giovedì 16 febbraio 2012

l’Unità 16.2.12
Il rapporto col Pse non ci fa diventare socialdemocratici
di Franco Marini

Il riformismo cattolico. Non è ospite, come lo erano invece gli indipendenti nel Pci
L’identità del Pd. Non ci sono dubbi che sin dall’origine siamo “democratici”

Chi sta nel Pd ha scelto di essere democratico, non socialdemocratico. Questo equivale a interrompere le comunicazioni con le forze del Pse che sono gran parte dello schieramento progressista internazionale? Certo che no. E non solo perché, nel 2009, abbiamo deciso di dar vita nel Parlamento europeo all’Alleanza dei socialisti e democratici. Ci sono in Europa e nel mondo partiti e movimenti che, genericamente, possiamo definire di centrosinistra o centrodestra. La nostra collocazione, dunque, non può essere dubbia.
Il filone socialdemocratico è, al pari d’altri, perno dell’impianto culturale fondativo del Pd. Tanti tra i promotori e gli aderenti al partito che abbiamo tenuto a battesimo nel 2007 hanno lì radici e storie personali. Ce n’è d’avanzo per affermare che la dottrina politico-economica e la prassi di governo socialdemocratica costituiscono deposito prezioso a cui attingere nel dare forma alla cultura politica del Pd. Ma le società del terzo millennio sono radicalmente altre da quelle del secolo scorso, il secolo appunto socialdemocratico.
Credo che stia qui dentro, nell’eccezionale mutamento generale che ha interessato l’intero pianeta e le dinamiche sociali e produttive di ogni singola area e nazione, la ragione di fondo del superamento del paradigma socialdemocratico. Non è la prima volta che il mondo si misura con trasformazioni tanto straordinarie e rapide (relativamente al tempo), basti pensare alle conseguenze della prima rivoluzione industriale sulle società e gli assetti istituzionali della vecchia Europa e agli effetti sul pensiero, sulla politica e sulle legislazioni.
Siamo dentro una condizione di questo tenore. Non solo in Italia, ovviamente. In più, il fatto inatteso fino a pochi anni or sono: la devastante crisi con epicentro a Wall Street che si è trascinata dietro uno sconvolgimento delle economie del “primo mondo”, tant’è che è un pezzo avanti oggi la discussione sui limiti del capitalismo e ha molti più sostenitori del passato il fronte dei detrattori della ricetta liberista.
Tutto è nuovo e tutto è diverso. A noi non è stato dato il compito di amministrare un patrimonio di pensiero e prassi politica ancora contemporaneo, bisognoso al più di una manutenzione, ma di ricostruire il patrimonio, riscrivere i testi di riferimento, abbandonare i sentieri del passato per inoltrarsi su sentieri nuovi e inesplorati. Faccio un esempio perché la riflessione non pecchi di astrattezza: il modello di Welfare State così come lo conosciamo non può più essere difeso perché genera ineguaglianze e distorsioni, in qualche caso alimenta le negatività che è invece chiamato a debellare per statuto interno. Il principio è garantire l’universalità dei diritti o, detto con maggiore modestia, avvicinarsi il più possibile a questo obiettivo, non preservare un sistema perché «si è fatto sempre così».
La scommessa del Pd, la ragione per cui decidemmo di fare un nuovo partito bruciando i vascelli alle nostre spalle fu esattamente questa: un soggetto politico senza filiazione con quelli preesistenti, libero di darsi proprie regole e procedure ma soprattutto lanciato nel mare aperto del “tempo nuovo”, forte sì di solide tradizioni culturali da non cestinare, ma fermamente deciso a superarle, nella contaminazione e nella verifica su una società diversa da quella di cinquant’anni prima quanto può esserlo un essere umano tra l’infanzia e la maturità. Ho più volte sostenuto che noi cattolici democratici, proprio per favorire il processo innovativo del Pd, dovevamo alimentare e tenere accesa la fiamma dell’ispirazione culturale. Ma non creando partiti nel partito. Né pensando di trasformare l’identità del Pd. Né, infine, sentendoci ospiti in casa d’altri, pur trattati con grande garbo. Per questo ho provato, e provo, il più grande fastidio quando sento, da qualche collega, «riconoscere» il peso del riformismo cattolico nella linea del Pd, per l’evidente retrogusto che si avverte di vecchio Pci alle prese con gli «indipendenti» accolti nelle proprie liste. Ma si tratta di voci via via più flebili.
Se, in conclusione, è sbagliato evocare precedenti identità nello sforzo di far indossare al nuovo partito la tenuta di quello vecchio, lo è altrettanto affidarsi a conclusioni apocalittiche, tali da mettere in discussione perfino la vita del Pd, per contestare quella linea. In un partito democratico, per fortuna, si discute e ci si accapiglia anche, ma ci sono delle regole che tutti abbiamo accettato aderendo e, tra queste, c’è la regola delle regole, il voto negli organismi dirigenti che solo può definire linea e orizzonte. Il resto sono dichiarazioni e documenti. Tutti interessanti.

il Riformista 16.2.12
Il Pd di Reichlin e quello di Castagnetti
di Emanuele Macaluso

Periodicamente, Alfredo Reichlin, scrive un ampio articolo sull’Unità su un tema fisso: il Pd e il ruolo che assolve, o dovrebbe assolvere, per una ripresa della grande politica, e per l’avvenire del Paese, di fronte ai mutamenti epocali e globali che caratterizzano i tempi in cui viviamo.
Alfredo parla di un “suo” Pd, non di quello che opera nel concreto della politica italiana: da Genova a Palermo, da Milano a Napoli, da Roma a Catanzaro. Nel suo ultimo articolo (martedì 14 febbraio), Reichlin giustamente sottolinea con forza la scelta coraggiosa del Pd di appoggiare il governo Monti per quel che significa per lo Stato e per il tessuto della nazione. Ricorda che il destino dell’Italia non è separabile da quello dell’Europa. E osserva: «Un’Europa che oggi, purtroppo, non c’è ancora, ma che potrebbe esserci se l’insieme dei suoi movimenti progressisti, socialdemocratici compresi (o no?) rialzassero la testa rimettessero in gioco non solo la potenza economica del vecchio continente ma il suo potenziale di civiltà: che poi è la civiltà del lavoro e delle libertà umane».
Mi ha colpito il dubbio, evidentemente sollevato nel Pd, che i socialdemocratici fossero “compresi” nel movimento dei progressisti. Ma chi sono i “progressisti” in Europa che dovrebbero avere la bontà di “comprendere” anche i socialdemocratici? Il mistero “dell’ignoto progressista”.
So bene che in Europa ci sono forze progressiste che non si identificano con i socialdemocratici, per esempio i verdi o gruppi di cattolici e laici, che agiscono autonomamente. Ma, piaccia o non piaccia, l’asse portante di uno schieramento europeo di centrosinistra sono i socialisti del Pse.
Qesto partito ha deciso, alle prossime elezioni europee, di presentare un programma comune, un candidato per la guida della Commissione Ue e ha approvato un regolamento per cui ogni partito nazionale può fare una proposta; e si indica anche come fare la selezione del candidato.
Il Pd non c’è, può solo associarsi, senza partecipare né al programma né alla scelta del candidato. Francamente, non capisco perché un cattolico italiano, militante del Pd, non possa stare nel Pse, dove ha avuto ruolo essenziale anche il cattolico Delors. Ieri, Pierluigi Castagnetti, sempre sull’Unità, riprendendo l’articolo di Reichlin, scriveva: «I cattolici del Pd non hanno una congeniale incompatibilità con la socialdemocrazia e quando hanno concorso a dar vita a questo partito (Pd), non hanno posto al riguardo un problema ideologico, ma un problema di ambizione, l’ambizione di fare una cosa nuova in Italia e in Europa». E lamenta: «Purtroppo si procede troppo lentamente, sia in Italia che in Europa». E chiarisce che la responsabilità di questa lentezza non è dei cattolici, ma degli altri.
Conclusione: «Non si assuma il tema del più stretto rapporto con il Pse per sparigliare e per esercitare una forzatura su chi ritiene che ciò può compromettere l’ambizione più alta che fu di tutti quelli che hanno inventato il Pd». Insomma, campa cavallo che l’erba cresce. E per dirla con D’Alema, se in Italia l’amalgama Pd non è riuscito, in Europa non c’è nemmeno un embrione: non c’è nulla. Ci sono i partiti socialisti con i quali, dice Castagnetti, «non si deve avere un più stretto rapporto». E la battaglia per l’Europa in Europa di cui parla Reichlin? Parole, parole, parole!

l’Unità 16.2.12
Il testo sarà presentato oggi da Bersani assieme a Misiani, Sposetti, Castagnetti, Agostini e Vassallo p Centrale il rapporto con i cittadini e la democrazia interna. Regolamentate anche le primarie
Partiti, la riforma del Pd: bilanci alla Corte dei conti
Oggi il Pd presenta la sua proposta di legge di riforma dei partiti. Regole per garantire democrazia interna, tutela dei diritti delle minoranze, trasparenza nella gestione delle risorse. Centrale il controllo dei cittadini.
di Roberto Monteforte

Ridare forza e credibilità alla politica ridando centralità al rapporto con i cittadini, garantendo trasparenza e democrazia nella vita interna, controlli rigorosi sulla regolarità della gestione economica e dei bilanci, l’indicazione di responsabilità precise nella vita interna dei partiti, dando attuazione all’articolo 49 della Costituzione. A questo mira la proposta di legge di riforma dei partiti che verrà presentata questo pomeriggio alla stampa dal segretario generale del Pd Pier Luigi Bersani, dal tesoriere Antonio Misiani e Pier Luigi Castagnetti e da Mauro Agostini, Ugo Sposetti e Salvatore Vassallo che hanno lavorato alla proposta presso la sede del Pd in via sant’Andrea delle Fratte.
GLI ELEMENTI FONDAMENTALI
Gli elementi fondamentali sono il riconoscimento della personalità giuridica dei partiti, dando attuazione al dettato costituzionale, prevedendo anche una forma di controllo «statale». Sino ad oggi è mancata una regolazione della vita interna dei partiti. Per il Pd occorre cambiare e in fretta. Lo impone la realtà, segnata anche dal proliferare di partiti personalizzati e da una politica sempre più medializzata. Pesa anche l’esigenza di chiarezza nelle gestioni economiche-finanziarie. Troppe le zone di «opacità», per non dire altro, riscontrate anche recentemente. I fatti di cronaca impongono un cambiamento radicale. È la condizione che hanno i partiti per recuperare credibilità e la fiducia dei cittadini.
L’asse della proposta che verrà presentata oggi è mettere i cittadini e i loro diritti al centro della vita dei partiti, definendo regole precise di democrazia interna che favoriscano la partecipazione dei cittadini e tutelino i diritti degli iscritti, stabilendo al tempo stesso controlli molto rigorosi nella gestione delle risorse finanziarie, che essendo in buona parte «pubbliche» necessitano di certificazione e di controllo da parte della Corte dei Conti. Si revedono sanzioni più dure rispetto a quelle previste oggi in caso di irregolarità.
L’operazione trasparenza è affidata anche al controllo diretto dei cittadini che su Internet devono poter controllare i bilanci e l’«anagrafe degli iscritti» anche in formato «open data».
CONTROLLO DIFFUSO
Si punta a realizzare un controllo diffuso da parte dei cittadini. I partiti, secondo il progetto di riforma del Pd che oggi verrà presentato, devono rispondere a «precisi requisiti» a garanzia della democrazia interna e nella selezione delle candidature che dovranno essere recepiti nei loro statuti. Si ipotizza una disciplina delle «primarie» e un disincentivo nei rimborsi elettorali per quei partiti che decidano di non ricorrervi. Nei loro statuti i partiti devono pure prevedere precidi diritti per le minoranze interne, come pure il rispetto delle «pari opportunità» nella definizione delle candidature.
Si propone tra l’altro maggiore trasparenza nelle gestione delle risorse economiche. Oggi è previsto che vi sia l’obbligo di pubblicità nell’erogazioni liberali pubbliche solo oltre i 50 mila euro l’anno, nella proposta si prevede di abbassare questa soglia a 5 mila euro. È una delle proposte per contrastare l’«opacità» dei partiti.
A questo va affiancata un’adeguata struttura di controllo. È prevista la costituzione per tutti partiti di un «Comitato di tesoreria» che affianchi il tesoriere e di un Collegio sindacale particolarmente qualificato. Si prevede pure l’obbligo di certificazione dei bilanci da parte di società di revisione indipendenti. Sono strumenti di controllo che il Pd già ha attivato e che si propone di generalizzare.
Il tutto va sottoposto al controllo della Corte dei conti e non solo per i bilanci nazionali dei partiti. Il controllo della Corte dei conti andrebbe esteso anche ai bilanci delle strutture territoriali, come quelle politiche regionali, che percepiscono dal «centro» quote di finanziamento pubblico per i rimborsi elettorali. Nella proposta elaborata dal Pd si prevede anche un significativo rafforzamento delle norme sanzionatorie. Su proposta della Corte dei Conti le presidenze di Camera e Senato, che hanno la titolarità della erogazione dei rimborsi elettorali, in caso di irregolarità non chiarite, possono arrivare al «taglio dei rimborsi elettorali»
Una parte della legge è infine dedicata alle elezioni primarie: regolamenti, candidature, tempi.

