata del Pd, sostenuta dall’area vicina a Dario Franceschini e da un pezzo di mondo cattolico, preferisce il basso profilo: «Leccate le ferite, si guarda avanti con serenità. Il lavoro e le idee delle primarie a disposizione per vincere».
A più di cinquecento chilometri dalla tastiera del computer di Vincenzi, Bersani offre una spiegazione criptica delle puntate precedenti. «Se si va con più candidati del Pd alle primarie, se ne accetta l’esito». Traduzione: il Pd ha perso a causa della presenza di due pedine sulla stessa scacchiera. Un concetto che il segretario esplicita meglio nel pomeriggio, quando dice che «sarebbe un bene se selezionassimo prima il candidato da schierare alle primarie».
Che cosa vuol dire? Semplice. Vuol dire che Bersani ha provato fino all’ultimo a convincere Vincenzi a ritirarsi dalla competizione. «Cerchiamo un terzo nome», era stato il suo appello rivolto sia al sindaco che a Pinotti. Niente da fare. Le resistenze del primo cittadino, infatti, hanno creato tra «Marta» e «Pier Luigi» una frattura talmente profonda che alle 7 di ieri pomeriggio i due non si erano neanche sentiti per telefono.
Il caso Genova presenta al Pd un conto ancora più salato delle altre primarie andate a male. Il segretario provinciale Victor Rasetto e quello regionale Lorenzo Basso rimettono il proprio mandato. Col secondo che, insieme all’area di cui fa parte (quella di Enrico Letta), sottoscrive in via riservata la lettura secondo cui «a Genova è andata in scena una conte-
sa tra ex Ds». Lo stesso tema sollevato sul Futurista dal sindaco di Bari Michele Emiliano, che in vista delle elezioni del 2013 auspica «una lista civica nazionale dei migliori, aperta anche al Terzo Polo», in cui si può valutare persino la candidatura a premier «di Corrado Passera». E i cahiers de doléances non si esauriscono qui. Il Pd viene attaccato da tutte le parti. Ed è tutto fuoco amico. «Se il candidato del Pd perde alle primarie non vanno cambiate le regole, va cambiato il candidato», annota Matteo Renzi. «Si perde se si sottovaluta il giudizio dei genovesi sul governo della città», aggiunge Enrico Letta. Il tutto mentre sulle prossime primarie, quelle di Palermo, pende come una spada di Damocle la mozione di sfiducia presentata da un pezzo di partito contro il segretario regionale Giuseppe Lupo. Il tutto mentre Bersani prende carta e penna per rispondere al post scriptum dell’editoriale domenicale in cui Eugenio Scalfari, su Repubblica, l’aveva chiamato in correità per un documento che il tridente Orlando-Orfini-Fassina starebbe preparando con l’obiettivo di rifondare il Pd partendo dal Pse. «Non c’è nessun documento», mette a verbale il segretario. Che pure, su neoliberismo e capitalismo, ricorda come questa discussione, prima del Pd, sia stata affrontata «anche dal Financial Times e da Benedetto XVI». E Genova, intanto, rimane un’idea come un’altra. Ma la sconfitta, stavolta, è più dolorosa.

l’Unità 14.2.12
Il leader Pd: divisi si perde. I modem: «Il problema è la reputazione della classe dirigente»
Sull’identità del partito, il segretario lancia la proposta di un’Internazionale dei progressisti
Bersani: nuove regole per scegliere i candidati Ma la minoranza attacca
Il risultato di Genova ha ripercussioni sul Pd a livello nazionale. Bersani: la divisione si paga, selezionare una candidatura per vie interne alle primarie di coalizione. Minoranza critica.
di Simone Collini


«Non brucia, che ci crediate o no». Pier Luigi Bersani ostenta serenità di fronte a chi lo sollecita sul risultato delle primarie di Genova: «Ora ci si mette ventre a terra per vincere con Marco Doria». La vittoria del candidato sostenuto da Sel contro il sindaco uscente Marta Vincenzi e la senatrice del Pd Roberta Pinotti può lasciare «qualche ammaccatura», ammette con i giornalisti che lo avvicinano alla Camera Bersani, che però si dice «orgoglioso» del suo partito. «Quando si accetta che alla gara partecipino più candidati del Pd, poi se ne devono accettare gli esiti», commenta a caldo. E, ragionando sul medio e lungo termine, spiega che «sarebbe cosa buona e logica che il Pd selezionasse la sua candidatura per primarie di coalizione per vie interne». Una sollecitazione a ricercare soluzioni politiche negli organismi territoriali (da regolamento la scelta dei candidati spetta alle federazioni locali), ma potrebbe anche essere sviluppata l’ipotesi di rivedere le norme interne come discusso nei mesi scorsi dalla Commissione statuto per consentire di andare con una sola candidatura Pd alle primarie di coalizione.
MINORANZA CRITICA
Per la minoranza del partito quanto avvenuto non può però essere solo imputato alla doppia candidatura democratica, né la vicenda genovese può essere utilizzata per rivedere il meccanismo delle primarie. Da Movimento democratico arriva la richiesta di «una riflessione profonda», anche perché, come dice Salvatore Vassallo, «il problema non sta nel fatto che due candidati si siano divisi i voti del Pd»: «A Genova l’area elettorale del Pd, misurata alle regionali del 2010, è pari al 35% dei votanti sottolinea il costituzionalista veltroniano quella di Sel è pari al 2,8%». Allora, dice Vassallo, il problema è la «reputazione dell’attuale classe dirigente». Quello di domenica è «un voto esplicitamente contro il Pd», dice Sergio Cofferati, perché «c’è una richiesta di cambiamento che non viene incarnata da un nostro candidato». Matteo Renzi insiste sul fatto che la colpa della sconfitta è di chi è stato scelto per la sfida ai gazebo: «Anziché pensare di cambiare le regole delle primarie, la prossima volta cambiamo candidato». Punta il dito sulle «logiche correntizie» Michele Meta, per il quale a Genova è andato in onda un «filma già visto diverse volte», e Gero Grassi chiede di «cambiare rotta».
INTERNAZIONALE DEI PROGRESSISTI
Non aiuta tra l’altro il fatto che la sconfitta genovese arrivi mentre si è aperta una discussione sulla possibilità che il Pd punti a diventare un partito socialdemocratico. Una questione lanciata dal “Foglio” prendendo spunto da un seminario sulla crisi economica che si farà il 1 marzo e rilanciata domenica su “Repubblica” da Eugenio Scalfari, con voci allarmate che si sono levate dalla minoranza di Movimento democratico. Bersani non prende in considerazione la sollecitazione proveniente dalla Velina rossa di convocare un congresso straordinario per porre fine alla «canea montante» («Lasciamo stare, prima di tutto viene l’Italia, guardiamo ai problemi che abbiamo davanti»), però a Scalfari risponde (su “Repubblica” di oggi) che tra nel gruppo dirigente del Pd non ci sono «né documenti né intenzioni» del genere. Altra cosa, dice Bersani rivendicando il fatto che il suo partito ha fatto i conti «con riflessi nostalgici e con nuovismi vacui», è la necessità di costruire «un soggetto politico europeo aperto ai riformisti di diversa ispirazione», di dare una risposta a «come configurare i rapporti» tra Pd e la famiglia dei socialisti europei per arrivare a una «piattaforma comune». E, in prospettiva, come organizzare una «internazionale dei progressisti che oltrepassi le antiche famiglie» nella quale confluiscano forze socialiste, democratiche e liberali «che in tutto il mondo combattono il liberismo della destra conservatrice».

il Fatto 14.2.12
Boomerang primarie “Basta guerre fratricide”
Partito nel caos, Bersani: Troppi nostri candidati, lo statuto non va
di Wanda Marra


Solo un’ammaccatura”: Pier Luigi Bersani sminuisce, nega, rimuove. E di fronte alla débacle del Pd a Genova arriva a definirsi “sereno”. Non senza aggiungere, dettando la linea al partito: “Ora lavoriamo ventre a terra per la vittoria di Marco Do-ria alle elezioni”. “Sereno? Bersani dice che è sereno? Dovrebbe essere incazzato nero. E poi, certo, dopo, siamo tutti per Doria”, commenta il sindaco di Bari, Mi-chele Emiliano. A guardare i meri fatti, c’è poco da star sereni: le due candidate del Pd a Genova, Marta Vincenzi e Roberta Pinotti sono state sbaragliate da Marco Doria, i vertici del Pd ligure sono dimissionari, la Vincenzi si sfoga su Twitter con furia rara, la Pinot-ti medita di ritirarsi a vita privata. E nel frattempo, i vertici del Pd che fanno? Ragionano intorno a un ripensamento dello Statuto in modo che in caso di primarie di coalizione, il Pd corra con un candidato unico: “Sarebbe cosa buona e logica che il Pd selezionasse la sua candidatura per vie interne”, spiega Bersani. Che già nel primo pomeriggio di ieri, dopo una notte e una mattinata di silenzio, aveva dato la sua versione: “Le primarie hanno una loro logica. Questi sono gli esiti di avere più candidati del Pd”. Che la Vincenzi e la Pinotti rischiassero di perdere, però, era un timore che aleggiava al Nazareno. “Alla fine, quelle due si sono messe a litigare”, dice qualcuno dello staff del segretario. Personalismi inevitabili? Non si poteva chiedere un passo indietro? “Se si sono volute presentare, non potevamo impedirglielo. Le regole sono queste”, spiega Chiara Geloni, direttore di Youdem.
Sarà colpa delle regole, ma la sequenza agghiacciante delle consultazioni perse in luoghi importanti pone più di qualche problema.
ERA il febbraio 2009 quando Renzi vinse le primarie di Firenze, contro i candidati sostenuti dai big democratici. Nel 2010 Vendola impose le consultazioni per la candidatura alla guida della Puglia e le vinse contro lo sfidante democratico, Francesco Boccia. La vittoria di Giuliano Pisapia, candidato di Sel, a Milano provocò un terremoto nei vertici del partito locale. Il candidato di Sel, Zedda prevalse pure a Cagliari. A Napoli le consultazioni finirono annullate a colpi di denunce di brogli, e alle elezioni vinse De Magistris, presentato dall’Idv. Se è per la tornata in corso, a Palermo, dopo lunghe trattative, il Pd ha scelto di appoggiare Rita Borsellino, che del Pd non ha neanche la tessera (mentre il democratico Da-vide Faraone è sostenuto dai renziani) e a Taranto Vendola sta imponendo la ricandidatura di Stefàno, sindaco uscente. Possibile che il Pd non riesca a individuare un candidato vincente? Scrive su Twitter, Paolo Gentiloni: “Tutta colpa di un Pd diviso tra due candidati, si dice ora. Ma a Milano, Napoli e Cagliari ne avevamo uno. E a Torino due (dove ha vinto Fassino, ndr). O no? ”. E Renzi: “La colpa non va data alle primarie, ma al candidato del Pd”.
DAVIDE ZOGGIA, responsabile Enti Locali del partito, ricorda che nel 2011 il Pd ha vinto ad Alessandria, Asti, Como, Monza, Verona, Gorizia, Parma, Piacenza (dove in realtà il candidato di Bersani è risultato perdente), Pistoia. Ma, mentre ribadisce che va considerata l’ipotesi di non correre con più di un candidato del partito, ammette che quanto meno un errore di valutazione politica c’è stata: “O il sindaco uscente viene ricandidato e non si fanno le primarie, oppure le primarie non si fanno. Altrimenti si danno degli strani messaggiaglielettori”. Ambiguità. “Siamo di fronte non a un campanello, ma a un’orchestra d’allarme”, spiega Gentiloni. Perchè, evidentemente “quelli del Pd non sono considerati candidati credibili”. Che fare, dunque? Ogni tanto le parole congresso anticipato tornano ad entrare nel vocabolario democratico. Gentiloni si limita a dire che non sarebbe male fare una riunione. Rincara la dose Sergio Cofferati: “C'è il calo secco e rilevante dei votanti dovuto al quadro politico nazionale e poi c'è una secca sconfitta del Pd”. Cofferati ricorda come l’affluenza sia stata “appena dignitosa”. Parla del gioco di rivalità personali e correnti-zie che non si riescono a ricomporre. E poi collega anche il risultato genovese al disimpegnodella politica, che sta anche nella delega che i partiti hanno dato a Monti. Certo, se accanto alle sconfitte nelle consultazioni, si leggono i sondaggi che registrano contemporaneamente una grande fiducia in Monti e la sfiducia nei dirigenti democrats, sembra proprio che gli elettori del Pd siano utili a qualcun’altro. Salvatore Vassallo (che dello statuto del Pd è autore e le primarie le difende a spada tratta) fa un’analisi in termini di voti: “La forza elettorale del Pd, misurata alle regionali del 2010, è pari al 35% dei votanti, quella di Sel al 2,8%. Il rapporto tra l’elettorato del Pd e quello dei partiti alla sua sinistra è di 5 a 1. Il problema sta forse nella reputazione della sua attuale classe dirigente”. E intanto sulla rivista Qdr i giovani veltroniani chiedono le dimissioni di Zoggia.

il Fatto 14.2.12
La politica vera
di Paolo Flores d’Arcais


Potrebbe tornare la politica, la vera politica, la politica dei cittadini e al servizio dei cittadini, la politica come passione civile. Quella politica che, non a caso, pigri giornalisti d’establishment continuano ad etichettare come “antipolitica”, solo perché è alternativa alla morta gora degli inciuci tra nomenklature di partito e all’attivismo delle relative cricche, pingui di malaffare.
Il segnale che arriva da Genova è straordinario. L’indipendente Marco Doria, sostenuto da don Gallo, straccia è il caso di dirlo – le due candidate del Pd, con una campagna di una povertà impressionante, meno di diecimila euro e nessuna organizzazione (solo l’appoggio di Sel), che mobilita però le energie migliori della società civile. Un “nobile” fuori dai giochi e un prete di strada che umiliano l’apparato di un partito che controlla comune e regione, le gerarchie burocratiche sono peggio che incredule: groggy come un pugile suonato.
E i vertici nazionali senza parole, perché Genova indica con chiarezza l’unica strada per un partito che voglia davvero riformare un’Italia che collassa d’ingiustizie. Ieri erano pensosamente impegnati nell’attualissima disputa teologica sulla naturadelPd, sesocialdemocraticaopost-Lingotto, riaperta da alcune righe di Eugenio Scalfari: a elucubrare sulla prova ontologica di Anselmo d’Aosta sarebbero meno lontani dalla realtà. È evidente infatti che una politica progressista può tornare a vincere, ed anzi ad esistere, solo a partire da candidati del tutto estranei agli apparati e ai loro riti. Le rivalità dei D’Alema e dei Veltroni, esattamente come quelle dei Bersani e dei Matteo Renzi, sono solo cascami di un universo che ha la vitalità dello zombie, ma il potere di seppellire ogni rinnovamento nelle inerzie di casta. A livello politico l’Italia del privilegio ha realizzato già due metamorfosi, che le hanno garantito la continuità del potere, dal Caf a Berlusconi, e ora a Monti-Passera. L’Italia di “giustizia e libertà” ha saputo esprimere dieci anni di lotte di massa straordinarie, ma nessuna rappresentanza o prospettiva politica organizzata. Genova (dopo Napoli Milano e Cagliari, del resto) intima con chiarezza: se non ora, quando? Mentre la trojka Alfano-Casini-Bersani studia una riforma elettorale perché la politica rimanga “cosa loro” (questa è antipolitica!) bisogna che le testate fuori dal coro, gli intellettuali pubblici, la Fiom, facciano da catalizzatori ad una indignazione che è già forza costruttiva, e impongano all’ex-opposizione liste di società civile e primarie nazionali.

