mercoledì 15 febbraio 2012

Corriere della Sera 15.2.12
La parola «socialista» che divide il Pd
di Paolo Franchi


Ogni infortunio o, direbbe Bersani, ogni ammaccatura, ha una sua meccanica e una sua storia. Ma quando ci si infortuna o ci si ammacca con inquietante regolarità è altamente probabile che di mezzo ci sia pure qualche problema d'ordine, diciamo così, più generale. Tradotto. Certo che Genova non è Napoli, e nemmeno Cagliari e nemmeno Milano e nemmeno la Puglia, dove tutto è cominciato qualche anno fa, e nemmeno Palermo, dove il centrosinistra sembra avere già predisposto tutto per perdere prima ancora che la partita cominci. Adesso anche a Genova, però, proprio come ieri a Napoli, a Cagliari, a Milano, e l'altro ieri in Puglia, le candidature targate in un modo o nell'altro Pd, quella ufficiale di Roberta Pinotti e quella polemica del sindaco uscente Marta Vincenzi, sono state bocciate dagli elettori delle primarie. Non è il caso di ricavarne una qualche legge bronzea. Ma sostenere, come i conduttori televisivi di una volta, che questo è il bello delle primarie, e per il resto immaginare di cavarsela rivedendone le regole, per fare in modo (ma come?) che il Pd vi partecipi con un candidato solo, non pare particolarmente intelligente. Stiamo parlando, sarà bene ricordarlo, del più grande partito italiano. Ed è piuttosto difficile immaginare che il più grande partito italiano possa considerare alla stregua di un problema tutto sommato tecnico una così vistosa e persistente difficoltà (è un eufemismo) a selezionare candidature apprezzate dal proprio elettorato.
Forse — forse — sullo sfondo di tutto questo c'è anche una questione politica, strategica e identitaria irrisolta, che va ben oltre la scelta dei candidati sindaci. Il Pd se la porta appresso dalla fondazione, ma adesso che, incassata la caduta di Berlusconi, è entrato a far parte della maggioranza tanto «strana» quanto vasta che sostiene il governo Monti, se la ritrova di fronte in termini nuovi e pressanti. Come conferma il curioso scambio di messaggi politico editoriali che ha animato questi ultimi giorni. Ha cominciato, sull'onda di un'indiscrezione del Foglio, Eugenio Scalfari, chiedendo pubblicamente a Bersani di essere rassicurato «come elettore» del Pd, che mai e poi mai avrebbe votato se si fosse presentato come una forza socialdemocratica sullo «schema del socialismo europeo»: è vero o no che nella segreteria del partito ci sono dei giovanotti al lavoro per formalizzare una simile, insensata proposta? È bastato questo post scriptum all'editoriale domenicale del fondatore di Repubblica perché una piccola folla di ex popolari e di Democrat senza se e senza ma si levasse a giurare di condividere una preoccupazione tanto angosciata: ma questa non è una novità. Più interessante è il fatto che Bersani, piuttosto che smentire, abbia provato a ridimensionare il tutto, ricorrendo anche a un'innocente bugia («Non siamo più un partito in cerca di Dna»: fosse vero...), senza però tirarsi indietro. Recitano infatti le ultime righe della sua replica a Scalfari: «Chi volesse osservare la discussione nella Spd e nei Verdi tedeschi, o le recenti pratiche dei socialisti francesi, potrebbe forse riconoscere qualche traccia delle nostre buone ragioni». Come dire: non siamo i soli a credere che bisogna oltrepassare i confini delle vecchie famiglie politiche, le forze della sinistra che in Francia e in Germania sfideranno Sarkozy e la signora Merkel la pensano come noi, ma il campo di cui sto parlando è quello dei soggetti «che in tutto il mondo combattono il liberismo della destra conservatrice».
Bersani probabilmente ha ostentato qualche ottimismo eccessivo. Non so se i giovani scrivani del Pd continueranno a lavorare alle loro tesi «socialdemocratiche», la cui stessa stesura non è facilissima da conciliare con il sostegno al governo Monti. Ma, se andassero avanti, sarebbe un bene per tutto il Pd, anche per quel largo pezzo del partito che già in partenza non le apprezza affatto, che non si riconosce nel campo antiliberista indicato da Bersani, che molto probabilmente non si spellerà le mani per tifare Hollande. Di un confronto aperto, o come si diceva una volta di una grande battaglia politica e ideale, non di guerriglie alla mordi e fuggi, il Pd ha bisogno come dell'aria per respirare. In fondo anche gli elettori genovesi proprio questo hanno provato. Una bruttissima sensazione di mancanza d'aria.

l’Unità 15.2.12
Il Pse? Non si va avanti con la testa volta all’indietro
di Pierluigi Castagnetti


Come spesso accade, anche l’intervento di ieri di Alfredo Reichlin si segnala per una sorta di sapienza moderna e antica al tempo stesso. Sono mesi che ci richiama a un dibattito serio sul ruolo dei partiti in «questo mondo» che sembra andare avanti prescindendone, oltreché sottovalutando gli insegnamenti che pure ci vengono dalle esperienze del passato, per quanto i problemi di oggi siano inediti.
«Anacronistico è diventato tutto il vecchio sistema politico», questo è il problema dal quale non possiamo sfuggire. Anacronistiche le risposte delle vecchie tradizioni culturali e non di meno delle vecchie famiglie politiche europee. Continuare a cercare, anche se lo si nega, la nostra identità politica con la testa rivolta al passato rivela solo una carenza di sicurezza emotiva e di responsabilità storica. Sono grato a Pier Luigi Bersani perché la chiarezza sul tema contenuta nel suo intervento su Repubblica di ieri ha chiuso la polemica tanto assurda quanto deviante, sollevata da chi sul Foglio aveva proposto di fare del Pd un «cazzuto partito di sinistra».
Ricordo quando, all’inizio degli anni Ottanta, il Pci dell’Emilia Romagna aprì coraggiosamente un dibattito in consiglio regionale sulla provocazione lanciata da una rivista culturale della sinistra sul rapporto con «Proteo», cioè il mercato, con una suggestiva conclusione del presidente Gianfranco Turci, secondo cui «se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, i comunisti emiliani potrebbero dire di averlo afferrato». Siamo di fronte oggi a una domanda altrettanto intensa e stimolante: qual è il rapporto della sinistra, o se si vuole della politica, col nuovo Proteo, la finanza che dirige il mondo? Quella finanza che ha svelato l’impotenza di un’Europa perennemente in costruzione. La stessa finanza che pretende di dirigere il mondo senza la politica, non solo senza la signoria delle regole, ma senza il controllo, anzi il semplice contatto con la realtà dei popoli fatti di uomini in carne ed ossa.
«Vogliamo interrogarci sul dopo Monti? Benissimo», dice ancora Reichlin. I nostri concittadini, anzi in particolare il popolo dei nostri elettori, questa domanda infatti se la pone, accetta e soffre il peso dei provvedimenti governativi, consapevole che non esistono alternative, ma si chiede: «E dopo?». Le forze politiche che per ragioni drammatiche hanno dovuto mostrare tutta la loro responsabilità promuovendo e sostenendo ogni giorno un governo non facile da sostenere, sembrano attendere il dopo con un certo fatalismo e la convinzione che dopo ci sarà il «ripristino». No, non ci potrà essere il mero ripristino della situazione precedente se non si guarderanno in faccia le questioni vere, preferendo le chiacchiere e le polemiche interne.
Anche Genova c’entra con questa malattia. Non meravigliamoci se il nostro elettorato si mostra più esigente di quello della destra, è così ed è giusto che pretenda da noi un salto di qualità. Non dimentichiamo che a Genova, come era accaduto a Milano (non a caso parliamo delle grandi città dove alle primarie partecipa più opinione pubblica che militanza), la stragrande maggioranza di quanti hanno scelto il candidato vincente Marco Doria è rappresentata da elettori tradizionalmente del Pd. A Genova come a Milano, valutata l’«armonizzabilità», cioè la vicinanza, del candidato cosiddetto esterno con l’identità del Pd stesso, molti elettori Pd hanno scelto quello, per dire la propria insoddisfazione per le altre candidature democratiche, troppo di establishment e troppo caratterizzate da una incomprensibile linea di continuità e a volte persino di astrattezza politica. Doria non è stato scelto perché era più a sinistra, ma perché era altro. Così come in altre città dove si sono fatte recentemente le primarie, penso a Piacenza ad esempio, il candidato è stato scelto non perché era cattolico, ma perché mostrava di possedere un maggior senso di contemporaneità, cioè di conoscenza dei problemi reali di oggi.
E, dunque, volendo tornare alla proposta avanzata dai cosiddetti “giovani turchi” di un «rafforzamento del rapporto con il Pse», mi chiedo quanto tutto ciò riguardi le sfide che Come spesso accade, anche l’intervento di ieri di Alfredo Reichlin si segnala per una sorta di sapienza moderna e antica al tempo stesso. Sono mesi che ci richiama a un dibattito serio sul ruolo dei partiti in «questo mondo» che sembra andare avanti prescindendone, oltreché sottovalutando gli insegnamenti che pure ci vengono dalle esperienze del passato, per quanto i problemi di oggi siano inediti.
«Anacronistico è diventato tutto il vecchio sistema politico», questo è il problema dal quale non possiamo sfuggire. Anacronistiche le risposte delle vecchie tradizioni culturali e non di meno delle vecchie famiglie politiche europee. Continuare a cercare, anche se lo si nega, la nostra identità politica con la testa rivolta al passato rivela solo una carenza di sicurezza emotiva e di responsabilità storica. Sono grato a Pier Luigi Bersani perché la chiarezza sul tema contenuta nel suo intervento su Repubblica di ieri ha chiuso la polemica tanto assurda quanto deviante, sollevata da chi sul Foglio aveva proposto di fare del Pd un «cazzuto partito di sinistra».
Ricordo quando, all’inizio degli anni Ottanta, il Pci dell’Emilia Romagna aprì coraggiosamente un dibattito in consiglio regionale sulla provocazione lanciata da una rivista culturale della sinistra sul rapporto con «Proteo», cioè il mercato, con una suggestiva conclusione del presidente Gianfranco Turci, secondo cui «se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, i comunisti emiliani potrebbero dire di averlo afferrato». Siamo di fronte oggi a una domanda altrettanto intensa e stimolante: qual è il rapporto della sinistra, o se si vuole della politica, col nuovo Proteo, la finanza che dirige il mondo? Quella finanza che ha svelato l’impotenza di un’Europa perennemente in costruzione. La stessa finanza che pretende di dirigere il mondo senza la politica, non solo senza la signoria delle regole, ma senza il controllo, anzi il semplice contatto con la realtà dei popoli fatti di uomini in carne ed ossa.
«Vogliamo interrogarci sul dopo Monti? Benissimo», dice ancora Reichlin. I nostri concittadini, anzi in particolare il popolo dei nostri elettori, questa domanda infatti se la pone, accetta e soffre il peso dei provvedimenti governativi, consapevole che non esistono alternative, ma si chiede: «E dopo?». Le forze politiche che per ragioni drammatiche hanno dovuto mostrare tutta la loro responsabilità promuovendo e sostenendo ogni giorno un governo non facile da sostenere, sembrano attendere il dopo con un certo fatalismo e la convinzione che dopo ci sarà il «ripristino». No, non ci potrà essere il mero ripristino della situazione precedente se non si guarderanno in faccia le questioni vere, preferendo le chiacchiere e le polemiche interne.
Anche Genova c’entra con questa malattia. Non meravigliamoci se il nostro elettorato si mostra più esigente di quello della destra, è così ed è giusto che pretenda da noi un salto di qualità. Non dimentichiamo che a Genova, come era accaduto a Milano (non a caso parliamo delle grandi città dove alle primarie partecipa più opinione pubblica che militanza), la stragrande maggioranza di quanti hanno scelto il candidato vincente Marco Doria è rappresentata da elettori tradizionalmente del Pd. A Genova come a Milano, valutata l’«armonizzabilità», cioè la vicinanza, del candidato cosiddetto esterno con l’identità del Pd stesso, molti elettori Pd hanno scelto quello, per dire la propria insoddisfazione per le altre candidature democratiche, troppo di establishment e troppo caratterizzate da una incomprensibile linea di continuità e a volte persino di astrattezza politica. Doria non è stato scelto perché era più a sinistra, ma perché era altro. Così come in altre città dove si sono fatte recentemente le primarie, penso a Piacenza ad esempio, il candidato è stato scelto non perché era cattolico, ma perché mostrava di possedere un maggior senso di contemporaneità, cioè di conoscenza dei problemi reali di oggi.
E, dunque, volendo tornare alla proposta avanzata dai cosiddetti “giovani turchi” di un «rafforzamento del rapporto con il Pse», mi chiedo quanto tutto ciò riguardi le sfide che dovrà fronteggiare il Partito democratico. Quanto possano interessare oggi le famiglie europee del tutto inesistenti nella attuale crisi dell’Europa, è veramente un mistero. Basterà attendere la campagna elettorale tedesca per capire se e quanto il leader dell’Spd (che pure ci auguriamo possa avere successo) si allontanerà dalla linea della Merkel, dopo che questa crisi ha «ritedeschizzato» la società di quel Paese. Né avrebbe senso, a quasi dodici anni di distanza, ricordare che alla Conferenza intergovernativa di Nizza, che rappresenta il vero momento di inversione del processo di integrazione politica dell’Europa, dodici dei quindici capi di governo presenti erano socialisti. Almeno fossimo oggi di fronte a una iniziativa politica europea che si distinguesse per l’intenzione di riprendere il progetto dell’integrazione politica e della rigenerazione del modello di welfare del Continente!
Non è dunque per una ritrosia dei cattolici del Pd che a me sembra fuori luogo aprire oggi questo file. I cattolici del Pd non hanno una congenita incompatibilità con la socialdemocrazia e, quando hanno concorso a dar vita a questo nuovo partito, non hanno posto al riguardo un problema ideologico, ma un problema di ambizione, l’ambizione di fare una cosa nuova in Italia e una cosa nuova in Europa. Purtroppo si procede troppo lentamente, sia in Italia che in Europa. Non sono loro, i cattolici, a porre un problema di identità religiosa, che in politica sarebbe fuori luogo. Non sono loro a distinguere, all’interno del partito, i socialisti dai cattolici. Non sono loro, quando si tratta di scegliere un relatore in un convegno o in una riunione di circolo, a porre l’esigenza di un bilanciamento tale per cui quando vi è un relatore cosiddetto cattolico deve essercene anche un altro, poiché al primo non si riconosce la possibilità di rappresentare tutto il partito. Non sono loro a porre difficoltà per la convivenza pluralistica fra per dirla con Wittgenstein chi pensa che «il mondo non è poi tutto» e chi pensa il contrario.
E, dunque, non si assuma il tema del più stretto rapporto con il Pse per sparigliare, o anche solo per esercitare una forzatura non su chi sarebbe incompatibile, ma su chi ritiene che ciò può compromettere l’ambizione più alta che fu di tutti quelli che hanno inventato il Partito democratico, non per esigenze di accasamento ma per dare una prospettiva alla civiltà, alla democrazia e alla politica in questo complicatissimo tornante della storia.

l’Unità 15.2.12
Dna del Pd e governo di partito
di Bruno Gravagnuolo


Nel suo ultimo editoriale su Repubblica Eugenio Scalfari torna a ribadire le sue idee sul Quirinale, e acclude alcune considerazioni su partiti, regole e identità del Pd. Dunque, poteri del Quirinale. Al quale per Scalfari «spetta la scelta (del Presidente del Consiglio) per compiere la quale non è prevista alcuna procedura di preventiva consultazione. La nomina di Monti insegni...». È un’dea sbagliata. Antipolitica. Perché decapita parlamento e partiti. Riducendoli a ruolo ancillare rispetto a Quirinale e premier e privandoli del loro ruolo: esprimere i governi (in democrazia ci sono solo governi di partito). Il Colle, dice la Costituzione, non ha responsabilità politica, ma solo un ruolo arbitrale tra i poteri. E nomina un premier, presupponendo e verificando il consenso di una maggioranza ad hoc. Così è nella dottrina e nella prassi, e così è stato anche con Monti, spinto da Napolitano, ma in sintonia concertata con le forze politiche disposte ad appoggiarlo. Domani, e superata l’emergenza, a meno di non stravolgere la Carta, dovranno essere partiti e parlamento ad esprimere e indicare un Premier, che il Quirinale non potrà che nominare.
Regole e «identità». Ovvio che i partiti vadano «normati», specie se ancora saranno finanziati dall’erario. Vuol dire: Corte dei conti e società dei bilanci, per i loro bilanci. E poi i tribunali, se violano la legge. Ma non controlli di «autorità terze» (tipo authority) come crede Scalfari. Equivarebbe a precettazione, e muterebbe la lotta politica in disputa legale. Infine, primarie e identità. Da regolare le prime, sennò resteranno un carosello, con il Pd che fa (solo) da gazebo e prende schiaffi senza un proprio candidato. L’identità? Bersani parla chiaro: «Pd progressista, del lavoro, della Costituzione, dell’Unità nazionale». E cita Spd, verdi tedeschi e Psf. Più chiaro di così! Il nome mettetecelo voi...