Repubblica 16.2.12
Dai tecnici alle primarie la lunga crisi della politica
di Carlo Galli

Mentre si forma lo Stato moderno sono il canale attraverso cui si affermano gli interessi materiali e morali di élite e popolo
Non rappresentano più il cuore e il cervello dell´autorità, che risiede altrove: nelle banche, ma anche nei mercati e nelle agenzie di rating
Al centro di scandali, indeboliti e sfiduciati dai cittadini stanno vivendo il periodo più difficile della loro storia Ma la Costituzione assegna loro un ruolo centrale

Dire "partiti" significa dire "sfiducia", "discredito". A scatola chiusa, senza il beneficio del dubbio. Se si può scegliere, si vota contro un partito, o contro un suo candidato. Se non si può scegliere, ci si tura il naso; o, sempre più spesso, non si vota. Anything but parties; qualunque cosa, purché non siano i partiti. L´agonia (in Italia, tra governo dei tecnici e risultati delle primarie) o la cattiva salute (in molti Paesi occidentali) di quella che era stata la creatura privilegiata della politica del Novecento, il partito, è una questione politica di prim´ordine.
Nonostante il pregiudizio della superiorità del "tutto", sulla "parte", che lo ha fatto definire spesso come setta, come fazione, nella storia il partito è stato un potente motore della politica; per non parlare della polis, di Roma, del comune medievale, è attraverso i partiti che, dalla metà del Seicento, in Inghilterra, e poi in tutta Europa, passa la socializzazione alla politica. Mentre si forma lo Stato moderno, in parallelo i partiti sono il canale attraverso cui si affermano gli interessi materiali e morali dei protagonisti della società, sia delle élites borghesi che lottano per il potere politico, sia del popolo che entra sulla scena della storia. È alla fine del XIX secolo che si formano i partiti di massa – dapprima socialisti, in seguito anche cattolici –; e questi non sono più soltanto canali d´espressione degli interessi di parti della società, ma hanno anche forti finalità politiche, dettate da ideologie talmente cogenti che spesso il partito si presenta non come portatore di un´opinione ma come incarnazione di una verità. Il partito di massa è caratterizzato inoltre da una complessa organizzazione interna (dominata da professionisti della politica, secondo la "legge ferrea delle oligarchie"). Sono i partiti di massa il cuore della politica del Novecento: sia in quanto partiti che occupano lo Stato come "partiti unici", sia in quanto partiti democratici, che in quanto snodo fra il popolo e le istituzioni, sono il perno dello Stato sociale.
I partiti sono dunque una sintesi di interessi, progetti, organizzazione; e sono più affini che estranei rispetto allo Stato (come del resto aveva colto Gramsci), poiché hanno nello Stato – nella sua critica, nella sua riforma, nel suo controllo – il loro orizzonte teorico e pratico; sono l´elemento dinamico e partecipativo della politica moderna. E insieme a questa deperiscono. Per diversi motivi: per la loro corruzione e rapacità, certamente; ma anche per la diffusa percezione della loro inutilità in contesti in cui la politica è caratterizzata dai lampi dell´eccezione, dall´emergenza, e i partiti – organizzazioni burocratiche – devono cedere il passo al Capo e al suo decisionismo; o ancora perché il consenso non passa più attraverso la mediazione dei partiti ma attraverso l´immediatezza di un abile messaggio populistico; o infine perché sopra la politica si afferma la tecnica, e solo agli esperti, e non ai politici, viene concessa fiducia. Infine, perché chi protesta contro l´ordine, o il disordine, del mondo non trova più nei partiti una sponda, una voce, una consonanza; perché chi vuole fare politica si sente costretto a vedere nei partiti un ostacolo, e ad abbracciare l´antipolitica. Insomma, tanto per chi è interno alla idea della fine della politica, quanto per chi crede nel rinnovamento della politica, i partiti fanno parte del problema e non della soluzione.
E il problema è l´eclisse della politica nella sua forma moderna, progettuale, emancipativa; e non a caso, infatti, insieme ai partiti deperisce anche lo Stato, sia pure con diversa velocità e secondo diverse linee; entrambi, Stato e partiti, non sono più il cuore e il cervello del potere. Che risiede altrove: nelle banche, nei mercati, nelle agenzie di rating e nelle istituzioni della governance economica internazionale. E ciò spiega, tra l´altro, perché la politica non attrae più i migliori – perché mai votarsi a un´attività comunque subalterna? Così, mentre la sovranità degli Stati si inchina alle logiche sovranazionali dell´economia e della finanza, e cerca di amministrare le conseguenze locali di strategie che nascono fuori dallo Stato e lo sovrastano, ciò che resta dei partiti assomiglia sempre più a un insieme incoerente di agglomerati di potere e di affari, a cordate di carrieristi, che legittimano la propria sopravvivenza come ceto politico facendo a meno di organizzazione e di idee, e rappresentando, a livello lobbistico, gli interessi della più disparate categorie.
L´alternativa è un forte ritorno della politica, una reazione a uno sviluppo delle nostre società sottratto al controllo e alla partecipazione dei cittadini; ma anche questa esigenza – che pure circola nella società, benché non maggioritariamente – è disattesa, e anche questo appuntamento sembra mancato dai partiti che soffrono la concorrenza di movimenti anti-partiti – antipolitici, ovvero estremistici (fanatismi religiosi, fondamentalismi nazionalistici, ecc.) –, guidati da leader, o da leaderini più o meno affabulatori.
Ma è evidente che la eventuale nuova volontà dei cittadini di ricostruire il nostro assetto civile non può, se vuole essere vitale, limitarsi a fare affidamento su queste forme di aggregazione politica, come non può farlo sui partiti tradizionali e su ciò che ne resta. La rinascita e la trasfigurazione dei partiti, la loro riforma radicale (a cui certo non potranno essere estranee, oltre alle idee, anche forti personalità disposte a impegnarsi direttamente in politica), resta l´unica via – anche se stretta – perché la politica possa tornare a essere spazio di partecipazione, di inclusione attiva, di consapevole e condivisa libertà.

Repubblica 16.2.12
C’era una volta la tessera
di Filippo Ceccarelli

Agenzie di consenso, brivido militante, sportelli aperti nella società meglio che patronati d´assistenza, erogatori di favori e di dignità. Non di rado accompagnavano i seguaci oltre la morte: al funerale con le bandiere
Sedi, giornali, feste: così funzionava la macchina

Per anni e anni nelle campagne la Dc era: «la Democrazia»; così come nelle periferie operaie il Pci era naturalmente: «il Partito». Impossibile sbagliarsi. Al telefono il centralinista del Msi, allora allocato tra polverosi labari a Palazzo del Drago, rispondeva stentoreo: «Movimento!».
Si chiamavano «camerati», o «compagni», oppure «amici»; ci si salutava con il braccio levato o con il pugno chiuso, «anche se noi liberali – dovette spiegare Malagodi – ci stringiamo la mano». C´erano allora simboli, inni, quotidiani e sedi immediatamente riconoscibili. Per circa mezzo secolo democristiani, comunisti e socialisti usurparono la toponomastica di piazza del Gesù, di via delle Botteghe Oscure e della stessa via del Corso, che pure ospitava monumenti più durevoli del palazzone del Psi, cui pure, nell´era un po´ megalomane del tardocraxismo parve opportuno acquistare un cinema.
Però poi tutto passa, specialmente l´età dell´oro. E se oggi il cine Belsito è chiuso e abbandonato, e a palazzo Cenci-Bolognetti, il «palazzo dei veleni» dello scudocrociato, c´è la redazione del Male, si segnala che la sezione comunista della Bolognina da cui nel 1989 Occhetto annunciò la «Svolta» è diventata – oh, lacrimae rerum! – un centro estetico.
Ma questo non toglie che l´Italia sia stata a lungo, perfino sul piano costituzionale, La Repubblica dei partiti, come s´intitola un libro di Pietro Scoppola (il Mulino, 1991). Fin dal Cln i partiti organizzarono la fragile democrazia prendendosi cura di trasformare delle tribù in popoli: così uguali e diversi tra loro da poter collaborare e insieme darsi battaglia. E subito allora in quelle appartenenze ci furono eroi, martiri, lapidi, monumenti e scuole di partito, tessere e probiviri, scrutatori ai seggi con la fascia al braccio, intellettuali organici e organizzazioni collaterali, e viaggi turistici, colonie estive, campi da bocce, gare sportive, sfilate di miss, servizi d´ordine, ideologi, faccendieri e affari.
Il Pci curava quelli con i paesi dell´Est, dopo il centrosinistra la Dc e il Psi si divisero le Partecipazioni statali, rientrando appunto il finanziamento ai partiti di governo, come teorizzò un futuro capo democristiano, «tra i compiti diciamo subistituzionali degli enti». Del resto Enrico Mattei usava i partiti «come dei taxi» – anche se poi lui fu abbattuto mentre loro rimasero a circolare per altri trent´anni, esercitando il potere interno ed esterno per cooptazioni, combinazioni e predestinazioni.
Piccolo grande mondo antico. Agenzie di consenso, brivido militante, sportelli aperti nel vivo della società, meglio che patronati d´assistenza, erogatori di favori e di dignità. Non di rado i partiti accompagnavano i seguaci perfino oltre la morte, la tessera deposta nella bara, le bandiere fuori e dentro le chiese, nell´apparato del Pci c´era un funzionario che gestiva i rinfreschi e i funerali, per questo soprannominato «dall´Alfa all´Omega».
Un minimo approccio antropologico segnala come quelle appartenenze si distinguessero anche per il cibo: dalle «salamelle» dei festival dell´Unità alle energiche tavolate para-ecclesiali dei dc, non per caso detti «forchettoni»; e secondo la medesima e simile differenza si ripartivano i vestiti e i simbolici accessori dei leader: i sandali di La Pira, il basco di Nenni, il doppiopetto di Togliatti.
Quando Craxi apparve a torso avvolto in un pareo su una spiaggia tunisina, tutto stava per finire. Le lettere di Moro sono il doloroso congedo al sistema dei partiti, e l´ultimo comizio di Berlinguer è il miglior ricordo che ognuno vorrebbe tener vivo nel cuore.

Repubblica 16.2.12
Le nuove forme democratiche
di Marc Lazar

L’opinione di Rousseau. Jean-Jacques Rousseau nelle "Confessioni" dichiarava la sua "mortale avversione per tutto ciò che si chiamava fazione e consorteria". In seguito la diffidenza è cresciuta Il primo vero declino avviene nel decennio 1960-´70
Il problema centrale è oggi quello della partecipazione

I partiti politici hanno una cattiva reputazione. Già Jean-Jacques Rousseau nelle Confessioni dichiarava la sua «mortale avversione per tutto ciò che si chiamava partito, fazione, consorteria». In seguito quella diffidenza nei riguardi dei partiti è cresciuta.
In effetti, nel XIX secolo, in Europa i regimi democratici erano caratterizzati dall´istituto parlamentare e nel XX secolo, specialmente nella seconda metà, sono dominati soprattutto dai partiti. Deboli in Francia, dove lo Stato è molto forte e lascia poco spazio alla società civile, i partiti sono forti in Gran Bretagna, in Germania e nella Repubblica italiana.
Partiti di notabili, di quadri, di massa, "pigliatutto", di governo o protestatari, quali che fossero le forme assunte e le posizioni prese esprimevano l´intrusione delle masse nella politica. Più o meno strutturati, svolgevano funzioni di socializzazione, di integrazione e di mobilitazione degli elettori, di selezione dei candidati proposti alle elezioni e quindi della classe dirigente, di partecipazione alle decisioni governative. Furono però accusati di monopolizzare il potere, di confiscare la democrazia e di beneficiare di privilegi esorbitanti.
Tra le due guerre la polemica nei confronti dei partiti era molto diffusa e si combinava con il rifiuto della democrazia parlamentare proclamato dai fascisti, dai nazisti, dall´estrema destra e dai comunisti. È tornata poi a partire dagli anni 1960-´70, segnando il primo grande declino dei partiti, perché le società erano più prospere, meglio educate, scosse dai progressi dell´individualismo, meno rispettose dei poteri e delle autorità.
Cominciarono ad abbozzarsi dei mutamenti delle democrazie, alimentati dal ruolo sempre maggiore dei leader e dall´influenza sempre più forte dei media, e soprattutto della televisione (oggi anche di Internet), sulla vita politica, e accompagnati dalla fine delle grandi ideologie e dalla disgregazione delle culture politiche tradizionali.
I partiti sono dunque condannati?
È assai improbabile. Restano indispensabili per vincere le elezioni e continuano a orientare la scelta degli elettori. Pur essendo, per la maggior parte, meno radicati di prima nella società, sono diventati potenti macchine finanziate dallo Stato (per evitare il ricorso alla corruzione) e sono presenti nelle istituzioni pubbliche.
I partiti più consolidati, di destra come di sinistra, fanno il possibile per impedire ai nuovi arrivati di accedere al mercato elettorale. Anche, se non soprattutto, perché significherebbe dover spartire i beni pubblici.
Ai giorni nostri, i partiti sono costretti a prendere in considerazione le pressanti richieste da parte dell´elettorato di una maggior partecipazione politica. Una delle risposte che hanno elaborato è arrivata dall´Italia con le primarie del centrosinistra, che hanno ispirato il Partito socialista francese. Lanciate come un ponte verso la società, possono ritorcersi contro il partito che le ha concepite, come è successo a Genova questa settimana. In Italia come in altri paesi si sta inventando una nuova forma di democrazia che ridefinirà i rapporti tra partiti e cittadini.
(Traduzione di Elda Volterrani)

il Fatto 16.2.12
Ior e trasparenza. Lo stop alle norme europee
Trucchi e cavilli: così lo Ior torna in paradiso (fiscale)
Il Vaticano rischia la black list dei paradisi fiscali
di Marco Lillo