La Stampa 14.2.12
Il partito è nel caos ma rinvia la conta interna
Elezioni o congresso non sono alle porte: meglio soprassedere
di Federico Geremicca


Vendola «Non ha vinto un partito, bensì una domanda di rinnovamento. È Genova che ha chiesto di cambiare»
Bersani «Le primarie hanno una loro logica. Quando si accetta la gara poi se ne devono accettare gli esiti»
Veltroni insoddisfatto. Non lo convince la minimizzazione pubblica dell’esito del voto

Ora, naturalmente, comincerà anzi, in verità è già cominciato il solito tripudio di polemiche, condito da sfoghi al vetriolo, regolamenti di conti e tiro al piccione nei confronti dell’istituto delle primarie «che così non vanno, perché dopo Milano e Cagliari abbiamo perso pure a Genova». Il Pd fibrilla, ed è comprensibile. Ma se solo recuperasse un po’ di serenità, potrebbe vedere con chiarezza come le primarie genovesi abbiano forse evitato al partito un guaio ben maggiore: cioè, l’automatica ricandidatura di Marta Vincenzi, sindaco in carica e al suo primo mandato, bocciata dal voto degli stessi elettori di centrosinistra. E dunque figurarsi la carneficina, sottoponendola al giudizio dell’intera città...
Secondo molti, ormai, piuttosto che riprendere ragionamenti sotterranei su come «addomesticare» o addirittura cancellare lo strumentoprimarie, lo stato maggiore dei democratici dovrebbe a questo punto interrogarsi su circostanze e avvenimenti perfino più gravi della sconfitta subita da Marta Vincenzi (e da Roberta Pinotti, l’altra candidata targata Pd). Sul fatto, per esempio, che i partecipanti alla consultazione si siano ridotti di un terzo (10 mila, in cifra assoluta) rispetto alle primarie di cinque anni fa; o che a vincerle sia stato, in fondo, un semi-sconosciuto: Marco Doria, cioè, consigliere comunale per due anni (1991-92) e da allora lontano dalla politica. «I due dati, sommati, sono decisamente preoccupanti - dice Sergio Cofferati, ormai quasi genovese d’adozione -. Testimoniano, infatti, di una disaffezione crescente nel nostro stesso elettorato; e del fatto che il Pd è avvertito sempre meno come una forza di reale cambiamento». E infatti a Milano come a Cagliari (l’anno scorso) oppure a Genova come a Piacenza - per stare all’oggi gli elettori del centrosinistra vanno ai gazebo delle primarie e troppo spesso non scelgono i candidati del Pd...
La discussione, invece, sembra per il momento dedicarsi ad altro. Qualcuno attribuisce la sconfitta al fatto che i democratici si siano divisi, portando al voto due loro esponenti (Serracchiani: «Bisogna smetterla con i personalismi e la conta tra le correnti») ; qualcun altro contesta decisamente questa tesi (Vassallo: «Il rapporto tra l’elettorato del Pd e quello dei partiti alla sua sinistra è di 5 a 1: quindi il problema, in tutta evidenza, non sta nel fatto che due candidati si siano divisi i voti del Pd»). E c’è perfino chi (proprio Marta Vincenzi) non ha trovato di meglio che scagliarsi contro l’intellighenzia cittadina, rea di essersi schierata con Marco Doria: «La cultura, mi raccomando! I nostri intellettuali, i loro giovani studenti, le firme dei giornalisti, la buona borghesia...! ». Una invettiva che a qualcuno ha fatto tornare in mente il vecchio Saragat, che dopo l’ennesima sconfitta elettorale se la prese con «il destino cinico e baro», piuttosto che interrogarsi sull’effettiva utilità di un partito come il Psdi...
Walter Veltroni, naturalmente, non è soddisfatto. Non lo convince la minimizzazione pubblica che Bersani ha fatto dell’esito del voto e i ragionamenti privati di molti dei suoi, invece, intorno alla modifiche da apportare al meccanismo delle primarie, per evitare un continuo harakiri. Per esempio, aggiungere in un qualche regolamento che quando si svolgono primarie di coalizione il Pd non può presentarsi con più di un candidato (e chi lo sceglierebbe, questo candidato? Il segretario locale? O magari altre primarie, ma stavolta di partito...?). Ma più in generale l’ex segretario non è convinto di come il Pd stia attraversando una fase che lui, invece, considera cruciale. Dice uno dei suoi più stretti collaboratori: «Troppi distinguo e troppe prudenze nel sostegno a Monti; e troppi pasticci in divenire su temi cruciali come le alleanze politiche e la nuova legge elettorale».
Ciò nonostante, Veltroni non si prepara alla battaglia. L’intenzione sarebbe quella di restar vigile ma di non aprire una guerra interna, a meno che non si consideri costretto a farlo. E le ragioni sono almeno due. La prima, è che sarebbe suicida per l’intero Pd andare ad un regolamento di conti interno in una fase così delicata per il Paese (e sul piano dei rapporti politici) ; la seconda è che nessun appuntamento importante (e dunque meritevole anche di scontri interni) è davvero alle porte, né il Congresso né le elezioni, almeno si spera. Per tanti motivi, dunque, la brace continuerà ad ardere sotto la cenere. Ma ardere, appunto, perché spenta certo non è...

Corriere della Sera 14.2.12
Ma sul sostegno all'uomo di Vendola il partito è già diviso
E torna la «sindrome dell'outsider»


ROMA — Era inevitabile: la crisi della politica non poteva lasciare indenne il solo Pd. E le primarie di Genova sono lì a testimoniarlo. Per dirla con il senatore Stefano Ceccanti, «basta che si presenti un outsider, qualcuno che non appare come espressione di partiti o di correnti, e vince». Era già successo, d'altra parte. A Milano e a Napoli. Perché la crisi ha raggiunto ora il suo picco massimo, ma data a ben prima. Pier Luigi Bersani preferisce minimizzare ufficialmente, ma che il Pd abbia qualche problema è innegabile. Walter Veltroni e i suoi ne hanno ragionato a lungo ieri. Questo il succo delle riflessioni dell'ex segretario: non è una vittoria della sinistra, perché Sel non cresce mai più di tanto, quel che sta accadendo è ancora più pericoloso, c'è una rivolta dal basso del nostro elettorato che ci vede come una casta, un partito d'apparato.
Parole amare, quelle di Veltroni, che riecheggiano nei tanti discorsi dei parlamentari del Pd. «L'attuale classe dirigente — osserva Salvatore Vassallo — non è in grado di corrispondere alle esigenze dei nostri elettori che chiedono di essere rappresentati da gente credibile». «Paghiamo la mancanza di coraggio e di innovazione, siamo visti come qualcosa di vecchio e di conservatore», spiega il senatore Roberto Della Seta. «Le primarie di Genova fotografano il distacco dei cittadini dalla politica», ammette la vicecapogruppo alla Camera Marina Sereni.
E ora? Ora Bersani non si dà per vinto, sostiene di essere «orgoglioso» del suo partito e medita di cambiare le regole delle primarie: «Del resto — spiega il segretario ad alcuni compagni di partito — avremmo dovuto occuparci proprio di questo nella conferenza organizzativa che abbiamo rinviato. Non possiamo scontrarci tra di noi. Dobbiamo selezionare il candidato del Pd con una consultazione interna e poi andare alle primarie del centrosinistra con un solo nome». Altrimenti, avverte il deputato Dario Ginefra, «rischiamo il suicidio».
Ma tra gli stessi bersaniani serpeggia il dubbio che non sia «solo una questione di regole», che ci sia qualcosa da registrare nel partito. Tra l'altro il risultato di Genova sta creando anche altri problemi. L'ex ppi Beppe Fioroni parla senza peli sulla lingua: «Come possiamo appoggiare Doria, che è uno che ha fatto tutta la campagna elettorale per le primarie contro Monti e il suo governo? Non possiamo comportarci come degli schizofrenici, che a livello nazionale facciamo una cosa e nelle realtà locali il suo opposto». Fioroni dà voce ai dubbi degli ex popolari, che si sono raddoppiati dopo la decisione dell'Udc di non sostenere il candidato del centrosinistra. Si profila un accordo tra centristi e Pdl che potrebbe far perdere al Pd Genova.
Enrico Letta prova a vestire i panni del pompiere e a circoscrivere il significato di quello che è successo. Secondo il vicesegretario la sconfitta dipende da due elementi: dalla divisione che ha portato a due candidature e dal fatto di non essersi concentrati sui bisogni della città di Genova. Però nel partito sono in molti a pensarla come Sergio Cofferati: «Quello delle primarie è stato un voto contro il Pd». E ora c'è chi teme che per recuperare consensi il gruppo dirigente si butti all'inseguimento di Vendola e Di Pietro, tirando fuori dal cassetto la foto di Vasto. In realtà Bersani è sempre rimasto in buoni rapporti con il leader di Sel e, anche nei momenti di maggior tensione, ha mantenuto i contatti con il leader dell'Idv. In vista delle elezioni, e non solo. Il segretario del Pd ha cercato un'intesa pure sulle primarie che verranno (se mai verranno) perché punta ancora a presentarsi come candidato premier.
Ma ormai in politica è pressoché impossibile fare piani a lungo termine. Come prova quel che è accaduto a Palermo. Lì Bersani, per evitare che le primarie finissero con una sconfitta del suo partito, ha candidato Rita Borsellino, con l'appoggio di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. La maggioranza del Pd locale, legata a filo doppio con il governatore Raffaele Lombardo, ha sconfessato questa scelta e ieri ha sfiduciato il segretario regionale Lupo, reo di seguire le indicazioni di Roma.
Maria Teresa Meli

Repubblica 14.2.12
Il termometro e la febbre dell'elettore di sinistra
di Concita De Gregorio


LE PRIMARIE sono un termometro, non serve farle sparire per eliminare la febbre. Non serve nemmeno cambiare le regole, inventarsi un termometro che segni sempre 36: se la febbre è a 40 bisogna curarla, diffidare di chi non la vede o la considera un complotto.
Bisogna pretendere un altro medico, uno che abbia i farmaci e conosca i dosaggi. Le primarie non si perdono mai, che siano di partito o di coalizione, perché sono fatte per misurare il polso dell´elettorato, capire il suo stato d´animo e dare voce ai cittadini: che siano loro a dire da chi vorrebbero essere governati, e la gara cominci. La gara, va da sé, è quella che viene dopo: è la competizione con l´avversario politico. Le primarie sono fatte per trovare la persona giusta per vincere le elezioni. Sono la restituzione temporanea di una delega: scelto, insieme ai cittadini, il candidato ecco che il sistema dei partiti può attrezzarsi alla contesa, affrontare la campagna elettorale, risultare convincente e coeso, se ne è capace, ed eventualmente vincere. In via del tutto teorica si può dare il caso che la prospettiva strategica sia al contrario quella di perdere le elezioni: in questa eventualità è senz´altro opportuno che un partito proponga per le primarie un candidato debole e poco amato e che provi ad imporlo sugli altri candidati di coalizione. Solo in questo caso se il suo candidato fosse sconfitto alle primarie e l´antagonista di altra matrice politica vincesse le elezioni il partito in questione potrebbe dire di aver perso. Avrebbe perso la chance di perdere. Sarebbe come se il Pd, dopo aver proposto Morcone come candidato a Napoli, si fosse sentito sconfitto dalla vittoria di De Magistris. Come se, in via teorica.
Ma veniamo alla febbre, e parliamo di Genova.
Bisogna farsi alcune domande semplici. La prima è come proceda il Partito democratico nella scelta dei candidati. Quali sono i criteri? La fedeltà al leader, l´appartenenza a una corrente, la capacità di interdizione della corrente interna contraria, l´altezza, il sesso, la religione, il caso? Marta Vincenzi è sindaco in carica. Il partito romano e regionale, ramificazioni locali comprese, non l´ha mai sostenuta: imprevedibile, poco duttile, cattivo carattere. Unica voce in suo soccorso da Roma, nelle ultime settimane, quella di Ignazio Marino. Se il Pd avesse detto «ha mal governato» avrebbe avuto senso schierare un altro candidato, ma non l´ha fatto. Ha messo in campo Roberta Pinotti per sbarrarle il passo. Cattolica, parlamentare, sostenuta dall´establishment: Pinotti è rapidamente diventata "l´altra", come tale è stata vissuta da un elettorato stufo oltre il limite di guerre intestine, incertezze, ipocrisie, manovre sotterranee. Pochi giorni fa a Genova un alto dirigente democratico mi ha detto che si sarebbe trattato di una battaglia tra le due candidate, che Doria non aveva nessuna chance, «Doria prenderà il voto dei grillini». Anche di questa miopia bisognerebbe parlare finalmente chiaro: la stessa miopia che faceva prevedere anni fa ai dirigenti romani la vittoria di Boccia su Vendola in Puglia, la loro avversione a De Magistris e a Pisapia, la completa sottovalutazione di Zedda nel suk delle diatribe di partito sarde e, per parlare del futuro prossimo venturo, la ridicolizzazione del candidato Bachelet nelle primarie del Pd Lazio, la contrapposizione fra Borsellino e Faraone a Palermo. Anche a Palermo, il 4 marzo, ci saranno due candidati del Pd. A Monza, qualche settimana fa, ce n´erano quattro. Ma il punto non è neppure questo, come sembra credere Bersani, per quanto trovarsi di fronte a quattro candidati dello stesso partito possa far pensare gli elettori ad una scarsa coesione del medesimo, diciamo pure ad una certa ostilità interna.
Il punto è la distanza fra chi prende queste decisioni e il suo elettorato. L´incapacità di leggere la realtà e di capirla. La difesa della ditta non può essere fatta a dispetto di chi quella ditta la deve sostenere. Uno su tre degli elettori del Pd votarono Pisapia a Milano, e sono gli elettori del Pd (ex elettori, elettori delusi, attuali elettori) ad aver votato Doria ieri. Non c´è nulla di antipolitico e di demagogico in questo, è il modo più chiaro che i cittadini hanno per parlare ai partiti (ai loro partiti) e dire che non è la politica che non vogliono, ma questa politica. Non i partiti, ma questi partiti. Di più chiaro ancora potrebbe esserci solo un disegno: cambi la classe dirigente, si faccia spazio ad una generazione nuova, si azzerino le guerre intestine di corrente, le rendite di posizione e di apparato. Ci si prepari a tornare alla politica, anche a livello nazionale, affidandosi alle competenze, alle passioni, ai talenti: l´Italia ne è colma, i partiti ne dispongono per quanto si ostinino a ignorarli, a trattarli da guastatori quando si fanno presenti. Diversamente, le accuse di antipolitica suoneranno sempre e solo come autodifesa del proprio posto da occuparsi a vita. Diversamente qualunque outsider forte della dote dell´essere "contro", dell´essere "altro" rispetto al sistema vincerà sempre più nettamente. Diversamente il Pd, che ha le primarie nel suo Dna – e non è un caso che di dna si torni a parlare oggi – farà la bestia da soma che offre alla coalizione gli spazi, le strutture, la logistica, il sostegno per far emergere candidati altrui. Che per l´Italia sarà anche un bene, per il partito moltissimo di meno. Dice oggi Giovanni Bachelet: «Un po´ dei nostri dirigenti vengono da partiti nei quali contavano solo le tessere e questa storia delle primarie non l´hanno digerita fino in fondo. Questi dirigenti sentono che con le primarie stanno mollando ai cittadini un pezzo importante di sovranità e di potere, non vorrebbero mai averle inventate, se le vorrebbero rimangiare. A loro piacerebbero primarie di incoronazione in cui prima i dirigenti decidono chi vince e poi si vota. Non piacciono, invece, primarie nelle quali prima si vota e poi si sa chi ha vinto». È così, e rompere tutti i termometri del regno non servirà a nasconderlo. A un certo punto, immaginiamo, verrà il giorno in cui gli attuali dirigenti del Pd vorranno osservare la realtà anziché licenziarla come ostile: gli italiani hanno voglia di politica, e persino di farla dentro i partiti. È di questi partiti, di questa politica e delle sue usurate alchimie che diffidano. A dar loro ascolto la vera antipolitica, quella forcaiola e qualunquista, sarebbe sconfitta con la sola arma possibile: la passione per il bene comune, l´interesse di tutti sopra quello di pochi.