Repubblica 15.2.12
Il valore dell’uguaglianza
di Joaquìm Navarro-Valls


In questi giorni le riflessioni sull´andamento dell´economia mondiale si sono raccolte prevalentemente attorno ad alcuni dati allarmanti che segnalano il disagio generale delle nostre società. In particolare, il Divided we stand pubblicato dall´Ocse, come è stato ricordato mercoledì su Repubblica, fornisce "una spietata analisi sulla crescita delle ineguaglianze sociali nel mondo". D´altronde, sapevamo fin dal sorgere nel 2008 della grande crisi finanziaria del sistema bancario statunitense che il flop dei subprime avrebbe fatto nascere a cascata, nel giro di qualche anno, una recessione dell´economia mondiale. Intendo cioè quella produttiva e legata al lavoro. Alcuni osservatori avevano paventato già allora i rischi per l´Europa di una curva verso il basso che ineluttabilmente sarebbe divenuta permanente, rompendo la dinamica normale dei cicli economici che la dottrina classica e marginalista aveva teorizzato.
Sono molti oggi i fattori che concorrono a determinare l´instabilità e la stagnazione dei consumi. Tralasciando le spiegazioni macroeconomiche che sfuggono alla competenza dei comuni mortali, ci si può limitare a fare alcune considerazioni pratiche. Il sistema capitalista è nato nei limiti precisi del mondo occidentale come organizzazione della produzione e diffusione collettiva della ricchezza; un modello di sviluppo che ha seguito l´ascesa graduale del liberalismo. Tutto è funzionato fino a trent´anni fa grazie alla logica di antagonismo mondiale che i sistemi capitalisti avevano con l´area sovietica. La fine di quel equilibrio ha fomentato non solo le grandi speculazioni finanziarie, ma ha avallato un incontrollato estendersi del mercato in zone della terra prima escluse dalla ricchezza. Questa situazione di apertura globale ha offerto ad interi popoli materie prime non disponibili e ha fatto saltare inevitabilmente tutti i controlli legali e doganali che la politica internazionale concorreva a garantire in precedenza.
L´effetto che ora si constata è la crescita abnorme delle disparità tra le condizioni economiche di vita individuale. Il dimorfismo nazionale è diminuito con un livellamento medio verso il basso degli Stati, mentre, per contro, le disuguaglianze reali tra le persone sono divenute pesantissime in Cile, Messico, Turchia e Stati Uniti. Guardando all´Europa, l´Italia è tra i Paesi che più soffrono questa divaricazione interna, assieme ad Inghilterra e Portogallo.
Che cosa indica tutto questo, e quali rimedi si possono immaginare? Intanto è doveroso valutare che la crescita delle ineguaglianze è un effetto negativo dell´aumento positivo del livello di libertà nel mondo. L´unico modo di escludere totalmente i dimorfismi nella distribuzione delle ricchezze sarebbe cancellare il presupposto etico fondamentale che li produce, vale a dire la libertà individuale d´impresa e d´iniziativa. Scelta, evidentemente, nefasta. Senza libertà non può esservi democrazia, e soprattutto che senza libertà viene a mancare l´autodeterminazione democratica dei popoli, con una conseguente cancellazione della dignità umana dei cittadini.
Il dato vero, scaturito dai nuovi report, è tuttavia che il tasso di ineguaglianza sta superando la percentuale fisiologica compatibile con i sistemi liberali. Quando, infatti, la quota di povertà oltrepassa il confine dell´indigenza e si conquista fette intere di classe media, i ricchi guadagnano 15 volte in più dei poveri e si attua un fenomeno involutivo che rende impossibile – oltre che oscena – alla lunga la stessa democrazia liberale.
Il paradosso è insomma che, sebbene entro certi confini disparità e libertà vadano di pari passo, quando l´elastico delle disuguaglianze diviene troppo esteso può spaccare il cemento che assicura la coesione sociale. E, quando ciò avviene, decresce pure la stabilità democratica.
Probabilmente è in questa particolare situazione in cui siamo che si richiede un salto di qualità. Se, infatti, non è possibile riproporre antiche idee di Welfare e non sussistono più le condizioni economiche per ingrandire i servizi pubblici - a causa dei micidiali debiti nazionali - è vero, per contro, che la riduzione dello spread tra classi sociali deve essere eseguito politicamente, partendo da una nuova e più profonda idea etica di appartenenza comune al genere umano. La responsabilità verso gli altri, la reciproca mescolanza dei destini individuali, il sentimento di inclusione sociale e di solidarietà sono compatibili con la scarsità di risorse purché sia sufficientemente difeso il valore etico di umanità dei sistemi democratici.
Non si tratta, evidentemente, di combattere le diseguaglianze con ideologie astratte, ma con azioni politiche concrete che considerino possibile accedere a l´uguaglianza: un´aspirazione collettiva che sola rende possibile la libertà di tutti, attenuando nella pratica di governo il clamoroso divario economico e sociale tra ricchi e poveri.
Non può, infatti, trovarsi soluzione a un problema con gli ingredienti che hanno originato il problema stesso. Pertanto, se un atteggiamento ultra concessivo sul piano economico ha dato vita a una tangibile e pericolosa minaccia al bene comune, il bene comune può essere riconquistato solo con una politica che sostenga il valore etico dell´uguaglianza al di fuori e al di sopra di calcoli meramente monetaristici e quantitativi. In questo momento, difatti, è la negazione del riferimento etico superiore alla natura umana che sta immiserendo la politica di contenuti, divenendo la ragione ultima del fallimento del capitalismo globale. Il risultato è che con la libertà invece della ricchezza cresce la povertà. E invertire questo circolo vizioso è il prioritario obiettivo politico delle democrazie avanzate. E di quelle che ancora vogliono avanzare.

l’Unità 15.2.12
Il segretario del Pd ammette «tensioni» dopo la sconfitta di Marta Vincenzi e Roberta Pinotti
Fioroni: «Sosteniamo Monti, non possiamo allearci solo con chi sta all’opposizione»
Orfini «Sulle candidature ascoltare di più i territori e meno le componenti»
Renzi «Non si può negare che il vertice ha sostenuto tanti candidati sconfitti»
Bersani: ridefinire le regole. La polemica da Genova a Roma
«In alcuni casi sarebbe più utile una preselezione del candidato del Pd», sottolinea il leader del Pd. Vassallo e la minoranza critica: «Ipotesi irragionevole». Fioroni: «Il punto è la scelta degli alleati»
di Giuseppe Vittori


«Non si può delegare alle primarie la soluzione di problemi che vanno risolti politicamente». Il risultato di Genova potrebbe dare un’accelerazione al “tagliando” che Pier Luigi Bersani vuole fare alle prima-
rie. «Quando discuteremo di statuto, qualche rifinitura del meccanismo credo che ci vorrà, senza escludere casi in cui il Pd si presenta con più candidati, ma rimettendo anche agli organismi dirigenti la valutazione», spiega dopo la riunione della segreteria, in cui la vittoria di Marco Doria contro il sindaco uscente Marta Vincenzi e la senatrice del Pd Roberta Pinotti è stata al centro della discussione.
Bersani ha spiegato nel corso della riunione al Nazareno che l’esito uscito domenica dai gazebo genovesi non va né sottovalutato né drammatizzato, ma che bisogna impedire che si ripeta una situazione in cui il Pd corra in primarie di coalizione con più candidati che finiscono per danneggiarsi a vicenda. «Ci sono casi ha sottolineato il segretario dei Democratici in cui è accettabile e positivo che ci siano più candidature, ma in alti casi sarebbe più utile una preselezione del candidato del Pd».
MINORANZA CRITICA
L’ipotesi della «preselezione» non viene però ben vista da Salvatore Vassallo, della minoranza di Movimento democratico: «A mio avviso il problema non è, con tutta evidenza, di impedire agli iscritti di scegliere il candidato ufficiale del Pd, ma di impedire che la scelta dei candidati torni nelle mani degli organismi dirigenti e venga sottratta ai cittadini». Dice il costituzionalista veltroniano che la proposta di «svolgere primarie preliminari interne al Pd, come antidoto al caso-Genova» è una «ipotesi irragionevole».
Ma adesso si tratta di ricomporre le forze e vincere a Genova con Doria. «A noi interessano soprattutto le “secondarie”», ha detto Bersani guardando al voto di primavera. Alle comunali, il Terzo polo non sosterrà il candidato uscito domenica dai gazebo, e la sfida col centrodestra si profila combattuta.
Alla riunione della segreteria non sono mancate critiche alle candidature messe in campo dal Pd. Ha detto Matteo Orfini: «Il problema sono i personalismi e i meccanismi correntizi perché anche con un solo candidato avremmo perso a Genova». Anche per il responsabile Cultura del Pd «sono assurdi i meccanismi che impediscono al partito nazionale di gestire queste pratiche, anche se indubbiamente si tratta di decisioni politiche, perché qualcuno malato di protagonismo avrebbe potuto anche uscire dal Pd e candidarsi come indipendente».
È stato il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca a spiegare che non sempre i dirigenti locali ascoltano i «consigli» che arrivano da Roma. E ora la questione sarà affrontata tanto a livello nazionale che a livello locale (i vertici del Pd genovese si sono dimessi all’indomani delle primarie).
Sul fronte interno c'è intanto chi, come Beppe Fioroni, ha fatto notare che questa vicenda insegna, ancora una volta, che bisogna scegliere con cura gli alleati, leggi Sel: «Se sosteniamo con forza il governo Monti, per salvare l’Italia ha sottolineato diventa difficile dare vita a coalizioni locali esclusivamente con partiti che sono all’opposizione di questo esecutivo e che marciano in direzio-
ne opposta a quella del Pd. Così, gli elettori non ci comprendono». Implacabile anche Matteo Renzi: «Esiste un problema di gruppo dirigente. Sarebbe assurdo negare che il gruppo dirigente del Pd ha appoggiato tanti candidati che non hanno vinto».
RIFLETTORI SU PALERMO
Ma adesso nel Pd si guarda anche avanti, ovvero alle altre primarie che dovranno svolgersi nei primi giorni di marzo a Palermo. La direzione provinciale del partito in una riunione fiume finita a sera inoltrata ha votato con 30 sì, 13 astenuti e un no l’accordo interno al centrosinistra (e senza il Terzo polo) per il sostegno a Rita Borsellino alle amministrative della prossima primavera. Un risultato che fa ben sperare Bersani, che risponde così a chi gli domanda se sia preoccupato per le primarie del capoluogo siciliano. «A Palermo secondo me sono preoccupati gli altri, non noi», dice. «Ho invitato Rita Borsellino a partecipare alle primarie, la ritengo una figura molto significativa per battere la destra a Palermo e dare un'amministrazione seria e pulita a quella città. Dalle primarie vedrete che uscirà un candidato in grado di vincere a Palermo. Di come sono andate le primarie si parla dopo le elezioni, si parla di primarie dopo le secondarie».

l’Unità 15.2.12
No alle primarie di coalizione
di Stefano Ceccanti


Le primarie sono una delle più grandi sperimentazioni democratiche, un modo, insieme al cambiamento delle regole elettorali, per riportare dentro uno stringente circuito democratico il fenomeno della crescita del ruolo degli esecutivi. Come in tutte le sperimentazioni serve una cultura della valutazione che individui errori e rimedi.
Il primo dato è che, specie nelle grandi aree urbane, la consistenza associativa di tutti i partiti è minima e che quindi esse sono strumento irrinunciabile per superare l’autoreferenzialità. Sempre che ci si concentri nella scelta dei candidati per cariche elettive, altrimenti la caduta di partecipazione è dietro l’angolo. Ad esempio le primarie per il segretario regionale Pd del Lazio hanno poco senso nel momento in cui tale carica viene svincolata dalla candidatura alla presidenza della Regione.
Il secondo elemento di riflessione è che la sensazione di inadeguatezza della politica provoca successi imprevisti di outisider che non vanno letti sull’asse destra-sinistra, ma su quello base-vertici o, se si preferisce, dentro-fuori. Si può essere molto favorevoli al governo Monti e votare un outsider di sinistra: contraddizione sull’asse destra-sinistra, ma non su quello dentro-fuori. Guai quindi a reagire blindandosi ancor più dentro, chiudendo la flessibilità in entrata, limitando a una le candidature del Pd. In quel caso, come già accaduto a Milano, la spinta di innovazione si esprimerebbe ancor più facilmente contro il candidato unico dentro il sistema. Meglio sarebbe allora limitarsi a primarie solo di partito, nel Pd.
Ammesso, e decisamente non concesso che le si vogliano fare di coalizione, si pone un altro problema: spesso si finisce col vincere con poco più di un quarto o di un terzo dei voti, magari perché si gode di un elettorato più militante. Una soglia e una qualità del consenso problematica per vincere poi le elezioni. Bisogna quindi introdurre comunque una rigidità in uscita richiedendo la maggioranza assoluta dei voti o una soglia di decenza del 40% dei voti, in mancanza della quale vi sia un ballottaggio. Si potrebbe utilizzare come il Labour Party anche il voto alternativo all’australiana. Ogni cittadino dà un primo voto, ma anche un secondo. Si fa lo spoglio dei primi voti e si selezionano i primi due candidati, poi si aggiungono i voti espressi come seconde scelte dai cittadini che avevano votato come primi altri candidati esclusi.
Il terzo dato sono i confini della coalizione. Se per i comuni, dove vige il doppio turno, l’alleanza si può espandere e comunque i problemi di omogeneità programmatica sono meno delicati (però bisognerebbe comunque far nascere la coalizione da un accordo minimo di programma, preventivo alle primarie) sul piano nazionale le cose non stanno così e, almeno lì, occorre fare una scelta gerarchica di priorità tra partito e coalizione, la stessa che si pone sul piano delle riforme elettorali. Non è immaginabile che si salti a piè pari il fatto che si andrà a votare dopo mesi decisivi in cui il Pd ha sostenuto lealmente il governo Monti e altre forze si sono invece opposte. Se primarie dovranno essere, andranno realizzate dentro il Pd, senza predeterminare rigidamente alleanze che dovranno in ogni caso seguire una verifica di omogeneità programmatica. Il richiamo alle primarie non potrà invece significare consegnarsi aprioristicamente nel confine dell’alleanza di Vasto. Le primarie, affermate nel 2007 dal Pd in discontinuità con quelle dell’Unione, nella logica del partito a vocazione maggioritaria, si convertirebbero nel loro opposto, nella caduta in una vocazione minoritaria che lascerebbe ad altri l’eredità del governo Monti.

il Fatto 15.2.12
Le paure del Pd dopo il disastro di Genova
Bersani ribadisce: regole da ridefinire
Il partito alla prova di Palermo e dell’Articolo 18
di Wanda Marra


Il problema non è Genova. Aspettiamo il voto in Parlamento sulle liberalizzazioni e la riforma del lavoro, e poi vediamo. Se la Cgil non firma l’accordo a quel punto può succedere qualsiasi cosa”. Stefano Ceccanti, “montiano” del Pd, il giorno dopo la dèbacle genovese l’atmosfera nel partito la restituisce bene. Dopo le polemiche e i distinguo delle prime ore, il clima è gelido, anzi raggelato. Nello “scannatoio” quotidiano che caratterizza il partito (copyright Dario Ginefra, deputato Pd) tutto continua a succedere sotto traccia. Molto concreti però i timori: da quello di perdere le elezioni a Genova, alle incognite legate alle primarie a Palermo (dove c’è un segretario regionale, alle consultazioni per il segretario del Lazio, con il partito diviso in sei pezzi.
A ROMA si fa una segreteria nazionale dove, mentre si discute di questioni varie ed eventuali, si prova a consolidare la tesi che la causa della sconfitta di Genova stia nelle regole delle primarie. Bersani, però, che non può permettersi di andare allo scontro, visto che il partito su questo (e molto altro) non lo segue tiene ancora più basso il tono rispetto al giorno prima: “Qualche rifinitura del meccanismo ci vorrà, senza escludere che ci saranno casi in cui ci saranno più candidati del Pd, ma ci sono casi nei quali una preselezione di un candidato del Pd sarebbe più utile”. Ma ancora una volta è tutto rimandato: prima bisogna approvare le liberalizzazioni e portare a casa la riforma del lavoro, poi ci sono le amministrative, poi forse si farà quella Conferenza sul partito di cui la segreteria parla da mesi. I veleni avanzano indisturbati, in una situazione in cui nessuno sferra l’attacco finale, ma la deflagrazione sembra dietro l’angolo. Veltroni tace, ma non acconsente, la Velina rossa chiede il congresso straordinario, Fioroni dichiara ai quattro venti che non si può sostenere a livello locale chi non appoggia Monti (problema molto sentito da tutta l’area moderata del Pd), su posizioni opposte, Fassina, Orlando e Or-fini stilano un documento per dire che bisogna essere più socialdemocratici. E Qdr, la rivista dei giovani veltroniani, chiede le dimissioni del responsabile Enti locali del partito.
A GENOVA, intanto, continuano a volare gli stracci. Marco Do-ria accusa il Pd di non aver ascoltato gli elettori, Don Andrea Gallo parla di “fango morale”, e Marta Vincenzi imperterrita nel suo sfogo e si spinge fino a paragonarsi a Obama: “Pensi un po' se a Obama adesso gli avessero fatto fareleprimariecontrolaClinton? Come ne sarebbe uscito? ”. Ma quanto rischia il centrosinistra di perdere Genova. ll rischio di arrivare al ballottaggio c’è”, spiega l’Assessore Mario Margini. L’Udc non ha intenzione di appoggiare Doria, l’Idv pensa anche a una lista civica con un candidato alternativo, i Democratici genovesi sciolgono in un’assemblea stasera il nodo, anche se ufficialmente non potranno che sostenere il candidato uscito vincente dalle primarie. Il governatore ligure Burlando dopo averlo accuratamente evitato a giochi non fatti, si è schierato (Doria è una “scelta vincente”).

il Riformista 15.2.12
Il Pd prima e dopo Genova
di Emanuele Macaluso


Ieri, commentando le primarie di Genova, tutti i quotidiani, di destra e di sinistra (compreso l’Unità), hanno sottolineato l’ennesima «sconfitta del Pd». Cioè il partito che ha inventato le primarie di coalizione esce, da questa esperienza, «con le ossa rotte». Bersani ha detto: «Mai più divisi». Cioè il Pd nelle primarie di coalizione deve presentare un suo candidato: ma chi lo sceglie? Bisogna fare le primarie di partito e dopo quelle di coalizione? La verità che il Pd si è infilato in un vicolo cieco e non sa come uscirne.
Ma, perché non riflettere sul carattere che hanno avuto in tutte le primarie le contrapposizioni tra i candidati del Pd? Perché non riflettere sul fatto che nelle votazioni di coalizione una parte consistente di elettori del Pd, di fronte allo scontro tra due candidati Pd, non si astengono ma preferiscono votare un candidato che ha una posizione critica (spesso di sinistra) rispetto alla politica del partito? Questi, a mio avviso, sono i temi veri che queste elezioni pongono a tutti i dirigenti del Pd, non solo a Bersani. Il quale rispondendo a Scalfari, con una lettera pubblicata su Repubblica, ha detto che il Pd ormai ha una sua identità e «non è in cerca di Dna». Forse questa ricerca c’era a Genova, dove la Vincenzi accusava la concorrente, Pinotti, di rappresentare l’establishment e quest’ultima accusava la Vincenzi di stare con i «poteri forti».
A Napoli, uno dei due candidati, Ranieri, accusò l’altro, Cozzolino, di avere usufruito dell’appoggio della camorra. Su questo terreno, quel che sta succedendo in Sicilia tra i gruppi che sostengono candidati diversi è incredibile. Ovunque le accuse infamanti si intrecciano con quelle politiche: un accordo col centro è considerato inquinante, l’alleanza con la sinistra, in contraddizione col sostegno al governo Monti, in ogni caso perdente. I fatti ci dicono che il confronto tra i candidati del Pd non è mai svolto su linee politiche che riflettono orientamenti diversi. Del resto in tutte le primarie, comunali e regionali, lo scontro non si è verificato sulle scelte amministrative, ma sulla politica generale, sulle alleanze nazionali e locali, sulle qualità dei candidati, da squalificare per presunti legami con i poteri forti e meno forti, inquinati o no. È questa una delle ragioni per cui la scelta del candidato che si contrapponeva a quella del Pd è stata letta come scelta di sinistra in polemica con la politica generale del Pd. La costruzione di un grande partito è cosa complessa, soprattutto nella società di oggi e in momenti in cui si manifesta una crisi della politica.
Non sottovaluto le difficoltà serie in cui debbono operare Bersani e i suoi collaboratori. Su questo versante ci sono molte cose da dire. Soprattutto una: cosa c’è nel dopo Monti? E checché ne pensi Bersani il Dna (incerto) c’entra.
Tuttavia, oggi, a mio avviso, il Pd dovrebbe tirare le somme dell’esperienza fatta con le primarie e imboccare una strada: o le primarie del Pd scelgono un candidato e la coalizione, per regola, lo sostiene perché espresso dal partito più grande (nella coalizione di Centrosinistra i rapporti sono chiari); o si fanno le primarie di coalizione e il Pd sceglie il suo candidato attraverso consultazioni interne alla sua organizzazione. Quel che avviene oggi è assurdo: a sostegno del candidato che comunque si contrappone al Pd si crea un fronte largo dove c’è tutto e il contrario di tutto: basta leggere i giornali di sinistra e di destra. E il Pd non è in grado di reagire. Comunque un chiarimento serve a tutti.