In luglio si faranno i giochi per stabilire se il Vaticano può essere ammesso tra gli Stati rispettabili per la normativa antiriciclaggio. I documenti pubblicati dal Fatto sulla Santa Sede non sembrano deporre bene. Tra luglio e dicembre del 2012 si faranno i giochi per stabilire se lo Stato Vaticano può essere ammesso nel consesso degli stati rispettabili per la normativa antiriciclaggio. Secondo quanto si legge nei documenti pubblicati in questi giorni dal Fatto però l’impegno è stato preso sotto gamba dalla Santa Sede. il Segretario di Stato Tarcisio Bertone pensa di avere assolto il suo dovere con la normativa approvata il 30 dicembre del 2010 che istituiva l’Autorità Antiriciclaggio del Vaticano, l’AIF, guidata dal cardinale Attilio Nicora. Indubbiamente un passo avanti anche per la Procura di Roma che aveva dissequestrato, anche per quel buon segnale, i 23 milioni di euro bloccati dal settembre 2010 per mancato rispetto delle normative antiriciclaggio da parte dello IOR. Alla fine di novembre del 2011 erano arrivati Oltretevere anche gli ispettori del gruppo Moneyval del Consiglio d’Europa e in molti pensavano che alla fine del 2012 il Vaticano sarebbe finalmente uscito dalla “grey list” dei paesi non affidabili. Peccato che da allora si è comportato come quell’allievo un po’ furbo che agguantata la sufficienza al primo quadrimestre comincia a mollare i libri convinto di avere in tasca la promozione. Il Cardinale Attilio Nicora ha cercato in tutti i modi di mettere in guardia Bertone e il Papa, ma non ci è riuscito. Così il 25 gennaio è stata approvata una normativa che cambia le carte in tavola rispetto alla cosiddetta CXXVII del 30 dicembre del 2010.
NICORA, quando il 9 gennaio gli trasmettono la bozza della legge che gli sfila sotto il naso i poteri sul fronte del riciclaggio prende carta e penna e il 12 gennaio scrive al Segretario di Stato Tarcisio Bertone per chiedere di rinviare quella controriforma:
“La bozza del 9 gennaio 2012 comporta una riscrittura della legge che non si limita ad introdurre gli adeguamenti suggeriti da Moneyval, necessari per allineare completamente l'ordinamento vaticano ai principi internazionali antiriciclaggio, ma opera scelte decisamente diverse rispetto alla Legge CXXVII in materia di reati, assetto degli organi di controllo, competenze, soggetti obbligati, rapporti e procedure. Sotto un profilo sostanziale, va dunque osservato che la nuova versione della legge riforma in toto l'assetto istituzionale del sistema antiriciclaggio vaticano, ridefinendo compiti e "ruoli delle Autorità e modificando l'impostazione illustrata in sede di verifica Moneyval”. Nicora cerca di sensibilizzare Bertone prospettandogli i rischi: “Si consideri, inoltre, che il testo della legge ora vigente era stato concordato con la Commissione europea all'atto della sua emanazione e, da ultimo, è stato oggetto di positiva verifica nell'ambito della Commissione mista Ue - Stato della Città del Vaticano, prevista dalla Convenzione monetaria tra lo Stato della Città del Vaticano e l'Unione europea del 17 dicembre 2009. La prima conseguenza prevedibile consiste nella difficoltà/impossibilità da parte degli esperti di redigere un rapporto di valutazione, che sarebbe dovuto essere inviato in bozza alla Santa Sede ai primi di marzo 2012, a fronte di un quadro normativo completamente innovato. Si corre quindi il rischio di uno slittamento della data di discussione del rapporto, finora prevista per la plenaria Moneyval di luglio 2012, ovvero di un supplemento di verifica in loco, evenienze che allungherebbero ulteriormente i tempi della definizione della procedura e che, sotto altro profilo, potrebbero destare serio allarme nella comunità internazionale oltre che in seno agli Organismi antiriciclaggio internazionali.
Ma, secondo il presidente dell’Autorità antiriciclaggio vaticana, c’è addirittura il rischio di essere retrocessi: “Inoltre, l'eventuale procrastinazione della valutazione Moneyval potrebbe far venir meno la sospensione della procedura di cui si occupa il gruppo ICRG del GAFI /FATF relativa all'esame dei paesi non cooperativi, tra cui è ancora inclusa la Santa Sede, con conseguente aggravio di lavoro e possibili riflessi, anche d'immagine, a livello reputazionale”.
Anche perché, spiega il Cardinale che guida l’AIF, non si può abusare della pazienza altrui: “In proposito, è possibile che la visita degli esperti di Moneyval, accolta con un approccio di evidente disponibilità da parte degli esponenti delle diverse Autorità vaticane, e improntata a un clima di benevola attenzione e impegno da entrambe le parti, abbia ingenerato l'erronea convinzione che da tali presupposti potesse automaticamente scaturire una valutazione positiva e che quindi, assicurato con un certo agio questo risultato, si potesse procedere a una riforma radicale del quadro istituzionale di riferimento senza correre rischi ulteriori. In realtà, se un determinato assetto normativo ha ottenuto un riconoscimento e un'apertura di credito iniziale, sembrerebbe non conveniente abbandonarlo per introdurne un altro sulla cui validità non vi è ancora garanzia di approvazione. Non va trascurato, in tutta questa materia, l'aspetto attinente ai profili di opportunità verso l'esterno e al rischio reputazionale a cui può andare incontro la Santa Sede adottando iniziative che potrebbero rivelarsi non coerenti con l'impostazione già apprezzata nel suo complesso. L'intervento generale sulla legge che sarebbe ora operato potrebbe essere visto all'esterno, anche se erroneamente, come un "passo indietro rispetto al cammino sin qui percorso”.
PRIMA DI CHIUDERE Nicora si lamenta della perdita dei poteri: “Per quanto poi riguarda specificatamente l'AIF, da una prima veloce lettura del contenuto della bozza balza evidente quanto segue: - da un lato, giustamente viene evidenziato il ruolo preminente della Segreteria di Stato... dall'altro, va rilevato che la ridefinizione dei compi ti dell'AIF si traduce in una complessiva riduzione di competenze e funzioni, a scapito sia di un assetto razionale dei presidi antiriciclaggio all'interno, sia del ruolo fondamentale della neo istituita Autorità in ambito internazionale, coerente con i principi in materia e riconosciuto dagli esperti di Moneyval e dalla Commissione europea”.
Il grido di allarme non è stato accolto. Nel decreto del 25 gennaio 2012 i poteri dell’AIF sono stati drasticamente ridimensionati. Per l’esattezza:
1) le ispezioni non sono più un potere autonomo dell’AIF ma devono essere regolamentate dalla Pontificia Commissione con futuri regolamenti;
2) l’AIF di fatto viene rimessa sotto il controllo della Segreteria di Stato;
3) l’inadempimento degli obblighi delle prescrizioni dell’AIF è ora sanzionata in modo più blando.
Bertone ha vinto su tutta la linea.


il Fatto 16.2.12
Carriere Potrebbe essere lui a succedere come Primo ministro
Il card. Piacenza e la cordata anti-Bertone
di Marco Politi

L’uomo pronto a prender il posto del cardinale Tarcisio Bertone come Segretario di Stato ha la sua scrivania in piazza Pio XII nr. 3, praticamente di fronte al sagrato di San Pietro. Non muove un dito, non complotta. Sta lì e si presenta come un fedelissimo di papa Ratzinger, dottrinalmente sicuro a prova di bomba e in più... efficiente. Si chiama Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero.
Un grande organismo come Santa Romana Chiesa, che raggruppa oltre un miliardo di fedeli, è una struttura che come tutte segue un suo istinto di sopravvivenza. Nelle crisi si manifesta sempre uno zoccolo duro di “servitori dell’istituzione”, che si pongono il problema dell’alternativa. Di chi mettere al timone se sulla plancia di comando si verificano disfunzioni. Dinanzi all’evidente crisi della gestione Bertone molti guardano al cardinale Piacenza.
Se anche Benedetto XVI – con qualche pensiero ai veleni nella Curia – afferma all’udienza generale, che “Gesù chiede al Padre di perdonare coloro che lo stanno crocifiggendo (e) ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre”, in Vaticano molti si domandano per quanto tempo si possa ancora andare avanti così.
Bertone compirà quest’anno 78 anni, l’età in cui il suo predecessore Angelo Sodano lasciò la guida della Segreteria di Stato. Se a un pontefice è concesso invecchiare e avanzare nell’ottantina (Ratzinger ne compie 85 tra poche settimane), un Segretario di Stato ha il dovere di non essere troppo anziano e di mantenere una sua giovanile energia. Piacenza ha l’età giusta per i gusti curiali: 67 anni.
Nato a Genova, fa parte di quella squadra ligure che negli ultimi anni si è fatta sempre più spazio ai vertici della Santa Sede e della Chiesa italiana: dal viceministro degli Esteri vaticano, mons. Ettore Balestrero, al neo nominato patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia. Piacenza, sotto Giovanni Paolo II, è stato presidente della pontificia commissione per i Beni culturali e della commissione di Archeologia sacra. Ma il percorso di carriera che lo avvicina a Benedetto XVI è quello compiuto nell’influente Congregazione per il Clero. Nominato sottosegretario del “ministero dei preti” nel marzo 2000, fa un balzo in avanti nel maggio del 2007. Come mai? È accaduto che neanche sette mesi prima Benedetto XVI ha nominato prefetto della Congregazione per il Clero il cardinale brasiliano Claudio Hummes. Il porporato viene dall’arcidiocesi di São Paulo, forte di una grande esperienza pastorale. Il mondo cattolico si aspetta da lui un approccio nuovo nell’affrontare la profonda crisi del clero. E Hummes parte pieno di entusiasmo. Prima di imbarcarsi all’aeroporto di São Paulo dichiara alla stampa che il celibato non è un dogma. Non fa neanche in tempo ad atterrare a Roma che già deve smentire ufficialmente (con un comunicato umiliante) qualsiasi intenzione di innovazione. Piacenza, nominato suo braccio destro, svolgerà praticamente il ruolo di commissario.
Hummes si ammutolisce. Dopo appena quattro anni il cardinale brasiliano abbandona la Congregazione per il Clero, con Benedetto XVI oltre modo sollecito nell’accogliere le sue dimissioni dovute per aver raggiunto i 75 anni di età.
Il 7 ottobre 2010 papa Ratzinger nomina Piacenza alla guida della Congregazione e il 20 ottobre gli impone la berretta cardinalizia. Una carriera lampo. Piace a Benedetto XVI l’estrema ortodossia dottrinale di Piacenza unita a capacità organizzativa, inoltre piace al Papa la sua posizione di accusa nei confronti del mondo moderno, la sua difesa del modello sacerdotale così com’è, senza ombra di tentazioni riformiste. In una recente pubblicazione il cardinale Piacenza ha riproposto il prete come “testimone dell’Assoluto” e ha parlato di attacchi al celibato ecclesiastico come provenienti da “contesti e mentalità completamente estranei alla fede... spesso coordinati nei tempi e nei modi da regie nemmeno troppo occulte, che mirano al progressivo indebolimento” di uno degli elementi più di efficaci della testimonianza della Chiesa. È la tesi più di moda nella Curia ratzingeriana, l’idea di una cospirazione ai danni della Chiesa.
Quando tra il 2009 e il 2010 Benedetto XVI indice l’Anno sacerdotale, Piacenza fa sì che non venga organizzato un solo momento di riflessione vaticano sugli effetti pratici della crisi delle vocazioni e su come affrontare strutturalmente il problema delle parrocchie senza guida. In queste ore, l’astro di Piacenza sta crescendo, perché Benedetto XVI per la prima volta è in un serio conflitto con il cardinale Bertone. Papa Ratzinger non gli perdona di frenare la politica di assoluta trasparenza internazionale dello Ior perseguita da Gotti Tedeschi e dal cardinale Nicora. E non gli perdona di avere esposto la Santa Sede – con la cacciata di Viganò – al sospetto di tollerare affari di corruzione negli appalti delle opere vaticane. Troppo per un pontefice tedesco, anche se lento nel decidere.

il Fatto 16.2.12
Patti Lateranensi, i Radicali: “Non c’è niente da festeggiare”

Dentro il bilaterale Italia-Santa Sede, fuori – poco distanti dall’ambasciata italiana presso la santa Sede – i Radicali. Nel giorno in cui si commemorano i Patti Lateranensi, a partire dalle 16, i Radicali terranno un presidio anticoncordatario. “Mentre governo e leader politici italiani, tra cui Alfano, Bersani e Casini – fa sapere il partito – si riuniranno per festeggiare questa ricorrenza infausta, tanto per lo Stato quanto per la Chiesa, Radicali Italiani sarà davanti all’ambasciata italiana presso la Santa Sede (via delle Belle Arti, 2) a riaffermare l’urgenza dell’abolizione del Concordato e della denuncia del Trattato lateranense”. “Per affrancare la nostra Repubblica dal peso economico e civile di uno Stato assoluto e confessionale – dicono ancora i Radicali – per assicurare finalmente il diritto a una vera libertà religiosa”. Al presidio prenderanno parte il segretario di Radicali Italiani Mario Staderini, il tesoriere Michele De Lucia, parlamentari, dirigenti e militanti radicali.


il Fatto 16.2.12
Mani Pulite, 20 anni. Tangentopoli, quante bugie
Così destra e sinistra hanno salvato i ladri
di Piercamillo Davigo