Repubblica 14.2.12
Difficile per il leader cambiare il regolamento, troppo ampio il fronte contrario alla preselezione
Ma nel partito è già scontro sulle regole la vera battaglia è quella sulla premiership
Boccia: ma a Lecce abbiamo stravinto, a Taranto e Trani i vendoliani si sono rifiutati di correre
di Goffredo De Marchis


ROMA - Primarie ingovernabili, ora scatta l´allarme. Troppe sconfitte, troppe città lasciate ad altri, troppi danni all´immagine e alla forza del Pd. Se non si trova un rimedio è destinato a crescere fra i democratici un partito contro le primarie. Soprattutto in vista dell’appuntamento decisivo: la scelta del candidato premier. Franco Marini al telefono lo dice chiaramente: «Andare con due o tre candidati significa mancare di rispetto ai militanti, significa meno democrazia non più democrazia. La prossima volta tanto vale non presentarsi».
Pier Luigi Bersani vorrebbe cambiare subito le regole delle primarie, avviare la famosa «manutenzione» di cui parla da tempo e che rischia di arrivare tardi. Proprio per evitare che la spaccatura di Genova arrivi a Roma sotto forma di un dibattito tra chi è a favore delle primarie e chi invece dopo averle digerite a fatica si schiera decisamente contro. «Mai più un caso come quello Vincenzi-Pinotti - sintetizza Franco Marini -. Le primarie fatte così sono una cosa contronatura. Se facciamo il bis ci ricoverano a tutti». Oppure, dice l´ex presidente del Senato, non resta che lasciare il campo libero: «Un Pd che non trova una soluzione al proprio interno è meglio che non si presenti affatto».
Ma nel partito e fuori del partito crescono i tifosi di una consultazione aperta, senza limiti, senza filtri. Anche perché altrettanto folle, cioè da ricovero, sarebbero «le primarie delle primarie», una preselezione della selezione prima la gara vera e propria, quella per il sindaco o per il candidato premier. Un percorso di guerra estenuante che non avrebbe eguali in nessuna parte del mondo.
Con queste due posizioni opposte si deve confrontare Bersani. Oggi nella riunione di segreteria darà qualche indicazione. Ma non si sa come e soprattutto quando fare un nuovo regolamento. Perché tira un´aria contraria, soffia il vento a sostegno di una competizione davvero libera. «Ma così è giochi senza frontiere, non si tratta più di una competizione politica», dice Francesco Boccia. Enrico Letta è d´accordo, occorre un criterio. «Ma non è il momento giusto per affrontare il tema. Lecchiamoci le ferite poi ci penseremo». La sfide delle amministrative sono incardinate. Fanno più rumore le figuracce dei successi. «A Lecce il candidato Sel è stato sepolto dal nostro sfidante - racconta Boccia -. A Taranto e Trani i vendoliani si sono rifiutati di fare le primarie. E parlo della regione dove governa Nichi». Ma il punto sono le grandi città, il bacino elettorale e di classe dirigente tradizionali per il centrosinistra. Appaltate ormai a candidati di altre forze politiche.
Al telefono l´ex presidente del Senato Marini è un fiume in piena: «Dovevamo porre rimedio prima, adesso però bisogna fare qualcosa. Chiamare gli iscritti della città a scegliere prima un solo nome, per esempio. Io leggo i dati di affluenza. Calano e il motivo è che i nostri elettori si scocciano di vedere un partito spaccato». Se c´è una sede, un luogo, Marini è pronto a mettere subito ai voti una modifica delle regole. Che guarda ovviamente alla scelta più importante: il candidato premier. Ma allo stessa scadenza guardano i difensori delle primarie aperta a tutti. Matteo Renzi, Walter Veltroni e tutti i veltroniani che attraverso le primarie vogliono tutelare anche l´assetto bipolare della legge elettorale. Nichi Vendola con le primarie punta a scompaginare le carte nel Partito democratico. Lo ha già fatto per due volte in Puglia. «Prima delle regole vanno abolite le correnti. Sono loro a creare i casi Genova», avverte Matteo Orfini. Ma Bersani ai suoi interlocutori dice: «Stiamo calmi, perché non cambia il percorso». Dal caos il Pd potrebbe essere salvato grazie a una coalizione diversa da quella classica del centrosinistra e dalla riforma elettorale. Sempre che vada in porto.

Repubblica 14.2.12
Ici anche per gli immobili della Chiesa il governo pronto a rivedere l´esenzione
La celebrazione dei Patti Lateranensi, giovedì, sarà l´occasione per esaminare la nuova regolamentazione
Anche gli enti ecclesiastici dovranno pagare. Palazzo Chigi s´impegna però a esentare le iniziative no-profit
di Alberto D’Argenio


La proposta finale da spiegare dopodomani alle gerarchie ecclesiastiche è pronta. In tempi di sacrifici per tutti e nell´imminenza di una condanna Ue per aiuti di Stato illegali, le esenzioni fiscali per le attività commerciali della Chiesa non sono più sostenibili: gli enti ecclesiastici dovranno pagare le tasse, anche se il governo si impegna a fare salve le attività puramente no profit. È questo lo schema che giovedì Mario Monti e i suoi ministri sottoporranno ai vertici vaticani - a partire dal segretario di Stato Bertone e dal presidente della Cei Bagnasco - in occasione delle celebrazioni dei Patti Lateranensi. Le esenzioni per la Chiesa le aveva introdotte il governo Berlusconi nel 2005 e permettono ad alberghi, scuole ed ospedali degli enti religiosi che operano in regime di concorrenza di non pagare le tasse grazie alla presenza di un semplice cappella al loro interno. Un vantaggio rispetto ai competitor laici, che devono fare prezzi più alti visto che le tasse le pagano. E con un danno per l´erario italiano di almeno un miliardo l´anno. C´è l´esenzione totale dell´Ici alla quale si somma uno sconto del 50% sull´Ires. Privilegi che saranno cancellati pur salvando le Chiese e le attività puramente benefiche come oratori o mense per i poveri.
Separazione nello stesso edificio tra esercizio "sociale" e "d´impresa"
La soluzione trovata dal governo permette di riportare il regime fiscale della Chiesa nel campo della legalità pur mantenendo le esenzioni per gli enti che fanno opera puramente caritatevole o spirituale, ovvero no profit. Il problema giuridico più complesso da risolvere è quello delle attività "miste": come comportarsi quando in un palazzo ci sono quattro piani adibiti ad albergo, e dunque commerciali, e una mensa per i poveri? La soluzione è quella di scorporare anche per il fisco le due attività seguendo lo schema previsto per le società che svolgono in parte servizi pubblici e in parte attività in concorrenza. Soluzione giuridicamente inattaccabile ma che provocherà più di un problema nella sua attuazione pratica vista la difficoltà a distinguere i due aspetti.
L´Italia nel mirino di Bruxelles "Quel privilegio è aiuto di Stato"
Nell´ottobre del 2010 la Commissione europea ha aperto un´indagine per aiuti di Stato contro l´Italia e una decisione finale è attesa per la primavera. Tanto a Bruxelles quanto a Roma la condanna è data per certa. Cancellando i privilegi l´Italia spera invece di evitare una decisione negativa che oltretutto dovrebbe essere accompagnata dall´ingiunzione di recuperare quanto non pagato dalla Chiesa in violazione delle regole Ue. Ma anche cambiando la legge e chiudendo il contenzioso la condanna per il periodo 2006-2011 potrebbe arrivare. Almeno così la pensano gli autori della denuncia che ha attivato Bruxelles - guidati dal radicale Maurizio Turco - che annunciano: «Se non ci sarà l´ordine di recupero del pregresso andremo in Corte di giustizia Ue».
Per le attività commerciali una norma ancora ambigua
La prima legge sull´Ici del 1992 consentiva a chi riteneva di poter accedere alle esenzioni di non registrarsi al fisco. Privilegio consolidato dal governo Berlusconi che nel dicembre 2005, in vista delle elezioni della primavera successiva, ha regalato agli enti ecclesiastici l´esenzione totale dall´Ici anche in presenza di attività commerciali e mettendo a tacere la Cassazione che nel 2004 aveva stabilito l´obbligo di pagare l´imposta per tali enti ad eccezione di chi svolgeva attività puramente sociale. L´anno successivo - per bloccare le indagini poi avviate dalla Ue - il governo Prodi aveva rimesso mano alla norma generando un mostro giuridico con l´esenzione per gli enti «non esclusivamente commerciali» (o l´attività è commerciale, o non lo è) che non ha risolto il problema.
Da scuole, ospedali e alberghi entrano quattro miliardi l´anno
Al Vaticano è riconducibile un impero immobiliare che genera un giro d´affari di circa 4 miliardi l´anno. Scuole private, ospedali, palestre e alberghi gestiti da ordini religiosi e fondazioni che fanno concorrenza a quelli laici con prezzi più accessibili anche grazie al mancato pagamento delle tasse. Si parla di circa 100 mila fabbricati, ma potrebbero essere di più. Un quinto di Roma è in mano alla Curia: alle 140 case di cura private accreditate nel Lazio, ad esempio, si aggiungono 800 scuole, 65 case di cura, 43 collegi, 20 case di riposo e tanto altro. A Milano le scuole paritarie sono oltre 450 e le cliniche 120. Il solo patrimonio di Propaganda Fide ammonta a 8-9 miliardi. C´è poi il turismo religioso: 200 mila posti letto sparsi per l´Italia con 3.300 recapiti tra case per ferie e hotel per i pellegrini.
Migliaia di costruzioni fantasma arriva l´obbligo di registrazione
Tutte stime per difetto visto che gli stessi comuni hanno difficoltà a mappare le proprietà in mano alla Chiesa: buona parte di esse, infatti, non è mai stata registrata al fisco con migliaia di immobili fantasma che affollano centri storici, paesi e campagne. Ecco perché l´imminente fine dei privilegi fiscali potrebbe non bastare a far emergere tutto il sommerso generato dagli enti ecclesiastici. Così se con lo stop alle esenzioni lo Stato solo di Ici dovrebbe incassare circa 400 milioni all´anno, con un imponente lavoro di mappatura degli immobili si potrebbe superare il miliardo. Ecco perché la fine delle esenzioni dovrebbe essere accompagnata da una legge che obblighi la registrazione degli immobili fino ad oggi sconosciuti ai comuni.

l’Unità 14.2.12
La crisi greca vista dalla Germania
di Helena Janeczek


Domenica bastava guardare i tg prime-time della tv tedesca per capire che la Grecia è uno scenario venuto a noia, un fronte dato per perso comunque vada. Il voto e la guerriglia di Atene non aprono i notiziari, né ricevono una co-
pertura più ampia di due minuti. La cosa fa riflettere su come, attraverso i media, interagiscano interessi politici e opinione pubblica.
Lo sfacelo della Grecia, la miseria dei suoi cittadini, non vengono taciuti, ma sono presentati come esito ineluttabile di cui gli stessi greci risultano colpevoli. «Un intero popolo scende in strada contro una situazione che deve ascrivere a se stesso», sintetizza un commento. L’aspetto interessante è che il messaggio non passa solo per le opinioni esplicite, ma anche attraverso le definizioni “neutre”. L’oggetto del voto recente viene chiamato Sparpaket, pacchetto-risparmio: formula eufemistica adatta a superofferte di ogni tipo, con cui si eludono parole come “tagli” o “austerità” adoperate in altre lingue. La stessa crisi è rubricata come Schuldenkrise, crisi del debito, dando per implicito che la causa risieda solo lì e non anche nelle politiche d’austerità che hanno generato il collasso economico senza risollevare il debito pubblico. Che i greci si siano fatti un’idea un po’diversa, su questo si è visto qualcosa di simile alla censura: massima cautela nel diffondere immagini di svastiche, bandiere bruciate, slogan contro i nuovi nazisti.
In vista degli ultimi aiuti da votare, meglio non ostentare quanto sia odiosamente ingrato il popolo incapace «di fare i compiti». Ma forse c’è qualcosa in più contro cui erigere difese. Nessuno ha sperimentato quanto i tedeschi dove può condurre l’innesco tra depressione e violenza. Stavolta tocca ad altri: questo non deve, in alcun modo, diventare un problema loro.

il Riformista 14.2.12
Le “quasi dracme” che preparano il default di Atene
Atto finale? La Grecia si risveglia dalla notte di devastazioni senza conoscere il suo destino. Cresce il sospetto che il Paese stia già lavorando al dopoeuro. Il governo avrebbe emesso delle obbligazioni “zero-coupon”: degli strumenti finanziari garantiti dalle istituzioni, di fatto equiparabili ai bond
di Mauro Bottarelli


La Grecia come il gatto di Schrodinger, morta e viva allo stesso tempo. Non serve scomodare il fisico austriaco per rendersene conto: Atene è come il felino nella scatola, che attende ignaro la disintegrazione dell’atomo che lo salverà.
O l’azionamento del relais che spaccarà la fiala di cianuro e lo ucciderà, Atene sa che il pacchetto di austerity votato dal Parlamento potrà salvarla, garantendo i nuovi aiuti della troika, e contemporaneamente ucciderla, visto che un Paese alle soglie della disperazione economica e sociale non può applicare altro rigore.
Meccanica quantistica a parte, Berlino ha definito il sì del Parlamento greco solo il primo passo: chiara indicazione di come, se all’Eurogruppo di domani la Grecia non porterà un piano dettagliato con tagli per altri 400 milioni, oltre all’accordo con i creditori privati per lo swap sul debito, del secondo bailout non si parlerà nemmeno. Ma il focus greco ieri era molto più politico che economico. La notizia del giorno è la conferma della data per le lezioni anticipate, che si terranno ad aprile. Un mese e poco più e la parola tornerà al popolo, lo stesso che in parte l’altra sera assediava il Parlamento e che, in parte, applaudiva i vandalismi dei black bloc, costati alla capitale 170 feriti e 130 arresti.
E che il timore dell’elettorato cominci a farsi sentire, così come quello di una deriva populista verso l’estrema destra del partito Laos che ha abbandonato il governo e votato contro il pacchetto di austerity, lo dimostrano i numeri della votazione di domenica notte. Il piano è passato con 199 voti a favore e 74 contrari, quindi con 43 deputati che hanno votato contro, violando le indicazioni dei due maggiori partiti, e che ora sono stati espulsi dal Pasok e da Nea Dimokratia e operano come “free agents” in un contesto politico assolutamente frastagliato e confuso.
Ma anticipare il voto ad aprile, contro il consensus generale che voleva rispettata la scadenza naturale della legislatura a ottobre 2013, appare anche una mossa strategica di Atene contro l’ultrarigorismo di Parigi e Berlino, visto che, in fase di dichiarazione di voto, proprio il leader di Nea Dimokratia, Antonis Samaras, ha così arringato i suoi compagni di partito: «Vi chiedo di votare in favore di questo nuovo accordo per il prestito, in modo di avere la capacità di negoziare e cambiare l’attuale politica alla quale siamo stati obbligati». Come dire, date il via libera, incassiamo i soldi e dopo le elezioni si rinegozieranno i termini.
Messaggio immediatamente recepito da Angela Merkel, la quale attraverso il suo portavoce ha fatto sapere di «contare sul fatto che la democrazia greca rispetti le decisioni prese. I partiti maggiori devono impegnarsi per iscritto a realizzare le riforme, a prescindere dal risultato delle elezioni anticipate». E se la Grecia, al di là delle operazioni di facciata, stesse già lavorando, sottobanco, a un futuro lontano dall’euro e dall’eurozona?
Delle “quasi-dracme”, in effetti, sarebbero già state emesse. Non si tratta di nuove banconote sovrane, ma del fatto che lo Stato ha pagato i fornitori degli ospedali con bond emessi a rimborso: un totale di 5,6 miliardi accumulati tra il 2007 e il 2010 sono stati fissati con obbligazioni zero coupon (ovvero che non pagano cedole fino a scadenza dell’emissione), i cosiddetti “pharma-bonds”. Questi strumenti finanziari sono bond a tutti gli effetti e hanno le caratteristiche dei bond della Repubblica ellenica: recano numeri di identificazione internazionali per securities (Isin), sono negoziabili alla Borsa di Atene e trattano pari passu con altro debito greco. In realtà, questi strumenti sono più che bond emessi dal governo greco.
Più specificatamente, sono molto simili a quella che gli economisti chiamano “quasi-money”, una fattispecie non nuova e anzi utilizzata ogni qualvolta un governo ha dovuto cercare un valvola di sfogo alle rigidità fiscali nominali nel corso di una disputa finanziaria.
Erano tali gli “Iou” emessi dalla California di Schwarzenegger nel 2009, quando lo Stato non aveva più liquidità per pagare venditori e dipendenti. Lo stesso, più o meno, fece anche l’Argentina. Nel caso greco, poi, i “pharma-bond” sembrano “money-like”, visto che possono essere depositati presso una banca, la quale può porli a garanzia come collaterale per ottenere denaro contante.
Insomma, teoricamente se una nazione emette un bond come rimborso, anche temporaneo, per un fornitore, non c’è prelievo di denaro dal settore privato visto che nessuno compra quell’obbligazione attraverso contante. È una forma di scambio, di baratto nella quale un venditore fornisce un bene a un’amministrazione governativa e riceve in cambio uno strumento finanziario creato dal nulla dalla stessa. Non c’è molta differenza dallo stampare nuova moneta, almeno come principio.