Corriere della Sera 15.2.12
«Doria voluto da ambienti pd, non da Vendola»
Burlando: a Fioroni ricordo che è un professore, non dà fuoco ai cassonetti
di Erika Dellacasa


GENOVA — Quando incontra nel corridoio il segretario regionale del Pd Lorenzo Basso, il governatore della Liguria Claudio Burlando prima lo saluta con un rassicurante: «Abbiamo già vinto le elezioni!». Poi gli rimprovera qualche dichiarazione imprudente e le dimissioni. Secondo Burlando, evidentemente, dopo le primarie per il sindaco di Genova vinte dall'outsider Marco Doria, Basso poteva benissimo restare al suo posto perché «con Doria si vince». Come dire, con le altre due candidate targate Pd, il sindaco uscente Marta Vincenzi e la senatrice Roberta Pinotti, si rischiava di perdere.
Viva Doria, quindi, e «non capisco tutto questo melodramma». In realtà Burlando lo capisce benissimo, il melodramma, capisce i musi lunghi dei dirigenti che sostenevano Vincenzi o Pinotti, capisce anche le twittate dell'ex SuperMarta, ma non rinuncia a bacchettarla.
«Marta dovrebbe ricordarsi che cinque anni fa la scelta del partito non era lei. Se non ci fossero state le primarie non sarebbe diventata sindaco e oggi che le ha vinte un altro dovrebbe accettarlo». Burlando non vuole allontanarsi da questa lettura rassicurante: «Il nostro popolo ha votato quello che ha ritenuto il candidato migliore. La dirigenza non è riuscita a trovare un terzo nome che superasse la contrapposizione negativa fra Marta e Roberta e per noi ha scelto l'elettorato. Mi sembra una buona cosa. Quando ho iniziato a fare politica io tutto si decideva in quattro in una stanza fumosa. Meglio oggi».
L'effetto Monti non c'entra nel successo di Doria? «Non credo. Pisapia e de Magistris hanno vinto le primarie prima del governo Monti». C'è un'area cattolica, come l'ex popolare Beppe Fioroni, che mette in discussione il sostegno a Doria. «Dipingere Doria come un pericoloso estremista è una sciocchezza. È un professore universitario, proviene da un'antica famiglia che ospitava a cena lo storico Braudel. Era consigliere comunale negli anni Novanta, poi per vent'anni non ha fatto politica. Ma non li ha certo passati a bruciare cassonetti, insegnava Economia. A parte un drappello di integralisti, i cattolici si possono benissimo riconoscere in una persona come lui, un uomo etico. Uno che non fa politica per arricchirsi. Lo si vede persino da come va vestito. Uno che sostiene il valore della solidarietà». E, dice Burlando, uno che «è stato votato da molti del Pd. Non dimentichiamo che a fare il suo nome sono stati intellettuali della nostra area. L'appoggio di Vendola è venuto solo dopo».
È proprio molto inclusivo, il presidente della Regione. Che gli ha detto Pier Luigi Bersani? «Bersani qualche preoccupazione l'ha espressa, ma relativa al momento difficile che stiamo attraversando. Per questo mi ha chiesto di avere ora un ruolo di presenza politica». E Burlando dichiara di essere «molto stufo» di essere descritto come «quello che tira i fili dietro le quinte»: «Mi sono tenuto lontano dalle primarie. Adesso è il momento di scendere in campo per Doria e lo farò».
Una parte del Pd ha sollevato il problema della gronda autostradale, un'opera che Doria, appoggiato da vari comitati, ha criticato: non si cerca così di mettere il candidato in difficoltà? «Sarebbe folle. Quanto alla gronda troveremo un punto di accordo. Intanto c'è una procedura già molto avanzata. Non ce lo vedo Doria a occupare il cantiere con i no global».
Impossibile, però, sostenere che va tutto bene nel Pd. «Il problema del Pd — taglia corto Burlando — non sono le primarie, ma non essere stati pronti come alternativa politica quando Berlusconi è caduto e di non esserlo ancora». Almeno a Genova il Pd un candidato sindaco l'ha trovato e «sta sicuramente meglio del centrodestra che ancora non sa chi indicare né come».

Repubblica 15.2.12
"Indispensabile correggere le primarie"
Ma Bersani non ha fretta: ora vinciamo le secondarie. Tensioni sulle alleanze
La Vincenzi attacca ancora: "Il segretario? Non l’ho sentito, aveva altro da fare"
Nella segreteria il leader ammette errori e si decide di commissariare il Pd di Genova
di Giovanna Casadio


ROMA - Commissariamento del Pd genovese. Le primarie non più come via obbligata, ma da valutare volta per volta. Dove si faranno quelle di coalizione, i Democratici dovranno presentarsi con un solo candidato, pre-selezionato dagli organismi dirigenti. Da introdurre un albo degli elettori. Sono i cerotti alle ferite da primarie di Genova, dove Marta Vincenzi, il sindaco uscente, e Roberta Pinotti sono state battute con un distacco di venti punti dal vendoliano Marco Doria. Bersani ammette nella riunione della segreteria: «Abbiamo fatto errori, e ora ne paghiamo le conseguenze. Una rifinitura delle primarie è indispensabile. Bisogna cambiare le regole». La sconfitta brucia moltissimo, anche se per il secondo giorno consecutivo si misurano le parole. «Ammaccature», ripete il segretario. Tuttavia riconoscendo che ci sono «tensioni» e soprattutto che c´è stato «un problema locale», dal momento che altrove - a Piacenza, a Pistoia - il Pd si era presentato con più candidati senza registrare una débacle. «Una sberla», per Salvatore Vassallo, veltroniano, che stoppa le modifiche alle primarie, denunciando con Matteo Renzi e Pippo Civati che «non è un problema di regole», ma di candidati credibili .
Ma per il momento la parola d´ordine è "guardare avanti", come il segretario dichiara a Youdem tv: «Ora dobbiamo discutere, ricomporre le forze, trovare un programma e vincere con Doria. Non c´è stato nessun boomerang, a noi interessa vincere le secondarie». La commissione per lo Statuto si riunirà, ma «prendiamoci un po´ di tempo», è stata l´indicazione. Non è un cambiamento che va affrontato subito, perché c´è da ballare per le amministrative. Ci sono altre tre primarie all´orizzonte, il 4 di marzo: Oristano, L´Aquila e Palermo. E soprattutto a Palermo «sono preoccupati gli altri, non noi, non il Pd, ma degli altri non si parla mai, fa niente». Bersani è pronto a scommettere che Rita Borsellino è il candidato giusto per vincere Palazzo delle Aquile. Non vuole riaprire discussioni sulle alleanze.
Ma sono proprie queste ad agitare profondamente il partito. Il Popolare Beppe Fioroni chiede più chiarezza sugli alleati e lancia l´idea di una «alleanza federativa con il Terzo Polo». La risposta del terzopolista Rocco Buttiglione è di non correre troppo: «Alleanza è possibile, federazione è eccessivo». Nella riunione della segreteria si parla anche dei malumori che attraversano il Pd sull´appoggio a Doria e sul suo programma. Sotto processo finiscono i dirigenti locali genovesi. Possibile che non abbiano saputo esprimere un giudizio sull´amministrazione Vincenzi e eventualmente bloccarne la corsa? Ragionano così i filo-Pinotti. Marta Vincenzi si difende da sola e attacca. Non più su Twitter, bensì in un´intervista su Radio24: «Dov´è il Pd? Il Pd deve capire cosa vuole fare da grande. Bersani? Non l´ho sentito, aveva altro da fare...». E poi spiega che nelle spaccature del Pd «si è inserito chi, in modo ingenuo e forte, non facendo parte del partito, può dire: "Andate tutti al diavolo, ci avete stufato"». Di don Gallo poi, che ha appoggiato Doria, Vincenzi dà un giudizio tagliente: «È magnifico però narciso, ha fatto una scelta maschilista, ha una certa propensione al maschilismo». Su Facebook alla pagina di Bersani si scatenano militanti e elettori: «Ci guardiamo l´ombelico»; «Ci vuole chiarezza».

Repubblica 15.2.12
Nuovo test a Palermo il Pd sceglie la Borsellino e si divide subito in tre
All'eurodeputata si contrappone un ex dipietrista sostenuto dall'ala filo-Lombardo
Il "rottamatore" Faraone è l'unico con la tessera del partito. Sabato per lui arriva Renzi
di Emanuele Lauria


PALERMO - L´ultima chance del Pd di rovesciare la recente storia delle primarie - il "pasticcio" di Napoli, le sconfitte di Milano e Genova - viaggia a bordo di un bus palermitano che attraversa il centro della città. Ha il volto di Rita Borsellino, eurodeputata e simbolo dell´antimafia, che apre la sua campagna elettorale al fianco di Leoluca Orlando. Un insolito tour nel giorno di San Valentino, a suggello di un amore politico ritrovato di recente, al punto da spingere il portavoce di Idv - sindaco di Palermo per 12 anni - a un´ardita crasi: «Votate per Borsellando», va dicendo Leoluca ai passeggeri del «101», nient´affatto infastidito dal fatto che le maggiori attenzioni siano per lui e non per la candidata. Ma tant´è: fatto il ticket (il vice designato dalla Borsellino è il senatore di Idv Fabio Giambrone), la parlamentare europea si appresta con il ruolo di favorita alle primarie del 4 marzo. Ma in uno scenario di frammentazione che non può proprio far sorridere i vertici del Partito democratico.
Basti pensare che, se a Genova il Pd era diviso in due fazioni, a Palermo le "correnti" sono addirittura tre. Pier Luigi Bersani, ieri pomeriggio, si è affrettato a riaffermare il sostegno ufficiale alla Borsellino: «Una figura molto significativa per battere la destra e dare un´amministrazione seria e pulita alla città». E pazienza se Rita, in realtà, non ha la tessera del partito in tasca, considera la sua una candidatura civica e in una recente occasione pubblica ha risposto così al gioco della torre: «Fra Bersani e Vendola salverei quest´ultimo». Una battuta, certo. Che la dice lunga, però, sulla linea politica della Borsellino, gelosa dei confini stretti dell´accordo con Sel, Idv e movimenti e refrattaria all´alleanza con il Terzo Polo che invece regge la giunta di Raffaele Lombardo alla Regione.
L´ala del Pd più vicina a Lombardo - l´anima ex-ppi che vede fra i leader l´ex ministro Salvatore Cardinale e quella ex-ds rappresentata dal senatore Beppe Lumia e dal capogruppo all´Ars Antonello Cracolici - non l´ha presa affatto bene. E ha deciso di far confluire i propri voti su un altro candidato, Fabrizio Ferrandelli, 31 anni, neanche lui un iscritto al partito: fino a poco tempo fa capogruppo di Idv in consiglio comunale e ora messo al bando dai dipietristi. Non solo: Cardinale, Cracolici, Lumia e i sostenitori dell´intesa con il Terzo Polo hanno presentato una mozione di sfiducia al segretario regionale Giuseppe Lupo, sponsor della Borsellino, che sarà discussa quasi sicuramente l´11 marzo, sette giorni dopo le primarie. Il Pd siciliano va a una doppia resa dei conti, con inevitabili riflessi sul partito nazionale e forse anche sul futuro dello strumento stesso delle consultazioni attraverso i gazebo. A lungo in dubbio, le primarie palermitane nascono fra le polemiche: ieri si è dimesso il presidente del comitato organizzatore Antonio Rubino, uomo di Cracolici, sostituito con un esponente vicino a Lupo, Domenico Pirrone.
In questo scenario cercano di ritagliarsi spazio gli outsider: il deputato regionale Davide Faraone, paradossalmente l´unico iscritto del Pd in campo, vicino al sindaco di Firenze, il "rottamatore" Matteo Renzi che sabato sarà a Palermo per sostenerlo. La campagna elettorale di Faraone ha una griffe d´eccezione: quello di Giorgio Gori, ex direttore di Canale 5, che dopo aver lasciato la casa di produzione televisiva Magnolia ha debuttato accanto a Renzi alla Leopolda e ora vive Palermo come «scommessa da vincere». A completare l´affollato parterre del centrosinistra Antonella Monastra, medico ginecologo e consigliere comunale di «Un´altra storia», ovvero il movimento di Rita Borsellino. L´ultima spaccatura consumata all´ombra di Monte Pellegrino, dove il centrosinistra, per dirla con il "renziano" Faraone, «rischia di sbagliare un rigore a porta vuota» di fronte a un Pdl che non riesce neppure a trovare un candidato disposto ad accettare la disastrosa eredità di Cammarata. Ma Bersani chiede fiducia: «Il Pd preoccupato dalle primarie di Palermo? Secondo me sono preoccupati gli altri».

l’Unità 15.2.12
Intervista a Luciano Violante
«Basta caravanserragli incapaci di governare»
Parla il responsabile riforme del Pd: «La legge elettorale non deve produrre coalizioni forzose. Ragioniamo su un proporzionale corretto»
La lezione del passato «Il sistema bipolare e maggioritario non ha funzionato. Non dobbiamo ripetere l’errore del ’94»
di Simone Collini


Le prossime elezioni non decideranno soltanto chi sarà maggioranza e chi opposizione. Diranno se ha ancora legittimità un sistema democratico fondato sui partiti o se prevarrà la prospettiva di affidarci alla pura tecnica o a qualche "condottiero straniero" ». Per questo, dice Luciano Violante, quella sulla legge elettorale «non è una discussione che si fa in salotto»: «La posta in gioco è molto alta». Il responsabile del Pd per le riforme sta incontrando, con l’onorevole Bressa e il senatore Zanda, esponenti di tutte le altre forze politiche (ieri è stata la volta di Casini, oggi toccherà alla Lega) per trovare un’intesa che permetta di superare il Porcellum ma anche di disegnare un diverso assetto istituzionale. «Il sistema bipolare e maggioritario ha consentito di vincere ma non ha consentito di governare».
Per questo oggi ci si affida a un governo tecnico?
«La tecnica entra in campo se la politica non sa risolvere i problemi». Problemi economici.
«La crisi istituzionale è grave quanto quella finanziaria. La nostra democrazia fondata sui partiti politici perderebbe la sua stessa ragion d'essere se non fosse in grado di portare a compimento il compito di risolvere quella crisi».
Il rischio?
«Pensiamo a quanto accaduto nel ’94, quando non ci siamo accorti che in crisi non erano solo Dc e Psi, ma l’intero sistema politico. Abbiamo pensato che le elezioni servissero solo a stabilire il vincitore e invece sono servite a cambiare radicalmente il sistema politico. Ora siamo consapevoli dei rischi. La riforma elettorale e quella costituzionale si collocano dentro questo orizzonte. Devono guidare il cambiamento». Le è sembrato che le altre forze politiche ne siano consapevoli?
«A nessuno sfugge che stiamo parlando di una condizione che ora siamo in grado di affrontare, tra un anno rischiamo di non esserlo già più».
L’intesa è più facile sulla legge elettorale o sulle riforme istituzionali?
«C’è un rapporto stretto tra le due. La legge elettorale ha bisogno di un adeguato supporto costituzionale».
I cui cardini sarebbero?
«Riduzione del numero dei parlamentari e sfiducia costruttiva. Inoltre il presidente del Consiglio deve poter nominare e revocare i ministri e chiedere il voto a data fissa dei provvedimenti del governo. Potrà chiedere al Quirinale lo scioglimento delle Camere, anche se potrà non ottenerlo. Si sta ragionando sul superamento del bicameralismo paritario. Sono strumenti che servono per governare».
E una nuova legge elettorale come si dovrebbe inserire in questo quadro istituzionale?
«Rovesciando il ragionamento dominante fin dal ’93. L’obbligo di coalizzarsi, previsto sia dalla legge Mattarella che dalla legge Calderoli ha avuto esiti disastrosi. Si sono messi insieme non quanti avevano lo stesso programma di governo ma quanti avevano lo stesso avversario. Poi però chi ha vinto le elezioni non è stato in grado di governare. Berlusconi è caduto dopo tre anni. Noi, prima, dopo due. E oggi il Paese non può più permettersi coalizioni caravanserraglio create per vincere le elezioni ma poi incapaci di governare».
Qual è la proposta su cui è possibile l’intesa con le altre forze?
«Innanzitutto restituire agli italiani il diritto di scegliere i parlamentari. Stiamo ragionando su un sistema proporzionale con sbarramento al 4 o 5% che favorisca il bipolarismo senza imporlo. Poi saranno gli italiani a decidere, dando a una singola forza politica un consenso sufficiente per governare da sola o a stabilire se quella forza per governare debba allearsi con altri. In ogni caso decideranno i gruppi parlamentari. Questa sarebbe un’alleanza per governare, non solo per vincere le elezioni».
Si tratta però di una proposta che non salvaguarderebbe il bipolarismo.
«Il bipolarismo va letto e interpretato nella vicenda storica italiana. Il meccanismo maggioritario amico-nemico fa sì che il Parlamento diventi una protesi del governo e il luogo nel quale si esasperano i conflitti, non quello in cui i conflitti si prevengono e compongono. Il bipolarismo può essere favorito, non imposto».
Non è che il Pd sta accettando il proporzionale perché punta a un’intesa col Terzo polo?
«Noi non vogliamo intese privilegiate con nessuno. Abbiamo incontrato esponenti dell’Idv, di Sel, dei Verdi, del Pdl, del Terzo polo e incontreremo Lega, Federazione della sinistra, Socialisti. Abbiamo anche visto quanto è costato avere forze politiche rappresentative fuori dal Parlamento e per questo sarebbe possibile un diritto di tribuna per chi non supera lo sbarramento».
Parisi, intervistato dall’Unità, ha contestato il fatto che accettando il proporzionale non rispettate le decisioni assunte dall’Assemblea nazionale Pd, che aveva votato per il maggioritario con doppio turno.
«È vero. Abbiamo lasciato quel testo, come il Pdl ha lasciato il suo. Quando vai a un incontro con altri, devi decidere se lo fai per esigenze di bandiera o per costruire davvero una situazione nuova. Noi abbiamo rinunciato al secondo turno, il Pdl al premio di maggioranza. Quando si negozia non si può pretendere di imporre il proprio progetto».
Tonini, sempre su questo giornale, ha chiesto un “compromesso più equo” del correttivo disproporzionale di 142 seggi.
«Ha ragione. Va tenuto conto di questa obiezione. Comunque quella riflessione era precedente all’orientamento favorevole alla riduzione del numero dei parlamentari».
E l’obiezione che non indicando prima del voto le alleanze non ci sarebbe la chiarezza che c’è stata finora?
«La chiarezza era apparente. Si fingeva di fare un programma, che era una somma disomogenea di proposte nel loro insieme irrealizzabili. In realtà si voleva solo sconfiggere l’avversario. Con la nuova legge elettorale, se riusciremo nell’intento, si sarà giudicati non per la compagnia con cui si va ma per gli obbiettivi che ti proponi per il Paese».