Sono passati vent’anni da quando, il 17 febbraio 1992, a Milano fu arrestato Mario Chiesa, fatto che è stato considerato l’inizio di quelle indagini che i mezzi di informazione hanno chiamato“Mani pulite”. Quella non era la prima volta in cui un pubblico amministratore veniva sorpreso in flagranza di corruzione, e non fu l’ultima. Per quale ragione, vent’anni dopo, quell’accadimento viene ancora ricordato, tanto da portare alla seconda edizione di un volume che ricostruisce quella vicenda e quelle che seguirono? Credo che la spiegazione sia da ricercare nel sorprendente (anche per gli inquirenti) sviluppo delle indagini, innescate da quell’episodio, che in un tempo relativamente breve (specie se rapportato ai tempi dell’amministrazione giudiziaria) portò alla scoperta di un numero impressionante di reati e al coinvolgimento di migliaia di politici, funzionari e imprenditori. Che cosa aveva fatto la differenza fra quelle indagini rispetto ad altre precedenti e successive? In questi vent’anni si sono sentite in proposito, da parte di vari commentatori, numerose sciocchezze, quali “lo sapevano tutti”, “dov’era prima la magistratura? ”, “è stato un golpe” (orchestrato, a seconda dell’ideologia di chi sosteneva tale tesi, dai comunisti, dalla Cia, dai poteri forti ecc.) e altre stravaganze.
Anzitutto non è vero che “lo sapevano tutti”. Né i miei colleghi né io, pur avendo la percezione che i reati di concussione, corruzione, finanziamento illecito dei partiti politici e false comunicazioni sociali fossero ben più numerosi di quanto risultava dalle statistiche giudiziarie, immaginavamo le dimensioni dell’illegalità, quali emersero dalle indagini. Neppure i cittadini immaginavano che la corruzione avesse raggiunto tali dimensioni e soprattutto che appartenenti a partiti di opposti schieramenti si dividessero le tangenti, e rimasero attoniti quando Bettino Craxi, alla Camera dei deputati il 29 aprile 1993, parlò di un sistema di finanziamento illegale alla politica che coinvolgeva tutti, senza ch enessuno dei deputati presenti in aula (fra cui certamente ve ne erano pure di onesti, ma ignari di ciò che era accaduto all’interno dei loro partiti) si alzasse a rivendicare la propria estraneità e il proprio sdegno nel sentirsi accomunare al generale ladrocinio.
Del resto nelle statistiche giudiziarie i reati di corruzione apparivano (e appaiono tuttora) come poco numerosi, ma ciò non deve stupire. La corruzione ha infatti alcune caratteristiche della mafia, fra cui la sommersione e il contesto omertoso, e ha una cifra nera (differenza fra delitti commessi e delitti denunziati) altissima. La corruzione non si commette di fronte a testimoni; è un reato a vittima diffusa, non viene subita da una persona fisica determinata che abbia l’interesse a denunciarla; e le pratiche comprate sono quasi sempre le più “a posto”, le più curate; se a ciò si aggiunge che le leggi vigenti rendono difficile scoprirla e reprimerla, vi sono ragioni sufficienti per spiegare perché prima (ma anche dopo) sia emerso nelle statistiche giudiziarie pochissimo di quel sistema di illegalità diffusa che le indagini del 1992-‘95 svelarono. Queste considerazioni rispondono anche alla domanda “do-v’era prima la magistratura? ”. Mi sono sempre chiesto perché mai tale domanda (almeno per quel che ne so, ma non mi stupirei del contrario) non sia stata formulata anche a proposito dei procedimenti di mafia. Le indagini sulla mafia, solo dalla collaborazione di Tommaso Buscetta in poi, hanno potuto evidenziare l’esistenza di Cosa Nostra come struttura unitaria con regole radicate. Prima i magistrati e le forze di polizia non avevano la minima idea della struttura interna a tale organizzazione. Per altro è ben possibile che alcuni di coloro che pongono queste domande retoriche sapessero sia della corruzione che della mafia, ma allora il quesito da porre a costoro dovrebbe essere: “Se lo sapevi perché non hai informato le Procure della Repubblica? ”. Bisogna cercare di individuare le ragioni per le quali questo è avvenuto e perché allora. Anzitutto perché, come ha insegnato il professor Franco Cordero, la caccia e la preda sono due cose distinte. Si può andare a caccia seguendo le regole venatorie e non prendere nulla, così come si può essere pessimi cacciatori e tuttavia avere fortuna, tornando dalla battuta con un ricco bottino. Tuttavia ritengo che siano individuabili alcuni specifici fattori che possono contribuire a spiegare l’esito particolarmente favorevole che quelle indagini ebbero nel periodo dal 1992 al 1995.
L’ENORME DEBITO pubblico e la crisi economica del 1992 avevano determinato la riduzione della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi e questa, a sua volta, aveva ridotto la possibilità per i corruttori di traslare le tangenti sulla Pubblica amministrazione e di sperare in futuri lucrosi appalti. Molti imprenditori, che fino ad allora avevano partecipato a cartelli corruttivi, si scoprirono concussi e, anziché far fronte comune con i corrotti, cominciarono a scaricarli, fornendo agli inquirenti l’elenco delle tangenti pagate. All’inizio i vertici dei partiti scaricavano i soggetti che venivano arrestati, descrivendoli come mariuoli isolati, singole mele marce. E quelli, sentendosi abbandona-ti dai loro complici, descrivevano il resto del cestino delle mele. Ciò determinò una reazione a catena nelle chiamate in correità incrociate e quello che in questo volume viene chiamato «effetto domino».
Le indagini fecero emergere che la corruzione è un fenomeno seriale e diffusivo: quando qualcuno viene trovato con le mani nel sacco, di solito non è la prima volta che lo fa. Inoltre i corrotti tendono a creare un ambiente favorevole alla corruzione, coinvolgendo nei reati altri soggetti, in modo da acquisirne la complicità finchè sono le persone oneste a essere isolate (...)
Nel 1992, con il crollo delle ideologie, era anche entrata in crisi la tradizionale forma-partito come strumento di aggregazione del consenso e soggetto destinatario dell’assoluta fedeltà degli iscritti. Ricordo che in una trasmissione televisiva, poco dopo l’arresto del segretario cittadino del Pds, un iscritto a quel partito, intervistato, commentò il fatto dicendo che da trent’anni andava ai festival dell’Unità come volontario a cuocere le salamelle sulla griglia e che ora veniva a sapere che, mentre lui girava le salamelle sulla griglia, i suoi capi rubavano, e concludeva dicendo che dovevano andare in galera. L’insieme di queste cause consentì la scoperta della vasta trama di corruzione, e la reazione dell’opinione pubblica, la cui sensibilità era acuita dalla crisi economica, ebbe effetti (all’apparenza) dirompenti sul panorama politico: scomparvero dalla scena cinque partiti (...).
IL SISTEMA politico si è rapidamente ricomposto in forme nuove, continuando tuttavia a calpestare sia la volontà dell’opinione pubblica (ad esempio aggirando l’esito del referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti politici, che oggi ottengono dallo Stato più denaro di prima del referendum, giustificato come rimborsi per spese elettorali) sia le esigenze, imposte anche da istanze internazionali (Onu, Consiglio d’Europa, Unione europea, Fondo monetario internazionale, Ocse), di ridare legalità e trasparenza alle istituzioni e al mercato. Da allora (e fino a non molto tempo fa) è invece stato avviato un tentativo di restaurazione, che ha ottenuto il duplice risultato di far crollare il numero delle condanne per corruzione e di far precipitare l’Italia, negli indici della corruzione percepita, al penultimo posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo occidentale, dietro molti paesi africani e asiatici. Il numero di condanne per corruzione, ridotto a un decimo di quello di 15 anni fa, non appare dunque frutto di una riduzione della corruzione, ma della difficoltà a fronteggiarla. Il clima in cui da anni operano i magistrati (attaccati da ogni parte) e lo sfascio della giustizia non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi vent’anni, spiegano sia le maggiori difficoltà delle indagini sia l’esito negativo dei processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione. Non ci si deve quindi stupire se la corruzione è probabilmente aumentata e, se mai, ci si deve domandare perché questi reati dovrebbero emergere in procedimenti giudiziari. (...)
Non si può indagare su un caso di corruzione se i protagonisti possono comunicare fra loro. Inoltre la serialità e diffusività di questi reati integra pressoché sempre il pericolo di reiterazione dei reati. L’esperienza insegna anche che questo pericolo non viene meno neppure con l’allontanamento dei corrotti da incarichi pubblici, perché li si ritrova di lì a poco a svolgere il ruolo di intermediari fra i vecchi complici non scoperti. In un interrogatorio reso nel 1992, una persona sottoposta a indagini, riferendo di appalti relativi a un importante ente pubblico a livello nazionale, dichiarò che esisteva un cartello di circa duecento imprese che si spartivano tali appalti, che si pagava praticamente chiunque, sia con riferimento alla struttura dell’ente sia ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza e dei principali partiti di opposizione, e che ciò «è standardizzato da almeno vent’anni». Essendo questo il quadro, secondo le regole del codice di procedura penale, nessuno dei soggetti che delinquono da anni, inseriti in un contesto criminale e criminogeno, dovrebbe essere in stato di libertà. Ma le campagne mediatiche contro le presunte «manette facili» (chissà perché riferite solo ai crimini dei colletti bianchi e non, ad esempio, agli scippatori) hanno sortito effetto: oggi i magistrati arrestano molto meno per questi reati e comunque si ricorre agli arresti domiciliari, anziché alla custodia in carcere, con il risultato che molte indagini vengono irrimediabilmente inquinate.
Gli indagati, anche quando fingono di collaborare, confessano solo quel che non possono negare o che immaginano sarà comunque provato e lo raccontano a modo loro, spesso dopo aver concordato versioni di comodo con i complici e ritagliando spazi di omertà da far valere per assicurarsi un futuro politico ed economico basato sulla capacità di ricatto acquisita con il silenzio mantenuto. (...) La legge elettorale fa dipendere l’elezione dalla collocazione in lista, sicché i vincoli verso coloro che formano le liste elettorali si sono rinsaldati e la tendenza a fare quadrato prevale su ogni altra considerazione. D’altro canto a rapporti diretti di corruzione sembrano essersi affiancati comitati d’affari che rendono ancora più difficile ricondurre le relazioni a fattispecie penali, non essendo stato inserito nel codice penale il delitto di traffico d’influenza, alla cui introduzione pure le convenzioni internazionali obbligano l’Italia (...). Altre convenzioni, in sede di ratifica, non sono state attuate o sono state
depotenziate. Ad esempio: è stata introdotta nel codice penale la confisca per equivalente (cioè di beni di pari ammontare) del prezzo, ma non del profitto di reato. La legge, come ha confermato una recente pronuncia della Corte di cassazione a sezioni unite in materia di peculato, infatti, non consente la confisca dei beni per l’equivalente del profitto sottratto. Si può soltanto confiscare l’equivalente del prezzo del reato. Come se si sequestrasse all’autore di una rapina l’equivalente della paga avuta per partecipare al delitto, ma non l’equivalente della refurtiva.
LEGGI SALVACORROTTI. La sequenza di leggi di origine soltanto nazionale è invece di segno opposto. Molte pronunzie assolutorie sono derivate dalla sopravvenuta (per leggi nel frattempo approvate) inutilizzabilità di prove prima utilizzabili e – nel silenzio dei mezzi d’informazione – presentate come attestazioni di innocenza. Elevatissimo è stato il numero di sentenze di non doversi procedere per prescrizione, mai rinunziata dagli imputati, anche da coloro che hanno ricoperto cariche pubbliche, dimentichi che l’articolo 54 della Costituzione richiede a costoro «disciplina e onore», senza che mai nessuno all’interno dello stesso o di opposti schieramenti ricordasse il dovere dell’onore.
La legge ex Cirielli, oltre a ridurre i termini di prescrizione e a mandare in fumo decine di migliaia di processi in più, ha sortito un effetto spesso ignorato: prima, se ad esempio un corrotto riceveva tangenti per dieci anni, tutte le corruzioni rientravano in un unico disegno criminoso e l’istituto della continuazione gli riduceva la pena: ma la prescrizione decorreva dall’ultimo episodio di corruzione. Con la legge ex-Cirielli, invece, ogni reato in continuazione si prescrive autonomamente. Le conseguenze sono che non è più possibile risalire nel tempo a investigare precedenti episodi per individuare i complici e risalire ai fatti più recenti da costoro realizzati. Chi vuol corrompere un funzionario pubblico deve avere dei fondi neri, cioè deve falsificare i bilanci. Dietro un bilancio falso molto spesso si nascondono anche tangenti. Le leggi più dannose sono state perciò quella approvata dalla maggioranza di centrosinistra sui reati finanziari e quella della maggioranza di centrodestra sul reato di false comunicazioni sociali.
La prima ha ridotto la punibilità per l’annotazione di fatture per operazioni inesistenti (il sistema più usato per creare fondi neri) solo ai casi in cui si riverberano oltre una certa soglia sulla dichiarazione dei redditi: basta indicare spese gonfiate o inventate fra i costi non deducibili anziché fra quelli detraibili e si ottengono risorse fuori bilancio senza più commettere reato. Con la seconda (riforma del falso in bilancio del 2001) sono state abbassate le pene e dunque ridotta la prescrizione, sicché è quasi impossibile concludere i processi in tempo utile. Ma soprattutto, per le società non quotate, il delitto è stato reso perseguibile solo a querela della parte offesa, creditore o azionista. (...) Stabilire la perseguibilità del falso in bilancio a querela dell’azionista è come pretendere la perseguibilità del furto a querela del ladro. Con entrambe le riforme sono state comunque introdotte soglie di non punibilità molto alte: è stata così prevista la liceità penale della «modica quantità» di fondi neri, come per la droga!
I risultati di queste modifiche normative non si sono fatti attendere: al solo processo per l’aggiotaggio Parmalat si sono costituite circa 40.000 parti civili, cioè 40.000 vittime che volevano essere risarcite. Quanto impiega uno scippatore a fare 40.000 vittime?
Quanto all’abuso d’ufficio (reato utilissimo per iniziare a indagare) è stato depenalizzato quello non patrimoniale e sono state abbassate le pene per quello patrimoniale, così vietando la custodia cautelare. Oggi sembra (sembra?) che i partiti, quasi sempre, continuino a difendere i propri uomini che finiscono nei guai. Quella che viene chiamata “casta” fa quadrato, nessuno (o quasi) viene scaricato. L’opinione pubblica è stata a lungo indifferente o rassegnata o semplicemente non informata. Nel 1992 giornali e tv raccontavano i fatti, e questi erano più importanti dei commenti perché parlavano da soli. Peraltro i commenti erano frequentemente favorevoli all’opera di pulizia (...). Successivamente molto spesso i fatti vennero nascosti, filtrati e manipolati da un sistema mediatico controllato da po-tentati politici e imprenditoriali, frequentemente coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il commento fuorviante ha finito per prevalere sulla cronaca, relegata in posizioni marginali per consentire ai mezzi di informazione di parlar d’altro. Frequentissimi sono stati gli attacchi (...). Per l’insipienza di chi li sferrava, gli attacchi hanno investito non solo i magistrati del pubblico ministero, ma anche tutti i giudici di ogni grado, fino alle Sezioni unite della Cassazione, così ottenendo il risultato di tenere uniti i magistrati. Il fatto che in tutta Italia ci siano ancora inchieste e processi sui reati della classe dirigente, nati quasi sempre da iniziative giudiziarie e quasi mai dalle forze di polizia (che non hanno le guarentigie di indipendenza dal potere politico che tutelano i magistrati), è segno che la magistratura è riuscita a conservare la sua indipendenza.
LA CRISI economica che oggi, come nel 1992, grava sul paese probabilmente ridarà slancio a iniziative serie per ridurre la corruzione e di conseguenza a una repressione più incisiva. Tuttavia tanti anni sono passati invano ed è necessario ricominciare dall’inizio a fronteggiare questi fenomeni, che contribuiscono a rendere l’Italia poco efficiente e poco credibile sul piano internazionale, per l’ingente sperpero di risorse pubbliche, i tempi biblici per la realizzazione di opere pubbliche e la scarsa qualità dei beni e servizi acquistati dalle Pubbliche amministrazioni, quantomeno sotto il profilo qualità-prezzo. Allora è necessario ricordare i fatti accaduti vent’anni or sono (...). Il volume di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio è un ottimo compendio di quei fatti. Uscì nella sua prima edizione nel 2002, dieci anni dopo l’inizio di quelle indagini, nel momento in cui cominciava ad affievolirsi il ricordo di quanto era accaduto e i mezzi di informazione tentavano di accreditare l’idea che i magistrati avevano esagerato in passato, che in ogni caso erano stati parziali, avendo salvato alcune forze politiche, ma che ora si era finalmente tornati alla normalità e via discorrendo di simili amenità, anziché guardare inorriditi il fango che era emerso, l’ipocrisia di un’intera classe dirigente, il palese spregio del giuramento prestato da parte di moltissimi funzionari pubblici.
Il racconto dei fatti, ricostruiti con certosina pazienza e con la maestria che contraddistingue gli autori, spazza via le sciocchezze e le menzogne che per anni sono state divulgate dai mezzi di informazione. Accanto ai delitti commessi emerge con nitore l’incapacità (se non peggio) della classe dirigente di questo paese di creare le condizioni perché si possa vivere secondo le regole comunemente accettate del mondo occidentale, del quale dichiariamo di voler far parte. Quest’opera è un vademecum che aiuterà a ricordare ciò che è accaduto, perché è l’oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni.