Corriere della Sera 14.2.12
Fregate, sottomarini e caccia .Quelle pressioni di Merkel e Sarkò per ottenere commesse militari 
di Marco Nese

I greci sono alla fame, ma hanno gli arsenali bellici pieni. E continuano a comprare armi. Quest'anno bruceranno il tre per cento del Pil (prodotto interno lordo) in spese militari. Solo gli Stati Uniti, in proporzione, si possono permettere tanto. Ma cosa spinge Atene a sperperare montagne di soldi? La paura dei turchi? No, è l'ingordigia della Merkel e di Sarkozy. I due leader europei mettono da mesi il governo greco con le spalle al muro: se volete gli aiuti, se volete rimanere nell'euro, dovete comprare i nostri carri armati e le nostre belle navi da guerra.
Le pressioni di Berlino sul governo di Atene per vendere armi sono state denunciate nei giorni scorsi da una stampa tedesca allibita per il cinismo della Merkel, che impone tagli e sacrifici ai cittadini ellenici e poi pretende di favorire l'industria bellica della Germania.
Fino al 2009 i rapporti fra Atene e Berlino andavano a gonfie vele, il governo greco era presieduto da Kostas Karamanlis (centrodestra), grande amico della Merkel. Gli anni di Karamanlis sono stati una vera manna per la Germania. «In quel periodo - ha calcolato una rivista specializzata - i produttori di armi tedeschi hanno guadagnato una fortuna». Una delle commesse di Atene riguardò 170 panzer Leopard, costati 1,7 miliardi di euro, e 223 cannoni dismessi dalla Bundeswehr, la Difesa tedesca.
Nel 2008 i capi della Nato osservavano meravigliati le pazze spese in armamenti che facevano balzare la Grecia al quinto posto nel mondo come nazione importatrice di strumenti bellici. Prima di concludere il suo mandato di premier, Karamanlis fece un ultimo regalo ai tedeschi, ordinò 4 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp.
Il successore, George Papandreou, socialista, si è sempre rifiutato di farseli consegnare. Voleva risparmiare una spesa mostruosa. Ma Berlino insisteva. Allora il leader greco ha trovato una scusa per dire no. Ha fatto svolgere una perizia tecnica dai suoi ufficiali della Marina, i quali hanno sentenziato che quei sottomarini non reggono il mare.
Ma la verità, ha tuonato il vice di Papandreou, Teodor Pangalos, è che «ci vogliono imporre altre armi, ma noi non ne abbiamo bisogno». Gli ha dato ragione il ministro turco Egemen Bagis che, in un'intervista allo Herald Tribune, ha detto chiaro e tondo: «I sottomarini della Germania e della Francia non servono né ad Atene né ad Ankara».
Tuttavia, Papandreou, alla disperata ricerca di fondi internazionali, non ha potuto dire di no a tutto. L'estate scorsa il Wall Street Journal rivelava che Berlino e Parigi avevano preteso l'acquisto di armamenti come condizione per approvare il piano di salvataggio della Grecia.
E così il leader di Atene si è dovuto piegare. A marzo scorso dalla Germania ha ottenuto uno sconto, invece dei 4 sottomarini ne ha acquistati 2 al prezzo di 1,3 miliardi di euro. Ha dovuto prendere anche 223 carri armati Leopard II per 403 milioni di euro, arricchendo l'industria tedesca a spese dei poveri greci. Un guadagno immorale, secondo il leader dei Verdi tedeschi Daniel Cohn-Bendit.
Papandreou ha dovuto pagare pegno anche a Sarkozy. Durante una visita a Parigi nel maggio scorso ha firmato un accordo per la fornitura di 6 fregate e 15 elicotteri. Costo: 4 miliardi di euro. Più motovedette per 400 milioni di euro.
Alla fine la Merkel è riuscita a liberarsi di Papandreou, sostituito dal più docile Papademos. E i programmi militari ripartono: si progetta di acquisire 60 caccia intercettori. I budget sono subito lievitati. Per il 2012 la Grecia prevede una spesa militare superiore ai 7 miliardi di euro, il 18,2 per cento in più rispetto al 2011, il tre per cento del Pil. L'Italia è ferma a meno dello 0,9 per cento del Pil.
Siccome i pagamenti sono diluiti negli anni, se la Grecia fallisce, addio soldi. Ma un portavoce della Merkel è sicuro che «il governo Papademos rispetterà gli impegni». Chissà se li rispetterà anche il Portogallo, altro Paese con l'acqua alla gola e al quale Germania e Francia stanno imponendo la stessa ricetta: acquisto di armi in cambio di aiuti.
I produttori di armamenti hanno bisogno del forte sostegno dei governi dei propri Paesi per vendere la loro merce. E i governi fanno pressione sui possibili acquirenti. Così nel mondo le spese militari crescono paurosamente: nel 2011 hanno raggiunto i 1800 miliardi di dollari, il 50 per cento in più rispetto al 2001.

l’Unità 14.2.12
Xi, futuro leader, sbarca negli Usa ma a Pechino è lotta per il potere
Il vicepresidente, accreditato alla successione di Hu Jintao in ottobre, oggi ricevuto da Obama
Il colloquio preceduto da un ping-pong di dichiarazioni e dallo «strano caso» del superpoliziotto Wang
di Gabriel Bertinetto


A colloquio con Barack Obama alla Casa Bianca. Per Xi Jinping, numero due della gerarchia politica cinese, l’odierna visita ufficiale alla «Scala» del potere mondiale, ha il valore di una solenne anteprima. Una sorta di consacrazione preventiva come futuro leader della superpotenza asiatica, principale rivale degli Usa nella contesa per l’egemonia mondiale. Xi Jinping, che il prossimo congresso del partito comunista sceglierà come successore di Hu Jintao in ottobre, si fa precedere da rinnovate profferte di amicizia soprattutto sul terreno accidentato delle relazioni economiche, dove Pechino subisce le costanti lamentele e critiche statunitensi. «Abbiamo adottato misure concrete per fare fronte alle legittime preoccupazioni americane sulla tutela dei diritti di proprietà intellettuale e sugli squilibri commerciali. Continueremo a portare avanti la riforma del meccanismo di formazione dei tassi di cambio del renminbi e a offrire agli investitori stranieri un ambiente trasparente e rispettoso delle regole», afferma il vicepresidene. Si riferisce all’accusa di tenere artificialmente basso il valore del renminbi, la moneta cinese, per favorire l’export. Concorrenza sleale, secondo Washington.
Ma Xi è solo in parte conciliante. Della serie anche noi abbiamo le nostre rivendicazioni: «Auspichiamo che gli Stati Uniti adottino misure concrete per allentare i limiti alle esportazioni di alta tecnologia in Cina e per garantire che le nostre imprese giochino alla pari negli investimenti in Usa». Ancora meno dialogante il tono delle sue osservazioni in materia militare. Pechino protesta per le forniture d’armi americane a Taiwan. E guarda con sospetto ai piani Usa per una più estesa presenza militare nella zona Asia-Pacifico.
Xi parla come fosse ormai lui il capo della Repubblica popolare. Ma recenti avvenimenti in patria fanno sorgere interrogativi sulla solidità della sua leadership. Dall’ultima riunione plenaria del Comitato Centrale, in autunno, i sinologi non hanno ricavato indicazioni chiare sugli sviluppi della lotta per la supremazia nel partito. Gli osservatori concordano nell’individuare due tendenze principali, che si distinguono soprattutto per la maggiore o minore enfasi sul ruolo dello Stato nell’economia.
È curioso che né il futuro presidente Xi Jinping, né il futuro primo ministro Li Keqiang, siano accreditati come capofila delle due correnti, come era invece negli anni passati quando il capo di Stato Hu Jintao impersonava l’orientamento prudente verso le aperture al mercato e il premier Wen Jiabao, all’opposto, dava voce a chi sollecitava un’accelerazione delle riforme.
L’uno e l’altro in ottobre usciranno di scena assieme ad altri 5 membri del Comitato permanente del Polituburo. Gli unici che continueranno a farne parte sono Xi Jinping e Li Keqiang. Ma in Cina molti credono che non siano loro a pilotare i giochi politici. Le figure chiave sarebbero altre due, ciascuna avendo alle spalle un sostegno costruito a livello regionale piuttosto che a Pechino.
Si chiamano Bo Xilai e Wang Yang, rispettivamente segretari del Pc a Chongqing e Canton. Due figure agli antipodi. Bo ha governato Chongqing all’insegna del dirigismo centralista, supportato da un revival ideologico marxista e maoista. Wang Yang ha costruito la sua fortuna politica cavalcando il boom produttivo, commerciale e tecnologico di Canton e del sudest della Cina.
Da che parte sta Xi Jinping? Fino a qualche settimana fa i più pensavano che si appoggiasse a Bo Xilai, per la comune appartenenza alla categoria dei «figli d’arte», i rampolli delle famiglie protagoniste della rivoluzione, una sorta di lobby che attraversa le varie anime del partito.
Ma qualcosa di misterioso è accaduto a Chongqing recentemente con il siluramento del superpoliziotto e braccio destro di Bo Xilai, Wang Lijun, protagonista della campagna contro la corruzione che aveva rafforzato straordinariamente l’immagine di Bo. Qualcuno sospetta che la rovina di Wang Lijun (che ha anche tentato di chiedere asilo politico in Usa) sia una macchinazione per colpire Bo Xilai. Uno che faceva ombra a molti. Forse anche a Xi Jingpin.

La Stampa 14.2.12
La Cina del futuro si presenta a Obama
Per il nuovo leader incontro clou alla Casa Bianca Con un messaggio: “Nel Pacifico c’è posto per due”
di Ilaria Maria Sala


Moglie artista. Peng Liyuan, popolarissima, canta nella troupe dell’esercito con il grado di generale
Papà rivoluzionario: Il padre era al fianco di Mao ed è stato il primo a mettere in pratica le riforme di Deng
Percorsi identici. Si è laureato in ingegneria nella stessa Università dall’attuale numero 1, Hu Jintao
Aperture al nazionalismo. Ha mandato la figlia a studiare ad Harvard, ma sa solleticare l’orgoglio patriottico cinese

Crescita e lotta alla corruzione Xi Jinping (sopra durante il viaggio negli Stati Uniti) ha scalato dal basso tutti i gradini del Partito comunista cinese. Si è distinto via via per l’apertura al mondo degli affari poi per l’accento sulla lotta alla corruzione e sull’attenzione per le fasce più deboli della società negli ultimi anni del governo dell’attuale presidente Hu Jintao
Mentre la sfida elettorale americana terrà sulle spine fino all’ultimo, la Cina non offre tali incertezze: alla fine dell’anno l’attuale leadership si ritirerà, dopo aver terminato due mandati quinquennali, e lascerà spazio a una nuova generazione di leader, praticamente già scelti. Tutto sembra infatti predisposto a celebrare l’arrivo di Xi Jinping alla testa del governo cinese, al posto dell’attuale presidente e segretario del partito comunista Hu Jintao, mentre il primo ministro Wen Jiabao sarà sostituito, con ogni probabilità, da Li Keqiang. Entrambi questi «volti nuovi» sono sulla scena politica cinese già da diversi anni, pur avendo fatto una virtù della discrezione.
Per uscire dal cono d’ombra, Xi Jinping ha cominciato ieri, negli Stati Uniti, un lungo viaggio in Occidente che lo porterà anche in Irlanda e Turchia, fino al 22 febbraio. Per Xi oggi è previsto un incontro con il presidente Obama: finora, a parte un ruolo di spicco come supervisore delle Olimpiadi di Pechino del 2008, e come responsabile degli Affari di Hong Kong e Macao, si era mantenuto in disparte. Le premesse sono distensive: «Nel vasto oceano Pacifico vi è ampio spazio per la Cina e gli Stati Uniti», ha detto ieri in un’intervista al Washington Post.
Nato nel 1953, a Fuping, nello Shaanxi (Cina centrale), Xi è entrato a far parte del partito comunista cinese a diciannove anni, ha studiato ingegneria nella prestigiosa università Tsinghua di Pechino, come Hu Jintao. La sua carriera stellare, però, è priva di momenti esaltanti, di grandi azioni rivoluzionarie: è l’uomo del consenso fra le diverse fazioni del Partito, ha fatto la gavetta nel Partito e ne ha scalato i ranghi uno a uno. Si è contraddistinto ora per la lotta alla corruzione, ora per l’apertura verso il mondo degli affari, ora per l’attenzione nei confronti degli anziani e delle persone meno avvantaggiate: cioè, quello che gli apparati di informazione ufficiali lasciano trasparire al suo riguardo sono proprio le virtù più stimate dal sistema di Partito. No alla corruzione, sì all’economia, tutto d’un pezzo nel seguire la disciplina imposta dall’alto, ma con un tocco umano – scarno passaporto con cui si presenta uno dei prossimi uomini più potenti del pianeta.
Fino ad alcuni anni fa, Xi Jinping era probabilmente più famoso in quanto «figlio di» e «marito di»: è infatti quello che si chiama, in Cina, un «principino», per avere come padre Xi Zhongxun, leader rivoluzionario della prima ora che ebbe il merito di essere il governatore del Guangdong quando vennero avviate le riforme economiche, partite proprio dalla regione meridionale. Ma per molti telespettatori, Xi Jinping è il marito di Peng Liyuan, cantante della troupe artistica dell’Esercito di liberazione del popolo, con grado di generale. Dai tempi di Jiang Qing, la Signora Mao, a cui sono oggi attribuite molte responsabilità per le violenze della Rivoluzione Culturale, non si aveva un Presidente con una moglie così vistosa, proveniente dal mondo dello spettacolo. Ma se il talento di Jiang Qing non era gran cosa, quasi tutti hanno visto Peng Liyuan cantare, in particolare ai gran Galà di Capodanno della televisione cinese. Da quando Xi si appresta a raggiungere l’apice del potere, però, la bella Peng ha dovuto rinunciare alla carriera. I due hanno una figlia, Xi Mingze, di venti anni, che sta studiando ad Harvard sotto uno pseudonimo.
Amico dell’Occidente, dunque, Xi Jinping? Non proprio: con un dottorato in teoria marxista e una passione dichiarata per i film di Hollywood, Xi sembra incarnare come pochi il nodo di contraddizioni rappresentato dalle relazioni della Cina con il resto del mondo. Non va dimenticata infatti la famosa sfuriata di Xi contro «alcuni stranieri», colpevoli di «avere lo stomaco pieno e nient’altro da fare che puntare il dito contro la Cina».
Chi lo conosce, però, fino a qualche anno fa lo descriveva come un possibile riformatore, se non altro per aver trascorso tutta la sua vita adulta nella Cina delle riforme. Ora che si appresta a divenire segretario di Partito, e poi Presidente, ciò che sembra emergere è un uomo aperto a ulteriori riforme economiche ma non politiche, capace di muoversi in pubblico con maggior scioltezza del suo predecessore, di carattere e sicuro di sé, ma non per questo più trasparente. Il resto del mondo può solo dargli il benvenuto, augurandosi buone relazioni.

La Stampa 14.2.12
E l’Ue si mette in vendita a Pechino
Missione commerciale in Cina. Con quali obiettivi?