il Riformista 15.2.12
Se anche il proporzionale è bipolare
di Giorgio Merlo


Tra le varie panzane che circolano in queste settimane sulla riforma della legge elettorale ce n’è una particolarmente curiosa. E cioè, il ritorno del proporzionale, seppur corretto, avrebbe effetti letali per la conservazione del bipolarismo.
Superando, infatti, il dio maggioritario la politica italiana si avviterebbe su se stessa e ritornerebbero, ci spiegano alcuni scienziati del Pd, del Pdl e gli indomabili professionisti dei nuovi orizzonti, i vecchi scenari e i soliti riti della prima repubblica. Ora, per evitare di dire sciocchezze e declinare falsità, è appena il caso di ricordare che il culmine della frammentazione politica il nostro paese l’ha conosciuto ai tempi del “mattarellum” dove per vincere in un collegio si era costretti a raccattare anche l’ultimo voto del partito e della sigla si fa per dire nati la settimana prima della presentazione della lista. Per non parlare di quello che capitava regolarmente dopo il voto quando la polverizzazione dei gruppi in Parlamento era la regola a cui si doveva tristemente assistere. Ma in quel contesto, ci spiegano i nostri scienziati, il bipolarismo era salvo e la democrazia italiana funzionava come un perfetto orologio. Una situazione talmente cristallina che, non caso, culminò attraverso il “porcellum” con la formazione dell’Unione che ha rappresentato la fase più buia e più squallida del centro sinistra nel nostro paese. Per non parlare di quello che è capitato nel centro destra. Ma, per restare all’oggi, chi ha detto che con un sistema elettorale proporzionale scompare il bipolarismo? Chi ha detto che con una legge di questo stampo non si formano coalizioni di governo? Chi ha detto che il proporzionale è sinonimo di ritorno al passato rispetto allo squallore di coalizioni del presente che contengono al proprio interno tanto la maggioranza quanto l’opposizione?
Simili affermazioni rispondono al desiderio dei soliti noti di piegare la politica italiana alle proprie certezze ideologiche che, puntualmente, vengono smentite dalla concreta realtà dei fatti. Non a caso, dopo la sbornia maggioritaria e la costruzione di coalizioni più simili a cartelli elettorali che non a vere alleanze di governo, dobbiamo fare i conti con una “riscrittura” del sistema politico che ridia agli elettori la scelta degli eletti ma, soprattutto, che garantisca la formazione di coalizioni capaci di governare e non solo di vincere le elezioni per poi essere esposte al vento della sistematica ingovernabilità. E il proporzionale, su questo versante, può garantire il raggiungimento di questi obiettivi con opportuni correttivi che riducono la frammentazione e incentivano la formazione di coalizioni che si pongono l’obiettivo del governo e non solo quello della momentanea conquista del potere. Certo, sono obiettivi che confliggono con la religione del nuovismo che individua nel maggioritario e nel bipolarismo astratto i dogmi attorno ai quali la politica si rigenera e si autorappresenta. Con il superamento del “porcellum”, invece, abbiamo la possibilità di ridefinire le coordinate di un sistema politico che non ripete le storture del passato ma si pone l’obiettivo di rigenerare la politica italiana ripristinando quelle condizioni che sono basilari per garantire un vero rinnovamento e, soprattutto, per consentire un reale governo del paese. Del resto, ci sono molti paesi europei che confermano come anche il sistema proporzionale, seppur variamente modulato, garantisce un corretto funzionamento del Parlamento con maggioranze che governano e opposizioni che controllano e si preparano a sovvertire il risultato elettorale alle prossime consultazioni.
Ora, si tratta di verificare se c’è il coraggio politico di intraprendere una strada che mette in discussione i dogmi che sino ad oggi hanno retto e condizionato, per lunghi 18 anni, la politica italiana. Un coraggio che passa attraverso il recupero della categoria del “governo” come elemento discriminante della politica e non solo della sommatoria elettorale astratta ed inconcludente. Quella stagione, seppur con doverosi distinguo, l’abbiamo conosciuta sia con Prodi e sia con Berlusconi. Adesso si tratta di aprire finalmente una nuova pagina. Ma una nuova fase politica normalmente non si apre con strumenti elettorali vecchi e che hanno già fallito.

Repubblica 15.2.12
Il pugno chiuso
di Alessandra Longo


Un milione di euro. E´ quanto serve subito al «manifesto», messo in liquidazione (causa il taglio dei fondi governativi per l´editoria). Il minimo per tentare di sopravvivere. L´appello di pochi giorni fa pare funzionare. In molti stanno aderendo alla «campagna mille euro per mille lettori» lanciata da Valentino Parlato. Quelli che non possono staccare assegni cercano perlomeno di sostenere il giornale in edicola. «Inizio confortante», commenta il quotidiano. Ma il pericolo di sparire c´è, così come una sensazione, molto diffusa a sinistra, di «perdita di senso». L´ultima istantanea di gruppo, una settimana fa. Quelli del «manifesto» in posa per i fotografi. C´è chi fa il pugno chiuso. E viene subito ripreso: «No, il pugno chiuso no, non è il momento».

il Fatto 15.2.12
Gubbio: il  “lupo” era di Rifondazione
Arrestato l’ex sindaco Goracci, oggi in Regione
di Rita di Giovacchino


Lo chiamavano il Re, oppure lo Zar, invece Orfeo Goracci era soltanto il sindaco, a capo di una Giunta monocolore, rosso fuoco visto che tutti gli assesori erano, come lui, appartenenti a Rifondazione comunista. Lo scandalo che scuote Gubbio è quasi una storia medievale: descrive un intero paese asservito ai capricci di un sindaco despota, circondato da collaboratori corrotti, a capo di un harem disposto a soddisfare i suoi capricci.
DA MESI si vociferava di guai giudiziari che assediavano l’ex sindaco nel frattempo divenuto vicepresidente del consiglio regionale umbro, ma lui minimizzava: “Soltanto chiacchiere, io in questa storia sono parte lesa”. Fatto sta che Goracci è stato arrestato, assieme ad altri otto. Nelle cinquanta pagine dell’ordinanza la giunta comunale viene descritta come “un’associazione a delinquere finalizzata all’abuso di ufficio, concussione, abuso di potere nei confronti di dipendenti incaricati di pubblico servizio”. Con me o contro di me, era il motto del sindaco padrone. Se il malcapitato poi era donna anche abusi e violenze sessuali, tanto più gravi “perché consumati nell’ufficio del sindaco”.
In manette con lui sono finiti il vicesindaco Maria Cristina Ercoli, gli assessori Lucio Panfili e Graziano Cappannelli e il dirigente comunale Lucia Cecili. Agli arresti domiciliari, invece, sono finiti un altro ex assessore, Marino Cernicchi, l’ex presidente del Consiglio Comunale, Antonella Stocchi ( “consigliere comunale legata anche sentimentalmente al Goracci”), l’ex segretario comunale, Paolo Cristiano e Nadia Ercoli, funzionario della polizia municipale e sorella dell’ex vicesindaco.
TUTTI I POLITICI sono espressione del Prc, tolto Cap-pannelli che è un esponente dell’Idv. Tra le accuse ci sono abusi e pressioni per favorire Nadia Ercoli e farla diventare comandante della Polizia municipale, minacce di rimozione rivolte a un dirigente “accusato di non aver sottoscritto la lista di Rc e non aver penalizzato un dipendente diessino”. C’è poi il tentativo di procedimento disciplinare nei confronti di un sindacalista sospettato di inviare “bigliettini anonimi sulle malefatte dell’ex sindaco”. Tra gli abusi l’assegnazione di un bar “a persone legate a Rifondazione”. Fino alle pressioni su un consigliere comunale del Pd se non avesse procurato a Goracci l’appoggio del suo partito per le amministrative 2006.
La prima a ribellarsi è stata Nadia Minelli, un vigile urbano, relegata in uno sgabuzzino e retrocessa nelle mansioni per essersi rifiutata di cedere alle pressanti avances. “La logica era chiara: o eri donna e cedevi o eri uomo e avevi agganci politici o di amicizia con Goracci o con persone riconducibili al suo gruppo, oppure eri fuori dai giochi”, ha spiegato Minelli ai magistrati. La donna sarebbe stata esclusa dalle stabilizzazioni perché “invisa” alla Giunta.
Scrive il gip di Perugia: “In due distinte occasioni Goracci ha costretto una dipendente, alla quale inviava numerosi sms e pressanti inviti per intrattenere rapporti sessuali, a subire atti sessuali, baciandola, cingendole le spalle e tirandola a sé, contro la volontà della donna, commettendo il fatto nella sua qualità di pubblico ufficiale e all’interno del proprio ufficio di sindaco”. Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione dà il proprio sostegno ai magistrati ricordando che già a novembre il partito ha sospeso gli indagati e chiesto a Goracci di dimettersi dal Consiglio regionale. Ma lui non lo ha fatto.

Repubblica 15.2.12
I giovani, il lavoro e i lapsus del governo
di Carlo Galli


Nel momento in cui il governo mette mano alla riforma del lavoro – cioè all´atto politicamente più significativo del suo mandato emergenziale – i recenti lapsus comunicativi di alcuni suoi importanti esponenti sono preziosi non tanto per intentare processi alle intenzioni, quanto perché permettono di inquadrare la dimensione reale dei problemi in gioco.
In primo luogo, c´è un problema cognitivo: le élites sociali, economiche, intellettuali del Paese, oggi investite della diretta responsabilità di governo, conoscono l´Italia attraverso stereotipi (la colpa delle nostre condizioni è nel buonismo sociale) oppure attraverso le privilegiate esperienze di familiari e di amici (da cui apprendono che la mobilità è benefica, e che il lavoro gratificante si trova a Washington o a Wall Street o nella Silicon Valley, e non a casa di papà e mamma dove lo cercano, senza trovarlo, i giovani e illusi fannulloni). Questo cortocircuito è il segno che le élites oggi sono distanti dalla massa dei cittadini; la contrazione del ceto medio – già ampia e articolata riserva di energie culturali, sociali e anche politiche – lascia il campo a una società frammentata fra le élites sempre meno numerose, e sempre più separate, e i cittadini "normali", sempre più anonimi, passivi, incompresi. Non è questione di buona volontà o di sensibilità individuale. È una nuova struttura della società ciò che si profila dietro quelle parole.
Da qui un ulteriore problema politico. Le élites hanno sempre maggiore difficoltà a dirigere un Paese attraverso un´egemonia di tipo tradizionale: cioè attraverso un discorso che sia, com´è inevitabile, di parte, ma che al tempo stesso sappia aprire un orizzonte in cui c´è spazio per tutti, e non solo per pochi privilegiati. Ciò non significa che il governo non farà nulla per modificare il contesto in cui il lavoro manca per giovani e meno giovani, e, quando c´è, è sempre più spesso precario, sottopagato, non in linea con gli studi effettuati, e poco tutelato; significa però che oggi le élites muovono, per default, da una posizione, da una ideologia, che vede gli imperativi sistemici dell´economia non solo come privi di alternative ma anche scarsamente governabili. Significa che sostituiscono l´oggettività alla persuasione e al consenso – la tecnica alla politica, si direbbe, se non fosse politico anche l´agire che si presenta come tecnico –.
Le élites hanno in mente un futuro poco condiviso da chi lo deve vivere, cioè soprattutto dai giovani (che del futuro sono i naturali abitatori). E lo propongono senza farsene troppi problemi, senza sforzarsi neppure di nascondere il fastidio per la riluttanza dei diretti interessati davanti all´immagine, presentata come gratificante, di un lavoro perennemente mobile – cioè, in realtà, perennemente mancante –. Tanto che li trattano con qualche durezza, con qualche impazienza, poiché li vedono collocati prevalentemente nel "passato". Ma in realtà quei giovani, e anche i meno giovani, hanno i piedi ben piantati nel presente; e conoscono già, da qualche decennio, la realtà del lavoro che scarseggia; ma la vivono come una perdita, come un vulnus, rispetto sia alle aspettative individuali (tutte illusorie?) sia allo stesso impianto categoriale e valoriale della Costituzione.
E questo è un ulteriore problema politico. Come conciliare la previsione programmatica e valoriale di una repubblica democratica fondata sul lavoro – ovvero l´idea di una civile convivenza che al lavoro affida la funzione di socializzazione, di promozione della persona umana, e che ne fa lo strumento privilegiato perché il cittadino determini in autonomia il proprio avvenire –, con la realtà di segno opposto del recente passato, del presente e anche dell´avvenire? Questo è un problema che deve interpellare chiunque faccia politica (a qualunque titolo), e spingerlo a interpretare con buon senso e con radicalità (cioè senza ideologie e senza superficialità) l´esperienza presente, ma anche a ricondurla nell´alveo, della nostra Costituzione, della nostra democrazia.
L´ultimo, e più grave, problema politico a cui rimandano le difficoltà comunicative del governo è infatti la crisi del capitalismo (o almeno della interpretazione che ne dà la dominante cultura neoliberista). È una crisi che ha almeno due volti: dal punto di vista istituzionale, implica un conflitto tra finanza e democrazie indebitate che apre contraddizioni laceranti fra i politici (sia i "tecnici" al governo, sia i partiti in Parlamento) che si devono fare carico di misure decise fuori dagli spazi della sovranità democratica, e i cittadini che le subiscono. Da un punto di vista materiale, poi, il capitalismo sta perdendo la sua capacità di realizzare crescita attraverso il lavoro sociale, che è stata la sua giustificazione storica, la sua legittimazione democratica. Se è vero che è più facile, oggi, creare ricchezza che creare lavoro, e che il lavoro sarà sempre più spesso scarso, dequalificato e sottopagato, che ne è del significato progressivo del capitalismo, della sua promessa di futuro?
Almeno alla questione del lavoro – della sua difesa, della sua centralità politica, del suo sviluppo – anche un governo "tecnico" non può non impegnarsi a dare risposte all´altezza della questione democratica che vi è implicita. Una risposta linguisticamente, concettualmente, operativamente, adeguata alla fiducia non solo tecnica che riscuote dentro e fuori d´Italia.

l’Unità 15.2.12
Valore legale della laurea
No alle disuguaglianze per un sapere di tutti
di Luca Spadon


Noi studenti, che abbiamo protestato per anni contro la legge Gelmini, siamo stupiti di come il nuovo governo abbia deciso di mantenere inalterato tutto l'impianto di quella legge e di proseguire sul cammino della privatizzazione dell'università, attraverso una proposta già presentata dal precedente esecutivo, cioè l'abolizione del valore legale del titolo di studio.
Questo progetto, voluto da Confindustria, appoggiato dal precedente ministro Gelmini e sostenuto da alcuni politici e docenti universitari tramite un appello che circola su Internet da qualche settimana, ci appare una misura inutile e dannosa nei confronti del sistema formativo italiano.
L'abolizione del valore legale del titolo di studio aumenterebbe il divario già esistente tra gli atenei, differenziandoli tra università di serie A e di serie B, costruendo atenei accessibili a pochi e aumentando le disuguaglianze sociali. Non è un caso che chi propone questo modello proponga anche la liberalizzazione delle rette universitarie (già tra le più alte d'Europa) e i prestiti d'onore. È evidente come queste misure facciano parte dello stesso disegno verso la creazione di un'università per pochi, con forti barriere economiche all'accesso, che costringerebbero gli studenti a indebitarsi a vita per pagare delle rette altissime.
Ci appare evidente l'esistenza di uno scontro tra due modelli di università: da un lato l'idea dell'università europea, accessibile a tutti e con un forte investimento sul diritto allo studio e dall'altra parte un modello anglosassone costosissimo e d'élite. Non si capisce quale sarebbe, altrimenti, l'obiettivo del provvedimento: nel settore privato la selezione già oggi avviene in base al curriculum o ad altri criteri, mentre nel pubblico il valore della laurea è solo una garanzia minima contro la completa arbitrarietà della selezione. Serve a far partire tutti dallo stesso punto di partenza ma non avvantaggia nessuno, e sicuramente non può essere visto come un ostacolo alla valutazione delle reali capacità di una persona.
Ci chiediamo forse provocatoriamente perché questo governo invece di proporre la cancellazione del valore legale della laurea non pensi a strumenti reali per migliore l'università: aumentando i finanziamenti al Ffo e al diritto allo studio, costruendo un sistema di valutazione non punitivo ma volto al miglioramento della didattica e della ricerca e magari chiudendo definitivamente le università telematiche. Il ministro Profumo ha annunciato che partirà una consultazione sulla proposta, parteciperemo esponendo la nostre critiche e presentando le proposte dell’AltraRiforma, elaborate da migliaia di studenti, precari e ricercatori durante le mobilitazioni dello scorso anno.

l’Unità 15.2.12
Landini: sciopero il 9 marzo La Fiom si ricompatta


Di settimana in settimana, con l’evolversi della situazione economica e politica italiana, anche la mobilitazione nazionale della Fiom è cresciuta d’intensità e d’importanza: nata il mese scorso come manifestazione di piazza contro il contratto separato del gruppo Fiat, è diventata ieri sciopero generale della categoria per difendere l’articolo 18.
Il comitato centrale dei metalmeccanici della Cgil, infatti, ha approvato all’unanimità la proposta del segretario Maurizio Landini: il 9 marzo le tute blu incroceranno le braccia per otto ore su tutto il territorio nazionale e sfileranno in manifestazione a Roma, mentre sabato 18 marzo si terrà l’assemblea nazionale dei delegati. Secondo il leader della Fiom, lo sciopero generale si è ormai reso «necessario», da quando «le politiche del governo denotano una volontà esplicita di intervenire sull’articolo 18». Ma ogni tentativo in tal senso va respinto con fermezza, perchè la norma simbolo dello Statuto dei lavoratori «non può essere oggetto nè di trattativa nè di negoziato». Una posizione che i metalmeccanici condividono con tutto il sindacato di Corso Italia. Non a caso quella del 9 marzo è stata una decisione «discussa con la Cgil» e che può vantare «il consenso della Confederazione». Ma le critiche all’esecutivo Monti vanno ben oltre l’articolo 18: «C’è la volontà di mettere mano ai diritti per una licenziabilità». Mettendo assieme la riforma delle pensioni e la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro, inoltre, secondo Landini «c’è un tratto comune che ci dice che non siamo di fronte a provvedimenti presi a caso, ma a riforme strutturali che denotano un'idea sbagliata di uscita dalla crisi».