Repubblica 16.2.12
Le macerie di Tangentopoli
di Guido Crainz

A vent´anni di distanza dal loro inizio, Tangentopoli e la crisi della "prima Repubblica" evocano oggi l´inevitabile crollo di un edificio corroso e al tempo stesso una ricostruzione radicalmente mancata. Non suggeriscono celebrazioni ma riflessioni amare sulla difficoltà, se non l´incapacità, del Paese a cambiare rotta. Impongono con urgenza ancora maggiore quel profondo esame di coscienza che allora non facemmo, preferendo rimuovere le radici del disastro. Lasciammo così largamente inalterati, dietro una "rivoluzione" di superficie, i guasti che erano stati alla base di quel crollo e costruimmo inevitabilmente sulla sabbia, se non sulle sabbie mobili. Per questa via le macerie della "seconda Repubblica" si sono inevitabilmente aggiunte a quelle della "prima": di entrambe dobbiamo oggi sgomberare il campo, e solo considerandole nel loro insieme possiamo individuare gli elementi necessari per una inversione di tendenza ancora possibile.
Ove si mettano a confronto gli anni Ottanta e il ventennio che ne è seguito viene quasi in mente il "tutto cambi perché nulla cambi" del Gattopardo e ancor di più una riflessione di Massimo d´Azeglio che viene spesso banalizzata e storpiata: "Hanno voluto fare un´Italia nuova - disse in realtà d´Azeglio - e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia, e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro". Lo dimenticammo, nell´attesa di una salvifica "seconda Repubblica", e venne di qui l´abbaglio di quegli anni: l´illusione che la corrosione avesse riguardato solo il ceto politico e non anche la società civile e il suo modo di essere. Come se le degenerazioni degli anni Ottanta, a partire dal crescente spregio per le regole collettive e per il bene comune, non avessero lasciato tracce profonde. Come non fosse proprio questo invece il terreno decisivo su cui costruire un´alternativa all´agonia della "prima Repubblica". Leggemmo in modo semplificato e mitico l´entusiasmo che accompagnò il crollo del vecchio sistema dei partiti, senza saper cogliere i differenti umori che in esso si mescolavano: e nel marzo del 1994 l´inaspettato trionfo di Berlusconi ci impose un brusco e amaro risveglio. Avevamo mitizzato la "rivoluzione della gente" e rimanemmo poi disorientati e afoni di fronte al suo primo esito: quasi una favola alla rovescia, scrisse allora Barbara Spinelli, in cui il principe alla fine si rivela un rospo. Delusi dalle favole, non sapemmo poi crescere.
Non cogliemmo appieno neppure le radici lunghe di quel deformarsi della politica che era imploso nella crisi e che rinviava in realtà sino agli anni del fascismo, come suggeriva un denso e appassionato libro di Luciano Cafagna, La grande slavina. Gli anni cioè in cui si era diffusa per la prima volta in Italia una presenza invasiva della politica nella vita quotidiana dei cittadini e si era affermata al tempo stesso la mescolanza fra interesse del partito e interesse dello Stato, l´appartenenza partitica come garanzia di privilegio e la politica come mestiere. Rimuovemmo anche questi nodi, e provocò allora scandalo Giuliano Amato quando li evocò nel burrascoso aprile del 1993, rassegnando le sue dimissioni da presidente del Consiglio.
Non riflettemmo a fondo, infine, né sul carattere tragico di quella crisi né sulle conseguenze di un mutamento radicale che era avvenuto principalmente per via giudiziaria, senza una contemporanea rifondazione e rigenerazione collettiva. E sull´inevitabile riproporsi, dunque, di quelle deformazioni dell´etica privata e pubblica che negli anni Ottanta si erano largamente diffuse e avevano improntato di sé larghi tratti del nostro vivere. Deformazioni che trovarono sbocco naturale in quella "liberazione dallo Stato" - e dalla coscienza civile, e dalle priorità del bene pubblico - che era il vero "miracolo" promesso da Silvio Berlusconi. Intriso di populismo e di antipolitica, di sprezzo per la Carta fondante della Repubblica e di estraneità alle regole essenziali della democrazia.
Fu una vera tragedia, in quella crisi, l´assenza di un´alternativa basata su proposte solide e convincenti di buona politica: una sinistra che aveva visto crollare i suoi tradizionali fondamenti ideologici ben prima del 1989 si dimostrò incapace di ricostruire se stessa su questo elementare e fondamentale terreno. Più esposta di prima, semmai, a pratiche distorsive e sempre meno capace di grandi slanci ideali. Sempre più inaridita.
Inevitabilmente dunque al vecchio panorama della politica subentrò un suo sconfortante simulacro, un "sistema dei partiti senza partiti" che ne ereditava i guasti e altri ne aggiungeva. E frenava al tempo stesso i tentativi di battere altre, più trasparenti e democratiche vie.
La corruzione stessa si ripropose e dilagò di nuovo, con un definirsi e costituirsi delle cricche che nell´agire - e talora nei nomi - rimandava ai peggiori cancri della "prima Repubblica", a partire dalla P2. Eppure molto a lungo essa ci era parsa scomparsa o quasi, almeno nei suoi aspetti più devastanti e corposi, e fu un brusco risveglio accorgerci, pochi anni fa, che così non era. Roberto Saviano parlò allora di "corruzione inconsapevole", segnalando un nuovo salto di qualità rispetto alla "corruzione ambientale" tratteggiata vent´anni prima dal giudice Di Pietro: a qualcuno parve esagerazione di scrittore ma si rivelò fondatissima descrizione della realtà.
Siamo arrivati così a un nuovo crollo e a una nuova dichiarazione di fallimento della politica, incapace di tenere il campo quando il Paese si è trovato ancora sull´orlo di un baratro. Lascia oggi sconfortati, se non sgomenti, la distanza fra l´urgenza assoluta di una ricostruzione radicale e la scarsa consapevolezza che sembrano averne i partiti. Capaci di ignorare persino l´inabissarsi della loro credibilità, esattamente come vent´anni fa. Eppure il Paese è sì logorato, disorientato, profondamente preoccupato ed esposto alle tentazioni dell´antipolitica ma ancora percorso da energie vitali, da ansie di rinnovamento. Se andassero ancora deluse sarebbe davvero l´ultimo dramma.

il Fatto 16.2.12
Polverini: “Malati curati per terra? Si può”
di Paolo Dimalio

I malati possono essere curati per terra, lo dicono i protocolli”. Il governatore del Lazio, Renata Polverini, prova così a spegnere l’indignazione sull’ospedale romano San Camillo, aprendo, però, la strada di ulteriori polemiche. Tutto nasce dalla storia di Roberto Montacci, denunciata sulle pagine del Fatto di domenica. Un’odissea di 40 ore per curare la figlia di 5 anni, provata da una banale influenza. Montacci ha dovuto smontare il sedile della sua automobile per far posto alla piccola nei corridoi intasati del San Camillo, per evitare di doverla adagiare sul pavimento. Poi sono arrivate le fotografie di altri malati, diffuse dal Partito democratico: una massaggio cardiaco ad un paziente steso a terra, su un materassino. Scatta così il blitz dei carabinieri del Nucleo antisofisticazioni e sanità, mentre la procura di Roma starebbe valutando se aprire un fascicolo.
LA COMMISSIONE parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari presieduta da Leoluca Orlando (Idv), intanto, vuole vederci chiaro: “La situazione in cui versa il pronto soccorso dell’ospedale è oltre il limite della decenza”, ha dichiarato Orlando. A dargli man forte, sono i lavoratori del San Camillo. “Un ospedale al collasso”, secondo dieci sigle sindacali dei medici. I sindacati denunciano lo stato di degrado: “Siamo sgomenti quando vediamo che i cittadini sono costretti a trascorrere giorni in uno stato di promiscuità, talora assistiti su materassi adagiati sul pavimento”. Ne sa qualcosa Roberto Montacci, che ha dovuto smontare il sedile della sua auto. Ma per la Polverini va tutto bene: il protocollo parla chiaro.

Repubblica 16.2.12
"Fondo per l´editoria entro pochi giorni il rifinanziamento"

«Entro pochi giorni adotteremo gli atti amministrativi per rifinanziare il fondo per l´editoria». Lo ha detto ieri Paolo Peluffo, sottosegretario con delega all´editoria, all´incontro «La carta al tempo di internet» nella sala capitolare del Senato organizzato dalla Filiera Carta, Editoria, Stampa e Trasformazione. Il sottosegretario ha precisato che «non ci saranno più finanziamenti per giornali che non si vendono: si va verso l´idea di calcolare le copie oggettivamente vendute e indicare come priorità i criteri di occupazione di poligrafici e giornalisti e lo sviluppo dell´editoria online». Gli operatori del settore della carta - che nel 2011 ha fatturato più di 36 miliardi di euro e conta quasi 800mila addetti - hanno richiesto al governo interventi di sostegno che vanno dalla detassazione della spesa per l´acquisto di libri scolastici e abbonamento a giornali, al rifinanziamento del credito agevolato per il settore; dall´estensione del credito d´imposta per l´acquisto di carta, al rifinanziamento del credito agevolato per il settore, fermo dal 2003. La carta, in crisi e minacciata del web, potrà però contare, ha detto Peluffo, su una nuova campagna per promuovere i luoghi della lettura: biblioteche, librerie, edicole.

l’Unità 16.2.12
La difesa europea, una sfida per il popolo pacifista
di Umberto De Giovannangeli

È possibile un segno «pacifista» su un modello di Difesa? È pensabile un punto di vista «non violento» che non demonizzi lo strumento militare ma lo pieghi ad una visione politica progressiva? Ed è praticabile una contestazione non ideologica ma propositiva all’idea, vecchia ma che ancora resiste, di una sicurezza gestita dentro una sempre più angusta dimensione nazionale? E ancora: lavorare ad un progressivo superamento degli eserciti nazionali in nome di una visione «europeista» di sicurezza e difesa, può essere un fertile terreno di confronto e d’incontro tra le componenti più avvertite del «popolo delle pace» e quanti, anche all’interno delle Forze armate, s’interrogano sul senso di un impegno, oltre che sull’utilità delle spese militari? Interrogativi che l’Unità ha provato a trasformare in ricerca giornalistica, in occasione di riflessioni progettuali. Una ricerca fruttuosa, si dice, nasce dalle giuste domande che sono tali perché non sono furbescamente funzionali a risposte preconfenzionate. È il caso del dibattito sulle spese militari.
Non è solo questione di tagli. È soprattutto una questione di modello. Ripensarlo è la sfida per tutti. Anche per lo schieramento pacifista. Ridurre il numero degli F-35 acquistati dall’Italia è, da questo punto di vista, un primo passo nella giusta direzione. L’inizio di un’inversione di tendenza ma, per l’appunto, un inizio. Che se rimanesse tale, sarebbe un’occasione perduta. E ciò non vale solo per un ulteriore, auspicabile, «dimagrimento» del numero di caccia da acquisire (90 sono meglio di 131, ma sarebbe ancora meglio una ulteriore, sostanziosa riduzione).
Vale in primo luogo per una non più rinviabile discussione sul rapporto che deve esistere tra il modello di Difesa e le priorità della politica estera. E questo sempre più in una chiave europea. Perché è in una dimensione sovranazionale che le spese militari possono divenire davvero «investimenti». Ed è in questa dimensione, tutta da realizzare, che una razionalizzazione-riduzione del nostro bilancio della Difesa non finisce per ridursi a uno sterile esercizio contabile.
Mediterraneo ed Europa: sono questi i «fronti» su cui l’Italia può, e deve, esercitare un ruolo da protagonista. E il modello di Difesa a cui tendere, a queste priorità politiche deve conformarsi. Sgombrando il campo da ogni velleitarismo gigantista (131 F-35 ne erano espressione) senza però cadere nell’errore opposto: quello di ritenere che si possa avere voce in capitolo su dossier cruciali, senza «sporcarsi le mani» con lo strumento militare. Emblematica in tal senso è la esperienza libanese. Se la missione Unifil è nata è perché l’Italia col governo di centrosinistra non si è limitata a predicare moderazione o a evocare l’ennesima conferenza internazionale. In quell’estate di guerra 2006 ha messo in campo tremila soldati in funzione di un disegno politico: quello di contribuire alla stabilizzazione della frontiera israelo-libanese, «trascinando» con sé altri partner europei, a cominciare dalla Francia. Di Unifil 2 l’Europa è parte preponderante, e di Unifil 2 l’Italia ha il comando. Non è un caso. Più in generale, c’è un ragionamento di fondo che va fatto sul modello di Difesa di cui l’Italia vuole dotarsi nei prossimi anni, adeguando le proprie possibilità alle nuove esigenze internazionali e al principio di integrazione europea. È questo il salto di qualità che oggi va tentato. Investendo innanzitutto il Parlamento con una doppia funzione di controllo e di proposta.
Controllo e proposta che deve investire anche un altro capitolo dolente: quello delle risibili risorse destinate alla cooperazione internazionale. La cooperazione è uno strumento fondamentale di politica estera, non meno significativo di quello militare. Il passato governo Berlusconi-Tremonti ha inferto un colpo devastante alla nostra cooperazione, riducendola ai minimi termini. Tornare da protagonisti in Europa significa anche investire in questo campo. Una scelta strategica. Non rinviabile.

il Fatto 16.2.12
“Stanno massacrando i greci Mi vergogno della Ue”
Bersani contro le misure europee
Monti assicura: Non siamo come Atene
di Giampiero Gramaglia

Il presidente del Consiglio italiano Mario Monti si presenta al Parlamento europeo poche ore dopo la pubblicazione dei dati dell’Istat da cui risulta che l’Italia è in recessione. Ma, ciò nonostante, il passaggio del premier a Strasburgo ha toni da marcia trionfale: il Professore parla al Parlamento europeo la settimana dopo essere stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Usa Obama e condivide con l’assemblea un pensiero comune a lui e al leader americano: il rigore va bene, ma ci vuole pure la crescita. Monti evita, però, di entrare in polemica con la cancelliera tedesca Angela Merkel, l’alfiere dei bilanci in ordine, che domani sarà a Roma. Chi invece non risparmia critiche all’atteggiamento di esasperato rigore del-l’Europa è Bersani: “Non si massacra un popolo, mi vergogno della Ue”, afferma il leader ds.
MENTRE APPLAUDE il Professore, l’Ue mantiene la stretta sulla Grecia e non sblocca i 131 miliardi di euro necessari a evitare il fallimento di Atene. Neppure Monti è tenero: partecipa in vice-conferenza alla riunione dei ministri dell’eurogruppo, chiarendo, prima, che il rischio di disgregazione dell’eurozona non è superato: con la Grecia, l’Europa è dura – ammette -, ma Atene ha anche sciorinato “il peggior catalogo della politica”. I governi dell’eurozona non hanno digerito le elezioni politiche convocate in Grecia ad aprile. E, adesso, lo sdoganamento degli aiuti potrebbe slittare a dopo il voto. Il ministro tedesco Wolfgang Schauble ripete che Atene dovrebbe fare come Roma, dove di elezioni – conferma Monti - non si parla fino alla scadenza della legislatura, nella primavera 2013.
Prima in sessione plenaria, poi in conferenza stampa con il presidente del Parlamento Martin Schulz – un socialista tedesco che invita la Merkel a “seguire il Professore sugli eurobond” -, Monti dice che l’Italia sta uscendo dal cono d’ombra della crisi e afferma che non ci sarà bisogno di nuove misure per il consolidamento del bilancio – quelle contro l’evasione fiscale sono, dice, “molto incisive”: i sacrifici, sostiene, non sono stati imposti dall’Ue, ma erano necessari.
IL PREMIER non nasconde gli elementi di discontinuità con il governo precedente, ad esempio sulla Tobin Tax, e rivendica un’acquisita maggiore credibilità in ambito europeo. Degli eurobond, ribadisce che essi porterebbero a una maggiore disciplina finanziaria; e dà un giudizio positivo del Patto di Bilancio, ma negativo della mancata utilizzazione di tutte le opportunità del mercato unico.
L’intervento del premier italiano è accolto da applausi scroscianti degli eurodeputati. E la stampa internazionale continua a scrutare il successo di Monti, chiedendosi se segni “la fine dei politici in Italia”, resi “irrilevanti” dal governo dei Professori.
La rigidità verso la Grecia infiamma la giornata a Strasburgo, dove si discutono le priorità del Parlamento in vista del Consiglio europeo del 1o marzo. L’assemblea approva una risoluzione sui cosiddetti ‘stability bond’, ennesima versione degli eurobond tuttora osteggiati dalla Germania. L'eurodeputato francese Daniel Cohn Bendit (Verdi) punta il dito contro l’italiano Marco Buti, direttore finanze della Commissione europea, definendolo “talibano e ayatollah neo-liberale”.