Alle 8,11 di ieri mattina Herman Van Rompuy ha twittato per dire che il viaggio era andato bene. «Arrivato a Pechino per il 14˚ vertice Europa-Cina», ha scritto il presidente dell’Ue senza sfruttare tutti i 140 caratteri a disposizione. Più tardi, col presidente della Commissione Ue José Manuel Barroso, ha diffuso una nota per esprimere la gioia di vedere il presidente Hu Jintao. Anche i meno attenti hanno notato l’assenza di riferimenti all’irritante veto cinese sulla Siria, alla disputa rognosa sull’effetto serra, alle polemiche sul Tibet, alle contraffazioni e al dumping. «Le relazioni sono ben collaudate, il nostro comune desiderio è di migliorarle», ha detto il portoghese. Chi accusa l’Europa di prodursi solo in inchini quando incrocia gli emissari dell’ex celeste impero rischia di perdere ancora le staffe. L’usuale cautela politica è amplificata dalla crisi, dal desiderio che i ricchi cinesi si muovano per toglierci dalle secche dei troppi debiti sovrani. Il vertice di oggi rischia di non fare eccezione. Sorrisi, promesse, probabile nulla di fatto. Dal 2007 Bruxelles e Pechino negoziano un «partenariato strategico e di cooperazione». Questione importante e delicata, visto che a fine anno la Cina supererà gli Usa quale primo interlocutore commerciale dell’Ue. È come andare a letto col nemico. Gli abbiamo venduto 112 miliardi di merci nei primi dieci mesi del 2011, il 21% in più dell’anno precedente. Abbiamo comprato per 244 (+5%), mentre gli investimenti diretti superavano i 7 miliardi solo nel 2010. Il premier Wen Jiabao ha assicurato «che non intende comprare l’Europa». In realtà ogni giorno un pezzo passa di mano. L’ultimo è il 21% dell’energia portoghese. Due anni fa, a Bruxelles, gli europei hanno accettato che Pechino facesse saltare la conferenza stampa del dopo vertice perché alcuni giornalisti cinesi non graditi erano stati accreditati. Come coi russi, in genere una bella frase sui diritti umani la mettono sempre. Poi, però, tutti a casa soddisfatti, anche se a Damasco come Lhasa la libertà è frutto raro, lasciando la sensazione che a tenere il boccino non siano mai i nostri. (Marco Zatterin)

Corriere della Sera 14.2.12
Xi «l'americano» alla Casa Bianca
Sul tavolo commercio, diritti umani, Siria
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Dieci anni fa Hu Jintao, un grigio burocrate salito al vertice del Partito comunista cinese, arrivò a Washington, accolto con garbo dal presidente George Bush per una visita preliminare — un po' «rodaggio», un po' investitura informale — prima di assumere la guida del grande Paese asiatico.
Quel rito si ripete oggi con la visita negli Usa di Xi Jinping: il vicepresidente considerato da tutti gli esperti l'erede designato a succedere a Hu che a fine anno completerà il suo mandato presidenziale. Due eventi solo apparentemente simili: il percorso diplomatico è lo stesso, ma i due personaggi e i rapporti Usa-Cina maturati negli ultimi anni sono radicalmente diversi.
A differenza di Hu — uomo di apparato che ha anche tentato qualche timida riforma, ma si è sempre mosso con grande prudenza e ha tenuto a una certa distanza i leader stranieri coi quali ha dialogato — Xi è un leader estroverso che ama coltivare amicizie internazionali e che conosce bene l'America. Anche la sua storia personale e professionale è diversissima da quella di Hu. Figlio di un alto dirigente del Pcc epurato, Xi — per sfuggire al destino del padre — si costruì una carriera extra politica: laurea in chimica, poi ingegnere esperto di biocarburanti.
La sua ascesa nel Partito è relativamente recente (il padre è stato tardivamente riabilitato). Sposato con una celebre cantante, amico di manager e banchieri americani e con una figlia che studia ad Harvard, il vicepresidente cinese sembra deciso a costruirsi negli Usa l'immagine di un leader aperto e affabile: dopo Washington e prima della visita in California, andrà a Muscatine, un villaggio dell'Iowa da lui visitato nel 1985 durante una missione di studio dedicata alle tecnologie agricole, a trovare la famiglia che lo ospitò nella sua casa: «Uomo molto affabile, gentile e curioso che dormì volentieri nella camera dei ragazzi, appena partiti per il college, tappezzata di poster di Star Trek», lo ricorda la padrona di casa, Eleanor Dvorchak.
Xi sarà cordialissimo anche stavolta e ostenterà familiarità con l'America (vuole anche assistere a una partita di basket della Nba). Anche il vicepresidente Joe Biden, che avrà con lui ben otto incontri e lo accompagnerà per tutta la visita, sarà cordiale, così come affabile si mostrerà stamani Barack Obama nell'incontro alla Casa Bianca.
Ma, anche se tutti hanno una gran voglia di collaborare e se gli americani sognano un «reset» delle relazioni Washington-Pechino con un leader che li comprende meglio, la realtà è che negli ultimi anni il terreno dei rapporti tra i due Paesi si è fatto molto accidentato tanto sul piano economico quanto su quello politico-militare.
Oggi Obama, dopo i sorrisi, dovrà porre sul tavolo le questioni dei diritti umani violati, della repressione in Tibet, del veto di Pechino alla risoluzione sulla Siria votata la settimana scorsa dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Quanto all'economia, l'America che si sta lentamente riprendendo dalla recessione ha crescenti tentazioni protezioniste. Per bloccare le pressioni del Congresso che vanno in questa direzione, il presidente incalzerà il prossimo leader cinese sul commercio. Del resto Obama l'ha già detto chiaramente, pochi giorni fa, nel messaggio sullo Stato dell'Unione: «Non starò con le mani in mano davanti a concorrenti che violano le regole. Abbiamo già raddoppiato i procedimenti per le infrazioni della Cina, ma dobbiamo fare di più. Non tollereremo la pirateria commerciale né la concorrenza di produttori che prevalgono sulle nostre industrie grazie alle sovvenzioni».
Certo, per ora sono parole e anche Bush, a fine mandato, aveva alzato la voce. Senza conseguenze. Pechino, poi, è il maggiore creditore del Tesoro Usa. Ma Obama ormai sa che la minaccia cinese di investire altrove è poco credibile (non esiste un «altrove» abbastanza vasto e più sicuro). E poi il presidente è incalzato dai candidati repubblicani alla Casa Bianca che chiedono più durezza verso Pechino: il «moderato» Mitt Romney parla, ad esempio, dei cinesi come di ladri di posti di lavoro Usa e definisce «una barbarie» la politica demografica che impone alle famiglie il figlio unico.
Xi probabilmente sarà più aperto ai cambiamenti del suo predecessore, ma anche lui camminerà su un sentiero molto stretto: il boom cinese sta finendo e quindi, a differenza di Hu che ha governato in un periodo di grande crescita del benessere, dovrà fronteggiare problemi sociali e tensioni interne. Per lui, poi, ai vincoli del partito si aggiungeranno quelli di un esercito molto nazionalista che sta già proiettando l'espansionismo cinese nei mari orientali, con rivendicazioni territoriali di isole contese a Giappone, Vietnam e Corea. Militari potenti e allarmatissimi dal rafforzamento del dispositivo militare americano in Estremo Oriente, deciso da Obama a protezione dei suoi alleati. Tema che scotta, tanto che oggi Xi, tra un incontro con Obama, una visita ai leader repubblicani al Congresso e una cena con Biden, andrà anche al Pentagono a incontrare il ministro della Difesa Leon Panetta e i capi di Stato maggiore.

Corriere della Sera 14.2.12
Pechino: «Niente acquisti di titoli di Stato in Italia e Spagna»
di Marco Del Corona


PECHINO — In fondo è già una buona notizia che il vertice tra Europa e Cina si tenga. Fissato lo scorso 25 ottobre a Tianjin, il summit era saltato, spazzato via dalle bufere politico-finanziarie. L'emergenza nel Vecchio continente è tutt'altro che passata, ma oggi il premier Wen Jiabao incontrerà a Pechino il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, e il presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy.
Si lavorerà sulla fiducia, la Ue cercherà di strappare un sostegno più concreto di quello promesso da Wen ad Angela Merkel all'inizio del mese, mentre la Cina sonderà l'affidabilità di partner a molte teste che fatica a decifrare compiutamente.
Ci sono stati vertici più semplici. Nel novembre 2009 a Nanchino — ultimo vertice in Cina — si almanaccava su G2 ed equilibri multipolari. Un'altra era. Adesso, ancora prima del via, agita le acque Lou Jiwei, il presidente della Cic, il fondo sovrano da 410 miliardi di dollari. «Per quanto riguarda bond governativi europei come quelli di Italia e Spagna — ha dichiarato durante un forum economico — solo banche centrali con certe responsabilità possono permettersi di investirvi. Ma per investitori a lungo termine come noi è più difficile…».
Nella sostanza, niente di nuovissimo: per la Cic, come ha aggiunto Lou, «le opportunità di investimento stanno nelle infrastrutture e in progetti industriali», come dimostra la recente acquisizione di una quota di minoranza dell'azienda idrica di Londra, e comunque sono tutti «progetti che aiutano la ripresa economica».
I titoli di Stato e i fondi nati per salvarli, gli Stati, sembrano continuare a non comparire nel radar della China Investment Corporation.
Per ora non esistono date o cifre certe relative a un intervento di Pechino nell'Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria, né nel Meccanismo europeo di stabilità (Esm), che sarà operativo da luglio. La Cina, ha ribadito ieri un portavoce del ministero degli Esteri, è «inquieta» perché «la questione del debito è giunta a una stretta cruciale». A fronte della crisi, la Repubblica popolare «ha sempre sostenuto le misure attive prese dall'Europa. Crediamo che, oltre alle iniziative dettate dall'emergenza, la Ue debba però continuare con riforme fiscali e finanziarie strutturali per dare un segnale più chiaro alla comunità internazionale».
Pechino forse si aspetta qualcosa di più perentorio delle rassicurazioni rituali di van Rompuy, affidate ieri alla prima pagina del China Daily: «I membri dell'eurozona stanno risolvendo la crisi del debito. La moneta comune è parte del Dna dell'Europa».
A lenire le angosce dei Paesi della Ue, bisognosi di Pechino e al contempo sospettosi, è intervenuto il Quotidiano del Popolo, il giornale del Partito, che in un commento sull'edizione internazionale ha ricordato come Pechino abbia «fin dall'inizio sostenuto con forza la Ue e l'euro» e ha garantito: «La Cina non ha la voglia né l'abilità di "comprarsi l'Europa" o di "controllare l'Europa", come invece hanno argomentato alcuni commentatori europei».

Repubblica 14.2.12
Parla la scrittrice iraniana Farzaneh Milani: "In Occidente strane idee sull’Islam"
"Ci sono troppi pregiudizi il Corano incoraggia l’eros"
di Alessandra Baduel


«In Occidente avete sempre una strana idea del mondo musulmano. L´Islam non proibisce il sesso, anzi lo considera un diritto». La scrittrice e studiosa iraniana di genere Farzaneh Milani insegna Donne e Islam all´università della Virginia e sta per pubblicare l´edizione francese del suo ultimo libro sulle iraniane, Les mots sont mes armes, le parole sono le mie armi.
Cosa pensa dell´immagine delle musulmane in Occidente?
«Sono due: una è la musulmana a cui la sessualità è proibita. L´altra è l´odalisca che agogna il sesso, esperta e disponibile. Ma c´è una terza immagine: la realtà di un Islam che incoraggia il sesso. Certo ponendo dei parametri entro cui è concesso, ma senza concepire il peccato originale di Adamo ed Eva».
Cos´è la sessualità, secondo l´Islam?
«Un diritto per uomini e donne. Per l´Islam, se una donna può provare che il marito non la soddisfa sessualmente, ha diritto al divorzio».
Cosa pensa delle giovani musulmane americane di seconda o terza generazione?
«Che ce ne sono di tutti i tipi e totalmente integrate».

Repubblica 14.2.12
Il sesso sotto il velo gli amori segreti delle musulmane cresciute in America
di Angelo Aquaro


San Valentino non figura tra i profeti dell´Islam ma Nura Maznavi e Ayesha Mattu hanno scelto proprio il 14 febbraio per fare strage dei pregiudizi che circondano le musulmane e il sesso con un libro.
Prendete la storia di Najva Sol. Aveva 15 anni la prima volta che fece sesso scoprendo quel mondo che i genitori le avevano oscurato. Ogni divieto produce una reazione opposta e Najva naufragò in un mare di sesso, alcol e bugie. Finché non andò al college, cominciò a studiare, prese coscienza, s´innamorò della letteratura e cominciò a sperimentare con la scrittura. E qualcos´altro: tuffandosi in una tumultuosa relazione con la sua compagna di stanza. Aveva 21 anni quando prese il coraggio di affrontare quei genitori, iraniani immigrati, che non avrebbero certamente trovato il coraggio di perdonarla. E invece, ricorda Najva, che per quella confessione aveva scelto il campo neutro di un chiassoso caffè, quelli sapevano già tutto: o quantomeno sospettavano. Per la sorpresa, stavolta, della ragazza: «Droghe, ubriacature, sesso tra ragazzi e ragazze: magari sarà normale per gli standard dell´America che guarda Mtv - racconta la ragazza al Washington Post - ma non per una famiglia iraniana che non aveva voluto neppure mettere la tv nel salotto».
Se c´è una parola che unisce le 25 storie raccolte, come quella di Najva, in questo Love, InshAllah, cioè "L´amore, grazie a Dio", forse è proprio contraddizione. Venti storie su 25 sono raccontate con tanto di nome e cognome vero: un atto di coraggio. Le cronache di questi giorni sono ancora piene dei riflessi di un fattaccio d´oltrefrontiera, le figlie e la moglie trucidate in Canada, con l´aiuto del figlio maschio, da un immigrato afgano che non tollerava che le ragazze vedessero gli amici occidentali: un caso-Hina, la povera pachistana trucidata a Brescia, anche al qua dell´Atlantico.
«In America la parola musulmano porta subito in mente politica e sicurezza nazionale», ricorda Ayesha Mattu, che lavora nei diritti umani. «Con questo libro volevamo far capire che sotto il burqa c´è di più». Dice l´altra curatrice, Nura Maznavi, anche lei avvocato specializzata nei diritti civili: «Le donne musulmane vengono viste o come danzatrici del ventre, ridotte a corpi sotto controllo celate dietro alle vesti neri, senza desideri, tantomeno di sesso. La verità è che come tutte le donne anche noi soffriamo per amore». Un cammino contorto come quello di tutte le ragazze e i ragazzi di ogni latitudine. Di fronte ai divieti del papà iraniano l´irrequieta Najva fu sorpresa quattordicenne davanti al computer a compulsare siti porno: «Ma io ero solo curiosa di vedere come siamo fatti».
Love, InshAllah racconta finalmente quello che le donne (islamiche) non dicono. Ed è solo l´ultimo arrivato in una sfilza di libri che negli ultimi anni hanno contribuito a sollevare appunto il velo sui pregiudizi, nostri e loro, su Islam e sesso: dallo scandaloso La mandorla, il romanzo che sotto il nome d´arte di Nedjma fu identificato come "I racconti della vagina" musulmani, fino a quell´American Dervish con cui Ayad Akhtar racconta oggi l´educazione sentimentale di un musulmano (e di riflesso varie musulmane) cresciuto negli Usa. Ma quelli sono romanzi. La raccolta di Nura e Ayesha è invece piena di storie vere. Anche se per il nostro pregiudizio incredibili. Quando Najva trovò il coraggio di raccontare ai genitori che cosa aveva combinato sessualmente, concluse col cuore in mano: posso continuare a essere per voi una brava figlia, una brava persona e una brava lesbica? E i genitori più severi del mondo - per Amore, grazie a Dio - risposero di sì.