il Fatto 15.2.12
Ior, colpo di spugna sull’antiriciclaggio
Ecco le carte che inchiodano il Vaticano
In una lettera il cardinale Nicora, capo dell’antiriciclaggio, lancia l’allarme: con la nostra ultima legge, facciamo un passo indietro e resteremo un paradiso fiscale.
di Marco Lillo


Il dossier del cardinal Nicora alla Segreteria di Stato e a Gotti Tedeschi: “Con la nuova legge meno controlli sui fondi”

Altro che trasparenza, altro che collaborazione altro che volontà di fornire tutte le informzioni a chi indaga. Il Vaticano non ha alcuna intenzione di attuare gli impegni assunti in sede europea per aderire agli standard del Comitato per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali (MONEYVAL) e non ha alcuna intenzione di permettere alle autorità antiriciclaggio vaticane e italiane di guardare cosa è accaduto nei conti dello IOR prima dell’aprile 2011. A scriverlo nero su bianco non è un giornalista del Fatto Quotidiano o un ignoto estensore di memo riservati di dubbia paternità, bensì le due massime autorità in materia dentro le mura leonine: il cardinale Attilio Nicora (ex presidente dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica e ora presidente dell’Autorità di Informazione FinanziariadelVaticano, l’AIF) e il professor Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale della Città del Vaticano.
I due documenti riservati raccontano qual è, al di là dei comunicati della sala stampa dati in pasto ai giornali italiani, la vera politica della Santa Sede sul fronte antiriciclaggio. Una politica che nei fatti, per quanto attiene ai fatti accaduti fino al recente passato somiglia a quella di uno dei tanti paradisi fiscali del mondo.
IL PRIMO documento è firmato dal presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, professore di diritto e magnifico rettore della Lumsa oltre che membro del consiglio direttivo del-l’AIF. Si tratta di un parere legale richiesto dalla Segreteria di Stato alla massima autorità consultiva in materia giuridica nel Vaticano. In pratica il cardinale Tarcisio Bertone chiedeva a Dalla Torredistabilirequalefosselagiusta interpretazione da dare alla nuova normativa antiriciclaggio introdotta da Papa Benedetto XVI nel dicembre del 2010 ed entrata in vigore nell’aprile scorso. Come Il Fatto ha raccontato nel Vaticano si erano distinte due linee diverse: la prima, sostenuta dal direttore generale dell’AIF, l’avvocato Francesco De Pasquale, puntava a spingere la banca vaticana, lo IOR, a collaborare con le autorità antiriciclaggio interne (AIF) e a fornire tutte le informazioni richieste dalla giustizia italiana, anche sui fatti precedenti all’aprile del 2011. La seconda linea, sostenuta invece dall’avvocato Michele Briamonte dello studio Grande Stevens di Torino invece sosteneva che l’AIF non avesse quei poteri di ispezione sui movimenti bancari precedenti all’aprile del 2011. Ovviamente la lotta di potere tra AIF e IOR, la disputa tra De Pasquale e Briamonte, aveva un riverbero immediato nei rapporti tra Stati. Solo se avesse vinto la linea “collaborativa” dell’AIF infatti, le autorità giudiziarie e bancarie italiane sarebbero state in grado di mettere il naso (tramite il cavallo di Troia dell’AIF) nei segreti dello IOR. Altrimenti le indagini italiane in corso si sarebbero arenate. Il Fatto aveva pubblicato il 31 gennaio scorso un documento riservato (“Memo Ior-AIF”) dal quale si comprendeva che nei fatti stava vincendo la linea “non collaborativa” e che il presidente dello IOR e dell’AIF avevano tentato di coinvolgere il Segretario di Stato Tarcisio Bertone e il segretario del Papa, George Ganswein, per convincere il Governo Vaticano a collaborare con l’autorità giudiziaria italiana. Sul memo si leggeva: “L'Aif (....) ha inoltrato allo Ior alcune richieste di informazioni relative a fondi aperti presso l'Istituto, cui quest'ultimo ha corrisposto, consentendo tra l'altro lo sblocco dei fondi sequestrati dalla Procura di Roma (....) Ultimamente, tuttavia la Direzione dell'Istituto ha ritenuto di riscontrare le richieste dell'Aif - relative ad operazioni sospette o per le quali sono in corso procedimenti giudiziari - fornendo informazioni soltanto su operazioni effettuate dal primo aprile 2011 in avanti”. Quando quel documento rivelato dal Fatto era stato ripubblicato 8 giorni dopo da La7 in tv, la Santa Sede aveva finalmente emanato un comunicato per smentire che il Vaticano non intendesse fornire informazioni bancarie sui fatti precedenti all’aprile del 2011. “Non emerge la resistenza dello IOR a collaborare in caso di indagini o procedimenti penali su fatti precedenti al primo aprile 2011”. Il parere di Dalla Torre (disponibile integralmente sul sito del Fatto) dimostra il contrario e spiega perché i magistrati della Procura di Roma non stanno ricevendo le informazioni né per via di rogatoria, come raccontato in tv dal pm Luca Tescaroli, né tramite l’AIF, nel caso dei pm Nello Rossi e Stefano Fava che indagano il presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale Cipriani per violazione delle norme in materia di antiriciclaggio. Il parere di Dalla Torre dimostra che si tratta di una scelta voluta. Alla domanda di Bertone, se lo IOR debba rispondere all’AIF anche per le operazioni avvenute prima dell’aprile del 2011, la risposta del presidente del Tribunale è un no tondo: la legge “non permette all’AIF l’accesso alle operazioni e ai rapporti intercorsi prima dell’entrata in vigore della legge”. Esattamente l’opposto di quanto affermato nel comunicato della sala stampa della Santa Sede del 9 febbraio. Il parere di Dalla Torre risale al 15 ottobre del 2011 e delinea la linea che poi sarà attuata nel decreto del Presidente del Governatorato Vaticano del 25 gennaio scorso. Il decreto dell’arcivescovo Bertello, priva l’AIF dei poteri di ispezione, rimessi a successivi regolamenti da emanare. Con la conseguenza che le indagini bancarie e giudiziariedelloStatoitalianoinmateria si fermeranno. Il senso di questa scelta è spiegato dal secondo documento che pubblichiamo a fianco (integralmente sul sito), firmato dal presidente dell’AIF il Cardinale Attilio Nicora. È una lettera del presidente dell’AIFdel12gennaio2012, trasmessa il giorno dopo dall’avvocato De Pasquale dell’AIF per mail al presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi e precedentemente inviata al Segretario di Stato Tarcisio Bertone. Questo documento è la dimostrazione che lo Stato Vaticano, dopo l’aprovazione della legge del dicembre del 2011 che ha rappresentato certamente un primo importante passo verso l’apertura alla trasparenza bancaria, ha scelto di fare retromarcia.
PECCATO che come segnala Nicora in neretto: “Non va trascurato l’apetto attinente ai profili di opportunità verso l’esterno e al rischio reputazionale a cui può andare incontro la Santa sede”. L’AIF, l’Autorità antiriclaggio diretta dall’avvocato Francesco De Pasquale e presieduta dal cardinale Attilio Nicora è oggi poco più che uno specchietto per le allodole, privata dei poteri. Un’Autorità depotenziata che ha perso la sua guerra con la linea di chiusura sposata dal segretario di Stato Bertone, perché evidentemente si era mostrata troppo collaborativa con le autorità italiane. Questo evidente passo indietro sulla strada del Vaticano per uscire dalla “lista grigia” dei paesi poco affidabili dal punto di vista fiscale e finanziario, è segnalato proprio dal cardinale Attilio Nicora quando si vede sottoporre la prima bozza del decreto (poi pubblicato il 25 gennaio) il 9 gennaio. Una bozza che al Fatto risulta essere stata modificata solo leggermente e che non è stata invece toccata ed è divenuta un decreto per la parte che più contava: la drastica riduzione dei poteri dell’AIF di ispezione nei conti dello IOR. La battaglia non è definitivamente conclusa. Il decreto deve essere convertito entro 90 giorni. Il Governo italiano e l’Unione Europea hanno tempo fino alla fine di aprile per fare pressione sullo Stato del Vaticano perché torni sui suoi passi. Non sembra però che né il premier Mario Monti né i partiti (compresi quelli di sinistra) si interessino particolarmente alla questione.

il Fatto 15.2.12
Contropoteri. Le relazioni pericolose con Sodano
Legionari, missioni e bustarelle
Pubblichiamo alcune pagine del libro-inchiesta di Jason Berry ed edito da Newton Compton, “Le casse del Vaticano. La vita segreta del denaro nella Chiesa cattolica”.
di Jason Berry


Maciel si rivolse al papa attraverso monsignor Dziwisz”, riferisce padre A. “Due settimane dopo Pironio lo firmò”. Che Giovanni Paolo II abbia letto il documento è dubbio. La pronta risposta di Dziwisz indica come egli fosse obbligato verso i Legionari ben prima di ricevere il donativo di 50.000 dollari. Per Maciel, la violazione codificata dei diritti individuali che lo statuto comportava, approvata dal papa, rappresentava una vittoria. Molti anni dopo la morte di Pironio, il pontefice nominò Martínez Somalo, alla guida di una Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Maciel mandò padre A a casa del cardinale Martínez Somalo con una busta. “Io non battei ciglio”, ricorda. “Salii al suo appartamento, gli diedi la busta e lo salutai”. Afferma che il contenuto dell’involucro era di 90.000 dollari. “Era un modo per farsi degli amici, assicurandosi un certo qual sostegno, oliando gli ingranaggi, per così dire”. Martínez Somalo ignorò le accuse del 1997 contro Maciel. Giovanni Paolo II, in seguito, lo nominò camerlengo, ovvero l’ufficiale incaricato del conclave. Martínez Somalo ha rifiutato con decisione le mie richieste di intervista attraverso il portavoce vaticano, padre Lombardi (...). “Si parlava molto di Martínez Somalo, tra i Legionari (...) era un amigo de Legión”, ricorda Glenn Favreau, un avvocato di Washington che lasciò l’ordine nel 1997 dopo sette anni trascorsi a Roma. Favreau, che non subì molestie da Maciel, spiega: “C’erano cardinali che non erano amigos. Pio Laghi non amava i Legionari di Cristo”. Di tutti i cardinali della Curia, Sodano era il più vicino a Maciel. Il loro rapporto risaliva agli anni di Pinochet in Cile: anime gemelle fin dall’inizio, dal punto di vista ideologico. Nel 1980 i Legionari avevano bisogno dell’autorizzazione del cardinale Raúl Silva Henriquez per fondare delle scuole a Santiago. Critico nei riguardi del regime di Pinochet a causa delle sue atrocità, Silva nutriva dubbi sui millionarios de Cristo, come alcuni messicani li chiamavano ironicamente. Eppure, incontrò alcuni emissari dell’ordine, tra cui il rettore della Anáhuac University, in Messico, fondata da Maciel nel 1964. Molti vescovi ausiliari pregarono Silva di non ammetterli, ma “in una società divisa come il Cile di allora”, riferiscono i giornalisti Andrea Insunza e Javier Ortega, “i Legionari trovarono un fondamentale alleato: il nunzio apostolico, Angelo Sodano”. Quest’ultimo sosteneva i Legionari e l’Opus Dei in Cile. Nel 1989 Sodano prese lezioni d’inglese presso una scuola di Dublino tenuta da Legionari. Passò poi le ferie in una casa vacanze dei Legionari a Sorrento. A Roma, spiega Favreau, “Sodano venne con la sua famiglia, duecento persone, per un grande pranzo dato in occasione della sua nomina a cardinale. Li accogliemmo”. Il fratello di Sodano, Alessandro, era un ingegnere civile coinvolto in accuse di corruzione, nei primi anni ’90. Il nipote del cardinale, Andrea, ingegnere civile e poi vicepresidente del Follieri Group, lavorò anche lui alla Regina Apostolorum. Due Legionari, dopo aver visto il progetto, pensarono che il lavoro di Andrea non fosse all’altezza, e quando suggerirono a Maciel di non pagarlo, lui si mise a urlare: “Pagatelo, e pagatelo adesso!”. E così fecero. Secondo alcuni sacerdoti Maciel approvò dei donativi al cardinal Sodano, rispettivamente di 10.000 e 5000 dollari. Costoro pensano che i fondi in questione siano solo la punta dell’iceberg, per Sodano. (...) Sodano, però, fece a Maciel un favore ancor più grande, insistendo con Ratzinger perché fermasse la controversia di diritto canonico presso la Congregazione per la dottrina della fede.

La Stampa 15.2.12
Tentata violenza sui minori Per don Seppia chiesti 11 anni


GENOVA Il pubblico ministero di Genova Stefano Puppo ha chiesto 11 anni e 8 mesi (e sanzioni a vario titolo per 32 mila euro), per don Riccardo Seppia, 52 anni, l’ex parroco di Sestri Ponente don Riccardo Seppia. Nessuna delle presunte vittime della violenza sessuale si è costituita parte civile.
Il sacerdote è stato arrestato nel maggio scorso con l’accusa di tentata violenza sessuale su minori, plurima offerta di droga anche a minori, tentata induzione alla prostituzione minorile, tentata induzione alla prostituzione minorile. L’ex parroco di Sestri Ponente, che ha assistito all’udienza in silenzio, è tornato nell carcere di Sanremo.

Nel corso dell’udienza, il gup Roberta Bossi ha respinto la richiesta della radicale Marta Palazzi, che aveva chiesto di costituirsi parte civile in sostituzione del Comune di Genova per una «operazione di trasparenza e pulizia». Condanna di un anno per la cessione di droga al sodale di don Riccardo, Emanuele Alfano (e seimila euro di multa). Il processo è stato aggiornato al prossimo 19 marzo.

l’Unità 15.2.12
Nanerottoli
Sindaco avvisato
di Toni Jop


Si può dire quel che si vuole di Monti. Ma chi se la sarebbe sentita di mettere le Olimpiadi nelle mani di uno come Alemanno? Una gag sostiene con brio che la colpa di tutto, a Roma, sarebbe di Rutelli che non ha vinto, lasciando a sorpresa la città ad un pidiellino senza charme ma dal passato total black. Sotto il suo regno, i peggiori neofascisti sono stati premiati nelle istituzioni e negli affari; la più bella città del mondo – Roma – si è accasciata, intristita, blando ricordo di quel crocevia della Terra che è il suo ruolo naturale da un paio di millenni.
Per le sue strade, si muore facilmente non di vecchiaia, ma di coltello e pistola, ogni giorno. Se nevica, Alemanno dice che nessuno l'aveva avvisato a dispetto dell'intera città che invece sapeva. Se Monti gli avesse detto di sì, il giorno dell'inaugurazione delle Olimpiadi, con niente a posto si sarebbe difeso dicendo: credevo che il sì di Monti fosse solo sfottò.

l’Unità 15.2.12
Alemanno alla Stalin
In un libro 55 pagine e 48 foto del sindaco
L’omaggio nel mensile fatto stampare dal dipartimento Sport di Roma capitale. Il Pd Marroni: «Questa è apologia di sndaco»
di Mariagrazia Gerina


Accanto al bomber della Lazio Miroslav Klose. Insieme all’attaccante della Roma Pablo Daniel Osvaldo. Con il bellissimo Raul Bova, attore ma appassionato di nuoto. Insieme all’ ex allenatore giallorosso Claudio Ranieri. Non c’è profilo, espressione o posa del sindaco di Roma che non venga esplorata nelle cinquantacinque pagine patinate fatte stampare dal Dipartimento delle Politiche dello Sport di Roma capitale in occasione della consegna del Premio Atleta dell’anno 2011.
È vero che la cerimonia, giunta alla sua terza edizione, impone uno schema un po’ rigido. Ma nelle 55 pagine a colori curate dalla Redazione di Spqr Sport, rivista ufficiale del dipartimento Politiche dello Sport di Roma capitale, il sindaco di Roma viene ritratto ben 48 volte. Mentre sorride. Mentre premia. Mentre stringe la mano a vecchie glorie e giovani promesse dello sport capitolino. Una carrellata degna di un book matrimoniale. Con picchi di sei foto su sette, una di fila all’altra, dedicate al sindaco di Roma, in una sola pagina.
D’altra parte, l’autore di tanto devoto omaggio è uno dei pochi alemanniani rimasti. Alessandro Cochi, delegato del sindaco alle Politiche Sportive. Tanto prodigo con il primo cittadino quanto modesto con se stesso. Lo si intravede appena nella foto, che recita: «Il discorso dell’On. Cochi». Ovviamente anche quello un evento che si compie «sotto lo sguardo attento del sindaco», come non manca di sottolineare la didascalia.
Tanto sollecitudine fa sorgere nel lettore il legittimo dubbio che infondo l’Atleta dell’anno 2011 sia proprio lui, il Gianni nazionale. Immortalato tra le glorie di ogni tempo e di ogni disciplina all’apice del suo entusiasmo sportivo. Un attimo prima che sui suoi sogni di gloria si infrangano contro le decisioni del governo Monti.
La rivista, un mensile di informazione che come sottolinea la pubblicità nel risvolto di copertina viene distribuito gratuitamente durante «i grandi eventi sportivi della Capitale» e «nelle piazze più importanti dei 19 municipi romani, grazie alla scelta di esercizi commerciali (edicole, bar, etc)», reca, infatti, la data del «gennaio 2012». E non manca di aggiungere all’elenco dei premiati e ai riconoscimenti del Campidoglio a società sportive, dirigenti e atleti, un cenno speranzoso alla possibilità per Roma di ospitare i Giochi Olimpici e Paralimpici del 2020.
Quello era il primo numero. Figuriamoci il tenore dei numeri successivi e delle successive iniziative del Dipartimento per Politiche dello Sport se non fosse arrivata la doccia gelata del no alla candidatura olimpica a porre fine alle ambizioni sportive di Roma capitale e del suo sindaco. Proprio l’esito infausto della corsa olimpica del sindaco di Roma aggiunge, invece, ora un che di beffardo all’omaggio postumo.
Resta una domanda: «Quanto è costata quella rivista? Quante risorse pubbliche sono state sperperate?», domanda il capogrupo del Pd in Aula Giulio Cesare Umberto Marroni che sul book alemanniano presenterà una interrogazione in Consiglio comunale. Quarantotto foto in cinquantacinque pagine: «Altro che informazione istituzionale, questa è apologia di sindaco», denuncia, non senza ironia, Marroni.

il Fatto 15.2.12
Il Campidoglio e il Cio
Dimissioni, anzi no. La disfatta di Alemanno (e delle lobby)