il Fatto 16.2.12
Il ritorno dei comunisti
Marx e Lenin sulle barricate elleniche

I greci non si fidano dei partiti politici che hanno avallato il piano ‘lacrime e sangue’ chiesto, anzi imposto, dall’Ue e non capiscono quei leader che si sono impegnati a rispettarlo dopo le elezioni politiche anticipate di aprile. E l’Ue non si fida dei greci che, secondo i sondaggi, potrebbero affidare il paese a forze di opposizione pronte a rimettere tutto in discussione. C’ è paura e rabbia, in Grecia: rabbia per come le cose stanno andando; paura, che possano andare peggio. Uno spiraglio si apre in serata, con l’annuncio d’un accordo su altri tagli per 325 milioni di euro, soprattutto – pare - sulle pensioni: il governo spera che serva a convincere l’Eurogruppo, lunedì, a sbloccare il piano di salvataggio. Scendono in campo tutti: il presidente Karolos Papoulias accusa il ministro delle finanze tedesco Wolfganf Schauble di insultare la Grecia; e, come gesto di solidarietà con la sua gente, rinuncia alla retribuzione. E gli statistici calcolano che la crisi stia per battere il record argentino: dal 2008 a oggi, il pil è crollato del 16%, è stato bruciato un sesto della ricchezza nazionale (il default argentino, nel 2001, costò un quinto).
Il Pasok, i socialisti di Giorgio Papandreu, l’ex premier, è ai minimi storici, sotto il 10%, mentre Nea Demokratia, il partito di centro-destra responsabile dei ‘conti falsi’ che hanno spinto verso l’attuale disastro, nascondendo la realtà della situazione ai cittadini e ai partner, ha ancora quasi un terzo delle intenzioni di voto.
UN SONDAGGIO per conto del quotidiano Kathimerini indica che il partito guidato da Antonis Samaras sarebbe il più votato, se si andasse oggi alle urne. Al secondo posto, col 18%, Sinistra Democratica, un nuovo partito formato da Fotis Kouvelis, seguito dal Partito Comunista col 12,5%, solidamente ancorato qui al suo impianto marxista-leninista. Poi una coalizione radicale di sinistra democratica, Siryza, col 12%, il Pasok all’8%, Laos (estrema destra) al 5% e i Verdi-Ecologisti al 3,5%. L’ultra estrema destra ‘Alba d'Oro’ entrerebbe in Parlamento per la prima volta, toccando la soglia del 3%. Quasi un terzo dell’elettorato, il 30%, è determinato ad astenersi: non ne vogliono più sapere dell’Europa e della politica. E le voci di pressioni di Parigi e Berlino perché Atene comprasse armi in Francia e in Germania, nonostante la crisi, non rendono Sarkozy e la Merkel né più popolari né più credibili. Su questo sfondo d’incertezza e disgregazione, la decisione di andare alle urne in primavera appare incomprensibile: con il governo del ‘banchiere’ Lucas Papademos, la Grecia pareva avere tracciato la via poi imboccata dall’Italia con il governo dei Professori. Ma l’esecutivo di Papademos è zeppo di contraddizioni: ha come ministro delle Finanze Evangelos Venizelos già lì con Papandreu (un po’ come se Monti avesse Tre-monti all’Economia) ; e se ne va subito dopo aver somministrato la ‘cura da cavallo’ al paziente, lasciando il Paese nel caos e inducendo l’Ue a tenere i cordoni della borsa chiusi. (G. G.)

Repubblica 16.2.12
"I comunisti? Non esistono più" Hollande si fa nemici a sinistra

PARIGI - «Oggi non ci sono comunisti in Francia. O non molti». È la prima gaffe di François Hollande: in un´intervista al Guardian, ha voluto rassicurare la City e ha suscitato l´ira dell´ala radicale della sinistra: Jean-Luc Melanchon, appoggiato dal Pcf, raccoglie nei sondaggi tra l´8 e il 10 per cento delle intenzioni di voto. I comunisti, insomma, ci sono ancora e non intendono farsi cancellare con una frase del candidato socialista. Peggio ancora: quell´affermazione maldestra ha portato l´attenzione sui contenuti dell´intervista, che non piacciono ai più radicali.
Nel suo primo discorso di campagna elettorale, Hollande aveva fatto della finanza il suo principale avversario. Ma alla vigilia di una visita a Londra ha cambiato tono: ha ricordato che François Mitterrand ha liberalizzato l´economia. Poi ha aggiunto di non avere nessuna aggressività verso la finanza e specificato di avere idee vicine a quelle di Obama. «Non si può unire tutta la sinistra e piacere al mondo finanziario», hanno detto i comunisti, accusando il candidato Ps di tenere un doppio linguaggio. Accortosi della gaffe, Hollande ha cercato di rassicurare tutti esprimendo «rispetto» per tutte le anime della sinistra e caldeggiando l´unità. Melanchon ha dichiarato chiuso l´incidente, ma l´episodio rivela quanto sia difficile piacere alla sinistra francese e rassicurare all´estero.
(g. mar.)

il Fatto 16.2.12
Primarie Usa: Dio salvi la vagina
di Hadley Freeman

Mentre gli Stati Uniti sono alle prese con la crisi economica e la crescente disoccupazione, le primarie del Partito Repubblicano continuano a mettere al centro del dibattito politico quella che sembra essere la vera minaccia per la salute della nazione: la vagina. Ma parliamo anzitutto del nuovo, bollente rapporto che ha dato alla luce questo filmaccio di serie B: “L’America contro la malvagia vagina”. Non dimentichiamo però che solo un paio di giorni fa era San Va-lentino, festa degli innamorati, e che si profila all’orizzonte una romantica storia d’amore.
A dire il vero gli innamorati si corteggiano timidamente da un bel pezzo e non è difficile capire il perché: la crescente sintonia che si è andata sviluppando negli ultimi tempi su numerose questioni. Come in Lilly e il vagabondo i due potrebbero parlare tranquillamente delle loro convinzioni cenando a lume di candela. La conversazione toccherebbe contemporaneamente il tema del male e quello della natura sacra del sesso e non si limiterebbe a decidere a chi dei due tocca il boccone del prete. Ovviamente parlo del Partito Repubblicano e della Chiesa Cattolica.
DI RECENTE la Chiesa Cattolica ha goduto di cattiva stampa. Ma quando si tratta di cattolicesimo la penso esattamente come Mickey, il personaggio di Woody Allen in Hannah e le sue sorelle: “È una religione bellissima. È una religione forte. Molto ben strutturata. Naturalmente parlo dell’ala contraria al crocifisso nelle aule, favorevole all’aborto e anti-nucleare”. Questa religione forte e strutturata si è trovata a darsi amichevolmente di gomito con il Partito Repubblicano in tema di contraccezione. Dopo essersi battuti per rendere sempre più difficile abortire, gli esponenti di questi due club hanno alzato il tiro e hanno deciso che per le donne deve essere più difficile anche evitare una gravidanza indesiderata. La settimana scorsa i vertici della Chiesa Cattolica hanno invitato le organizzazioni legate alla Chiesa a escludere dall’assistenza sanitaria il controllo delle nascite. I candidati del Partito Repubblicano non si sono fatti pregare e sono saltati in corsa anche su questo carro. Alcuni – come Rick Santorum – sono assolutamente e profondamente convinti che la contraccezione è “dannosa per le donne e la società”, altri avevano solamente lo scopo di mettere in difficoltà il presidente Obama. Dal momento che Mitt Romney guadagna la bella sommetta di 600.000 dollari l’anno investendo nelle aziende che producono i contraccettivi che ora sembra aborrire, vi lascio indovinare da che parte si schiererà.
In ogni caso Obama se ne è uscito con un compromesso davvero brillante: le istituzioni religiose non dovranno sborsare nemmeno un centesimo per i contraccettivi perché le compagnie di assicurazioni li forniranno gratuitamente e questo perché sanno benissimo che per loro la contraccezione è molto più economica di un aborto o della maternità. Il costo del controllo delle nascite è un elemento importante per spiegare perché le donne povere hanno il triplo delle probabilità di quelle del ceto medio di avere una gravidanza in-desiderata. Dal momento che aiutare i poveri è una delle missioni fondamentali del cristianesimo e risparmiare sul welfare è una delle missioni fondamentali dei Repubblicani, si potrebbe essere indotti a pensare che siano disposti a fare di tutto per prevenire le gravidanze indesiderate. Niente affatto. I vertici della Chiesa Cattolica e gli esponenti del Partito Repubblicano hanno reagito alla proposta di Obama alzando ancora l’asticella e sostenendo che tutte le aziende debbono essere libere di escludere la contraccezione dalle spese coperte dall’assistenza sanitaria. Santorum ha detto che il compromesso dimostra che Obama tenta di “imporre i suoi valori” all’America, una cosa questa che solo Santorum – “sono pronto a morire per impedire il matrimonio gay” – ha il diritto di fare. E Newt Gingrich ha aggiunto che Obama ha deciso di “dichiarare guerra alla Chiesa Cattolica”.
MA LA CHIESA e i Repubblicani a nome di chi parlano? Una cosa è certa: il 98 per cenno delle donne cattoliche ha ammesso di aver fatto ricorso a metodi contraccettivi. Quanto al Partito Repubblicano, come ha scritto Paul Krugman sul New York Times, ha “divorziato dalla razionalità” impostando le sue campagne elettorali sulle divisioni razziali e sociali e favorendo sfacciatamente i ricchi sul piano fiscale e ora si ritrova con un nocciolo duro di sostenitori ”disposti a credere a qualunque sciocchezza”.
Sia nel caso dei Repubblicani che in quello dei Cattolici, coloro che tentano di stabilire per legge cosa possono o non possono fare le donne con la loro vagina, sono uomini. Diverse senatrici del Partito Repubblicano hanno rotto le righe appoggiando la proposta di compromesso di Obama. Ovviamente nessuna di loro è candidata alla presidenza. Troppo progressiste per i Repubblicani di oggi.
Copyright The Guardian - Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 16.2.12
Terzi-D’Alema i due modi di vedere Israele
Come può l’Occidente favorire il processo di pace?
di Antonella Rampino

Due diversi modi di interpretare l’iniziativa in politica estera. L’Autorità palestinese starebbe per annunciare l’abbandono del tavolo di trattativa con Israele, «del resto mi è stato riferito che il processo di pace che si sta tentando in Giordania non sta portando a niente», dice Massimo D’Alema appena rientrato da un tour in Medio Oriente. Aggiungendo che lo stallo, di cui il ministro Terzi aveva accennato nel finale della sua audizione su Medio Oriente, Libia e primavere arabe, è foriero di rischi. L’Occidente, è il consiglio di D’Alema, «deve offrire una sponda alla leadership moderata palestinese, o in prospettiva avremo una ulteriore radicalizzazione». E con elezioni alle viste. Del resto, anche gli Stati Uniti chiedono a Israele maggior impegno. L’Europa e l’Italia, poi, prendano l’iniziativa, anche perché, da quelle parti, «senza Europa non si mangia». Certo, riconosce il ministro Terzi, «ci sono prospettive incerte di riapertura del negoziato», ma «è dovuto un incoraggiamento al governo israeliano a riattivare la trattativa», e anzi «è utile l’iniziativa giordana». Insomma, un serrato confronto tra due diversi atlantisti. Uno, il ministro in carica, ex ambasciatore negli Usa e amico di Israele tutto d’un pezzo, ma che non spezza la continuità nella politica estera italiana, «da cinquant’anni» improntata all’equivicinanza tra Israele e Palestina. L’altro, l’ex premier che da capo della Farnesina, in pieno avvio della pericolosa missione italiana in Libano, si fece fotografare a Beirut a fianco di Hezbollah - a protezione dei nostri militari, mentre passava la vulgata demagogica dell’«amico dei terroristi» - da sempre attento alle ragioni della Palestina, dove da moltissimi anni ha anche adottato a distanza un bambino, e alla fine l’intera famiglia. Ma, soprattutto, a confronto sono stati ieri un diplomatico di gran carriera e un politico puro. Strategico il ragionamento di D’Alema: la Primavera Araba, «che Netanyahu considera l’Inverno di Israele», arriverà anche nei Territori, e col sostegno che le popolazioni maghrebine hanno tributato ad Hamas, rafforzandolo rispetto a Fatah, rischia di far esplodere la situazione. Tattico Terzi: «Israele è preoccupata dall’incubo nucleare iraniano». E bisogna vedere se la partita interna ad Hamas finirà davvero con la separazione dell’ala militare.