Corriere della Sera 14.2.12
Matteotti, il delitto e la beffa
A rischio le carte del legale che denunciò il processo farsa
di Paolo Fallai


PESCARA — Questa storia ne contiene due. Comincia da una calligrafia dolorosa: le lettere sono alte e strette come a precipitare il più presto possibile verso la fine. È il 29 marzo 1926. Velia Matteotti è la vedova del deputato socialista assassinato dai fascisti il 10 giugno 1924. Si è appena concluso a Chieti, dove è stato spostato per allontanarlo da Roma, il processo farsa ad alcuni degli assassini. Un processo a cui Velia non ha voluto partecipare, ritirando la costituzione di parte civile. Scrive «ora che il procedimento è chiuso» per chiedere la restituzione di «tutto ciò che appartiene al suo defunto marito». E in particolare di «una falangetta» che «il rispetto mai negato alla pietà famigliare impone di consegnare alla famiglia del defunto e a questa sola». Ma il triste elenco prosegue: la tessera ferroviaria, una ciocca di capelli, giacca e pantaloni «compresa la manica strappata». «E se nulla lo vieta — prosegue la vedova Matteotti — si chiede che sia consegnata alla sottoscritta anche la lima rinvenuta nella fossa della Quartarella».
È una semplice lima da cantiere, trovata il 16 agosto 1924 accanto al cadavere malamente sepolto nelle campagne vicino a Roma e ritenuta, almeno in quel momento, l'arma del delitto. Ma Velia Matteotti queste richieste non sa a chi rivolgerle. La lettera è infatti inviata all'avvocato Pasquale Galliano Magno di Chieti, che l'ha assistita dopo il trasferimento del processo, con la preghiera di inoltrarla a chi può decidere. Il legale lo farà, ma nessuna delle richieste di Velia sarà accolta. Dispersa la «falangetta», piccola testimonianza muta di un corpo smembrato da un assassinio feroce; scomparsa la ciocca di capelli, tagliata il giorno del ritrovamento proprio per farla avere alla vedova. La lima sarà addirittura battuta all'asta e comprata per «due lire» da uno squadrista, Francesco Grifi, quale trofeo per aver comandato la milizia che aveva prestato servizio durante il processo di Chieti.
La lettera di Velia Matteotti era nota. Non si sapeva che l'originale si trovava in una piccola cartelletta consunta, con l'intestazione «Processo Matteotti», nello studio pescarese dell'avvocato Magno. Il legale è scomparso nel 1974. Ma quella cartella è riemersa pochi mesi fa, quando il figlio Carlo e la nuora dell'avvocato Magno, Marina Campana, hanno dovuto trasferire lo studio, l'archivio e una bella biblioteca di oltre cinquemila volumi, molti dei quali preziosi.
E qui comincia la seconda storia, quella di un avvocato antifascista che, tra la fine del 1925 e l'inizio del 1926, accetta di patrocinare Velia Matteotti e di subirne tutte le conseguenze. Abitava a palazzo Tella, a Chieti, l'avvocato Galliano Magno e non aveva mai nascosto la sua opposizione alla brutalità del fascismo. Quando l'avvocato Emanuele Modigliani, compagno di partito di Matteotti, gli chiese di assistere Velia nel processo a Chieti, non ebbe esitazioni. E nel ritiro della parte civile non si nascose dietro le parole: «Questo è un processo burla» disse alla Corte che avrebbe inflitto pene ridicole solo ad Amerigo Dumini, Albino Volpi e Amleto Poveromo, scarcerandoli subito dopo. D'altronde gli imputati di quel processo era stati osannati al loro arrivo a Chieti come «eroi del fascismo» e i giurati erano stati scelti con cura tra i fascisti più affidabili.
Per l'avvocato Magno fu l'inizio di un calvario durato quindici anni. Innumerevoli le perquisizioni nel suo studio, i sequestri degli atti, tanto che nella cartelletta compaiono numerosi fogli scritti in cifra. Non sono stati decodificati, ma appare credibile che si tratti di appunti presi con un codice per tenerli riservati. Non basta: per l'avvocato cominciano una serie di agguati, percosse, cure «all'olio di ricino» e umiliazioni che lo costringeranno a svendere il palazzo di Chieti e a trasferirsi a Pescara, dove continuerà a lavorare in uno studio dove altri avvocati firmano gli atti che lui cura. Le ferite sono tali che fino alla fine della sua vita avrà problemi di vista e di deambulazione a causa delle percosse. Non accettò denaro e Velia Matteotti gli regalò la stilografica di suo marito, che il figlio custodisce ancora oggi con devozione. E parole di grande affetto: «Colgo l'occasione di ringraziarla per ciò che ella ha fatto in questo doloroso frangente, convinta che le venga resa tanta stima e considerazione da tutti coloro che ancora hanno e possono apprezzare la bontà d'animo e la dirittura della coscienza». La persecuzione nei confronti di Pasquale Galliano Magno non sarà mai interrotta. Presidente del Comitato di liberazione nazionale, viceprefetto politico per volontà degli Alleati, scoprirà un dossier a suo nome della polizia fascista, che aveva continuato a spiarlo fino a guerra inoltrata, con alcune annotazione al limite del ridicolo: «Impossibile verificare l'ascolto di Radio Londra perché gli alti strilli del figlio lo impedivano».
Incaricato delle epurazioni, non ne eseguì neanche una. Tanto che l'ex ministro fascista Giacomo Acerbo lo nominò tutore dei suoi beni. «Tutto questo — dice oggi la nuora Marina Campana — dovrebbe interessare una comunità che non voglia disperdere la memoria di uomini che non si sono piegati, neanche di fronte alla violenza». «I documenti del processo Matteotti — aggiunge Claudio Modena, storico, autore di un volume su Matteotti, riformismo e antifascismo (Ediesse) — hanno sicuramente un interesse storico e la loro sede naturale sarebbe la Casa Museo di Fratta Polesine, paese natale di Matteotti. L'auspicio è che il fascicolo e la penna donata da Velia fossero donati alla Casa magari richiamando con una targa l'azione legale e politica dell'avvocato Magno».
Ma Marina Campana è delusa e vuole vendere documenti e libri «a chi sappia averne cura»: «La mia famiglia ha donato una collezione di conchiglie del valore di 300 mila euro alla Fondazione Aurum di Pescara e ora sono chiuse in una cassa in fondo a un magazzino. Se questi documenti e questi libri finiscono una cantina andranno a marcire. Il ministero per i Beni culturali mi ha indirizzato a un ufficio che non esiste. A Pescara nessuno si è mosso. Il mio interesse è che i sacrifici di questi uomini non siano dimenticati. Ma le cose donate a chi non ha cultura sono senza valore».

Repubblica 14.2.12
Esce un’edizione dell’opera del filosofo tedesco. Che aiuta a capire l’arte di oggi
Studiare l´estetica rileggendo Hegel
Queste lezioni spaziano dall´amore a Shakespeare alla letteratura Non sono mai oscure e come diceva Gombrich vanno consultate dagli storici come la Bibbia
di Antonio Gnoli


Negli stessi giorni in cui Hegel tiene a Berlino le sue lezioni di estetica, in un´aula accanto Schopenhauer mette in guardia i pochi studenti che lo seguono sui nefasti influssi della filosofia hegeliana. È il 1820. Sebbene entrambi insegnino nella prestigiosa università tedesca, solo la fama di Hegel brilla incontrastata. Ha da poco pubblicato I lineamenti della filosofia del diritto. Un´opera in cui la complessa analisi sullo Stato e la società civile, la loro giustificazione in una visione organica, fa da sfondo a una concezione della filosofia politica che ha diviso i suoi eredi tra destra e sinistra. Non si capisce bene se Hegel sia un reazionario, come vorrebbe la tradizione marxista. Oppure un liberale, come ritiene chi vede in lui il sottile interprete dei bisogni cresciuti con l´età della borghesia. In ogni caso l´arte non è estranea neppure alla politica, alle sue visioni del mondo.
Davanti a un uditorio affollato pontifica sui suoi destini. Ha alle spalle le figure putative di Winckelmann e Schiller. Non dice cose nuove. Ma le dice con grande autorità. Le sistema in un programma filosofico grandioso. Sostiene che l´arte, come del resto la religione e la filosofia, fanno parte di un movimento destinato ad approdare allo Spirito assoluto (che pure le precede). Sembrano giochi di prestigio. Ma non è così.
Alle lezioni dei primi anni Venti c´è chi prende appunti. Uno in particolare sembra dotato di grande tenacia. Si chiama Heinrich Gustav Hotho. Pende dalle labbra del maestro e annota tutto. A lui si deve questa edizione di Estetica (egregiamente curata da Francesco Valagussa), pubblicata da Bompiani. Si tratta di un´opera immensa. Diceva Gombrich che lo storico dell´arte deve studiare Hegel come lo studioso dell´arte ecclesiastica medievale fa con la Bibbia. Effettivamente, chiunque intenda misurarsi con le grandi questioni inerenti all´arte non può prescindere da questo testo. Come del resto non potrebbe fare a meno dalla Critica del giudizio di Kant.
L´Estetica di Hegel è in ogni caso più discorsiva dell´opera di Kant. Una volta afferrato il congegno che la regola – diciamo il movimento ascendente e conciliativo – non è difficile inoltrarsi nelle tremila pagine che la compongono. Si capisce che Hegel ha letto tutto, conosce ogni dettaglio delle cose di cui si occupa. Dal mondo egizio – pieno di risorse simboliche – a quello romantico che non ama affatto. E dentro questa straordinaria cavalcata ci sono pagine godibilissime dedicate al tema dell´onore e dell´amore, a Shakespeare e a Cervantes. Come pure scopriamo che è un acuto interprete della letteratura italiana. Gli anni di Berlino sono per il filosofo il trionfo, non solo dello spirito ma anche della carne. È mondano: va a teatro e all´opera, viaggia per mezza Europa. Frequenta belle donne e belle menti. L´unica cosa che non tollera sono le rivoluzioni. L´Europa (ma siamo già nel 1830) è attraversata da tumulti e rivolte liberali che egli stigmatizza, in perfetto stile prussiano.
Ma torniamo all´Estetica, la cui fama si lega a un concetto ambiguo che Hegel espresse e non espresse. Quello della "morte dell´arte". La cosa ci riguarda troppo da vicino per non sapere cosa intendesse con il gioco di negazione e conservazione: l´arte – che contiene in sé il suo superamento – si invera nello Spirito Assoluto. Quello stesso Spirito che nelle ultime pagine dell´Estetica frequenta i bassifondi del comico. Non è trascurabile che un tale monumento all´estetica e alle sue visioni del mondo, si concluda con la commedia, cioè con il genere che porta alla dissoluzione dell´arte in generale. Certo, per Hegel l´arte riguarda soprattutto il passato. È la condizione affinché essa si superi e si realizzi in qualcos´altro. E tuttavia la dissacrante forza del comico, in grado di demolire il fondamento, rende la chiusa hegeliana una situazione molto prossima al nostro stato d´animo. A ciò che il Novecento ha conosciuto come impossibile ritorno alla metafisica.

Repubblica 14.2.12
Il manifesto del professor Andrea Segrè che unisce modelli diversi
Tra Camus e Latouche l’economia del "Sufficiente"
di Aldo Carotenuto


Quando un giorno la Terra sarà troppo piccola per tutti, allora sì che ce ne accorgeremo. Ci spareremo addosso per la sopravvivenza dopo averlo fatto per il petrolio, per l´acqua e per l´uranio. Lo faremo per il suolo e il sottosuolo, per il cibo e i serbatoi delle macchine. Andrea Segrè, economista triestino e preside della facoltà di Agraria all´Università di Bologna, immagina come sarà l´apocalisse del mondo occidentale, schiavo della triade crescita-consumo-debito. Lo fa nel suo Basta il giusto (quanto e quando) (Altreconomia), un libretto sottile costruito come una lettera a uno studente universitario diciottenne. Quando un giorno la Terra sarà troppo piccola per tutti, sarà pure troppo tardi. Perciò bisogna agire adesso, e una strada per Segrè esiste già. Sarà l´ossimoro a salvare il mondo, a garantire ancora un futuro. La strada delle contraddizioni apparenti condurrà "lentamente, ma per davvero" a meno benessere e più ben vivere. A una società con un modello economico in grado di ridurre le diseguaglianze riducendo il possesso, votandosi alla cultura della sufficienza.
Segrè cita "la società diversamente ricca di Riccardo Lombardi, la povertà felice di Albert Camus, l´opulenza frugale di Serge Latouche". Le chiama visioni, non utopie, giacché se utopie fossero sarebbero "utopie concrete". L´elogio del limite e della vita responsabile passa dunque attraverso un mondo nuovo che rinneghi "la pervasiva cultura del consumo e del rifiuto che generano lo spreco di cui siamo circondati e sommersi". Se entro il 2030 il 48% dei maschi inglesi e il 43% delle donne sarà obeso; se il 40% della popolazione mondiale dispone di meno di 50 litri d´acqua al giorno mentre ogni italiano di 250; se un cittadino dell´India consuma 4 tonnellate annue fra minerali, carburanti fossili e biomasse contro le 40 dei Paesi industrializzati; allora servirà un pianeta di riserva che non c´è. L´utopia concreta e la strada dell´ossimoro possono invece cambiare i comportamenti di consumo. Segrè alla fine trova una formula per l´Homo Sufficiens: meno spreco, più ecologia. Il microcredito, la filiera corta, il commercio equo. "Non è un sacrificio, non è fare senza. Sapere che abbastanza è abbastanza significa aver sempre a sufficienza".

Repubblica 14.2.12
Ricchezza, diritti e famiglia gli italiani cittadini a metà
I modesti ascensori sociali disponibili un tempo sono spariti, riducendo le opportunità
di Chiara Saraceno


Anticipiamo un brano del nuovo saggio di Chiara Saraceno che affronta la mancata equità strutturale del nostro Paese

Il problema centrale della democrazia italiana non è tanto la forte disuguaglianza nei risultati, nei punti di arrivo, quanto il peso che hanno su questi ultimi, quindi sui destini individuali, le disuguaglianze socialmente strutturate nelle condizioni di partenza, nelle risorse – materiali, culturali, di riconoscimento – necessarie non solo per sviluppare appieno le proprie capacità, ma per fare in modo che queste vengano riconosciute. L´origine sociale, inclusa quella territoriale, infatti, nel nostro più che in altri Paesi democratici e sviluppati, condiziona fortemente, per utilizzare il linguaggio di Amartya Sen, le possibilità di scegliere il tipo di vita che si vuole vivere.
Le disuguaglianze sociali fondamentali sono di due tipi. Esse riguardano da un lato l´accesso alle risorse materiali, dall´altro il potere di influire sulle condizioni di vita proprie e altrui e di ottenere riconoscimento. Tutte e due concorrono a disegnare una stratificazione sociale delle chance di vita che poco dipende dalle caratteristiche individuali e molto invece dallo status sociale attribuito al gruppo cui si appartiene, e alla cui appartenenza si viene appiattiti: perché donne, immigrati, di religione non dominante o senza religione, di colore diverso, di orientamento sessuale non standard e così via. Quando queste disuguaglianze sono cristallizzate al punto da costituire un serio impedimento alla possibilità di singoli e gruppi di sviluppare progetti di vita che vadano al di là dei confini segnati dalle posizioni di partenza, e di provare a realizzarli, siamo di fronte a una democrazia bloccata e a una gerarchizzazione delle possibilità di cittadinanza, con cittadini di serie A e di serie B. Le ricerche degli psicologi sociali hanno mostrato che chi appartiene ai gruppi sociali più svantaggiati ha non solo progetti di vita più ridotti, ma un orizzonte temporale su cui proiettarli più breve di quello cui si riferiscono coloro che sono più fortunati.
Come sostiene l´antropologo Appadurai, la capacità di aspirare, ovvero di sperare in, e lavorare per, un futuro migliore, è la risorsa insieme più a rischio e più preziosa per chi è economicamente e socialmente deprivato. È una capacità individuale, le cui condizioni tuttavia sono socialmente strutturate. In Italia queste condizioni sono particolarmente ridotte in molte zone economicamente e socialmente arretrate del Mezzogiorno. Il susseguirsi di fallimenti dello sviluppo e il perdurare di un´assenza dello Stato a favore di logiche politiche clientelari hanno non solo impedito la riduzione della povertà e delle forti disuguaglianze, ma anche ridotto le capacità di sperare attivamente e realisticamente in un futuro migliore. (…)
Non è tuttavia solo la povertà a produrre destini bloccati e cittadinanze imperfette. Come ha documentato anche un rapporto Ocse, l´Italia è uno dei Paesi sviluppati in cui non solo la disuguaglianza economica è più elevata, ma l´origine familiare conta di più per le chance di vita individuali, in primis sul piano del reddito e della ricchezza. Anche a parità di titolo di studio, ovvero anche se genitori in condizioni economiche modeste investono, a prezzo di sacrifici, per portare i figli allo stesso titolo di studio di chi ha alle spalle genitori più abbienti, la ricchezza e la posizione sociale della famiglia d´origine sono i fattori decisivi per determinare il livello di reddito e ricchezza dei figli. Si tratta di un indicatore di una democrazia e una cittadinanza molto imperfette, nella misura in cui non realizzano la promessa di una corsa ad armi pari, senza handicap insuperabili. È la conseguenza dell´eccesso di affidamento alla redistribuzione intrafamiliare a fronte di una scarsa, oltre che squilibrata, redistribuzione sociale. Se l´intensità della redistribuzione intergenerazionale della disuguaglianza – di per sé un limite forte di ogni democrazia – non è un fenomeno nuovo, essa diventa insieme più drammatica e problematica per i destini individuali e per la stessa democrazia in un contesto, quale quello italiano attuale, caratterizzato da uno sviluppo bloccato. Anche i modesti «ascensori sociali» disponibili un tempo si sono ridotti se non sono spariti del tutto, riducendo le opportunità per le generazioni più giovani. E le politiche pubbliche sembrano accentuare ulteriormente le responsabilità di solidarietà familiare. (…)
La mancanza di riconoscimento pieno e di accesso a tutti i percorsi e chance di vita è stata storicamente l´esperienza delle donne: escluse dal potere sociale, ma spesso anche dall´accesso alle risorse culturali e simboliche, incluse quelle che consentono l´elaborazione di forme di (auto) rappresentazione autonoma. Inoltre, ancora oggi le donne, in Italia più ancora che in altri Paesi, hanno di fatto, ma per certi versi anche per legge (si pensi a talune norme invasive del corpo e della salute contenute dalla legge sulla fecondazione assistita), un diritto all´habeas corpus più ridotto di quello degli uomini. (…)
Una causa di cittadinanza imperfetta nel nostro Paese, infine, è anche la debole laicità dello Stato e della cultura politica dominante, senza particolari distinzioni tra orientamenti politici. La presenza del Vaticano nel cuore del territorio nazionale, la mancanza di un pluralismo religioso effettivamente paritario, unitamente a una classe politica insieme culturalmente povera e a democraticità debole, ha consentito e consente alla Chiesa cattolica italiana un potere di veto, di ricatto e di influenza sulle materie di suo interesse – dai cosiddetti «valori non negoziabili» al finanziamento alle scuole confessionali e alla loro trasformazione in «scuole paritarie», passando per gli sconti all´Ici e una distribuzione abnorme dell´8 per mille – impossibili altrove.