Furibondo. Al punto da minacciare di “dimettersi”, per creare “un problema politico enorme”, salvo poi sentirsi dire, con il consueto understatement di Mario Monti, che “la storia recente delle manifestazioni sportive in Italia parla da sola; se proprio vuole fare questo gesto, faccia pure... ”. Gianni Alemanno, dopo la neve di Roma, ieri ha portato a casa la sconfitta che, di fatto, chiude il suo percorso politico in Campidoglio. E non certo in bellezza. Le aveva provate tutte, negli ultimi giorni, il sindaco di Roma, per riuscire a convincere Monti a dare il suo placet. Ha messo in campo tutte le armi. Alla fine si è spinto in una pressione che è stata considerata “quasi intimidatoria” da palazzo Chigi, ma non l’ha spuntata. Di lì la rabbia. Feroce, cieca. Aveva persino deciso di convocare una conferenza stampa per rovesciare addosso al governo tutta lo sdegno per gli appalti perduti e per gli affari che non si faranno, ma poi gli hanno fatto capire che era meglio sfogare l’amarezza in modo meno eclatante; sobrietà, anche nella delusione. Però, un po’ di veleno l’ha dovuto spargere lo stesso.
E COSÌ, appena uscito da palazzo Chigi, con accanto un Mario Pescante più affranto di lui, Alemanno ha picchiato duro: “Rinunciare ad una candidatura vincente, sostenuta da un progetto di ottimo livello tecnico e di grande sobrietà economica, significa non scommettere sul futuro dell’Italia”. E ancora: “Il presidente Monti ha espresso un grande apprezzamento per il nostro progetto (stilato dalla commissione Fortis, ndr) ma nel contempo ha parlato anche di una forte preoccupazione per il rischio di esporre l’Italia sul versante finanziario: io rispetto queste considerazioni ma non le condivido”. A quel punto, Alemanno si è detto disponibile a riversare tutte le “energie” che hanno contraddistinto il lavoro per la promozione della candidatura “per rilanciare la nostra città su nuovi progetti che diano una prospettiva di sviluppo e di speranza per le nuove generazioni”. Come a dire: visto che Monti gioca contro il futuro del Paese, lo faremo da soli. Un finale decisamente velenoso. Ma non poteva essere diversamente, vista la mole di denaro che era in ballo e che i commensali riuniti intorno al tavolo olimpico non si potranno più spartire; se ci fosse stato Berlusconi ancora al governo, il film sarebbe stato senz’altro un altro. Non avrebbe quasi pianto, per esempio, Aurelio Regina, capo di Confindustria Roma e della Fondazione per Roma 2020. Nei giorni scorsi, l’esponente degli industriali romani aveva ricevuto pressioni anche da Emma Marcegaglia, che lo aveva invitato a spiegare a “chi di dovere” il volume di affari in ballo, un po’ come aveva fatto Giancarlo Cremonesi, presidente di Acea e della Camera di Commercio di Roma, che si era adoperato anche a livello pubblicitario, comprando intere pagine dei principali quotidiani per far pressione su Monti con l’uso dell'immagine e delle parole dei campioni olimpici nazionali (in prima fila Federica Pellegrini).
SOLO per la promozione della candidatura presso il Comitato Olimpico, il governo avrebbe dovuto sborsare 42 milioni di euro che il Comitato Promotore, presieduto da Gianni Letta e Mario Pescante aveva già deciso come spendere. La decisione di Monti, insomma, ha lasciato più di un ferito sul campo di battaglia. Per non parlare dei costruttori romani, da Caltagirone a Marco Mezzaroma, già pronti a mettere le mani sull’ammodernamento dello Stadio Olimpico oppure sulla messa a punto della grande incompiuta dei mondiali di nuoto, la città dello sport di Tor Vergata. Ma Monti ha detto no. E le solite lobby stavolta sono rimaste all’asciutto. (s. n.)

il Fatto 15.2.12
L’inutile tragedia greca
di Mario Seminerio


Ora che il parlamento greco ha approvato l'ennesima austerità per ottenere l'ennesimo “salvataggio”, è bene riflettere su ciò che aspetta il paese ellenico.

Nessuna novità, saranno ancora lacrime e sangue. In assenza della possibilità di deprezzare il cambio, alla Grecia viene richiesta una svalutazione interna, fatta di tagli a salari, stipendi e pensioni, pubblici e privati. Ma la Grecia è un paese “peculiare”: corruzione pervasiva, un sistema di esazione delle imposte che è praticamente inesistente, un'economia che ha nel sommerso il proprio asse portante. La soppressione della domanda interna di fatto sta avvenendo, come dimostrano i dati di Pil degli ultimi tre anni, ma mai come nel caso greco si assiste allo scontro tra una concezione da libro di testo del riequilibrio macroeconomico e la realtà. E il dramma è che la cocciutaggine tedesca nel perseguire una feroce politica pro-ciclica credendo che questo da solo basti per riportare la crescita determina un muro di tragica incomunicabilità.
LA TRAPPOLA è scattata da tempo, e qualunque azione si rivela controproducente. La Grecia non può pensare di dichiarare un default unilaterale e di ritirarsi dall'Eurozona. Ciò causerebbe un collasso senza precedenti dell'economia del paese, senza contare le difficoltà operative di reintrodurre una valuta nazionale. Vi sarebbero durissimi controlli sui capitali che rapidamente volgerebbero in soppressione delle libertà civili, si tornerebbe a forme di baratto e di economia di sussistenza ed autoconsumo, le istituzioni affonderebbero, il paese (che è membro della Nato) diverrebbe uno stato fallito, con tutto quello che ne conseguirebbe in termini di sicurezza per l'intera regione.
La stessa idea che una deflazione entro un regime di cambio fisso possa servire a rilanciare l'export è pura illusione, nel caso greco (ma anche in quello portoghese, la prossima euro-tragedia). La Grecia nel 2011 aveva ancora un deficit delle partite correnti pari ad un enorme 8,6 per cento del Pil, senza nessun sostanziale miglioramento dall'inizio della crisi. I mercati da tempo non intendono più finanziare questo deficit. L'aggiustamento si preannuncia quindi incredibilmente doloroso, per non dire tragico. Ma pensare (come fanno le ricette della Troika, mutuate da quelle del FMI per le crisi di bilancia dei pagamenti) che la Grecia possa uscire dalla crisi attraverso il rilancio dell'export non ha alcun senso, almeno nel breve e medio termine, perché la base di esportazioni greche è a bassissimo valore aggiunto: praticamente niente meccanica di precisione, chimica fine, software. Lo stesso turismo, che secondo una semplicistica vulgata potrebbe rappresentare una fonte di riequilibrio della bilancia commerciale, dovrebbe aumentare il proprio giro d'affari a livelli del tutto irrealistici, multipli dell'attuale. Un processo che trasformi la Grecia in una Irlanda al centro del Mediterraneo, cioè con una vocazione all'export ad elevato valore aggiunto, non si crea dall'oggi al domani ma in lustri, ammesso e non concesso di riuscirvi.
Con ciò non si vuol sostenere che questa trasformazione non vada perseguita, ma semplicemente che esiste una sfa-satura temporale tra esigenze dei mercati e quelle dell'economia reale che si dimostra in-gestibile, in assenza di aiuti esterni.
E soprattutto una cosa è pensare di ristrutturare un'economia potendo disporre di risorse per gestire la transizione, tutt'altra cosa è farlo in condizioni di crescente deprivazione della popolazione. Basti pensare all'impatto di una riforma del mercato del lavoro che elimini i contratti collettivi e le garanzie di stabilità occupazionale (almeno quelle che sono rimaste), per accrescere la produttività. Fare ciò potendo contare su risorse di welfare che trasferiscano la protezione dal posto di lavoro al lavoratore è un discorso, farlo abbandonando milioni di persone alla transizione di una elevata disoccupazione è cosa del tutto differente. E questo i tedeschi dovrebbero almeno tentare di immaginarlo.
LA STESSA implementazione delle misure di austerità, per le quali la Germania invoca un commissario europeo che possa sostituirsi ad esecutivo e parlamenti nazionali, necessita di una legittimazione democratica attraverso revisione dell'architettura comunitaria. La sensazione è che siamo solo all'inizio di un percorso di dolore, malgrado le enormi sofferenze già inflitte. Il popolo greco è comunque in trappola, ma questo nelle cancellerie europee è da tempo un segreto di Pulcinella.

l’Unità 15.2.12
Questione di democrazia
di Massimo D’Antoni


Le immagini dalla Grecia dei palazzi in fiamme, che si aggiungono alle notizie dei mesi scorsi sulla difficile condizione di vita della popolazione, ci hanno scosso. Il dramma è del resto attestato anche dai numeri ufficiali: è di ieri il dato sulla contrazione del prodotto interno greco, 7% in meno nell’ultimo trimestre del 2011 rispetto ad un anno prima, peggio del previsto.
L'economia greca si contrae quasi ininterrottamente dall'inizio della crisi nel 2008. Il quasi-commissariamento, con l’affidamento del governo ad un tecnocrate gradito ai partner europei, non ha salvato i principali soggetti politici. Un sondaggio segnala che il premier in carica è ai minimi di popolarità (l’insoddisfazione per il suo operato tocca il 91%); il partito socialista sembra aver pagato lo scotto più pesante, ridotto ad un 8%, mentre crescono i partiti radicali di
destra e di sinistra nonché, dato forse più stupefacente, quel partito conservatore cui dovrebbero essere attribuite le maggiori responsabilità per la gestione degli ultimi anni. Come dire che, se anche le cure imposte fossero efficaci, solo una classe politica votata al suicidio potrebbe metterle in atto.
Non manca chi rimprovera l’elettorato greco di scarsa maturità per la difficoltà di capire che, pur dolorosa, questa è la strada del male minore. Eppure cominciamo ad avere tutti almeno qualche dubbio sulla capacità della democrazia greca di reggere l'urto. Aggiustamenti di questa entità, variazioni così pesanti nel tenore di vita, nel nostro continente erano stati possibili solo come conseguenza di eventi tragici come le guerre. In cuor nostro sentiamo che c’è qualcosa di profondamente ingiusto nella sorte del popolo greco.
Siamo ben consapevoli dell’obiezione: bisogna onorare i propri debiti. Un’affermazione inoppugnabile sul piano astratto e morale, ma non così rispondente alla realtà dell’economia moderna. Il ripudio dei debiti sovrani è stato un evento estremamente frequente anche nell’ultimo secolo. E non è stata forse l’introduzione del principio della responsabilità limitata del debitore uno dei motori dell’economia capitalistica? Che dal diritto di uccidere il debitore insolvente vigente nel mondo antico, passando per la prigione per debiti, si sia arrivati al progressivo alleggerimento delle conseguenze in caso di insolvenza non è l’ennesimo esempio di buonismo, ma risponde a principi di efficienza e alla necessità di preservare il valore dell'attività economica. Il rischio dell’insolvenza, in un’economia di mercato, è sempre ripartito tra debitore e creditore.
Un ulteriore elemento fa riflettere. Nessuno sembra mettere in dubbio che i greci siano collettivamente responsabili, e quindi debbano sostenere le conseguenze, non solo per la qualità della gestione pubblica ma anche per la capacità della loro economia di generare ricchezza. Principio difficilmente contestabile, che però contraddice una certa retorica sulla globalizzazione e la fine al ruolo dello Stato nazione. Se c’è una cosa che questa crisi ha evidenziato è la centralità, anche nel contesto di più avanzata integrazione rappresentato dall’Ue, degli Stati nazionali, che restano la sede della responsabilità politica e l’unica dimensione accettata di solidarietà collettiva. Basta solo questo a mostrarci quanto siamo lontani dalla prospettiva di unione politica in Europa. Una delle ragioni dell’impasse europeo è che i contribuenti di un Paese non vogliono trasferire risorse ad un altro Paese che non le «merita». Insomma, niente solidarietà oltre i confini nazionali.
Il grande storico Ernst Gellner spiegava che gli Stati nazione erano nati, agli albori del capitalismo moderno, con due funzioni: garantire l'omogeneità di lingua e cultura necessaria all’espansione dei mercati e fornire il necessario sistema di mutualità e assicurazione reciproca. L’idea che l’autorità politica possa limitarsi a funzioni di polizia e garanzia di adempimento dei contratti, come vuole il liberalismo classico, è smentita da più di un secolo di sviluppo, in cui la sopravvivenza del mercato è stata garantita dall’estensione della democrazia e insieme logicamente inseparabile l’assunzione di responsabilità collettiva rispetto ai rischi dello sviluppo economico. Qualcuno ultimamente considera tale funzione assicurativa (altresì denominata welfare state) un lusso. E chiamiamo integrazione fiscale un insieme di vincoli e sanzioni tesi ad aumentare l’isolamento reciproco tra i bilanci pubblici nazionali.
Quanto abbiamo davanti agli occhi dovrebbe insegnarci che il rigore senza solidarietà è incompatibile con qualsiasi progetto di integrazione europea. Non vorremmo che, come già in passato, arrivasse a mettere in crisi quel secolare compromesso tra mercato e democrazia che è alla base del nostro benessere e della nostra libertà.

l’Unità 15.2.12
Visita a Pechino dei presidenti europei Barroso e Van Rompuy ma nessun impegno economico
A Washington colloquio tra Obama e il futuro leader della Repubblica popolare Xi Jiping
Europa e Usa bussano ma la locomotiva cinese già perde colpi
Barroso e Van Rompuy a Pechino con il cappello in mano. I presidenti della Commissione e del Consiglio europeo chiedono sostegno nel giorno dei nuovi verdetti pessimistici di Moody’s
Il Dragone arranca. L’export nel 2012 cala del 15 per cento, cresce il debito delle province
di Gabriel Bertinetto


Dal governo cinese Barroso e Van Rompuy si aspettano un aiuto consistente per salvare il Vecchio continente dalla crisi che da solo fatica a risolvere. La Repubblica popolare, con le sue riserve valutarie e il formidabile ritmo di crescita produttiva (9% annuo circa) è percepita come l’antidoto al fallimento dei pluri-indebitati Stati dell’Occidente sviluppato. In Europa come in America. E per un forse non casuale gioco di coincidenze temporali, i leader europei vengono accolti dagli attuali dirigenti cinesi (ieri il premier Wen Jiabao, oggi il capo di Stato Hu Jintao) mentre il numero uno cinese del futuro si reca negli Stati Uniti e incontra Barack Obama. Ma a Pechino Barroso e Van Rompuy scoprono che la Cina ha lei stessa i loro problemi. Da Wen Jiabao ottengono dichiarazioni di principio molto convinte, ma nessun impegno preciso. «Siamo desiderosi di incrementare il nostro coinvolgimento –afferma Wen-. Siamo determinati a mantenere una stretta comunicazione e cooperazione con la Ue». Naturalmente, aggiunge il premier cinese, ci aspettiamo che la controparte «mandi messaggi chiari, forti, positivi». Bruxelles spera che la Cina investa nel Fondo salva-Stati, ma l’incontro produce, per ora, una lista di 31 punti d’intesa che coprono un’ampia gamma di argomenti, dalla sicurezza cibernetica allo sviluppo urbano, ma non menzionano affatto la crisi di Eurolandia. Il tema viene accennato nei commenti di Wen Jiabao in toni alquanto generici: «Siamo pronti a partecipare maggiormente alla ricerca di una soluzione della crisi del debito in Europa».
Eppure Pechino è perfettamente consapevole che l’indebolimento dell’Europa la minaccia direttamente. La Ue è il suo principale partner commerciale, con un interscambio complessivo che nel 2011 si è aggirato intorno ai 560 miliardi di euro. Purtroppo in questo inizio di 2012 l’export cinese, per la prima volta negli ultimi due anni, ha subito una drastica flessione, intorno al 15%. Il mercato dei presunti Paesi ricchi non tira più, le aziende cinesi trovano meno sbocchi. E la Cina si ritrova esposta lei stessa al morbo che Washington e Bruxelles cercano di curare con il vaccino orientale. Per reagire ai contraccolpi dello sconquasso finanziario globale, le autorità comuniste hanno investito enormi quantità di denaro a favore delle province e delle principali città. Risultato, l’indebitamento complessivo delle amministrazioni locali è salito alla monumentale cifra di 1,7 migliaia di miliardi di dollari. Più di metà dei prestiti verranno a scadenza nell’arco dei prossimi tre anni. Come evitare una bancarotta generalizzata? Fornendo ai debitori finanziamenti aggiuntivi.
IL RISCHIO
Queste sono le disposizioni date nei giorni scorsi alle banche. Se sia una mossa coraggiosa e lungimirante per tenere il treno in corsa, o un azzardo che prelude a un disastroso deragliamento, è difficile capire. Ma forse sta lì una spiegazione della cautela cinese nell’aprire le borse del credito ai postulanti venuti da Bruxelles. A Washington intanto il futuro capo della Repubblica popolare, Xi Jinping, chiede a Obama di trattare «con discrezione le questioni che interessano la Cina». Significa non calcare troppo la mano sui diritti umani e le rivendicazioni di ujguri e tibetani. Obama risponde che gli Usa continueranno invece a sollecitare progressi in quel campo, ed esorta Pechino a «giocare con le stesse regole economiche» dei suoi partner, ripetendo ancora una volta le critiche per le scorrettezze commerciali cinesi, dai tassi di cambio artificiali alla violazione dei copyright stranieri. Xi non promette nulla di specifico, ma auspica che si affrontino «i punti di frizione e le divergenze nell'ambito della cooperazione economica bilaterale con lo scopo di trovare una via costruttiva per risultati di mutuo beneficio».
Nei giorni terribili della scorsa estate, quando Obama era alle prese con il rischio default, la Cina continuò a inviare messaggi rassicuranti sull’intenzione di continuare a investire in buoni del tesoro americani, di cui i cinesi sono più grossi detentori. Ma l’americano povero riduce gli acquisti, e i produttori cinesi se ne stanno accorgendo. I due colossi sono legati l’uno all’altro dall’interesse alla comune sopravvivenza. Una verità che travalica i salotti della diplomazia. Un sondaggio Gallup rivela che il 63% dei cittadini considera la Cina un Paese amico, e il 13% addirittura un alleato. Solo il 23% si ostina a considerarla uno Stato ostile.