Repubblica 16.2.12
Spagna. Dall’aborto ai matrimoni gay fino all’istruzione e all’ambiente I ministri del centrodestra fanno a gara per il ritorno al passato
Via alla Controriforma che cancella l’era Zapatero
Dopo le elezioni di novembre i "popolari" hanno la maggioranza assoluta dei seggi
di Omero Ciai

Non solo cancellare Zapatero, e in fretta, ma se possibile andare anche più a destra di quello che fecero gli ultimi governi populares, quelli di Aznar, negli anni Novanta. Sembra essere questa, a meno di due mesi dall´arrivo del nuovo governo di Mariano Rajoy in Spagna, la strategia che ispira le "controriforme" avviate da diversi ministeri. Non solo aborto dunque, ma anche istruzione, ambiente, televisione, giustizia, nucleare, pillola del giorno dopo, e magari anche legge sul franchismo e memoria storica grazie alla maggioranza assoluta dei seggi.
Dopo i temi più urgenti, bilancio e disoccupazione, sui quali Rajoy è già intervenuto tradendo qualche promessa fatta durante la campagna elettorale - ha aumentato le tasse e reso più facili e meno costosi i licenziamenti per le imprese - il neogoverno si concentra sul resto per mettere in pratica i cambiamenti che piacciono di più al suo elettorato. In prima linea la riforma della legge socialista sull´aborto, quella che abbassa l´età per l´interruzione della gravidanza fino a sedici anni, senza la necessità di avere il consenso dei genitori e senza dover specificare motivo alcuno. Il progetto conservatore, già chiarito dal ministro della Giustizia Gallardón, vuole tornare al 1985, imponendo alle donne la possibilità di abortire soltanto in alcuni casi, come la violenza sessuale o i rischi di malformazione per il feto, e sempre specificando un "motivo" con il consenso del medico. Un salto indietro di un quarto di secolo.
Sull´altro chiodo fisso dei vescovi - i matrimoni gay - invece il centrodestra spera che la legge venga cancellata dalla Corte Costituzionale ed aspetterà ad intervenire finché i magistrati non si pronunceranno sui ricorsi. Ma lo spettro delle novità annunciate dai ministri conservatori è più ampio e preoccupante. Il ministro dell´Ambiente vuole cambiare "in modo profondo" la legge che vieta di costruire a pochi metri dal mare lungo le coste spagnole oltre ad evitare la chiusura di una delle centrali nucleari più vecchie e abolire gli incentivi sulle rinnovabili. Il ministro dell´Istruzione vuole sostituire la materia "cittadinanza" perché è un corso che include argomenti che «spettano soltanto all´educazione dei figli nella famiglia», ridurre di un anno il Liceo, e cambiare i programmi delle scuole pubbliche. Il ministro della sanità vuole eliminare dalla farmacie la pillola del giorno dopo perché «è uguale ad un aborto».
Non sfugge alle premure del nuovo governo neppure il Consiglio superiore della magistratura. Anni fa socialisti e popolari raggiunsero un accordo per evitare che fosse composto solo da magistrati di destra, componente ancora largamente maggioritaria (come s´è appena visto nella durissima condanna che ha esautorato Garzón). Grazie a quel compromesso che serve a bilanciare la sua composizione politica, il Consiglio viene eletto sulla base di 36 nomi proposti dai magistrati, dodici dei quali vengono poi votati dal Parlamento. Ma presto non sarà più così.

l’Unità 16.2.12
Mika, la Luchadora dimenticata
Parla la scrittrice argentina che ha dedicato il suo nuovo romanzo alla miliziana Micaela Feldman Etchebéhère, unica donna che durante la guerra civile spagnola abbia guidato un gruppo di soldati antifranchisti
di Oreste Pivetta

Paladina dei diritti umani
Elsa Osorio (Buenos Aires, 1952) è una scrittrice e sceneggiatrice argentina. Autrice di varie sceneggiature cinematografiche e televisive, tra le sue opere «Ritos Privados», «Reina Mugre», «Como tenerlo todo», «Las Malas lenguas» e «Cielo de Tango». Il suo capolavoro è «I vent’anni di Luz» sulla dittatura argentina. È stato tradotto in 15 lingue ed ha venduto più di mezzo milione di copie in Europa. Osorio si occupa attivamente della difesa dei diritti umani. Vive tra Buenos Aires e Madrid.

Il libro. Ritratto di una capitana che dedicò la vita alla lotta
La miliziana Elsa Osorio, pagine 318, euro 18,50 Guanda
Nonostante una vita avventurosa e piena come un romanzo, la comandante Mika è realmente esistita. Elsa Osorio ne ricostruisce la vita intrecciando al racconto le testimonianze di chi l’ha conosciuta direttamente, le sue lettere e i suoi scritti. Nasce il ritratto straordinario dell’unica donna che ha comandato un manipolo di uomini durante la guerra civile spagnola.

Elsa Osorio, in una dedica, mi ha scritto: «Para O. , esta novela sobre una luchadora». Luchadora è intraducibile. Una donna che lotta. Ma è qualcosa di più: una donna che regala la propria vita alla lotta, tutta la propria vita, per gli altri. Luchadora era la miliziana Micaela Feldman
Etchebéhère. Elsa Osorio, scrittrice argentina autrice de I vent’anni di Luz e di Lezione di tango, le ha dedicato un romanzo, rivelandoci una storia che ignoravamo. Eppure Micaela Feldman Etchebéhere, detta Mika, da protagonista ha attraversato il ventesimo secolo nei suoi frangenti più duri, più drammatici, è stata una di quelle figure che si consegnano al mito. Mika... la miliziana... anche la capitana, unica donna che durante la guerra civile spagnola abbia comandato una milizia antifranchista, una donna comunista... Mika aveva aderito al Poum, Partido Obrero de Unificación Marxista. Partito Operaio di Unificazione Marxista, marxista leninista trozkista e antistalinista, fondato nel 1935, in clandestinità durante il franchismo, scomparso nel 1980.
Nell’esistenza di Mika non c’è solo la Spagna della guerra contro i franchisti. Nelle sue origini è già un «romanzo». Ebrea, nata nel 1902, figlia di ebrei immigrati in Argentina, alla fine dell’Ottocento, costretti da misere condizioni di vita e dalla persecuzione a lasciare il loro villaggio della Podolia (una regione prima polacca, ora in Ucraina), ebrei immigrati che avevano creato in Sudamerica una comunità, Moises Ville (Ville significa fattoria), Mika studia a Buenos Aires, dove conosce un giovane idealista come lei, Hipolito Etchebéhère. Mika si laurea, diventa dentista, con Hipolito futuro marito va fin nella Terra del fuoco. Installa il suo studio dentistico a bordo di un camioncino malandato, raggiunge le fattorie più lontane, organizza la lotta dei contadini. Lascia l’America per l’Europa. Vive a Parigi. Raggiunge Berlino negli anni in cui si vince il nazismo di Hitler. Fugge in Argentina. Torna in Europa. In Spagna imbraccia il fucile... La ritroviamo a Parigi, nei cortei del Maggio francese. Muore nel 1992.
Di lei non si sa nulla, malgrado tanta storia nella sua vita e malgrado, oltretutto, abbia scritto della sua vicenda spagnola in Spagna (un libro pubblicato nel 1975). Non sa nulla della sua connazionale neppure Elsa Osorio e si meraviglia quando gliene parla un altro scrittore, Juan Josè Hernandez. Gli chiede: Mika è un tuo personaggio o cosa? No, Mika non è immaginazione. Mika è una persona reale e vive ancora, a Parigi. Siamo nel 1986 ed Elsa Osorio comincia la sua ricerca di Mika...
Non teme che alla fine del suo libro, romanzo sta scritto in copertina, un lettore possa porsi la stessa domanda che lei ha rivolto a Juan Josè Hernandez? Mika è davvero esistita?
«Mika è davvero esistita e ogni momento della sua vita è documentato. Ci sono le sue fotografie, le sue lettere, le lettere di Hipolito, ci sono i loro appunti e i loro diari. Li ho inseguiti per venticinque anni, rintracciando amici, conoscenti, parenti, ho conosciuto il nipote di Hipolito, Arnold Etchebéhère. Ho deciso di scrivere un romanzo, però, non un saggio storico, perché sono convinta che il romanzo possa restituire una verità più profonda. Se ho inventato non ho inventato nulla che non abbia una base storica. Faccio un esempio: le grandi battaglie della guerra di Spagna. Mika stessa nelle sue memorie le ha descritte. In quelle battaglie combattono però anche personaggi nati dalla mia immaginazione, come Emma, come Quique, due militanti del partito comunista, che mi aiutano a restituire i sentimenti di quei momenti. Certo, ci sono episodi di fantasia: scrivo di una fuga di cui non ho mai trovato traccia nei documenti. Nel modo almeno in cui l’ho vissuta io».
L’alternanza dei punti di vista, nelle varie pagine del romanzo, è anche un’alternanza di scrittura: quando entra in scena Mika, quando il racconto è di Emma, quando è l’autore che prende la parola...
«Certo. Ho cercato il ritmo anche attraverso la mobilità dei quadri, degli sfondi, dell’osservazione. Non ho voluto creare confusione in chi mi legge, ma semmai creare tensione e un’occasione per sentirsi coinvolti». Ci si sente in trincea. Elsa Osorio si sente in trincea. Lei racconta come non ha conosciuto Mika. Le è pesato questo? «Quando avrei potuto incontrarla, varie circostanze casuali me lo impedirono. Forse in quel momento non ero pronta, ero intimidita. Quando la cercai ancora seppi della sua morte. Non conoscerla mi ha aiutato nella scrittura. La distanza mi ha aiutato ad immaginare e forse a scoprire qualche cosa in più, mi sono messa al riparo dal rischio di adagiarmi su una biografia. Ho conosciuto tutti i luoghi di Mika, le sue case, il suo giardino. Ad esempio sono stata a Berlino, dove Mika e Hipolito furono nei primi anni trenta e sono stata in Bulowplatz. Nei loro diari ne parlano. È un martedì del 1933 e dai giornali apprendono che la domenica successiva in quella piazza si sarebbe tenuta una manifestazione nazista. Si legge della loro preoccupazione, dei tentativi dei sindacati per impedire quell’esibizione nazista. Nel diario conservano gli articoli che hanno letto. Come per un archivio. Poi la loro testimonianza si interrompe. Da loro non si sa nulla della manifestazione. Ho ritrovato i giornali dell’epoca, ho saputo come andò a finire, sono andata in Bulowplatz e sono rimasta lì per un’ora o due. Ho cercato di comprendere la loro disperazione, di intuire i loro senso di impotenza, perché si capisce che loro avvertono benissimo che cosa sta accadendo». Hitler va al potere. Nel romanzo c’è anche la giovinezza di Mika, c’è il suo incontro con Hipolito...
«Mi hanno guidato le loro lettere, ma anche una rivista, creata da Hipolito, alla quale Mika collaborò: Insurrexit. Il titolo dice della loro scelta politica. Ho costruito dialoghi cogliendo espressioni dai loro scritti». Micaela Feldman Etchebéhère è sconosciuta in Italia, ma quasi ignorata anche in Argentina.
«È stata dimenticata dalla storia. Ma non è capitato solo lei. Del resto non le piaceva parlare di sé. Eppure era un personaggio straordinario, di una coerenza ferrea, di un coraggio indomabile, al servizio per una vita di una causa politica che aveva come paradigmi la giustizia, la solidarietà, l’unione. Avremmo bisogno di persone così in un’epoca tutta rivolta ormai all’individualismo, incline ai peggiori egoismi... Mika apparteneva a una generazione che aveva scelto il sacrificio, animata dall’idealismo, perché sentiva che c’era bisogno di lottare».
Una generazione che non è fuggita davanti alle prove più difficili e dolorose. L’Argentina ha vissuto la sua tragica prova solo, in fondo, pochi decenni fa. Lei ne scrive nel romanzo, «I vent’anni di Luz». È viva la memoria di quella storia?
«In quel romanzo sono le pagine della mia paura, della mia angoscia. La memoria è viva perché si è lottato duramente per mantenerla viva. Perché alla fine gli ideali di una generazione non sono stati abbandonati perché ideali, appunto, di una generazione di trent’anni fa. I risultati ci sono stati: i processi contro i persecutori di allora e i processi hanno ridestato prepotentemente il ricordo. Il governo ha chiesto scusa. Non dimenticherò mai il giorno in cui il presidente Nestor Carlos Kirchner, morto nel 2010, decise di togliere alla Casa Rosada, tra i ritratti di tutti i presidenti, il ritratto di Videla».

Repubblica 16.2.12
La guerra di Mika donna comandante diventata un mito
Esce il romanzo sulla miliziana che ha combattuto il franchismo
In prima linea sul fronte, capace di leggere Dumas ai combattenti analfabeti
Vent’anni ha impiegato l’autrice a ricostruire una biografia dimenticata
di Concita de Gregorio

Apri la bocca, compagno. Era piccola Mika: minuta e diritta, gli occhi di madreperla, il viso coperto di fango, era vestita da uomo e bellissima. Apri la bocca. Bisogna immaginarla così, la Capitana, con un cucchiaio in mano che imbocca i suoi soldati di sciroppo per la tosse fatto da lei, acquavite e miele, che per mirare bene non bisogna tossire. Uno dopo l´altro, in trincea. Apri la bocca. Ingoia e spara, compagno. Poi bisogna immaginare cosa deve essere costato agli uomini di quella colonna, nella metà degli anni Trenta, avere una donna per comandante, loro che alle donne combattenti erano abituati a far lavare i calzini, a far pulire le baracche. «Tra i comunisti le donne si occupano solo delle faccende domestiche e dell´infermeria», la informa Hilario. «Dunque pensi che debba lavarti i calzini?» le risponde lei guardandolo diritto negli occhi, e senza aspettare replica: «Vediamo dunque, a chi tocca oggi il turno di pulizia?».
In prima linea sul fronte sotto le bombe, sepolta viva sotto metri di terra, capace di organizzare una scuola dietro le trincee e di leggere Dumas e Salgari ai combattenti analfabeti poi di lanciarsi in combattimento sotto il fuoco delle mitragliatrici, amata fino alla follia, temuta come la più pericolosa delle rivoluzionare, incarcerata, ammirata da Borges e Cortázar per i suoi scritti e per la sua ironia, rispettata dai bambini per l´amore e dai soldati per il coraggio. «È una donna cui si perdona il suo sesso nella misura in cui lei non se ne avvale», si giustifica uno di loro coi superiori che gli chiedono conto di quella bizzarria: una donna, ebrea, straniera per giunta, argentina, a capo di una milizia antifranchista durante la Guerra civile di Spagna. Austera e casta. Dura e dolcissima. Vecchia nel maggio francese, a strappare da terra i sampietrini coi guanti «perché se no le tue mani sporche, ragazza, ti denunceranno. Fidati di me e ora vai». Ragazzina a curare i denti dei campesinos in Patagonia, donna a Berlino nei giorni dell´incendio del Reichstag.
Ma come abbiamo fatto a raccontarci le storie di un secolo senza conoscere Micaela Feldman Etchebehere, senza sapere di Mika? Senza dire di questa donna che lo ha attraversato per intero a volto scoperto e fronte alta, come un vento che solca i continenti, come un Che Guevara con l´abito lilla e gli stivali neri? Con quel sorriso, con la poesia della sua grande amica Alfonsina Storni nel cuore, con l´amore senza confini di Hipolito Etchebehere, compagno di vita e di politica, di figli mai nati e di trincea. Le loro lettere. «Tranquilla, Mikusha. Dammi il tuo affetto e insieme rifaremo il mondo». «Mandami il tuo amore, Hipolito, e ne avrò la forza».
Vent´anni ha impiegato la scrittrice Elsa Osorio a ricostruire una biografia dimenticata dalla storia perché incomoda, impossibile da etichettare: anarchica, trockijsta, comunista, espulsa dal partito, accusata di tradimento, intellettuale, dentista, casta compagna di lotta e sensuale oggetto di desiderio, poi ancora maestra di coro in trincea, cantiamo, compagni, rispondiamo agli insulti dei fascisti con un coro parlato, imparate a memoria questi versi e cantiamo loro poesie. «Non eravamo destinati a resistere a lungo in nessun partito o organizzazione politica. L´osservanza di dogmi, la burocrazia, i tortuosi meandri del potere non facevano per noi», dice Mika di sé e di Hipolito, e questo spiega l´ottusa paura che gli apparati di partito prima e la storiografia poi hanno avuto ed hanno di una donna così: libera, in una parola. In due: davvero libera.
È un vertiginoso viaggio nel tempo questo che l´argentina Osorio (I vent´anni di Luz, Sette notti d´insonnia) compie all´inseguimento di Mika. Un romanzo biografico – in italiano La miliziana, ma perché cambiarlo? Il titolo originale è Mika – che attraversa e tiene un secolo intero, corre avanti e indietro negli anni, racconta un´immensa storia d´amore che si snoda fra l´ascesa di Franco e quella di Hitler, l´assassinio di Calvo Sotelo e la Seconda guerra mondiale, lo sterminio degli ebrei e i servizi segreti russi, il ´68 francese. Un racconto che tutto illumina e spiega perché è lei, così esile, che fa luce lungo la strada. Mika, donna lampione. Un documento preziosissimo fitto di date, nomi, appunti, figure. Buenos Aires, Parigi, Madrid, Berlino, l´avvento di Hitler: «La sinistra, spezzettata in un numero imprecisato di fazioni, con scontri ideologici e personali assai profondi, non poté esercitare la minima influenza sugli eventi», appunta con tristezza nel suo quaderno blu e quanta tristezza a guardarsi attorno ancora oggi. Poi Barcellona, di nuovo Parigi. Mika è nata nel 1902 ed è morta nel 1992. Viveva a Parigi, al 4 di Rue Saint-Sulpice, da ultimo, poco prima di andare in un sanatorio, sola. Argentina, è morta in Francia. Dora Maar, una francese cresciuta in Argentina, viveva in rue Saint Germain, a un passo da lì. 1907-1997, gli stessi anni. La portinaia della piazza le vedeva passare. Morta in sanatorio, anche Dora, dopo aver attraversato il secolo e le strade di André Breton, il comunismo, Picasso, lo stesso quartiere di Mika, gli stessi giorni, le stesse passioni. Le donne che illuminano il Novecento, luci nell´ombra. Fili invisibili che annodano la storia.
Di Mika, Capitana del Poum (Partido obrero de unificación marxista) dice il comandante Antonio Guerrero: «Una donna di un coraggio e di una intelligenza ineguagliabili, dura e affettuosa, valorosa». Lei di se stessa: «In guerra qualcuno deve comandare e io l´ho fatto». Dopo la morte di Hipolito in battaglia, da quel momento e per sempre. Hipolito con cui parlava spagnolo in Spagna francese in Francia e tedesco in Germania «ma quanto è diverso l´amore quando si cambia la lingua», Hipolito che ogni tanto tornava al «suono di bronzo e di campana del castigliano, a cui il flauto francese ci aveva disabituati» e poi le scriveva, dal sanatorio in cui curava la tubercolosi, che «l´innamoramento dipende dall´istinto cieco ma la nostra lunga vicinanza, la gioia di camminare insieme nella vita dipende dalla volontà, dalla lungimiranza. Noi ci siamo guadagnati il diritto di amarci». E che bisogna vivere adesso, agire e vivere perché «il tempo che abbiamo non è infinito». Sepolta al cimitero Père-Lachaise con le poesie di Alfonsina Storni «che abbiamo tanto riso, da ragazze, dei giornalisti dei politici del dolore e di noi». Come quella volta in cui mettevano a posto il mondo e le loro vite, a vent´anni, al caffè Tortoni di Buenos Aires. Insieme. Prima di tutte le guerre e i dolori del mondo. Che il tempo che abbiamo non è infinito ma la storia che abbiamo scritto quella sì. Quella, quando c´è qualcuno che la racconta, non muore mai.