Corriere della Sera 14.2.12
Appello a chi «sente le voci» «Non sempre è una malattia»
di Mario Pappagallo


Appello internazionale degli psicologi e degli psichiatri a far uscire allo scoperto chi soffre di allucinazioni uditive. In pratica chi sente le voci. Non è sempre sintomo di disturbi psichiatrici. Non è motivo per essere considerati matti. E le voci non sono sempre negative o spaventose, alcune persone le vivono come una compagnia e si sentono sole se le perdono. Ma potrebbero anche essere sintomo di traumi o abusi subiti in età giovanile ed entrati in un oblio obbligato dalla psiche stessa. Un fenomeno piuttosto frequente, visto che in diversi Paesi si sono costituite associazioni di persone che «sentono le voci». Riunite di recente nel network «Intervoice».
Di allucinazioni verbali si parla a Roma da oggi al 18 febbraio nel congresso della Società italiana di psicopatologia (Sopsi). Presente anche il massimo esperto mondiale in questo campo, Ralph Hoffman, dell'università di Yale. Sta studiando, con la risonanza magnetica funzionale, le diverse aree cerebrali attivate nel momento in cui si sentono le voci: in assenza di un disturbo psicotico, sono le stesse che si «attivano» nel dormiveglia.
In Italia soffrono più o meno ufficialmente di allucinazioni uditive oltre due milioni di persone. Ma si stima che possano essere il doppio, proprio perché si tende a non parlarne. Stesso discorso a livello planetario: oltre 140 milioni, altrettanti di cui non si sa. E come dar loro torto: in passato molti hanno finito la loro vita in un manicomio per questo. È sempre accaduto: si veniva considerati Cassandre o soggetti in linea diretta con le divinità. Altri erano semplicemente tollerati perché geniali: vedi i pittori Vincent Van Gogh e Ligabue.
Voci o rumori che non provengono dall'esterno, ma dal proprio interno. L'allucinazione è una percezione che si manifesta in assenza di una reale stimolazione del relativo organo di senso: la persona sente o vede o percepisce con l'olfatto, il gusto o il tatto qualcosa che in realtà non c'è. «Tra le allucinazioni, quelle uditive si verificano nel 70% delle persone con diagnosi di schizofrenia», dice Mario Maj, presidente della Società europea di psichiatria. Ciò però non significa che siano collegabili a un disturbo mentale. Spiega Maj: «Tradizionalmente, si è sempre ritenuto che la comparsa di allucinazioni uditive verbali avvenisse esclusivamente nell'ambito di patologie mentali, malattie del cervello (come l'epilessia e i tumori cerebrali) o stati di intossicazione. Invece, veniva finora considerato "normale" sentire le voci nelle fasi di addormentamento o di risveglio (fino al 25% della popolazione generale) o dopo la morte di una persona cara (sentire la voce del defunto). In questi ultimi anni, diversi studi hanno documentato che allucinazioni uditive verbali possono manifestarsi, nello stato di veglia e al di fuori del contesto del lutto, anche in persone che non hanno altri sintomi di patologia mentale. Per loro, voci che consigliano, guidano, incoraggiano o criticano. A volte si attribuisce ad esse un significato "spirituale"».
Attenzione però. La causa potrebbe anche essere di origine traumatica: una violenza sessuale, un'aggressione, una catastrofe naturale. È molto importante individuare questo trauma sepolto nella memoria della persona. Sottolinea Maj: «Una storia relegata nell'oblio che, secondo studi recenti, si associa a un rischio doppio di avere allucinazioni uditive verbali e circa sei volte maggiore di sentire voci che commentano o comandano». Pensieri e ricordi interpretati come di origine esterna. In apparenza oblio, in realtà una «memorizzazione» attraverso canali cerebrali diversi.

Repubblica 14.2.12
Manicomi criminali, dalla pena alla cura
di Francesco Cro, psichiatra


Il voto del Parlamento ha sancito che entro un anno chiuderanno le sei attuali strutture già nel mirino della Commissione d´indagine: 1510 "internati" saranno ospitati in nuove residenze sanitarie o affidati ai servizi territoriali (389)

La legge 180, che nel 1978 sancì l´abolizione degli ospedali psichiatrici, non prevedeva la chiusura dei cosiddetti "manicomi criminali". Ora il voto del Parlamento ha sancito, tra molti contrasti, la chiusura degli Opg entro il 30 marzo del 2013. Ad oggi è stata censita una popolazione di pazienti internati di 1510 soggetti, dei quali 389 che si possono già dimettere. Tutte le Regioni (tranne la Sicilia) hanno recepito il decreto del 2008 e si sono mobilitate per la progressiva, se possibile, dimissione dei pazienti internati e il loro affidamento alle strutture territoriali; diverse associazioni si sono fatte promotrici dell´appello "StopOPG". «Degrado derivante dalle pessime condizioni strutturali ed igienico-sanitarie…letti metallici con spigoli vivi, vernice scrostata e ruggine; pavimenti danneggiati in vari punti; coperte e lenzuola strappate, sporche e insufficienti…un lezzo nauseabondo per la presumibile presenza di urine…cumuli di sporcizia e residui alimentari»: è questo lo stato di almeno quattro dei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) presenti nel nostro Paese, stando alla relazione della Commissione parlamentare d´inchiesta sull´efficacia e l´efficienza del Servizio sanitario nazionale, presieduta dal senatore Ignazio Marino, che li ha ispezionati nel 2010. In queste strutture, quasi sempre vetuste e sovraffollate, si trovano attualmente detenute circa 1500 persone, autrici di reati e giudicate socialmente pericolose ma non recluse in carcere perché affette da gravi disturbi psichici. Alcuni di questi pazienti si trovavano, al momento dell´ispezione, legati ai letti (misura praticata, con frequenza variabile, nella maggior parte dei servizi psichiatrici ospedalieri); solo in una delle strutture visitate dalla Commissione, nata da una convenzione con l´Asl, il personale appariva «motivato e curato sia nella persona che nell´uniforme». Solo in due strutture i degenti avevano la possibilità di spostarsi liberamente e di accedere ad attività riabilitative. Cosa accadrà ora? In una nota del ministero della Salute si spiega che «dal 31 marzo 2013 le misure di sicurezza saranno eseguite esclusivamente nelle nuove strutture sanitarie....per la cui realizzazione sono stati reperiti fondi per un totale di 180 milioni di euro (120 nel 2012). Per il funzionamento delle nuove residenze sanitarie vengono stanziati, per il 2012, 38 milioni di euro, fino a 55 milioni nel 2013, che vanno aggiunti ai 23 milioni di euro, già in carico al Servizio sanitario per la copertura degli oneri degli attuali Opg».
*Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

l’Unità 14.2.12
Polemiche sul fine vita
Libertà di scelta, rispettare il malato
di M. Antonietta Farina Coscioni


È bastato l’accenno del ministro della Salute Balduzzi che serve una legge per la libertà delle scelte di cura sostenendo che il Governo è pronto a fare la sua parte; subito, l’alfiere di quella che è una vera e propria prepotenza totalitaria, l’ex ministro delle politiche sociali e del lavoro Sacconi ha tuonato che «non compete al Governo entrare nel merito di una legge che deve essere soprattutto parlamentare». Raro esempio di improntitudine. È stato il Governo di cui Sacconi era ministro, a istituire tre anni fa, proprio il giorno della morte definitiva di Eluana Englaro, la «Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi». L’allora sottosegretaria Roccella diffuse un comunicato stupefacente: «Questa data ricorda a tutti noi l’anniversario della morte di Eluana, la cui vita è stata interrotta per decisione della magistratura... Da oggi sarà un’occasione preziosa in più per ricordare a tutti quanto è degna l’esistenza di tutti coloro che vivono in stato vegetativo e non hanno voce per raccontare il loro attaccamento alla vita... ». Fondamentalismo fideista, integralismo intollerante, come quello che traspariva dalle parole del senatore Quagliariello: «Eluana non è morta, è stata assassinata»; parole da non dimenticare, come l’incredibile affermazione dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi: «Eluana potrebbe generare un figlio». L’intento evidente era quello di trasformare Eluana in una martire dello stato vegetativo. Erano, sono, gli stessi che non hanno mosso un dito per aiutare migliaia di disabili e malati di Sla e di altre malattie neurodegenerative; erano, sono, gli stessi che in materia di fine vita vorrebbero imporre una legge dogmatica, il cui scopo è impedire il diritto della persona di stabilire se e quanto una vita è degna di essere vissuta. Eluana nel comunicato che annunciava l’istituzione della «Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi» veniva definita «affetta da disabilità grave la cui vita è stata interrotta». Si insinuava così che lo stato irreversibile in cui si trovava non fosse tale; che da quello stato sarebbe potuta forse uscire.
Per questo, pur consapevole di quanto possa essere doloroso e difficile, rivolgo un pubblico appello alla famiglia di Eluana: renda pubbliche le immagini di Eluana nei suoi ultimi mesi di vita. Finora solo in pochi abbiamo avuto la possibilità di vedere lo stato in cui era ridotta. Si rendano pubbliche le immagini dell’Eluana degli ultimi tempi, tutti avranno modo di constatare quanta cinica e volgare speculazione si è imbastita su questa vicenda. Noi, con l’Associazione Luca Coscioni, continueremo a lottare per vedere rispettato il diritto di non essere sottoposti a trattamenti contro la propria volontà. Chi vuole può trovar, nel sito: www.lucacoscioni.it tutte le istruzioni necessarie su come preparare il proprio testamento biologico.

Repubblica 14.2.12
Giacomo Rizzolatti
"Lo scienziato è un musicista della realtà così abbiamo scoperto i neuroni dell’empatia"
Lo studioso spiega perché il metodo della ricerca non può accettare il relativismo


PARMA Basta guardare qualcuno dei tanti video che circolano su You Tube, o meglio ancora leggere il volume che il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti ha scritto con il filosofo Corrado Sinigaglia (So quel che fai, Cortina editore), per capire l´eccezionalità della scoperta dei "neuroni specchio", neuroni che si attivano non soltanto quando siamo noi a compiere un´azione, ma anche quando, ed è questa la sorpresa non contemplata dalla fisiologia classica, la vediamo compiere da un altro. «Scoperti all´inizio degli anni Novanta», è scritto nel libro, «essi mostrano come il riconoscimento degli altri, delle loro azioni e perfino delle loro intenzioni dipende in prima istanza dal nostro patrimonio motorio». Percezione e azione, insomma, vanno insieme: «il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende».
Ora, perfino la persona più digiuna di scienza, come il sottoscritto, si rende immediatamente conto delle infinite ricadute di tale scoperta: non soltanto in ambito medico, ma psicologico, estetico, filosofico. I "circuiti specchio", infatti, ineriscono a molte esperienze di tipo sociale, che vanno dall´imitazione alla comunicazione gestuale e verbale, senza contare le emozioni mediate da quell´area neurologica detta insula, la quale si attiva davanti alla sofferenza dell´altro, facendola sentire come propria. L´empatia, questa è la conclusione, ha una precisa base biologica e regola il rapporto tra le persone. Ecco spiegato perché il celebre neurologo indiano Vilayanur S.Ramachandran si è spinto ad affermare: «i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il Dna è stato per la biologia».
Capofila di questa rivoluzionaria scoperta è Giacomo Rizzolatti, una bellissima faccia da moschettiere e modi semplici, schietti. Direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell´Università di Parma e da tempo in odore di Nobel, in questo preciso istante è diviso tra l´intervista e un ben più decisivo incontro per ottenere da una fondazione nuove risorse per la sua ricerca.
«Lei mi chiede cosa rappresenti, per uno scienziato come me, la parola "verità". Tutto, direi. È la nostra missione: un valore assoluto. Perché vede, la parola "relativismo" ha un significato quanto mai positivo, se la coniughiamo con Montaigne e le guerre di religione del ´600. Ma è tutto un altro paio di maniche, se quella parola finisce in bocca a certi filosofi contemporanei che la utilizzano per dimostrare l´insussistenza di fatti oggettivi. Sono un medico e so bene che se la glicemia non rientra in certi valori, il malato che ho di fronte muore. È un dato di fatto, incontrovertibile. Oppure: prenda la legge di gravità, o la velocità della luce. Sono entrambe soggette a misurazione e certo non rientrano nella categoria dei fenomeni relativi, modificabili a seconda del contesto sociale o delle interpretazioni individuali. Gli scienziati sanno, e in particolare lo sanno i biologi, che esistono aspetti della realtà indiscutibili. Naturalmente la cultura esercita un ruolo, ma entro i limiti imposti dalla biologia».
Però l´idea di revocabilità è intrinseca alla forma mentis scientifica. Thomas Kuhn parlava di slittamenti tra i diversi paradigmi scientifici.
«La scienza procede per successive approssimazioni, ma non per questo i risultati raggiunti finiscono per essere negati. Semmai vengono riscritti dentro un´altra cornice. Secondo nuove ricerche i neutrini potrebbero viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. Ma questo non metterà in discussione la velocità con cui viaggia la luce».
La vostra ricerca sui neuroni specchio era cominciata con le scimmie, poi, a un certo punto si è spostata sugli umani e ha dato i sorprendenti risultati che sappiamo. Le domando: nel suo lavoro che ruolo giocano la fantasia e il caso?
«Più che di fantasia, io parlerei di talento. Le persone comuni spesso lo ignorano, ma nel nostro mestiere il talento conta moltissimo. È una cosa acclarata per i matematici, non altrettanto per i biologi. Quando ero ragazzo anch´io pensavo che lo scienziato, alla fin fine, è soltanto un osservatore attento che mette in ordine i dati che via via gli si presentano. Non è così. Per scoprire qualcosa di nuovo occorre lo stesso talento di un compositore capace di creare nuovi legami tra note e melodie. Nel nostro caso si tratta di cogliere l´aspetto nascosto delle cose, di connettere aspetti comportamentali apparentemente lontani tra loro».
Quanto al caso, invece, che ruolo ha giocato durante la ricerca dei neuroni specchio?
«Non è stato così rilevante come potrebbe sembrare. Più semplicemente, a un certo punto abbiamo cambiato strategia. Prima però devo ricordare un altro fatto: la maggior parte degli studiosi che ci hanno preceduto erano convinti che il sistema motorio produce soltanto dei movimenti. Dunque la loro ricerca si riduceva ad un accumulo quantitativo di dati. Il nostro approccio nei confronti delle scimmie era invece più etologico. Ci rapportavamo a esseri viventi che entrano in contatto con altri esseri delle stessa specie, oltre che con gli uomini. A noi insomma interessava ricostruire il "racconto" dei neuroni delle scimmie. Per questo giocavamo con loro, davamo loro da mangiare, eccetera. E a un certo punto abbiamo scoperto che certi neuroni si attivavano sia quando erano loro ad afferrare un oggetto o a prendere del cibo, sia quando eravamo noi a compiere le medesime azioni. Avremmo potuto tralasciare la cosa, invece siamo stati bravi a focalizzare l´attenzione proprio su questo punto. Perché da lì è cominciato tutto: è cambiata la nostra strategia, e i nostri esperimenti si sono indirizzati anche verso gli esseri umani».
Qual è la definizione più semplice e sintetica di neurone specchio?
«È un neurone che offre la descrizione dell´azione altrui in termini motori propri di colui che la osserva. Vede, esistono due forme di conoscenza. La prima è di tipo logico-inferenziale, alla Sherlock Holmes. Osservando una persona che afferra un bicchiere in un certo modo, ne deduco che lo sta prendendo per bere la birra che vi è contenuta, oppure per passare quel bicchiere a un altro signore o ancora per sbatterlo contro il muro. Ma esiste anche un´altra forma di conoscenza, più empatica, fenomenologica, alla Merleau-Ponty. Ovvero: io non ho bisogno di fare quel lungo tragitto conoscitivo di tipo logico-inferenziale, perché dentro di me, nel mio sistema nervoso, esiste già un progetto simile al tuo. E lo colgo immediatamente. È questo che abbiamo dimostrato: esistono dei programmi motori identici tra i diversi individui. Se una persona piange, dentro di me piangerà la stessa area neurologica che si attiva quando a piangere sono io. E lo stesso accade con le diverse forme di dolore o di disgusto».
Ne consegue che il sistema motorio non è un semplice esecutore di comandi, ma uno strumento di conoscenza a tutti gli effetti.
«Esattamente. E difatti: se arrivasse un marziano e cominciasse a fare dei gesti strani, incomprensibili, non si determinerebbe nessuna reazione intima del nostro sistema motorio. Se invece io vedo una persona saltare o correre, mi agito, imito il suo gesto, vorrei farlo anch´io. Perché ciò che lui sta facendo è già dentro di me. Per questo capisco immediatamente cosa c´è dietro quel suo gesto. Perché dentro di me esiste una copia esatta di quel comportamento».
Ha mai provato a verificare l´attività dei neuroni specchio in ambito artistico?
«Sì, e qui si torna all´empatia. Abbiamo lavorato con alcune immagini di sculture classiche, greche e rinascimentali, e grazie all´aiuto di amici matematici abbiamo cambiato, appena appena, la loro proporzione aurea. Ebbene, la cosa interessante è che a quel punto l´attivazione delle aree visive corticali permaneva, ma quella della struttura emozionale, l´insula, veniva a mancare. Questo significa che geni come Prassitele o Donatello riescono a suscitare dentro di noi una vera e propria reazione biologica».
Professore, volendo ricapitolare il senso più generale della sua ricerca: qual è il fine ultimo che la anima?
«Definire il funzionamento del sistema nervoso con la migliore approssimazione possibile. Da giovane ero a Pisa e lavoravo con il professor Moruzzi: nei nostri laboratori regnava un´atmosfera quasi mistica. Anche allora non c´erano abbastanza soldi per la ricerca, non è certo una novità degli ultimi anni. Ma noi lavoravamo come dannati, nella convinzione che non avremmo mai guadagnato come dei chirurghi o dei medici alla moda, ma in compenso facevamo quello che ci piaceva. E quello che ci piaceva era utile alla società. Si può ambire a qualcosa di più? È lo stesso insegnamento che ho cercato di trasferire ai miei allievi: perseguire la ricerca della verità con tenacia e pazienza. Assumendosi però, al momento opportuno, tutti i rischi necessari. È una lezione che mi dette il premio Nobel John Eccles. Controlla bene tutti i dati che hai a disposizione: ma quando sei intimamente convinto di quello che hai fatto, compi l´azzardo. Esponiti al pericolo di essere criticato, ma prova finalmente a dire la tua». (4 - continua)