La Stampa 15.2.12
Obama e Xi: sosteniamo l’Europa
Il prossimo leader cinese alla Casa Bianca. Washington: rispetti le regole sui commerci
di Maurizio Molinari


È l’impegno a lavorare assieme per stabilizzare l’Eurozona in difficoltà che segna il colloquio alla Casa Bianca fra Barack Obama e Xi Jinping, destinato in autunno a diventare il nuovo presidente cinese. Dichiarazioni e gesti dei due leader dentro e fuori lo Studio Ovale servono per dare inizio a piccoli passi a una nuova fase dei rapporti fra le maggiori economie del pianeta. Davanti ai reporter, il presidente Usa esordisce sottolineando la necessità di «regole identiche valide per tutti nel commercio internazionale» e del «rispetto per i diritti umani», ribadendo i due motivi di frizione con il presidente Hu Jintao, pur ribadendo che l’America «ha interesse nella pacifica crescita della Cina». L’ospite replica scegliendo un profilo basso: «Sono qui per tentare di far compiere dei progressi alle relazioni fra i nostri due Paesi». E poi invita Barack e Michelle Obama a Pechino. Il viaggio comunque, ha spiegato il portavoce di Obama, Carney, non potrà avvenire prima delle elezioni del 6 novembre.
Ciò che conta per Obama è creare un rapporto personale con il futuro leader di Pechino. A Xi preme fare altrettanto, senza però urtare la sensibilità di Hu Jintao, che fino a ottobre resterà in sella. «Bisogna tener presente che Xi è venuto qui per parlare a due diversi tipi di pubblico - spiega al New York Times Cheng Li, sinologo della Brookings Institution - e per lui quello cinese è più importante di quello americano», perché la successione non è ancora materialmente avvenuta.
Ma a svelare l’intenzione di iniziare da subito a discutere assieme l’agenda globale dei prossimi mesi c’è il comunicato finale intitolato «Promuovere una crescita forte, sostenibile e bilanciata» perché impegna gli Stati Uniti ad aumentare i risparmi e la Cina le importazioni di beni «made in Usa». Soprattutto, sottolinea la comune priorità di correre in soccorso dell’Eurozona, che rischia di implodere frenando la debole ripresa globale. «L’America e la Cina si impegnano a continuare lo scambio di opinioni sugli sviluppi nei mercati finanziari europei - recita il testo - e a discutere approcci che possano sostenere gli sforzi dell’Europa per rispondere alla crisi del suo debito sovrano».
È la prima volta che Washington e Pechino mettono per iscritto la volontà di coordinare gli interventi per sostenere l’Eurozona: è un passo avanti rispetto alle convergenze di opinione registrate agli incontri autunnali del Fondo monetario internazionale e lascia intendere che proprio di questo si discuterà al G20 in programma a giugno in Messico, indicando nel sostegno comune all’Europa un’agenda di lavoro destinata a segnare il passaggio delle consegne a Pechino fra Hu e Xi.
Mentre Obama riceveva Xi, fuori dalla Casa Bianca centinaia di esuli tibetani denunciavano le violazioni dei diritti umani da parte di Pechino. Si è trattato dell’unico momento di tensione in una giornata segnata dalla volontà di Washington di accogliere l’ospite con tutti gli onori. Se nella serata di lunedì Xi aveva cenato nella residenza dell’ambasciatore cinese con alcuni dei protagonisti dei rapporti bilaterali negli ultimi decenni da Henry Kissinger a Brent Scowcroft - ieri la sala del Dipartimento di Stato intitolata a Benjamin Franklin ha accolto attorno a 18 tavoli duecento ospiti selezionati che rappresentano il gotha degli Stati Uniti, dal vicepresidente Joe Biden all’ex presidente Bill Clinton con il Segretario di Stato Hillary Clinton a nomi di spicco dei media come Thomas Friedman del «New York Times» e Andrea Mitchell della «Nbc» fino ai leader del Congresso e ai grandi nomi del business protagonista degli investimenti nella Repubblica popolare, con il ceo di Chevron John Watson e quello di Walt Disney Robert Iger, il presidente della banca Goldmas Sachs Lloyd Blankfein e quello della Coca Cola Muhtar Kent. Oggi Xi farà tappa in Iowa per poi concludere il viaggio a Los Angeles."

l’Unità 15.2.12
Proteste dei consumatori dopo un reportage del New York Times
La Foxconn nel mirino: turni di lavoro massacranti e paghe da fame
Gli schiavi dietro l’i-Pad. Apple cede e apre un’inchiesta
Messa alle strette dalla protesta dei consumatori, Apple indaga sulle condizioni di lavoro dei suoi fornitori in Cina. La Fair Labor Association metterà il naso tra gli operai della Foxconn che producono i-Pad e i-Phone.
di Marina Mastroluca


Oltre duecentocinquantamila firme e un’offensiva mediatica portata fin dentro gli store della Apple. Dopo l’inchiesta del New York Times sulle condizioni di lavoro degli operai cinesi che producono i-Pad e i-Phone, la Apple è stata costretta ad intervenire per ridurre il danno di immagine sui mercati occidentali e su quello americano in particolare, dove la notizia che le maestranze cinesi vivano in condizioni di semi-schiavitù è sembrata di una novità dirompente. La società di Cupertino ha perciò affidato alla Fair Labor Association l’incarico di verificare le condizioni di lavoro presso i propri fornitori ed assemblatori cinesi. A cominciare dalla controversa Foxconn, che nell’estate 2010 fece molto parlare di sé per un’ondata di suicidi tra i dipendenti, stremati da condizioni di lavoro e di vita vessatorie.
LA FABBRICA DEI SUICIDI
L’inchiesta del New York Times era partita da una conversazione tra Obama e Steve Jobs sulle ragioni della delocalizzazione in Cina, una scelta che il guru della Apple considerava irreversibile. Il reportage aveva svelato i retroscena della scelta: non tanto o non solo la necessità di sostenere costi minori, quanto piuttosto la possibilità di accedere a imprese e forza lavoro del tutto assoggettate alla produzione, con poco o nessun rispetto della vita dei singoli. Dormitori, mense, persino facilitatori del traffico dei pedoni: tutto alla Foxconn è pensato per non interrompere mai il flusso produttivo, mentre gli operai fanno turni massacranti e ricevono paghe da fame. Un prezzo troppo alto da pagare per un i-Pad, secondo i consumatori americani.
Nei giorni scorsi la protesta si è spostata da Washington a San Francisco, da New York fino a Londra e Sidney. Gruppi di consumatori hanno consegnato petizioni negli Apple store, chiedendo migliori condizioni di lavoro per gli operai cinesi. «Sono un fan dei prodotti Apple ma eticamente non posso sostenere oggetti che danneggiano le persone addette alla produzione», ha detto Shelby Knox, uno dei membri del sito di attivisti Change.org.
Il punto è che la Apple, come capofila dell’industria elettronica, può rappresentare la leva determinante per imporre un cambiamento suoi luoghi di lavoro, inducendo un effetto domino. Un portavoce della società ha assicurato che «ci preoccupiamo per ogni singolo lavoratore e insistiamo sul fatto che i nostri fornitori devono offrire un ambiente sicuro trattando i dipendenti con dignità e rispetto». Per evitare di trovarsi con le spalle al muro, come è avvenuto in passato a grandi marchi come la Nike, Gap e Disney, la Apple ha chiesto ad un organismo terzo di verificare. I risultati sono attesi nelle prossime settimane oltre alla Foxconn verrà esaminata la fabbrica di Chengdu ma già viene messa in discussione l’effettiva indipendenza della Fair Labor Association, basata a Washington.
Indipendente o meno, certo sarà difficile per la Fair certificare condizioni di lavoro paragonabili a quelle degli operai Usa. Perché il nodo, alla fine, è proprio qua ed è lo stesso intorno al quale Obama ha ragionato con Jobs. Se l’obiettivo è riportare il lavoro in America, dovrà diventare eticamente e commercialmente inaccettabile avere in Cina fabbriche di schiavi. La Apple orfana di Jobs rischia di trovarsi più esposta all’offensiva di concorrenti che possano vantare un maggior tasso di americanità.

Repubblica 15.2.12
Prove da première dame per la Trierweiler Ostenta discrezione, ma è già nella stanza dei bottoni
Hollande
La campagna di Valérie "Io donna nell'ombra"
"Il potere non m´interessa" giura la compagna del socialista in corsa per l'Eliseo
di Anais Ginori


Sono solo la compagna che accompagna il candidato in campagna». Un gioco di parole, e poi via. Valérie Trierweiler passa dalla luce all´ombra, defilata e presenzialista, assicura di voler rimanere dietro le quinte, però eccola sempre in prima fila al momento giusto. Nel quartier generale dei socialisti, 59 rue de Ségur, nel settimo arrondissement, Trierweiler ha il suo ufficio, una stanza al terzo piano, sopra a quella di François Hollande e accanto alla "war room" dove si tengono le riunioni importanti. Da gennaio, ha anche preso un´assistente che smista telefonate e lettere dei militanti. «Ne riceve molte - spiega la collaboratrice - e tenta di rispondere a tutti». Si firma ancora con il cognome del suo ex marito, Denis Trierweiler che ha conosciuto a Paris Match e con il quale ha avuto tre figli, oggi adolescenti. Ma nell´immaginario di molti lei è già "Signora Hollande", forse a maggio Première dame di Francia. «Non voglio anticipare nulla, vedremo», risponde a proposito di un futuro all´Eliseo, preoccupata soprattutto di controllare ogni sua dichiarazione, come chi per quattro elezioni presidenziali è stata sempre intervistatrice e ora si ritrova nei panni di intervistata.
Del lavoro di cronista ha conservato solo una trasmissione televisiva nella quale incontra personaggi dello spettacolo e qualche articolo relegato nella rubrica cultura di Paris Match da quando è stata invitata a fare un passo indietro per il conflitto di interesse politico-sentimentale. Dietro al duello tra Nicolas Sarkozy e Hollande, si profila già quello, più frivolo, tra Carla Bruni e questa giornalista quarantasettenne paragonata per la bellezza altera e la capigliatura felina all´attrice Katherine Hepburn. Quasi coetanee, Trierweiler non ha le ascendenze aristocratiche della modella-cantante. È nata in una casa popolare alla periferia di Angers, sulla Loira, quinta di sei figli, madre cassiera e padre invalido, morto quando lei aveva ventuno anni. Troppo scaltra per cadere nell´eterno giochino di Eva contro Eva, ha già detto di aver gran rispetto per tutte le Première dame, indistintamente. Se Hollande si è presentato ai francesi come un aspirante "presidente normale", lei sottolinea la sua vita simile a quella di tante donne che lavorano, di corsa tra impegni professionali, compiti dei figli, frigo da riempire e lavatrici che non finiscono mai.
«Mi ha subito colpito per la grinta, l´ambizione» ricorda il suo primo direttore Gérard Carreyrou che l´ha assunta nel 1988 al settimanale Profession Politique. Un anno dopo, Valérie Massonneau, il nome da nubile, è a un "garden party" all´Eliseo. François Mitterrand fende la folla per andare a salutarla. I colleghi, sempre pronti a malignare, raccontano di un naturale vantaggio competitivo in questi vent´anni di carriera, con tanti ministri e deputati che hanno perso la testa davanti ai suoi occhi azzurri. Trierweiler ha intervistato diverse volte anche Sarkozy, conosciuto quando era solo sindaco di Neuilly. Una frequentazione su cui il presidente ha ironizzato. «Hai visto? Siamo uguali - ha detto una volta a Hollande - Ci siamo tutti e due rifatti una vita. Io con Carla, tu con Valérie. La conosco bene, e mi piace».
Insieme vivono in un appartamento moderno nel quindicesimo arrondissement, vicino al Parc André-Citroen, con una piccola terrazza. Dopo i comizi, Hollande scende a dare un bacio in bocca alla sua compagna. Era seduta davanti a lui il 22 gennaio durante il suo discorso a Le Bourget, quello in cui è stato tagliato, guarda caso, ogni riferimento a Ségolène Royal. Quest´altra rivalità femminile tiene banco. Si vocifera di manovre dietro le quinte per evitare che le due donne si incrocino o vengano riprese insieme. Royal non la può sopportare, con qualche ragione. Nel 1992, Trierweiler pubblica la famosa intervista a l´allora ministro dell´Ambiente, dopo il parto, ancora in ospedale, con in braccio la piccola Flora, ultima arrivata dei quattro figli con Hollande. Nel gennaio 2004, Trierweiler firma un ritratto di quella che definisce una «coppia reale per la République». «Non abbiamo mai funzionato così bene insieme» confida Hollande alla giornalista. Cosa sia successo poi solo loro lo sanno. Nel 2007 Royal ufficializza la separazione, con un breve comunicato. Le due giornaliste di Le Monde, Raphaelle Bacqué e Ariane Chemin, hanno raccontato che l´allora candidata socialista era andata già nel 2006 dal direttore di Paris Match per chiedergli di spostare Trierweiler dal servizio politico, rivelando la liaison in corso tra suo marito e la reporter. Potere, visibilità. «Non m´interessa» ripete lei che però non resiste alla tentazione di punzecchiare gli avversari di "François" dal suo profilo Twitter. «Piccola precisazione del mattino. Non sono una donna politica. Sono una giornalista». Nella sua prudenza calcolata, giura che mai poserà per servizi fotografici e copertine dei magazine, mettendo in piazza la sua vita privata. Quel giornalismo non le interessa, non più. Ma la campagna elettorale è ancora lunga, si fa sempre in tempo a cambiare idea.

La Stampa 15.2.12
Manuzio, l’uomo che inventò il bestseller
Primo editore moderno, all’inizio del Cinquecento stampò 100 mila volumi di opere di Petrarca. Un saggio lo racconta
di Giuseppe Marcenaro


Dopo aver letto l’iperdocumentato e affascinante L’alba dei libri (Garzanti, pp. 209, 22,00) di Alessandro Marzo Magno, è stato inevitabile mettere le mani in biblioteca, nello scaffale dei libri antichi. E trarvi un «reperto» dei tanti evocati in questo nuovo libro sull’incunabolo europeo dell’editoria che ebbe il proprio siderale stupefacente cortocircuito a Venezia, nel XVI secolo.
Il reperto è Rime del commendatore Annibal Caro. Sul frontespizio, sotto al titolo, la sigla «editoriale» un’àncora avviticchiata da un delfino - e poi «in Venetia appresso Aldo Manutio MDLXIX». Aldo Manuzio è il dominus che ha dato il tono all’editoria, dal suo tempo fino a oggi. In memoria dell’ascendenza laziale - venne al mondo a Bassiano nel ducato di Sermoneta - firmava Aldo Romano. È celebrato come Aldus. Non era uno stampatore tout court, come usava allora. Sceglieva personalmente le opere che sarebbero uscite dalla sua officina. Ponderava con attenzione lo scartafaccio manoscritto da trasformare in libro. Poteva essere un «ravatto» o un testo colossale che, diffuso, avrebbe mutato la maniera di intendere la vita, il mondo, l’universo. Lui guardava con un occhio sapiente alla qualità; però con l’altro alla bottega. Sapeva coniugare la «bellezza» con il mercato. Nel 1499 stampò il più splendido ed esclusivo libro mai visto. Dovuto a Francesco Colonna, con xilografie di estraniante armonia, era il mitico Hypnerotomachia Poliphili, nutrito di struggente misteriosofia ed esoterico erotismo. Acquistato allora da raffinati lettori - magari Federico Gonzaga, Isabella d’Este, Lucrezia Borgia, Leone X - oggi è una leggenda tra i bibliofili.
Manuzio fu anche il primo a pubblicare un best seller. All’inizio del Cinquecento delle opere di Petrarca - morto da un secolo e mezzo - Aldus stampò e vendette centomila copie. Per la sua officina girava gente come Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam e Pietro Bembo, quasi un «proto»: suggerì all’editore una regola sull’uso della punteggiatura. Nacque il punto e virgola. E per buon peso l’apostrofo e gli accenti. Di suo Manuzio inventò il carattere corsivo. Ancora oggi gli inglesi lo chiamano italic. Ed è probabilmente sempre Manuzio il primo a produrre pocket book. Stampò volumi piccoli, più «dominabili». Per magari recarne sempre uno con sé. Libri fino a quel momento «oggetto» di biblioteca, di studio e preghiera. Forse proprio a Manuzio dobbiamo il piacere della lettura.
Quest’uomo, ricordato da Erasmo nel suo Elogio della follia - «Le grammatiche sono numerose quante i grammatici, anzi più numerose (il mio amico Aldo Manuzio ne ha pubblicate cinque lui solo) » - era al centro del centro d’una delle più straordinarie avventure dell’uomo: la nascita del libro e la sua diffusione. Da quando, attorno al 1450, a Magonza, Gutenberg realizzò le 154 copie del primo libro a stampa - la celebrata Bibbia delle 42 linee - una metastasi di volumi, di varia umanità, intricata a ogni tentacolo dello scibile umano, slavinò per il mondo. Nel solo XVI secolo, la «novità», il libro a stampa, si produsse in oltre 35 milioni di copie. La «smania» di comporre e imprimere, assemblare e legare, toccò uno dei suoi vertici tra il 1526 e il 1550. E fu Venezia con la pletora delle sue stamperie ad averne il primato. Sulla laguna si pubblicavano i tre quarti delle edizioni impresse in Italia; e la metà di quelle prodotte in Europa. Prendeva allora campo la cura editoriale. Un’attenzione ancora specificatamente veneziana.
Per facilitare la lettura vennero apportate al libro le tavole dei contenuti, gli indici, le note a margine. Venezia impose al mondo il business del libro e una nuova parola si aggiunse al lessico: editore, colui che investe nella produzione delle opere a stampa. E s’aprì il «dibattito»: quello che l’oggetto libro propone con la sua mobilissima, contraddittoria e dirompente carica di umanità e cultura. Come si «produceva», da subito, e come sempre, c’era tuttavia chi si preoccupava di distruggere. Mentre dalle stamperie veneziane uscivano sempre nuovi volumi, e con i volumi nuove idee, in un solo giorno, il 18 marzo 1559, in piazza San Marco, per ordine dell’Inquisizione, le fiamme divorarono dodicimila volumi. Il rogo dei libri. Una «cerimonia» che lungo il corso dei secoli sarebbe stata messa in scena ancora un bel mucchio di volte.