Repubblica 16.2.12
Santippe, Aspasia e Saffo l’altra metà del cielo
di Loredana Lipperini

Il volume Apologia di Santippe è un breve testo teatrale (pubblicato oggi da Bulzoni) che nasce da un romanzo perduto, lasciato nel cassetto e scritto negli anni appassionati del femminismo. Il romanzo si chiamava Il sogno e la dea e non venne accolto da editore alcuno. Così, Laura Lilli lo ha rielaborato centrandolo sull´incontro fra tre donne: la colta Aspasia, concubina di Pericle, l´orgogliosa Saffo e la sventurata e vecchia Santippe, qui già vedova di Socrate e negli anni del matrimonio rifiutata, dileggiata, umiliata. Gli argomenti trattati nel consesso sono quelli che ci si attende: la libertà di scelta anche nella prostituzione, la politica, le enormi difficoltà nel solidarizzare fra donne, la loro invisibilità. La soluzione? Nel Mito stesso, nella persona della dea Atena che, giunta fra le dibattenti con intenti punitivi, viene infine convinta a farsi essa stessa umana, e a scendere fra le sue simili per istruirle. Fin qui, i fatti: a stupire, nel fitto dialogo fra le tre (poi quattro) protagoniste è il non superamento di molte delle tematiche che per la prima volta venivano poste negli anni in cui Il sogno della dea veniva concepito e scritto.

Repubblica 16.2.12
Se la feroce religione del denaro divora il futuro
di Giorgio Agamben

Per capire che cosa significa la parola "futuro", bisogna prima capire che cosa significa un´altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola "fede". Senza fede o fiducia, non è possibile futuro, c´è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa. Già, ma che cos´è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede". Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco "banco di credito". Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, " fede" è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che "la fede è sostanza di cose sperate": essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze.
Ma la nostra, si sa, è un´epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un´epoca senza futuro e senza speranze - o di futuri vuoti e di false speranze. Ma, in quest´epoca troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?
Perché, a ben guardare, c´è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca - la trapeza tes pisteos - è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non - chissà perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci - sull´euro), c´è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito. La cosiddetta "crisi" che stiamo attraversando - ma ciò che si chiama "crisi", questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo - è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario - e le banche che ne sono l´organo principale - funziona giocando sul credito - cioè sulla fede - degli uomini.
Ma ciò significa, anche, che l´ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca - coi suoi grigi funzionari ed esperti - ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede - la scarsa, incerta fiducia - che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L´archeologia - non la futurologia - è la sola via di accesso al presente.

Repubblica 16.2.12
l sacramento impartito postumo e in segreto Coinvolte anche le famiglie Wiesel e Wiesenthal
Battesimi agli ebrei la Chiesa mormone imbarazza Romney
di Federico Rampini

Ci mancavano solo le gaffe della sua chiesa mormone, come se non bastassero i guai che affliggono la campagna elettorale di Mitt Romney. Una «grave infrazione al protocollo», l´hanno dovuta definire le alte gerarchie di Salt Lake City nello Utah, culla storica del movimento mormone di cui Romney è un esponente autorevole (ricoprì la carica equivalente a un vescovo). Lo scandalo è il «battesimo postumo» che è stato amministrato ai genitori di Simon Wiesenthal, il celebre «cacciatore dei nazisti». La madre Rosa, morta nel 1942 nel campo di sterminio di Belzek, e il padre Asher morto nella prima guerra mondiale, hanno ricevuto il battesimo mormone, secondo quanto scoperto dalla ricercatrice Helen Radkey.
La rivelazione ha provocato proteste indignate della comunità ebraica. Il rabbino Abraham Cooper di Los Angeles che dirige il centro dedicato alla memoria di Simon Wiesenthal ha dichiarato: «Non oso immaginare la sua reazione se fosse ancora vivo (Wiesenthal è morto nel 2005). Ai suoi familiari fu tolta la vita, le loro comunità furono distrutte, e ora qualcuno vuole anche cambiare le loro anime». La stessa sorte stava per toccare a tre parenti di un altro superstite dell´Olocausto, il premio Nobel Elie Wiesel, anche loro sul punto di essere battezzati alla religione mormone dopo la morte. Questi gesti fra l´altro violano un preciso accordo che fu raggiunto nel 1995 tra la comunità ebraica americana e la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (così recita il nome completo dell´organizzazione mormone). I «battesimi postumi» infatti sono un antico costume mormone: è applicato su richiesta dei fedeli, soprattutto ai familiari defunti che non si erano convertiti durante la vita, per consentire che da morti si "ricongiungano" con i loro cari.
Molto più controverso è quando il battesimo viene amministrato a personalità esterne alla comunità stessa, e tenendo all´oscuro le loro famiglie. L´abitudine di battezzare le vittime dell´Olocausto era talmente diffusa, che nel ‘95 fu necessario un vero e proprio atto legale, firmato dalle gerarchie ecclesiali dello Utah, per mettere fine a quella pratica, dettata dalla volontà di "salvare le loro anime". Ma qualcuno ha continuato, calpestando l´accordo. La ricercatrice che ha scoperchiato lo scandalo è celebre anche per altre scoperte. Fu la stessa Helen Radkey, una ex mormone, ad avere rivelato nel 2009 che una sorte analoga è toccata alla madre di Barack Obama, Stanley Ann Dunham, anche lei battezzata dopo la sua morte.
«Deploriamo sinceramente le azioni di qualche membro individuale della chiesa - ha dichiarato il portavoce dei mormoni - lo consideriamo come una grave violazione del nostro protocollo». La vicenda si colora di un aspetto politico: torna ad attirare l´attenzione sull´appartenenza di Romney a una chiesa che molti americani considerano una "setta": soprattutto quegli evangelici che sono una colonna portante della destra repubblicana.

Repubblica 16.2.12
L’uso della tortura negli anni di piombo
di Adriano Sofri

A prima vista, la notizia è che negli anni ´70 e ´80 ci fu un ricorso non episodico a torture di polizia nei confronti di militanti della "lotta armata" – e non solo. È quello che riemerge da libri (Nicola Rao, Colpo al cuore), programmi televisivi ("Chi l´ha visto"), articoli (come l´intervista del Corriere a Nicola Ciocia, già "professor De Tormentis", questore in pensione). Non è una notizia se non per chi sia stato del tutto distratto da simili inquietanti argomenti. Nei primi anni ´80 le denunce per torture raccolte da avvocati, da Amnesty e riferite in Parlamento furono dozzine.
A volte la cosa "scappava di mano", come nella questura di Palermo, 1985. Oscar Luigi Scalfaro, che era allora ministro dell´Interno, dichiarò: "Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia e ne è uscito morto". Era un giovane mafioso, fu picchiato e torturato col metodo della "cassetta": un tubo spinto in gola e riempito di acqua salata. Gli sfondò la trachea, il cadavere fu portato su una spiaggia per simularne l´annegamento in mare. Alla notte di tortura parteciparono o assistettero decine di agenti e funzionari. Avevano molte attenuanti: era stato appena assassinato un valoroso funzionario di polizia, Beppe Montana, "Serpico". All´indomani della denuncia di Scalfaro, e delle destituzioni da lui decise, la mafia assassinò il commissario Ninni Cassarà e l´agente Roberto Antiochia. Una sequenza terribile, ma le attenuanti si addicono poco al ricorso alla tortura, il cui ripudio è per definizione incondizionato. Repubblica sta ricostruendo la tremenda vicissitudine di Giuseppe Gulotta, "reo confesso" nel 1976 dell´assassinio ad Alcamo di due carabinieri, condannato all´ergastolo e detenuto per 22 anni: finché uno dei torturatori, un sottufficiale dei carabinieri, ha voluto raccontare la verità.
L´elenco di brigatisti e affiliati di altri gruppi armati sottoposti a torture è fitto: va dal nappista Alberto Buonoconto, Napoli 1975 (si sarebbe impiccato nel 1981) a Enrico Triaca, Roma 1978, a Petrella e Di Rocco (ucciso poi in carcere a Trani da brigatisti), Roma 1982, ai cinque autori del sequestro Dozier, Padova 1982… In tutte queste circostanze operavano (è il verbo giusto: noi siamo come i chirurghi, dirà Ciocia, "una volta cominciato dobbiamo andare fino in fondo") due squadre chiamate grottescamente "I cinque dell´Ave Maria" e "I vendicatori della notte". Ha riferito Salvatore Genova, già capo dei Nocs, inquisito coi suoi per le torture padovane al tempo di Dozier e stralciato grazie all´immunità parlamentare, infine pensionato: "Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com´era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale". Quel modo di tortura – accompagnato da sevizie molteplici, aghi sotto le unghie, ustioni ai genitali, percosse metodiche, esecuzioni simulate; ed efferatezze sessuali nei confronti di militanti donne – non si chiamava ancora waterboarding, e non era un genere di importazione. Lo si usava già coi briganti ottocenteschi. Fu una specialità algerina negli anni ´50. Addirittura, quando Rao chiede a Ciocia se davvero gli ufficiali della Cia che assistettero agli interrogatori per Dozier fossero rimasti stupefatti per quello che vedevano, lui risponde: "Non sono stati gli americani a insegnarci certe cose. Siamo i migliori… Lì, nell´attività di polizia ci vuole stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce l´hanno come ce l´abbiamo noi italiani. Siamo i migliori. I migliori!".
Costui accetta di parlare con Rao, che non ne rivela ancora il nome. Solo quel soprannome, "professor De Tormentis". Il 23 marzo 1982 Leonardo Sciascia prese la parola nel dibattito alla Camera sulle torture ai brigatisti del sequestro Dozier, replicando all´allora ministro dell´Interno Virginio Rognoni. "Ieri sera ho ascoltato con molta attenzione il discorso del ministro e ne ho tratto il senso di una ammonizione, di una messa in guardia: badate che state convergendo oggettivamente sulle posizioni dei terroristi! Personalmente di questa accusa ne ho abbastanza! In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l´accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!". Successe allora che i giornalisti Vittorio Buffa e Luca Villoresi, che avevano riferito delle torture sull´Espresso e su Repubblica con ricchezza di dettagli, furono arrestati per essersi rifiutati di rivelare le loro fonti e liberati solo dopo che due coraggiosi funzionari di polizia dichiararono, a proprie spese, di aver passato loro le notizie. Certo Sciascia avrebbe meritato di conoscere la conclusione attuale della storia, che tocca quello che gli stava più a cuore, compreso il Manzoni della Colonna infame che citava il trattato duecentesco De tormentis. Da lì il prestigioso poliziotto Umberto Improta aveva ricavato il nomignolo per il suo subordinato. Il nome vero era da tempo noto agli esperti, a cominciare dalle vittime: appartiene a un poliziotto andato in pensione nel 2004 col grado di questore, dopo una carriera piena di successi contro malavita e terrorismo. Poi ha fatto l´avvocato, è stato commissario della Fiamma Nazionale a Napoli. Ora, alla vigilia degli ottant´anni e con la sua dose di malanni, dà interviste che un giorno rivendicano, un giorno smentiscono. Si definisce però "da sempre fascista mussoliniano".
Ecco qual è la notizia. Che quando lo Stato italiano e il suo Comitato interministeriale per la sicurezza decisero di sciogliere la lingua ai terroristi, ne incaricarono un signore che aveva già dato prova del proprio talento. Non è lui il problema: vive in pace la sua pensione, e promette di portarsi per quietanza nella tomba i suoi segreti di Pulcinella. Non importa che usassero il nome di tortura: non si fa così nelle ragioni di Stato, e del resto la Repubblica Italiana si guarda dal riconoscere l´esistenza di un reato di tortura. È superfluo, dicono. Bastava assicurare spalle coperte. La difesa della democrazia si affidò a un efficiente fascista mussoliniano. Siamo il paese di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, i migliori.