Repubblica 14.2.12
Contraccezione
Occasionali e non protetti, quando i giovani rischiano
Mentre la Sigo lancia una nuova campagna per informare i teen-ager, l´allarme dei ginecologi: "Troppe ragazze non scelgono, subiscono"
di Elvira Naselli


l primo passo è arrivare ai destinatari del messaggio. E non è sempre facile, né a scuola, dove non ci sono spazi definiti, né nei consultori, a macchia di leopardo. E così ragazzi e ragazze over 13 o hanno indicazioni dai genitori - mamma soprattutto - o raccolgono informazioni su riviste, internet e dagli amici. Vivendo spesso la prima volta allo sbaraglio. Oggi - inoltre - il timore non è più solo quello della gravidanza indesiderata ma delle malattie sessualmente trasmesse, in aumento nella fascia dei giovanissimi. «Un aumento che ci preoccupa - premette Barbara Suligoi, direttore del centro operativo Aids dell´Iss - soprattutto per quanto riguarda la clamidia nelle ragazze, infezione che compromette la loro fertilità futura. Bisogna imporre la "moda" del preservativo, che protegge anche dall´Hiv, ed evitare situazioni a rischio come discoteca, alcol e pasticche che si traducono spesso in sesso non protetto».
Tendenza confermata dai medici. «Nei miei 20 anni di lavoro ho visto tante ragazze - premette Anna Maria Fulghesu, responsabile dell´ambulatorio di ginecologia dell´infanzia e dell´adolescenza dell´università di Cagliari e autrice di molte ricerche sul territorio - ed è cambiato l´atteggiamento di fondo nei confronti della sessualità. Oggi le ragazze vengono da sole o con la mamma, che non è considerata un ostacolo. Il problema semmai è un altro: tendenzialmente si attrezzano per proteggersi quando hanno un rapporto fisso e non considerano il rischio del rapporto occasionale. Ed è invece questa finestra - che può essere anche lunga - a rappresentare un forte pericolo perché bisogna proteggersi soprattutto dal partner conosciuto la sera prima in discoteca. Bisogna convincere le ragazze che il rischio delle malattie sessualmente trasmesse è alto e non vale la pena correrlo. Dunque preservativo, sempre».
Il dato più sconcertante, però - sottolinea Fulghesu - è un altro. Le ragazze più giovani, e parliamo di 13-14 anni, si sentono forzate ad avere rapporti sessuali. Dalle amiche che lo hanno già fatto, dal ragazzo di qualche anno più grande, dal mondo dei cosiddetti pari. «E non possono più neanche usare la mamma come scudo», precisa Fulghesu. Il fenomeno è confermato da Metella Dei, ginecologa con lunga esperienza nei consultori per adolescenti, ora al centro ginecologia dell´infanzia e adolescenza dell´ospedale universitario Careggi di Firenze. «Ci sono molti dati su un inizio non voluto né deciso ma subìto - premette - e sono dati che fanno pensare perché sono ragazze molto giovani, tra 13 e 15 anni, che non sono in grado di dire di no al ragazzo più grande, se non vogliono. Una riflessione da parte di chi lavora in trincea: i patentini (vedi articolo sotto, ndr) sono molto utili se arrivano ai ragazzi, ma si deve riuscire a farli circolare tra di loro. Senza dimenticare che, dietro ai loro comportamenti, ci sono bisogni o vissuti irrazionali che li rendono vulnerabili e fragili. Servono strategie per arrivare fino a loro: il web va bene, ma anche il pediatra di famiglia, la scuola e i genitori. All´estero, per esempio, si organizzano riunioni con i genitori sul luogo di lavoro, durante la pausa pranzo, per aiutarli a usare le parole giuste con i propri figli». All´estero, però, esiste l´educazione sessuale nelle scuole.

Repubblica 14.2.12
La Sigo presenta una guida sulla falsa riga di quelle su cui si impara il codice della strada
Sesso sicuro, un "patentino" per gli adolescenti


Per guidare una moto o un´automobile bisogna sostenere un esame e ottenere la patente. Per avere rapporti sessuali non ci sono test da superare. E la disinformazione è più che mai diffusa tra i giovanissimi. Secondo un sondaggio promosso dal progetto "Scegli Tu" con Sigo (Società di ginecologia e ostetricia) il 71 % dei teen-ager si crede al riparo dalla malattie sessualmente trasmissibili (Mst) perché conosce bene il partner, il 59 si affida al coito interrotto come anticoncezionale, e ben il 54 si affida alla contraccezione di emergenza. Quest´ultimo "metodo" nel 2011 ha registrato un + 4% nelle vendite, oltre la metà tra le ragazze sotto i 20 anni.
I ginecologi hanno così messo a punto l´opuscolo "Il patentino dell´amore sicuro", ispirato al manuale di guida degli autoveicoli. Ci sono segnali di pericolo (Mst, gravidanza), quelli di divieto (fidarsi delle tante "bufale" in circolazione), gli obblighi (la contraccezione), e i quiz per testare la propria preparazione. La pubblicazione può essere utilizzata dagli specialisti per parlare ai ragazzi nelle scuole. È disponibile per medici ed educatori sul sito www.sceglitu.it e verrà anche distribuito ai ginecologi del territorio. Spiega Chiara Micheletti, psicologa alla Bocconi di Milano: «Sempre di più i ragazzi ricevono precocemente stimoli di tipo sessuale da internet, dalla televisione e dai coetanei. È quindi fondamentale bilanciare questo tipo di informazione a scuola e in famiglia». (alessandra margreth)

Repubblica 14.2.12
Obiettivo quinta elementare
di Roberta Giommi


Nei percorsi di educazione alla sessualità, sia in classe che nei consultori, si parla con maschi e femmine, si consegna la conoscenza del funzionamento del corpo nella fertilità e nel sesso. Poi si esaminano gli stili sessuali, la prima volta e la prosecuzione, prendendo in esame la scelta di legame (un partner con cui si ha una storia, più partner amici con cui si fa sesso) e quanto sia presente il diritto alla tutela. Un problema importante è l´alcol o le sostanze come disinibitori dell´approccio, in dimenticanza spesso della tutela. La contraccezione più frequente è la pillola del giorno dopo, usata con la consapevolezza dell´emergenza, ma non come educazione a cambiare stile, tanto che è intervento ripetuto. Le ragazze fanno opposizione alla pillola contraccettiva, che richiede una scelta, e si adeguano alla paura. Il preservativo è un modo semplice di provvedere alla protezione, richiede un coraggio relazionale perché va indossato dai maschi con competenza e vissuto dalle ragazze come un modo per sentirsi emancipate. Le ragazze devono chiedere che ci sia e portarlo senza sentirsi troppo spregiudicate. La contraccezione orale, il cerotto, l´anello, sono presentati insieme a tutti i metodi, ma con rinforzi sulla scelta di una contraccezione sicura. Dobbiamo sapere che ogni sabato una ragazza può fare sesso con qualcuno e i maschi non sono più accorti nel proteggersi. Ragazze di 15 anni hanno già avuto molti partner, e molte distrazioni nel proteggersi, come se essere liberi sessualmente non fosse una conquista ma quasi un obbligo. Ai genitori affidiamo un compito forte, di prendersi cura di un inizio precoce della sessualità e di una scarsa competenza dei figli alla protezione. Iniziamo a fare educazione sessuale a scuola in quinta elementare, questo è il tempo utile per costruire i comportamenti di tutela.
* www.irf-sessuologia.it

l’Unità 14.2.12
La Mela chiede controlli sui fornitori all’organizzazione no-profit “Fla”
La decisione dopo proteste, incidenti e suicidi negli impianti cinesi
Apple accusata di sfruttamento avvia ispezioni nelle fabbriche
Accusata di far assemblare i suoi prodotti in fabbriche di fornitori dove i lavoratori vengono sfruttati, Apple reagisce e annuncia l’avvio di una serie di ispezioni da parte di un ente terzo, la “Fair Labor Association”
di Marco Ventimiglia


Apple è ormai divenuta la più ricca società del pianeta, con il titolo che ieri ha sorpassato per la prima volta quota 500 dollari con una capitalizzazione complessiva che ha raggiunto l’astronomica cifra di 465 miliardi di dollari. Proprio per questo, le decisioni di maggior portata della “Mela morsicata” assumono un’importanza generale, e la cosa prende un rilievo particolare se si parla di tutela dei lavoratori.
A lungo accusata di costruire il successo di prodotti come l’iPhone e l’iPad anche sullo sfruttamento degli operai che assemblano i pezzi nelle immense fabbriche dei fornitori, dislocate per lo più in Estremo Oriente, la società fondata dallo scomparso Steve Jobs cerca adesso di rilanciare con un’iniziativa significativa. «Riteniamo che i lavoratori in ogni parte del mondo ha dichiarato l’amministratore delegato Tim Cook abbiano diritto a un ambiente di lavoro sicuro ed equo, ed è per questo che abbiamo chiesto alla Fair Labor Association di valutare in maniera indipendente le performance dei nostri maggiori fornitori».
FOXCONN NEL MIRINO
Proprio a gennaio Apple è diventata la prima azienda tecnologica accettata dalla Fair Labor Association. Quest’ultima è una organizzazione no-profit per i diritti dei lavoratori, nata nel 1999, che si prefigge lo scopo di migliorare le condizioni di lavoro in tutto il mondo promuovendo l’adesione alle leggi sul lavoro nazionali e internazionali. In quest’ambito la Fla conduce audit e verifiche indipendenti per garantire che i propri standard vengano rispettati ovunque siano realizzati prodotti di aziende consociate. Operazioni che vengono adesso condotte nel complesso mondo di aziende legate alla casa di Cupertino, incluse le immense fabbriche della cinese Foxconn situate a Shenzhen e Chengdu.
Nel comunicato diffuso da Apple si specifica che «un team di esperti in diritti dei lavoratori guidato dal presidente della Fla, Auret van Heerden, ha iniziato le prime ispezioni questa mattina (ieri, ndr) presso un’infrastruttura di Shenzhen nota come Foxconn City. Nell’ambito della sua valutazione, la Fla organizzerà colloqui con migliaia di lavoratori per indagare le condizioni di lavoro e di vita, inclusi salute e sicurezza, retribuzione, orari di lavoro e comunicazione con il management». Un’inizio non certo casuale, quello delle ispezioni, visto che proprio la Foxconn è finita negli ultimi anni nell’occhio del ciclone per via delle condizioni di lavoro estreme a cui costringerebbe i suoi dipendenti per rispettare gli accordi di consegna dei prodotti stipulati con Apple ed altri giganti dell’elettronica di consumo. Accuse solide, se è vero che sono basate, oltre che sulle numerose proteste dei lavoratori, anche su vari incidenti avvenuti all’interno degli stabilimenti e su alcuni suicidi dei dipendenti.

La Stampa 14.2.12
Successo per il volo di collaudo del lanciatore ideato nel nostro Paese
Vega porta nello spazio il coraggio italiano
di Giovanni Bignami


Una volta staccatosi dalla Terra, è diventato l'oggetto più denso del sistema solare. Una palla, anzi un pallone da spiaggia (36 centimetri di diametro), interamente di tungsteno, più denso dell'oro, e perciò pesante quasi quattrocento chili. Si chiama «Lares» e da ieri è in orbita circolare intorno alla Terra, a 1500 chilometri d’altezza. Ce l’ha portato il nostro Vega, il lanciatore italianoeuropeo partito da Kourou, lo spazioporto Esa.
Era la prima volta che il Vega si sollevava da terra, ma si è comportato come un veterano dello spazio. Perfetta la sequenza di accensione dei vari stadi, nessuna esitazione nella messa sull'orbita giusta del suo piccolo grande satellite scientifico, interamente italiano. Bravo Vega, e bravi quelli che lo hanno pensato, voluto e alla fine realizzato. Oggi tutto il mondo, giustamente, ne sta parlando. Poco invece si parla di «Lares», pensato e voluto da Ignazio Ciufolini e dal suo gruppo, a Lecce e Roma, e realizzato da piccole industrie italiane, sotto la guida della Cgs, su finanziamento della Agenzia Spaziale Italiana. E' un satellite a bassissimo costo, perché passivo, e per questo era stato messo su un lancio ad alto rischio: il primo di Vega. La superficie della palla di tungsteno è semplicemente coperta da 92 specchietti altamente riflettenti, che hanno il compito di rimandare un fascio laser sparato sulla sua posizione da diverse stazioni terrestri. Non c'è nient'altro a bordo di «Lares».
Quando il fascio laser parte da Terra verso il cielo, è sottile e concentrato, ma quando arriva al satellite, dopo un viaggio di 1500 km, è sparpagliato su qualche decina di metri. Però qualche fotone, talvolta perfino uno solo, riflesso dagli specchietti, riesce a tornare indietro fino alla stazione di partenza. A quel punto basta misurare con accuratezza il tempo di andata e ritorno dei fotoni per ricostruire con precisione altissima (circa un centimetro) la posizione assoluta di «Lares» nello spazio, su tempi anche lunghi, di anni.
Posizionare con precisione una massa piccola (ma concentrata) come la palla di tungsteno di «Lares» serve a misurare un effetto che Einstein aveva previsto nel 1913. E' lo sconcertante fenomeno per il quale la rotazione della grande massa della Terra trascina con sé, solo per il fatto di essere in rotazione, anche la piccola massa del satellite. Discende dalla teoria della Relatività, ed è un effetto che nessuno ha ancora misurato con sufficiente precisione (e, in fondo, neanche proprio ben capito).
Ciufolini darà torto ad Einstein? Lo diciamo per scherzo, perché crediamo proprio di no. Ma si tratta di scienza fondamentale e inesplorata: un territorio potenzialmente ricco di sorprese, anche grandi. Se il sistema laser-«Lares» funziona, potremmo avere tra le mani grossi risultati, con una spesa piccolissima. Si trattò solo di avere un po' di coraggio, quando, nel 2007, decidemmo che valeva la pena di lanciare tecnologia e scienza italiane in orbita, invece della zavorra che di solito si mette in un primo lancio. Per fortuna l’abbiamo avuto.