La Stampa TuttoScienze 15.2.12
Analisi
Pensiero veloce e lento
di Lamberto Maffei
, Accademia dei Lincei

In un mondo che si muove in maniera convulsa, dove la concezione del tempo e di conseguenza la sua utilizzazione sembra drasticamente accelerata, dove diventa imperativo correre e affrettarsi, mi ha fatto immenso piacere leggere il libro del premio Nobel per l'economia Daniel Kahneman «Thinking fast and slow», che analizza il problema con saggezza e scienza.
Per uno che si occupa di neuroscienze, come il sottoscritto, la lettura è stata una lezione sul funzionamento del sistema nervoso, ma anche un invito a pensare e ripensare quanto sia infondato confondere il cervello con la macchina. Quest' ultima è capace di tempi anche 10-100 milioni di volte inferiori a quelli delle reazioni del sistema nervoso. Certamente la creazione dell'uomo, la macchina, è ritornata come un feedback sull' uomo, cambiandolo e modificando, in questo caso, la sua concezione del tempo. Il sogno dell' uomo, infatti, è diventare veloce come la sua creatura.
Ma ritorniamo all'interessante libro di Kahneman che distingue due sistemi di pensiero. Uno più rapido, inconscio e intuitivo, che offre subito la soluzione al problema e dà soddisfazione perché avviene senza sforzo; ha però, l'inconveniente non trascurabile di incorrere spesso in errori.
L’ altro, più lento, assai pigro nell’analizzare le soluzioni del sistema di pensiero uno, ma assai efficace nel vagliare i diversi casi e i possibili inconvenienti e, comunque, capace di proporre soluzioni raramente errate. Questo secondo sistema opera in maniera conscia e ovviamente con sforzo.
Il primo è una modalità di pensiero automatico del sistema nervoso, mentre il secondo è l’«analizzatore» per eccellenza ed è certamente sviluppato in modo particolare nell’uomo. Il primo è un sistema importantissimo per la sopravvivenza in quanto risponde rapidamente e istintivamente all’ambiente, il secondo è alla base della riflessione e dello sviluppo della cultura e della scienza.
Dal punto di vista della neurobiologia il primo implica circuiti nervosi più semplici che l’evoluzione ha condizionato a rispondere in maniera automatica all’ambiente, mentre il secondo utilizza circuiti complessi, in cui è possibile vagliare, scegliere e decidere. Se per semplificare ci si riferisce per un momento al campo della visione, si potrebbe dire che il pensiero rapido è più sviluppato nel lobo destro del cervello, dove le risposte allo stimolo visivo possono essere istintive, rapide e possibilmente soggette ad errore. Scorgo un pericoloso animale tra i cespugli e mi do alla fuga e non mi curo di verificare se il messaggio visivo era semplicemente causato da un ramo mosso dal vento.
Il pensiero lento, invece, è maggiormente rappresentato nel lobo sinistro del cervello, l’area del linguaggio, dove i messaggi vengono analizzati nel tempo, in serie e richiedono, quindi, tempo e sforzo. Un libro interessante, questo, di Kahneman, che invita il lettore a tessere un elogio della lentezza come sistema di pensare e di agire. Piuttosto che correre freneticamente verso mete mal individuate è, forse, meglio anche vagliare, confrontarci, creare civiltà. La solidarietà, la poesia, la mitezza, la scienza sono più caratteristici del sistema lento, anche se sono o possono essere innescati dal pensiero rapido, intuitivo.
Queste due forme di pensiero non sono però alternative, ma sono fatte per lavorare in maniera complementare, una dopo l’altra: prima l’intuizione e poi la verifica laboriosa dell’opportunità di accettarla o di rigettarla.
Il sistema lento, come asserisce Kahneman, è tuttavia un sistema pigro e non esiste una campana automatica per risvegliarlo al momento opportuno. Per questo sono necessarie un’adeguata preparazione e la campana razionale e vigile della critica. "Lamberto Maffei Neurobiologo"

E’ PRESIDENTE DELL'ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI E PROFESSORE EMERITO DI NEUROBIOLOGIA PRESSO LA SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA IL LIBRO: DANIEL KAHNEMAN «THINKING FAST AND SLOW» - FARRAR, STRAUß AND GIROUX

La Stampa TuttoScienze 15.2.12
Antropologia e matematica
Alla Fondazione Isi e all’Università La Sapienza le ricerche sull’origine della comunicazione
Così imparammo a dire rosso
Dai modelli della complessità la nuova interpretazione del linguaggio
di Gabriele Beccaria


Vittorio Loreto Fisico RUOLO: E’ PROFESSORE DI FISICA ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA E COORDINATORE DEL GRUPPO DI «INFORMATION DYNAMICS» ALLA FONDAZIONE ISI DI TORINO

Se le parole si inceppano, meglio saltare sui numeri. Per esempio quando si indagano le acrobazie dei linguaggi, come sbocciano e si trasformano, come si impongono e si estinguono. E infatti nella nicchia ecologica dei linguisti si stanno intrufolando i fisici ed i matematici, trascinando con sé la potenza di calcolo delle formule e i verdetti spiazzanti degli algoritmi. E non solo. Insinuano punti di vista inattesi e a volte provocatori, incrinando la sacralità di quella che consideriamo la nostra dote più sofisticata, e allo stesso tempo plasmano modelli inediti per rispondere a un interrogativo antichissimo: perché parliamo e così tanto?
Professor Vittorio Loreto, lei è fisico all’Università La Sapienza di Roma e coordinatore del gruppo di «Information Dynamics» alla Fondazione ISI di Torino ed è proprio uno di questi «alieni»: incrocia strumenti teorici e computazionali (come i giochi linguistici) con test sul Web. Che cosa pretendono di svelare i suoi numeri?
«Partiamo dal metodo: il mio team costruisce dei modelli sintetici al calcolatore, che riproducono le interazioni tra coppie di individui e le replicano in serie per studiarne gli effetti su larga scala. Si tratta di simulazioni numeriche, con cui si esplorano alcune ipotesi cognitive sui modi in cui comunichiamo».
Lei si è interessato, tra l’altro, a come si possano inventare i nomi dei colori.
«In particolare all’universalità della categorizzazione dei colori. Si è osservato che in alcune popolazioni pre-industrializzate i nomi dei colori primari si limitano a due e indicano il chiaro e lo scuro. Quando emerge un terzo vocabolo, questo è quasi invariabilmente il rosso, seguito - di nuovo in una successione pressoché costante dal verde e dal giallo e in una fase ulteriore da blu, marrone e poi violetto, rosa, arancio e grigio. Finora nessuno aveva dato una spiegazione convincente di questo ordine».
Qual è l’interpretazione?
«Siamo partiti da un punto fondamentale, anteriore al linguaggio stesso e di tipo fisiologico: ciò che ci accomuna è il potere risolutivo dell’occhio, vale a dire la capacità di discriminare i colori sulla base delle loro frequenze. Per alcune, come il blu o l’arancio, siamo più sensibili, mentre nei confronti di altre, come il rosso, abbiamo prestazioni inferiori. La conseguenza è significativa».
Può spiegarla?
«Se si ha una bassa capacità di discriminazione per le tonalità del rosso, è probabile che le persone si accorderanno rapidamente su che cosa sia. Quando invece cresce l’accuratezza della visione di altre tonalità, tipo il blu o l’arancio, l’accordo su ciò che sono e non sono richiede molto più tempo, perché si moltiplicano i distinguo. Queste differenze sono importanti, perché permettono di stabilire delle ipotesi con cui quantificare i tempi evolutivi richiesti per far emergere un sistema condiviso con il quale nominare i colori. Sono risultati nuovi, numerici, appunto, con i quali cominciamo a osservare il linguaggio a partire da principi di comunicazione».
Si riferiscono ai «giochi linguistici», in cui riproducete la transizione da una fase di frammentazione della comunicazione a un’altra di consenso generalizzato?
«Partiamo da simulazioni della comunicazione tra due persone e le allarghiamo a intere popolazioni, analizzando modi e tempi. L’approccio vale per le categorie dei colori, ma anche per altre realtà a cui ci stiamo dedicando: l’emergere delle strutture sintattiche, per esempio, oltre che dei significati e dei simboli».
E così ai linguisti «tradizionali» servite un’ingombrante sorpresa, cioè una nuova disciplina, la «linguistica in silico»: non vi accontentate di teorie, ma tentate esperimenti su larga scala.
«La chiamiamo “in silico” per le caratteristiche dei test: vengono condotti con i calcolatori sia su popolazioni artificiali sia in modi ancora più sofisticati. Alla Fondazione ISI e all’Università Sapienza studiamo come utilizzare il Web, esaltandone le caratteristiche di laboratorio ideale. Se finora le scienze sociali dovevano accontentarsi di campioni limitati, ora i social networks garantiscono una base enorme di utenti e permettono di riprodurre realisticamente i protocolli d’interazione tra individui, e non solo in ambito linguistico».
Può fare un esempio?
«“Mechanical Turk”: è una piattaforma Web che riproduce un mercato del lavoro virtuale, in cui gli utenti svolgono una serie di compiti - dalla categorizzazione di immagini alla trascrizione di registrazioni - e vengono retribuiti da specifici “datori di lavoro”. E’ l’esempio di una tendenza generale in cui il Web sta diventando un’infrastruttura per una “computazione sociale”, poiché consente di coordinare le capacità cognitive di computer umani, realizzando così esperimenti di massa nell’ambito delle scienze sociali. Si tratta di uno scenario agli albori, ma ricco di promesse e applicazioni: all’ISI e alla Sapienza lavoriamo a un progetto europeo sulle dinamiche di opinione. Vogliamo capire come si formano e si trasformano, dall’inquinamento ai cambiamenti climatici».
Ritorniamo al linguaggio: una volta filtrato dai numeri, che cosa appare?
«Un sistema complesso. Dall’interazione ripetuta di tanti elementi semplici vengono alla superficie esiti non prevedibili. Il linguaggio significa cambiamenti continui: ecco perché abbiamo appena iniziato a scalfirne i misteri».

La Stampa TuttoScienze 15.2.12
Forse non tutti sanno che la doppia elica si è triplicata
Le leggi dell’evoluzione obbediscono a un complesso meccanismo a tre dimensioni A volte i geni sembrano seguire gli adattamenti di un organismo anziché guidarli
di Mauro Mandrioli


UNIVERSITÀ DI MODENA
Un nuovo sguardo Genetica epigenetica e ambiente: ecco le tre dimensioni dell’ evoluzione A fianco un «rendering» dell’Rna e delle sue interazioni
Mauro Mandrioli Genetista RUOLO: E’ PROFESSORE DI GENETICA ALL’UNIVERSITÀ DI MODENA E REGGIO EMILIA IL LIBRO: RICHARD LEWONTIN «IL SOGNO DEL GENOMA UMANO» - LATERZA

La doppia elica è la struttura del Dna, come tutti sanno da Watson e Crick in poi. La tripla elica, invece, è la bella immagine con cui un decennio fa Richard Lewontin ha rappresentato la complessità del mondo vivente in un fortunato libro di divulgazione e dibattito. Non solo geni, ma anche organismi e ambiente. Questi erano gli elementi della sua trinità biologica. Oggi quella stessa metafora può essere ripresa e aggiornata per raccontare le tre dimensioni dell' evoluzione.
Prendiamo il rapporto tra i geni di un essere vivente e la struttura del suo corpo. Secondo lo schema classico, ancora oggi valido, sono i geni attivi che guidano l’evoluzione della forma, tanto che i cambiamenti nel patrimonio genetico (le mutazioni) possono determinare delle alterazioni morfologiche. Così accade, ad esempio, in molte malattie genetiche. Ma è questa l’unica via che l'evoluzione ha seguito?
Negli ultimi anni un numero crescente di studi ha dimostrato che molti tratti morfologici possono variare in funzione delle condizioni ambientali e così individui geneticamente identici presentano forme diverse. Il moscerino della frutta Drosophila melanogaster è uno degli animali di riferimento per la genetica. Ebbene, la distribuzione di zone colorate sulle sue ali può derivare sia da mutazioni genetiche sia da una variazione della temperatura. E questo è soltanto un esempio di come tratti del tutto simili possano essere determinati sia da stimoli di tipo ambientale sia da cambiamenti stabili del Dna, a indicare una sorta di intercambiabilità fra geni e ambiente. L’altra faccia della medaglia è che da un singolo patrimonio genetico possono derivare forme diverse in risposta a stimoli ambientali differenti, un fenomeno detto «plasticità fenotipica».
Lo studio delle influenze dell’ambiente sull’anatomia dei viventi è oggi un ambito di ricerca estremamente attivo, poiché la plasticità fenotipica può permettere a una popolazione di «guadagnare tempo» per adattarsi a nuove condizioni ambientali. Quando le specie invasive colonizzano un nuovo habitat, ad esempio, per molto tempo le loro popolazioni possono essere costituite da pochi individui sparsi in diverse località. A questa fase iniziale, generalmente, segue una sorta di esplosione demografica in una singola località, da cui partirà la vera e propria invasione.
Sulla base di ciò che sappiamo oggi, possiamo ipotizzare che dall’interazione tra i geni e l’ambiente derivi quella eterogeneità di forme che, all’inizio, serve alla specie invasiva per sopravvivere e da cui deriverà la comparsa di mutazioni vantaggiose in qualche popolazione, che le utilizzerà immediatamente per diffondersi nei territori conquistati. Un meccanismo simile potrebbe essere anche alla base dell’origine di nuove specie, poiché una popolazione che si è insediata in una nuova località, inizialmente, potrebbe adattarsi grazie a variazioni anatomiche dovute all’interazione geniambiente per poi differenziarsi anche geneticamente, diventando poi una nuova specie.
Pur essendo ancora indiscutibilmente vera la visione per cui dalla selezione naturale di mutazioni casuali deriva l’adattamento, si aprono oggi nuovi scenari, in cui i geni non sono sempre i primi attori nell’evoluzione. In alcune circostanze i geni sembrerebbero seguire il processo adattativo piuttosto che guidarlo. Ma come può l’ambiente influenzare il modo in cui il nostro Dna si attiva? La doppia elica è legata da numerose proteine, tra cui alcune chiamate istoni, che possono subire delle modificazioni chimiche dette epigenetiche. Di conseguenza il Dna può essere più o meno usato per guidare la sintesi della molecola (l’Rna) che fa da intermediario per la produzione di proteine. L’ambiente può agire su queste modificazioni, che non riguardano la sequenza di lettere o di basi del Dna, andando a cambiare il modo in cui un gene di esprime. L’interazione tra i geni e l’ambiente è quindi mediata dell’epigenetica.
Ecco come genetica, epigenetica e ambiente rappresentano le tre dimensioni dell’evoluzione.
(continua la prossima settimana)

La Stampa TuttoScienze 15.2.12
Il laser super che è capace di “trasmutare” la materia
Su “Nature” l’esperimento quasi-alchemico di un fisico italiano
Le proprietà degli atomi
di Marco Pivato


Il principio Il raggio laser (in alto in giallo) colpisce i legami atomici di una molecola (i rombi arancioni) finché il cristallo assume due forme: una in alto e una in basso. Vibrando in modi diversi, queste trasmettono alla materia caratteristiche del tutto inedite
Che cosa distingue l'acqua dal ghiaccio e dal vapore? L'intensità con cui vibrano i legami tra le molecole: più vibrano intensamente e più l'acqua assomiglia al vapore; più vibrano lentamente e più l'acqua assomiglia al ghiaccio.
Com'è noto, è molto facile liquefare un cubetto di ghiaccio e poi fare evaporare il tutto: per indurre i passaggi di stato, infatti, basta alzare la temperatura. In tal modo forniamo energia alle molecole e, così, i legami che tengono unito il reticolo del ghiaccio vibrano sempre più, fino alla fusione e poi alla vaporizzazione.
Aumentare l'energia cinetica degli atomi di un cristallo di ghiaccio, alzando la temperatura, è semplice. Ma che cosa succede, invece, a infondere molta più energia, ad alterare cioè in modo prepotente gli «stati vibrazionali» che legano un atomo all'altro? D’improvviso cambiano le proprietà della molecola. Non si tratta di semplici passaggi di stato, bensì dell'induzione di inedite caratteristiche, mai osservate in natura per uno specifico materiale.
In questo modo - è l’obiettivo - si potranno ottenere prodotti dalle eccezionali prestazioni. Per esempio, «supporti magnetici per hard-disk dalla memoria straordinaria, superconduttori così potenti da rendere obsoleti quelli del Cern, isolanti iper-efficienti e poi metalli che sembrano venire da un altro mondo, oltre a una serie di applicazioni che potranno rivoluzionare l'industria civile e militare e soprattutto quella dell'alta tecnologia»: così ne parla, con toni entusiastici, Cristian Manzoni, recluta del Cnr in forze al Max Planck Institute, che ha descritto la procedura di questi «alchemici» esperimenti sulla rivista «Nature Physics», assieme al team di ricercatori dell'Istituto di fotonica e nanotecnologie dello stesso Cnr - che ha sede al Politecnico di Milano - in collaborazione con i colleghi del prestigioso istituto tedesco e dei dipartimenti di fisica applicata dell' Università di Tokyo e dell'Università del Michigan.
«Le basi di questi test - spiega Manzoni - hanno origine da studi di ottica non lineare». Esperimenti analoghi, infatti, erano stati condotti sulla luce, ma mai prima d'ora sulla materia. «Si è osservato che è possibile cambiare le proprietà della luce " esaltando" gli stati vibrazionali dei fotoni: oltre una certa soglia compaiono colori sempre diversi. La fonte di luce, sottoposta a questo " stress", passa, per esempio, dal rosso al blu. Adesso - aggiunge Manzoni - stiamo eseguendo gli stessi test non già con gli stati vibrazionali dei fotoni di luce, ma con quelli degli atomi che compongono la materia». Un obiettivo che era stato inseguito per decenni, ma che è approdato alla prova sperimentale soltanto adesso.
Anche i legami atomici, in effetti, posseggono stati vibrazionali. Per spiegare di che cosa si tratta il ricercatore usa questa metafora: «Possiamo immaginare i legami tra atomi in una molecola come delle molle. Immaginiamo poi di aumentare l'energia delle vibrazioni di queste molle fino ad arrivare al punto di rottura. È a questo stadio che la materia adotta comportamenti inediti. Abbiamo infatti osservato nuove " famiglie" di stati vibrazionali e stiamo valutando come indurli all'occorrenza per riuscire a modificare le proprietà ordinarie della materia».
Stressare lo stato vibrazionale associato al legame di un atomo fino al punto di rottura, e comprenderne gli effetti, è un concetto molto complicato in apparenza. In realtà può risultare un po’ più intuitivo se si pensa all' acustica. Il paragone lo esemplifica così Manzoni: «Avete in mente quando alzate il volume dello stereo fino a distorcere una canzone? Con il potenziometro al massimo le vibrazioni, nell'altoparlante, producono suoni nuovi. E, sebbene siano cacofonici per il nostro orecchio, manifestano proprietà acustiche di nuova natura rispetto a quelle “pulite” della sorgente, quando invece il volume è tenuto basso. Noi abbiamo fatto lo stesso, ma non con le onde sonore: l’abbiamo fatto con le onde vibrazionali degli atomi».
Si tratta di un'impresa resa possibile grazie a un laser sperimentale, con il quale è possibile intervenire sulla materia. «Funziona concentrando tutta l'energia della luce in un punto, dopo aver sovrapposto coerentemente le sue diverse lunghezze d'onda: così si ottiene una nuova fonte luminosa - aggiunge il ricercatore -, il nostro laser, appunto». Il principio, per quanto sorprendente, risulta identico a quello della formazione di uno tsunami, «dove le onde, sovrapposte in modo coerente e in contemporanea, danno origine a una super-onda di enorme entità. Il nostro raggio di luce è quindi così potente da sottoporre i legami degli atomi di un cristallo a sollecitazioni davvero fortissime». In questo caso a essere testato è un minerale, un ossido doppio di calcio e titanio, noto come Perovskite.
Dopo aver vinto, in Germania, la sua scommessa professionale con «Nature», Cristian Manzoni ha deciso di tornarsene a Milano, meritandosi dai colleghi un nobile epiteto: «Cervello di ritorno». «L’ho fatto - conclude - per amore verso il mio Paese, per tenere alta la bandiera della ricerca italiana e per continuare un esperimento che d'ora in avanti spalancherà inimmaginabili scenari».